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Giostra
Altro non bramo, e d’altro non mi cale,
che di provar come egli in giostra vale.
L. Ariosto
Carlo Cappa, L’educazione nella torre. La formazione dell’individuo nel Rinascimento e gli Essais di Montaigne, Milano, FrancoAngeli, 2011, 282 pp.
S
copo del volume è quello di indagare e ricostruire gli aspetti educativi degli Essais in rapporto alla tradizione classica e rinascimentale. A partire dalla
prospettiva montaignana, l’A. rilegge i testi e i dibattiti pedagogici del xvi secolo rintracciando negli Essais un ampio progetto formativo. I cinque capitoli che
costituiscono il volume sono ben documentati e attraverso una serie di percorsi
tematici vengono affrontati concetti specificatamente connessi alla formazione e
all’educazione dell’individuo. Il primo tema discusso è quello del viaggio inteso
come percorso educativo a partire dall’Umanesimo, soffermandosi in particolare
su Montaigne, nella cui visione il viaggio non è soltanto strumento di conoscenza
ma apertura all’alterità, al confronto e alla varietà – e come scrive Cappa – « viatico per l’acquisizione d’uno sguardo che riesca a vedere le differenze prima che
l’uniformità consolidi i suoi vincoli » (p. 60). L’A. introduce poi la ‘questione animale’ negli Essais, tema molto discusso nel Rinascimento, sottolineando come
il rapporto uomo-animale, sia utilizzato dal Bordolese con l’obiettivo di interrogarsi sull’uomo e sulla condizione umana. Non a caso, nel capitolo che precede
l’Apologie, De la cruauté (ii, xi), Montaigne condanna la crudeltà dell’uomo nei
confronti degli animali, ed in parallelo quella dell’uomo sull’uomo. Negli esempi
tratti dal mondo animale, l’A. intravede un esito educativo e culturale, che l’uomo deve vagliare ed analizzare per costruire al meglio la propria identità. Lo studioso ci offre, inoltre, un ritratto composito di Pierre Eyquem, sottolineando anche gli aspetti contraddittori presenti negli Essais, nel tentativo di chiarire il ruolo
della figura paterna e i suoi risvolti educativi. Al tema del rapporto padre-figlio
è connesso quello dell’amministrazione del patrimonio familiare e della trasmissione dell’eredità, non solo materiale : Montaigne, infatti, traccia un parallelismo
tra figli naturali e opere intellettuali, al punto da giungere a definire la sua opera
« Livre consubstantiel à son auteur ». Seguendo un percorso interdisciplinare, l’A.
giunge ad una riflessione sulle grottesche come immagine del pensiero, che lo
stesso Montaigne definisce « peintures fantasques, n’ayant grâce qu’en la variété
et étrangeté ». Queste figure incompiute e indeterminate diventano metafora
stessa degli Essais, in quanto opera stratificata ed in continua trasformazione, in
cui l’esaltazione della varietà e della novità, meglio rappresenta la complessità del
reale. Nell’ultimo capitolo l’A. cerca di chiarire il profilo del precettore negli Essais, correggendo anche un equivoco interpretativo della critica (Durkheim, Mo 
 
 
 
 
 
 
«bruniana & campanelliana», xix, 1, 2013
bruniana & campanelliana
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rin) che attribuiva al noto passo montaignano « la tête bien faite que bien pleine »
una progettualità pedagogica diretta all’individualità dell’allievo, in cui la filosofia
ha un ruolo di primo piano con l’obiettivo di « fondare un’educazione efficace nel
mondo » (p. 257). Nella sua approfondita ricerca, l’A. non si limita ad analizzare
i capitoli prettamente pedagogici ma stabilisce un confronto con tutta l’opera
montaignana e le sue fonti, riuscendo a ricostruire la riflessione pedagogica di
Montaigne in tutta la sua complessità e varietà, rapportandola alla « forme entière, de l’humaine condition ».
 
 
 
 
 
 
B. P.
*
Ludovico Castelvetro, Filologia ed eresia. Scritti religiosi, a cura di Guido
Mongini, Brescia, Morcelliana, 2011, 368 pp.
G
razie alla ricorrenza del v centenario dalla nascita, il dotto modenese Ludovico Castelvetro è tornato al centro di una serie di ricerche e di iniziative
collettive e individuali di grandissima importanza. Sono infatti stati pubblicati atti
di convegno, accanto a monografie ed edizioni di opere. In questo cantiere vivace,
il lavoro accurato e intelligente di Guido Mongini richiama attenzione : attraverso
l’edizione degli scritti religiosi di Castelvetro, si offre infatti un prezioso contributo alla storia della cultura europea. Contrariamente a quanto succede molto
spesso, quando in luogo di un saggio ci si trova di fronte a una mera introduzione,
l’A. qui si cimenta in uno studio attento della produzione di Castelvetro volto a
illuminare diverse vicende centrali del Cinquecento religioso e politico italiano.
In primo luogo, si sottolinea la scelta del modenese di utilizzare la filologia come
chiave interpretativa della fede, una scelta non originale, ma interessante per i
suoi presupposti letterari. Di Castelvetro sono molto note e studiate le polemiche
con Annibal Caro, gli studi su Dante e sulla lingua e la sua opera è stata esaminata e valutata spesso sotto la lente di un’adesione alla riforma luterana prima e
calvinista poi, mentre Mongini, addentrandosi in questioni fondamentali come
quella del nicodemismo dell’Accademia modenese, propone stimolanti e persuasive interpretazioni che gettano luce su un panorama ancora incline a raccogliere
suggestioni e stimoli provenienti da oltralpe. La riduzione della vera fede a pochissimi dettami, con una forte accentuazione intimistica, e la necessità di una
sostanziale coerenza tra la fede in Cristo e la condotta di vita, spiegano anche la
liceità della pratica nicodemitica mai abbandonata anche dopo la fuga dall’Italia.
Non fu certo un caso che Castelvetro ebbe contatti con quella comunità di esuli
italiani solidali e tolleranti prima della svolta intransigente e intrattenne rapporti
di amicizia con Camillo e Fausto Sozzini. Per scandagliare gli abissi della fede castelvetriana alla ricerca di indizi e segnali, oltre che per rivedere le interpretazioni
sinora date, l’A. affronta anche la questione dei volgarizzamenti di Castelvetro : in
tale prospettiva la traduzione del De ecclesiae autoritate di Melantone non appare
più come l’adesione al luteranesimo, ma piuttosto come riflesso di polemiche
interne all’Accademia e ai dibattiti ivi intercorsi. L’intento di Castelvetro era quel 
 
giostra
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lo di indicare una soluzione irenica per risanare la frattura del cristianesimo, dal
momento che Melantone leggeva le differenze con i cattolici come frutto di errori storici e filologici. Le opere edite (tra cui si ricordi il Racconto delle vite d’alcuni
letterati del suo tempo) possono quindi essere lette attraverso questa nuova lente
che sembra rafforzare la tesi dell’irriducibilità a un unico canone del Cinquecento
religioso italiano.
M. V.
*
Anthony Thomas Grafton, Humanists with Inky Fingers. The Culture of
Correction in Renaissance Europe, Firenze, Olschki, 2011 (« The Annual Balzan Lecture », 2), 84 pp.
 
 
I
l volume raccoglie gli atti della seconda « Annual Balzan Lecture » tenuta da
Anthony Grafton il 20 dicembre 2010 nella Semper Aula dell’eth di Zurigo,
dedicata al tema della correzione dei testi nella prima età della stampa. L’evento
è stato organizzato dalla Fondazione Internazionale Premio Balzan in collaborazione con le Swiss Academies of Arts and Sciences e l’Accademia Nazionale dei
Lincei. Nel 2002 Grafton, insignito del prestigioso Premio Balzan per la « storia
degli studi umanistici », decise di destinare metà del riconoscimento al finanziamento di un progetto di ricerca condotto da due giovani studiosi, per la realizzazione di un’edizione critica dell’epistolario del grande umanista francese Joseph Justus Scaliger a cui l’A. in passato aveva dedicato due importanti volumi. La
parte introduttiva della conferenza è stata proprio incentrata sulla descrizione di
tale progetto, che ha avuto come base operativa il Warburg Institute, e si è concluso recentemente con la pubblicazione presso l’editore ginevrino Droz degli
otto volumi che compongono la raccolta. Nella sua affascinante lectio Grafton
ricostruisce l’attività dei correttori all’interno di un’officina tipografica, partendo
da una pagina della Methodus apodemica di Theodor Zwinger pubblicata nel 1577,
dedicata all’organizzazione del lavoro nelle tipografie, in cui il medico svizzero suddivideva schematicamente gli operai in meccanici e teorici, identificando
questi ultimi con i correttori. Grafton, avvalendosi di numerose fonti primarie,
dimostra come l’ingrato compito dei correttori non fosse solo quello di leggere le
bozze e segnalare le modifiche da apportare al testo, ma sottolinea come questi
« poor devils of letters » fossero degli uomini altamente istruiti, il cui lavoro era richiesto soprattutto per la conoscenza approfondita delle lingue e per l’attenzione
meticolosa ai dettagli. Attraverso la lettura dell’Orthotypographia di Hieronymus
Hornschuch (1608), primo manuale per la correzione dei testi, l’A. illustra le molteplici mansioni del correttore : scrivere prefazioni, elaborare sommari, compilare
indici, applicare censure, cercare di decifrare le copie illeggibili fornite dagli autori, e a volte sostituire i compositori nel loro lavoro manuale. Pertanto i correttori
non erano solo dei lavoratori teorici come descritto da Zwinger ma, per dirla con
Grafton, degli « umanisti con le dita sporche di inchiostro », uomini dotti con una
modesta retribuzione che occupavano « hard stools in printers’ workshops rather
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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bruniana & campanelliana
than comfortable chairs in universities » (p. 33). C’era anche una gerarchia : si iniziava come lector, leggendo i testi ad alta voce per almeno sei mesi e solo dopo
questo periodo si poteva sperare di diventare corrector. Ma non tutti riuscivano a
migliorare la propria posizione. Inoltre grazie al ritrovamento di una nota manoscritta, rinvenuta in alcune bozze della Bibbia Poliglotta di Anversa, Grafton
dimostra come nell’officina plantiniana il lavoro delle donne correttrici di bozze
non sia solo una leggenda.
 
 
B. P.
*
Gli Incogniti e l’Europa, a cura di Davide Conrieri, Bologna, i libri di Emil,
2011, 336 pp.
T
ra le più interessanti esperienze culturali (e sociali) della Venezia barocca
spicca senz’altro l’Accademia degli Incogniti. Inizialmente chiamata ‘Loredana’ – dal nome del suo fondatore Giovanni Francesco Loredano – l’Accademia
fu attiva dagli anni Venti agli anni Sessanta del Seicento. A prendervi parte furono, negli anni, oltre cento letterati : nomi più o meno noti e di spessore (tra cui
Marino, Pallavicino, Loredano, Achillini, Mascardi). Ma ciò che forse risulta più
interessante è la mancanza di un unico comun denominatore filosofico, artistico
o politico tra coloro che vi presero parte. Le opere degli Incogniti, infatti, spaziavano dall’ambito meramente letterario a quello lirico, musicale o teatrale, con
proposte artistiche ibride originali e difficilmente catalogabili, persino per i contenuti ideali intrinseci. « Ex ignoto notus » riportava il cartiglio dell’Accademia : un
motto che, ornando la raffigurazione del Nilo (di cui all’epoca si conosceva la foce
ma non le fonti), stava a significare che anche l’accademico più anonimo poteva
giungere al mare della fama. Qualcuno, come è noto, effettivamente ottenne un
certo successo anche fuori dalla penisola e, attraverso questi saggi, se ne delinea
un quadro dettagliato e vario. Non ci si limita soltanto a mettere in luce i successi
letterari degli Incogniti, ma, partendo dalle differenti competenze specialistiche
dei suoi autori, si aprono ampi corridoi d’analisi storica. Ne risulta un lavoro in
cui, ad esempio, i traduttori delle opere degli Incogniti rubano spesso la scena agli
autori stessi, mettendo in luce come, già all’epoca, in un settore commerciale ancora marginale vi fossero esigenze editoriali ben definite (Carminati, Vuelta García). Le versioni in lingua italiana, francese, portoghese o spagnola, inoltre, spesso
risultavano tra loro profondamente differenti sul piano stilistico e, in parte, anche
contenutistico a causa dell’attività di traduttori che – anche in epoche diverse –
tendevano ad assecondare gli umori politici e morali (nonché religiosi) del paese
di destinazione attraverso forzature di significato, restituzioni improprie, ampi
tagli e abbondanti aggiunte lessicali. Forme di censura e mistificazione (ulteriori)
non certo trascurabili nell’Europa di metà Seicento. Sotto questo profilo appare
indicativa la particolare attenzione degli Incogniti verso la storia inglese del periodo (Villani), un interesse che in più casi si manifestava con una certa simpatia nei
confronti della monarchia, il più evidente retaggio dei rapporti anglo-veneziani
 
 
 
 
giostra
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della stagione sarpiana. Nel volume è esaminata la storia editoriale europea di
lavori degli Incogniti : La Lucerna di Francesco Pona, che visse stagioni di successo, oblio e nuova ribalta (Grassi) ; dello stesso Pona la traduzione francese de La
galleria delle donne celebri (Bondi) ; La finta pazza di Giulio Strozzi (Michelassi) ; il
romanzo biblico L’Adamo di Giovanni Francesco Loredano (Conrieri). Come pure
viene analizzata l’influenza all’estero dell’oratoria quale sottogenere praticato tra
gli Incogniti (Nider). Il variegato piano d’analisi pone il lavoro come punto d’incontro e di dibattito tra specialisti, facendo emergere un quadro complesso che
tiene conto di diverse prospettive, da quella storica a quella letteraria.
 
 
 
 
M. A.
*
Valentina Lepri, Maria Elena Severini, Viaggio e metamorfosi di un testo.
I ‘Ricordi’ di Francesco Guicciardini tra xvi e xvii secolo, Genève, Droz, 2011,
356 pp.
S
iamo di fronte a una ricerca notevole che sonda il percorso, certo difficile e
non lineare, di questa celeberrima opera del Guicciardini, che verrà pubblicata
in prima edizione moderna dal Canestrini nel 1853. Diviso in tre sezioni (Letture
e Lettori dei ‘Ricordi’ e I ‘Ricordi’ come laboratorio politico), lo studio evidenzia la
geografia della diffusione del testo guicciardiniano, le edizioni, le modalità di ricezione in luoghi di potere e in università, le risonanze suscitate, nonché le sue relazioni con correnti filosofico-politiche coeve, come il tacitismo e l’aristotelismo.
In questo quadro risultano di particolare rilievo l’edizione del Corbinelli nel 1576
e la traduzione francese del Laval, che risentono delle discussioni dei politiques (p.
17), quindi quella veneziana di Francesco Sansovino del 1578, quella del domenicano Sisto da Siena del 1582 (lavoro che opera delle censure per rendere lo scritto
meno attraente ai riformati), nonché I precetti e sententie di Lodovico Guicciardini
(Anversa, 1585). Ogni editore, come suggeriscono le studiose, « ha inteso allestire
il ‘suo’ testo », in relazione alle esigenze e al quadro politico e culturale nel quale
si è trovato ad operare. Il Sansovino, ad esempio, ha cercato in Guicciardini « il
modello ideale per il suo segretario » (p. 36), mentre nel Corbinelli l’interesse filologico converge con quello politico. Egli infatti dà ampio spazio al tema della dissimulazione e introduce, accanto a quelli guicciardiniani, gli scritti machiavelliani,
mentre la traduzione del Laval, che apre alla forma aforistica, legge il testo nella
duplice direzione di raccolta di precetti privati e di manuale politico, in funzione
antimachiavelliana. In Inghilterra l’allestimento degli Aforismi civili e militari di
Robert Dallington inaugura e fa circolare, con altri, un modello di contaminazione tra la Storia d’Italia e i Ricordi, nel quale « l’aforisma unisce l’efficacia universale
della massima al potere esemplificativo del casus narrato » (p. 171). La caratteristica
del lavoro di Lodovico Guicciardini è invece la ricerca di un « registro moderato »
(p. 198). Il caso della ricezione e della rielaborazione dei Ricordi in terra germanica, dove per altro il Guicciardini è conosciuto soprattutto per la Storia, mostra invece « preoccupazioni di natura metodologica e di disciplinamento del sapere » (p.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
bruniana & campanelliana
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202) : la concorrenza tra giuristi e filosofi nelle università, lo sviluppo forte di una
letteratura di corte, la prevalenza dalla fine del ’500 del trattato politico su quello
morale, il motivo del comportamento politico, ed ancora la dissimulazione e l’opportunità del silenzio (tema questo in auge nelle società barocche) costituiscono
altrettanti scenari sui quali il nucleo dei Ricordi gioca un ruolo preminente. In
Germania poi una posizione notevole è quella dell’aristotelismo accademico, che
tende a giustificare la politica come disciplina autonoma. Ma anche altre tematiche sostanziano il volume : accenno soltanto alla prudenza, alla giurisprudenza,
al valore del tempo e, ancora, alla discrezione (tema tipicamente guicciardiniano). Da un punto di vista formale il solo appunto che si può sollevare è quello di
una carente revisione del contenuto dei vari testi che compongono il volume, nel
senso che numerose ripetizioni di dati, informazioni, osservazioni potevano forse
essere evitate.
 
 
V. D. N.
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Ettore Lojacono, Spigolature sullo scetticismo : la sua manifestazione all’inizio della modernità, prima dell’uso di Sesto Empirico. I sicari di Aristotele, prefazione di Giulia Belgioioso, Saonara (Pd), il prato, 2011, 114 pp.
 
I
l sondaggio di Lojacono sullo scetticismo agli esordi della modernità prima
dell’uso massiccio di Sesto Empirico è importante perché riproblematizza a
livello storico questa fondamentale corrente e categoria filosofica, che è per sua
natura delicata e soggetta ad usi talmente ampi e dilatati da far sorgere talvolta il
dubbio di una coincidenza quasi senza residui tra lo scetticismo e la storia del pensiero filosofico. In questo testo un settore significativo della filosofia rinascimentale, nel suo pluralismo interno, funge da veicolo dello scetticismo antico e da trampolino di lancio per le sue ulteriori trasformazioni verso le avventure del pensiero
moderno. Si percepisce in tale operazione il desiderio di recuperare e di rivalutare
quelle modalità di scetticismo, anche moderato, che coincidono almeno parzialmente con alcune delle prospettive più vitali della filosofia del Rinascimento (a
questo proposito occorre ricordare la ricerca, tutt’oggi vitale ed imprescindibile,
di Cesare Vasoli, La dialettica e la retorica dell’Umanesimo. « Invenzione » e « Metodo »
nella cultura del xv e xvi secolo, Napoli, La Città del Sole, 2007, n.e.). Il percorso costruito da Lojacono comprende, tra gli altri, autori come Rodolfo Agricola, Cornelio Agrippa, Juan Luis Vives, Pietro Ramo, Omer Talon, per inoltrarsi quindi
nell’analisi della posizione di Guy de Brués e dei rappresentanti del gruppo della
Pléiade, di Guillaume Postel, di Pierre Galland, Fox Morcillus, Arnoul Le Ferron,
Francisco Sanchez. Va segnalato anche che, a livello di metodo, l’autore introduce la ricerca con un’utile analisi delle principali posizioni storiografiche ottonovecentesche sullo scetticismo (da Picavet e Brochard fino a Dumont, Conche e
Paganini). Il senso della ricerca di Lojacono è sintetizzabile nell’idea che i testi di
Sesto Empirico hanno offerto un vitale nutrimento allo scetticismo moderno, ma
non hanno rappresentato la sua causa fondamentale. Da qui il recupero di quel
 
 
 
 
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sapere probabilistico che, tra ammirazione e rifiuto di Aristotele, vitalizza quella
variegata prospettiva antiscolastica, rivalutatrice dell’empirico e del quotidiano,
che costituisce un anello indispensabile per capire la relazione tra Rinascimento
e scienza moderna. La cultura rinascimentale era in grado di recuperare in tutta la sua pregnanza e ricchezza il valore dello scetticismo (o degli scetticismi ?)
dell’antichità. In questo contesto, la tesi centrale dell’autore ci pare quella che
le posizioni di alcuni protagonisti della prima età moderna sono state inquadrate come scettiche senza però che derivassero da una scelta speculativa. In realtà
esse « provenivano da diverse prese di posizione di fronte all’inadeguatezza del
sapere preminentemente aristotelico rispetto alle trasformazioni che si producevano nella società » (p. 31). Posizioni alimentate dalla lettura dei medici antichi, di
Platone e di Cicerone, che in una fase di transizione incrinavano l’aristotelismo,
senza produrre tuttavia un paradigma nuovo. Non a caso, sottolinea lo studioso,
il Galland « inizia la lista dei ‘sicari’ di Aristotele con il nome di Lorenzo Valla » (p.
33). Lo scetticismo, dunque, non può essere considerato solo un’opzione teorica,
secondo quanto suggerisce la Belgioioso nella Prefazione (che va letta con attenzione, per gli stimoli e i suggerimenti che propone).
 
 
 
 
 
V. D. N.
*
(Un)masking the Realities of Power. Justus Lipsius and the Dynamics of Political
Writing in Early Modern Europe, edited by Erik De Bom, Marijke Janssens,
Toon Van Houdt and Jan Papy, Leiden-Boston, Brill (« Brill’s Studies in Intellectual History », 193), 2011, 348 pp.
 
 
N
onostante il crescente interesse che l’opera e il pensiero di Giusto Lipsio,
uno dei maggiori intellettuali ed esponenti dell’umanesimo nordeuropeo,
continuano a suscitare tra gli studiosi del tardo Cinquecento, l’importanza delle sue idee nella genesi e nello sviluppo del pensiero politico moderno stenta
ancora ad essere riconosciuta. Il volume rappresenta pertanto il tentativo di ‘riequilibrare’ il giudizio storiografico che fa del pensatore fiammingo principalmente un filologo piuttosto che un politico, prendendo in esame non soltanto i
Politicorum sive civilis docrinae libri sex (1589), ma anche i Monita et exempla politica
(1605), che rappresenterebbero la chiave di volta per la comprensione del carattere
conclusivo del suo pensiero politico. Proprio allo studio dei Monita è indirizzata
la maggior parte dei saggi che compongono il volume, diviso in quattro sezioni volte a ricostruire il percorso intellettuale di Lipsio nell’elaborazione del suo
pensiero politico nonché l’influenza da questi esercitata in alcuni dei principali
paesi dell’Europa moderna. Nella sezione introduttiva, dedicata all’importanza
dell’utilizzo degli exempla nella letteratura rinascimentale, Mikael Hörnqvist (pp.
25-41) sottolinea il nesso tra etica e retorica, mostrando come nel xv e xvi secolo
gli esempi tratti dalla storia assurgessero a veri e propri modelli di comportamento per le azioni umane ; Harro Höpfl (pp. 43-71) discute il significato che la storia
e gli esempi assumono nell’opera di Lipsio, fino a mettere in dubbio il carattere
 
bruniana & campanelliana
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specificamente umanista della sua impresa intellettuale ; Bo Lindberg (pp. 73-93)
affronta il delicato tema del ruolo e della funzione dello stoicismo, o piuttosto del
neostoicismo, nell’umanesimo politico e nel diritto naturale. Sempre al rapporto tra retorica e storia è dedicata la seconda sezione del volume, in cui appaiono
i contributi di Ann Moss (pp. 97-114) che esamina dettagliatamente il metodo e
i principi di composizione dei Monita differenziandoli da quelli della Politica ; di
Marijke Janssens (pp. 115-134) che offre un’analisi dei meccanismi di selezione e costruzione del lungo elenco di exempla utilizzati nei Monita per vedere in che modo
essi influirono sul comportamento dei lettori contemporanei ; di Harald Braun
(pp. 135-162) e di George Tucker (pp. 163-192) che vedono negli esempi storici il veicolo nascosto per poter fare accettare valori contrari all’etica tradizionale. I saggi
della terza sezione si occupano, invece, di un tema o di un concetto cruciale del
pensiero politico di Lipsio, discutendolo da diverse prospettive. Così Jan Papy (pp.
195-205) traccia l’evoluzione dell’idea lipsiana di superstizione, fato e provvidenza ;
Violet Soen (pp. 207-231) si concentra sulla discussione affrontata dall’umanista
fiammingo nella Dissertatiuncula apud principes (1600) sulla virtù principesca della
clemenza ; Diana Stanciu (pp. 233-262) esamina il concetto lipsiano di prudenza e
virtù mettendolo a confronto con la filosofia stoica e aristotelica e con il pensiero
di Tacito ; Wim Decock (pp. 263-280) esplora lo sviluppo del concetto della cosiddetta ‘compensazione segreta’ (occulta compensatio), suggerendo che esso è legato
all’origine dello Stato moderno e della sovranità assoluta. Chiudono il volume i
saggi di Erik De Bom (pp. 283-305) e Jacob Soll (pp. 307-323) che affrontano il tema
della ricezione del pensiero politico di Lipsio – cui è dedicata la quarta e ultima
sezione del volume – rispettivamente nei Paesi Bassi e in Francia.
 
 
 
 
 
 
T. P.
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Federico Barbierato, The Inquisitor in the Hat Shop. Inquisition, Forbidden
Books and Unbelief in Early Modern Venice, Ashgate, Farnham, 2012, 430 pp.
D
a esperto conoscitore del ricchissimo Archivio di Stato di Venezia, Barbierato ricostruisce i vari e curiosi percorsi della miscredenza a Venezia tra Sei e
Settecento sullo sfondo della tradizione sarpiana, libertina e giurisdizionalistica.
Il volume, uscito in italiano nel 2006, ora è stato tradotto in inglese e pubblicato
da Ashgate con aggiornamenti e revisioni. In questo studio suggestioni ed esiti
di nuove tendenze storiografiche si coniugano a consolidate tradizioni metodologiche : ne esce un quadro complesso delle idee e dei comportamenti diffusi a
Venezia tra Seicento e Settecento, in cui si possono seguire le tracce di un dissenso
molto più pervasivo e composito di quanto si sia portati a credere. La profonda e
accurata conoscenza delle fonti archivistiche veneziane consente a Barbierato di
muoversi con sicurezza nel ginepraio del non conformismo, pur tenendo conto
che la documentazione a riguardo proviene principalmente da parte di chi cercò
di reprimerlo. Spesso dissenso religioso e dissidenza politica si incontrano, e tra
i temi discussi ricorre quello dell’impostura delle religioni : i toni sono accesi e
 
 
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venati da anticurialismo, a testimonianza della diffusione dell’aristotelismo eterodosso. Una caratteristica delle varie forme di dissenso su cui insiste Barbierato è
l’ancoraggio al reale, la capacità di mescolare immagini diverse al solo fine di dare
voce all’insofferenza, alla ribellione che sembra permeare le multiformi facce di
una protesta diffusa, di uno scetticismo rispetto all’autorità e al suo fondamento.
In questo modo la miscredenza non esprime soltanto idee e opinioni astratte, ma
finisce spesso per coincidere con gesti e manifestazioni pratiche relative alla vita
quotidiana, aprendo le porte a una comunicazione trasversale di cui però l’A. invita a non sopravvalutare i motivi originari. Questa diffusa insofferenza e manifesta
riluttanza a piegarsi alle norme potevano far leva sulla politica giurisdizionalistica veneziana, perciò il Sant’Uffizio, consapevole dei propri limitati margini di
manovra, si trovò a scegliere di agire soltanto contro una minima parte dei reati.
Diverso il caso che si aprì a fine Seicento, quando anche Venezia fu attraversata
dalla temperie del quietismo e dalle varie forme di misticismo che preoccuparono le autorità politiche oltre a quelle religiose, in quanto il fenomeno coinvolgeva membri del patriziato. In un contesto così variegato, la circolazione di libri,
compresi quelli proibiti, era all’ordine del giorno : bastava individuare la libreria
giusta. È proprio in questo ambito di stamperie e librerie che si colloca la vicenda
del cappellaio Bortolo Zorzi che, tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta del Settecento, raccolse libri proibiti e radunò un gruppo di amici con cui discuteva di idee
eterodosse. Al di là del famoso Menocchio, dunque, anche a Venezia le idee, le
teorie e le riflessioni astratte dei dotti circolavano vivacemente tra i ceti popolari,
nonostante la strenua battaglia da parte delle autorità politiche ed ecclesiastiche.
 
M. V.
*
Michela Catto, Cristiani senza pace. La Chiesa, gli eretici e la guerra nella Roma del Cinquecento, Roma, Donzelli, 2012, vi, 134 pp.
I
dibattiti sulla legittimità delle guerre di religione che interessarono nella
seconda metà del Cinquecento tutta l’Europa e, specificamente, la Francia,
raggiunsero – come sottolinea Michela Catto nel Preambolo (pp. 3-7) – « traguardi
di grande modernità, avviandosi lentamente verso la separazione della vita della fede e quella della politica » (p. 4). Proporre nell’Italia degli anni Sessanta del
Cinquecento un tale dibattito significava invece dover fare i conti con il ruolo
egemone sovrastatale e sovranazionale che il papato allora ritornava ad assumere, e, soprattutto, con l’Inquisizione, autentico strumento di potere politico del
pontefice Pio V. Sorprendentemente, in questa temperie il cardinale veneziano
Marcantonio Da Mula, sconfitto nel conclave che aveva visto l’affermazione di
Michele Ghislieri (Pio V), lanciava nel 1567 una disputa letteraria articolata in tre
quesiti. Il cardinale si proponeva innanzitutto di chiarire i motivi per i quali nel
mondo greco-romano non si era mai combattuto per cause di religione, quindi
si chiedeva perché la ‘tolleranza’ religiosa, praticata nell’antichità romana, escludesse proprio il cristianesimo. Con il terzo quesito, senz’altro il più audace, egli
 
 
bruniana & campanelliana
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intendeva indagare sulle ragioni per le quali la religione di Cristo si caratterizzava
per il moltiplicarsi di sette al suo interno e per le continue guerre di religione. Il
prelato invitava così a riflettere sul modo nel quale la Chiesa, da antica perseguitata, fosse divenuta, a sua volta, persecutrice. La disputa proposta dal De Mula
generò un animato e precoce dibattito italiano sulla liceità di uccidere, testimoniato dalle numerose copie manoscritte, che giacciono disseminate in biblioteche
italiane e europee (pp. 9-18). A riprova di quanto una tale iniziativa fosse ardita
nell’Italia della Controriforma basti dire che la risposta del letterato senese Fabio
Benvoglienti (pp. 51-61), stampata nel 1570, finì immediatamente nell’Indice dei
libri proibiti. Nella densa e insieme agile monografia, l’A. ricostruisce con acribia
filologica il dibattito a distanza fra il De Mula e i suo interlocutori, laici e ecclesiastici, ovvero, oltre al Benvoglienti, il fiorentino Tommaso Aldobrandini (pp.
63-69), lo storico genovese Uberto Foglietta (pp. 75-84), i bolognesi Fabio Albergati (pp. 85-90) e Lucio Maggio (pp. 91-96), il volterrano Giovan Francesco Lottini
(pp. 97-107), il veronese Rinaldo Corso (pp. 115-120). I tre quesiti posti dal De Mula
« paiono molto più che tangenziali ad alcuni degli argomenti espressi da Niccolò
Machiavelli », afferma la Catto (pp. 19-24 : 19), la quale fa anche rilevare come una
tale disputa fosse possibile solo prendendo in considerazione, anche se non esplicitamente, la tolleranza come antidoto alle guerre di religione (pp. 25-31). Sebbene
la genesi della disputa non sia nota, l’A. sottolinea ancora come il De Mula (pp.
39-50) avesse praticato spregiudicatamente le lettere in età giovanile, al pari di
Rinaldo Corso e Giovan Francesco Lottini, caduto addirittura in odore di eresia.
L’aspetto più rilevante del dibattito curiale sulle guerre di religione, promosso
dal cardinale veneziano, conclude l’A., consiste quindi nella vivace testimonianza
che esso offre del passaggio, certo non indolore, di un gruppo di intellettuali dalla
libertà di critica, instaurata dall’Umanesimo, alle censure della Controriforma,
così come venne sperimentato da alcuni intellettuali italiani del Cinquecento, fra
i quali non pochi erano approdati proprio a ranghi autorevoli all’interno della
Chiesa romana.
 
 
 
S. A. B.
*
Il linguaggio dei cieli. Astri e simboli nel Rinascimento, a cura di Germana Ernst,
Guido Giglioni, Roma, Carocci, 2012, 342 pp. con 16 tavole a colori.
L
’astrologia ricopre un ruolo di primo piano nella cultura rinascimentale. Il
volume, arricchito da una serie di sedici tavole, prende in esame alcuni momenti particolarmente significativi nella complessa storia della disciplina in questione, dalle sue premesse medioevali (H. D. Rutkin, pp. 23-37, G. Bezza, pp. 39-51)
agli esiti più o meno eterodossi nel periodo controriformistico (E. Casali, pp. 153167). Mentre alcuni saggi si concentrano sull’influenza esercitata dall’l’immaginario astrologico sulle raffigurazioni artistiche del tempo, da Palazzo Schifanoia al Tempio Malatestiano (M. Bertozzi, pp. 287-301), altri esplorano ilrecupero
umanistico di testi antichi intrapreso nel corso del Quattrocento. Accanto agli
giostra
293
scritti della tradizione araba, che pure continuano ad avere una certa fortuna ed
autorevolezza, iniziano infatti a diffondersi testi greci fino ad allora poco o per
nulla conosciuti. È così, ad esempio, che l’astrologia entra nella riflessione di un
insigne protagonista della Firenze medicea, Marsilio Ficino, il quale, distanziandosi dalle formulazioni dell’astrologia medievale, è persuaso che, in un mondo
‘tutto vivo’, sia possibile per l’uomo, tramite opportune ‘esche’, attrarre il favore
dei cieli (M. Rinaldi, pp. 73-89). In tale situazione, si inserisce la riflessione sulle immagini astrologiche, nozione ereditata dal Medioevo, ma che, nel Rinascimento,
anche ad opera di Ficino, subisce un radicale mutamento. Infatti, il criterio della
destinatività o della non destinatività diviene meno importante, in quanto anche
i caratteri, le parole e altri elementi destinativi possono essere compresi alla luce
della causalità armonica e universale (N. Weill-Parot, pp. 242-254). L’interpretazione in chiave astrologica di Platone si riflette anche « in alcune figure dei tarocchi di
Marsiglia » (C. Poncet, p. 268).
Più complessa la posizione di Giovanni Pico della Mirandola, il quale, dopo
un primo periodo nel quale propone una originale rilettura dell’astrologia ispirata ai testi della qaballah, scrive le Disputationes adversus astrologiam divinatricem,
pensandole come una « spietata macchina da guerra, tesa a distruggere sotto ogni
aspetto la sostenibilità e la credibilità dell’astrologia » (O. Pompeo Faracovi, p.
91). L’attacco di Pico non ottiene il fine da lui sperato. Il Mirandolano è accusato
di non aver compreso a fondo i fondamenti dell’astrologia, essendosi ispirato,
invece, a posizioni riconducibili alla propaganda savonaroliana. In tale contesto,
occupa un posto di rilievo il fenomeno del ‘ritorno a Tolomeo’, del quale uno dei
fautori più illustri è Girolamo Cardano, autore di un ampio commento al Quadripartitum (Pompeo Faracovi, pp. 125-138). La « svolta tolemaica » porta, nel corso
del Cinquecento, a « reimpostare il discorso relativo al carattere deterministico
dell’astrologia e di replicare alle accuse, diffuse e insidiose, di abolire la libertà
delle scelte umane » (p. 14). Tuttavia, le riserve di Sisto V nei confronti delle arti divinatorie, esposte nella bolla Coeli et terrae del 1586, mettono irrimediabilmente in
crisi una dottrina che in precedenza aveva conosciuto una fioritura straordinaria.
Tommaso Campanella, dopo la promulgazione nel 1631 della bolla Inscrutabilis
di Urbano VIII, che inasprisce le posizioni contenute nella Coeli et terrae, compone, entro margini di manovra strettissimi, un’« ingegnosa e contorta Disputatio »,
nella quale « affronta e chiarisce una serie di problemi riguardanti l’astrologia e la
divinazione, utilizzando strategie argomentative e tecniche retoriche molto sottili ». Campanella è comunque consapevole che la messa al bando dell’astrologia
risponde anche a ragioni di natura politica (G. Ernst, pp. 147, 150).
Il volume mostra come nel Rinascimento l’astrologia fosse parte integrante
della riflessione filosofica, religiosa, medica, politica e artistica, e contribuisce a
sfatare numerosi pregiudizi « nei confronti di una dottrina che è uno dei multiformi linguaggi con cui si esprime la cultura rinascimentale » (Introduzione, p. 20).
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
D. V.
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bruniana & campanelliana
294
I vincoli della natura. Magia e stregoneria nel Rinascimento, a cura di Germana
Ernst, Guido Giglioni, Carocci, Roma, 2012, pp. 320 pp.
«
C
he cosa ha a che fare un cristiano con la magia ? ». È la domanda che si pone Ficino nell’Apologia affrontando una questione che si rivelerà centrale
nella riflessione religiosa e filosofica tra Quattro e Seicento. Il presente volume
affronta questo tema con rigore storico e da diversi punti di vista, dalle discussioni teoriche sul sapere magico al fenomeno della stregoneria. In virtù del suo
carattere ‘olistico’, la magia entra in conflitto con un’altra forma di sapere dalle caratteristiche altrettanto ‘egemoniche’, la teologia, specialmente dopo che,
su pressione della Riforma, la Chiesa s’impegna con sempre maggiore vigore ad
estirpare ogni possibile fenomeno di credula superstizione. La Chiesa cessa infatti
« di dare seguito alle accuse per maleficio e sabba », avvertendo, invece, « l’urgenza
di difendere, anche con il foro inquisitoriale, sacramenti e riti quali l’esorcismo
dalla ‘concorrenza’ di maghi, finti santi e guaritori popolari » (V. Lavenia, p. 186).
Ciò che si vuole evitare, da parte dell’autorità ecclesiastica, è l’uso non mediato di
rituali in grado di favorire un incontrollato accesso alla sfera del sovrannaturale.
Si comprendono pertanto le difficoltà di Ficino e Giovanni Pico della Mirandola,
i quali, invece, ispirati dalla tradizione ermetica, propugnano l’unità primordiale
del divino, dell’umano e del naturale, dando vita ad « una magia sovversiva, non
rivelata, non mediata da angeli o apparizioni misteriose, ma fondata sulla ragione
e sulla memoria – doni divini al genere umano, che lo rendono capace di assimilarsi a Dio » (V. Perrone Compagni, p. 165).
Se in autori come Johannes Trithemius e Cornelio Agrippa non si esclude la
possibilità di comunicare con ogni sorta di entità demoniche, nella riflessione di
Pietro Pomponazzi « il discorso su demoni e angeli deve distinguere tra il livello
religioso (demoni come agenti personali) e quello filosofico (demoni come intelligenze e principi di causalità universale nel cosmo). Da un punto di vista filosofico, i demoni sono degli intelletti e, in quanto tali, non possono conoscere, né
tantomeno volere i particolari dell’esperienza » (G. Giglioni, p. 41). Di fronte alla
magia, l’atteggiamento di Pomponazzi « è quello di immaginare speculativamente cosa avrebbe pensato Aristotele a proposito di demoni e mirabilia ». Si viene
così a delineare un approccio razionale ai fenomeni ‘occulti’, al quale, in modi tra
loro differenti, si richiameranno Girolamo Cardano, Giovan Battista Della Porta e
Francis Bacon, autori che in modi diversi sottoporranno « ad esame sperimentale
i fenomeni più bizzarri della natura » (Introduzione, p. 17). Della Porta, in particolare, sembra incarnare la perfetta sintesi del mago ‘dotto’ e, insieme, ‘popolare’.
La sua magia, priva ormai dei caratteri ‘religiosi’ che l’arte magica aveva in Ficino
e Agrippa, si inserisce nel filone della ‘letteratura dei segreti’ che, nel corso del
Cinquecento, « diviene una moda diffusissima in tutta Europa ». Nasce pertanto
un vero e proprio nuovo mestiere, il ‘professore di segreti’ (L. Balbiani, pp. 99-115).
Ma il tentativo di comprendere razionalmente la natura e i suoi ‘segreti’ non è
privo di ostacoli. Nel 1586 la bolla pontificia Coeli et terrae inasprisce la repressione
dell’astrologia, della magia colta e della necromanzia, in un arco di tempo in cui
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
giostra
295
la caccia alle streghe, vittime designate di una battaglia tra il bene e il male, produce vittime (e non poche) anche in Italia (Lavenia, p. 195 ; M. Valente, p. 250).
Nell’insieme, il volume fornisce una visione esauriente dei complessi fenomeni della magia e stregoneria nella prima modernità, unendo questioni di natura
teorica a temi più propriamente storici, e fornendo numerosi spunti per ulteriori
ricerche.
 
D. V.
*
Nuovi maestri e antichi testi. Umanesimo e Rinascimento alle origini del pensiero moderno, Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Cesare Vasoli (Mantova, 1-3 dicembre 2010), a cura di Stefano Caroti, Vittoria
Perrone Compagni, Firenze, Olschki, 2012 (Centro Studi L. B. Alberti,
« Ingenium », 17), viii, 456 pp.
 
 
I
l volume raccoglie gli Atti di un Convegno organizzato dal Centro L. B. Alberti allo scopo di rendere onore a Cesare Vasoli, un grande Maestro degli
studi storico-filosofici. Dopo la dedica allo studioso – firmata da A. Calzona, F. P.
Fiore e L. Volpi Ghirardini – i due curatori ricordano nell’Introduzione, da un lato,
la « vasta e significativa attività scientifica » dello studioso e l’influenza profonda
della sua opera nel campo della storia della filosofia del Rinascimento, dall’altro,
il nesso che lega alla sua persona gli autori del libro stesso : colleghi ed ex allievi di
Vasoli, ma anche giovani che nei suoi lavori hanno incontrato, e continueranno a
trovare, indicazioni e insegnamenti. In linea con queste premesse, due contributi
(M. Ciliberto, S. Toussaint) sono dedicati ad alcuni dei principali esponenti della
storiografia filosofica sulla prima età moderna. In particolare, scrivendo di Cesare
Vasoli interprete del Rinascimento, Ciliberto ne sottolinea la rigorosa « scelta della
‘storia della cultura’ come terreno privilegiato di studi » e ne individua due meriti
decisivi : la capacità di « distinguere con chiarezza dimensione storiografica e dimensione storica » e – conseguentemente – l’aver posto le basi per poter studiare
« il Rinascimento secondo il Rinascimento ». Gli altri contributi spaziano attraverso la storia intellettuale dei secoli che vanno dal xiv al xvii. Così G. Gardoni si
occupa di Libri e uomini di corte a Mantova fra Tre e Quattrocento. J. Hankins, invece,
prende in esame gli scritti dei « political thinkers » del Rinascimento italiano, con
l’obiettivo di verificare l’esattezza della caratterizzazione che i moderni teorici repubblicani hanno assegnato al « pensiero repubblicano premoderno ». Un diverso
problema è, a sua volta, investigato da S. Caroti, che segue il dibattito su intensio e
remissio nei secoli xv-xvi. Il platonismo fiorentino del Quattrocento, poi, è al centro di un numero consistente di lavori : M. J. B. Allen, M. Bertozzi, S. Fellina e S.
Gentile si soffermano su questioni assai significative, in rapporto con personaggi
quali il Pletone, Landino, Ficino e Pico. Un altro nucleo di saggi verte su autori
rilevanti del Cinquecento europeo e sulla circolazione delle loro idee : ecco quindi
Bodin (M.-D. Couzinet, E. Scapparone), Francesco Patrizi da Cherso (A. L. Puliafito Bleuel), gli echi tardo-cinquecenteschi della stessa speculazione patriziana (M.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
296
bruniana & campanelliana
Muccillo) e, per finire, la fortuna dello Zodiacus vitae del Palingenio (F. Bacchelli).
Al fianco di questi temi, la cultura fiorentina è ancora in primo piano nel contributo di V. Perrone Compagni, la quale muove da un saggio di Vasoli del 1997, per
occuparsi di un inconsueto Machiavelli metafisico. La ricerca di M. Sgarbi, sulla
presenza dell’aristotelismo padovano in Inghilterra, si spinge fino al 1689, mentre
figure emblematiche del pensiero e della scienza del xvii secolo sono oggetto, in
questo ricco volume, di ulteriori approfondimenti : G. Ernst, dando rilievo alle nozioni di ‘spirito’ e di ‘mente’, analizza l’Ethica di Campanella, un’opera poco nota
in cui il filosofo di Stilo elabora una concezione morale originale, coerentemente
radicata nella sua dottrina metafisica ; E. Peruzzi tratta della natura degli enti matematici secondo Keplero, sottolineando le connessioni, dense di conseguenze,
tra la metafisica procliana e la cosmologia dell’astronomo tedesco ; M. Torrini,
infine, mette in luce l’antitradizionalismo galileiano, illustrando gli atteggiamenti, tra loro persino divergenti, che i rappresentanti della ‘nuova scienza’ assunsero
nei confronti degli ‘antichi’ e della stessa cultura umanistico-rinascimentale.
 
 
 
A. R.
*
Bruno Nardi, Naturalismo e Alessandrismo nel Rinascimento, a cura di Marco
Sgarbi, Travagliato-Brescia, Edizioni Torre d’Ercole, 2012, 230 pp.
I
n questo libro si raccolgono a stampa, per la prima volta, le dispense dei corsi
universitari di Storia della filosofia tenuti da Bruno Nardi negli anni accademici
1948/1949 e 1949/1950, presso la Facoltà di Filosofia dell’Università « La Sapienza » di Roma. I due corsi hanno per titolo Il naturalismo del Rinascimento e L’alessandrismo nel Rinascimento e costituiscono rispettivamente la prima e la seconda
parte del volume. Entrambi i temi sono affrontati da Nardi tenendo presenti gli
sviluppi teorici che dal Medioevo portano al Rinascimento. D’altro canto, l’idea
che il Rinascimento si contrapponga al Medioevo è, secondo Nardi, inaccettabile. Per questo, trattando del naturalismo del Rinascimento, egli riprende ed analizza alcune dottrine della Scolastica, non ultima quella medica della complexio.
Inoltre, affrontando la questione dell’immortalità dell’anima nel Rinascimento, in
particolare in Pomponazzi, egli premette un lungo excursus sul dibattito intorno
all’anima che tiene conto dei testi antichi e medievali arabi e latini. Nei secoli xv
e xvi si incontrano posizioni « ultra medievali ». Nel Medioevo, invece, è possibile
imbattersi in pensatori che, « per cultura e spregiudicatezza, anticipano di due o
tre secoli il pensiero dei secoli xv e xvi ». Pertanto, piuttosto che contrapporre
Medioevo e Rinascimento, Nardi distingue un primo e un secondo Rinascimento.
Il primo, che corrisponde al periodo comunale, è il « Rinascimento romanico » ; il
secondo, che corrisponde, invece, al periodo signorile, è il « Rinascimento classico ». Se nel primo si verifica un ritorno allo studio del diritto romano, con la formazione delle letterature romanze e lo sviluppo dell’arte romanica ; nel secondo
si fa più netta la tendenza all’imitazione consapevole dei classici (p. 54). Se, poi, a
partire da Petrarca e dagli umanisti del xv secolo, inizia un’affannosa caccia alle
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
giostra
297
opere dei classici greci e latini, il medesimo fenomeno avviene dal xii al xiii secolo
per le opere di Aristotele e di alcuni suoi commentatori greci e arabi, nonché per
gli scritti di matematici, di astronomi e medici. Nel Rinascimento romanico, Aristotele prevale su Platone. Tuttavia il platonismo influenza indirettamente anche
il Medioevo. Allo stesso modo, l’aristotelismo medievale delle scuole tomistica,
scotistica, occamistica e averroistica, continua ad essere presente anche « nel secolo del Bembo ». Il Rinascimento classico, quindi, è uno sviluppo e una continuazione di quello romanico, anche se, il romanico, si fa portatore di una spontaneità
del sentimento assente in quello classico (pp. 54-55). Concludendo, credo che si
possa pienamente condividere il giudizio del curatore formulato nella prefazione,
secondo il quale pur non potendosi escludere che alcune tesi di Nardi siano datate, le sue riflessioni sul Rinascimento (e, aggiungerei, sui rapporti che intercorrono tra il Rinascimento e l’età medievale) restano, ancora oggi, non superate.
 
 
D. V.
*
Procès de Jacques d’Armagnac, édition critique du ms. 2000 de la Bibliothèque
Sainte-Geneviève par Joël Blanchard, introduction par Joël Blanchard avec
la collaboration de Jean-Patrice Boudet, Frédéric F. Martin et Olivier Mattéoni, Genève, Droz, 2012 (« Travaux d’Humanisme et Renaissance », dx),
1104 pp.
 
 
A
u livre v de ses Mémoires (éd. Blanchard, 2007, p. 367), Philippe de Commynes
notait qu’au soir de sa vie, le roi Louis XI jugeait que désormais il ne trouverait « nul contredit en son royaulme ne es environs pres de luy ». Pareille jubilation du Prince mettait en relief l’importance capitale de sa politique judiciaire, en
tant qu’elle était une arme essentielle au service d’une domination en acte. ����
Malheureusement, les traces de cette politique manquaient : absence d’éditions des
procès ou copies inégales et fragmentaires. De là vient le caractère exceptionnel
d’un document « hors-norme » contenu dans le manuscrit 2000 de la Biblothèque
Sainte-Geneviève, consacré aux poursuites engagées contre Jacques d’Armagnac
(1477), l’un de ces grands féodaux qui s’opposèrent à la couronne au travers de la
guerre appelée du « Bien public », un puissant seigneur félon et parjure condamné
à mort le 10 juillet et déca pité le 4 août 1477. L’édition de ce remarquable ensemble de pièces juridiques (près de 500 feuillets) renouvelle donc notre regard sur le
règne de Louis XI. L’ouvrage
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est en grande partie le fruit du travail de Joël Blanchard, qui publia en 2008 le Procès de Saint-Pol, ici en charge de l’édition critique
du manuscrit (pp. 1-635), des notes (pp. 637-831), du glossaire (pp. 835-850), d’un
index analytique fort utile, des noms de lieux et de personnes (pp. 861-967). Une
somme aussi impressionante nécessitait une introduction explicative qui en rappela le contexte historique et en sonda les arcanes, et ne pouvait être accomplie
que par un concours de spécialistes, tant du droit que de l’histoire culturelle du
Moyen Âge, vu la richesse d’un document si touffu écrit en langue vernaculaire.
Après avoir évoqué la figure séduisante de Jacques d’Armagnac, duc de Nemours,
 
 
 
 
 
 
 
bruniana & campanelliana
298
pair de France, dont les propos habiles et persuasifs trompèrent le roi avant que
renseigné sur leur duplicité, il ne conçût une haine inexpiable envers le duc, Joël
Blanchard se livre à une véritable autopsie du dossier criminel insistant sur la solidarité des différentes procédures extraordinaires (Nemours, Saint-Pol) suivies,
comparées, annotées par le chancelier Pierre d’Oriole et étroitement contrôlées
par le roi en personne. La
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structure du texte, sa sémiologie sont scrutées fournissant des éléments de réponse à la nature même du procès, dans la mesure
où, conséquence de l’instabilité de la langue au xve siècle, la multiplication des
mots cernait la notion de conjuratio de manière imprécise, un flou entretenu et
même recherché qui renforçait le système accusatoire de Louis XI (pp. ix-xlvi).
Les aspects plus particuliers des enjeux politique et juridique sont décryptés par
Frédéric F. Martin et Olivier Mattéoni déterminant une pratique politique du droit
à travers l’accusation de lèse-majesté (pp. xlvii-lxiv). Enfin, d’après Jean-Patrice
Boudet (pp. lxv-lxxvii), le procès de Jacques d’Armagnac est aussi le révélateur
(un « observatoire privilégié et unique en son genre ») d’une époque troublée,
hantée par les pronostics des astrologues et des devins. Car le puissant intérêt
de ce texte tient autant en ses développements juridique, politique, sémantique,
linguistique et prosopographique qu’en l’ombre ténébreuse que projettent sur le
procès le précis de géomancie que possédait le cordelier confesseur du duc, ainsi,
surtout, que les supposées prédictions de mort à l’encontre de Louis XI, témoignant dès lors d’une magie divinatoire cruellement réprimée, parce qu’elle atteint
en son cœur la majesté royale. Des tableaux analytiques, une description des
manuscrits, une chronologie et une abondante bibliographie achèvent de donner à cette œuvre la forme d’un monument d’érudition, d’une mine de connaissances, d’historiettes, et de découvertes dont tous ceux que passionne ce moment
crucial de notre histoire et de notre langue feront leur miel.
 
 
J.-L. F.
*
Lyndal Roper, The Witch in the Western Imagination, Charlottesville, University of Virginia Press, 2012, 240 pp.
C
on questa raccolta di studi, pubblicata come esito delle Richard Lectures
tenute dalla studiosa presso la University of Virginia nel 1998, su invito di
Erik Midelfort, Lyndal Roper riprende alcune suggestioni di Charles Zika (The
Appearance of Witchcraft : Print and Visual Culture in Sixteenth-Century Europe, 2007)
per esaminare il ruolo della strega nell’immaginario occidentale. Sulla base della
ricerca svolta prevalentemente negli archivi della Germania meridionale (Oedipus
and the Devil : Witchcraft, Sexuality and Religion in Early Modern Europe, 1994 e Witch
Craze : Terror and Fantasy in Baroque Germany, 2004), la studiosa aveva ipotizzato
che l’invidia tra donne, in particolar modo tra puerpere e levatrici, e il supposto
potere delle streghe di impedire la fertilità potessero spiegare molti dei fenomeni
di caccia presi in esame. Ora il proposito è di esplorare « how individuals experience social processes » (p. 2), per cui Roper si dedica anche all’analisi del sentimento
 
 
 
 
 
giostra
299
dell’invidia come una delle cause che spinsero a intraprendere la persecuzione
delle streghe. Partendo dalle rappresentazioni di Hans Baldung Grien, di Dürer
e di Lucas Cranach, l’A. mostra poi come la raffigurazione della strega risentisse
della ripresa dell’eredità del mondo classico e dalla scoperta del nudo nella cultura rinascimentale. Nello stesso tempo la studiosa mette in guardia dal rischio di
enfatizzare la rappresentazione, che talvolta è una forma di idealizzazione e non
necessariamente di condanna della stregoneria. Paure ancestrali e retaggio del
mondo pagano ispirano e si proiettano sulla rappresentazione della strega : con la
riscoperta del mondo pagano, la nudità viene sempre più accettata ed è una delle
modalità con cui viene dipinta la strega in modo tale da soddisfare la curiosità, ma
testimonia anche la difficoltà di fissare un’iconografia data la mutevolezza persino
dei caratteri che si attribuivano alla strega che poteva essere tanto bella e affascinante, quanto orrida e disgustosa. Non solo raffigurazioni artistiche, ma anche
quelle teatrali e letterarie rivelano l’enorme diffusione dell’immagine della strega, che si evince dalle tante rappresentazioni che ne sono state date anche quando il tema principale era altro : è il caso del ciclo di Rubens per Maria de Medici,
dove ci sono sullo sfondo donne che potrebbero essere streghe, cui viene affidato
il compito di rappresentare il male con alcuni caratteri ricorrenti e di contrasto
con le figure centrali. Riprendendo gli insegnamenti della microstoria non come
aneddoto di caso stravagante, ma come possibilità di far conoscere uno spaccato
di vita vissuta, Roper piega la storia sociale e i gender studies, con la nuova storia
delle emozioni, per un quadro ricco in cui tenta di non perdere di vista i crismi
della storia tradizionale. In conclusione, al lettore abituato ancora a rintracciare
genesi e cause nella storia politica, resta qualche perplessità in quanto essa pare
qui quasi del tutto trascurata. Tuttavia, le tante suggestioni, le ipotesi e l’ammirevole capacità di tenere insieme le fila di un discorso davvero variegato rendono
pregevole il lavoro di Roper.
 
 
M. V.
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Storia del pensiero filosofico in Calabria. Da Pitagora ai giorni nostri, a cura di
Mario Alcaro, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, 590 pp.
Q
uesta storia della filosofia in Calabria è l’ultima opera alla quale ha lavorato Mario Alcaro prima della sua morte, avvenuta lo scorso giugno. Storico
della filosofia contemporanea, Alcaro aveva da tempo rivolto la sua attenzione al pensiero meridiano, in cui all’evoluzione globale del tardo capitalismo delle
società contemporanee viene contrapposto lo stile di vita premoderno ancora
presente nel Mezzogiorno d’Italia e nei paesi del Mediterraneo. Non a caso il filo
conduttore di gran parte del volume è il naturalismo mediterraneo, inteso come
visione vitalistica della natura che ha origini dalla vita agraria di questa colonia
della Magna Grecia e trova in Pitagora una prima articolazione in chiave non solo
filosofica ma anche politica e civile. La ricostruzione di questa tradizione prende, infatti, le mosse dal cosmo armonizzato di Pitagora, in cui le leggi di natura
bruniana & campanelliana
300
sono la base delle leggi degli uomini, per terminare in quello che Alcaro stesso
definisce « il naturalismo biopolitico del giovane Campanella ». I saggi di Filippo
Bulgarella, Aniello Montano, Luca Parisoli e Raffaele Perrelli, che compongono
la prima parte del volume, sono dedicati al pensiero filosofico del periodo classico
e alla sua conservazione tardo antica e medievale, in una cultura profondamente
influenzata dal monachesimo orientale. Al Rinascimento, invece, è dedicata la
seconda parte a cui hanno contribuito lo stesso Alcaro, Roberto Bondì, Raffaele
Cirino, Franco Piperno ed Emilio Sergio. Sotto la categoria unitaria del naturalismo mediterraneo sono qui accomunati pensatori come Marco Aurelio Severino, Tommaso Cornelio e Paolo Antonio Foscarini e autori minori come Tiberio
Russiliano Sesto, Annibale Rosselli, Elia Astorini, Gabriele Barrio, Giovan Battista
Amici. Nel contributo dedicato a Telesio e ai telesiani, emerge un’immagine del
filosofo cosentino che lo distingue dall’interpretazione prevalente del naturalismo mediterraneo al centro degli altri saggi. La distanza che separa Telesio dalla
tradizione magico-ermetica è, infatti, la stessa che lo separa dalle interpretazioni
platonizzanti del suo pensiero da parte di Antonio Persio e Tommaso Campanella. Oltre Telesio, alla tradizione del naturalismo mediterraneo si sottraggono quei
numerosi pensatori del Seicento e del Settecento la cui opera filosofica si configura come una riflessione sulla storia, la vita civile e le lettere. I saggi di Romeo
Bufalo, Fortunato Cacciatore, Fabrizio Lomonaco e Maurizio Martirano sono dedicati a celebri intellettuali calabresi della Napoli di Vico, come Gregorio Caloprese, Gianvincenzo Gravina, Francesco Maria Spinelli e illuministi come Francesco
Antonio Grimaldi e Francesco Saverio Salfi. Al naturalismo mediterraneo appare
senza dubbio estraneo anche Antonio Serra, l’autore poco conosciuto di un Breve
trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e d’argento dove non sono
miniere scritto nel 1613. L’opera di Serra, sulla quale in Italia si hanno alcuni studi
recenti ma di cui ancora non è disponibile un’edizione moderna, è stata recentemente tradotta in inglese da Johnathan Hunt (London-New York, Anthem Press,
2011). Il titolo inglese, A ‘Short Treatise’ on the Wealth and Poverty of Nations, nel
richiamare la più celebre opera di Adam Smith, sottolinea il ruolo di Serra nella
nascita della moderna economia politica. Chiudono la terza parte i contributi di
Romeo Bufalo, Fortunato Cacciatore, Pio Colonnello e Santina Manieri dedicati
a figure importanti della filosofia italiana dell’Ottocento, come Paquale Galluppi,
Felice Tocco e Francesco Fiorentino. A riallacciarsi al filo rosso del libro, sono i
contributi di Giuseppe Cantarano e Francesco Lesce nella quarta e ultima parte
del volume, nei quali si sostiene l’esistenza di un legame profondo tra il naturalismo mediterraneo del Rinascimento e il pensiero meridiano, con ampi richiami
all’opera di Alcaro Sull’identità meridionale (1999).
 
 
F. G. S.
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giostra
301
Donald Weinstein, Savonarola : the Rise and Fall of a Renaissance Prophet,
New Haven & London, Yale University Press, 2012, 380 pp.
 
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uarant ’ anni dopo il suo importante saggio sul profetismo savonaroliano
che ha segnato gli studi sull’articolazione complessa tra profezia e politica (Savonarola and Florence : Prophecy and Patriotism in the Renaissance, Princeton,
1970 ; libro tradotto rapidamente non a caso in francese, Paris, Calmann-Levy,
1972, e in italiano, Bologna, Il Mulino, 1974), Donald Weinstein torna sulle orme
del proprio lavoro proponendoci un biografia del priore di San Marco, solo pochi anni dopo quella che ci era stata proposta – e forse anche questo non è del
tutto un caso – da Lauro Martines (Fire in the City : Savonarola and the Struggle
for the Soul of Florence, Oxford, Oxford University Press, 2006, libro tradotto in
italiano nel 2008, Milano, Mondadori). Da par suo, ossia da grande conoscitore
dell’opera savonaroliana, specialmente delle prediche, ma anche dei testi dei suoi
contemporanei nonché, ovviamente, della letteratura secondaria sull’argomento, Weinstein costruisce a poco a poco, ricalcando la logica del suo primo saggio,
ma allargandola in nome di una prospettiva qui chiaramente biografica, quel che
risulta in fin dei conti la migliore biografia del frate che sia stampata da mezzo secolo. Infatti, riprendendo le maggiori tesi del lontano saggio dell’inizio degli anni
settanta, lo studioso americano delinea metodicamente quanto aiuta a spiegare
il percorso profetico del domenicano, in nome di una convinzione profonda : tal
destino diventa eccezionale solo nella misura in cui assume una valenza radicalmente politica, e quindi se lo si iscrive in una storia tutta fiorentina da considerare
attentamente mese per mese, quasi giorno per giorno. In questa prospettiva, la
cronologia non è da microstoria, come si potrebbe pensare, ma s’impone in nome
dell’accelerazione della storia prodotta dall’inizio delle cosiddette « guerre d’Italia » nell’autunno del 1494. La profezia incrocia in questo caso il patriottismo e, da
un intervento classicamente penitenziale, si fa apocalittica, nel momento storico
in cui la patria potrebbe morire sotto i colpi degli eserciti barbari. Di questo passo,
l’opera savonaroliana non appartiene più soltanto alla storia della profezia ma diventa una componente della storia politica fiorentina e, più genericamente, della
storia del pensiero politico moderno, preludio necessario alle concezioni sconvolgenti che saranno quelle della generazione successiva (quella dei Machiavelli
e dei Guicciardini per essere chiari) : in ciò consiste la « modernità » di Savonarola,
e, da questo punto di vista, una delle poche critiche che si potrebbero fare al libro
di Weintesin è proprio quella di avere scelto di non soffermarsi su quella eredità
complessa e combattuta. La conclusione del libro chiede, è vero, di tenere conto
di tutti gli aspetti della figura controversa di Savonarola (il « puritano irascibile
in guerra con il mondo intero », « il predicatore carismatico », « l’ascetico contemplativo » nonché l’« araldo militante di una nuova età », p. 317), affinché si possano superare i conflitti interpretativi, spesso interamente ideologici, che esistono
attorno alla lettura del momento savonaroliano – e di cui la recente ristampa
dei quattro volumi della biografia del frate da Cordero illustra forse una forma
caricaturale (Milano, Bollati Boringhieri, 2009). Ma il dubbio sorge che il libro di
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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bruniana & campanelliana
Weinstein, mettendo così accuratamente insieme tutti gli aspetti contraddittori
delle analisi più varie del protagonista della vita fiorentina di fine secolo, non dia
il soppravvento ad una forma classica di drammatizzazione un po’ aneddotica, a
scapito dell’importanza storica di un pensiero e di un intervento unico nella città
dove in quegli stessi anni si faceva strada una forma diversa di pensare la politica
e la storia.
J.-L. F.
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Le schede del presente fascicolo sono state redatte da : Simonetta Adorni-Braccesi, Marco Albertoni, Valerio Del Nero, Jean-Louis Fournel, Brunello Procopio,
Tiziana Provvidera, Andrea Rabassini, Francesco Giuseppe Sacco, Michaela Valente, Donato Verardi.