RASSEGNA STAMPA -- mercoledì 8 ottobre 2014 -- ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO IL RIFORMISTA PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Corriere.it del 07/10/14 Arci sulle nozze gay: «Con Alfano si torna al Medioevo» Gianluca Testa ROMA - «No alle nozze gay». La circolare inviata ai prefetti d’Italia dal ministro dell’interno Angelino Alfano ha l’effetto di un ciclone. Nel testo si legge che «la diversità di sesso dei nubendi» rappresenta «un requisito necessario» affinché il matrimonio possa produrre «effetti giuridici nell’ordinamento interno». In sostanza Alfano chiede il ritiro e la cancellazione delle registrazione di nozze gay celebrate all’estero. Apriti cielo. Le reazioni non tardano ad arrivare. A partire dall’Arci. Secondo il presidente nazionale Francesca Chiavacci «con Alfano si torna al Medioevo». La disobbedienza civile dei sindaci Mentre alcuni sindaci fanno leva sulla disobbedienza civile – a partire da quello di Bologna, Virginio Merola Merola – il presidente dell’associazione Gaynet Franco Grillini ritiene che la circolare sia «illegale» perché «soltanto un giudice può ordinare la cancellazione delle trascrizioni effettuate». Per Grillini il «Califfo» Alfano non lo sa «perché troppo impegnato a baciare le pantofole vesco-vili» e perché «non studia la legge italiana e nemmeno quella europea». Il primo cittadino di Napoli, Luigi De Magistris, ritiene che la circolare «è in contrasto con la Costituzione repubblicana e le libertà civili in essa sancite». Quello di Fano, Massimo Seri, si appella a Renzi dicendo che il Governo deve «affrontare la questione dal punto di vista politico e legislativo, e avere il coraggio di fare una scelta adeguandola alle scelte compiute da altri Paesi europei». Il sindaco di Grosseto Emilio Bonfazi rivendica le decisioni del tribunale («conta più una sentenza che una circolare del ministro») mentre Sara Biagiotti, primo cittadino di Sesto Fiorentino, ribadisce la necessità di «uno stato laico, capace di garantire i diritti civili». L’indignazione di Arci Una delle reazioni più forti arriva proprio dal presidente di Arci, Francesca Chiavacci. «La decisione del ministro Alfano è anacronistica, ci fa pensare che si voglia tornare al Medioevo. La nostra legislazione nazionale in materia – aggiunge – continua a essere molto arretrata, nonostante il presidente del Consiglio in più occasioni abbia dichiarato l’impegno di introdurre significativi miglioramenti per avvicinarla a quella della maggior parte degli altri paesi europei. Sono stati invece i sindaci di molti comuni a prendere atto della realtà, sia attraverso l’introduzione dei registri delle unioni civili, che attraverso il riconoscimento dei matrimoni celebrati all’estero». Per la Chiavacci l’intervento di Alfano vanifica «tutto questo lavoro» violando «ogni principio di autonomia degli Enti locali. Ci chiediamo – conclude il presidente Arci – dove stia la necessità e l’urgenza di emanare un provvedimento di questo tipo, a meno che non consideri un tema che riguarda i diritti civili un problema di ordine pubblico. Ancora una volta il governo non solo non mantiene le promesse, ma addirittura adotta provvedimenti che ne rappresentano il capovolgimento». http://sociale.corriere.it/2014/10/07/arci-sulle-nozze-gay-con-alfano-si-torna-al-medioevo/ 2 Da Adn Kronos del 07/10/14 Gay: Arci, circolare Alfano è ritorno al Medioevo, noi siamo con sindaci Roma, 7 ott. (Adnkronos) - "La decisione del ministro Alfano di inviare una circolare ai prefetti in cui chiede la cancellazione della trascrizione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati all'estero è anacronistica e ci fa pensare che si voglia tornare al Medioevo". Lo afferma Francesca Chiavacci, presidente nazionale dell'Arci."La nostra legislazione nazionale in materia - prosegue Chiavacci - continua ad essere molto arretrata, nonostante il presidente del Consiglio in più occasioni abbia dichiarato l'impegno di introdurre significativi miglioramenti, per avvicinarla a quella della maggior parte degli altri paesi europei. Sono stati invece i sindaci di molti comuni a prendere atto della realtà, sia attraverso l'introduzione dei registri delle unioni civili, che per mezzo del riconoscimento dei matrimoni celebrati all'estero".Oggi, continua il presidente dell'Arci, "si vorrebbe vanificare tutto questo lavoro attraverso un intervento che viola ogni principio di autonomia degli enti locali.Ci chiediamo dove stia la necessità e l'urgenza di emanare, da parte del ministro degli Interni, un provvedimento di questo tipo, a meno che non consideri un tema che riguarda i diritti civili un problema di ordine pubblico. Ancora una volta il governo non solo non mantiene le promesse, ma addirittura adotta provvedimenti che ne rappresentano il capovolgimento. L'Arci è al fianco dei sindaci che non intendono annullare le trascrizioni e si impegnerà, nei prossimi giorni, ad organizzare momenti di mobilitazione nelle città contro questo gravissimo provvedimento", conclude. Da Ansa del 07/10/14 Nozze gay: Arci, con circolare Alfano si torna al Medio evo Francesca Chiavacci, siamo al fianco dei sindaci e li sosterremo ROMA (ANSA) - ROMA, 7 OTT - "La decisione del Ministro Alfano di inviare una circolare ai Prefetti in cui chiede la cancellazione della trascrizione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati all'estero è anacronistica, ci fa pensare che si voglia tornare al Medioevo", afferma Francesca Chiavacci, Presidente nazionale dell'Arci. "La nostra legislazione nazionale in materia continua ad essere molto arretrata - aggiunge - nonostante il presidente del Consiglio in più occasioni abbia dichiarato l'impegno di introdurre significativi miglioramenti, per avvicinarla a quella della maggior parte degli altri paesi europei". "Sono stati invece - sottolinea la presidente dell'Arci - i sindaci di molti comuni a prendere atto della realtà, sia attraverso l'introduzione dei registri delle unioni civili, che attraverso il riconoscimento dei matrimoni celebrati all'estero. Oggi si vorrebbe vanificare tutto questo lavoro attraverso un intervento che viola ogni principio di autonomia degli Enti locali". L'Arci si chiede inoltre "dove stia la necessità e l'urgenza di emanare, da parte del ministro degli Interni, un provvedimento di questo tipo, a meno che non consideri un tema che riguarda i diritti civili un problema di ordine pubblico. Ancora una volta il governo non solo non mantiene le promesse, ma addirittura adotta provvedimenti che ne rappresentano il capovolgimento". 3 "L'Arci - conclude Chiavacci - è al fianco dei sindaci che non intendono annullare le trascrizioni e si impegnerà, nei prossimi giorni, ad organizzare momenti di mobilitazione nelle città contro questo gravissimo provvedimento". (ANSA). Da Redattore Sociale del 07/10/14 Unioni civili, l'Arci: "Con il ministro Alfano si torna al Medioevo" Parla il presidente nazionale, Francesco Chiavacci: "La decisione di inviare una circolare ai Prefetti in cui chiede la cancellazione della trascrizione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati all’estero è anacronistica. Siamo al fianco dei sindaci" ROMA - “La decisione del Ministro Alfano di inviare una circolare ai Prefetti in cui chiede la cancellazione della trascrizione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati all’estero è anacronistica, ci fa pensare che si voglia tornare al Medioevo” - afferma Francesca Chiavacci, Presidente nazionale dell’Arci. “La nostra legislazione nazionale in materia continua ad essere molto arretrata, nonostante il presidente del Consiglio in più occasioni abbia dichiarato l’impegno di introdurre significativi miglioramenti, per avvicinarla a quella della maggior parte degli altri paesi europei. Sono stati invece i sindaci di molti comuni a prendere atto della realtà, sia attraverso l’introduzione dei registri delle unioni civili, che attraverso il riconoscimento dei matrimoni celebrati all’estero. Oggi si vorrebbe vanificare tutto questo lavoro attraverso un intervento che viola ogni principio di autonomia degli enti locali". Continua Chiavacci: "Ci chiediamo poi dove stia la necessità e l’urgenza di emanare, da parte del ministro degli Interni, un provvedimento di questo tipo, a meno che non consideri un tema che riguarda i diritti civili un problema di ordine pubblico. Ancora una volta il governo non solo non mantiene le promesse, ma addirittura adotta provvedimenti che ne rappresentano il capovolgimento”. “L’Arci – conclude - è al fianco dei sindaci che non intendono annullare le trascrizioni e si impegnerà, nei prossimi giorni, ad organizzare momenti di mobilitazione nelle città contro questo gravissimo provvedimento”. Da il Secolo d’Italia del 07/10/14 “Nozze” gay, è bagarre sulla circolare di Alfano. E per un giorno la maggioranza fibrilla La legislazione italiana non riconosce le nozze gay contratte all’estero. È bastato l’annuncio della decisione del ministro dell’Interno Alfano per scatenare la bagarre. Tutto nasce dalla circolare ai prefetti affinché rivolgano «un invito formale al ritiro ed alla cancellazione» delle trascrizioni di matrimoni tra omosessuali avvenuti fuori dai confini nazionali, «avvertendo che in caso di inerzia si procederà al successivo annullamento d’ufficio degli atti che sono stati illegittimamente adottati». Apriti cielo. Sulla testa di Alfano è piovuto di tutto e di più. Tutto il politically correct più fanatico e furioso s’è scatenato contro la “medievale” decisione del ministro, come è definita in una nota dell’Arci. Per primi si sono pronunciati diversi sindaci, che hanno dichiarato la loro “disobbedienza” alla decisione del ministro. «Io non obbedisco», ha detto gonfiando il petto il sindaco di 4 Bologna, Virginio Merola, che ha dato la carica ai suoi colleghi. Ma c’è stato anche chi, come il sindaco di Chieti, s’è detto d’accordo con Alfano. Poi sono arrivate le stroncature delle varie associazioni gay e di vari partiti politici. Si sono mobilitati per primi Sel e M5S. Dice Vendola: «Si dovrebbe dire ad Alfano di uscire dalle caverne». Ma l’intervento più pesante è stato quello del Pd. Il presidente Matteo Orfini ha invitato il ministro Alfano a rendere possibili i “matrimoni” gay. Il capogruppo Speranza chiede di rispettare i «diritti delle persone». Il sottosegretario alle Riforme Ivan Scalfarotto auspica dal canto suo che il titlare dell’Interno «prima di decidere sulle pari opportunità si coordinasse con il titolare della relativa delega, Matteo Renzi». Insomma, un vero putiferio. Dove non è riuscito il Jobs Act, c’ha pensato la questione delle “nozze” gay a mettere in fibrilazionela maggioranza. E poi dicono che la lobby gay non esiste. http://www.secoloditalia.it/2014/10/nozze-gay-e-bagarre-sulla-circolare-di-alfano-e-per-ungiorno-la-maggioranza-fibrilla/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=nozzegay-e-bagarre-sulla-circolare-di-alfano-e-per-un-giorno-la-maggioranza-fibrilla Da Sky Tg 24 del 07/10/14 Lampedusa, riparte la carovana antimafia di Arci-Libera http://video.sky.it/news/cronaca/lampedusa_riparte_la_carovana_antimafia_di_arcilibera/v 216180.vid Da Redattore Sociale del 07/10/14 Parlamento europeo, bloccata la candidatura a commissario di Tibor Navracsics L'attuale ministro degli Affari Esteri ungherese era candidato al ruolo di Commissario europeo per la cultura, l’educazione, i giovani e la cittadinanza. La Commissione cultura lo ha ritenuto inadatto al portafoglio assegnatogli. La soddisfazione dell'Arci ROMA - La commissione cultura del Parlamento europeo, riunita ieri a porte chiuse, ha bloccato a maggioranza la candidatura di Tibor Navracsics, attuale ministro degli Affari Esteri ungherese, a Commissario europeo per la cultura, l’educazione, i giovani e la cittadinanza. Il dirigente di Fidesz, il partito conservatore al potere in Ungheria che ha posto limitazioni alla libertà di stampa, di espressione, di opinione, è stato ritenuto inadatto al portafoglio assegnatogli. "È una vittoria dell’associazionismo democratico europeo, dei parlamentari progressisti e della sinistra che hanno sostenuto il carattere inaccettabile e persino provocatorio della proposta avanzata dal Presidente Juncker", afferma l'Arci che, insieme a Forum Civico Europeo e European Alternatives ha promosso e animato la campagna contro la candidatura di Navracsics. Nelle ultime settimane la mobilitazione si è dispiegata dentro e fuori il Parlamento, attraverso appelli, lettere aperte, incontri e petizioni. La collaborazione stretta e coordinata fra reti di società civile democratica europea, associazioni nazionali, parlamentari e gruppi parlamentari progressisti, cittadini e cittadine sembra aver raggiunto il suo obbiettivo. Ora l'Arci chiede: "che il voto della Commissione sia pienamente rispettato e la candidatura 5 decada", ribadendo che proseguirà "insieme alle associazioni e ai parlamentari europei a monitorare il dibattito politico e parlamentare per evitare qualsiasi colpo di coda". Si augura inoltre "che questo voto possa aprire la strada a un vero impegno delle istituzioni e delle forze politiche e sociali europee sulla situazione ungherese, per mettere fine alle sistematiche e gravissime violazioni dei diritti e delle libertà fondamentali nel Paese". Questa bocciatura, stando alle dichiarazioni dell'Arci, avrebbe dimostrato che la mobilitazione coordinata e paritaria di società civile democratica e parlamentari progressisti può imporre il cambiamento, anche quando l’accordo fra i poteri forti sembra blindato e intaccabile. "Il voto di ieri deve essere solo l’inizio: per arginare l’avanzata dei fenomeni regressivi e reazionari nei paesi dell’Unione Europea, insieme all’abbandono delle politiche del rigore che hanno solo aumentato disuguaglianze e malessere sociale, serve un deciso investimento proprio su cultura, educazione, giovani generazioni e partecipazione democratica. Le politiche europee devono smettere di considerare questi ambiti come accessori e destinare ad esse risorse economiche e decisi investimenti politici". Da GreenReport.it del 07/10/14 TTIP, aumenta il fronte del no: 11 ottobre manifestazione mondiale L’appuntamento è l’11 ottobre prossimo. In decine di Paesi, migliaia di organizzazioni della società civile europea e statunitense si mobiliteranno per rilanciare in grande stile l’opposizione al TTIP, la TransatlanticTrade and Investment Partnership, il più grande accordo bilaterale per la liberalizzazione del commercio mai negoziato in epoca moderna. Con oltre due miliardi di dollari di scambi al giorno tra Stati Uniti e Unione Europea, i due colossi al tavolo negoziale, si stanno creando le basi per un’area di libero scambio che varrà potenzialmente il 40% del Prodotto interno lordo mondiale. Ma non sono (solo) le dimensioni a rendere questo accordo “storico”. C’è la componente geopolitica che non è da meno: un trattato come il TTIP consentirebbe agli Stati Uniti di ritrovare centralità nello scacchiere economico mondiale, ormai sovra determinato dalle politiche dei BRICS, soprattutto se fianco del TTIP l’Amministrazione Obama riuscirà a portare a casa anche il corrispettivo con i Paesi del Pacifico (il TPP), diventando così Pivot degli scambi tra gli oceani, nel tentativo di ridimensionare le ambizioni cinesi e indiane. Ma c’è di più. A differenza dei convenzionali FTAs (Free TradeAgreements, trattati di libero scambio) in questo caso non sono in discussione i dazi doganali, già abbastanza bassi per l’85% delle linee tariffarie (attorno al 3-5%), ma le normative e gli standard. Obiettivo principale è fluidificare i commerci attraverso una semplificazione normativa che passa per una generale armonizzazione, un approccio che potrebbe far risparmiare alle imprese transnazionali quasi il 25% dei costi di transazione e permetterebbe alle aziende di avere a che fare con meno regole e, probabilmente, con norme meno stringenti. E’ la differenza di approccio tra USA e UE a preoccupare di più. Il cosiddetto Principio di precauzione, presente anche all’interno dei testi fondativi dell’Unione, non è riconosciuto oltreoceano, dove i prodotti possono essere commercializzati con controlli minimi salvo poi essere ritirati dal mercato se giudicati nocivi (con l’onere della prova sui controllori pubblici, non sulle imprese). Non è un caso che negli USA siano tollerati gli OGM per consumo umano, l’uso intensivo di antibiotici in allevamento, ormoni per la crescita esponenziale del bestiame. Un’armonizzazione normativa, sulla base del principio dello “stesso campo di gioco” per la competizione tra le imprese, metterebbe in discussione tutte quelle regole e norme che, in Europa, tutelano ambiente e consumatori da prodotti così sospetti. 6 Il TTIP non si ferma però alla convergenza degli standard. Prevede un arbitrato di risoluzione delle controversie, l’ISDS, a cui si potranno appellare le imprese denunciando un Governo nel momento in cui ritenessero che un Paese, attraverso norme e leggi democraticamente votate dalle sue istituzioni, stia mettendo in discussione le loro aspettative di profitto. Miliardi di euro di compensazioni, dalle risorse pubbliche, per compensare le aspettative mancate di un privato. Un’eversione delle regole che governano una comunità umana, e che ha già avuto precedenti illustri come la richiesta portata avanti da Veolia, il colosso dell’acqua, contro il Governo egiziano per la sua scelta di aumentare il salario minimo a tutti i lavoratori, perché andrebbe contro agli impegni presi nel quadro del partenariato pubblico-privato firmato con la città di Alessandria per lo smaltimento dei rifiuti. L’ISDS darebbe un potere enorme ai privati, mettendo nelle condizioni i Paesi, in caso di sentenza sfavorevole, di versare ricche compensazioni alle aziende, o di dover cambiare normative votate democraticamente dai propri parlamenti. Per questo la società civile delle due sponde dell’Oceano si sta mobilitando. In Italia la campagna Stop TTIP vede quasi settanta realtà, da Organizzazioni non governative come COSPE e Fairwatch, a organizzazioni come Attac, da sindacati come i Cobas e la Fiom a Associazioni come l’Arci e Legambiente, passando per comitati locali e gruppi di cittadini. Una campagna che sta crescendo sempre più grazie anche alla formazione di comitati locali come quelli di Milano, Torino, Firenze, Modena e che sta cercando di rompere il muro di silenzio che c’è in Italia su questo trattato. Un negoziato lasciato segreto dalla Commissione europea (è quasi impossibile avere accesso ai documenti negoziali) nel tentativo di evitare opposizioni da parte dei cittadini europei, ma che grazie alle campagne della società civile sta cominciando a emergere in tutta la sua gravità. I negoziatori si troveranno nuovamente tra fine settembre e i primi di ottobre a Washington, per procedere con un trattato che dovrebbe chiudersi nel 2015, nonostante le perplessità già espresse da una parte del Parlamento europeo e dal Congresso statunitense (che ancora non ha dato carta bianca a Obama per procedere più speditamente). Movimenti hanno affiancato diversi appuntamenti: l’11 ottobre nelle due sponde dell’Oceano Atlantico, il 14 ottobre a Roma in occasione dell’evento di alto livello organizzato dal Governo italiano sul TTIP, l’8 novembre sempre a Roma per l’assemblea nazionale della Campagna Stop TTIP. http://www.greenreport.it/news/comunicazione/ttip-aumenta-fronte-11-ottobremanifestazione-mondiale/ 7 ESTERI del 08/10/14, pag. 14 Ebola, shock in Spagna altri due casi sospetti L’Ue: “Madrid spieghi” Sotto osservazione il marito dell’infermiera col virus Dubbi su 50 persone. L’Oms: inevitabili nuovi contagi MADRID . Un caso accertato, due sospetti, un altro escluso dopo il doppio risultato negativo delle analisi. E almeno altre 52 persone sotto osservazione. Il «day after» dello sbarco dell’ebola in Spagna è un rincorrersi di bollettini medici, spiegazioni ufficiali poco convincenti, denunce politiche. E pressanti richieste di chiarimenti da parte della Commissione Europea che, mentre convoca per oggi una riunione speciale del Comitato di sicurezza sanitaria dei 28, chiede a Madrid di indicare nei dettagli come può essere avvenuto il contagio. Ma, ad accrescere l’allarme, arriva anche la dichiarazione della direttrice dell’Oms, Zsuzsanna Jakab, che vede come «abbastanza inevitabili» nuovi casi di contagio nel Vecchio continente. Le condizioni dell’infermiera Teresa R. sono stabili e al momento non suscitano timori che possa correre pericolo di vita. Viene trattata con un siero iperimmune di un donatore convalescente (una persona che ha già superato la malattia, si suppone che possa essere Suor Paciencia, già curata dal virus in Liberia). I due casi sospetti sono quelli del marito, Javier L. R., che finora non ha presentato sintomi ma viene tenuto in isolamento perché è stata la persona potenzialmente più esposta al contagio. E di indaga su un uomo rientrato da un viaggio in Nigeria, per il quale oggi si conoscerà il risultato definitivo delle analisi. Escluso, invece, che una seconda infermiera impegnata nell’équipe che ha assistito i due religiosi morti tra agosto e settembre, possa aver contratto il virus. Resta il dubbio su oltre 50 persone: i 30 colleghi che hanno lavorato con Teresa R. in queste settimane all’ospedale Carlos III e i 22 sanitari con i quali è entrata in contatto ad Alcorcón: per loro, tre settimane di vigilanza. Ed è bufera sul ministro della Sanità, Ana Mato: la sinistra ne chiede le dimissioni, accusandola di improvvisazione. ( a. o.) Dell’8/10/2014, pag. 8 Ebola, la tempesta perfetta Oms sotto accusa. Il rapido diffondersi dell’epidemia e la gestione fallimentare dell’emergenza pongono seri dubbi sul ruolo dell’Organizzazione mondiale della sanità, sempre più debole politicamente e condizionata dai finanziamenti privati. E il virus resta fuori controllo anche per ragioni legate alla geopolitica Nicoletta Dentico Da quando è tornato a infestare l’Africa, con dinamiche di contagio e parabole epidemiologiche che non si erano mai viste prima, ne ha fatta di strada il virus dell’Ebola. Dal primo passaggio del virus, forse dovuto al contatto fra un contadino di uno sperduto villaggio della Guinea Conakry e una volpe volante (o pipistrello della frutta), tra la fine del 2013 8 e l’inizio del 2014. Da quando è stata finalmente identificata, nel marzo 2014, l’epidemia ha moltiplicato le sue rotte. Oltre i remoti villaggi senza nome, lungo le camionali dirette alle brulicanti città africane. Fuori dai confini sociali della povertà, a lambire la classe media del continente, anch’essa aeromobile ormai. Gli ultimi dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) registrano 7470 casi in Guinea, Liberia e Sierra Leone, con 3431 decessi. Ma l’Ebola è uscita ormai anche dal continente africano. È arrivata negli Stati Uniti, con il «caso zero» di virus del 28 settembre in Texas – quello di Thomas Eric Duncan, in lotta tra la vita e la morte mentre scriviamo – il panico nella comunità liberiana di Dallas e nove persone ad altissimo rischio di contagio, secondo le ultime notizie. Di qualche ora fa è anche l’annuncio di un giornalista freelance della Nbc News, Ashoka Mukpo che, infettato la scorsa settimana, è approdato lunedì scorso all’ospedale del Nebraska. E da ultimo, Ebola è arrivata anche in Europa, con una infermiera spagnola infettata dal virus dopo essere entrata in contatto con il missionario Manuel Garcia Viejo, infettato in Africa, rimpatriato e poi deceduto nell’ospedale La Paz Carlo III di Madrid. Segnerà una svolta nella gestione della patologia, quest’approdo oltreoceano? GEOPOLITICA DELLA SALUTE Il fatto che l’epidemia sia fuori controllo, come aveva anticipato qualche settimana fa la presidente di Medici Senza Frontiere Joanne Liu, e come ormai riconoscono anche nei corridoi dell’Oms, la dice lunga sui dispositivi che muovono la geopolitica della salute, nei tempi interconnessi della globalizzazione. I fenomeni di urbanizzazione e l’espansione delle città, nonché la maggiore mobilità delle persone, creano oggettivamente i presupposti di quella che Mark Woolhouse, epidemiologo delle malattie infettive dell’Università di Edinburgo ha definito «la tempesta perfetta per l’emersione dei virus». Eppure non tutti i virus attirano la comunità internazionale con lo stesso potere di mobilitazione. «In un certo senso si tratta di una morte annunciata — commenta Janis Lazdins, già responsabile della ricerca presso laTropical Disease Research Unit (TDR) dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) -, per diversi anni si è cercato di convincere l’Oms a promuovere la ricerca contro l’Ebola, magari inserendola nel paniere di patologie cui poteva dedicarsi Tdr, ma è sempre stato risposto che si trattava di una malattia focale, di focolai virulenti, capaci di estinguersi da soli. Oggi è cambiato tutto. Ma il rischio è che l’Oms abbia un know-how molto limitato sulla malattia, sicuramente in ambito di ricerca e sviluppo di nuovi farmaci per combatterla». Solo ad agosto l’Oms ha riconosciuto Ebola come un’emergenza internazionale, segno che non proprio tutti i contagi pesano in ugual misura. Di tutt’altro dinamismo fu la risposta che l’Oms seppe sollecitare nel 2003 al virus della sindrome acuta respiratoria (Sars). Il virus colpì paesi economicamente forti e fulminò in poche settimane pochi businessmen globali approdati in Canada dalle aree dell’Asia riportate come focolai della malattia. A recuperare la reticenza iniziale, se non il vero e proprio occultamento della malattia da parte dei governi, l’Oms riuscì ad attivare un network di risposta globale, costringendo la comunità scientifica internazionale ad uno sforzo di collaborazione che viene ancora oggi additato a modello, e che in pochi mesi produsse i primi strumenti medici. Eppure i motivi di preoccupazione per la diffusione dell’Ebola non mancano. Le proiezioni pubblicate a metà settembre dall’US Centre for Disease Control and Prevention (CDC) di Atlanta non lasciano scampo. In Sierra Leone e in Liberia soltanto, più di 20 mila nuovi casi potrebbero emergere nelle prossime settimane e qualcosa come 1,4 milioni entro gennaio 2015 se il contagio continuasse a propagarsi ai ritmi attuali. Il virus ha potuto diffondersi con sorprendente rapidità finora perché il compito di identificarlo e gestirlo è stato lasciato in buona sostanza ai sistemi sanitari del tutto inadeguati di paesi molto poveri, e assolutamente impreparati ad affrontarne la virulenza. Gli ospedali e i presidi sanitari erano, e restano ancora oggi, del tutto sguarniti degli strumenti fondamentali per contenere l’infezione: i guanti, l’acqua corrente, gli scafandri protettivi. Il perso9 nale sanitario africano, che già si conta al lumicino, ha pagato un prezzo altissimo in termini di contagio e di vite. Un triste catalogo di disfunzioni politiche, mediche e logistiche, peraltro non nuove. Un elenco fitto di lezioni che Ebola insegna alla comunità sanitaria globale, focalizzata da troppi anni su poche, specifiche, malattie in voga presso la comunità dei donatori, a discapito dell’attenzione rivolta alla salute primaria, alle priorità che per gli africani contano davvero. La prevenzione e la promozione della salute. L’Ebola però parla anche dell’Oms di questi anni. Racconta le conseguenze della sua debolezza finanziaria e soprattutto politica, un’autentica minaccia alla salute del pianeta. In quanto autorità pubblica con il compito di dirigere e coordinare le operazioni di salute internazionale, l’Oms dovrebbe essere adeguatamente carenata ad intercettare e affrontare tutte le emergenze sanitarie. A questo scopo l’agenzia, proprio all’indomani della Sars, si è dotata di health regulations vincolanti per tutti i suoi 194 membri. Eppure, a parlare con i funzionari di Ginevra in queste settimane, si deve prendere atto che l’agenzia sta grattando il barile dei pochi fondi di cui dispone e sta facendo i conti con la riduzione drastica del suo personale, soprattutto quello della vecchia scuola, che è stato dismesso o ha trasmigrato altrove. ATTENTI AL «FILANTROPO» Inoltre l’Oms è stata condizionata negli ultimi anni da un nugolo sempre più ristretto di paesi donatori e di finanziatori privati che hanno lasciato ben poco spazio di manovra all’agenzia in termini di priorità sanitarie. Il filantropo Bill Gates la fa da padrone: dal 2013 è il primo erogatore di fondi dell’Oms, e non era mai avvenuto nella storia dell’agenzia che un privato superasse il finanziamento dei governi. I quali dal canto loro, permettono che tutto questo avvenga, al massimo con qualche mal di pancia. Neppure i potenti Brics fanno eccezione. Ebola ci costringe dunque a misurare il collasso del governo mondiale della salute. Ora che l’epidemia priva di medicinali essenziali ha innescato la competizione fra case farmaceutiche, aziende biotech e centri di ricerca, si tratta di capire se l’Oms possa accompagnare la corsa al vaccino che si è scatenata, e con quali processi di trasparenza, di competenza tecnica, di arruolamento degli esperti. Già con l’influenza aviaria, l’agenzia è stata fagocitata dal conflitto di interessi, con gravi effetti reputazionali. Le ricerche contro il virus dell’Ebola, avviate tramite l’uso dei sieri delle persone infette come raccomandato dall’Oms, sono ancora a una fase molto incipiente, nel senso che nessuna sperimentazione è andata oltre il livello animale. Inoltre tutto il discorso della ricerca sembra essere sfuggito, in senso stretto, alle autorità dei paesi colpiti, le quali hanno detto in tutte le lingue di non essere in grado di valutare la qualità dei farmaci contro Ebola. All’Oms non resta che affidarsi alla Food and Drug Administration(Fda), sempre più coinvolta dato l’attivismo delle aziende biotech americane, o all’European Medicines Agency (Ema). Lo scenario presenta alcuni problemi. Il primo rischio è che i criteri stringenti e competitivi di Fda e Ema rallentino la messa in campo di nuovi vaccini, e producano un impatto indesiderato sul prezzo del prodotto finale, come del resto avviene in maniera sempre più sistematica con i vaccini di ultima generazione. Che ruolo saprà o potrà svolgere l’Oms per negoziare il prezzo dei dispositivi medicali così urgenti? Sarebbe una beffa odiosa se, a fronte dell’emergenza, i farmaci essenziali non fossero accessibili. L’altro problema riguarda il volume di produzione dei nuovi prodotti. Difficile capire che cosa abbia fatto finora l’Oms per spingere quelli che hanno la tecnologia a impegnarsi sui grossi volumi di farmaci, negoziando un accordo fra inventori e produttori del vaccino. Difficile capire se abbia la volontà politica, la leadership necessaria per esercitare questa mediazione sull’accesso di larga scala. Infine, si chiede Janis Lazdins, «una volta pronto il vaccino, chi ne controllerà l’accessibilità: il paese colpito, l’azienda produttrice o il finanziatore del progetto di ricerca?». C’è un ruolo per l’Organizzazione mondiale della sanità in questo scenario, ci chiediamo noi? 10 Dell’8/10/2014, pag. 8 Da Cuba 165 medici e infermieri nei Paesi africani colpiti da Ebola Solidarietà. Un riconoscimento all'Havana dai media del mondo Geraldina Colotti Sono operativi da settembre in Sierra Leone 165 operatori sanitari partiti da Cuba per partecipare alla lotta mondiale contro il virus Ebola. Un’iniziativa che ha riportato all’attenzione dei media del mondo (dal New York Times ad Al jazeera, alla Cnn) il riflesso solidale della piccola isola in presenza delle grandi tragedie, com’è avvenuto per l’uragano Katrina. Un gruppo formato da 63 medici e 102 infermieri specializzati. Tutti hanno quindici anni di esperienza. Dallo scorso 15 settembre hanno partecipato a un corso intensivo rigoroso, teorico e pratico, che include l’allenamento ai criteri di biosicurezza e la conoscenza dei rischi riguardo a malattie emergenti. Specialisti dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e dell’Organizzazione panamericana della salute (Ops) hanno esaminato l’equipe di volontari e dato il benestare alla loro abilitazione. Cuba è stato il primo paese al mondo ad aver risposto all’appello dell’Oms. E subito oltre 15.000 lavoratori del settore sanitario, tanti giovanissimi, hanno dato la propria disponibilità. Il presidente Raul Castro e il predecessore e fratello Fidel hanno accompagnato all’aeroporto i volontari in partenza. Un’altra brigata medica è in Liberia e in Guinea Conakry a preparare l’arrivo di altri medici cubani nei due paesi africani, i più colpiti dal virus. I 165 volontari cubani si aggiungono così agli oltre 4.000 già in servizio in Africa. Dall’inizio degli anni Settanta, l’Avana ha sviluppato un’attiva politica di cooperazione verso i paesi africani, mantenendo come fulcro i servizi sanitari. Ha fondato scuole di medicina in Etiopia (1984) Uganda (1986), Ghana (1991), e poi in Gambia e in Guinea equatoriale (nel 2000), e in Guinea Bissau (nel 2004). «Questa risposta s’inscrive nel percorso di aiuto all’Africa, all’Asia, all’America latina e ai Caraibi», ha detto all’Onu il viceministro cubano, Abelardo Moreno. Negli ulti 55 anni, Cuba ha fornito aiuto solidale a 158 paesi, inviando 325.710 operatori sanitari, 76.774 di loro prestano servizio in 39 paesi africani. Finora, Cuba ha formato 38.940 medici di 21 paesi e attualmente 10.000 giovani stranieri stanno studiando medicina sull’isola, 6.000 dei quali in modo totalmente gratuito: «La risposta di Cuba conferma i valori solidali che hanno guidato la Rivoluzione cubana: non dare quello che ci avanza, ma condividere quello che abbiamo», ha detto ancora Moreno. Per l’Oms, a Cuba c’è un dottore ogni 170 residenti e l’assistenza sanitaria è gratuita come l’istruzione. Nonostante il micidiale blocco economico imposto dagli Stati uniti, rinnovato quest’anno da Obama, l’eccellenza del servizio sanitario e la preparazione del personale medico cubano è universalmente riconosciuta. Dal 2005, il governo, in cooperazione con quello del Venezuela, ha messo fra le priorità la formazione dei medici da inviare nei paesi poveri. E il 25 settembre all’Onu il ministro degli Esteri cubano ha unito la sua voce a quella del presidente venezuelano, Nicolas Maduro, che ha dato un contributo di 5 milioni di dollari per i fondi della lotta all’Ebola. 11 del 08/10/14, pag. 18 Siria, rapiti 20 cristiani Kobane vicina alla resa rivolta curda in Turchia “Ankara non ci difende”, proteste e scontri: tre morti Tafferugli al parlamento Ue. Erdogan: operazione di terra ALBERTO STABILE BEIRUT . Dai vari fronti della guerra siriana: i cristiani ancora nel mirino dei jihadisti, a Knayeh, un villaggio nella valle dell’Oronte dove il parroco, padre Hanna Jalluf e una ventina di fedeli cattolici sono stati rapiti da miliziani del Fonte al Nusra e di loro si sono perse le tracce. Mentre il dramma di Kobane, la citta-simbolo della resistenza curda contro l’avanzata del Califfato, ormai prossima a cadere, alimenta la rabbia dei curdi di Turchia verso il governo di Ankara e la sua scelta di non intervenire: incidenti ad Istanbul e coprifuoco imposto in varie province per impedire manifestazioni che hanno già provocato tre morti tra i dimostranti. Non è la prima volta che i cristiani di Siria subiscono attacchi. Nel caos della guerra civile e del conflitto regionale che ne è seguito, intere comunità di cattolici sono rimaste tagliate fuori, isolate e colpite. Adesso è toccato a Knayeh dove nella notte tra domenica e lunedì un gruppo di armati ha portato via il parroco francescano, padre Hanna Jalluf e una ventina di fedeli. Altri, fra cui una suora del Cuore Immacolato di Maria, madre Patrizia Guarino, avrebbero potuto fare la stessa fine se non avessero trovato rifugio presso alcune famiglie del paese. Un senso di impotenza e di frustrazione promana dall’intero contesto siriano. Kobane, la città al confine con la Turchia dove un manipolo di miliziani curdi, uomini e donne, tenta disperatamente di resistere all’assedio degli jihadisti, sta per cadere, dice il presidente turco, Erdogan. Il quale coglie spunto dal dramma di Kobane per giustificare il suo immobilismo e rilanciare la sua strategia. «Il problema dell’Is — dice il leader turco — non può essere risolto con i bombardamenti. Kobane sta per cadere. Noi abbiamo avvertito l’Occidente. Il terrore non verrà fermato finchè non collaboreremo a un’operazione di terra ». Allora, la Turchia è pronta ad intervenire? Neanche per sogno. «Noi vogliamo tre cose — insiste Erdogan —: una no-fly zone, una fascia di sicurezza parallela (al confine, ndr) e l’addestramento di ribelli moderati siriani». Il presidente turco non lo dice esplicitamente, ma la no-fly zone significa impedire agli aerei dell’aviazione siriana di alzarsi e attaccare militarmente le postazioni antiaeree di Damasco. Significa, in parole povere, muovere guerra ad Assad. Nell’attesa, Erdogan non si schiera, non interviene per salvare Kobane e questo provoca la rabbia degli altri curdi, quelli che vivono o si sono rifugiati in Turchia, alle cui rivendicazioni d’indipendenza il leader turco decisamente si oppone. «Onore ai combattenti dell’Unione Democratica (PYD) gridavano alcune centinaia di giovani sulle colline di fronte a Kobane, ma in territorio turco, prima che le forze speciali non li spazzassero via con idranti e lacrimogeni. Le stesse scene si sono ripetute a Istanbul ed in altre città. A Varto un dimostrante curdo di 25 anni muore colpito da un lacrimogeno alla testa, altri due sono stati uccisi a Diyarbakir. Ma c’è un altro e non meno problematico confine che rischia d’incendiarsi. Quello tra il Libano e Israele, in quell’estremo angolo orientale, chiamato le Fattorie di Shebaaa, 25 chilometri quadrati, contesi (si fa per dire) tra Siria e Libano ed occupate dalle truppe israeliane. Qui, ieri una bomba è esplosa al passaggio di un blindato israeliano in 12 pattugliamento. Due soldati sono stati feriti (pare in modo non grave) e gli Hezbollah libanesi, la milizia sciita che controlla il sud del Libano, ha rivendicato l’operazione, una ritorsione al ferimento sabato scorso di un soldato libanese. Da mesi Israele minaccia che il conto con gli Hezbollah è sempre aperto. del 08/10/14, pag. 2 L’America manda gli Apache Dopo le «truppe dal cielo» scatterà l’ora della fanteria? WASHINGTON Gli strateghi lo avevano detto prima ancora che i raid iniziassero. Servono «boots on the ground», le forze terrestri, perché con la sola aviazione è impossibile sconfiggere l’Isis. Obama è andato per la sua strada e si è affidato alle incursioni, segnalate ogni giorno dal Centcom, il comando centrale: 354, di cui 103 in Siria e 251 in Iraq. Ma non si sono rivelate decisive. A confermarlo, il campo. Kobane, l’enclave curda nel nord della Siria, è stata strangolata dai jihadisti nonostante l’eroica resistenza dei peshmerga. Solo ieri la coalizione ha aumentato gli attacchi. Si parla di un coordinamento tra insorti e Usa, magari con la presenza degli «invisibili», pochi uomini delle unità speciali che hanno aiutato nella ricerca dei target. Mossa tardiva. Poi, altra svolta, gli americani hanno usato gli elicotteri Apache a ovest di Bagdad per tamponare i rovesci dell’esercito iracheno. Qualcuno ha ribattezzato la sortita come «boots on the air», gli scarponi in aria. Il prossimo passo — giurano gli esperti — sarà il ricorso alla fanteria. Mossa anticipata dall’impiego dei commandos delle Special Forces nel Kurdistan iracheno. Li hanno chiamati «shoes on the ground», le scarpe sul terreno, per sottolineare una presenza meno apparente. Tutto secondo uno scenario già visto in altri teatri. Israele è stato impegnato contro gli Hezbollah, altra formazione guerrigliera strutturata come un mini esercito, e si è affidato alla sua aviazione. Alla fine ha dovuto mandare le brigate meccanizzate, rischiando uomini e mezzi. Schema che si è ripetuto contro Hamas. Droni e jet hanno usato il meglio della tecnologia, bombe devastanti, missili. Colpi per «negare» i movimenti. I palestinesi, come l’Hezbollah, sono andati sotto terra, nei tunnel. E le perdite sono state significative anche per gli israeliani. Ancora. L’attacco in Libia. L’offensiva aerea ha demolito lo scarso apparato di difesa, però se non ci fossero stati i consiglieri accanto alla miriade di milizie il raìs libico avrebbe resistito a lungo. La Casa Bianca ha scelto l’opzione «dal cielo» per ragioni politiche e diplomatiche. Per ora non considera la missione — senza nome — come una campagna, piuttosto la ritiene un’iniziativa antiterrore. Dunque limitata in mezzi e obiettivi. John Warden, uno degli architetti dell’assalto contro gli iracheni nel 1991, ha spiegato a Daily Beast la teoria dei 5 anelli che prevede di colpire i centri di gravità del nemico: 1) Comandi. 2) Comunicazioni e logistica. 3) Infrastrutture. 4) Sostegno popolare. 5) Truppe. Per ora gli Usa hanno «toccato» tutti gli anelli ma senza l’intensità sufficiente per disarticolare l’Isis che, invece, ha continuato a manovrare su diversi fronti. Il ritornello è noto. Senza designatori che da terra indichino i bersagli diventa complicato agire, difficile distinguere amici e nemici in centri abitati. Solo i marines possono stanare i jihadisti, adeguatisi alle tattiche Usa. Anche qui nulla di nuovo: lo fecero i serbi di Milosevic per sottrarsi alla caccia Nato. Ecco allora che il coro intona l’appello: Obama, basta indugi, 13 schiera i soldati. Concetto ribadito, ieri, dall’ex direttore della Cia Leon Panetta. Critico verso il presidente, ha prefigurato una nuova guerra. Quella dei trent’anni. Guido Olimpio del 08/10/14, pag. 19 La promessa di Diman “Noi donne peshmerga pronte a farci esplodere per fermare i barbari Is” PIETRO DEL RE «MA PERCHÉ la chiamate kamikaze? Il comandante Arin Mirkan ha solo cercato di sfuggire al martirio che le avrebbero inflitto gli islamisti, stuprandola prima di ucciderla. Ha agito nel migliore dei modi: facendone saltare in aria il più gran numero possibile». Anche la ventiduenne Diman Rhada è una comandante peshmerga, ma lei combatte in Iraq, a nord di Mosul, e non in Siria come faceva la Mirkan, sia pure contro lo stesso nemico, le brigate nere dello Stato Islamico. «È diventata per noi tutti un’eroina, e il suo sacrificio ci spinge a lottare, se possibile, con più ardore di prima», dice Diman che raggiungiamo sul suo cellulare al fronte, dove con la sua unità guerreggia da più di un mese. Lei avrebbe fatto la stessa cosa? Si sarebbe fatta saltare in mezzo ai jihadisti? «Credo di sì, perché tutti sanno quello che ci fanno quando ci catturano: prima ci violentano in gruppo, fino all’ultimo dei loro miliziani, e poi ci decapitano. Tuttavia, nonostante l’orrore di una tale eventualità, non so se riuscirei a trovare il coraggio di uccidermi. Bravissima è stata Arin Mirkan, che dopo aver terminato le munizioni ne ha spedito in inferno decine di loro. Il suo gesto fa onore a tutto il popolo curdo, e per averlo compiuto è già entrata nell’olimpo dei nostri martiri più amati. Del suo coraggio, ne sono sicura, parleranno le generazioni future ». Che cosa faceva, prima di combattere? «Insegnavo in una scuola di Sulaymaniyah, nel nord del Kurdistan. Ho anch’io due bambini, come Mirkan. Ed è per loro che mi sono arruolata e che combatto. Proprio come fece mio padre, che era anche lui insegnante e che durante la guerra contro Saddam Hussein imbracciò il fucile per difendere la sua famiglia». Ma non le fanno paura gli islamisti del “Califfato”? «Certo che mi fanno paura, ma mi spaventa ancora di più l’idea che possano entrare in Kurdistan, conquistare altri nostri villaggi e sottomettere la nostra gente. Sono soldataglie assetate di sesso e di potere. Si dicono soldati fedeli di Maometto, ma sono solo uomini senza religione e senza morale. Sono perciò terrorizzata da loro, ma so anche che non posso esimermi dal mio dovere che è quello di essere qui, a difendere la mia patria. Da noi si dice che in ogni curdo si nasconde un peshmerga. È vero solo a metà, perché lo stesso discorso vale per le donne curde. Ma in Kurdistan non tutte le donne hanno la possibilità di battersi contro il nemico». Ha seguito un addestramento militare? «Sì, ma è stato solo per la forma. A combattere, e quindi a sparare, mi ha insegnato mio padre, nelle montagne di Sulaymaniyah, il giorno del mio diciottesimo compleanno. Lo stesso ha fatto con i miei fratelli. Ci sono soldati-donne in molti Paesi del mondo, dagli Stati Uniti a Israele, dalla Francia alla Germania. Ma credo che solo da noi 14 l’addestramento alle armi sia una que- stione di famiglia. Tra i peshmerga si contano circa 16mila donne. Rappresentiamo, con grande fierezza, più del 30 per cento degli effettivi». A proposito, vi sono arrivate le armi promesse nelle scorse settimane da diverse potenze occidentali? «No, alla mia unità femminile non è arrivato nulla. Al fronte attacchiamo e ci difendiamo ancora con i soliti arrugginiti kalashnikov e con i vecchi mortai di sempre. Ma le posso assicurare che a saperli adoperare possono fare molto male anche loro. Il problema è che gli islamisti dispongono di carri armati e di artiglieria pesante moderna e sofisticata. Per questo, appena arrivate a Erbil, le armi americane sono state subito distribuite alle nostre unità d’assalto». La bandiera islamista è appena stata vista sventolare sulle alture nei sobborghi di Kobane, dove si combatte strada per strada. Crede che ce la faranno i peshmerga a difendere la loro città? «Non dipende più da loro, che ce la stanno mettendo tutta, con atti di straordinario eroismo, come quello del comandante Mirkan. Adesso, il futuro di Kobane dipende soltanto dalla coalizione anti-Is, perché gli islamisti hanno concentrato le molte delle loro forze attorno a quella città, e dispongono di armi molto efficaci. In primo luogo dovrebbe intervenire la Turchia, ma non lo fa perché non vuole aiutare i suoi nemici storici del Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan. Ma è suicida non farlo, perché Ankara si ritroverà molto verosimilmente con una città ai suoi confini governata dagli sgherri del califfo». Ormai, con la vostra controffensiva siete arrivati a pochi chilometri da Mosul, che era caduta nelle mani dei miliziani lo scorso giugno. Quanto ci vorrà per riconquistarla? «Credo che potremmo riconquistarla anche domattina. Ma a quale scopo? Che cosa faremmo di tutti i sunniti, e sono tanti, che in questo momento stanno collaborando con gli islamisti? Oggi, la nostra strategia è un’altra. Consiste nel respingere il nemico più in là possibile, per creare una sorta di zona cuscinetto, che ci serve a proteggere il nostro territorio. Un domani, quando dal cielo i caccia della coalizione avranno sufficientemente fiaccato l’esercito del Califfato, potremo forse pensare di prendere Mosul. Purtroppo, però, quel giorno è ancora lontano». Da il Sole 24 ore del 08/10/14, pag. 19 La Commissione Ue verso un rimpasto BRUXELLES. Dal nostro corrispondente Aumentano le possibilità di una revisione delle competenze distribuite ai commissari europei o addirittura di un rimpasto nella Commissione Juncker. Alcune audizioni parlamentari hanno indotto i gruppi politici a chiedere al presidente Jean-Claude Juncker modifiche alla compagine presentata in settembre. Ieri si sono svolte le audizioni di due vice presidenti, Frans Timmermans e Jyrki Katainen. Quest'ultimo è stato criticato perché parco di dettagli sull'atteso piano di investimenti. Le audizioni di almeno sei commissari hanno provocato tensioni tra socialisti e popolari, i due partiti che sostengono il prossimo esecutivo comunitario. A tre commissari sono stati chiesti chiarimenti scritti. Uno è stato riconvocato, il britannico Jonathan Hill, responsabile per i servizi finanziari. Un altro è stato bocciato, o meglio l'ungherese Tibor Navracsics non è stato ritenuto idoneo ad avere il portafoglio per l'istruzione, la cultura e la cittadinanza. Male è andata soprattutto Alenka Bratusek, ex premier slovena, chiamata a gestire da vice presidente della Commissione il progetto di unione energetica. «La persona non ha convinto nessuno - spiegava ieri un funzionario parlamentare -. Popolari e socialisti hanno chiesto a Juncker di sostituirla». Candidata è Tanja Fajon, una deputata slovena. Siccome 15 quest'ultima non ha sufficiente anzianità è possibile un giro di poltrone, se Juncker decidesse di piegarsi alle richieste del Parlamento. Una possibilità potrebbe essere di togliere a Navracsics la competenza della cittadinanza. Accusato di essere troppo vicino al nazionalista presidente ungherese Viktor Orban, questa scelta lo renderebbe più accettabile. Alla signora Fajon verrebbero affidati i trasporti (oggi nelle mani di Maros Sefcovic che assumerebbe il portafoglio della signora Bratusek e la vice presidenza). L'altra ipotesi sarebbe di dare i trasporti a Navracsics, trasferendo alla signora Fajon l'attuale portafoglio dell'ungherese e nominando comunque Sefcovic alla vice presidenza. L'accordo grazierebbe il francese Pierre Moscovici, lo spagnolo Miguel Arias Cañete e l'inglese Jonathan Hill, tutti e tre criticati non poco. Qualsiasi cambiamento nella compagine comunitaria deve essere deciso dallo stesso Juncker. Una portavoce del presidente eletto si è limitata a spiegare: «Il signor Juncker è molto contento del modo in cui si stanno svolgendo le cose». Il tentativo è di trovare un accordo che permetta al Parlamento di fare la voce grossa e alla Commissione di salvare la faccia. Nel frattempo sempre ieri i deputati hanno dato il suo benestare a Federica Mogherini ad Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza, mentre sono stati ascoltati dai parlamentari l'olandese Timmermans e il finlandese Katainen. Preso di mira è stato soprattutto quest'ultimo che non ha voluto, o potuto, dare dettagli sull'atteso piano di investimenti da 300 miliardi di euro che la nuova Commissione dovrebbe presentare in autunno, superato il voto di fiducia previsto il 22 ottobre. Katainen ha ammesso che ci sarà, oltre a denaro privato, anche denaro pubblico, ma senza creare nuovo debito. Non ha specificato chiaramente se i fondi saranno nuovi o riciclati, provocando la viva reazione di molti socialisti. Interpellato dalla stampa, l'ex premier finlandese, accusato di essere troppo attento al risanamento dei conti pubblici, ha anunciato di lavorare a una interpretazione della flessibilità concessa dai Trattati con cui valutare l'andamento delle finanze pubbliche. Timmermans, invece, è stato apprezzato dai deputati. Primo vice presidente della Commissione, responsabile della semplificazione amministrativa, l'attuale ministro degli Esteri olandese ha annunciato che «entro l'anno prossimo presenterà una lista di provvedimenti in attesa di approvazione da annullare». Anche con l'obiettivo di strizzare l'occhio agli euroscettici inglesi, ha promesso una revisione radicale della legislazione europea entro la fine del 2015. Dell’8/10/2014, pag. 3 La legge catalana contro l’omofobia all’avanguardia in Europa Spagna. Previste pesanti sanzioni per chi discrimina, "per eradicare l’omofobia, la bifobia e la transfobia" Luca Tancredi Barone Una circolare come quella del ministro Alfano, o le proteste delle «sentinelle in piedi» contro il collettivo gay, fra pochi giorni in Catalogna saranno gravemente sanzionabili. Giovedì scorso il parlamento di Barcellona a stragrande maggioranza ha approvato la «legge per garantire i diritti delle lesbiche, dei gay, dei bisessuali, delle persone transgender e degli interessusali e per eradicare l’omofobia, la bifobia e la transfobia». 16 Si tratta, secondo i suoi promotori, le associazioni Lgbti catalane, di una legge pionieristica in Europa perché prevede un importante regime sanzionatorio contro qualsiasi forma di discriminazione e, aspetto più controverso, un’inversione dell’onere della prova: come in altre legislazioni di tutela, per esempio contro ilmachismo, per questo delitto saranno gli accusati a dover dimostrare la loro innocenza. Secondo il Partido popular, l’unico a votare contro la legge e i deputati di Unió (democristiani, formano parte del partito al governo in Catalogna, Convergència i Unió), questa norma viola la presunzione di innocenza. Secondo i promotori, avallati dal «Consiglio di garanzie statutarie» catalano, una specie di consulente costituzionale a livello locale, invece, questa è l’unica forma efficace di tutela per le vittime di una discriminazione spesso molto difficile da dimostrare. La legge presenta una serie di aspetti innovativi, come l’obbligo per le amministrazioni di vigilare contro la discriminazione, per esempio stabilendo misure di appoggio alle organizzazioni che difendono i diritti del collettivo Lgbti, o modificando qualsiasi norma o atto amministrativo che non rispetti la diversità. Si crea un organo consultivo, il Consiglio nazionale delle lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e intersessuali, e si obbligano le scuole e le università al rispetto per la diversità nell’orientamento sessuale e l’identità di genere. La legge specifica anche l’obbligo per i mezzi di comunicazione di rispettare questi principi e prevede che vengano emesse raccomandazioni sull’uso corretto del linguaggio. Anche il sistema sanitario è obbligato a garantire il diritto a ricevere attenzione «in condizioni di oggettiva uguaglianza». Una sessione a parte è dedicata alla discriminazione in ambito lavorativo. Alle famiglie è dedicato un articolato specifico, per garantire fra l’altro che non ci sia discriminazione nella valutazione per i processi di adozione o che nelle coppie di fatto, nel caso di morte di uno dei due partner, all’altro venga effettivamente garantito il diritto di prendere parte «nelle stesse condizioni che in un matrimonio» alle pratiche relative alle disposizioni funebri. A parte le forti sanzioni economiche, da 128 a 14mila euro, che si aggiungono a quelle eventualmente già presenti nel codice penale, la legge prevede che le persone Lgbti ricevano dall’amministrazione pubblica una «protezione integrale, reale ed effettiva». Unió si è limitata a votare contro l’inversione della prova, le norme scolastiche e le sanzioni, ma per disciplina di partito non ha votato contro la legge. Il Pp ha sottolineato che la legge è ideologica, ma che sono comunque contro ogni tipo di discriminazione. La chiesa cattolica si è scagliata contro una legge che potrebbe punire le dichiarazioni di molti suoi vescovi. Il segretario dei socialisti catalani, Miguel Iceta, uno dei primi politici in Spagna a dichiarare la propria omosessualità, ha detto durante la votazione, fra gli applausi del pubblico, che sente «rabbia quando qualcuno vuole negare la discriminazione che soffriamo o abbiamo sofferto». 17 INTERNI del 08/10/14, pag. 1/31 IL PARLAMENTO LATITANTE STEFANO RODOTÀ CON una decisione inattesa, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha respinto i ricorsi di cinque Stati dando via libera al riconoscimento dei matrimoni tra persone dello stesso sesso. CON una circolare assai prevedibile, il ministro dell’Interno ha dato disposizioni ai prefetti perché ingiungano ai sindaci di non procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile dei matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso. La Corte americana, notoriamente conservatrice, tuttavia non rinuncia a guardare alla società ed esercita i suoi poteri per rendere possibile l’esercizio di un diritto ormai sempre più largamente riconosciuto, modificando un suo precedente orientamento negativo (anche se non è escluso un suo ulteriore intervento). Il nostro ministro dell’Interno si chiude in una lettura formalistica della legislazione vigente e sfugge ad una precisa responsabilità politica, quella che da anni spetta al Parlamento che, proprio in questa materia, è stato ripetutamente sollecitato ad intervenire dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione e che, invece, si è chiuso in un inammissibile silenzio, in una grave e deliberata omissione di atti di sua competenza. La decisione di molti Comuni di ammettere la trascrizione di quei matrimoni non risponde ad un capriccio o ad una impuntatura ideologica. Fa parte di un modo di intendere la democrazia “di prossimità”, coerente con il ruolo attribuito in modo sempre più netto ai Comuni come istituzioni di frontiera, alle quali i cittadini possono immediatamente rivolgersi. E l’attenzione delle persone è tanto più forte quanto maggiore è la distanza e il disinteresse delle altre istituzioni. Così si spiegano, tra l’altro, le iniziative comunali sui registri dei testamenti biologici e sulla trascrizione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, materie che toccano nel profondo la vita delle persone, la loro libera costruzione della personalità riconosciuta dall’articolo 2 della Costituzione. È comprensibile, allora, la reazione dei Comuni che hanno deciso di impugnare la circolare del ministro, proprio perché in essa vedono una violazione del diritto delle persone ad essere trattate in modo conforme ai principi costituzionali, quello d’eguaglianza in primo luogo. Nella circolare, infatti, compare un errore altre volte commesso, quello di interpretare il concetto di matrimonio solo in base alle norme del codice civile, come se la Costituzione non esistesse e come se non esistessero le norme che impongono di guardare ad una serie di situazioni nella prospettiva europea. Vedremo come risponderanno i giudici chiamati a decidere sulla legittimità di una circolare che si presenta come uno strumento volto a restaurare una legalità violata dalle iniziative dei sindaci. Fin da ora, però, si possono mettere in evidenza alcune conclusioni e argomenti impropri, a cominciare dall’affermazione secondo la quale sarebbe possibile procedere all’annullamento delle trascrizioni già effettuate. Bisogna comunque chiarire che la trascrizione si limita ad accertare l’esistenza di un matrimonio celebrato all’estero, senza attribuirgli efficacia nell’ordinamento italiano. Ma la trascrizione non è irrilevante perché, ad esempio, può rendere più agevole rivendicare i diritti che già la Corte di Cassazione ha riconosciuto in via generale a questa forma di unione. E perché la mancata trascrizione farebbe prevalere la cittadinanza nazionale su quella europea, privando le persone del diritto di vedere applicate in Italia 18 norme del diritto europeo, in contrasto con quanto stabilito nel 2011 dalla Corte di giustizia dell’Unione. Proprio perché l’Italia è istituzionalmente collocata nel contesto europeo, la trascrizione, entro questi limiti, non può essere considerata in contrasto con l’ordine pubblico internazionale. Al contrario, evita una discriminazione fondata sulla cittadinanza e sull’orientamento sessuale. La circolare, tuttavia, riapre la questione politica del riconoscimento di queste unioni. Questione che è costituzionale e che, quindi, non appartiene ad una discrezionalità politica che consente al legislatore di stabilire più o meno arbitrariamente se occuparsi o no di una determinata questione. Infatti, la Corte Costituzionale, fin dal 2010, ha riconosciuto la rilevanza delle unioni tra persone dello stesso sesso, poiché siamo di fronte ad una delle “formazioni sociali” di cui parla l’articolo 2 della Costituzione. Da questa constatazione la Corte trae una conclusione importante: alle persone dello stesso sesso, unite da una convivenza stabile, spetta «il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia». Sono parole impegnative: un diritto fondamentale attende il suo pieno riconoscimento. La Corte di Cassazione è stata ancor più netta dei giudici costituzionali con una sentenza del 2012, riprendendo alcune conclusioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha affermato che, essendo ormai venuto meno il requisito della diversità di sesso e poiché si è in presenza di un diritto fondamentale, le coppie formate da persone dello stesso sesso possono già rivolgersi ai giudici «per far valere, in presenza di specifiche situazioni, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata». Quell’atto del ministro, insieme ad esplicite dichiarazioni contro ogni riconoscimento delle unioni gay, ci dice che si persevera nell’ignorare quelle esplicite indicazioni. Al Nuovo centrodestra (nuovo?) interessa affermare una identità, presentarsi come il fermo bastione dei valori non negoziabili, incurante dei diritti già riconosciuti alle persone. Di questo atteggiamento strumentale è prigioniero il governo, dal quale certo non arriverà alcun tweet per ricordare quale sia la retta via costituzionale. E alla maggioranza parlamentare verranno rivolti fermi inviti a non prendere iniziative avventate, “divisive”, che possano mettere a rischio la sopravvivenza dell’esecutivo. È tempo di sacrifici dei diritti civili e sociali, e quindi è difficile sperare in reazioni adeguate, non dico in una diffusa e sacrosanta indignazione. Perché questo possa davvero accadere, servirebbe una cultura politica vitale, che è proprio quello di cui continuamente registriamo la mancanza. È malinconico dover registrare, dopo la distanza tra Stati Uniti e Italia, anche quella che divide la nostra discussione politica e il parlar chiaro invocato da papa Francesco. Conosciamo le posizioni della Chiesa cattolica nella materia qui considerata. Ma il tema è stato messo all’ordine del giorno, fa parte della sua “agenda politica”, invita al dialogo, con un atteggiamento che è l’opposto del formalismo e delle chiusure pregiudiziali, e che dovrebbe scoraggiare i politici italiani da inutili contorsioni per assicurarsi qualche aiuto dalle autorità ecclesiastiche. Questa constatazione non è un invito ai laici perché si trasferiscano in un altro spazio, ma perché riscoprano l’importanza e la dignità di riconoscere il proprio. Dell’8/10/2014, pag. 2 Da Nord a Sud, chi ha detto sì Le trascrizioni. La sentenza di Grosseto, poi Udine, Empoli... 19 Alcuni tra i principali comuni italiani che hanno già trascritto un matrimonio omosessuale o che si sono politicamente impegnati a farlo. UDINE da sei giorni il Comune ha trascritto il primo matrimonio tra due donne, un’italiana e una sudafricana, residenti in Belgio e con due bambini adottivi. E subito si è scatenato il solito Gian Luigi Gigli, deputato di Per l’Italia (ex Scelta civica), che ha invitato il ministro Alfano a dare disposizioni al Prefetto per un intervento correttivo. Il sindaco Furio Honsell ieri ha ribadito che «una questione come questa non va risolta con circolari burocratiche, ma deve essere portata in parlamento o davanti alla Corte costituzionale». Altri due comuni friulani, Pordenone e Trieste, a guida centrosinistra, hanno deciso di valutare caso per caso le singole richieste. MILANO il Consiglio comunale, approvando a maggioranza un documento sintesi tra i testi presentati dal radicale Marco Cappato e da Luca Gibillini di Sel, ha dato giusto lunedì il via libera al sindaco Giuliano Pisapia di trovare le modalità per la trascrizione dei matrimoni omosex contratti all’estero. 25 i voti a favore, 5 contrari e 2 astenuti: “no” di Ncd, Fdi e Forza Italia e due astensioni in maggioranza (Alessandro Giungi e Andrea Fanzago del Pd), mentre la Lega non ha partecipato al voto. BOLOGNA dal 15 settembre si possono trascrivere le nozze tra persone dello stesso sesso. Ieri il sindaco, Virginio Merola, ha risposto al ministro Alfano con un secco «io non obbedisco». REGGIO EMILIA Il consiglio comunale ha approvato il 9 settembre la mozione presentata a favore del riconoscimento dei matrimoni tra persone dello stesso sesso. Nel maggio 2013 il sindaco Graziano Delrio, oggi sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, si era detto contrario. FIRENZE è stata una delle prima città italiane, nel 1998, a dotarsi di un registro delle unioni civili e dal primo ottobre il consiglio comunale ha dato il via libera per la trascrizione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, contratti all’estero. Il sindaco Nardella è chiamato a prendere provvedimenti. GROSSETO è la prima città italiana a trascrivere le nozze gay per decisione di un giudice. Con una sentenza nell’aprile 2014 il Tribunale ha ordinato al sindaco Emilio Bonifazi di registrare le nozze tra due uomini, sposati a New York. EMPOLI la sindaca Brenda Bernini il 15 settembre ha dato l’ok alla trascrizione, a patto che almeno uno dei due coniugi sia cittadino residente del comune. Il prefetto di Firenze, Luigi Varratta, ha però invitato il primo cittadino empolese a non trascrivere le nozze. FANO il comune marchigiano ha trascritto il primo matrimonio tra gay il 30 maggio scorso. Il sindaco, Stefano Aguzzi, si è assunto tutte le responsabilità del gesto, «anche nei confronti del dissenso interno alla maggioranza». ROMA il sindaco, Ignazio Marino, qualche settimana fa ha dato il suo assenso alla proposta di trascrivere le nozze omosex, dicendo che «chi è contrario appartiene al secolo scorso». Il vicesindaco, Luigi Nieri, in seguito alla decisione di Alfano ha detto: «È una cosa aberrante, oltre che una scelta lesiva dell’autonomia dei sindaci a riguardo» NAPOLI da luglio ha dato il via alle trascrizioni. Il Comune ha deciso che «ricorrerà nelle sedi giudiziarie competenti» contro la decisione del ministro dell’Interno. Il sindaco sospeso De Magistris crede «che sia un fatto negativo, in contrasto con la Costituzione repubblicana e le libertà civili in essa sancite». 20 Dell’8/10/2014, pag. 3 EDITORIALE I diritti possono attendere, Alfano no Il commento. Se c’è da ostacolare un’apertura, oscurare una libertà, in Italia ci si muove lesti. Il punto, allora, è che il governo Renzi non fa eccezione rispetto ai suoi predecessori nel considerare i diritti civili come l’ultima ruota del carro Tommaso Giartosio Il veto del ministro degli Interni è solo l’ultimo episodio del tira e molla del governo Renzi sui diritti gay. La legge sulle unioni civili, promessa entro i primi 100 giorni di governo, è slittata al remoto traguardo dei primi 1000. Le misure per l’adozione del figlio del partner, promesse addirittura nelle primarie Pd del 2012, sono state scaricate dal premier insieme al ddl Cirinnà; al loro posto l’annuncio di un fantomatico intervento diretto del governo, con tempi e contenuti ancora ignoti. (E poi dicono l’annuncite.) La legge sull’omofobia approvata in Commissione Giustizia sembra ancora lontana dal giungere in aula; a livello locale, in Trentino (maggioranza di centrosinistra), l’approvazione di una legge analoga slitterà ancora fino al 2015. Nulla scorre. Tutto rallenta, si dilunga, si arresta. Effetti della campagna omofobica delle Sentinelle in piedi (che, per inciso, vanno affrontate tutt’al più con un silenzioso volantinaggio, non certo con cori e uova)? No, perché la tendenza è di lungo periodo, percorre tutta la pluridecennale storia della pluriabortita legislazione pro-omosessuali in Italia. Le solite lungaggini e procrastinazioni all’italiana, allora? No, perché Alfano è stato rapidissimo a bloccare la trascrizione dei matrimoni celebrati all’estero. Quando si vuole, l’iter di un provvedimento è istantaneo, come testimonia la convulsa conclusione del caso Englaro. Se c’è da ostacolare un’apertura, oscurare una libertà, ci si muove lesti. Il punto, allora, è che il governo Renzi non fa eccezione rispetto ai suoi predecessori nel considerare i diritti civili come l’ultima ruota del carro, una materia su cui intervenire (dopo lunghe, articolate promesse) solo quando non è assolutamente più possibile rimandare di un solo attimo. Solo che la tutela dei diritti è per definizione sempre urgente — il che la rende indefinitamente dilazionabile. Questo regime di temporalità perennemente sospesa non porrebbe problemi se lesbiche e gay d’Italia vivessero oggi come vivevano fino a pochi decenni fa. Se continuassero cioè a trascinare l’esistenza cogliendo l’attimo, e a sperare più che altro di non finire in manicomio o al confino. Se i più ottimisti o illusi si augurassero progressi marginali legati all’evoluzione dei costumi, non certo all’azione dei governanti. Tale è stato per secoli il tempo degli omosessuali: un fiume a meandri intrecciati che non sembra neanche muoversi. Ma le cose cambiano. Globalmente l’emancipazione glbt procede con una rapidità senza precedenti, doppiando più volte qualsiasi altro gruppo discriminato. Non si tratta di stabilire graduatorie, ma di constatare che un dato modo di abitare il tempo è cambiato. Il carpe diem della gioia elusiva, dell’attimo assoluto e fuggente, così radicato nell’esperienza omosex — tutto questo non è scomparso. Ma la temporalità queerludica e discontinua studiata da Judith Halberstam si è affacciata su un altro, potentissimo presente: l’adesso non dilazionabile della rivoluzione civile e del senonoraquando. E questo, anche gli omosessuali italiani non possono e non vogliono ignorarlo. Su quali alleati possono contare? Ne cito solo due. I tribunali, legati al kairòs (il tempooccasione da non perdere) della sentenza: per esempio quello che a Roma ha permesso la prima adozione entro una coppia lesbica, o quello che a Washington ha aperto la strada al matrimonio per tutti in una folla di stati Usa. E poi c’è una falange rivoluzionaria ben decisa a rivendicare diritti. Gente che alle privazioni non può in alcun modo sopperire, 21 e quindi parla chiaro, non perde un minuto, chiede tutto e subito per i gay e le lesbiche. I loro bambini. Dell’8/10/2014, pag. 5 Obiettivo maggioranza assoluta. Renzi: non temo agguati Senato. Oggi in aula il maxiemendamento, stasera il voto di fiducia. Forza Italia alza la voce, ma per finta Andrea Colombo Matteo Renzi avrà ciò che voleva: il voto di fiducia nello stesso giorno del minivertice europeo di Milano. Non sarà un’impresa difficile. La minoranza del Pd si comporterà come da copione: proteste rumorose, ma sarà già tanto se uno sparuto drappello non parteciperà al voto. Anche l’opposizione per modo di dire, quella azzurra, è pronta a fare la sua parte. Discorsi roventi in aula: persino Maurizio Gasparri finge di indignarsi per l’idea di mettere la fiducia su una delega, oltretutto in bianco. Forza Italia non voterà per il Jobs Act, e nessuno e sarà più felice di Renzi. Non è un ostacolo nella marcia del Nazareno ma la prova che funziona a dovere. Se poi, per caso stranissimo, fossero proprio necessari i voti a disposizione di Arcore, il socio ha già garantito che nulla osta a disporre di alcune assenze strategiche per abbassare il quorum. Renzi otterrà la sua fiducia, e punta con molte e sode speranze di successo a quota 161, maggioranza assoluta. Si presenterà così a Milano sbandierando l’istantanea di un paese infine disciplinato, che se ne frega delle minoranze interne al Pd così come dei borbottii del sindacato. L’emendamento arrivato ieri in tarda serata a palazzo Madama, quello su cui verrà posta la fiducia e che avrebbe dovuto limare e addolcire il testo originario miscelandolo con i risultati della direzione Pd della settimana scorsa, concede pochissimo, quasi nulla. Il reintegro dei licenziati per motivi disciplinari o per discriminazione non sarà neppure nominato. S’impegnerà a inserirlo nei decreti attuativi il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Parola sua e si sa che Poletti è uomo d’onore, un po’ come Matteo Renzi. Ma cosa significherà davvero lo spettrale passaggio sul reintegro, questo non si sa. «Bisogna chiarire la fattispecie e attendere il decreto legislativo», ha tagliato cortissimo ieri mattina il capo del governo in conferenza stampa. Significa che una volta incassata la fiducia come gestire la faccenda sarà nella totale discrezione del governo. La sola vera concessione alla minoranza sarà chiarire che eventuali demansionamenti non possono comportare abbassamenti di stipendio. Non è poca roba: è niente in assoluto. Il demansionamento, in effetti, non colpisce tanto le retribuzioni quanto il ruolo lavorativo. A parità di stipendio, qualunque datore di lavoro potrà punire dipendenti scomodi relegandoli in lavori al di sotto delle loro competenze. Giusto per la cronaca, è una logica molto vicina a quella seguita negli anni ’50 dalla Fiat di Valletta per creare i reparti confino nei quali rinchiudere e rendere inoffensivi gli operai più combattivi. Evviva. Poi ci sarà una limitazione degli ambiti in cui è possibile ricorrere al metodo dei voucher e la promessa che dal 2015 saranno aumentati i fondi per gli ammortizzatori sociali. Senza ulteriori specifiche perché quella un po’ è materia di legge di stabilità e un po’ spetta alla decisione di un governo ogni giorno di più svincolato da qualsiasi controllo. E’ su questa base che oggi il senato concederà una assurda fiducia in bianco a una delega ancora più in bianco. La democrazia parlamentare nell’epoca di don Matteo. Matteo Renzi arriva alla prova di oggi senza alcuna suspence: quando ieri mattina ha detto di «non temere alcuna imboscata in aula» era per una volta 22 sincero. Qualche problema era sorto non sull’approvazione ma sui tempi della stessa. In mattinata a sorpresa per quattro volte consecutive era mancato in aula il numero legale, la discussione generale era così slittata alla seduta pomeridiana. Si erano sommati diversi dissensi, e Forza Italia aveva dato il colpo decisivo facendo uscire i suoi parlamentari. In fondo a Silvio Berlusconi non dispiace ricordare all’alleato che del suo sostegno ha pur sempre bisogno. Anche la fiducia è così slittata, ma solo di alcune ore. Poco male: l’importante è arrivare al vertice con la vittoria in pugno. E la vittoria, in questo caso, non è solo lo scalpo quasi inutile dell’articolo 18, ma la dimostrazione che in pochi mesi l’astro emergente ha saputo mettere in riga il suo Paese. Se basterà a calmare le ire nord-europee per il rinvio del pareggio di bilancio è impossibile dirlo oggi. Ma di certo Matteo Renzi non mancherà di calare sul tavolo la carta appena conquistata. del 08/10/14, pag. 2 Il premier: “Ora abbiamo le carte in regola”. Ma Palazzo Chigi valuta il rischio infrazione Ue FRANCESCO BEI ROMA . Sminuzzata l’opposizione interna, divisi i sindacati, Matteo Renzi parte oggi per Milano sicuro che a Roma tutto andrà liscio come l’olio. «Non penso ci siano rischi. Saranno pochissimi quelli che non diranno sì. Anche perché — ripeteva ieri sera ai fedelissimi — è chiaro che se il Senato non vota la fiducia, io faccio subito le valigie». Visti i numeri di palazzo Madama e l’assenza di alternative, si tratta di un’ipotesi dell’irrealtà. Nelle ultime telefonate tra il capogruppo Luigi Zanda, Poletti, Guerini e Boschi, la dissidenza viene circoscritta a «due o tre persone». Che oltretutto non voteranno contro il Job’s Act ma si limiteranno a non partecipare al voto. Nulla di preoccupante insomma. E se anche si fosse manifestata un’opposizione più numerosa, tale da mettere a rischio il governo, Forza Italia aveva riservatamente fatto capire agli emissari di palazzo Chigi di essere pronta a «bilanciare » con altrettante assenze quelle del Pd. Pur di non provocare una crisi di governo. Dunque oggi pomeriggio, più o meno negli stessi minuti in cui Renzi a Milano siederà accanto a Merkel e Hollande per la conferenza stampa congiunta al termine del summit europeo sul lavoro, il Senato inizierà la chiama per il voto sulla riforma del lavoro. «Una rivoluzione copernicana », nel giudizio di Renzi, che servirà soprattutto a rafforzare la posizione negoziale italiana in Europa e dimostrare di avere «le carte in regola». Perché la vera partita per il premier non è quella contro Civati e Mineo, ma quella iniziata nell’Ue fin dal vertice di giugno. Ormai le carte sono sul tavolo. La Francia ha deciso provocatoriamente di sforare il tetto del 3% quasi rivendicandolo. Una sfida aperta alla Germania e alle regole del Fiscal compact destinata a portare all’apertura di una procedura d’infrazione. Ma anche l’Italia con il Def ha scelto di non rispettare il percorso stabilito dai trattati, rispettando la soglia del 3 per cento nel rapporto Deficit/pil ma allontanando il pareggio di bilancio di due anni. Il tutto mentre il debito pubblico continua a correre. Dunque lo spettro di una procedura d’infrazione, con le multe del caso, oscura anche l’orizzonte italiano. Eppure il premier, ed è questa la novità, nei ragionamenti di queste ore sembra aver messo nel conto anche 23 questa ipotesi. Senza troppe preoccupazioni. «Se anche aprissero una procedura contro di noi — l’hanno sentito dire a palazzo Chigi — non sarebbe un dramma. Certo, Padoan preferirebbe evitarla, ma se succedesse non cadrebbe il mondo». Secondo il presidente del Consiglio sarebbe un caso diverso da quello francese. A Parigi la situazione è considerata molto più grave. E quindi il “richiamo” per noi sarebbe di entità più ridotta. E se mai dovesse accadere, «non sarà prima di aprile». Quindi «non ci saranno effetti immediati». Nel frattempo la delega sul lavoro sarà approvata e i decreti delegati saranno stati emanati, rispettando una delle principali richieste che sia l’Ue che Mario Draghi hanno rivolto al governo. Quanto alla partita interna al Pd, Renzi ormai è sicuro di aver “pacificato” la minoranza. «Gli interventi di Bersani e D’Alema all’ultima direzione mi hanno fatto gioco perché hanno esagerato », ha spiegato ai suoi. Adesso l’opposizione sembra messa con le spalle al muro, bloccata dalla paura di portare il dissenso fino alle estreme conseguenze (e alla crisi di governo). In qualche modo lo riconosce lo stesso Bersani, in un articolo scritto per il quotidiano on line “ideecontroluce”, in cui rievoca la vocazione nazionale del Pci: «Ci è rimasto in vena questo concetto di responsabilità nazionale, che è ineludibile per un comunista italiano, e che ci ha fregati». Una «responsabilità nazionale» che impedisce crisi al buio, anche se nell’emendamento che il governo presenterà stamane non ci sarà una sola riga sulle modifiche all’articolo 18 dello Statuto. La conclusione della direzione del Pd (reintegro in caso di licenziamento disciplinare) sarà sussunta in un intervento in aula del ministro Poletti, che si limiterà a promettere di tener conto delle richieste della minoranza dem quando si andrà a scrivere i decreti delegati. Un impegno politico, niente di più. E il Parlamento a quel punto non avrà più voce in capitolo, dato che il parere delle commissioni sui decreti delegati non è vincolante. Insomma, sulla vicenda del Job’s Act, ancor più che sulla riforma costituzionale, Matteo Renzi ha sbaragliato le opposizioni interne. Anche gli “avversari” dell’Ncd glielo riconoscono. «Io devo stare zitto per non compromettere il risultato finale — confida l’alfaniano Maurizio Sacconi — ma devo dire che Renzi mi ha stupito. All’inizio non avevo alcuna fiducia, pensavo fosse solo un bluff, ma mi sono dovuto ricredere. Mi sbagliavo: del resto all’inizio anche su Tony Blair non avevo una grande opinione e poi si è visto quello che ha fatto». Se Renzi suscita l’ammirazione di Sacconi, nell’ala sinistra del partito accende sentimenti opposti. E ai renziani non è sfuggito ieri pomeriggio, nel cortile di Montecitorio, il lungo faccia a faccia tra Pippo Civati e il coordinatore di Sel Nicola Fratoianni. Primi passi verso un nuovo soggetto politico? Dell’8/10/2014, pag. 1 Fiducia cieca Andrea Fabozzi Non bastava la delega in bianco, non bastava l’auto fiducia dell’esecutivo a se stesso, il governo aveva in serbo un’altra umiliazione per il parlamento. Ha imposto ai senatori di discutere tutto il pomeriggio un disegno di legge che non conoscono. Che nessuno ancora ufficialmente conosce. E i senatori lo hanno fatto, offrendo qualche ragione a chi ne teorizza l’inutilità e accettando di dibattere il disegno di legge delega, cosiddetto jobs act, che il governo stava intanto riscrivendo. Quando oggi lo leggeranno avranno appena il tempo di approvarlo. Con la fiducia. Il principio della separazione dei poteri continuiamo a trovarlo in Costituzione, dove restano stabiliti limiti assai rigorosi per la delega del potere legislativo all’esecutivo: in un 24 sistema parlamentare è un’eccezione. Ma il nostro è ancora pienamente un sistema parlamentare? La legge delega conosce da alcuni anni una crescente popolarità. Governi che nemmeno le leggi elettorali iper maggioritarie mettono al riparo da maggioranze incoerenti hanno riscoperto questo strumento per incassare quello che è stato chiamato un «dividendo politico» immediato. Possono così annunciare grandi «riforme» mesi prima di essere smentiti dagli effettivi decreti che al limite non arrivano mai, magari perché nel frattempo il governo è caduto. Deleghe ampie e poco circostanziate non sono una novità del governo Renzi, e neanche la fiducia purtroppo lo è, pur essendo le leggi delega assimilate, per la loro delicatezza, alle leggi costituzionali. Nel regolamento del senato è previsto l’obbligo di discuterle in aula. E in effetti ieri l’aula ne ha discusso. Ma ha discusso sul niente. Quella che è nuova è l’arroganza nell’imporre al parlamento di ratificare senza indugio tutto quello che si compone nel circuito esclusivo di palazzo Chigi, o al massimo tra palazzo Chigi e Arcore. Nel lanciarsi sempre in nuove forzature, il presidente del Consiglio certo si giova della sua inesperienza istituzionale e certo conta sull’impopolarità del Palazzo: è in questo fino in fondo un extraparlamentare. Con la riforma elettorale a imitazione di quella appena dichiarata incostituzionale ha tracciato un solco, con la riforma costituzionale dettata ai parlamentari ha rotto gli argini; gli scaltri cedimenti tattici della minoranza interna al suo partito gli sono serviti da incoraggiamento. E non ha ancora dovuto saggiare quel freno che la Consulta o il Quirinale hanno saputo porre. Quando c’era Berlusconi. del 08/10/14, pag. 30 IL DESTINO DEI PARTITI SENZA ISCRITTI PIERO IGNAZI SERVONO ancora gli iscritti ai partiti? O sono il residuato di un tempo mitico e lontano in cui masse (?) di militanti partecipavano intensamente e infaticabilmente ad ogni attività del partito, e con il loro piccolo, modesto obolo della tessera fornivano linfa vitale alla loro beneamata organizzazione? In tutti i paesi europei il calo verticale delle iscrizioni e il sempre più ridotto impegno dei membri indicano una tendenza al declino. In Italia, negli ultimi vent’anni, le fortune dei partiti hanno oscillato paurosamente ma, in complesso, le loro organizzazioni hanno tenuto abbastanza. Questo perché la mitologia dell’iscritto quale “ambasciatore tra società e leadership”, alla fine, ha pervaso anche la destra. Se Fi era nata in dispetto ai partiti tradizionali, e Berlusconi non faceva altro che parlare di movimento evitando di nominare invano quel nome terribile, poi i più accorti e navigati consiglieri lo convinsero che di una cosa che assomigliasse ad un partito c’era proprio bisogno. E così anche Fi si mise a reclutare ed inquadrare i propri sostenitori vantando cifre mirabolanti di adesioni, addirittura 401.004 a fine febbraio 2007, record storico dopo i 312.863 del 2000; e tutta quella massa di iscritti era suddivisa in ben 4.306 coordinamenti comunali. Altro che partito “leggero”. E an- cora oggi, persino chi incarna l’anti-partito per eccellenza, il M5s, dichiara orgogliosamente di avere più di mille meetup (termine esotico per indicare le sezioni) e più di 100 mila iscritti, secondo quanto affermato pubblicamente da Gianroberto Casaleggio nel maggio scorso. Il punto è che l’alto numero di iscritti rafforza la legittimità del partito: dimostra che è in grado di raccogliere consensi non effimeri e convinti, che ha una capacità di convinzione nei confronti dei cittadini più forte del semplice rito sporadico del voto, che dispone di “truppe” mobilitabili all’occasione prima di altri e più intensamente di altri. In sostanza, che 25 il rapporto con la società è profondo e ampio: non è limitato solo ai professionisti della politica, cioè agli eletti e ai dirigenti nazionali. Tutte ragioni, insomma, per fare dell’iscrizione un obiettivo centrale di ogni organizzazione partitica. Certo in un periodo di rampante antipolitica ha del miracoloso convincere qualcuno a fare o rinnovare un passo così deciso verso un partito. E magari a sostenerlo econo- micamente. Tutti i partiti — meno uno, il Pvv olandese del populista Geert Wilders che ha un solo aderente, lui stesso — cercano quindi di reclutare nuovi membri. Per smuovere l’indifferenza, scontando l’ostilità inattaccabile di quelli che hanno voltato le spalle alle politica e non ne vogliono più sapere, molte formazioni europee hanno fornito ulteriori incentivi agli iscritti: principalmente poter scegliere direttamente, senza intermediazioni, i dirigenti e i candidati alle elezioni di ogni livello, ed essere consultati con un referendum sulle grandi questioni (memorabile a questo proposito il referendum sull’adesione o meno al trattato costituzionale dell’Ue indetto dai socialisti francesi nel 2004 al quale partecipò l’83% degli iscritti!). Questi incentivi, in realtà, non hanno invertito la tendenza negativa. L’emorragia di iscritti continua più o meno intensamente ovunque in Europa. E il Pd, inevitabilmente, segue la tendenza. Però ha aggiunto qualcosa in più per scoraggiare le iscrizioni: l’avere incluso anche gli elettori nei processi decisionali interni. Coerentemente con quanto è scritto nell’articolo 1 dello statuto del Pd, approvato a suo tempo (2007) dai vecchi esponenti della ditta e promosso soprattutto dalla componente prodiana — “il partito (...) è costituito da elettori ed iscritti“ —, le scelte più importanti sono state demandate alla più ampia platea dei sostenitori. In realtà, costoro, a norma di statuto, dovrebbero essere inclusi in un apposito Albo, ma se ne sono perse le tracce… Ad ogni modo, nel momento in cui iscritti ed elettori sono sullo stesso piano, l’incentivo a prendere una tessera sfuma ulteriormente. L’evaporazione degli iscritti pone però un problema non irrilevante perché marginalizza gli spazi e le occasioni di discussione e di elaborazione politica. Tutte le leggi sui partiti che la maggior parte dei paesi europei ha introdotto specificano che, oltre al momento della scelta e della decisione, siano previsti anche momenti di discussione interna. Se questo aspetto viene invece considerato residuale perché tutto è rivolto a mobilitare la partecipazione dell’opinione pubblica nelle scelte dei candidati o dei leader, il partito perde linfa vitale. Così contano gli slogan e l’immagine. Il Pd, come altri partiti peraltro, rischia di configurarsi come un’arena fluida e destrutturata dove il meccanismo della incoronazione-legittimazione plebiscitaria vince sulla definizione collettiva di politiche. Il destino dei partiti senza iscritti e senza sedi di dialogo e riflessione è quello di ridursi ad uno spazio dove si mettono in scena scontri di personalità. E dove i leader si appellano direttamente all’opinione pubblica saltando a piè pari quel ferrovecchio di un partito dissanguato. Questa modalità di organizzazione è funzionale alle leadership con pulsioni plebiscitarie ma isterilisce la democrazia perché il dialogo ammutolisce. del 08/10/14, pag. 4 Democrat contro Casson. Lui: “Mi autosospendo” NO ALL’UTILIZZO DELLE INTERCETTAZIONI DI AZZOLLINI. IL SENATORE LASCIA IL PARTITO DOPO LA BOCCIATURA DELLA SUA RELAZIONE 26 di Sara Nicoli Show down drammatico in giunta per le immunità e le autorizzazioni del Senato dove andava in scena, dopo nove mesi di rinvii pretestuosi, la richiesta di utilizzazione, da parte della procura di Trani, delle intercettazioni telefoniche dell’ex sindaco di Molfetta, ovvero dell’attuale presidente della commissione bilancio di Palazzo Madama, Antonio Azzollini. Felice Casson, relatore del Pd, ha rinnovato la richiesta di via libera da parte della commissione che, invece, si è spaccata. Anzi, a spaccarsi è stato proprio il Partito democratico. Dopo aver esaminato ulteriormente la pratica, i democratici hanno deciso di votare contro il loro relatore e insieme a Ncd, alla Lega e al Gal. Dunque, l’autorizzazione è stata respinta. Alla riunione non era presente alcun componente di Forza Italia, mentre a favore della relazione Casson hanno votato i componenti del Movimento 5 Stelle e il presidente della Giunta, Dario Stefanò di Sel. Casson, alla fine della votazione, ha dichiarato di volersi autosospendere dal Pd. Svolta, dunque, drammatica dell’affaire Azzolini che, a questo punto, si salva dal proseguimento dell’inchiesta a suo carico avviata dalla procura di Trani per presunta maxi frode da 150 milioni di euro per la costruzione del nuovo porto di Molfetta. Il reato che gli viene contestato è, in prima battuta, abuso d’ufficio, che sarebbe stato commesso quand’era sindaco della cittadina pugliese nella questione relativa alle cooperative edilizie. Ma non solo. Azzollini ha ricevuto anche un altro avviso di garanzia per associazione per delinquere, reati ambientali, truffa e falso perché - sempre secondo la procura di Trani – sapeva dal 2005 che sui fondali del nuovo porto c’erano decine di migliaia di ordigni bellici inesplosi. Nonostante questo, avrebbe fatto finta di nulla: nel 2007 ha appaltato i lavori per la costruzione della diga foranea e del nuovo porto commerciale, opere finora non realizzate e forse irrealizzabili. Un intervento dal costo iniziale di 72 milioni che col tempo è lievitato a 147 milioni perchè era necessario bonificare l’area da proiettili, bombe e fusti contenenti cianuro, iprite, acido clorosolfonico, fosforo e fosgene. GRAN PARTE dei finanziamenti pubblici, col passare del tempo, sarebbero poi stati distratti dal Comune che li avrebbe utilizzati – se - condo i pm – per fare “un’operazione di maquillage del bilancio cittadino per dimostrare il rispetto del patto di stabilità ed evitare un ipotetico rischio di default”. L’area interessata dai lavori (del valore di 42 milioni) è stata sottoposta a sequestro il 7 ottobre 2012, così come i restanti 33 milioni di euro stanziati per la realizzazione dell’infrastruttura. L’in - chiesta è rimasta ferma fino a questo momento e, a questo punto, con il voto negativo della giunta, finirà probabilmente su un binario morto. Dell’8/10/2014, pag. 1-15 COMMUNITY «Rottamitalia», un instant book contro il decreto delle lobby Paolo Berdini Non era mai accaduto prima d’ora che un nutrito gruppo di intellettuali, giuristi, storici dell’arte, economisti e ambientalisti scrivessero un instant book contro un decreto legge del governo. Non sono mancate critiche a ogni provvedimento legislativo, ma arrivare a produrre un organico libro segnala la gravità contenuti nel decreto. Esce oggi un agile volume informatico Rottamitalia edito da Altreconomie, ideato da Sergio Staino e curato da 27 Tomaso Montanari. Il libro si può scaricare sul sito www.altreconomia.it/rottamaitalia e lo potete trovare anche sulla edizione on line de Il Manifesto. Sono due i motivi che hanno reso possibile il volume. In primo luogo i contenuti che denunciano la gravità della crisi di prospettiva delle classi dirigenti del paese. Sbaglierebbe infatti chiunque pensasse che siamo di fronte al pensiero di Renzi, di Lupi o di qualsiasi altro esponente di secondo piano del governo. Il decreto è stato scritto direttamente dalle lobby che nel sonno della politica, dominano incontrastate il paese. Gli articoli che liberalizzazino le possibilità di trivellazioni petrolifere in ogni parte del paese sono da anni richieste dai petrolieri. Le norme che annullano il potere di controllo delle Soprintendenze nella tutela dell’ambiente sono da anni nell’agenda dalla lobby delle grandi opere. Quelle che mettono le basi per una nuova fase di cementificazione delle città sono volute dalla lobby dei proprietari immobiliari. Le norme che facilitano la vendita del patrimonio immobiliare dello Stato sono chieste a gran voce dal mondo finanziario internazionale. E, infine, un intero capo del provvedimento (il quarto) affida il futuro delle opere pubbliche e delle città alla finanza di rapina responsabile della crisi mondiale di questi anni. La gravità dello «Sblocca Italia» sta dunque in questo quadro generale. Una classe dirigente incapace di fare i conti con il fallimento delle ricette neoliberiste vuole continuare ancora con le stesse politiche distruggendo ulteriormente la struttura dello Stato. Mentre ad esempio la tassazione sulle imprese e sulle famiglie cresce senza sosta, con alcuni articoli si regalano milioni di euro alle grandi imprese che si spartiscono da decenni il sistema delle grandi opere. Sono infatti previsti generosi sconti fiscali per le società concessionarie. Milioni di euro che passano dalle famiglie italiane sempre più impoverite ai soliti noti. Il caso ha voluto che negli stessi giorni in cui Renzi proponeva tali sconcezze, la Corte dei Conti ha accertato che solo nel periodo 2006 – 2010 per la costruzione della linea «C» della metropolitana di Roma, devono essere restituiti 370 milioni ingiustamente guadagnati perché le regole sono state cancellate e non ci sono più strumenti di controllo. Ciononostante continua la rumorosa invettiva contro la «burocrazia» e con lo Sblocca Italia si allentano ulteriormente le regole. Lo stesso Raffaele Cantone, in sede di audizione parlamentare ha dato l’allarme su questo punto. Ma il libro segnala anche una importante novità: la maturazione di una visione alternativa del futuro dell’Italia che in questi anni si è alimentata nelle tante vertenze territoriali e che è oggi arrivata ad una convincente sintesi. La premessa al libro firmata da Paolo Maddalena, vice presidente emerito della Corte Costituzionale, si intitola «Fuori della Costituzione» e ragiona sul fatto che il decreto è contrario alla carta fondamentale in tutte le norme che affidano il futuro dei territori e delle città ai privati invece e che svendono il patrimonio pubblico. Nel libro, insomma, si ritrova il filo del ragionamento sulla piena attuazione della Costituzione elaborato da Salvatore Settis nel suo Paesaggio, Costituzione Cemento(2012) e completato sempre da Settis con Maddalena in Costituzione incompiuta(2013, con Leone e Montanari) e poi ulteriormente perfezionato da Maddalena in Il territorio bene comune degli italiani (2014). Il legame con la Costituzione fornisce un’inedita forza unificante alle tante lotte dei comitati che un’accorta propaganda ha bollato come affette da sindrome del nimby e che sono invece l’unico strumento in mano alla popolazione per opporsi ai Rottamatori d’Italia. «Rott>ama Italia» nasce da un’idea di Sergio Staino, ed è stato curato da Tomaso Montanari. Hanno partecipato — gratuitamente– al progetto Ellekappa, Altan, Tomaso Montanari, Pietro Raitano, Giannelli, Mauro Biani, Paolo Maddalena, Giovanni Losavio, Massimo Bray, Maramotti, Edoardo Salzano, Bucchi, Paolo Berdini, Vezio De Lucia, Riverso, Salvatore Settis, Beduschi, Vincino, Luca Martinelli, Anna Donati, Franzaroli, Maria Pia Guer28 mandi, Vauro, Pietro Dommarco, Domenico Finiguerra, Giuliano, Anna Maria Bianchi, Antonello Caporale, Staino, Carlo Petrini. 29 INFORMAZIONE del 08/10/14, pag. 27 L’INDAGINE ADS Repubblica anche ad agosto prima per le vendite in edicola ROMA . Primo anche in agosto: secondo l’indagine di settore Ads, la Repubblica , con 286.099 copie è risultato il quotidiano più venduto in edicola, contro le 282.758 del Corriere della Sera, il suo principale concorrente. Il giornale guidato da Ezio Mauro, in abbinamento con il Venerdì, spinge le vendite in edicola fino al tetto delle 351.068 copie. Il terzo quotidiano d’informazione nazionale è la Stampa, che nello stesso mese preso in considerazione ha venduto 173.834 copie. Al quarto posto il Messaggero di Roma (145.384). Il primato del quotidiano del gruppo Espresso si conferma anche ragionando in termini di copie digitali dove il Corriere si è fermato a quota 59.282 e Repubblica ha raggiunto le 61.224 copie. Sempre in edicola, nello stesso gruppo editoriale si segnala il risultato del Tirreno di Livorno che ha venduto 57.082 copie, e della Nuova Sardegna di Sassari, che sempre secondo i dati diffusionali, ha venduto 47.501 copie. Per il Messaggero Veneto, il quotidiano di Udine, le vendite di agosto hanno toccato quota 44.185 copie. Il settimanale L’Espresso , fra i numeri venduti attraverso il canale delle edicole, la platea degli abbonati e i clienti digitali che lo leggono sul tablet ha raggiunto il tetto delle 214.551 copie. Intanto Repubblica. it, secondo la classifica di ComScore, è terzo al mondo nella graduatoria dei siti dei quotidiani per video visualizzati, con un totale di 34,3 milioni a luglio. Al primo e secondo posto il turco Milliyet.com (76,2 milioni) e il sito del britannico Daily Mail (37,4 milioni) del 08/10/14, pag. 5 RAIEXPO 2015: CHI L’HA VISTA? DUE SEDI E UN DOCUMENTARIO DA 800 MILA EURO LA STRUTTURA PER SEGUIRE L’EVENTO HA GIÀ RICEVUTO CINQUE MILIONI E ORA USA RISORSE DELLA TV di Carlo Tecce RaiExpo è una struttura speciale finanziata con il denaro di Expo e di Viale Mazzini. E che vuol dire, speciale? L’esposizione universale – tema, “nutrire il pianeta, energia per la vita” – sarà celebrata a Milano e allora la tv pubblica ha inaugurato una sede a Roma, due piani, ben ristrutturati e ben luccicanti, in via Ildebrando Goiran, non lontano da via Teulada. Non è sufficiente? A RaiExpo ci lavorano 58 persone, tra dirigenti, montatori, giornalisti, registi e autori: il grosso sta a Roma, una guarnigione a Milano, in Corso Sempione, ex area mensa. 30 PER PREPARARE un servizio pubblico ineccepibile, Viale Mazzini ha creato RaiExpo con prudente anticipo, il doppio avamposto è attivo (e spende) da dicembre 2013 e dovrà raccontare l’evento che si svolgerà tra il 1° maggio e il 31 ottobre 2015. I dipendenti o collaboratori di RaiExpo provengono dal gruppo “150 anni per l’Unità di Italia” di Giovanni Minoli, che il dg Mauro Masi fondò l’anno prima dell’anniversario e Viale Mazzini ha mantenuto sino al 152esimo compleanno d’Italia. Stavolta, per viale Mazzini l’Expo dura soltanto 23 mesi. E che fa, questa struttura speciale? Ha un capo che si chiama Caterina Stagno, figlia del leggendario Tito, che coordina la squadra che produce “pillole”: non per indorare la pillola, ma questi video di pochi muniti sono decine e decine, infilati nei programmi tv senza disturbare troppo il pubblico (che se li ricorda?) e i canali, suscettibili perché sovrastati da Stagno&C. Un carico di “pillole” è disponibile sul portale multilingue di RaiExpo, dove il bramato e sfuggito successo è certificato dal numero di visualizzazioni: un miracolo superare un paio di migliaia di spettatori. Ora non vi stupirà sapere che RaiExpo è una struttura speciale anche per i costi. Quando fu concepita, Expo staccò un assegno da 5 milioni di euro, valido fino al 1° aprile 2015, poi ci sarà un secondo stanziamento, un’integrazione da almeno 2 milioni. Expo aveva previsto un milione per la redazione compresi gli strumenti per fare televisione e quattro milioni per organizzare filmati, interviste o trasmissioni. Con quel milione non ci paghi neanche metà dei 58: ne occorrono almeno 3-4 per gli stipendi e gli attrezzi per raggiungere l’epilogo del 31 ottobre 2015, chiusura di Expo. E PER I RESTANTI quattro già in cassa, ci sono le pillole. Il dg Luigi Gubitosi, sempre sobrio per questioni di bilancio, non lesina risorse per RaiExpo: oltre ai 5 milioni di Expo, Viale Mazzini ne dovrà versare tanti: sfondare i 10 è un attimo. In questi giorni, la commissione bilaterale che gestisce la comunicazione attraverso il servizio pubblico (6 rappresentanti per la Rai e 4 per l’Expo) sta negoziando il prossimo contributo di Expo, valido dal 1° aprile: riuniti attorno al tavolo, Viale Mazzini ne ha profittato per chiedere il sostegno per un documentario. I vertici di Expo hanno ascoltato con molto interesse, un’ora e mezza sull’agroalimentare nel mondo (anche in cinese!), poi hanno declinato e ringraziato appena hanno scoperto il prezzo: 800 mila euro. La Rai non s’arrende e questi 800 mila euro li sgancia Viale Mazzini. PER VERIFICARE l’attendibilità di questa informazione, abbiamo interpellato Viale Mazzini, che ha replicato con gentilezza: “Non commentiamo. Però vi diciamo che sarà realizzato in quattro lingue e sarà lungo 90 minuti”. Insomma, 90 minuti in cinese, spagnolo, inglese e italiano. Forse la versione italiana potrebbe conquistare uno spazietto nei palinsesti Rai. Non è detto. Perché l’unico intervallo su Expo, mandato in onda qualche giorno fa durante la Vita in Diretta , non proveniva da RaiExpo, dai laboratori supertecnologici di Roma o di Milano, ma dai colleghi di Rai1. Giuseppe Sala, l’amministratore unico di Expo, non è entusiasta di cotanta opera di RaiExpo, e avrebbe rinfacciato a Viale Mazzini persino la piattaforma: questo sito è uguale al nostro! Ora che su Expo s’è concentrata un’attenzione mondiale e sarà scandagliato ogni singolo rivolo di denaro, per Viale Mazzini non sarà semplice ottenere i milioni necessari (e vaneggiati) per alimentare RaiExpo. Non fatevi prendere dal panico, l’azienda Rai non sarà parsimoniosa. Perché RaiExpo è davvero speciale. 31 LEGALITA’DEMOCRATICA del 08/10/14, pag. 11 Udienza di Napolitano, dai pm sì ai boss PALERMO . Gli imputati eccellenti del processo trattativa Stato-mafia vogliono esserci tutti al Quirinale, per ascoltare il testimone Giorgio Napolitano. Si sono fatti avanti non solo i capimafia Totò Riina e Leoluca Bagarella, ma anche l’ex ministro Nicola Mancino. E la procura di Palermo non si oppone alla loro partecipazione all’udienza in trasferta, i boss in videoconferenza e Mancino di persona. Soprattutto, per evitare che scatti una pericolosa «nullità», uno di quei vizi insanabili che può spazzare via un intero processo, anche a distanza di anni, in appello e in Cassazione. In una memoria depositata alla corte di Palermo, i pm Di Matteo, Del Bene, Tartaglia e Teresi citano il terzo comma dell’articolo 178 del codice di procedura penale, quello che prevede la nullità nel caso in cui non vengano rispettate le norme «sull’intervento e la rappresentanza dell’imputato». Il caso è aperto, il presidente della Corte d’assise Alfredo Montalto comunicherà la sua decisione all’udienza di domani mattina. Mentre l’avvocatura dello Stato ribadisce il suo no alla presenza degli imputati in udienza. Intanto, la questione diventa anche politica. Il parere favorevole della procura di Palermo alla presenza degli imputati al Quirinale ha sollevato non poche polemiche. Il provvedimento non piace al presidente dei senatori del Pd, Luigi Zanda, che dice: «Ho sempre rispettato le decisioni della magistratura e rispetto quindi anche il parere della procura di Palermo, ma non ne comprendo il significato, né processuale né istituzionale». Sulla stessa linea anche altri esponenti del Partito Democratico: la senatrice Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari costituzionali, e i deputati Federico Gelli ed Ernesto Magorno, questi ultimi parlano di una «grave caduta di stile della procura». Fabrizio Cicchitto, di Ncd, accusa addirittura la procura di Palermo di avere fatto «un’autentica provocazione». Il suo collega di partito Gaetano Quagliariello chiede ai giudici di Palermo di risparmiare a Napolitano lo «sfregio di due capi dell’anti-Stato presenti, seppur virtualmente, alla deposizione del Capo dello Stato». L’avvocato di Riina, Luca Cianferoni, insiste: «È la Corte europea per i diritti dell’uomo a prevedere il diritto dell’imputato a partecipare alle sue udienze». Gli avvocati dell’ex ministro dell’Interno, Massimo Krogh e Nicoletta Piergentili Piromallo, tengono invece a precisare: «Il presidente Mancino ha fatto richiesta di essere presente all’udienza per un ossequio al Capo dello Stato, il suo è solo un gesto rispettoso delle istituzioni». Dunque, grande attesa per la decisione di domani. Mentre il processo va avanti con le audizioni dei pentiti. E al palazzo di giustizia continuano ad arrivare segnali inquietanti: ieri, in un’aiuola è stato trovato un proiettile da guerra delle forze armate israeliane. del 08/10/14, pag. 10 I pm sulla deposizione di Napolitano: «Mancino e i boss devono assistere» 32 Trattativa Stato-mafia, dopo Riina e Bagarella arriva la richiesta dell’ex ministro La Procura alla Corte: senza di loro la sentenza rischia la nullità. Pd e Ncd: inaccettabile ROMA Non solo Totò Riina e Leoluca Bagarella: pure Nicola Mancino chiede di partecipare all’udienza del processo sulla presunta trattativa fra lo Stato e Cosa nostra in cui deporrà il presidente della Repubblica, fissata per il 28 ottobre. I capimafia rinchiusi al «carcere duro» vogliono entrare al Quirinale in videoconferenza; l’ex ministro dell’Interno ed ex presidente del Senato, che ha frequentato in tante occasioni quel palazzo per motivi istituzionali, da imputato a piede libero, in carne e ossa. Con il parere favorevole dei pubblici ministeri. Per tutti, boss ed ex ministro. «L’onorevole Giorgio Napolitano è chiamato a riferire in ordine a circostanze che investono la posizione processuale del Mancino — scrivono gli avvocati Massimo Krogh e Nicoletta Piergentili a nome del loro assistito —, imputato di falsa testimonianza perché avrebbe taciuto di essere a conoscenza di una trattativa. Ne deriva che per la sua posizione è influente lo stabilire se una trattativa ci sia o non ci sia stata. Tale influenza è poi evidente stante il fatto che il senatore Mancino è anche nominato nella lettera di D’Ambrosio, in cui quest’ultimo si duole di poter essere stato utilizzato come il coperchio di oscuri rapporti». La lettera di D’Ambrosio Il riferimento è a una missiva dell’ex consigliere giuridico di Napolitano — Loris D’Ambrosio, morto un mese dopo averla scritta nel luglio 2012 — inviata allo stesso presidente dopo le polemiche seguite alla pubblicazione delle intercettazioni tra lui e Mancino, che sarà l’argomento della deposizione del capo dello Stato. «Sembra evidente l’interesse del Mancino a presenziare all’udienza», concludono i legali dell’ex ministro. La corte d’assise di Palermo ha già escluso tutti tranne pubblici ministeri e difensori, ma ora il problema si ripropone. Per certi versi reso più spinoso dalla richiesta di Mancino. In molti avevano infatti gridato alla provocazione dopo l’istanza di Riina e Bagarella; con Mancino non si può dire la stessa cosa. Anzi, secondo i suoi avvocati si tratta di «un atto di riguardo nei confronti del capo dello Stato impropriamente chiamato a testimoniare in questo processo». Effettivamente loro si erano opposti alla deposizione di Napolitano, al pari dei difensori di Marcello Dell’Utri e dell’avvocatura dello Stato. Rischio di nullità La corte ha deciso diversamente, ma dopo le istanze dei boss (e ora quella dell’ex ministro) dovrà pronunciarsi nuovamente. E non sarà semplice, perché un conto sono le interpretazioni sulle possibili strumentalizzazioni, un altro è la legge: fare differenze tra imputati è impossibile, quindi o vengono ammessi tutti o nessuno. Che siano uomini «d’onore» o delle istituzioni. La Procura di Palermo ha inviato alla corte una nota in cui sostiene che in base all’articolo 502 del codice di procedura, utilizzato per regolare la testimonianza del capo dello Stato, «quando ne è fatta richiesta il giudice ammette l’intervento dell’imputato interessato all’esame» del testimone. Parere favorevole alla presenza di Riina, Bagarella e Mancino, dunque, televisiva o di persona. Se ciò non avvenisse, avvertono i pubblici ministeri, si porrebbe la futura sentenza a rischio di nullità assoluta, per violazione del diritto di difesa. Esattamente la stessa posizione degli avvocati difensori, dei boss e di Mancino. Nonostante ciò, dopo la notizia del parere della Procura, è scattata la reazione unanime del Pd e del Nuovo Centrodestra che protestano contro l’avallo della Procura alla «inaccettabile» partecipazione dei capimafia ergastolani all’udienza quirinalizia. L’interesse dell’imputato In teoria è ipotizzabile anche una diversa interpretazione del codice, appesa al fatto che la stessa norma prevede che l’imputato — generalmente escluso dalle deposizioni a domicilio — possa presenziare qualora sia «interessato». E il giudice, che ha fatto ricorso 33 all’articolo 502 «nei limiti in cui sia compatibile», potrebbe stabilire che per un’udienza straordinaria nella residenza del capo dello Stato che gode della cosiddetta «immunità di sede», l’interesse dell’imputato debba essere valutato. Lo stesso giudice avrebbe dunque la facoltà di stabilire, a differenza di quanto sostenuto dai suoi difensori, che Mancino — accusato di falsa testimonianza su circostanze che poco hanno a che fare con le domande da porre a Napolitano — non ha particolare motivo di essere presente alla deposizione. E così Riina e Bagarella. Tutti, in ogni caso, dopo aver letto le trascrizioni dell’udienza a porte chiuse ma non segreta, potranno presentare nuove istanze; perfino chiedere un’altra convocazione di Napolitano per far porre ai propri avvocati quesiti che sul momento non hanno potuto suggerire. Questioni tecniche di difficile comprensione e soluzione. Di puro diritto, mentre l’opportunità di aprire le porte del Quirinale ai boss di Cosa nostra (sia pure virtualmente) e agli imputati in libertà riguarda il dibattito politico e il decoro dell’istituzione. Che mal si conciliano con le regole di un processo penale in cui sono alla sbarra, uno accanto all’altro, mafiosi, politici ed ex carabinieri. Nel quale è chiamato a deporre il presidente della Repubblica che ha già anticipato, in una lettera considerata non utilizzabile e comunque non sufficiente a evitare la testimonianza, di non sapere alcunché di quello che pm e avvocati intendono domandargli. Giovanni Bianconi del 08/10/14, pag. 8 Scampia a Milano: mafie, racket e droga nelle case popolari LATITANTI DI CAMORRA E PUSHER, BOSS CHE “COMANDANO ” ALLE ELEZIONI, AUTO BRUCIATE IN SERIE E GUERRA FRA POVERI: SCENE DA FAR WEST IN PERIFERIA Davide Milosa Maglietta nera, jeans, capelli rasati sui lati. Guarda. È insistente. Un pit bull gli pascola attorno. Dice: “Cerchi qualcuno?”. Risposta abbozzata: “Sì, anzi no, facevo un giro”. Oltre a lui adesso sono in sei, cinque ragazzi e una ragazza. Tutti italiani. Altri passeggiano sul grande spiazzo di cemento chiuso tra quattro palazzi di sette piani. Questo è territorio off limit. “Tra noi qualcuno è di troppo”, dice lei. Ride ma mica tanto. Meglio andare. Camminata rapida verso il cancello bianco che ti sputa sullo stradone di traffico. Il passo accompagnato dai bassi di un stereo che manda ritmi tecno dalla finestra. Benvenuti a Milano nel fortino tra viale Sarca e viale Fulvio Testi, periferia nord della città. Case popolari. Gestione Aler in capo alla Regione che fu di Roberto Formigoni e che ora è di Bobo Maroni. Impronta leghista, ma identico risultato. E mentre la politica apparecchia il banchetto dell’Expo, Milano assiste alla frantumazione del suo tessuto sociale. Perché quello degli appartamenti gestiti dall’Azienda lombarda per l’edilizia residenziale è un fronte che monta ogni giorno. Con la cronaca che accatasta violenze, occupazioni abusive, voti comprati. Dal Giambellino al Gallaratese, Aler si mostra impotente. L’azienda regionale, travolta dagli scandali, da sempre poltronificio per i partiti, in perenne rosso, 34 controlla 72 mila alloggi. A Milano ha edificato 170 quartieri dove vivono 350 mila persone. Dal 1° dicembre, però, 28 mila alloggi torneranno sotto la gestione del Comune. “Ce ne assumiamo la responsabilità”, promette il sindaco Giuliano Pisapia. “Siamo pronti a vincere la sfida”. Viale Sarca, comandano i clan e il voto costa 50 euro “Il quartiere Sarca-Testi è il centro di tutto”, racconta un ex funzionario dell’Aler cacciato dall’amministrazione dopo che per qualche anno ha vigilato sui palazzoni, denunciando gli opachi rapporti tra i dirigenti pubblici e alcuni pregiudicati. Anche per questo si è fatto ben volere soprattutto dagli anziani. Non la pensa così l’azienda che gli ha fatto il vuoto attorno. “Qui rom e calabresi controllano tutto, dal racket allo spaccio”. Famiglie ben conosciute e con un pedigree criminale di tutto rispetto. Alcune di loro sono finite sotto la lente dell’antimafia. “Qui anche i motorini dei postini vengono fatti a pezzi”, dice l’ex funzionario, “non succede la stessa cosa invece per certe fuoriserie”. In Sarca-Testi ci passa di tutto. “Anche gente di camorra legata al clan Gionta”. In questi palazzoni, poi, la politica viene spesso. “Nel 2010”, ricorda l’ex funzionario che chiede l’anonimato per timore di ritorsioni, “qui fece campagna elettorale un noto politico lombardo che entrò nella giunta Formigoni”. Non fa il nome, ma spiega: “Un voto vale 50 euro. Nel periodo preelettorale arrivano macchinoni e gente in giacca e cravatta. Gli accordi si prendono con i boss del clan Porcino e del clan Hudorovich. La mazzetta viene lasciata a una sola persona che ha poi l’incarico di distribuire il denaro ai vari inquilini”. E se da un lato in questa enclave della mala la politica incassa preferenze, dall’altro, funzionari Aler vengono ricattati. “Qui si spaccia di giorno e di notte, e in certi casi i pusher hanno ripreso con i telefonini funzionari e impiegati dell’azienda mentre acquistano la droga, video che poi hanno utilizzato per ricattarli”. Come? “Per esempio per ottenere un cambio alloggio in tempi rapidissimi”. Il controllo del territorio è totale. “A tal punto”, spiega l’ex funzionario, “che nel 2010 qui trovò riparo un latitante, i carabinieri lo hanno cercato per settimane”. Quartieri sull’orlo di una crisi di nervi, e palazzi abbandonati. Anche questa è Aler. E così da viale Sarca ci si sposta al civico 60 di via Adriano verso Crescenzago. Qui, due giorni fa, un marocchino di 30 anni, con precedenti per droga, è stato ammazzato. Lo hanno trovato su una montagnetta di rifiuti con la testa rotta. Precipitato dopo una rissa. Guerra al Giambellino rom contro italiani Abitava al terzo piano di uno stabile abbandonato. E come lui tanti altri disperati, gente che viene dal Nordafrica e dall’est Europa. Stabile Aler che, nei piani, doveva diventare una scuola. A testimoniarlo un cartello affisso al cancello. Si legge che “l’insegnante della prima ora deve fare l’appello e controllare le giustificazioni”. La data: 2008. Poi solo il degrado. Che si calpesta oggi metro dopo metro facendosi largo tra le erbacce e le montagne di immondizia. Ci sono finestre rotte, porte divelte e su per le scale si intravedono ombre. Dopo la morte del ragazzo nessuno parla. Si chiamava Moustafa. Ma Aler oggi è anche corpo a corpo e lotta per la sopravvivenza. Una guerra tra poveri che infiamma il Giambellino. Succede tutto la notte del 1 ottobre scorso, quando al civico 58 arriva un camioncino. Quattro uomini entrano nel palazzo. Martellano, sfondano, occupano. Ci piazzano una ragazza con tre bimbi. I carabinieri arrivano ma non la cacciano. Il giorno dopo, in pieno pomeriggio, un gruppo di rom si presenta con sedie, tavoli, materassi. È la miccia che scatena la rivolta. “Arrivano gli zingari”, si sente urlare. La gente scende in cortile. Gli italiani fanno muro. Partono gli insulti. Si sfiora la rissa. Arrivano i carabinieri e i rom se ne vanno. “Qui non li vogliamo”. Che fanno gli zingari? Si spostano di un chilometro verso via Odazio e piazza Tirana. Con donne, bambini e auto di lusso parcheggiate davanti al civico 4 di via Segneri. Sfilano davanti a una signora italiana con cagnolino al guinzaglio. Lei si sposta, loro tirano dritto, entrano nel cancello e scompaiono. “Ormai”, inizia la signora Rosa, “la piazza è roba loro”. Si avvicina un’altra 35 donna. “Mi chiamo Carla e abito qua da 15 anni. Ogni giorno c’è un’aggressione, i furti sono aumentati, e poi ci sono le baby gang: ragazzi tra gli 11 e i 18 anni che fanno rapine ai passanti”. Al Gallaratese le auto vanno a fuoco In via Segneri la gente ha paura di protestare. Un dato comune anche in via Bolla 42, quartiere Gallaratese. Qui in una sola settimana la mafia del racket ha dato fuoco a tre macchine. Incendi dolosi, non hanno dubbi gli investigatori. Ne sono certi gli inquilini che da anni protestano. Il ragionamento è questo: ora ti brucio la macchina e ti va bene così, la prossima volta, però, tocca alla tua famiglia. Da queste parti governano clan calabresi che non sfondano le porte ma i muri. “È più semplice”, dicono. Dopodiché chi protesta, prima di essere minacciato, viene pagato. Dai 50 ai 100 euro. Tutto denaro che poi sarà recuperato con gli affitti abusivi. Succede in via Bolla come in via Asturie, non lontano da viale Sarca, dove il listino prezzi arriva fino a 3 mila euro per un appartamento di tre locali. Si occupa ovunque e Aler non pare in grado di bloccare quest’emergenza. Tanto che rispetto a cinque anni fa, gli sgomberi in flagranza sono calati del 60 per cento. In tutto questo succede anche che sulla giostra delle case popolari salgano abusivi e sbirri. Capita nei due palazzoni Aler di via San Dionigi 42 al confine con il quartiere Corvetto. Le occupazioni sono aumentate dopo la chiusura del campo nomadi dietro via San Dionigi. La presenza di poliziotti, però, non è un deterrente. Gli abusivi non si fermano e occupano non solo gli appartamenti sfitti, ma anche quelli lasciati vuoti magari da un anziano che per qualche giorno si è ricoverato in ospedale. Il Comune di Milano, però, promette: “Sarà guerra agli abusivi e al racket”. del 08/10/14, pag. 20 “Eni, tangenti per i politici italiani” I verbali di Armanna interrogato dai pm milanesi: “Tutti sapevano a chi sarebbero finiti i soldi” La società: “Estranei a ogni illecito, quereleremo l’ex manager”. Scaroni: contro di me solo falsità CARLO BONINI EMILIO RANDACIO ROMA . L’affare nigeriano resta inchiodato a un numero. Macroscopico. 200 milioni di dollari di mediazione su un contratto dal valore complessivo di poco più di un miliardo e 300 milioni. Riconosciuta dal gruppo Eni tra 2010 e 2011, a un “signor nessuno” di nome Emeka Obi. Mediazione priva di un logico motivo. Perché di nessuna economicità. E sprovvista di una spiegazione persuasiva, quantomeno di mercato. Almeno per quello sin qui accertato in poco più di due mesi di indagine dalla Procura di Milano. Si irrobustisce così l’ipotesi che il prezzo della licenza ottenuta per acquisire il giacimento petrolifero Opl245 , sia stato caricato da una maxi tangente. Come accredita Vincenzo Armanna, l’ex dirigente Eni indagato dalla Procura di Milano, di cui Repubblica ha pubblicato ieri il racconto. Un j’accuse che si fa ancora più affilato nel verbale di interrogatorio del 30 luglio, non fosse altro perché coinvolge altri uomini di Eni. «Della sorte del denaro pagato da Eni — spiega l’ex responsabile per il Medio Oriente ai pm — , ho parlato con Casula (Roberto, oggi capo dello sviluppo e delle operazioni del «cane a sei zampe», ndr) e con il direttore finanziario di Naoc ( Nigerian Agip Oil Company ). Eravamo consapevoli che una buona parte sarebbe andata a beneficio degli sponsor politici dell’operazione». 36 «Sponsor politici», dunque. Quando Armanna pronuncia quelle parole, davanti all’ex manager dell’Eni, in quel giorno afoso di fine luglio, sono seduti tre magistrati della procura milanese: De Pasquale, Fusco e Spadaro. Non chiedono nulla di più all’indagato. E le domande restano in attesa di risposte. Su quali basi si fonda questa convinzione? Quali prove possono comprovare l’accusa? Armanna è stato allontanato dal gruppo petrolifero nel maggio 2013 e, ora, sono indagati con lui per corruzione internazionale l’ex numero uno di Eni, Scaroni e il suo successore De Scalzi. In un ennesimo scandalo che ha come proscenio la Nigeria. I magistrati milanesi, annotano a verbale quell’indicazione. «Sponsor politici». Apparentemente, senza fare una piega. Non ci sono nomi, riferimenti a partiti, o altre indicazioni. Eppure, sull’ affaire nigeriano, l’ombra di una nuova tangentopoli sia fa sempre più spessa. Con un’indagine che marcia a fari spenti, e che, per quel che si intuisce, sta prendendo rapidamente forma, grazie soprattutto a una pignola ricostruzione dei flussi di denaro, al contributo di rogatorie internazionali. L’Eni e i suoi vertici sono alla finestra. Provano a ragionare su quale direzione stia prendendo l’indagine. E affidano la loro reazione a un comunicato di poche righe: «Eni ribadisce l’estraneità dell’azienda da qualsiasi condotta illecita in relazione all’acquisizione del blocco Opl 2-45 in Nigeria. Prende atto delle dichiarazioni di Armanna a Repubblica che hanno evidenti profili diffamatori e che daranno seguito a tutte le azioni legali a tutela dell’immagine di Eni e dei suoi manager». Scelta cui si associa anche l’ex numero uno Paolo Scaroni, che, affidandosi a un portavoce, bolla come «false» le dichiarazioni di Armanna e «ribadisce la sua totale estraneità a qualsiasi comportamento illecito a lui riferito». Salvo concedersi un affondo — anche questo condiviso con Eni: «Si sottolinea che Armanna fu licenziato per interessi personali e gravi violazioni del codice etico». E proprio su quest’ultimo punto, Armanna, attraverso il suo legale, decide di non lasciar cadere un’accusa che, evidentemente, ne dovrebbe minare la complessiva credibilità, accreditando la sua ricostruzione della vicenda nigeriana con Repubblica e la Procura di Milano come una vendetta. «Le affermazioni dell’Eni e del portavoce di Paolo Scaroni sul licenziamento di Armanna e sulle ragioni che lo avrebbero motivato — dice Siggia, avvocato di Armanna — sono semplicemente destituite di qualsiasi fondamento. Armanna ha lasciato Eni con un accordo di uscita remunerata che si pone in contrasto con le gravi accuse che ora gli vengono mosse di violazione del codice etico aziendale. È il mio assistito che si riserva ogni azione legale a tutela della sua persona e della sua immagine professionale». del 08/10/14, pag. 20 Consulenze ai figli e sprechi in Cina, così funzionava il metodo Clini MARIA ELENA VINCENZI ROMA . Consulenze affidate non soltanto alla compagna, ma anche ai figli. Duecento milioni di euro spesi dal Ministero dell’Ambiente in Cina in progetti che si sono rivelati dei fallimenti. Altri 15 in Montenegro. Poi, ancora, l’irritazione dell’ambasciatore per quello spreco e il silenzio del-l’Ice, Istituto per il Commercio Estero. C’è tutto questo nelle carte dell’inchiesta della procura di Roma sull’ex direttore generale e poi ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, arrestato a maggio per peculato. E indagato dai magistrati capitolini con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e da quelli svizzeri per 37 riciclaggio. Il quadro che dipingono le migliaia di carte del Gruppo speciale spesa pubblica e repressione delle frodi comunitarie della Finanza è desolante. Si scopre che il denaro stanziato dall’Italia per finanziare, chissà perché, progetti in Cina viene speso senza bene sapere come. Scrivono le Fiamme Gialle che «una volta concluso l’accordo bilaterale, non vi sarebbe alcune potestà di controllo da parte delle istituzioni italiane sul raggiungimento degli obiettivi prefissati e sul rispetto delle finalità del programma». Tanto che due funzionari incaricati dall’ambasciatore a Pechino, Alberto Bradanini, (che chiede invano delucidazioni sugli investimenti in Cina al ministero e all’Ice), spiegano come molti dei progetti sostenuti da Clini siano stati dei flop. In particolare, scrivono, il restauro della “Meng Joss House” «intervento costato 4 milioni di euro, non sembra essere stato eseguito a regola d’arte atteso che l’intero stabile, attualmente in stato di abbandono, risulta interessato da copiose infiltrazioni di acqua che ne hanno compromesso l’agibilità ». Non va meglio a Pechino, dove la costruzione di un edificio presso la Tsinghua University, costato oltre 20 milioni di euro al ministero, «lungi dall’essere un esempio di elevata tecnologia sotto il profilo energetico, viene considerato uno dei più energivori di tutto il campus universitario ». Denaro pubblico sprecato, secondo Bradanini, che scrive diverse lettere all’Ice e al Ministero alle quali Clini risponde piuttosto seccato. Agli atti c’è una lettera del 20 giugno 2013: «Gentile Ambasciatore - scrive l’allora dg - mi spiace dover rispondere in pochi giorni ad un tuo nuovo messaggio in merito alle attività del ministero dell’Ambiente in Cina che è francamente fuori contesto...Mi auguro di non dover più dedicare altro tempo a descrivere quello che dovrebbe essere noto e acquisito». Poi ci sono gli affari di famiglia. Non solo le collaborazioni con imprenditori o architetti amici e le consulenze affidate alla compagna, Martina Hauser, ma anche i contratti stipulati con i figli di Clini, Carlo e Clelia. Tra i file sequestrati dalla Finanza, c’è infatti un accordo siglato dalla società I.D.R.A. (di Augusto Pretner Calore, anche lui indagato insieme a Clini) con la Diem dei giovani fratelli Clini. Prezzo dell’affare: 60mila euro. Obiettivo: «promozione e sviluppo tecnico commerciale delle attività di I.D.R.A. con particolare riferimento alle opportunità nei settori energetico e ambientale in ambito comunitario e internazionale». E chi poteva promuoverli meglio dei figli del potentissimo direttore generale? del 08/10/14, pag. 18 Indagato il capo dei pm di Milano Fascicolo in cassaforte, per Bruti Liberati Brescia ipotizza l’omissione d’atti d’ufficio Il Procuratore nella polemica con Robledo parlò di «deplorevole dimenticanza» MILANO Il procuratore della Repubblica di Milano, Edmondo Bruti Liberati, è indagato dalla Procura di Brescia per l’ipotesi di reato di omissione d’atti d’ufficio. Non è una iscrizione recente, né ha a che vedere con l’ultima puntata degli attriti tra il procuratore aggiunto Alfredo Robledo (autore in marzo di un esposto al Csm su contestate irregolarità di Bruti nell’assegnazione dei fascicoli) e il suo capo, sfociata nella rimozione di Robledo dalla guida del pool reati contro la pubblica amministrazione e nella sua destinazione all’ufficio esecuzione pene. Il contesto sembra invece la travagliata storia dell’inchiesta milanese su Vito Gamberale (fondo «F2i») per l’ipotesi di turbativa nell’asta bandita dal Comune di Milano il 16 38 dicembre 2011 per vendere il 29,75% della Sea, società aeroportuale di Linate e Malpensa, allo scopo di far quadrare il bilancio. Il 25 ottobre 2011 i pm fiorentini Luca Turco e Giuseppina Mion trasmisero per competenza a Milano un’intercettazione nella quale il 14 luglio 2011 Gamberale e il suo manager Mauro Maia parevano prefigurare tentativi di farsi cucire addosso il capitolato del bando del Comune. Robledo, nell’esposto al Csm del 17 marzo scorso, ha sostenuto che si sarebbe trattato di una evidente ipotesi di turbativa d’asta, dunque da assegnare al proprio pool. Invece Bruti il 27 ottobre 2011 la mise negli atti «non costituenti notizie di reato», e la assegnò al capo del pool reati finanziari Francesco Greco, che il 2 novembre la coassegnò al pm Eugenio Fusco. Il 6 dicembre Fusco segnalò a Bruti l’opportunità di riassegnare il fascicolo a Robledo per competenza di pool; e il 9 dicembre Bruti annunciò a Robledo l’arrivo del fascicolo. Mancavano pochi giorni all’asta, deserta il 16 dicembre con l’offerta fuori tempo di una società indiana, e l’aggiudicazione delle azioni a Gamberale a 1 euro più della base d’asta di 385 milioni. Intanto il fascicolo fu consegnato a Robledo solo il 16 marzo 2012: un «ritardo a me esclusivamente imputabile», scrisse non ora ma il 23 marzo 2012 Bruti a Robledo per «evitare il protrarsi di una situazione di difficoltà nell’immagine esterna dell’Ufficio». In quella missiva, autodichiarando un profilo colposo e dunque incompatibile con l’elemento soggettivo del dolo generico richiesto dal reato di omissione d’atti d’ufficio, il capo dei pm ricostruiva che «nell’imminenza della festività» (7-8 dicembre 2011), «stante la chiusura festiva dei nostri uffici amministrativi, ho trattenuto il fascicolo nel mio ufficio. Purtroppo, non avendo provveduto io alla riassegnazione subito dopo il “ponte”, poi per una mia deplorevole dimenticanza il fascicolo è rimasto custodito nel mio ufficio», dove peraltro «tu (Robledo, ndr ) non mi hai più chiesto notizie dopo, immagino per discrezione. Dopo aver interpellato te e Fusco ho ricostruito mentalmente l’iter dei movimenti del fascicolo, che infatti ho rinvenuto nel mio ufficio». Tre mesi fa Robledo, senza aver potuto contare su effetto sorpresa o intercettazioni, ha comunque concluso l’inchiesta, contestando a Gamberale — con udienza preliminare fissata il 24 ottobre davanti alla giudice Anna Zamagni — l’ipotesi di turbativa d’asta non per le condizioni di quel bando (su cui i tecnici del Comune avrebbero stoppato tentativi di interferenze), ma per una ipotizzata illecita intesa sulla desistenza dell’indiano Behari Vinod. Luigi Ferrarella del 08/10/14, pag. 6 Autoriciclaggio, così non serve a niente PRESENTATO IL TESTO DEL GOVERNO, ORA LE MODIFICHE PER PROVARE A FARLO FUNZIONARE di Gianni Barbacetto Come previsto, ieri il governo ha depositato, in commissione Finanze alla Camera, il testo che introduce il reato di autoriciclaggio. Con la “soglia”: pena da 2 a 8 anni per chi reimpiega i soldi o i beni frutto di un reato da lui stesso commesso, nel caso questo sia punibile nel massimo con 5 anni. Sotto questa “soglia”, pene risibili: da 1 a 4 anni. La norma prevede poi la non punibilità nel caso che i beni riciclati siano destinati all’autoimpiego, cioè “all’utilizzazione e al godimento personale”. Senza specificazioni 39 ulteriori su che cosa voglia dire. È previsto un aumento di pena in caso di autoriciclaggio collegato ad attività bancaria, finanziaria o professionale e una riduzione della pena, fino al dimezzamento, per chi “si sia efficientemente adoperato per evitare che le condotte siano portate a conseguenze ulteriori o per assicurare le prove del reato e l’individuazione dei beni, del denaro e delle altre utilità provenienti dal delitto”. Oggi alcuni deputati (tra cui Giovanni Paglia di Sel) presenteranno sub-emendamenti per cercare di migliorare questo testo che depontenzia in maniera sostanziale l’autoriciclaggio. Paglia proporrà di introdurre il concetto di “trasferibilità”, per definire che cosa è autoimpiego e poter contestare il reato di autoriciclaggio in tutti i casi in cui i soldi sporchi sono reimpiegati in beni “trasferibili”. Sarà battaglia, già annunciata, con chi – a destra e a sinistra – non voleva l’autoriciclaggio e si è battuto per azzerarne comunque gli effetti. Il deputato Pippo Civati, con l’appoggio della senatrice Lucrezia Ricchiuti, cercherà di ripristinare qualche efficacia alla norma chiedendo di alzare i minimi di pena, sia sopra, sia sotto la “soglia”: “Una pena che parta da 1 o 2 anni di detenzione per un fatto grave come l’autoriciclaggio rischia di svilire il senso del reato”, dichiarano i due parlamentari del Pd, “sanzionabile con la sola ‘messa alla prova’ e conseguente estinzione del reato. Ci pare del tutto inidoneo a scoraggiare pratiche di autoriciclaggio collegate a reati anche gravi in materia tributaria, ovvero a delitti quali la truffa e l’appropriazione indebita”. Per questo Civati e Ricchiuti proporranno emendamenti per introdurre pene da 4 a 8 anni sopra la “soglia” e da 2 a 6 sotto la “soglia”. Auspicano inoltre che si intervenga “a monte, sulle sanzioni inadeguate, se non talvolta ridicole, di alcuni reati tributari, innalzandole in modo da rendere effettiva la tutela penale di condotte gravi come per esempio l’omessa o infedele dichiarazione dei redditi”. 40 SOCIETA’ del 08/10/14, pag. 23 Lascia la Lombardia per Londra Profilo del nuovo emigrante italiano L’esodo continua e ora riguarda il Nord. La maggioranza di chi parte ha tra 18 e 34 anni Maschio, giovane, celibe, con un buon titolo di studio, diretto in Gran Bretagna, partito dalla Lombardia. A incrociare i numeri dell’ultimo rapporto «Italiani nel mondo» della Fondazione Migrantes, viene fuori un ritratto imprevisto del nuovo emigrante. Soprattutto, stupisce che in cima alle partenze ci siano gli abitanti del Nord-Ovest. «Il 27,9% viene da quest’area del Paese — sottolinea la sociologa Delfina Licata —. In particolare, il 17,6% si è messo in viaggio dalla Lombardia: 16.418 persone», che si traduce in un aumento del 24,8% degli espatri da questa sola Regione in un anno. È il doppio del Veneto e del Lazio (che conta circa 8.000 emigranti, ma anche un’emorragia in crescita del 38%), molto più della Sicilia, del Piemonte e della Campania («solo» 6.249 trasferimenti). La studiosa coordina da nove anni il dossier ed è testimone, soprattutto dal 2010, di una curva in costante ascesa: «Nel corso del 2013, 94 mila italiani hanno trasferito la residenza all’estero: più 19% rispetto al 2012 (quando erano stati 79.000)». E non sono nemmeno tutti, perché i ricercatori hanno tenuto conto solo di chi è regolarmente iscritto all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire), non dei pendolari, degli «irregolari» e di chi ha rimandato la registrazione (e sono tanti). I dati sono sufficienti, però, a disegnare dei profili. Chi sono i nuovi emigranti? Oltre il 56% è maschio; il 60% non è sposato; il 32,6% ha un’età tra i 18 e i 34 anni; il 26,8% ha superato i 35 ma non ha ancora compiuto i 50. Dunque, osserva Licata, «una differenza di genere lieve (sono comunque molte le donne che vanno via, oltre 41 mila nel 2013), ragazzi senza legami o coppie con difficoltà di realizzazione di un progetto familiare». L’età indica che spesso andare all’estero corrisponde a un percorso di formazione o di specializzazione (si pensi agli studenti del programma Erasmus, che da soli sono oltre 20.000); ma la fascia over 35 indica anche «il desiderio di superare la precarietà lavorativa». Nessun dubbio che l’aumento degli emigranti sia legato alla crisi economica, alla crescita dell’instabilità e della disoccupazione. «Con un’espressione abusata — continua la sociologa — in molti casi si può parlare di cervelli in fuga». Che spesso erano già fuggiti: l’emigrazione dal Nord contiene anche gli spostamenti di residenza di italiani che erano partiti anni prima dal Sud o da altre regioni d’Italia. Se è vero che si espatria di più dalla Lombardia (spesso solo per varcare le Alpi e spostarsi in Svizzera), resta il dato allarmante che hanno registrato in questi anni anche altri centri di ricerca come la Svimez: lo svuotamento del Mezzogiorno. I dati Istat (relativi al 2012, i più recenti non sono ancora disponibili) analizzati dalla Fondazione Migrantes confermano questa preoccupazione. La Lombardia, con Milano in particolare, resta punto d’attrazione nazionale, per la formazione universitaria come per la ricerca di lavoro, al punto che nel 2012 la differenza tra arrivi e partenze era ampiamente positiva: più 13.740 residenti. Saldo negativo in tutte le regioni del Sud, invece. In Campania, per esempio, sempre nel 2012, si calcolava un meno 11.507. Di questi, qualcuno sarà partito per Milano e di lì sarà approdato a Londra. 41 Ci sarebbe poi da fare la tara con i rientri: il dato è di nuovo del 2012 (29.000), e si prevede che per il 2013 sia inferiore. Il conteggio si avvicinerebbe più o meno al numero di permessi di soggiorno rilasciati agli stranieri nel 2012 per motivi di lavoro (67 mila). Il confronto, però, non regge, perché sono cifre disomogenee e perché si tratta di movimenti non sovrapponibili: chi parte dall’Italia non cerca l’impiego che viene offerto agli immigrati. Interessante, piuttosto, il quadro d’insieme che, al di là delle ultime fughe, offre ogni nuovo rapporto Migrantes: 4.482.115 iscritti all’Aire, per il 52,1 per cento di origine meridionale, sparsi per 182 Paesi nel mondo a partire sempre e comunque dall’Argentina. Alessandra Coppola del 08/10/14, pag. 25 Tanti, longevi (e trascurati) Ecco i vecchi giovani di oggi «E dunque, o vecchio, non dire/che troppi sono i tuoi anni;/oggi,degli anni passati,/nessuno, più, vecchio, è con te». Così si dice in una splendida lirica dell’ Antologia palatina , la raccolta poetica ellenistica grande e concisa nel parlare di amore e di morte, che tanti secoli più tardi avrebbe ispirato un’altra celebre opera, Spoon River dell’americano Edgar Lee Masters. Come spesso accade alla poesia ed è suo diritto che accada, quei versi di Pallada dicono una cosa vera e insieme non vera. Ognuno si porta tutto dietro, consapevole o no; il suo vissuto, la sua salute e la sua malattia, il suo coraggio e la sua paura, le sue fedi e quella buia palude interiore in cui sembra che ogni certezza e ogni speranza si dissolvano. Ma è anche vero che in certi istanti la vita sembra raccogliersi in un unico punto ignaro di tutto il resto e l’individuo sente di esistere nell’epifania di quell’istante, sente che esiste solo quell’istante. Può essere l’attimo della morte, l’attimo in cui Saulo cade da cavallo per diventare San Paolo e forse pure l’attimo in cui ci si avvicina al letto di una persona amata o anche solo desiderata. I vecchi diventano sempre più — positivamente e negativamente — protagonisti del nostro mondo; oggetto di solidarietà o di fastidio, comunque di preoccupazione. Il prolungarsi della vita e la parsimonia delle nascite popolano sempre più la nostra società di vecchi, guardati con solidarietà — perché più deboli e indifesi in un mondo sempre più spietato — e insieme con impaziente ostilità per il loro peso che grava sulle spalle degli altri, per il costo del loro mantenimento che tarpa le generazioni più giovani, sempre più in difficoltà nella ricerca di un lavoro. All’immagine del vecchio ricco di un’esperienza che è fondamentale trasmettere e ricevere si affianca quella del parassita che succhia sangue ed energie altrui. Il crescente numero dei vecchi, ampio bacino di elettori, li fa corteggiare dalla politica, ma un brutale culto della giovinezza induce a considerarli oggetti usati e inutili da rottamare. Paradossalmente, a una longevità sempre più lunga e capace di prestazioni che rivelano una pienezza di vita — Oliveira sta girando un film a 106 anni, i 101 di Boris Pahor sono in piena efficienza e in piena attività intellettuale — si contrappone una febbre di gioventù, un’idolatria della brevità e dell’attualità ridotte a dimensioni sempre più brevi, a un film all’acceleratore come quelli di Ridolini, e consegnate al cassonetto del vecchiume. Un ventenne mi ha detto alcuni mesi fa che non si sognerebbe nemmeno di andare a vedere un film girato prima della fine degli anni Ottanta, così come io non mi sognerei di usare una di quelle biciclette ottocentesche che avevano una ruota piccolissima e una enorme e che ho visto solo in 42 qualche fotografia. Mi hanno detto che stanno uscendo libri quali «Come eravamo negli anni Novanta», epoca che per l’autore di questo libro è antidiluviana; temo che non lo leggerò perché quando apparirà in libreria sarà già vecchio e sorpassato. Mi propongo invece di scrivere un elzeviro su come ero io lo scorso giugno. A questi protagonisti e/o esclusi della nostra società è dedicato un intenso, vivacissimo e documentato libro di Carlo Vergani e Giangiacomo Schiavi, Ancora troppo giovani per essere vecchi . Si tratta di un dialogo in cui il nostro Giangiacomo Schiavi pone a Carlo Vergani — grande gerontologo e geriatra che ha coperto la relativa cattedra e diretto la scuola di specializzazione, coordinando il dottorato di ricerca in Fisiopatologia dell’invecchiamento e assumendo la responsabilità dell’Unità operativa di geriatria presso l’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano — incalzanti domande sui vari aspetti (clinici e sociali, politici e morali, economici e psicologici) e prendendo a sua volta spunto dalle sue risposte per sviluppare altri temi. Il libro è un incisivo, sintetico panorama del pianeta della vecchiaia nei suoi vari e contraddittori aspetti, scandito da dati precisi e indagato con una finezza che unisce competenza scientifica, prospettiva politico-sociologica e profonda, asciutta partecipazione umana. Un atlante sobrio e completo. Il numero crescente dei vecchi, quelli fra loro che non vivono ma sopravvivono fragili e dimenticati facendo la spola fra ricoveri e dimissioni ospedaliere; l’aumento della speranza di vita e un’opaca disperazione; la solitudine, i costi della demenza, le domande e l’imbarazzo delle risposte, le ragioni della pietas, i segni dell’invecchiare; la capacità di riconoscere e anche amare le tracce che gli anni lasciano su un viso e la patetica aridità del lifting, il ruolo e i limiti del sesso, i drammi della memoria — che è amore, dice Vergani, ricordando come in francese e in inglese imparare a memoria si dica significativamente par coeur, by heart — la depressione e il dolore, l’insufficienza delle cure, l’assistenza. Vergani auspica una necessaria «medicina narrativa», un nuovo rapporto tra medico e pazienti non più silenziosi e imbarazzati davanti all’autorità del camice bianco, un «medico nuovo». Cita il cardinal Martini che parlava della necessità di «dare volto, voce e parola alla malattia», dimostrando un’intelligenza diversa dalla spiritosaggine di quello scrittore inglese che propone «pubs per l’eutanasia», in cui «si entra, si beve un bicchiere e si passa a miglior vita». È un libro che mostra come «una società che invecchia è senza futuro e senza passato, perché non ha rincalzi generazionali e trascura le sue radici». «Fra le tante domande destate dal libro che vorrei porvi — chiedo loro — c’è, come dice il titolo, oltre al problema dei vecchi e dei giovani, quello di una generazione ancora abbastanza giovane che deve ritirarsi dalla vita attiva — i prepensionamenti, gli esuberi e così via — e che si trova in un disagio forse ancora più pesante, in un’età contraddittoria e indistinta, in cui sarebbe necessario ma non è possibile essere attivi e in cui l’emarginazione è forse più dura che nella vecchiaia». Vergani — «La generazione ancora abbastanza giovane è quella che i demografi chiamano generazione X. Sono persone di età intermedia fra i baby boomers, nati negli anni Cinquanta, e i millennials, nati alla fine del secolo scorso che hanno compiuto i 18 anni nel corso del terzo millennio. In un periodo di crisi economica la perdita del lavoro, senza la possibilità di uno sbocco alternativo, toglie la fiducia nel domani: è così che subentra la rassegnazione e si diventa vecchi dentro. È una vecchiaia esogena che non ha niente a che fare con la fisiologia del soggetto, un indotto sociale sul quale si può intervenire». Schiavi — «C’è un corto circuito provocato dalla crisi economica e dal giovanilismo tecnologico. La sintesi è una parola orribile: rottamazione. Si considerano già vecchi i cinquanta-sessantenni, pensando di ridurre i costi del lavoro. Cosi abbiamo il boom dei pensionamenti e delle malattie legate all’invecchiamento. Dovremmo rendere produttiva 43 l’anzianità, invece di creare un apartheid. E rileggere García Márquez, quando dice che ai vecchi la morte non arriva con l’età, ma con la solitudine…». Magris — «Certo, la letteratura di ogni secolo e di ogni Paese ha affrontato la vecchiaia nei suoi vari e contraddittori aspetti. Ad esempio negli ultimi racconti di Svevo, il vecchio — che ne è il protagonista — vive una stagione di libertà selvaggia: estromesso dalla lotta per la vita e dalla competizione, non ha più l’ansioso dovere di vincere, di sedurre, di dominare, di essere efficiente. Ha il diritto di essere debole, sconfitto e si gode questa zona di nessuno, questo spazio solo suo, il piacere di vivere senza dover essere valutato, messo in classifica, senza il dovere assillante di primeggiare. Arrigo Levi, citato nel vostro libro, parla della vecchiaia come di una nuova avventura, in cui c’è più tempo — più libertà dal lavoro, da quella esigenza di fare, di produrre, di partecipare, di intervenire, che toglie il respiro e rende schiavi. È un dramma non avere un lavoro che permetta di vivere con dignità, ma c’è una febbre ansiosa di attività, di interventi; un assillante bombardamento di cose da fare, domande cui rispondere, eventi cui partecipare, una vera maledizione che avvelena l’esistenza. Si è persa la capacità di oziare, di quel “grande ozio” che permette di vivere veramente, di cui parlava Comisso proprio sul Corriere . Se la vecchiaia offrisse una liberazione da tutto questo non sarebbe poco…». Claudio Magris del 08/10/14, pag. 18 Il boom delle prostitute minorenni: “Casi quadruplicati in un anno” L’allarme della procura di Roma: indaghiamo su incontri online e discoteche Sono sessanta gli uomini coinvolti nell’inchiesta sulle due prostitute quindicenni che ha sconvolto Roma. Grazia Longo Roma Lolite a tratti ingenue, a tratti disincantate che si vendono online, nei festini delle discoteche o fuori dai locali più fashion della capitale. Adolescenti con storie difficili alle spalle, ma anche altre cullate in un ambiente economico borghese e quasi ricco, seppur povero dal punto di vista etico e sociale. È drammaticamente impietosa la fotografia della prostituzione minorile che emerge da una maxi inchiesta della procura di Roma sulla crescita esponenziale del fenomeno. Non stiamo parlando dell’inchiesta sulle tristemente note baby squillo dell’esclusivo quartiere Parioli, ma di un fenomeno con numeri da capogiro. Negli ultimi dodici mesi le baby prostitute risultano 190, mentre lo scorso anno erano appena (si fa per dire) 35. In altri termini, si è registrato un incremento del 442% . Avete letto bene: la diffusione di questa piaga sociale è quasi 5 volte superiore all’anno scorso. E non finisce qui. Come non bastasse già questo dato, l’inferno a luci rosse è destinato a lievitare oltre misura. Le previsioni del pool fasce deboli, guidato dal procuratore aggiunto Maria Monteleone, fanno paura. Si ipotizza, infatti, un’ulteriore crescita del fenomeno del 146% per il 2015. Il focus della procura di Roma comprende l’intero distretto della Corte d’Appello di Roma, in sostanza l’intera Regione Lazio. Ma gli episodi sono concentrati nella capitale per ben il 44 90% dei casi. Ampio e vario lo spaccato dei clienti, che oscilla dai facoltosi imprenditori, a studenti poco più giovani delle ragazzine, a uomini pronti a spendere cifre tra i 100 e 1000 euro, ma anche molto di più, per accompagnarsi a ragazzine magari fisicamente procaci, ma che in realtà sono poco più che bambine. Con tutti i danni psico-fisici che devastano queste giovanissime prede di maschi indifferenti alla loro minore età. E se la stragrande maggioranza delle ragazzine si vende nella capitale, la seconda città che si impone in questa «black list» del sesso vietato è Civitavecchia. La Procura di Roma, avvalendosi della collaborazione delle forze dell’ordine - carabinieri e polizia postale in testa - è pronta a dare battaglia e a non concedere tregua agli sfruttatori, ma anche ai clienti delle ragazzine. Si tratta di indagini delicate e complesse perché, mentre nella circostanza specifica dei Parioli c’erano un appartamento e degli sfruttatori ben individuabili e individuati, nel caso della prostituzione attraverso la Rete (bakecaincontri.com regna incontrastata sugli altri siti online) la caccia all’orco si fa più ardita. Più delimitati e circoscrivibili, sono invece i casi che si consumano vicino a discoteche o a locali dove l’happy hour prolungato si trasforma in un’occasione per stipulare «contratti», incontri a luci rosse a pagamento. L’attenzione del pool fasce deboli è, comunque, talmente alta da intensificare notevolmente l’attività investigativa di prevenzione. Il tema è stato peraltro inserito nella relazione che l’aggiunto Monteleone consegnerà per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, in programma il prossimo gennaio. E per farsi un’idea di ciò che può accadere a clienti e sfruttatori, il termine di paragone è sempre il caso delle quindicenni dei Parioli, dove si contano una sessantina di clienti. La procura ha appena accolto la richiesta di patteggiamento per quattro di loro, chiedendo la condanna a un anno di reclusione e oltre mille euro di multa. Mentre Mirko Ieni, ritenuto il «dominus» del giro di prostituzione, è stato condannato a dieci anni. Nello stesso processo sono stati condannati la madre di una delle due ragazzine (sei anni), Nunzio Pizzacalla (sette anni), Riccardo Sbarra (sei anni), Marco Galluzzo (tre anni e quattro mesi), Michael De Quattro (quattro anni). Un processo ordinario si delinea invece per Mauro Floriani, dirigente di Trenitalia e marito della senatrice di Forza Italia Alessandra Mussolini e per Nicola Bruno, figlio di Donato, parlamentare di Forza Italia. Per loro, oltre ad altri clienti, è stata chiesta una proroga di indagini. 45 BENI COMUNI/AMBIENTE del 08/10/14, pag. 1/31 L’importanza di coltivare il dubbio davanti agli Ogm MICHELE SERRA L‘AFFERMAZIONE “la scienza ha sempre ragione” non è scientifica. È ideologica. Lo è tanto quanto il pregiudizio reazionario per il quale ogni mutamento del modo di produrre, consumare, nutrirsi, avviene nel nome di interessi inconfessabili, e a scapito della salute della collettività umana . L’ACCESO dibattito sugli ogm (vedi gli interventi su Repubblica di Vandana Shiva, Elena Cattaneo, Carlo Petrini, Umberto Veronesi) fatica a mondarsi di queste opposte rigidità. E fa specie che nel campo “pro”, che annovera valenti ricercatori e scienziati, pesi ancora come un macigno l’idea che il fronte degli oppositori sia un’accolita di mestatori che, in odio al progresso umano e alla libertà di ricerca, alimentano dicerie malevole e speculano sulla paura e l’emotività dell’opinione pubblica. Una volta esposte le ottime ragioni della ricerca scientifica e della sua necessaria libertà d’azione, perché evocare, tra i soggetti “antiscientifici” in qualche modo assimilabili agli oppositori degli ogm, anche i fattucchieri di Stamina? Allo stesso identico modo le frange più eccitabili del fronte anti-ogm possono immaginare che la ricerca genetica sulle piante sia nelle mani di squilibrati megalomani (alla dottor Frankenstein) o di avidi mercenari. Le forzature polemiche fanno parte del gioco, ma non aiutano a mettere meglio a fuoco gli argomenti. La più autorevole istituzione mondiale in tema di agricoltura e alimentazione, la Fao (www.fao.org), mette a disposizione di competenti e incompetenti (come me) una sintesi esauriente e comprensibile delle potenziali ricadute positive e negative delle coltivazioni ogm, con una breve analisi della loro verificabilità. Lo spazio di un articolo non permette di elencare tutti i punti (rimando i lettori al sito della Fao). Mi limito a dire che i “capi di accusa” sono divisi in tre gruppi: ricadute sull’ambiente agricolo e l’ecosistema; ricadute sulla salute umana; ricadute sull’assetto economico e sociale. Mi sembra interessante e molto rilevante che la Fao, sulla quasi totalità di questi punti critici, non esprima certezze. Non dice, cioè: questa critica è campata in aria oppure questa critica è corretta. Esprime dubbio. In larga parte dovuto alla tempistica medio-lunga che una verifica attendibile (scientifica!) richiederebbe. Il principio di cautela — che non vuol dire condanna né assoluzione: vuol dire umiltà di giudizio — dovrebbe e potrebbe dunque essere uno dei punti di partenza di una corretta discussione comune, ammesso che mai ci si arrivi. Certo confligge, questo principio di cautela, con la comprensibile fretta con la quale i finanziatori della ricerca, in grande parte nutrita con fondi privati, vorrebbero mettere a profitto le loro scoperte e i loro prodotti. È esattamente per questo che Vandana Shiva mette in guardia contro la coincidenza di ruolo tra ricerca e commercializzazione. Sono campi di interesse entrambi utili e legittimi: ma la loro ibridazione — per dirla con una battuta transgenica — può generare mostri. Una volta detto che la questione è molto complicata, coinvolge competenze scientifiche le più varie e non è archiviabile con un “sì” né con un “no”, colpisce assai che di questi “rischi” il più sottaciuto sia quello che, al contrario, è il più nevralgico e coinvolgente: la ricaduta socioeconomica. È anche questo, in fondo, un portato della crisi della politica: la 46 rinuncia ormai quasi pregiudiziale a mettere in discussione, o anche solo a cogliere, le scelte strutturali, quelle che determinano gli assetti futuri. Quasi inutilmente, in tutti questi anni, Carlo Petrini e il vasto movimento mondiale che si rifà a Slow Food e a Terra Madre hanno rivendicato la natura squisitamente politica del loro lavoro e della loro battaglia. Chi oggi rivendica la “sovranità alimentare” delle comunità produttive (e dei consumatori) compie la stessa operazione politico-culturale dei nostri avi socialisti quando dicevano “la terra a chi la lavora”. Si rivendica, né più né meno, l’autodeterminazione dei produttori, affidando ad essa la difesa delle biodiversità, della varietà delle colture, delle culture, delle identità locali. Ovviamente è del tutto lecito sostenere che l’agroindustria, con la sua potentissima opera di selezione delle specie (tutte brevettate) e di inevitabile omologazione della produzione agricola mondiale, è perfettamente compatibile con la biodiversità e con le piccole coltivazioni; o addirittura che è giusto e utile rimpiazzare del tutto le produzioni tradizionali con la produzione agroindustriale. Ma non è lecito fare finta che non sia questo (il modo di produzione, la struttura stessa delle società future) il punto nodale. Non sono in ballo solo il potenziale allergenico di un pomodoro, o il chilo di pesticida per ettaro in più o in meno. L’ordine del giorno non è solo “gli ogm fanno bene, gli ogm fanno male”. È in discussione la vita stessa delle società rurali nel mondo (più della metà dei viventi), la ripartizione del potere, del reddito, delle conoscenze tra una rete infinita di piccole comunità e pochi, immensi e quasi sempre anonimi centri decisionali. Sono in discussione gli 87 milioni di ettari di suolo africano acquistati dal 2007 a oggi dalle multinazionali americane e cinesi e da fondi di investimento opachi e onnipotenti: è una superficie grande quasi come Italia e Francia messe insieme, e a nessuno può sfuggire che coltivare pezzi così ingenti di pianeta a soia ogm per produrre biocarburante oppure incrementare le produzioni locali (più della metà dell’agricoltura africana è vocata all’autosostentamento) è una scelta tanto importante, tanto strutturale quanto lo è, nel bene e nel male, ogni grande rivoluzione tecnologico- scientifica, industriale, sociale. E se l’Africa vi sembra lontana e comunque fuori portata, come può chi vive in Francia o in Italia non percepire che la straordinaria varietà delle colture, il legame strettissimo tra i luoghi e ciò che si coltiva, si mangia e si beve, insomma l’agricoltura plurale, “calda” e identitaria per la quale si battono i Petrini e si battevano i Veronelli, i Mario Soldati e i Gianni Brera, non è una frontiera del passato, è un caposaldo della nostra trama sociale, economica, culturale? Dunque è futuro allo stato puro? O dobbiamo dire “Italian style” solo parlando di borsette? La libertà della ricerca scientifica è preziosa e va difesa: specie in campo medico, le biotecnologie possono dare frutti vitali, e Cattaneo e Veronesi fanno benissimo a tenere fermo il punto. Ma non è solo di questo che si parla, quando si parla di ogm. E i critici degli ogm possono ben dire di avere sbagliato qualcosa di sostanziale, in termini di comunicazione, se ancora oggi ci si scanna sul ravanello transgenico (faccio per dire) e non si capisce che non è di lui, è di quasi quattro miliardi di contadini che si sta parlando, del loro e del nostro futuro, e della loro libertà di scelta che è degna e importante quanto quella dei benemeriti ricercatori scientifici. Non è vero che “quando c’è la salute c’è tutto”. Conta la libertà. Conta la dignità. Conta che il potere sia in pochissime mani o nelle mani di molti. 47 CULTURA E SCUOLA del 08/10/14, pag. 52 Digitale, iPad, cellulari fanno nascere una cinematografia diversa che cancella il concetto di autore. E così lo spettatore, con il passaparola, crea e distribuisce... Il film collettivo Crowdfunding e videocamera “Adesso il cinema lo facciamo noi” FRANCO MONTINI ROMA DICEVA Cesare Zavattini: «Tutti possono usare le immagini in movimento come strumento di comunicazione e di conoscenza». E così è stato: grazie alla tecnologia digitale e alla diffusione di telecamere, videocamere, cellulari, in una parola di maneggevoli strumenti che consentono la registrazione di immagini, sta nascendo un cinema diverso, che cancella il concetto di autore. Un cinema che spunta dal basso, per contenuti e per modalità produttive. Lo dimostrano due film della Mostra di Venezia: Italy in a day di Gabriele Salvatores, nato dalla raccolta e dal montaggio dei video inviati da 40 mila italiani e Io sto con la sposa ( in sala da domani), realizzato con poco meno di 100 mila euro raccolti attraverso un’operazione di crowdfunding cui hanno aderito 2617 finanziatori con cifre variabili da due a qualche centinaia di euro. Racconta Marco Visalberghi, titolare di Doc Lab che ha coordinato il progetto: «Speravamo di raccogliere 20/25mila euro, il risultato è stato superiore a qualsiasi aspettativa. Ci ha aiutato del film: l’immigrazione raccontata non in forma di pugno nello stomaco, ma come una specie di favola, benché si tratti di una storia vera, l’avventuroso viaggio di un gruppo di clandestini da Milano a Stoccolma». Non si pensi tuttavia — avverte Visalberghi — che sia sufficiente mettere in rete una proposta per raccogliere facilmente risorse: bisogna individuare una comunità di riferimento e lavorare di creatività. L’operazione Io sto con la sposa è stata continuamente sostenuta da idee come l’organizzazione di un gioco interattivo sul tema dei pregiudizi». E intanto Doc Lab si appresta a lanciare una nuova operazione dello stesso genere: un film che, partendo dalla storia di Francesco Lo Toro (che per tutta la vita si è dedicato alla raccolta e alla salvaguardia delle musiche nate nei campi di concentramento di tutto il mondo), intende raccogliere materiali sull’argomento. È soprattutto sui contenuti che il cinema partecipato rappresenta una vera rivoluzione. «La prima volta che andai in Africa — spiega Angelo Loy, che ha realizzato una serie di filmati con i ragazzi di strada di Nairobi assistiti da Amref — pensavo di realizzare un documentario. Ma lo sguardo dell’en- nesimo reporter occidentale era inutile. Ho capito che bisognava cambiare il punto di vista e affidare il racconto agli stessi protagonisti, mettendo la videocamera in mano ai ragazzi, dopo aver insegnato loro a usarla. Nel primo film, Tv slum , realizzato nel 2002, furono coinvolti otto ragazzini, oggi organizzo laboratori a cui partecipano centinaia di ragazzi. I risultati sono sempre sorprendenti non solo per le storie che vengono raccontate, ma anche per il linguaggio usato. È accaduto con i bambini africani, ma anche in esperienze più recenti realizzate a Roma nel quartiere San Basilio e con i ragazzi di Castel Volturno ». 48 Le maggiori esperienze in questo campo sono quelle realizzate da Zalab, un gruppo di cineasti che fa capo ad Andrea Segre. Zalab si è occupato soprattutto di argomenti legati all’immigrazione e a contesti post-bellici. I lavori realizzati vengono successivamente distribuiti in una forma anche questa partecipativa, che si rivolge direttamente agli spettatori, i quali si fanno promotori di proiezioni. In questo modo il documentario Come un uomo sulla terra , che dà vol’argomento ce ai migranti reduci da terribili esperienze in Libia, è già stato proposto in 600 diverse situazioni. Gli argomenti affrontati più frequentemente dal cinema collettivo riguardano realtà marginali, situazioni di precarietà. Proprio in queste settimane si sta concludendo il progetto TorBellaVita animato da un gruppo di giovani cineasti che collabora con l’Amod (Archivio del Movimento Operaio e Democratico). Il gruppo, vincitore di un bando europeo — per altro una cifra modestissima 6 mila euro — ha lanciato in rete la proposta di raccontare dall’interno la vita di uno dei quartieri più malfamati di Roma. «Credi che Tor Bella Monaca sia diversa da come viene descritta dai mass-media? Allora raccontala tu!». Un discreto numero di abitanti del quartiere ha risposto, e a fine ottobre le storie saranno visibili in rete. «Il video partecipativo — spiegano — è una forma di medium attraverso cui un gruppo o una comunità crea il proprio film. L’attenzione più che sul risultato finale è sul processo che aiuta la comunità a autodeterminarsi». Insomma il cinema condiviso è solo una nuova forma di quella che una volta era l’informazione alternativa? Non necessariamente e non solo. Il caso Italy in a day sta lì a dimostrarlo: l’esperienza partecipativa può essere cinema tout court, può diventare un film che approda in un prestigioso festival e viene trasmesso in prima serata dalla Rai. Ma il film di Salvatores era stato preceduto, pur con esiti meno clamorosi, da Pranzo di Natale di Antonietta De Lillo realizzato con la stesse modalità. Ora la regista napoletana è al lavoro su un altro progetto analogo: Oggi insieme, domani anche . Tema: «L’amore nel senso più ampio del termine». Il film è frutto di un progetto produttivo nato da una serie di brevi documentari autonomi di vario stile ( Forbici di Maria Di Razza, Almas en juego di Ilaria Iovine, Bella di Pasquale Marino) che, insieme, faranno parte del lungometraggio Oggi insieme, domani anche . Dice De Lillo: «Questo modo di lavorare cancella l’idea del possesso del proprio lavoro e cambia il linguaggio e la forma del cinema». del 08/10/14, pag. 21 Scuola, la riforma di Confindustria:“Ridurre di un anno il ciclo di studi” Il documento: il sistema è costoso e inefficiente, più autonomia agli istituti Flavia Amabile Chiamata diretta dei prof, riduzione di un anno del corso di studi, un rapporto diverso tra imprese e scuole. Confindustria ha 100 proposte per migliorare la scuola italiana e le ha presentate ieri. È la prima volta che accade ma il giudizio sulla scuola attuale da parte dell'associazione è molto severo. Si tratta di «un sistema assai costoso non perché di grande qualità ma perché inefficiente e dispersivo», sottolinea il presidente Giorgio Squinzi. Il governo ha presentato la sua riforma, in questi giorni a disposizione di chiunque voglia intervenire con idee, proposte, osservazioni sul sito «La Buona scuola». E gli industriali non resteranno a guardare ma intendono giocare un ruolo da protagonista negli eventuali cambiamenti futuri. La «Buona Scuola» di Renzi secondo Squinzi può 49 rappresentare «il teatro più stimolante per mettere in scena o una sonora sconfitta del gattopardismo o celebrarne la definitiva invincibilità. Sia chiaro che noi non compriamo il biglietto per sederci cinicamente in platea a vedere chi vince. Noi siamo in scena perché riteniamo di essere un attore fondamentale di questa trama. Le imprese sono parte attiva e fondamentale di un moderno modello di istruzione». E, quindi, ecco le cento proposte degli industriali che la ministra dell'Istruzione Stefania Giannini ha detto di aver apprezzato perché arricchiscono il progetto del governo con una piena sintonia sulle priorità. Si va dalla riduzione di un anno del curriculum scolastico per portarlo da 13 a 12 alla cancellazione delle graduatorie per anzianità. Gli industriali vorrebbero lezioni più pratiche, riducendo la quantità di materie presenti e dando maggiore importanza alle competenze trasversali. Non serve a molto una materia insegnata in inglese se i docenti non hanno una preparazione adeguata, e comunque l'inglese andrebbe esteso a tutte le materie. Da potenziare anche l'informatica. Gli industriali vorrebbero veder tramontare l'era del centralismo del Miur per garantire alle scuole una vera autonomia didattica, organizzativa, finanziaria. Quest'autonomia dovrebbe sostengo- no culminare nella possibilità per i presidi di assumere per concorso e per chiamata diretta premiando il merito. Le richieste degli industriali riguardano anche le retribuzioni degli insegnanti che andrebbero riviste in base ad orari, servizio, funzioni, conseguimento di obiettivi specifici. Deve cambiare il modo di reclutare i dirigenti scolastici; far nascere un Sistema Nazionale di Valutazione e potenziare l'Invalsi. Il documento della Confindustria è stato messo a punto dopo una «capillare consultazione sui territori di imprenditori, insegnanti, capi di istituto, formatori genitori e studenti», spiega Ivan Lo Bello, vicepresidente di Confindustria per l'Education. «Il 40% della disoccupazione giovanile dipende dal mancato collegamento tra scuola e lavoro e dal basso orientamento scolastico», ricorda. Confindustria, quindi chiede di investire di più negli Its, gli istituti tecnici superiori che hanno mostrato di garantire uno sblocco lavorativo a più di 6 studenti su 10. Chiedono l'introduzione dell'alternanza scuolalavoro a tutti i livelli di istruzione, e di renderla «obbligatoria negli ultimi 3 anni degli istituti tecnici». Chiedono la semplificazione dell'apprendistato, l'aumento del monte ore dedicato alla formazione «on the job» e la previsione di incentivi per l'imprenditore che investe in formazione. Dell’8/10/2014, pag. 11 Il pensiero della differenza va capito Femminismi. Una lettera aperta di Luisa Muraro a Benedetta Selene Zorzi, autrice del libro «Al di là del 'genio femminile'» Luisa Muraro Cara Benedetta Selene Zorzi, il presente è segnato da avvenimenti violenti e dolorosi. Sembra un lusso che io venga a ragionare con te su quello che è o non è il cosiddetto pensiero della differenza sessuale. Però, in quegli avvenimenti si tratta ancora e sempre del corpo delle donne, e non solo quando c’entrano donne in prima persona: anche quegli uomini che annegano miseramente o sono ferocemente uccisi, per venire al mondo hanno lasciato un corpo femminile che li ha albergati in amore e sicurezza. Anni fa, alla Scuola estiva di Lecce, hai sostenuto la tua contrarietà al pensiero della differenza. Il frutto delle tue ricerche di allora è ora un libro, Al di là del ’genio femminile’ 50 (Carocci), recensito da Paolo Ercolani su il manifesto del 4 ottobre in cui, tra altre cose, ribadisci quella tua posizione e affermi che il pensiero della differenza sarebbe incapace di superare la logica binaria che esclude la possibilità dell’«altro». Protesto vivamente contro quest’affermazione. Il senso che c’è altro è nel patrimonio genetico del pensiero della differenza. Tu naturalmente puoi avere dei buoni motivi per pensare quello che pensi, ma l’argomento critico che porti è sbagliato e semina confusione. Che cosa diresti, tu che sei teologa, a uno che rifiuta il cristianesimo perché sarebbe una religione politeista? Gli diresti che essere cristiano è nella sua libera scelta ma che la sua idea è sbagliata perché le tre persone divine non sono tre divinità. Forse, gli diresti anche che c’è un’autorevole tradizione che ha sempre visto nel cristianesimo una religione monoteista. Il pensiero della differenza ha ispirato fin dagli inizi il movimento femminista della seconda ondata. Il femminismo americano, che aveva il dono della comunicazione energica, diceva: maschio occidentale bianco borghese di mezza età, ti credi l’uomo per eccellenza, guarda che ti sbagli, c’è altro, ci sono altri e altre, e te ne accorgerai. Come pensiero politico e filosofico è già in Carla Lonzi, ed è stato poi ampiamente tematizzato da Luce Irigaray. Lo hanno sviluppato, in Italia, Marisa Forcina che ha fondato la Settimana di Lecce e ha scritto la voce Differenza sessuale per l’enciclopedia filosofica Bompiani; la comunità filosofica Diotima dell’Università di Verona, il cui grande seminario che si aprirà il 10 ottobre tornerà su questo tema; Ida Dominjanni che lo ha fatto sulle pagine stesse del manifesto e in molte altre sedi; recentemente, Giusi Zanardo e Riccardo Fanciullacci dell’Università di Venezia, che hanno curato Donne, uomini. Il significare della differenza (Vita e Pensiero, 2010), Lia Cigarini intervistata da Luisa Cavaliere, C’è una bella differenza (et al., 2013). Devo fermarmi. Secondo me una causa maggiore di confusione è nel linguaggio che parla di differenza come se fosse qualcosa che sta tra donne e uomini spartendo l’umanità in due. Mi chiedo se la tua critica di «pensiero binario» non venga da una confusione di questo tipo. La differenza non è tra. Essa è in me, mi è interna e immanente, mi impedisce di identificarmi con quella che sono, mi mette in relazione con quella che non sono. Non c’è un’identità sicura e stabile nell’essere chiamata donna, e in questo si comincia finalmente a vedere un pregio. Io ho accettato di essere identificata come donna con una vera e propria decisione politica, che ha coinciso con l’impegno per un senso libero della differenza sessuale. A rigore possiamo aggirare il nostro chiamarci donne/uomini, così come si può non misurarsi con l’imposizione biologica della sessuazione. Ma si può veramente? È una questione aperta che si porrà il prossimo Seminario di Diotima. E lo vogliamo veramente? Per le donne, storicamente discriminate a causa della differenza sessuale, estromettere quest’ultima dalla sfera dell’umano può essere tentante, ma c’è un grande rischio, che in definitiva rimanga solo il neutro-maschile, e che di conseguenza la strada dell’autorealizzazione per le donne torni a essere quella dell’emancipazione o quella dell’imitazionismo. Insomma, cara Benedetta, la terra da lavorare è tanta, non calpestare quella già lavorata. 51 ECONOMIA E LAVORO del 08/10/14, pag. 4 Impegno del governo nell’emendamento al Jobs Act: “vantaggi su oneri diretti e indiretti” Le modifiche all’articolo 18 saranno inserite direttamente nei decreti delegati Sgravi contributivi per tre anni a chi assume a tempo indeterminato VALENTINA CONTE ROMA . Il governo si riserva di cambiare l’articolo 18 più in là, quando scriverà i decreti delegati del Jobs Act. E per questo nel maxi-emendamento su cui il Senato quest’oggi voterà la fiducia - sostitutivo dell’intero testo licenziato in commissione lo scorso 18 settembre - non vi sarà riferimento alcuno alla possibilità di reintegrare il lavoratore nei casi di licenziamento illegittimo discriminatorio e pure in gravissimi e selezionati casi di licenziamento disciplinare, come approvato nell’ordine del giorno del Pd della scorsa settimana. L’emendamento accoglierà però diversi “suggerimenti” partiti dal Nazareno. Il più importante dei quali, la vera contropartita alla cancellazione di fatto dell’articolo 18, è la concessione di sgravi fiscali al contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti che con il Jobs Act diventa non solo la forma di contratto privilegiata e di riferimento, ma anche quella più conveniente, grazie a «vantaggi su oneri diretti e indiretti». In pratica meno contributi (previdenziali e assistenziali) da accompagnare, nei primi anni, ad esempio tre, alla deducibilità del costo del lavoro per i nuovi assunti dall’Irap o a specifici bonus. E l’articolo 18? Mai entrato nel Jobs Act e ora espulso pure dall’emendamento governativo (ma al centro del dibattito di queste settimane con il premier propenso a una sua cancellazione), sarà oggetto di impegno politico. Quello che prenderà quest’oggi in Senato il ministro del Lavoro Poletti nella relazione illustrativa al disegno di legge, quando offrirà una sorta di “riconoscimento politico” all’ordine del giorno Pd. E spiegherà il percorso che intende seguire il governo per togliere il reintegro in tutti i casi illegittimi di licenziamento economico, risarcito solo con l’indennizzo. Ma lasciarlo, come promesso al Pd, per quello discriminatorio e quello disciplinare “tipizzato”, ovvero in casi specifici tutti da scrivere. In grado di sterilizzare quel «margine eccessivo di interpretazione oggi riservato ai giudici », spiega una fonte di governo, ed «eliminare le ambiguità» che oggi portano «a reintegrare chi ha rubato, ma ha rubato poco e dunque il licenziamento è decisione troppo severa». «Nel maxi-emendamento vi sono passi avanti che apprezziamo », commenta Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro e deputato pd, espressione di quella “minoranza” del partito che difende l’articolo 18. «Ma non è ancora sufficiente, visto che manca la tutela dei licenziamenti disciplinari. La battaglia continua alla Camera». I “passi avanti” in effetti riguardano alcune proposte pd accolte nel maxi-emendamento. A cominciare dall’impegno a combattere le false partite Iva e a «superare» i co.co.pro. (ma non a cancellarli, come detto da Renzi, con l’intento probabilmente di conservare le sole collaborazioni genuine). Il demansionamento sarà poi “addolcito”, legato cioè a parametri oggettivi, come l’effettiva situazione di difficoltà dell’azienda, e tenendo conto della «condizione di vita ed economica del lavoratore» che se passato a mansioni inferiori conserva lo stipendio. Il voucher diventerà una sorta di mini-job alla tedesca e dunque, con «un tetto annuo pari a 5 mila euro», potrà essere esteso anche all’industria (oggi è usato per impiegare 52 disoccupati e pensionati nel commercio, agricoltura e imprese familiari). Infine l’emendamento del governo, il cui testo definitivo si conoscerà solo oggi, metterà nero su bianco che i risparmi derivanti dal riassetto degli ammortizzatori sociali dovranno essere destinati per la loro riforma complessiva e per potenziare le politiche attive, dunque i servizi all’impiego. Nessun cenno però alle risorse aggiuntive che il premier Renzi ha promesso, a partire da questa legge di Stabilità, per i “nuovi” ammortizzatori. Un miliardo e mezzo extra dal 2015. Come pure alla fine non dovrebbero entrare nel testo le norme sulla rappresentanza sindacale e l’ampliamento della contrattazione decentrata e aziendale, che pure Renzi aveva intenzione di introdurre, come detto ieri in conferenza stampa al termine dell’incontro con i sindacati: «Sono suggerimenti condivisibili che mi sono stati suggeriti dal mio partito. In particolare dalla parte che non sta con me». Ancora inquieta, a quanto sembra, ma non al punto da negare la fiducia al governo. Il voto arriverà oggi in serata, dopo la presentazione del maxi-emendamento e la fine del dibattito. Dell’8/10/2014, pag. 4 Articolo 18, ecco lo scalpo Jobs act. Il premier asfalta i sindacati e ricompatta i padroni: con la delega modificherà il reintegro a suo piacimento. Oggi a Milano con Merkel e Hollande festeggerà. Katainen permettendo Massimo Franchi Lo «scalpo» lo ha ottenuto senza problemi. E oggi lo mostrerà orgoglioso all’Europa intera. Se Matteo Renzi una settimana fa poteva dire legittimamente di aver «spianato» la minoranza Pd alla Direzione del partito, ieri all’ora di pranzo il premier aveva la faccia felice di chi ha asfaltato in un colpo solo i sindacati — tranne la Cgil — e ogni opposizione. L’esito della fiducia al Senato è scontato e al vertice europeo sul lavoro di Milano quindi il presidente del consiglio arriverà con l’approvazione di una delega praticamente in bianco sull’articolo 18 a fronte di qualche piccola concessione su demansionamento, legge sulla rappresentanza e Tfr fatta apposta per dividere i sindacati e ricompattare le parti datoriali. Ieri la modifica dell’articolo 18 ha avuto una nuova spiegazione. Che parte da una constatazione ovvia ma non scontata — almeno per Renzi — : «So anch’io che da sola non crea lavoro, ma serve per dare certezze alle imprese, per creare il giusto business context che consente loro di tornare ad investire e a creare lavoro». Così motivata la modifica della disciplina per il reitegro in caso di licenziamento senza giusta causa rimarrà un mistero fino ai primi mesi del 2015: per «chiarire le fattispecie» bisogna «avere la pazienza di attendere il decreto legislativo», ha spiegato Renzi, lasciando al ministro del lavoro Giuliano Poletti l’ingrato compito di spiegare «le specifiche in aula». Non fa infatti assolutamente parte dell’emendamento del governo sulla delega su cui il governo metterà la fiducia mentre — ha specicato il presidente del consiglio — «la disciplina del licenziamento disciplinare stabilita dal documento della direzione Pd sarà resa puntuale nel decreto legislativo». Mani completamente libere dunque, tanto che qualcuno inizia a sostenere che l’ambigiutà è necessaria perché il premier punta a togliere l’articolo 18 non solo ai nuovi contratti a tutele crescenti, ma a tutti i lavoratori. Un quadro per lui idilliaco che lo porta a dirsi «particolarmente soddisfatto» della mattinata «a pieno regime della sala Verde». Un Renzi che quindi può perfino mostarsi umile — «ascoltiamo e impariamo cose da tutti» — perché tanto è sicuro che «si va avanti senza veti» sul suo modello che «non è la Thatcher, bensì la sinistra della Terza via di Blair o il Barack Obama di oggi». La novità più 53 grande rispetto ai giorni precedenti è però l’apertura — se non il via libera — di Confindustria e Rete Imprese al Tfr in busta paga. Se la contrarietà era dovuta al fatto che quei soldi erano l’unica liquidità rimasta, specie per le piccole imprese, il governo ha quietato le critiche annunciando che «lo faremo se piccole e medie imprese saranno garantite dai sistemi bancari» e dalla Cassa depositi e prestiti. Il silenzio di Squinzi lungo tutta la giornata è più eloquente di qualsiasi parola. Confindustria e il resto delle organizzazioni datoriali hanno vinto su tutta la linea, articolo 18 in primis. L’Alleanza delle cooperative invece gongola per l’introduzione del salario minimo: «A noi serve per combattere il dumping delle false coop», spiega il neo presidente di Legacoop e dell’Alleanza delle cooperative, Mauro Lusetti. La concessione sul demansionamento — al lavoratore non verrà toccato il salario — viene definita «un falso problema: l’importante è ristrutturare e spostare i lavoratori». Sul fronte europeo ieri però non è andato tutto liscio. Se fonti del governo di Berlino in mattinata hanno lodato il Jobs act, oggi la conferenza stampa Renzi, Hollande, Merkel dovrà fare i conti con le parole del custode dell’austerità: il commissario finlandese Jyrki Katainen. Durante l’audizione davanti al parlamento Europeo il dogma è stato ribadito: «Nei Paesi non c’è spazio di manovra per nuovo deficit e debito». E ancora: «Dobbiamo trattare tutti i Paesi nello stesso modo», annunciando che sarà lui — su delega dello stesso Juncker — a preparare «una interpretazione comune della flessibilità». del 08/10/14, pag. 6 Tutte le nuove misure (senza articolo 18) Rinviata alle norme attuative la parte sui licenziamenti. Limite ai demansionamenti Spuntano incentivi per il contratto unico con l’obiettivo di superare i rapporti precari ROMA Quello a tempo indeterminato e a tutele crescenti sarà il tipo di contratto «privilegiato in termini di oneri diretti e indiretti». Per questo sarà possibile incentivarlo, sotto forma di taglio dei contributi o dell’Irap da quantificare successivamente con le norme attuative, in modo da renderlo più vantaggioso rispetto ai contratti a termine che altrimenti non avrebbero rivali, specie dopo la liberalizzazione di pochi mesi fa. E con l’obiettivo finale di arrivare al «superamento delle tipologie contrattuali più precarizzanti». Nell’emendamento al Jobs act , il disegno di legge delega per la riforma del lavoro sul quale oggi il Senato dovrà votare la fiducia, il governo fa qualche altro passo verso la minoranza del Pd, che però resta critica. Licenziamenti Dal pacchetto, otto pagine che ieri sera hanno avuto la bollinatura della Ragioneria generale dello Stato e stamattina saranno depositate formalmente in Senato, resta però fuori ogni riferimento alle nuove regole sui licenziamenti e all’articolo 18. La questione sarà confinata ad un semplice discorso che il ministro del Lavoro Giuliano Poletti farà in Aula. Dichiarazioni spontanee, nessuna votazione a seguire. Come indicato nel documento votato nella direzione del Pd, il ministro si impegnerà a mantenere il reintegro nel posto di lavoro per i licenziamenti disciplinari, quelli addebitati al comportamento del dipendente, che dovessero essere giudicati ingiustificati dalla magistratura. Ma solo in alcuni casi limite e comunque rimandando i dettagli al 2015, quando il Jobs act sarà stato approvato anche alla Camera e il governo scriverà i decreti attuativi. 54 La tipizzazione A quel punto, ma solo a quel punto, il governo procederà ad una tipizzazione più stretta dei licenziamenti disciplinari ingiustificati, in modo da ridurre il margine di discrezionalità dei magistrati. E lascerà aperta la possibilità per l’azienda di scegliere comunque l’indennizzo, ma più caro, anche quando il magistrato dispone il reintegro. I decreti attuativi passeranno in Parlamento solo per un parere non vincolante, e il governo avrà gioco più facile rispetto al difficile compromesso che deve cercare adesso. Una semplice dichiarazione del ministro non è una garanzia sufficiente per la minoranza Pd, che con Cesare Damiano avverte: «La battaglia per migliorare la delega continuerà alla Camera». Ma potrebbe funzionare da scudo in futuro, se le norme attuative dovessero essere impugnate davanti alla Corte costituzionale perché vanno al di là della delega, visto che nel Jobs act manca un riferimento proprio all’articolo 18. Mansioni e voucher Nell’emendamento ci sono altri due passi verso la minoranza Pd. Il primo è sul demansionamento, cioè la possibilità di assegnare al lavoratore mansioni inferiori a quelle della categoria di appartenenza. L’operazione sarà possibile rispettando le «condizioni di vita ed economiche del lavoratore», il che non vuol dire necessariamente conservando lo stesso salario ma quasi. Mentre sui voucher, i buoni lavoro utilizzati per le prestazioni occasionali, resta fermo il principio di un tetto massimo al loro utilizzo, che però sarà definito sempre con le norme attuative. Scioperi e referendum Non ci saranno invece, salvo sorprese, le norme sulla rappresentanza, sulla contrattazione aziendale e sul salario minimo, delle quali aveva parlato lo stesso Matteo Renzi nel corso dell’incontro con i sindacati avuto in mattinata. L’obiettivo è quello di impedire scioperi e referendum quando un accordo viene firmato dal 50% più uno dei rappresentanti sindacali, limitando il diritto di veto delle sigle più piccole (leggi Fiom). Mentre il salario minimo potrebbe sostituire in parte i contratti nazionali, indebolendo anche i sindacati più grandi. Il progetto resta in piedi ma con tempi più lunghi. Lorenzo Salvia del 08/10/14, pag. 5 Renzi divide il fronte dei sindacati Cisl e Uil aprono, gelo con la Cgil. Il premier: non temo agguati dal Pd. Forza Italia: non votiamo il Jobs act ROMA Al termine di un confronto a tratti ruvido con le parti sociali, il premier scende in sala stampa e si dice del tutto sereno: oggi sarà contento di portare i risultati della riforma del lavoro a Milano, al vertice con i leader europei, e a proposito della fiducia parlamentare, che annuncia di persona, «è un voto palese e non ci sono franchi tiratori, non temo agguati, ove ci fossero li affronteremo». Da parte di Forza Italia invece nessun soccorso: riassume Giovanni Toti, «non voteremo». Con la Camusso, più che con gli altri, ci sono state battute, sarcasmo, un clima per molti versi gelido. Il capo della Cgil ha in sostanza detto che non finisce qui, e nemmeno alla prossima convocazione, Renzi, forte anche delle aperture di Uil e Cisl, ha liquidato così: «Ce ne faremo una ragione». Riassunto ulteriore del premier, di fronte a obiezioni tecniche o promesse di protesta: «Non ci faremo bloccare da veti». 55 Renzi davanti ai giornalisti è molto soddisfatto: oggi a Milano si presenterà «con il programma di riforma strutturale più ambizioso che l’Italia abbia mai avuto e» senza pari «anche a livello europeo, per complessità e velocità». Ai sindacati ha detto arrivederci a fine mese (il 27), il suo intervento in sala verde è durato 8 minuti, in tutto il confronto un’oretta. «L’unica vera novità dell’incontro è che ci saranno altri incontri», ha riassunto da parte sua Susanna Camusso. Resta «il totale dissenso» su un intervento sull’articolo 18 e sul demansionamento dei lavoratori. Insomma, un confronto che non è andato né bene né male, quasi una fumata grigia, anche se lo stesso premier ha rimarcato i punti di contatto con le altre due sigle sindacali: «Ci sono sorprendenti punti di intesa». Si è anche scherzato, sulla durata, «un’ora sola ti vorrei..», aveva detto la Camusso, Renzi ha replicato con Bennato («una settimana, un giorno»), il ministro Padoan con la canzone «Quattro minuti» del rapper Mondo Marcio. Nel dettaglio il premier ha confermato che la tutela del reintegro previsto dall’art. 18 dello Statuto per i licenziamenti ingiustificati resterà per quelli discriminatori ma anche per i disciplinari, «previa specifica delle fattispecie». Sarebbe anche intenzione del governo introdurre nel maxiemendamento «la regolazione della rappresentanza sindacale e un ampliamento della contrattazione decentrata e aziendale». Nel corso del confronto Renzi ha citato tre casi in testa alla lista delle imprese da salvare: Termini Imerese, l’Ilva di Taranto e l’Ast di Terni, «sono le tre T di cui bisogna subito occuparsi insieme». Nella legge di Stabilità ci saranno due miliardi per la riduzione delle tasse sul lavoro e un miliardo per la scuola, ha tenuto poi a precisare. Alla fine, in conferenza stampa, si è scrollato di dosso un paragone fatto giorni fa dalla Camusso: «Se c’è un modello da cui mi sento molto lontano, naturalmente con tutto il rispetto dovuto, è proprio colei che diceva che la società non esiste, come Margaret Thatcher. Se devo indicare un modello internazionale direi Clinton e Blair, o Obama». Marco Galluzzo 56
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