www.supsi.ch/fisco Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana Dipartimento scienze aziendali e sociali Centro competenze tributarie Novità fiscali L’attualità del diritto tributario svizzero e internazionale N° 5 – Maggio 2014 Politica fiscale Ristorni fiscali dei frontalieri: un terreno di caccia elettorale 3 La denuncia dell’Accordo sull’imposizione fiscale dei frontalieri 5 Diritto tributario svizzero Coniugi: disparità di trattamento in base alla residenza dei frontalieri 8 Diritto tributario italiano Il regime tributario italiano dei redditi derivanti da attività di lavoro dipendente prestate all’estero 14 Diritto tributario internazionale e dell'UE Il blocco dei ristorni da parte del Canton Ticino è veramente incompatibile con il diritto internazionale? 17 L’Accordo italo-svizzero sui frontalieri del 1974 e la sua possibile denuncia 31 Rassegna di giurisprudenza di diritto tributario svizzero Il termine del 31 marzo è determinante per richiedere all’autorità fiscale delle deduzioni supplementari in ambito di imposizione alla fonte? 35 Pubblicazioni Nuovo redditometro e difesa del contribuente 39 Offerta formativa Seminari e corsi di diritto tributario 40 Introduzione Novità fiscali 05/2014 Redazione SUPSI Centro di competenze tributarie Palazzo E 6928 Manno T +41 58 666 61 75 F +41 58 666 61 76 [email protected] www.supsi.ch/fisco ISSN 2235-4565 (Print) ISSN 2235-4573 (Online) Redattore responsabile Samuele Vorpe Comitato redazionale Flavio Amadò Elisa Antonini Paolo Arginelli Sacha Cattelan Rocco Filippini Roberto Franzè Marco Greggi Giordano Macchi Giovanni Molo Andrea Pedroli Sabina Rigozzi Curzio Toffoli Samuele Vorpe Impaginazione e layout Laboratorio cultura visiva Ecco a voi una monografica! Questo numero di NF è interamente dedicato agli aspetti tributari del frontalierato, fenomeno estremamente importante sotto il profilo economico e sociale. E fenomeno che è stato, negli ultimi mesi, al centro di un intenso dibattito politico nel Cantone Ticino. Dunque, con l’intento di fare chiarezza, il presente numero della rivista offre spunti di riflessione sul tema. A partire dall’analisi di natura politica: l’incipit è rappresentato da due articoli che esaminano le recenti proposte di denuncia dell’Accordo tra Svizzera ed Italia sulla doppia imposizione e di quello sulla tassazione dei frontalieri, con due tagli e due tesi diametralmente opposte: l’uno vergato da Matteo Pronzini e l’altro da Christian Vitta. Sharon Guggiari Salari analizza poi la questione se la disciplina sul trattamento fiscale dei frontalieri coniugati, oggetto di uno specifico accordo stipulato dalle autorità competenti svizzera e italiana nel 1985, sia compatibile con i principi fondanti dell'ordinamento giuridico svizzero. A seguire Roberto Franzè esamina le speciali discipline fiscali di diritto italiano che regolano la tassazione del reddito dei lavoratori frontalieri. Si passa quindi ad un’analisi della legittimità giuridica del blocco dei ristorni operato nel corso dell’anno passato dal Cantone Ticino, nel quale Partick Schubiger ricostruisce il sistema normativo di diritto internazionale nel quale la vicenda del blocco deve essere inquadrata. Stefano Dorigo si cimenta poi con un giudizio, in punto di diritto internazionale, sulla denunciabilità del (solo) Accordo sulla tassazione dei lavoratori frontalieri. Infine, Sabina Rigozzi commenta una sentenza pronunciata dal Tribunale federale nel 2013, nella quale l’Alta Corte si è espressa con riferimento ai termini per richiedere all’autorità fiscale di operare una correzione dell’imposta alla fonte gravante sul reddito di un frontaliere. Paolo Arginelli Politica fiscale Ristorni fiscali dei frontalieri: un terreno di caccia elettorale Matteo Pronzini Deputato MPS al Gran Consiglio Sindacalista, membro della direzione nazionale del settore industria del sindacato Unia Breve analisi, sul metodo e nel merito, delle recenti proposte di denuncia dell’Accordo tra Svizzera ed Italia sulla doppia imposizione 1. Sul metodo Sono stato l’unico deputato del Gran Consiglio che ha votato contro l'iniziativa cantonale che chiede al governo federale di disdire l'accordo con l'Italia sulla doppia imposizione, accordo all'interno del quale vi è anche l'accordo relativo ai frontalieri che lavorano in Ticino e la questione dei ristorni fiscali ai Comuni nei quali abitano i frontalieri (quelli perlomeno oggetto dell'accordo). La mia posizione non contesta certo la legittimità del governo federale di disdire un accordo internazionale: suscitano in me invece perplessità e opposizione modi e tempi con i quali questo dibattito viene affrontato. Non vi sono infatti dubbi che questa discussione sulla imposizione dei lavoratori frontalieri in Ticino assume un senso solo se inserita nell'ambito della campagna dai contorni xenofobi che buona parte delle forze politiche sta ormai conducendo da tempo attorno ai salariati frontalieri. Obiettivo evidente è quello di spostare il centro dell'attenzione dai problemi essenziali che l'utilizzazione padronale della manodopera frontaliera, favorita dagli accordi bilaterali e dalla liberalizzazione del mercato del lavoro, sta creando in Ticino. In particolare la questione del dumping salariale e sociale che si manifesta attraverso una tendenza generale alla diminuzione dei salari e ad un'utilizzazione della manodopera frontaliera come elemento di riorganizzazione e di divisione dei salariati. Rispondere a questi problemi significherebbe riconoscere la dinamica messa in atto dagli accordi bilaterali e rimettere in discussione il diritto assoluto del padronato in materia salariale e di condizioni di lavoro. Si preferisce invece alimentare sentimenti xenofobi attraverso la discussione sul tema del ristorno delle imposte dei frontalieri: l'idea che viene alimentata è che i lavoratori frontalieri non solo "rubino" posti di lavoro e accettino condizioni di salario più basse, ma "rubino" anche una parte delle imposte che vengono prelevate e ristornate ai loro Comuni di residenza. 2. Nel merito Di per sé, come detto, non vi è nulla di censurabile nella richiesta di rinegoziare l'accordo sulla fiscalità dei frontalieri, in particolare per il fatto che si tratta di un vecchio accordo e, come tutti gli accordi, sicuramente necessita di essere adeguato all'evoluzione dei tempi. Le ragioni che vengono portate a sostegno della tesi della rinegoziazione dell’Accordo sull'imposizione dei frontalieri sono negli ultimi tempi assai cambiate. Accanto a questioni di principio, quali la reciprocità, vi erano ragioni più, diciamo così, "venali”, in particolare l'idea di poter "fare cassa" a favore delle finanze del Cantone. Questo obiettivo è stato per lungo tempo legato alla proposta di "ristornare meno" ai Comuni italiani di residenza dei frontalieri. Poi, più di recente, pare prevalere l'idea dell'abbandono di un accordo sulla doppia imposizione e di "abbandonare" i frontalieri al loro destino fiscale, sottoponendoli così ad una doppia imposizione, nel luogo di lavoro (in Ticino) e nel luogo di residenza (il loro Comune). A onor del vero solo la richiesta relativa all'introduzione del principio di reciprocità appare pertinente. È vero, infatti, che un certo numero di persone residenti in Ticino lavora quotidianamente al di là della frontiera. Appare quindi giusto che il loro trattamento fiscale sia uguale a quello riservato ai residenti italiani della zona di frontiera che ogni giorno vengono a lavorare in Ticino. Sono invece discutibili (e frutto del clima politico) le altre due strade percorse, come detto, in tempi diversi. Cominciamo con la questione dell'ammontare del ristorno. Come noto, l'accordo tra Svizzera e Italia del 1974 (poi modificato nel 1985) prevede che il 38.8% del totale delle imposte pagate dai frontalieri in Svizzera venga ristornato ogni anno ai Comuni di frontiera (nel raggio di 20 km) nei quali i frontalieri sono domiciliati. Di conseguenza poco meno del 62% di queste imposte resta al Ticino. La somma versata ai Comuni italiani supera di poco i 50 milioni di franchi annui, al Ticino restano circa 75 milioni. 3 4 Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 È noto a tutti, e su questo non pensiamo che vi siano possibili discussioni, che le imposte prelevate sul reddito di chi lavora debbano servire a finanziare le attività dello Stato. Strade, ospedali, amministrazione pubblica, scuole, sicurezza, socialità. Sono gli aspetti fondamentali finanziati attraverso i proventi fiscali. Se prendiamo come esempio il classico frontaliere, residente nella provincia di Varese, che ogni mattina entra dal valico del Gaggiolo per andare a lavorare in una delle numerose fabbriche della zona industriale di Stabio, di quali servizi offerti dallo Stato svizzero questi può beneficiare? Non certo delle scuole (i figli studiano in Italia), non certo dell'amministrazione pubblica (un certificato, un documento d’identità, deve recuperarli in Italia), nemmeno del servizio sanitario cantonale (ospedali), e neanche della sicurezza sociale (viene finanziata attraverso prelievi ad hoc - come per AVS, INSAI, eccetera), né tantomeno dei sussidi ad essa legati (pensiamo a quelli relativi ai premi dell'assicurazione malattia). Infine, il frontaliere non fa nemmeno un grande uso di strade e infrastrutture pubbliche visto che, nel caso in questione, utilizza poche centinaia di metri per recarsi al lavoro. Per l'utilizzazione di tutto questo (cioè poco o nulla) lascia al Ticino il 62% delle imposte prelevate sul proprio salario. Non ci pare che finora qualcuno abbia portato un solo argomento (e diciamo uno) che dimostri che il Ticino, per le prestazioni che offre ai frontalieri attraverso le attività finanziate dagli introiti fiscali, debba prelevare una quota maggiore dell'attuale 62%. Ora, come detto, la maggioranza sembra orientata verso una soluzione di doppia imposizione, partendo dall'idea di fondo che questo modo di procedere porterebbe più entrate sia al Ticino che ai Comuni di residenza dei frontalieri. A questa argomentazione se ne è aggiunta una più recente e viziosa: e cioè che questo maggiore onere fiscale "scoraggerebbe" i lavoratori frontalieri dall’accettare salari eccessivamente bassi e quindi, si aggiunge, sarebbe un'arma contro il dumping salariale. Lasciamo da parte quest’ultima ingenuità (al massimo aiuterebbe l’ulteriore sviluppo del pagamento in nero dei salari). Quello che ci pare di poter contestare è l'idea di fondo che, aggravando l'onere fiscale di una cospicua categoria di salariati attivi in Ticino (che non sono certo i meglio pagati) si farebbe un lavoro di "redistribuzione", qualcosa di "socialmente equo". A me pare che questo ragionamento, e lo dico come uomo di sinistra e sindacalista, debba assolutamente essere rifiutato: è un altro pericoloso seme di divisione e di odio che serve solo a favorire l'immobilismo dei salariati e la perennità degli interessi del padronato. La guerra "italo-svizzera", ne siamo sicuri, continuerà, alimentata da chi pensa che possa rendere elettoralmente. La verità, come detto, è che in questo periodo, di fronte alla crisi sociale accelerata da fenomeni come il dumping salariale e in vista delle elezioni cantonali, fa comodo diffondere sentimenti xenofobi che individuano nei lavoratori frontalieri il classico capro espiatorio. Su questo terreno né io, né il Movimento per il Socialismo possiamo esserci! Elenco delle fonti fotografiche: h t t p://w w w. i l g i o r n o . i t /s o n d r i o/c r o n a c a /2 01 2 /0 6/2 1 / 732 55 4/ images/1327857-frontalieri.jpg [26.05.2014] Politica fiscale La denuncia dell’Accordo sull’imposizione fiscale dei frontalieri Christian Vitta Deputato al Gran Consiglio, capogruppo del PLRT Le ragioni politiche per sostenere l’iniziativa cantonale di denuncia dell’Accordo 1. Introduzione Per il ruolo svolto dall’autore sottoscritto nella politica cantonale le considerazioni che seguono dovrebbero essere di natura prevalentemente politica. Altri specialisti, come il Prof. Marco Bernasconi e il Prof. Samuele Vorpe, attivi peraltro a vario titolo nell’insegnamento e nella ricerca proprio nella SUPSI, si sono già pronunciati con chiarezza sugli aspetti economico-fiscali della questione dell’imposizione fiscale dei frontalieri attivi nel Cantone Ticino, conferendo una solida legittimità all’iniziativa promossa dal Gruppo liberale radicale in Gran Consiglio per chiedere al Consiglio federale di denunciare l’Accordo che regola questa imposizione fiscale. Per essere precisi, gli accordi sono (materialmente) due, uno considerato parte integrante dell’altro. Il primo accordo in ordine di tempo è proprio l’Accordo tra la Svizzera e l’Italia relativo all’imposizione dei lavoratori frontalieri ed alla compensazione finanziaria a favore dei Comuni italiani di confine (di seguito Accordo), concluso il 3 ottobre 1974, approvato dall’Assemblea federale il 24 ottobre 1978, entrato in vigore il 27 marzo 1979 ma con effetto retroattivo a decorrere dal 1. gennaio 1974. In questo Accordo di 6 articoli si rinviava a una “Convenzione da stipularsi tra l’ Italia e la Svizzera per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte del reddito e sul patrimonio” di cui esso sarebbe stato parte integrante. Questa Convenzione tra la Confederazione Svizzera e la Repubblica Italiana per evitare le doppie imposizioni e per regolare talune altre questioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio (di seguito Convenzione), di 31 articoli e un Protocollo aggiuntivo, è stata conclusa solo il 9 marzo 1976, è stata approvata dall’Assemblea federale il 24 ottobre 1978 ed è entrata in vigore alla stessa data dell’Accordo sopramenzionato, il 27 marzo 1979. Di questa Convenzione, la norma rilevante, ai fini dell’imposizione fiscale dei frontalieri, è quella recata dall’articolo 15 capoverso 4[1] , che rinvia appunto all’Accordo già citato, i cui articoli sono considerati parte integrante anche della Convenzione per evitare le doppie imposizioni. Questo aspetto non è secondario, poiché secondo taluni commentatori sarebbe da escludere la possibilità di denunciare l’Accordo senza denunciare la Convenzione, certamente più complessa da (ri)elaborare, anche perché va ben oltre la semplice regolamentazione dell’imposizione del reddito da lavoro dipendente. Tale giudizio è però messo in dubbio da altri. 2. L’iniziativa cantonale di denuncia dell’Accordo indirizzata all’Assemblea federale La proposta approvata dal Parlamento e indirizzata in forma di iniziativa cantonale all’Assemblea federale chiede di denunciare l’Accordo. Le ragioni sono quelle ben messe in evidenza dai due studiosi sopra citati, riprese nelle argomentazioni portate nel dibattito parlamentare e qui brevemente riassunte. Prima di tutto, la disciplina pubblicistica del lavoro in Svizzera dei frontalieri è stata modificata con l’entrata in vigore degli accordi di libera circolazione con l’Unione europea (anche se l’esito della votazione federale del 9 febbraio scorso potrebbe avere un effetto su tale disciplina, in particolare qualora dovessero cadere tali accordi di libera circolazione). Inoltre, l’Accordo aveva un senso nel 1974, allorché l’allora vigente legge tributaria italiana esentava da tassazione il reddito di lavoro conseguito all’estero da persone fisiche residenti in Italia, mentre a partire dal 1. gennaio 2003 tale norma è stata abrogata e l’Italia ha da allora le basi legali per imporre fiscalmente i frontalieri. Per di più, e questo è un elemento di particolare rilevanza socio-economica e politica, l’imposizione in Svizzera sul reddito conseguito dai frontalieri italiani è molto più favorevole di quella che avverrebbe a parità di reddito in Italia, elemento questo che costituisce un fattore di irresistibile attrazione per la massa 5 6 Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 di manodopera della vicina Lombardia e del Piemonte, soprattutto in un momento in cui l’economia italiana ha evidenti problemi: per un frontaliere poter lavorare in Ticino significa, pur scontando i disagi e le maggiori spese di trasferta, poter godere di un maggior reddito rispetto a quello mediamente ritraibile in Italia e, per di più, minori imposte da pagare. Ciò crea una forte pressione sul mercato del lavoro in Ticino, con la disponibilità di manodopera sovra-qualificata che si accontenta, nei settori economici in cui non vigono contratti collettivi d’obbligatorietà generale, anche di salari assolutamente non competitivi per i residenti ticinesi, obbligando poi lo Stato a intervenire con l’introduzione, sempre discutibile sul piano strettamente economico, di stipendi normali. Non da ultimo, anche se questo potrebbe costituire più un problema per l’Italia che per il Ticino, si crea anche una disparità di trattamento con i lavoratori italiani che esercitano la loro attività in Svizzera e che risiedono oltre la fascia di frontiera dei 20 km (fascia a cui si applica la disciplina recata dall’Accordo), i quali sono assoggettati ad imposta (anche) in Italia. seguito Cost.)[3]. Essa è stata trattata dal Parlamento cantonale sulla scorta dell’articolo 102 della Legge sul Gran Consiglio e sui rapporti con il Consiglio di Stato[4] e, malgrado qualche riserva espressa soprattutto da parte del gruppo socialista a tutela dei frontalieri, che rischiano in tal modo di ricevere un aggravio dell’imposizione fiscale complessiva, è stata approvata all’unanimità. Resta da vedere come l’iniziativa cantonale sarà valutata a livello federale. La richiesta del Cantone ha carattere urgente, in quanto i termini per la disdetta scadono 6 mesi prima della fine di ogni anno solare, dunque a fine giugno. La procedura formale, secondo l’articolo 116 della Legge federale sull’Assemblea federale del 13 dicembre 2002[5] , prevede un esame preliminare e il passaggio attraverso le commissioni delle Camere. Un iter pertanto abbastanza laborioso al quale si deve aggiungere l’ostruzionismo del Consiglio federale, o perlomeno del Dipartimento federale delle finanze che, per bocca della sua direttrice, la Consigliera federale Eveline WidmerSchlumpf, ha ripetutamente rifiutato di entrare nel merito di una denuncia dell’Accordo, argomentando che la denuncia di questo comporterebbe anche la denuncia della Convenzione, in relazione alla quale le questioni in gioco sono molteplici e più complesse. Resistenze indirette vengono naturalmente anche dai Comuni di frontiera in Italia, che finora hanno approfittato dei riversamenti e ne sarebbero in futuro privati. Senza gli stessi riversamenti, essi avrebbero comunque margini nell’imposizione fiscale complessiva e, in ultima analisi, potrebbero comunque profittare indirettamente della residenza di persone che hanno un’occupazione e redditi ben superiori a quelli che mediamente si guadagnano in Italia. Obiettivo della denuncia dell’Accordo è l’imposizione del reddito da attività lucrativa dipendente del frontaliere dove tale reddito viene conseguito, ossia in Svizzera, in particolare in Ticino, come avviene ora, senza però il riversamento previsto dall’articolo 2 dell’Accordo[2] , secondo le usuali regole per evitare la doppia imposizione. Nel caso di una eventuale tassazione in Italia del reddito complessivo, il frontaliere potrà evidentemente far valere il credito per le imposte versate in Svizzera. Per il Cantone Ticino si tratterebbe ovviamente di incamerare un importo attualmente attorno ai 60 milioni di franchi all’anno. D’altra parte si può ben dire che, a fronte delle spese sostenute dai Comuni italiani a causa dei frontalieri che risiedono sul loro territorio (spese di urbanizzazione, eccetera), debbano anche essere prese in considerazione le spese che il Cantone Ticino e i suoi Comuni devono sostenere per assicurare l’accesso giornaliero di 60'000 frontalieri, soprattutto nel Mendrisiotto e nel Sottoceneri (strade, parcheggi, trasporti pubblici, eccetera). Sul piano della politica cantonale, occorre dire subito che la proposta presentata dal Gruppo liberale radicale al Gran Consiglio nella sessione di fine gennaio raccoglieva pure, come è stato riconosciuto anche nell’intervento alla tribuna del Gran Consiglio, una serie di atti sull’oggetto presentati negli anni passati nell’aula parlamentare anche da altri gruppi politici o da singoli deputati. L’iniziativa cantonale proposta è regolata dall’articolo 160 capoverso 1 della Costituzione federale (di Malgrado le predette resistenze, il Gruppo liberale radicale e, ormai, anche il Parlamento cantonale non intendono mollare la presa. Gli aspetti finanziari in gioco non sono indifferenti per il nostro Cantone. In particolare, il Gruppo liberale radicale continua ad esercitare pressione, attraverso i deputati del partito (a livello svizzero) al Parlamento federale. Allo stesso modo sono impegnati anche i deputati ticinesi degli altri partiti. La questione trascende infatti i confini partitici e persino anche cantonali, poiché anche Vallese e Grigioni avrebbero da trarre vantaggio da una forma d’imposizione fiscale aggiornata. Si spera solo che finalmente il Consiglio federale e l’Assemblea federale prendano coscienza dell’esistenza di un problema non indifferente per i Cantoni confinanti con l’Italia e diano finalmente un segnale convincente di attenzione per le loro problematiche. Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 Elenco delle fonti fotografiche: http://www.liberatv.ch/sites/default/files/styles/grande_628/public/topimage/TiPress_198778.jpg?itok=ibUhMrOp [26.05.2014] http://www.vais.ch/sites/default/files/imagecache/colorbox-zoom/notizie/Stemma-Italia-Svizzera.jpg [26.05.2014] [1] Detto capoverso 4 recita: “Il regime fiscale applicabile ai redditi ricevuti in corrispettivo di un’attività dipendente dei lavoratori frontalieri è regolato dall’Accordo tra la Svizzera e l’Italia relativo alla imposizione dei lavoratori frontalieri ed alla compensazione finanziaria a favore dei Comuni italiani di confine, del 3 ottobre 1974, i cui articoli da 1 a 5 costituiscono parte integrante della presente Convenzione”. [2] Secondo l’articolo 2 dell’Accordo, “Ognuno dei Cantoni dei Grigioni, del Ticino e del Vallese verserà ogni anno a beneficio dei Comuni italiani di confine una parte del gettito fiscale proveniente dalla imposizione – a livello federale, cantonale e comunale – delle rimunerazioni dei frontalieri italiani, come compensazione finanziaria delle spese sostenute dai Comuni italiani a causa dei frontalieri che risiedono sul loro territorio ed esercitano un’attività dipendente sul territorio di uno dei detti Cantoni”. [3] Secondo l’articolo 160 capoverso 1 Cost., “Ciascun membro del Parlamento, ciascun gruppo, ciascuna commissione parlamentare e ciascun Cantone ha il diritto di sottoporre iniziative all'Assemblea federale”. [4] Tale articolo prevede quanto segue: “1. I deputati al Gran Consiglio e il Consiglio di Stato possono proporre, nella forma della risoluzione, l’esercizio dei diritti di convocazione straordinaria del Consiglio nazionale e del Consiglio degli Stati, di iniziativa e referendum che la Costituzione federale attribuisce al Cantone. 2. La proposta di risoluzione è presentata per iscritto; il firmatario può motivarla oralmente. 3. Dopo discussione, il Gran Consiglio delibera entro breve termine sulla proposta, salvo che decida di sentire l’avviso preliminare di una sua Commissione o del Consiglio di Stato”. [5] Il testo di detto articolo è il seguente: “1. Le iniziative cantonali sottostanno a un esame preliminare. 2. All'esame preliminare si applicano per analogia le disposizioni dell'articolo 110. 3. La decisione di dare seguito all'iniziativa richiede il consenso delle commissioni competenti di ambo le Camere. Se una commissione non dà il proprio consenso, la decisione spetta alla Camera. Se anche la Camera non dà il proprio consenso, l'iniziativa è trasmessa all'altra Camera. La seconda decisione di rifiuto da parte di una Camera è definitiva. 3bis. Per le commissioni si applicano i termini di cui all'articolo 109 capoversi 2 e 3bis. 4. Nell'ambito dell'esame preliminare, la commissione della Camera prioritaria sente una rappresentanza del Cantone”. 7 8 Diritto tributario svizzero Coniugi: disparità di trattamento in base alla residenza dei frontalieri Sharon Guggiari Salari Master of Advanced Studies SUPSI in Tax Law Avvocato e notaio in Lugano, SGSLEX Analisi dell’accordo sottoscritto nel 1985 dalla delegazione svizzera e quella italiana nell’ambito dell’applicazione della Convenzione internazionale per evitare le doppie imposizioni tra Italia e Svizzera stesso ovunque prodotto. Ciò al fine di rispettare la progressività dell’imposizione sui redditi. Inoltre poiché in Svizzera vige il criterio del cumulo familiare, il reddito della moglie deve essere aggiunto ai fini dell’imposizione a quello del marito. 1. Introduzione L’8 e 9 luglio 1985 si svolse a Lugano una riunione delle delegazioni svizzera e italiana al fine di trovare una soluzione per alcune problematiche sorte nell’ambito dell’applicazione della Convenzione per evitare le doppie imposizioni tra l’Italia e la Svizzera (di seguito CDI-I). Nel corso di tale riunione si raggiunse un accordo su vari temi che venne formalizzato nel verbale del 1985 (di seguito Verbale 1985). Esso regolava essenzialmente 5 punti: La delegazione italiana, pur condividendo l’esigenza della progressività dell’imposizione, ha espresso l’avviso che le disposizioni contenute nella Convenzione non consentono d’imputare ad un soggetto percettore di redditi di fonte svizzera, seppure soltanto ai fini della determinazione dell’aliquota, il reddito di un altro soggetto non residente di cui, tra l’altro, egli non ha piena ed assoluta disponibilità e il cui diritto d’imposizione viene attribuito dalla Convenzione esclusivamente all’Italia. 1) la nozione di lavoratore frontaliere e la riduzione della percentuale del ristorno; 2) la non applicazione del principio del cumulo dei redditi ai coniugi residenti nella fascia di confine di cui uno lavora in Svizzera e l’altro in Italia; 3) le pensioni di fonte italiana di natura privatistica; 4) la non applicazione della normativa procedurale italiana sul silenzio/rifiuto in materia delle richieste di rimborso delle imposte alla fonte ai cittadini svizzeri; 5) i termini di rimborso delle imposte alla fonte prelevate dall’Italia. Tale accordo venne firmato dal Ministro delle Finanze della Repubblica Italiana e dal Capo del Dipartimento delle Finanze della Confederazione Elvetica[1]. Il presente articolo verterà esclusivamente sull’esame della seconda trattanda (concernente la non applicazione del cumulo dei redditi). A tal proposito il Verbale 1985 recita quanto segue: “In ordine ai criteri di tassazione in vigore in Svizzera nei confronti dei lavoratori frontalieri il cui coniuge sia percettore di redditi in Italia, la delegazione svizzera ha precisato che la propria legislazione locale stabilisce in pratica che nella tassazione dei «fattori» di rendita imponibili in Svizzera di un soggetto non residente, l’imposta deve essere calcolata con l’aliquota applicabile al reddito complessivo del soggetto Tenuto conto delle argomentazioni addotte dalle due delegazioni ed in considerazione del fatto che il «cumulo familiare» dei redditi è attualmente oggetto di un vasto dibattito in Svizzera, si è giunti alla conclusione che i criteri cumulativi di tassazione di cui sopra non saranno applicati nei confronti della coppia di lavoratori di cui uno sia percettore di reddito in Italia qualora tale reddito sia quivi tassabile in modo esclusivo e ciò a decorrere dal 1.1.1986. La delegazione italiana ha fatto rilevare che la soluzione adottata per i lavoratori frontalieri non risolve i problemi analoghi che si pongono per l’applicazione dei criteri di cumulo familiare agli altri lavoratori italiani in Svizzera il cui coniuge residente in Italia sia ivi percettore di reddito da lavoro dipendente. La delegazione svizzera non può condividere questa constatazione”. In sostanza, a seguito della sottoscrizione del precitato Verbale 1985, a partire dal 1. gennaio 1986, la Svizzera smise di applicare il principio del cumulo dei redditi ai coniugi residenti nella fascia di confine di cui uno lavori in Svizzera e l’altro in Italia. È bene sottolineare che né la CDI-I né l’Accordo tra la Svizzera e l'Italia relativo all'imposizione dei lavoratori frontalieri ed alla compensazione finanziaria a favore dei Comuni italiani di confine (di seguito Accordo), del 3 ottobre 1974, prevedono delle disposizioni particolari in materia di cumulo dei redditi dei coniugi. È legittimo che nell’ambito della procedura amichevole prevista dalla CDI-I le autorità competenti raggiungano un accordo che disciplini un aspetto non regolato dalla CDI-I ed in Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 contrasto con il diritto interno svizzero che prevede il cumulo dei redditi per i coniugi? Prima di rispondere a tale domanda verrà velocemente illustrato il sistema d’imposizione del cumulo dei redditi per capirne la portata e la rilevanza del gettito fiscale che ne deriva. 2. Il cumulo dei redditi per le coppie coniugate 2.1. Il principio del cumulo dei redditi Secondo il diritto fiscale svizzero, il reddito dei coniugi, non separati legalmente o di fatto, è cumulato qualunque sia il regime dei beni (ex articolo 9 capoverso 1 della Legge federale sull'imposta federale diretta [di seguito LIFD], articolo 3 capoverso 3 della Legge federale sull'armonizzazione delle imposte dirette dei Cantoni e dei Comuni [di seguito LAID] e articolo 8 capoverso 1 della Legge Tributaria del Cantone Ticino [di seguito LT]). Ciò significa che, sotto il profilo giuridico, i coniugi formano un’unità fiscale. Per determinare l’onere fiscale i redditi e la sostanza dei coniugi vengono cumulati e a tale somma si applica un’unica aliquota. A causa della forte progressione delle aliquote nelle imposte dirette, il cumulo dei redditi spesso comporta un aumento dell’imposizione della coppia dopo il matrimonio. Per attenuare questo effetto, la legislazione prevede delle aliquote più favorevoli per i coniugi (ex articolo 36 capoverso 2 LIFD, articolo 11 capoverso 1 LAID e articolo 35 capoverso 2 LT) e l’applicazione di deduzioni sociali e/o di deduzioni speciali per i coniugi che conseguono un doppio reddito (ex articolo 33 capoverso 2 LIFD, articolo 9 capoverso 2 lettera k LAID, articolo 32 lettera h LT). Tuttavia, in determinate circostanze, tali provvedimenti non sono stati sufficienti per attenuare la maggiore imposizione dovuta al cumulo dei redditi. La tabella sotto mostra le differenze d’imposizione per una coppia prima e dopo il matrimonio nel caso in cui il salario lordo per ciascun membro della coppia ammonti a 100'000 franchi annui. Le imposte dovute prima del matrimonio da ogni membro della coppia ammontano a 14'428 franchi, per un totale (a livello di coppia) di 28'856 franchi. Dopo il matrimonio le imposte dovute dai coniugi ammontano a 32'975 franchi, un aumento del 13.65% dell’imposizione, che a livello dell’imposta federale diretta supera il 70% (vedi Tabella 1). A livello cantonale l’aumento è minimo, in quanto nel lontano 1984, il Tribunale federale (di seguito TF) aveva pronunciato la famosa sentenza Hegetschweiler[2] , nella quale aveva ritenuto che la legge tributaria zurighese violasse il principio di parità di trattamento sancito nella Costituzione federale (di seguito Cost.), nella misura in cui – per i redditi elevati – pregiudicava senza un motivo sostenibile i coniugi rispetto ai concubini. Questa è stata una delle sentenze più importanti che la nostra Alta Corte abbia mai emesso in ambito fiscale. Infatti, a seguito di questa sentenza, tutti i Cantoni hanno dovuto adeguare le proprie aliquote affinché i coniugi non fossero discriminati rispetto alle coppie che vivevano in concubinato. Per contro a livello federale nulla è cambiato. Questo è dovuto al fatto che il TF non può verificare la costituzionalità delle leggi federali (ex articolo 190 Cost.) e dunque, a livello d’imposta federale diretta, sussiste a tutt’oggi una notevole disparità di trattamento tra le coppie che vivono in concubinato e le coppie coniugate. Fintanto che il Parlamento non deciderà di modificare la LIFD, i nostri tribunali saranno costretti ad applicare tale normativa anticostituzionale e anacronistica che rappresenta un unicum in Europa e che garantisce alla Confederazione una fonte di entrata non indifferente. Basti pensare che quando il Consiglio federale, nel pacchetto fiscale 2001, propose il sistema dello splitting per evitare la maggiore imposizione delle coppie coniugate[3] , nel messaggio venne stimato che la riduzione del gettito fiscale sarebbe ammontata a 1.3 miliardi di franchi e che tale importo equivaleva ad oltre un quinto del gettito dell’imposta federale diretta delle persone fisiche per gli anni 2000 e 2001[4]. Il solo pacchetto fiscale per le misure immediate nell’ambito dell’imposizione dei coniugi, entrato in vigore il 1. gennaio 2008, ha comportato minori entrate per 650 milioni di franchi[5] e, nonostante ciò, il problema della maggiore imposizione dei coniugi continua a sussistere per circa 80'000 coppie[6]. Queste cifre evidenziano che gli interessi in gioco non sono indifferenti e che purtroppo manca il consenso politico per modificare una situazione del tutto insoddisfacente sotto il profilo legale ed etico. Tabella 1 Persona sola Coppia Coniugi Diff. % LIFD 2’108 4’216 7’453 3’237 76.78% LT 7’247 14’494 14’907 413 2.85 % Comune 5’073 10’146 10’435 289 2.85 % Totale 14’428 28’856 32’975 3’939 13.65% 9 10 Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 2.2. Il cumulo dei redditi nell’imposta alla fonte Le disposizioni relative all’imposta alla fonte prevedono espressamente che le aliquote riguardanti i coniugi che vivono in comunione domestica ed esercitanti entrambi un’attività lucrativa, debbano essere calcolate secondo tariffe che tengono conto del cumulo dei redditi (ex articolo 86 capoverso 2 LIFD, articolo 33 capoverso 2 LAID e articolo 107 capoverso 2 LT). Il principio del cumulo dei redditi va dunque applicato indipendentemente da dove un coniuge svolge la propria attività lavorativa[7]. Nell’ambito dell’imposta alla fonte (imposta che per sua natura deve essere semplice e di facile applicazione) il cumulo dei redditi è determinato in maniera forfettaria. Nella lettera-circolare emessa dalla l’Amministrazione federale delle contribuzioni (di seguito AFC), viene spiegato come applicare il principio del cumulo del reddito. Fondamentalmente si parte dal presupposto che i coniugi contribuiscano in ugual misura all’economia domestica e viene attribuito un tetto massimo del reddito da cumulare di 5'425 franchi[8]. A partire dal 1. gennaio 2014 è entrata in vigore la modifica dell’Ordinanza dell’imposta alla fonte. Lo scopo principale di tale modifica è stato quello di armonizzare i vari tipi di tabelle da applicare in tutta la Svizzera. Per i coniugati possono applicarsi 3 tariffe[9]: ◆ la tabella B si applica solo se un coniuge lavora (oppure l’altro svolge unicamente un’attività accessoria); ◆ la tabella C si applica se entrambi i coniugi lavorano; ◆ la tabella F si applica ai frontalieri residenti nella fascia di confine di cui un coniuge lavora in Svizzera e l’altro in Italia. Lo schema riportato sotto, mostra le differenze nella determinazione del calcolo delle aliquote. Si evince che nella tabella F non si applica il principio del cumulo dei redditi nonostante si utilizzi in ogni caso l’aliquota privilegiata (che ricordo era stata introdotta all’epoca proprio per attenuare il problema della maggiore imposizione dei coniugi dovuta al cumulo dei redditi e alla forte progressione delle aliquote). Il fatto che la tabella F non tenga conto del cumulo dei redditi è una conseguenza dovuta all’accordo raggiunto nel Verbale 1985 (vedi Tabella 2). 2.3. L’applicazione del cumulo dei redditi nelle fattispecie internazionali Nel lontano 1949 il TF aveva stabilito che nel caso di due coniugi domiciliati all’estero, ove la moglie era proprietaria di un immobile in Svizzera, il reddito derivante da tale immobile di proprietà della moglie andava imposto all’aliquota dei redditi complessivi realizzati dai coniugi (in Svizzera e all’estero)[10]. Il TF spiegava che il computo dell’aliquota sulla base del reddito e della sostanza complessiva del marito e della moglie trovava la sua giustificazione nell’incremento della capacità contributiva risultante dal fatto che, in costanza di matrimonio, sostanza e reddito di ambedue i coniugi concorrono alle spese dell’economia domestica. In generale, nelle fattispecie internazionali in cui si applicano le convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni (di seguito CDI), i tribunali svizzeri hanno sempre e ripetutamente sostenuto che anche se solo un coniuge è assoggettato alle imposte in Svizzera (ad esempio nel caso in cui un coniuge lavori in Svizzera e l’altro all’estero), per determinare l’aliquota applicabile, bisogna sempre tenere in considerazione l’insieme dei redditi dei coniugi (in virtù dell’articolo 7 capoverso 1 LIFD, articolo 3 capoverso 3 LAID e articolo 6 capoverso 1 LT)[11]. Si ricorda che la Svizzera, nelle proprie CDI, come metodo per l’eliminazione della doppia imposizione per i redditi da attività lucrativa dipendente, propone sempre la clausola dell’esenzione con riserva di aliquota ossia esenta i redditi per i quali si potrebbe verificare una doppia imposizione ma ne tiene conto per definire l’aliquota. La CDI-I non fa eccezione (articolo 24 capoverso 3 CDI-I). Pertanto, in tutte le fattispecie con una componente di internazionalità e dove i coniugi siano assoggettati alle imposte in Svizzera in maniera parziale, per consolidata giurisprudenza, la Svizzera impone solo il reddito per il quale ha la potestà impositiva secondo la CDI applicabile ma all’aliquota complessiva dell’insieme dei redditi conseguiti dai coniugi[12]. 3. La trattanda 2 del Verbale 1985 viola il principio della legalità sancito nella Costituzione? 3.1. Natura giuridica del Verbale 1985 Il Verbale 1985 è il risultato di un accordo raggiunto nell’ambito di una procedura amichevole prevista dall’articolo 26 capoverso 3 CDI-I. In generale, le CDI prevedono due tipi di procedura amichevole: ◆ la procedura amichevole su richiesta del contribuente, denominata anche procedura amichevole in senso stretto (ex articolo 25 capoverso 1 del Modello di Convenzione OCSE e articolo 26 capoverso 1 CDI-I), e Tabella 2 Aliquota Privilegiata Cumulo Deduzioni per doppio reddito Tabella B Sì No No Tabella C Sì Sì Sì Tabella F Sì No No Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 ◆ la procedura amichevole d’ufficio, denominata anche procedura di consultazione o procedura amichevole in senso lato (ex articolo 25 capoverso 3 del Modello di Convenzione OCSE e articolo 26 capoverso 3 CDI-I). Quest’ultima viene avviata dai due Stati contraenti allorquando sussistano difficoltà inerenti a dubbi di interpretazione o relativi all’applicazione della convenzione medesima. Il Verbale 1985 è stato redatto nell’ambito di una procedura amichevole in senso lato. Secondo la dottrina, un accordo raggiunto nell’ambito di una procedura amichevole in senso stretto, rappresenta un accordo internazionale di carattere amministrativo definito anche accordo di diritto pubblico secondario (sekundäres Völkerrecht). Fondamentalmente trattasi di documento nel quale le amministrazioni di due Stati concordano l’esecuzione di accordi già esistenti[13]. Per contro, la dottrina svizzera non specifica la qualifica giuridica relativa agli accordi raggiunti nell’ambito di una procedura amichevole in senso lato. In diritto italiano si tende ad equiparare tale accordo ad una risoluzione o circolare, atto di natura amministrativa emanato dagli organi amministrativi supremi[14]. Personalmente ritengo che un accordo, raggiunto nell’ambito di una procedura amichevole in senso lato, rappresenti una specie di direttiva emanata dalle autorità amministrative dei due Stati contraenti riguardante l’applicazione di una CDI. 3.2. Oggetto della procedura amichevole in senso lato L’articolo 26 capoverso 3 CDI-I prevede che le autorità competenti degli Stati contraenti possano risolvere due tipi di questioni nell’ambito della procedura amichevole in senso lato: ◆ risoluzione di aspetti interpretativi e/o di applicazione della convenzione medesima; oppure ◆ risoluzione di aspetti non regolati nella CDI-I allo scopo di eliminare la doppia imposizione. Per quanto riguarda questa seconda funzione, la dottrina è unanime nel ritenere che la procedura amichevole non possa essere utilizzata per modificare o completare disposizioni di diritto materiale che comportino ulteriori diritti o obblighi per gli Stati contraenti. Pertanto, nel regolare aspetti non trattati dalle CDI, le autorità devono tener conto delle intenzioni contrattuali originarie degli Stati contraenti nonché del senso e dello scopo della convenzione medesima. Infatti non sarebbe in nessun modo ammissibile che le autorità utilizzino lo strumento della procedura amichevole per cercare di bypassare l’ordinario iter legislativo[15]. La CDI-I e l’Accordo non regolano l’aspetto relativo al cumulo dei redditi previsto dalla legislazione svizzera. Tali convenzioni non prevedono alcuna disposizione che vieti la possibilità di considerare ai fini dell’aliquota anche elementi di reddito conseguiti all’estero. In mancanza di disposizioni sancite dal diritto internazionale è applicabile il diritto interno[16]. Il diritto interno svizzero prevede il cumulo dei redditi il quale è un principio ancorato nel nostro sistema giuridico da sempre, sia a livello di legge in senso formale sia in tutta la giurisprudenza del TF nonché dei tribunali cantonali. L’accordo raggiunto dalle due delegazioni non rappresenta dunque una semplice risoluzione di un problema d’interpretazione o di applicazione della CDI-I; al contrario, le due delegazioni, su questo punto specifico, hanno concluso un accordo in deroga al diritto fiscale svizzero. 3.3. Il principio della legalità ed in particolare il principio della base legale Il principio della legalità è un principio di valore costituzionale sancito all’articolo 5 capoverso 1 Cost. Esso esige che l’insieme dell’attività svolta dallo Stato si fondi sulla legge e riponga su una base legale. Gli atti statali devono trovare il loro fondamento in una legge in senso materiale che sia sufficientemente precisa e determinata e che sia emanata da un’autorità costituzionale competente[17]. L’Assemblea federale è competente per emanare le norme di diritto sotto forma di legge federale (ex articolo 163 capoverso 1 Cost). L’articolo 164 capoverso 1 Cost. prevede che tutte le disposizioni importanti che contengono norme di diritto siano emanate sotto forma di legge federale. Vi rientrano, in particolare, le disposizioni fondamentali in materia di cerchia dei contribuenti, oggetto e calcolo dei tributi (ex articolo 164 lettera d Cost.). Non vi sono dubbi che il principio del cumulo dei redditi dei coniugi rappresenti un sistema di calcolo del tributo che deve essere previsto in una legge in senso formale. L’articolo 164 capoverso 2 Cost. prevede che le competenze normative possano essere delegate mediante legge federale, sempreché la Cost. non lo escluda. In relazione al cumulo dei redditi non esiste una legge federale che abbia delegato tali competenze ad altre autorità quali il Consiglio federale o i suoi dipartimenti. Inoltre è importante ricordare che, secondo la Cost., il regime fiscale, la cerchia dei contribuenti, l’imponibile e il suo calcolo devono, nelle linee essenziali, essere disciplinati nella legge (ex articolo 127 capoverso 1 Cost.). Pertanto solo l’Assemblea federale è competente per emanare una legge in materia d’imposizione dei coniugi. 11 12 Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 Nel contesto internazionale, l’articolo 166 Cost. prevede che l’Assemblea federale partecipi all’elaborazione della politica estera e vigili sulla cura delle relazioni con l’estero. Inoltre essa è competente per approvare i trattati internazionali fatti salvi quelli la cui conclusione è di competenza del Consiglio federale in virtù della legge o di un trattato internazionale. La Cost., in materia internazionale, conferisce delle competenze anche al Consiglio federale, stabilendo che esso curi gli affari esteri salvaguardando i diritti di partecipazione dell’Assemblea federale, rappresentando la Svizzera nei confronti dell’estero, firmando e ratificando i trattati internazionali e sottoponendoli per approvazione all’Assemblea federale. Inoltre, se la tutela degli interessi del Paese lo richiede, può emanare ordinanze (limitate nel tempo) e decisioni (ex articolo 184 Cost.). Dall’esame di queste disposizioni costituzionali appare subito evidente che la Cost. non prevede una disposizione costituzionale che conferisca al Consiglio federale un ampio margine di manovra o una competenza implicita in materia di politica estera. La dottrina e la prassi riconoscono che l’esecutivo e il parlamento hanno delle competenze che in diversi campi concorrono e che essi sono obbligati a cooperare e a coordinarsi fra loro[18]. La legge sull’organizzazione del Governo e dell’Amministrazione (di seguito LOGA) stabilisce in quali casi il Consiglio federale possa concludere trattati in autonomia (ex articoli 7a e 7b LOGA). Ad esempio, nel caso di: ◆ trattati di portata limitata che non istituiscono nuovi obblighi per la Svizzera né comportino la rinuncia a diritti esistenti; ◆ trattati che servono all’esecuzione di accordi già approvati dall’Assembla federale; ◆ trattati che disciplinino aspetti tecnici amministrativi; ◆ trattati di competenza dell’Assemblea che, per salvaguardare importanti interessi della Svizzera, vengono adottati dal Consiglio federale per questioni di urgenza. Inoltre l’articolo 48a LOGA prevede che il Consiglio federale possa delegare ad un dipartimento la competenza a concludere trattati internazionali. Lo stesso articolo specifica che il Consiglio federale debba riferire annualmente all’Assemblea federale sui trattati conclusi da esso stesso, dal dipartimento o da altri uffici. Lo scopo di tale norma è evidentemente quello di permettere all’Assemblea di controllare l’attività del Consiglio federale e di verificare che non concluda trattati che necessitino dell’approvazione dell’Assemblea stessa. Il Verbale 1985 è stato siglato dalle due delegazioni svizzera ed italiana ed è poi stato firmato dal Ministro delle Finanze della Repubblica Italiana e dal Capo del Dipartimento delle Finanze della Confederazione. Tale verbale non è mai stato ratificato dal Consiglio federale o dall’Assemblea federale. All’epoca in cui venne sottoscritto il Verbale 1985 vigeva ancora il vecchio testo costituzionale, pertanto non si applicavano i nuovi articoli e la LOGA. Tuttavia, i concetti giuridici esposti sopra sono esattamente gli stessi che si applicavano all’epoca dell’adozione del Verbale 1985. La nuova Costituzione non ha fatto altro che riprendere gli articoli della precedente Cost. conferendo loro una migliore struttura e codificando la giurisprudenza in materia di diritto costituzionale (articoli 4a, 85a e 102a Cost.). Alla luce di quanto sopra il Consiglio federale non aveva il potere di legiferare in materia di cumulo dei redditi e nemmeno quello di concludere un accordo internazionale. Infatti nessuno di questi aspetti rientrava nelle sue competenze. Constatato che il Consiglio federale non era competente, esso non poteva nemmeno conferire un potere (che non aveva) ad una delegazione prevista in una CDI. Il principio della legalità ha come corollario il principio del parallelismo delle forme, il quale prevede che una legge possa essere modificata unicamente rispettando la stessa procedura e la stessa forma utilizzata al momento della sua adozione[19]. Il fatto che per più di 20 anni si sia applicato un sistema in deroga alla forma richiesta, non permette di sanare questa situazione. Il principio del parallelismo delle forme serve appunto a garantire che una legge non possa essere modificata per una prassi o usanza instaurata dall’autorità. L’usanza viene considerata molto di rado quale base legale per giustificare l’attività statale. Solo nei casi di lacuna effettiva della legge potrebbe eventualmente entrare in considerazione[20]. Questa eventualità non sussiste nel contesto dell’imposizione dei coniugi in quanto si tratta di un tema ampliamente regolamentato. Infine, un altro corollario importante del principio della legalità è che ogni atto normativo deve essere pubblicato in una raccolta ufficiale accessibile a tutti. Il Verbale 1985 non è mai stato pubblicato in nessuna raccolta. L’unica volta che è stato citato in un documento ufficiale dell’AFC è nell’ambito delle spiegazioni relative alla nuova ordinanza dell’imposta alla fonte[21]. Secondo la giurisprudenza, un atto normativo non pubblicato non può esplicare effetti giuridici[22]. La pubblicazione di una norma ha due effetti pratici molto importanti: innanzitutto i cittadini devono poter esaminare le normative a loro applicabili e, secondariamente, i cittadini devono poter valutare se tali norme non creino una disparità di trattamento[23]. 4. Violazione del principio della parità di trattamento L’articolo 8 Cost., così come l’articolo 2 dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone (di seguito ALCP), sanciscono il divieto di discriminazione. Esso vieta alle autorità amministrative e/o giudiziarie di trattare in maniera diversa due situazioni simili. Il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 8 Cost. ha precisamente come scopo quello di garantire un trattamento uguale a situazioni comparabili[24]. La non applicazione del principio del cumulo dei redditi ai soggetti che risiedono nella fascia di confine (di cui un coniuge lavora in Svizzera e l’altro in Italia) pone inesorabilmente una disparità di trattamento rispetto: ◆ ai soggetti che sono imposti in via ordinaria; ◆ ai soggetti imposti alla fonte che non risiedono nella fascia di confine; Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 ◆ ai soggetti imposti alla fonte che risiedono nella fascia di confine di cui un coniuge lavora in Svizzera e l’altro all’estero ma non in Italia. Si ricorda infatti che le tariffe previste nelle tabelle F sono sostanzialmente inferiori rispetto alle tariffe previste nelle tabelle C. Secondo l’attuale sistema, il lavoratore coniugato (senza figli) che risiede a Milano e che lavora in Svizzera (salario lordo pari a 50'000 franchi) e la cui moglie lavora a Milano, è imposto con l’aliquota della Tabella C (aliquota del 6% imposta alla fonte pari a 3'000 franchi). Per contro, il lavoratore coniugato (senza figli) che risiede a Como e che lavora in Svizzera (salario lordo di 50'000 franchi) e la cui moglie lavora a Milano, è imposto con l’aliquota della Tabella F (aliquota del 2.5% imposta alla fonte pari a 1'250 franchi). ll lavoratore residente a Como, beneficia di uno sconto sull’imposta di ben 1'750 franchi (più del doppio del dovuto) per il solo fatto di risiedere nella fascia di confine. Questo è ancora meno comprensibile se si pensa che il lavoratore residente a Milano sopporta più spese professionali (spese di trasporto) rispetto al lavoratore residente a Como. ◆ sia in contrasto con il diritto federale interno e con la costante giurisprudenza del TF e che la CDI-I e l’Accordo non contengano nessuna disposizione in materia di cumulo di redditi dei coniugi che possa prevalere sul diritto interno; ◆ sia stata emanata da un autorità non competente in materia; ◆ non soddisfi i requisiti della base legale (non è una legge in senso formale); ◆ violi il principio del parallelismo delle forme e della pubblicità; ◆ crei una disparità di trattamento ingiustificata rispetto a tutte le altre fattispecie in cui si applica il principio del cumulo dei redditi. Per maggiori informazioni: Bernasconi Marco, L’accordo tra la Svizzera e l’Italia relativo all’imposizione dei frontalieri e alla compensazione finanziaria a favore dei comuni italiani di confine del 3 ottobre 1974, in: RTT, 1990/2 Bernasconi Marco/Ferrari Donatella, L’accordo sui frontalieri tra Italia e Svizzera. Violazione del diritto di reciprocità, in: RtiD, 2008-I Vorpe Samuele, Una tassa sul matrimonio in Svizzera?, in: NF 2/2011 Elenco delle fonti fotografiche: http://www.cugiacuomo.it/site/wp-content/uploads/2013/11/rapporti-patrimoniali-tra-coniugi_a51dc87f08b8b9f9e0628a3ed5083fc4.jpg [26.05.2014] http://www.sestodailynews.net/archivi/immagini/2014/F/famiglia.gif [26.05.2014] Personalmente ritengo che non sussista alcuna ragione obiettiva che giustifichi la non applicazione del principio del cumulo dei redditi solo ai frontalieri che risiedono nella fascia di confine nel caso in cui un coniuge lavori in Svizzera e l’altro in Italia. 5. Conclusioni Alla luce delle considerazioni sopra esposte, ritengo che la trattanda 2 del Verbale 1985, che prevede la non applicazione del cumulo dei redditi ai coniugi residenti nella fascia di confine di cui uno lavori in Svizzera e l’altro in Italia: [1] Bernasconi Marco, La Convenzione Italo-Svizzera contro le doppie imposizioni e l’accordo dei frontalieri, tesi di laurea 1988/89, pagina 345. [2] DTF 110 Ia 7. [3] Proposta che venne parzialmente adottata dal Parlamento contro la quale venne indetto un referendum che venne accolto dal Popolo. [4] Foglio federale 2001 2655, pagina 2678 e rapporto 5416 R1 del 19 settembre 2003 della Commissione speciale tributaria ticinese sul messaggio 29 agosto 2003 concernente la richiesta di un referendum facoltativo (articolo 141 Cost.) sul pacchetto fiscale 2001 della Confederazione. [5] Foglio federale 2006 4087, pagina 4105. [6] Foglio federale 2009 4087, pagina 4089. [7] Il Consiglio federale, nel messaggio sulla LAID, in merito agli articoli 91 e 92 LAID specifica che la tariffa deve tener conto del cumulo dei redditi quando i coniugi viventi in comunione domestica esercitano entrambi un’attività lucrativa. Si veda Foglio federale 1983 III 1, pagina 126. [8] Per ulteriori informazioni in merito si rinvia alla lettera-circolare dell'11 settembre 2013 emessa dall’AFC sull’imposta alla fonte, pagina 5. [9] Si ricorda che dal 1. gennaio 2014 la tabella E è stata eliminata e alle fattispecie alle quali prima si applicava la tabella E, ossia ai casi in cui i coniugi erano domiciliati al di fuori della fascia di confine e uno lavorava in Svizzera e l’altro all’estero, ora si applica la tabella C. [10] Cfr. sentenza del 19 dicembre 1949, in: ASA 19, 24. [11] Str. 2014 B.13.1, Verwaltungsgericht, Zurigo 30 ottobre 2013; RB 1993 Nr. 15, Verwaltungsgericht, Zurigo 14 settembre 1993. [12] Per ulteriori dettagli si rinvia al lavoro di diploma di Sharon Guggiari Salari, Imposizione dei coniugi nelle fattispecie secondo il diritto svizzero, il diritto italiano e problematiche transfrontaliere, SUPSI 2008. [13] Locher Peter, Einführung in das internationale Steuerrecht des Schweiz, Berna 2000, pagina 568; Höhn Ernst, Handbuch des internationalen Steuerrechts der Schweiz, Berna 1998. [14] Per il diritto italiano, si veda Marseu Tommaso, La procedura amichevole nelle Convenzioni internazionali contro la doppia imposizione, tesi di laurea Università Ca Foscari, anno accademico 2011/2012, pagina 65. [15] Höhn Ernst, op. cit., pagina 435; Locher Peter, op. cit., pagine 569-570; Ludwig Max Beat, Das Verständigungsverfahren im internationalen Doppelbesteuerrecht der Schweiz, in: ASA 35, 59, pagina 75. [16] Str. 2014 B.13.1, considerando 2.5. [17] Auer Andreas/Malinverni Giorgio/Hottelier Michel, Droit constitutionnel suisse - Vol. 1 L’Etat, Berna 2013, nota 1822. [18] Ehrenzeller Bernhard/Mastronardi Philippe Schweizer Rainer/Vallender Klaus, Die Schweizerische Bundesverfassung Kommentar, Zurigo/San Gallo 2008, articolo 166, nota 8. [19] Auer Andreas/Malinverni Giorgio/Hottelier Michel, op. cit., nota 1818. [20] Ehrenzeller Bernhard/Mastronardi Philippe/ Schweizer Rainer/Vallender Klaus, op. cit., articolo 5, nota 18. [21] Modifica dell’ordinanza del Dipartimento federale delle finanze sull’imposta alla fonte nel quadro dell’imposta federale diretta, Spiegazione del 19 febbraio 2013, pagina 5. [22] DTF 120 Ia 1, considerando 4b. [23] Ehrenzeller Bernhard/Mastronardi Philippe/ Schweizer Rainer/Vallender Klaus, op. cit., articolo 5, nota 12. [24] Auer Andreas/Malinverni Giorgio/Hottelier Michel, op. cit., nota 1829. 13 14 Diritto tributario italiano Il regime tributario italiano dei redditi derivanti da attività di lavoro dipendente prestate all’estero Roberto Franzè Professore aggregato di diritto tributario nell’Università della Valle d’Aosta Analisi delle diverse discipline tributarie volte a regolamentare il concorso alla formazione del reddito complessivo dei redditi derivanti da attività di lavoro dipendente prestate all’estero 1. Le ragioni sottese all’adozione di regimi tributari di favore per i redditi di lavoro dipendente prestato all’estero in via continuativa La realizzazione di redditi a fronte di un’attività di lavoro dipendente prestata all’estero è stata sempre una fattispecie oggetto di particolare attenzione da parte del legislatore tributario italiano. Se, infatti, il principio di tassazione su base mondiale dei redditi realizzati da un soggetto fiscalmente residente in Italia (cosiddetto “world-wide taxation”) imporrebbe che anche questa tipologia di redditi sia assoggettata a tassazione in Italia, non di meno il legislatore è ben conscio che i redditi in parola sono, in ossequio alle normative tributarie interne dei Paesi nei quali l’attività di lavoro è concretamente svolta, suscettibili di essere assoggettati a tassazione anche in quei Paesi. Ne discende che, di regola, sul reddito di lavoro dipendente prestato all’estero concorrono pretese impositive sia dello Stato della residenza del soggetto lavoratore, sia dello Stato nel quale l’attività lavorativa è concretamente prestata[1]. Se è vero che il fenomeno di doppia imposizione giuridica, che scaturisce dal descritto concorso di pretese impositive statuali sul reddito di lavoro realizzato all’estero, non differisce, quanto ai suoi effetti, da una qualsiasi altra fattispecie che dà origine ad una doppia imposizione giuridica, è pur vero che quelle rigidità dello strumento disciplinato dall’ordinamento tributario italiano – il credito d’imposta (rectius, la detrazione) per le imposte assolte all’estero – per eliminare (attenuare) gli effetti distorsivi che un concorso di pretese impositive causa si appalesano in maniera più evidente proprio nella fattispecie del reddito di lavoro dipendente prodotto all’estero. Più precisamente, l’istituto del credito d’imposta per le imposte assolte all’estero – per come esso è disciplinato dalla normativa tributaria italiana – è, tra le altre limitazioni, subordinato al requisito della definitività del prelievo estero e può essere vantato dal contribuente solo in sede di dichiarazione dei redditi (e cioè successivamente alla fine del periodo d’imposta): cioè espone il lavoratore dipendente che presti la propria attività di lavoro all’estero – più di ogni altro contribuente che realizzi redditi all’estero – al concreto rischio di dover anticipare, per effetto del particolare meccanismo di riscossione delle imposte sul reddito di lavoro (molto spesso riscosse per il tramite di meccanismi di ritenute a titolo d’acconto direttamente applicate in busta paga), un doppio prelievo su una fonte reddituale che potrebbe anche essere l’unica a disposizione del contribuente stesso. Scritto in altri termini, per la tipologia di redditi in parola è concreto il rischio che, stante le particolari – rispetto ad altre categorie reddituali – modalità di applicazione del prelievo tributario, lo sgravio da doppia imposizione benefici il contribuente anche mesi dopo aver subìto il doppio prelievo. Per questo motivo, tradizionalmente, il legislatore tributario ha accordato regimi tributari di favore per i redditi realizzati all’estero. Fino a tutto l’anno solare 2000, l’articolo 3, comma 3, lettera c del Decreto del Presidente della Repubblica (di seguito D.P.R.) n. 917/1986 (di seguito TUIR) disciplinava un’esenzione dalle imposte sui redditi dei redditi di lavoro dipendente prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto. La norma di esenzione, pur essendo astrattamente indirizzata ad ogni contribuente, si rivolgeva, concretamente, alle sole persone fisiche fiscalmente residenti nel territorio dello Stato italiano, giacché nei confronti delle persone fisiche colà non residenti non operava (e tuttora non opera), per i redditi derivanti da attività di lavoro dipendente prestato all’estero, il presuppo- Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 sto territoriale di applicazione dell’imposta. Fino a tutto l’anno solare 2000, quindi, l’ordinamento tributario italiano accordava al reddito di lavoro dipendente prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto una particolare attenzione[2], esentando da ogni imposizione il reddito così realizzato. L’esenzione, tuttavia, non si applicava all’attività di lavoro dipendente prestato all’estero in maniera isolata o non continuativa: con riferimento a queste ultime situazioni, l’ordinamento aveva ritenuto che il fenomeno della (temporanea) doppia imposizione giuridica non fosse così penalizzante tale da imporre un intervento legislativo. Non poteva pertanto sostenersi che il regime di esenzione fosse animato dalla volontà, da parte del legislatore, di creare un’ingiustificata agevolazione ad una particolare categoria di soggetti – i lavoratori dipendenti con attività lavorativa estera – rispetto alla categoria più generale dei lavoratori dipendenti. Come si è descritto più sopra, infatti, l’agevolazione rispondeva ad una situazione di oggettiva difficoltà finanziaria nella quale si sarebbe trovato il lavoratore nel caso in cui avesse dovuto pagare imposte sui redditi anche nel suo Stato di residenza. Pur tuttavia il regime di esenzione finiva con il consentire una doppia esenzione (nello Stato della residenza e nello Stato di svolgimento dell’attività lavorativa) tutte quelle volte in cui la normativa interna dello Stato nel quale l’attività era svolta non assoggettava ad imposta il reddito scaturente dall’attività colà svolta. Per questa ragione, a partire dall’anno solare 2001, l’esenzione di cui all’articolo 3, comma 3, lettera c TUIR è stata abrogata e, pertanto, di regola il reddito di lavoro dipendente prestato all’estero concorre alla formazione del reddito complessivo ed è soggetto ad imposizione (anche) in Italia, salva l’applicazione del credito d’imposta per le imposte assolte all’estero, finalizzato all’eliminazione (rectius, attenuazione) del fenomeno di doppia imposizione giuridica internazionale che dovesse sorgere allorquando all’esercizio di potestà impositiva da parte dello Stato di residenza (l’Italia) si accompagni anche quello dello Stato nel quale l’attività è concretamente esercitata. 2. Il regime speciale impositivo per i redditi di lavoro dipendente prestato all’estero in via continuativa e con una presenza nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni nel corso di dodici mesi L’abrogazione dell’esenzione da imposizione dei redditi derivanti da attività di lavoro dipendente prestate all’estero è stata sostituita dalla disciplina introdotta, nel comma 8-bis dell'articolo 51 TUIR, dall’articolo 36 della Legge (di seguito L.) n. 342/2000. La nuova disciplina prevede che il reddito di lavoro dipendente prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell’arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni sono determinati non già sulla base del reddito effettivamente percepito ma sulla base di un reddito convenzionalmente determinato annualmente mediante un decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Più precisamen- te, ai fini della determinazione forfetaria della base imponibile, il decreto ministeriale fissa retribuzioni convenzionali distinte per fasce di reddito effettivo e per settore di attività: per il periodo d’imposta 2014 le retribuzioni convenzionali sono state fissate con decreto del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali del 23 dicembre 2013 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 2 del 3 gennaio 2014). Le retribuzioni convenzionali così determinate concorrono alla formazione del reddito complessivo italiano della persona fisica e scontano, quindi, l’Imposta sul reddito delle persone fisiche (di seguito IRPEF) italiana, con possibilità di detrarre dalle imposte dovute in Italia quelle effettivamente pagate nello Stato estero nel quale l’attività lavorativa è stata svolta. Particolari problematiche genera l’applicazione del credito d’imposta in caso di concorso alla formazione del reddito complessivo di retribuzioni convenzionali (non effettive). Occorre, infatti, tener presente che l’articolo 165 TUIR – disciplinante l’istituto del credito d’imposta per le imposte assolte all’estero – al comma 10 prevede che “nel caso in cui il reddito prodotto all’estero concorra parzialmente alla formazione del reddito complessivo, anche l’imposta estera va ridotta in misura corrispondente”. Nell’interpretare il citato comma, l’Agenzia delle Entrate, nella risoluzione n. 48/E del 2013 ha discutibilmente precisato che, ai fini del rapporto fra retribuzione convenzionale e reddito estero a cui va ragguagliato l’imposta estera (sempre se divenuta definitiva alla data di presentazione della dichiarazione), al denominatore rilevi il reddito estero “riqualificato” in base alla normativa fiscale italiana e non, invece, il reddito estero come quantificato e documentato nella dichiarazione dei redditi e/o nella certificazione delle retribuzioni estere. L’interpretazione proposta dall’Agenzia si presta a numerose critiche. In effetti, la rideterminazione del reddito estero sulla base delle regole italiane implica la conoscenza approfondita di tutte quelle voci di cui si compone la retribuzione estera del lavoratore (compresi eventuali indennità e benefit), dal momento che l’esatta determinazione di ogni elemento della retribuzione deve avvenire, ai fini dello scomputo delle imposte estere, sulla base delle regole di determinazione dettate dal TUIR. 3. Il regime speciale impositivo per i redditi di lavoro dipendente prestato all’estero dai lavoratori frontalieri Al descritto regime impositivo applicabile ai redditi realizzati all’estero a fronte di un’attività di lavoro svolta in via continuativa e con una presenza nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni nel corso di dodici mesi, si affianca, poi, il regime speciale per i redditi di lavoro dipendente svolto all’estero in zone di frontiera da persone fisiche residenti in Italia. Si tratta, in sostanza, del regime speciale applicabile ai cosiddetti “frontalieri” e, cioè, a tutti quei soggetti i quali si recano quotidianamente dalle loro abitazioni in Italia verso il luogo estero dove viene svolta l’attività lavorativa per far rientro in Italia a conclusione dell’attività prestata. Questi soggetti non possono, a stretto rigore, essere destinatari del regime tributario di cui al precedente paragrafo dal momento che non pernottano nello Stato estero per più di 183 giorni in 15 16 Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 un orizzonte temporale di dodici mesi. A questi soggetti l’ordinamento, in alternativa al regime ordinario di cui al paragrafo che segue, offre la possibilità di determinare la base imponibile dell’imposta sul reddito dovuta in Italia applicando un’esenzione sui primi 6'200 euro di reddito corrisposto. In sostanza, l’esenzione sui primi 6'200 euro di reddito servirebbe al lavoratore per far fronte ai costi di trasporto che, altrimenti, sarebbero indeducibili dalla base imponibile dell’imposta sul reddito dovuta in Italia. Anche per il regime tributario dei redditi realizzati dai cosiddetti “frontalieri”, dal momento che il reddito prodotto all’estero concorre parzialmente alla formazione del reddito complessivo, il credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero comporta che l’imposta estera detraibile debba essere ridotta proporzionalmente al limitato concorso del reddito estero alla formazione della base imponibile dell’imposta sul reddito dovuta in Italia. un importo complessivo annuo non superiore a 4'648.11 euro. Infine, in base all’articolo 51, comma 8 TUIR, l’assegno di sede per i servizi prestati all’estero è imponibile nella misura del 50%. Anche nel regime ordinario d’imposizione dei redditi di lavoro realizzati all’estero, in caso di concorso parziale del reddito estero alla formazione del reddito complessivo, il credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero comporta che l’imposta estera detraibile debba essere ridotta proporzionalmente al limitato concorso del reddito estero alla formazione della base imponibile dell’imposta sul reddito dovuta in Italia. 5. Conclusioni Si è più sopra esposto come l’ordinamento italiano disponga di numerosi regimi. Essi perseguono finalità diverse, avendo ambiti soggettivi di applicazione differenziati. Tuttavia la pluralità delle disposizioni menzionate è ascrivibile alla volontà del legislatore tributario di non voler più esentare il reddito di lavoro dipendente prestato all’estero, perseguendo l’obiettivo di evitare trattamenti discriminatori tra lavoratori dipendenti che prestano l’attività lavorativa nel territorio dello Stato italiano e lavoratori dipendenti che svolgono la proposta attività in un altro Stato. Elenco delle fonti fotografiche: http://www.eunews.it/wp-content/uploads/2014/04/lavoratori-distaccati.jpeg [26.05.2014] 4. Il regime ordinario d’imposizione per i redditi di lavoro dipendente prestato all’estero In alternativa ai regimi impositivi sopra descritti, possono, a discrezione del contribuente, trovare applicazione le regole di determinazione della base imponibile dettate dall’articolo 51 TUIR, il quale, dopo aver statuito il criterio generale in base al quale il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme ed i valori in genere percepiti in relazione all’attività lavorativa, precisa per gli elementi reddituali realizzati all’estero quanto segue. http://www.eurca.com/wp-content/uploads/2013/06/distacco-dei-lavoratori.jpg [26.05.2014] Le indennità percepite per le trasferte o le missioni all’estero concorrono a formare il reddito per la parte eccedente i 77.47 euro giornalieri. In caso di rimborso analitico delle spese per trasferte o missioni all’estero, non concorrono a formare il reddito gli ammontari corrisposti a tale titolo nel limite massimo di 25.82 euro. Inoltre, le indennità di trasferimento, quelle di prima sistemazione e quelle equipollenti non concorrono alla formazione della base imponibile dell’imposta sul reddito dovuta in Italia nella misura del 50% del loro ammontare per [1] Entrambe le pretese impositive degli Stati coinvolti – quello di residenza del soggetto lavoratore e quello nel quale l’attività è concretamente svolta – sarebbero coerenti con le tax policies adottate dalla generalità degli Stati, i quali – non senza qualche eccezione – chiamano al concorso del riparto delle spese pubbliche i soggetti che appartengono alle rispettive comunità economiche e sociali in ragione, rispettivamente, sia dell’avervi stabilito il centro degli interessi personali e sia dell’essere partecipe del processo economico e produttivo. [2] Peraltro, l’esenzione da imposizione non riguardava solamente il reddito realizzato all’estero ma anche ogni altra indennità a qualsiasi titolo corrisposta successivamente alla cessazione di quel rapporto di lavoro, la quale avesse avuto origine esattamente in quel rapporto di lavoro: erano così esenti anche i trattamenti di fine rapporto relativi a quelle attività lavorative prestate all’estero. In questo senso si è espressa anche la Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 26438 del 4 novembre 2008. Diritto tributario internazionale e dell'UE Il blocco dei ristorni da parte del Canton Ticino è veramente incompatibile con il diritto internazionale? Patrick Schubiger Direttore Interfida SA, Lic.rer.pol. MAS International Corporate Taxation FH, LL.M. Esperto in Finanza ed Investimenti dipl. (AZEK), già perito fiscale presso la DDC TI Contromisure in presenza di treaty override convenzionale 1. Introduzione La questione è nota ormai anche a un largo pubblico e costituisce un tema caldissimo nel nostro panorama politico cantonale e federale. Infatti, il blocco attuato dal Consiglio di Stato ticinese il 30 giugno 2011 della metà del ristorno delle imposte prelevate alla fonte sui frontalieri, relative all’anno 2010, ha provocato tutta una serie di forti reazioni politiche, sia a livello cantonale, federale che internazionale. Tali reazioni sono state per lo più di condanna, fondate su di una presunta violazione del diritto internazionale, rispettivamente di plauso, perché anche qualora il diritto internazionale fosse stato violato, la decisione del Consiglio di Stato presentava secondo alcuni il grosso merito di sbloccare la situazione negoziale con l’Italia. Inoltre, siccome il blocco è una misura ripercorribile annualmente, la questione può ripresentarsi con frequenza anche in un prossimo futuro. La domanda che vale allora la pena di porsi, senza entrare in ambito politico, ma rimanendo in un’area tecnico-tributaria, è relativamente semplice: il blocco attuato dal Consiglio di Stato è veramente illegale sotto il profilo del diritto internazionale? La domanda è semplice, ma per contro la risposta è complicata, non fosse altro per la necessità di muoversi all’interno del diritto tributario internazionale e del diritto pubblico internazionale, materie molto complicate già solo prese singolarmente. Inoltre, l’analisi esplora zone vergini e inesplorate, perché non esistono casi paragonabili a livello internazionale e dunque analisi dottrinali che abbiano già affrontato la questione, anche se esiste un'ampia letteratura internazionale sul tema della violazione di Convenzioni di doppia imposizione (di seguito CDI) attraverso normative introdotte a posteriori nel diritto tributario nazionale di Paesi contraenti. In Svizzera, per contro, tale rapporto è stato oggetto di analisi molto limitate[1]. Pertanto, oggetto del presente contributo è la ricerca di un filo rosso conduttore che possa portare a una risposta concreta alla domanda di fondo attraverso una sussunzione giuridica che si basa su tre pilastri di base. Il primo concerne l’analisi teorica della compatibilità di normative domestiche in contrasto con pattuizioni di diritto pubblico internazionale, le CDI. Il secondo concerne la responsabilità internazionale degli Stati in caso di violazioni di CDI. Il terzo concerne l’applicazione degli elementi teorici sviluppati alla Convenzione di doppia imposizione fra la Svizzera e l’Italia, ciò che permette di prendere posizione sulla legalità del blocco del ristorno delle imposte prelevate ai frontalieri. 2. Riassunto dei fatti Con decisione del 30 giugno 2011 il Consiglio di Stato ticinese ha deciso di congelare su di un conto vincolato presso Banca Stato la metà del ristorno delle imposte prelevate alla fonte sui frontalieri relativi all’anno 2010 per un importo di 28.4 milioni di franchi. La decisione è stata presa con una maggioranza di tre voti contro due. I due Consiglieri di Stato che hanno votato contro la decisione di congelamento hanno ritenuto la misura, fra le altre cose, contraria al diritto internazionale. L’8 luglio 2011 un privato cittadino ha denunciato per abuso di autorità al Ministero pubblico della Confederazione i tre membri del Governo ticinese che si erano pronunciati in favore del blocco. La procura ticinese, cui era stata attribuita la competenza, ha archiviato con un decreto di non luogo a procedere la denuncia. Lo stesso esito si avrà per altre cause analoghe. Il 7 marzo 2012, il Consiglio regionale della Lombardia ha impegnato il Presidente della Giunta Regionale a intervenire nella competente sede giudiziaria per ottenere il rispetto da parte dell’autorità elvetica dell’Accordo italo-svizzero sui frontalieri e per chiedere il risarcimento pecuniario a titolo di riparazione dei danni subiti. Il 1. maggio 2012, l’allora Presidente del Consiglio Monti, ha ventilato la possibilità di riaprire i negoziati fra la Svizzera e l’Italia in ambito fiscale a condizione che la prima rispetti gli accordi vigenti. In particolare, Monti ha richiesto di ripristinare l’applicazione dell’Accordo sui frontalieri sospeso unilateralmente dal Cantone Ticino. Il 9 maggio 2012, dopo intense discussioni fra Bellinzona e Berna, che tende anch’essa a considerare il mancato riversamento della quota spettante all’Italia illegale sotto il profilo del diritto internazionale, il Consiglio di Stato ha sbloccato la quota congelata. 17 18 Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 3. Elementi base dell’Accordo sulla fiscalità dei frontalieri Il 3 ottobre 1974, la Svizzera ha concluso con l’Italia un Accordo relativo all’imposizione dei lavoratori frontalieri ed alla compensazione finanziaria a favore dei Comuni italiani di confine (di seguito Accordo sui frontalieri)[2]. Tale Accordo è stato approvato dall’Assemblea federale il 24 ottobre 1978 ed è entrato in vigore con uno scambio di note il 27 marzo 1979. Ai sensi dell’articolo 15 capoverso 4 della Convenzione fra la Confederazione Svizzera e la Repubblica Italiana per evitare le doppie imposizioni e per regolare talune altre questioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio conclusa il 9 marzo 1976, approvata dall’Assemblea federale il 24 ottobre 1978 e entrata in vigore il 27 marzo 1979 (di seguito CDI-I)[3] , l’Accordo sui frontalieri è parte integrante della CDI-I, nonostante i suoi effetti si esplicassero già a partire dal 1. gennaio 1974, dunque anteriormente alla conclusione e all’entrata in vigore della CDI-I[4]. Nei suoi elementi essenziali, l’Accordo sui frontalieri prevede l’imposizione nel luogo di lavoro di tutti i corrispettivi versati ad un lavoratore frontaliere per lo svolgimento di un’attività lucrativa dipendente[5] e una compensazione finanziaria di una parte dell’ammontare lordo delle imposte percepite sulle remunerazioni pagate durante l’anno solare dai frontalieri italiani da parte del Cantone Ticino, del Cantone Grigioni e del Cantone Vallese in favore dei Comuni italiani di confine[6]. La compensazione finanziaria ammonta attualmente al 38.8%[7] e va trasferita tramite un versamento unico, da effettuarsi nel corso del primo semestre dell’anno successivo a quello cui la compensazione finanziaria si riferisce su un conto aperto presso la Tesoreria Centrale italiana intestato al Ministero del Tesoro[8]. Le autorità italiane provvedono in seguito a trasferire le somme versate ai Comuni nei quali risiedono i frontalieri[9] , Comuni che annualmente devono informare i rappresentanti svizzeri sull’utilizzo delle somme messe a disposizione dai suddetti Cantoni[10]. porti fiscali internazionali. Il regolamento di questi rapporti fiscali internazionali implica finalmente un compromesso, che può essere influenzato da diversi elementi, non sempre di natura prettamente fiscale, ma che comportano sempre una limitazione della propria sovranità fiscale nazionale. Ad ogni modo, il consenso reciproco costituisce il nocciolo di questi contratti fra Stati che vengono parimenti fortemente influenzati dal principio di autonomia della volontà, dal principio di confidenza-fiducia, dal principio della libertà contrattuale e dal principio del pacta sunt servanda[12]. Inoltre, in quanto appunto convenzioni di diritto pubblico internazionale, la loro conclusione, la loro validità, i loro effetti, la loro modifica, la loro sospensione, la loro interpretazione e la loro denuncia sono regolati da una meta-convenzione, generalmente denominata Convenzione di Vienna (di seguito CV)[13]. La CV ha in larga misura codificato il diritto internazionale consuetudinario (anche a carattere imperativo, ius cogens), di per sé direttamente applicabile anche in mancanza di una formale ratifica nazionale della Convenzione. Pertanto, ai fini della presente analisi, visto e considerato che gli articoli di riferimento della CV necessari per la presente disamina costituiscono certamente diritto internazionale consuetudinario, anche se la CV è stata ratificata in Svizzera e in Italia dopo l’entrata in vigore della CDI-I, essa risulta pienamente applicabile alla fattispecie oggetto di analisi. Di conseguenza, sulla base di questo quadro concettuale di riferimento, si può affermare che il limite della libertà negoziale sfociante in una CDI è ravvisabile nei principi di diritto consuetudinario internazionale e nella responsabilità internazionale degli Stati per eventuali violazioni di trattati internazionali. L’impatto finanziario dei ristorni è tutt’altro che da sottovalutare. Complessivamente dal 1974 al 1988 compresi, il Cantone Ticino, Vallese e Grigioni hanno versato all’Italia un importo di circa 230 milioni di franchi[11]. Attualmente il rimborso annuale a carico unicamente del Cantone Ticino è pari a circa 60 milioni di franchi. 4. Analisi teorica 4.1. Natura ed effetti delle CDI Considerato come l’Accordo sui frontalieri sia parte integrante della CDI-I, occorre in prima analisi comprendere la natura e gli effetti di una CDI. Ora, una CDI non è qualcosa di astratto e artificiale, ma piuttosto un semplice accordo di diritto pubblico internazionale sottoscritto fra Stati sovrani. In modo del tutto analogo al diritto contrattuale privato, questi accordi si caratterizzano per una manifestazione concorde e reciproca di volontà finalizzata a produrre effetti giuridici liberamente concordati, che nel caso specifico esprimono la volontà da parte di due Stati sovrani di regolare i propri rap- 4.2. Applicazione del diritto convenzionale nel diritto interno La CV, per quanto concerne l’applicazione del diritto convenzionale nel diritto interno di qualsiasi Stato, è inequivocabile. All’articolo 26 CV, viene, infatti, sviluppata l’idea secondo cui ogni trattato vincola le parti e che queste devono eseguirlo in buona fede. Inoltre, con l’articolo 27 CV, ogni possibile malinteso viene a cadere, una parte non può in ogni caso invocare le disposizioni della propria legislazione interna per giustificare la mancata esecuzione di un trattato. Questo principio, noto come pacta sunt servanda, non costituisce né una possibilità di scelta né un'opzione. Gli Stati sovrani hanno un obbligo di risultato. Una volta vincolati da un trattato, in ogni caso liberamente sottoscritto secondo le proprie libere volontà, non è possibile evitarne le conseguenze giuridiche attraverso la propria legislazione interna. Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 Il risultato è significativo. In una relazione fra Stato e Stato, i metodi di trasformazione del diritto internazionale nel diritto interno (monistico o dualistico) non hanno alcuna rilevanza. Anche i principi susseguenti sviluppati dalla dottrina e che regolano i rapporti fra diritto internazionale e diritto domestico nell’ambito dell’applicazione del diritto nazionale, riferiti concettualmente con le locuzioni lex specialis derogat legi generali e lex poterior derogat legi priori, si svuotano completamente di contenuto. A livello elvetico, di conseguenza, la dottrina “Schubert” sviluppata dal Tribunale federale e l’obbligo di applicazione del diritto (interno) anche contrario alla costituzione secondo l’articolo 190 della Costituzione federale (di seguito Cost.), non hanno influenza. A livello italiano, la riforma dell’articolo 117 della Costituzione, intervenuto nel 2001, la quale ha definitivamente sancito la prevalenza del diritto internazionale, è anch’essa irrilevante[14]. Siamo di fronte dunque a una fondamentale dicotomia di applicazione del diritto convenzionale. Se da una parte, nelle relazioni fra Stato e Stato, il diritto interno è del tutto irrilevante per l’applicazione delle CDI, nei confronti dei contribuenti vale esattamente l’opposto: diventa determinante il metodo di recepimento nel diritto domestico dei trattati internazionali. Questa dicotomia provoca, per altro, situazioni frustranti di doppia imposizione anche in presenza di una chiara violazione del diritto convenzionale da parte di uno degli Stati contraenti[15]. 4.3. L’interpretazione delle CDI L'interpretazione delle CDI, un’arte e un problema che ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro, è anch’essa riconducibile alla CV. L’articolo 31 capoverso 1 CV risulta fondamentale e prevede un’interpretazione secondo la buona fede, seguendo il senso ordinario da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto e alla luce del suo oggetto e scopo. Occorre allora sottolineare alcuni principi guida. Al contrario di quanto avviene per esempio a livello svizzero, dove non esiste una gerarchia dei metodi di interpretazione delle norme, una CDI va primariamente interpretata utilizzando i termini stessi del trattato. Si presume, infatti, che i termini utilizzati riflettano le vere intenzioni delle parti. Il principio di buona fede rinforza, ma limita anche, quest’ottica di base. Non è sempre agevole definire in modo chiaro cosa sia la buona fede, ma l’idea di fondo che si vuole sviluppare con tale riferimento è quella di un'interpretazione onesta, equa e ragionevole dell’intenzione delle parti così come espressa appunto nei termini del trattato[16]. Ne consegue, comunque, una limitazione dell’interpretazione puramente grammaticale: qualora infatti il risultato di un'interpretazione sia chiara, ma manifestamente assurda o irragionevole, è permesso scostarsi dai termini utilizzati nel trattato[17]. Questo test dell’assurdità ha in Svizzera ottenuto notevole successo e viene seguito da molti commentatori. Altri principi importanti sviluppati dalla dottrina in riferimento alla buona fede e alla ricerca della vera intenzione delle parti vengono identificati nel principio di contemporaneità[18] , nel principio di integrazione[19] e nel principio di attualità[20]. Per contro, l’interpretazione teleologica non dovrebbe assumere a livello internazionale particolare rilevanza[21]. Come si vede dunque, l’interpretazione dei trattati consiste nel cogliere principalmente la vera intenzione delle parti, in piena consistenza con il principio della buona fede e con lo spirito delle CDI, che consistono in una manifestazione concorde e reciproca di volontà. Per questo motivo l’OCSE, per esempio nel rapporto sul treaty override, parla della necessità di coordinamento interpretativo degli Stati contraenti e di una interpretazione caso per caso[22]. 4.4. Il ruolo del commentario al Modello di Convenzione OCSE Il commentario al Modello di Convenzione dell’OCSE (di seguito commentario OCSE) è indubbiamente un ausilio importante per l’interpretazione dei trattati. Il Tribunale federale, per esempio, ne fa immancabilmente riferimento nelle sue decisioni, arrivando comunque in diverse situazioni a stravolgerne completamente il senso e il significato[23]. Ciò nonostante, il ruolo preciso da attribuire a questo commentario OCSE è oggetto di diverse diatribe e non esiste una unità di dottrina al riguardo. Alcuni autori ritengono che il commentario OCSE sia da utilizzare in relazione all'articolo 31 capoverso 1 CV, per cui il suo utilizzo è da ricercare in via prioritaria nel senso ordinario dei vocaboli utilizzati in una CDI. Altri ritengono sia da utilizzare in relazione all'articolo 31 capoverso 4 CV, per cui il suo utilizzo è da ricercare in via secondaria nel senso particolare da attribuire ai vocaboli in caso di un risultato interpretativo non univoco ai sensi dell’articolo 31 capoverso 1 CV. Altri ancora, ritengono la sua presa in considerazione solo in relazione all'articolo 32 CV, pertanto solo ed unicamente come mezzo complementare d'interpretazione. Infine, esiste una corrente di pensiero che giustifica l'utilizzo del commentario OCSE come pratica ulteriormente seguita ai sensi dell'articolo 31 capoverso 3 lettera b CV o come regola pertinente di diritto internazionale applicabile nelle relazioni tra le parti ai sensi dell'articolo 31 capoverso 3 lettera c CV. Rimane la certezza comunque che il ruolo sistematico del commentario OCSE è tutt’altro che chiaro. In questa situazione vale altresì la pena di ricordare come qualsiasi ruolo venga attribuito al commentario OCSE, anche il suo utilizzo è in qualsiasi caso sottomesso alla CV. In quest’ottica risulta pertanto difficile comprendere come un suo uso dinamico venga difeso da una parte importante degli Stati europei e dall’OCSE a partire dal 1992[24]. Infatti, utilizzare elementi introdotti a posteriori nel commentario OCSE, a meno che siano condivisi dagli Stati contraenti ab initio nell’interpretazione di una CDI particolare, pone diversi quesiti in relazione al principio della buona fede e al principio del venire contra factum proprium. D’altronde, esiste al riguardo una certa confusione tra l’impiego 19 20 Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 dinamico del commentario OCSE e l’interpretazione dinamica di cui all’articolo 3 del Modello di Convenzione OCSE, in cui il riferimento alla lex fori per termini non definiti nella convenzione permette senza dubbi una chiara interpretazione dinamica. La questione dell’uso dinamico del commentario OCSE è di natura invece completamente diversa, perché nel commentario OCSE si esprimono idee più generali su principi base afferenti al Modello di Convenzione OCSE. In linea con lo spirito della CV, appare dunque molto più sensato pensare come solo il commentario OCSE esistente al momento delle negoziazioni e della conclusione di una CDI particolare sia in grado di dare delle indicazioni sull’intenzione che avevano le parti in quel periodo e quale senso effettivo accordare alle differenti regole del Modello di Convenzione in uso nello stesso momento[25]. Una versione successiva non può dare ragionevolmente indicazioni pertinenti su CDI già concluse e in essere. Né l’articolo 31 capoversi 1, 2 o 4 CV, né l’articolo 32 CV offrono una base legale sufficiente per un utilizzo dinamico del commentario OCSE[26] , nonostante quanto affermato dall’OCSE. 4.5. Una politica convenzionale; diverse CDI Il Modello di Convenzione OCSE e il suo commentario sono, come detto, fonti importanti per la definizione di principi base convenzionali e la loro interpretazione. Non di meno va ricordato come in ultima analisi non sia l'OCSE a determinare la politica dei singoli Stati, ma gli Stati stessi. Una CDI è il risultato di contrattazioni che possono venire influenzate da diversi fattori, non sempre necessariamente di ordine semplicemente fiscale e il risultato finale può divergere in modo anche eclatante rispetto alla politica convenzionale di uno Stato. La CDI fra l’India e le isole Mauritius è emblematica al riguardo. L’India ha volontariamente sottoscritto questa CDI, sapendo (o dovendo sapere) che sarebbe stata utilizzata per interporre società estere senza sostanza con lo scopo di praticare classiche strutture di treaty shopping, ma lo ha fatto con l’obiettivo di attrarre investimenti esteri e tecnologia[27]. Solo dopo quarant’anni di elusione, dopo la sentenza nella causa Vodafone, l’India si è mossa per emendare la propria legislazione interna. La CDI fra il Belgio e Hong Kong prevede, per esempio, un tasso zero per i dividendi infra gruppo, deviando in modo sostanziale dai principi convenzionali del Belgio, il tutto per espressa volontà di facilitare l'accesso ai propri contribuenti al mercato asiatico[28]. La Svizzera, per esempio, ha sempre optato in linea generale, sino al 13 marzo 2009, per la piccola clausola di scambio di informazioni, mentre prima di questa data in due sole CDI, quella con gli USA e quella con la Germania, si è scostata volontariamente da questa politica generale. Appare dunque chiaro, ancora una volta, come ogni CDI deve venire interpretata singolarmente sulla base della propria formulazione nell'ambito dei principi della CV. Ogni altra interpretazione rischia semplicemente di re-nazionalizzare, a posteriori, la volontà precedentemente espressa di regolare le proprie relazioni fiscali internazionali. 4.6. La politica convenzionale svizzera Nel diritto pubblico internazionale, una riserva è l'espressione della volontà di una delle parti di non essere legata da un trattato nella sua integralità[29]. La Svizzera, chiarificando la propria posizione convenzionale, ha emesso diverse osservazioni nel commentario OCSE. La prima è riconducibile allo scopo delle CDI: "Switzerland does not share the view expressed in paragraph 7 according to which the purpose of double taxation conventions is to prevent tax avoidance and evasion"[30]. La seconda chiarifica la relazione fra misure antiabuso interne e misure antiabuso convenzionali: "With respect to paragraph 22.1, Switzerland believes that domestic tax rules on abuse of tax conventions must conform to the general provisions of tax convention, especially where the convention itself includes provisions intended to prevent its abuse"[31]. La terza concerne la compatibilità fra norme antiabuso interne e CDI: "With respect to paragraph 23, Switzerland considers that controlled foreign corporation legislation may, depending on the relevant concept, be contrary to the spirit of Article 7"[32]. È indubbio, dunque, essendo queste riserve risalenti al commentario OCSE 1977 ed essendo le stesse ancora incluse nel commentario OCSE attuale, che questa politica convenzionale elvetica è nota alle controparti nel momento di concludere una CDI e se ne deve pertanto tenere debitamente conto nell’interpretazione delle CDI svizzere, a meno di espresse riserve formulate nel testo della CDI da utilizzare. 4.7. Compatibilità fra norme antiabuso interne e CDI L'Italia, a partire dalla fine degli anni '90, ha introdotto tutta una serie di misure antiabuso interne. Occorre, dunque, approfondire la relazione fra CDI e misure antiabuso interne introdotte a posteriori che potrebbero confliggere con norme convenzionali anteriori. Siccome questa tipologia di norma è stato oggetto di un lungo dibattito in seno all’OCSE e che ha visto assumere posizioni talvolta contrastanti, è necessario delineare brevemente le linee guida espresse nei vari commentari OCSE e nei rapporti OCSE che sono stati emessi nel tempo. 4.7.1. Commentario OCSE 1977 Il commentario OCSE 1977[33] è molto esplicito su diversi punti di particolare interesse. Dapprima esprime chiaramente l'idea secondo cui l'oggetto e lo scopo delle CDI sia quello di promuovere la circolazione di beni, servizi, persone e capitali attraverso l'eliminazione della doppia imposizione. Inoltre, viene affermato come accordi di diritto pubblico internazionale non dovrebbero sostenere l'elusione e l'evasione fiscale. Che cosa si debba però intendere per "non sostenere" non è chiaro. In questo ambito viene però riconosciuta al contribuente la possibilità di organizzare i propri affari minimizzando il carico fiscale. È compito poi dei singoli Paesi membri prendere disposizioni nel loro diritto nazionale atti a contrastare transazioni o misure abusive e di includere nelle proprie CDI clausole di salvaguardia per l’applicazione delle proprie regole nazionali. In questo modo si rende pertanto chiaro come non c'è spazio per l'applicazione di Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 disposizioni nazionali contro l'abuso sino a quando non esista un indizio nel testo della CDI che ne esprima chiaramente la volontà, accettata da entrambe le parti. Su questa base prevale nella dottrina svizzera e internazionale il parere secondo cui il commentario OCSE 1977 ammette l'applicazione di disposizioni antiabuso unilaterali solo in presenza di rimandi concreti nelle CDI[34]. Solo gli Stati Uniti hanno espressamente riservato il diritto di tassare i propri cittadini e residenti senza prendere in considerazione le regole pattizie internazionali. Di conseguenza, le parti contraenti, sulla base del principio di reciprocità, possono applicare le loro norme antiabuso interne, a meno che la CDI applicabile non ne escluda esplicitamente l'applicazione, solo in relazione con gli Stati Uniti. 4.7.2. Rapporto OCSE sulla Thin Capitalization del 1986 Nel 1986, l'OCSE ha adottato un rapporto sulla sottocapitalizzazione[35] , dove viene sottolineata la conformità di regole unilaterali contro la capitalizzazione sottile con l'articolo 9 del Modello di Convenzione OCSE. Una ripresa della disposizione particolare in una CDI non sarebbe in tale ambito necessaria. 4.7.3. Rapporto OCSE sulle conduit e base companies del 1986 Nel 1986, l'OCSE ha adottato i rapporti sulle società “base” e “conduit” [36]. Nel rapporto sulle società “base”, la maggior parte dei Paesi OCSE hanno ritenuto che le disposizioni antiabuso unilaterali fossero da considerare come parte fondamentale del diritto di determinare, da un punto di vista nazionale, fattispecie tributarie. Tali norme, in particolare le norme CFC, sarebbero estranee al perimetro delle CDI e, pertanto, non ci sarebbe conflitto fra norme CFC e diritto internazionale pattizio[37]. Visto che, comunque, la relazione fra il diritto convenzionale e il diritto nazionale antiabuso risulterebbe ciò nonostante poco chiaro, il rapporto consiglia di apportare una riserva esplicita per l'applicazione di norme nazionali CFC nel testo della Convenzione[38]. A parere comunque di una minoranza di Paesi, tali disposizioni sarebbero inapplicabili, in particolare quando una CDI contenga essa stessa disposizioni per prevenire gli abusi. Tra questi Stati si trova anche la Svizzera, che come è stato evidenziato in precedenza, ha inserito a riguardo un’osservazione nel commentario OCSE. Secondo la Svizzera, oggi come allora, le disposizioni CFC violano lo spirito delle CDI, considerando come l'applicazione di queste norme porti in ultima analisi ad un'applicazione unilaterale extraterritoriale del diritto tributario dell'altro Stato contraente. Vale la pena inoltre di sottolineare come nel rapporto sulle società “conduit”, in contrasto con il rapporto sulle società “base”, manca qualsiasi riferimento al rapporto fra regole antiabuso nazionali e CDI. Per le conduit companies, varrebbe allora, secondo il principio di buona fede, la possibilità di usufruire dei vantaggi convenzionali anche in presenza di un uso improprio del trattato bilaterale[39]. Tenendo in considerazione quanto sia in realtà difficile distinguere società “base” da società “conduit”, la differenza risulterebbe in un caos totale, a meno che la stessa differenza sia riconducibile ad una svista redazionale, caso comunque non dimostrato. 4.7.4. Rapporto OCSE sul Treaty Override del 1989 Il cosiddetto "Gruppo dei sei" (tutti Paesi europei) ha scritto una lettera il 16 luglio 1987 al Segretario del Tesoro americano lamentandosi delle continue deroghe a posteriori della legislazione americana alle CDI concluse dagli Stati Uniti. Gli autori di questo memorandum lamentano infatti continue violazioni unilaterali delle CDI che, a loro avviso, mettono in pericolo la fiducia dei partner contrattuali degli USA e la sicurezza convenzionale, così come la ridotta prevedibilità giuridica. Poco dopo, il 18 febbraio 1988, dieci dei dodici Paesi della Comunità europea hanno scritto agli USA mettendo in guardia il Paese sul possibile danno recato alle CDI in essere dall’eventuale applicazione del "TAMRA" (Technical and Miscellaneous Revenue Act). Per tutta risposta, il Senatore Sarbanes, nel 1990, durante una audizione al Congresso, ha espresso la seguente opinione, "the parties entering into these treaties know, and full well, that Congress has been prepared to override these tax treaties, and therefore they go into them with that knowledge". Sulla base di queste rimostranze, che dimostrano la serietà della questione, l'OCSE adotta nel 1989 il rapporto sullo "scavalcamento" dei trattati[40] , messo poi nel dimenticatoio per motivi non noti, ma che esprime non di meno fondamentali principi di applicazione. Il rapporto presenta, infatti, non solo una definizione e una descrizione del treaty override, ma anche un'analisi giuridica che conferma pienamente la prospettiva della CV. In particolare, vengono confermati i seguenti concetti di base. Primo, i trattati internazionali, nelle relazioni fra Stato e Stato, sono immuni rispetto ai modi e mezzi della loro applicazione nel diritto nazionale ("pacta sunt servanda"). Secondo, l'interpretazione di una CDI deve essere effettuata caso per caso in base alle norme generali della CV. Terzo, la procedura amichevole è stata proprio istituita per trovare soluzioni in singoli casi e per risolvere qualsiasi altra difficoltà o dubbio che possa sorgere nell'applicazione e interpretazione di un trattato. In questo modo, riconoscendo l’importanza sempre crescente del fenomeno della promulgazione a posteriori di norme antiabuso nazionali in contrasto con trattati bilaterali, norme che portano appunto a quello che tecnicamente viene definito come treaty override, e valutando tutti i pro e contro presentati dalla dottrina, l'OCSE esprime un forte dissenso verso queste pratiche e ritiene che in caso di dissenso fra Stati contraenti, l'unica via corretta da seguire sia la rinegoziazione o la denuncia. Gli argomenti posti a difesa del treaty ovverride, in particolare l'argomento secondo cui nuovi negoziati sono costosi in termini di tempo o addirittura impossibili a causa della mancanza di volontà di negoziare dell'altro Stato contraente, vengono respinti in toto dall’OCSE. Di conseguenza, pena la violazione del principio del venire contra factum proprium, uno Stato non può a posteriori introdurre norme nazionali in contrasto con quanto sottoscritto in un trattato internazionale. Restano ovviamente riservate le CDI in cui uno Stato contraente abbia esplicitamente iscritto nella convenzione ratificata da entrambi gli Stati una riserva legata all’applicazione delle norme nazionali (di regola antiabuso), che assumono in questo 21 22 Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 caso una piena applicabilità convenzionale. Emblematico in generale è il caso 2 presentato nel rapporto. Qualora lo Stato A e lo Stato B abbiano ratificato una convenzione in cui i plusvalori immobiliari vengano tassati in conformità all’articolo 13 Modello OCSE, ossia secondo il principio della tassazione nel luogo di situazione, e qualora lo Stato B si accorgesse che i contribuenti evadono la norma attraverso la costituzione di società immobiliari, non sarebbe comunque e in ogni caso permesso allo Stato B di emanare una legislazione interna atta alla lotta contro questo tipo di potenziale abuso convenzionale. Solo una rinegoziazione, agli occhi dell’OCSE, fra lo Stato A e lo Stato B, che includa nella convenzione una norma antiabuso con la parificazione per esempio delle società immobiliari ai beni immobili, costituisce una corretta via per evitare il succedersi del crescente e preoccupante fenomeno del treaty override. Senza una nuova Convenzione, lo Stato B dovrebbe accordare i privilegi convenzionali sottoscritti[41]. 4.7.5. Commentario OCSE 1992 Il commentario OCSE nel 1992 è stato modificato in alcune parti a seguito del rapporto sulle società “base” e “conduit” [42]. Viene di nuovo sostenuta la tesi della validità dell'approccio "substance over form" e la compatibilità delle norme CFC con le CDI. Per quanto riguarda la necessità di iscrivere esplicitamente norme antiabuso unilaterali nel testo delle CDI, è ripetuta l'opinione della maggioranza e della minoranza degli Stati come già evidenziato nel rapporto del 1986. 4.7.6. Commentario OCSE 1995 Nel 1995, il commentario OCSE chiarisce la definizione di interessi ex articolo 11 Modello OCSE, senza apportare modifiche significative sul problema della relazione fra norme convenzionali e norme unilaterali antiabuso[43]. 4.7.7. Rapporto OCSE sulla concorrenza fiscale dannosa del 1998 Nel 1998, l'OCSE adotta il rapporto sulla concorrenza fiscale dannosa[44]. Nel rapporto sono stati identificati soggetti e tipologie di reddito tassati preferenzialmente che possono potenzialmente interagire con un uso abusivo delle CDI. Un rapporto supplementare avrebbe poi, in seguito, dovuto confermare o meno i sospetti. Il rapporto ancora una volta ha portato avanti l'idea che le disposizioni antiabuso unilaterali sono compatibili con le CDI. 4.7.8. Rapporto sulla limitazione dei benefici convenzionali del 2002 A seguito dell’elaborazione del rapporto sulla concorrenza fiscale dannosa del 1998, l'OCSE ha adottato nel 2002 il rapporto sulla limitazione dei benefici convenzionali[45]. Il rapporto ha fornito la base per una revisione del punto 7 all'articolo 1 del commentario OCSE e ha raccomandato una modifica del concetto di abuso di trattato e chiarimenti del concetto di sede di direzione effettiva, del concetto di stabile organizzazione e del concetto di beneficiario effettivo. Il rapporto non include alcuna formulazione per un chiarimento della compatibilità delle normative unilaterali con le CDI. 4.7.9. Commentario OCSE 2003 Nel 2003, il commentario OCSE è stato profondamente modificato in alcune parti essenziali[46]. In seguito, infatti, al rapporto sulla concorrenza fiscale dannosa ed a quello sulla restrizione sui benefici convenzionali, è stato esplicitamente introdotto un secondo obiettivo e scopo delle CDI, ossia la lotta all’elusione e all’evasione fiscale. Siamo di fronte a un cambiamento epocale. Le CDI non hanno più come obiettivo primario l’eliminazione della doppia imposizione, ma anche quello di combattere l’elusione e l’evasione fiscale[47]. Unico Paese membro dell’OCSE a non condividere questa nuova impostazione è la Svizzera, che ha esplicitamente formulato un’osservazione al riguardo[48]. Di fatto, comunque, sulla base di questo nuovo compito assegnato alle CDI, cambia radicalmente anche l’impostazione per quel che concerne la relazione fra misure antiabuso domestiche e le CDI. Dimenticandosi completamente del rapporto sul treaty override e le gravi nonché imbarazzanti situazioni venutesi a creare con gli Stati Uniti, l’OCSE stralcia di colpo il parere di minoranza espresso da alcuni Stati membri nel rapporto sulle società “base” e “conduit”. Di colpo, vale solo il principio espresso dalla maggioranza secondo cui le misure antiabuso domestiche sono compatibili con le norme convenzionali[49]. Inoltre, sarebbe possibile dedurre, ai sensi dell’OCSE, una clausola antiabuso generale inerente a ogni CDI, anche in assenza di qualsiasi tipo di iscrizione esplicita nel testo convenzionale[50]. Questa nuova impostazione rimane comunque incompiuta e insoddisfacente. Da un lato, l’inserimento di un nuovo obiettivo primario assegnato alle CDI pone diverse domande sulla reale possibilità di raggiungimento di entrambi gli obiettivi. Esiste, infatti, una lunga e consolidata tradizione di teoria economica che mette in risalto l’antagonismo di base fra efficienza (eliminare le doppie imposizioni) e equità (evitare abusi) delle imposte. Entrambi gli obiettivi non sono mutualmente raggiungibili. Inoltre, la questione fondamentale posta dalla Svizzera relativa ad una re-nazionalizzazione di convenzioni bilaterali nate e sviluppate con lo scopo di promuovere il commercio internazionale rimane totalmente irrisolta. Dall’altro, rimane il fatto che un numero consistente di Paesi non condivida questa nuova impostazione. Il Belgio, l’Irlanda, il Lussemburgo, i Paesi Bassi, il Portogallo e la Svizzera respingono con fermezza la compatibilità fra le misure antiabuso Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 unilaterali con le CDI[51]. Secondo questi Paesi, queste normative devono rientrare in una CDI oppure possono collidere con la disciplina convenzionale. Inoltre, diversi commentatori rilevano una mancanza di logica interna e una circolarità di queste innovazioni nei confronti di altri elementi rimasti intatti, di modo che il potere persuasivo del commentario OCSE ne viene notevolmente diminuito[52] , oltre che a creare nuovi spazi di difficoltà interpretativa ed eventualmente di violazione del principio di proporzionalità fra obiettivi e mezzi. 4.8. Compatibilità fra norme antiabuso interne e norme antiabuso convenzionali Un ulteriore elemento di confusione viene ad aggiungersi nel momento in cui il testo di una CDI presenta una o più clausole antiabuso specifiche. Prevale, se si segue l’approccio seguito dall’OCSE a partire dal 2003, la clausola antiabuso generale inerente a ogni Convenzione, anche se non scritta, oppure la clausola antiabuso specifica inserita nel testo di una CDI? Anche la deduzione relativa a una clausola antiabuso immanente in ogni CDI, lascia alquanto perplessi con riferimento alla sua compatibilità con i principi generali della CV [53]. Certamente, una maggiore riflessione sulla reale portata economica e sulla reale possibilità di raggiungimento degli obiettivi posti a carico delle CDI, nonché una formulazione che tenga conto delle diverse sensibilità di tutti gli attori in gioco, sarebbe stata auspicabile. Esistono al riguardo due approcci. Secondo una prima concezione, detta cumulativa, la riserva generale antiabuso può essere applicata in concorrenza con il dispositivo antiabuso specifico, principalmente in caso di clausole sul beneficiario effettivo. La seconda concezione, detta sussidiaria, prevede il primato della norma antiabuso specifica. Inoltre, l’evoluzione storica permette di distinguere importanti incongruenze e cambiamenti di posizione per quel che concerne le relazioni fra misure antiabuso domestiche e CDI. L'esistenza di una riserva implicita contro gli abusi del diritto nelle CDI, che permetterebbe di utilizzare misure antiabuso interne anche senza un'esplicita e condivisa espressione nel testo concreto di un trattato, non è suffragata da sufficienti argomentazioni giuridiche. Solo con il commentario OCSE 2003 è stato esplicitamente dichiarato che le CDI debbano contrastare l'evasione e l'elusione fiscale. Sino al 2003, si parla solo di non promuovere la frode e l'evasione fiscale. Ogni altra conclusione, incluso un uso dinamico di queste innovazioni, contrastano radicalmente con la CV e i principi consuetudinari del diritto internazionale pubblico. 4.7.10. Conclusione Il Modello di Convenzione e il relativo commentario OCSE costituiscono un aiuto importante per l'interpretazione, in particolare quando le disposizioni della CDI in oggetto corrispondono alla formulazione del Modello di Convenzione OCSE pubblicato al momento delle negoziazioni fra gli Stati contraenti. Un'analisi più dettagliata dell'ottica OCSE in relazione alla lotta contro gli abusi del diritto mostra tuttavia una struttura incoerente. Anche il Modello di Convenzione e il commentario OCSE non possono venir considerati isolatamente e il loro uso è sotto il dominio della CV. È difficile comprendere a causa del principio pacta sunt servanda come disposizioni unilaterali introdotte a posteriori possano essere compatibili con un trattato precedentemente concordato senza una esplicita ratifica delle misure in oggetto. Accettare queste misure equivale a re-nazionalizzare le CDI con grave danno per il commercio estero, la cui promozione, è di sicuro ciò che ha portato alla nascita delle CDI[54]. Il principio della fiducia implica il riconoscimento e l’accettazione di costruzioni abusive in assenza di disposizioni esplicite nelle CDI. Gli Stati possono tollerare una certa massa di abusi con l’intento di perseguire altri obiettivi, che da un punto di vista politico possono anche essere superiori alla generazione di gettito fiscale. Ogni CDI è il risultato di differenti sensibilità e necessità. La prevenzione di abusi non può essere dichiarata come un obiettivo intrinseco (non scritto) delle CDI. L’OCSE, sempre con il commentario 2003 e senza spiegazioni particolari a giustificazione della scelta, propugna l’applicazione della concezione cumulativa[55]. La dottrina al riguardo è divisa, ma esiste una buona e solida corrente che, basandosi sui concetti fondamentali della CV, respinge con fermezza l’applicazione della concezione cumulativa[56]. In effetti, l’applicazione concorrente della riserva generale antiabuso priva la clausola specifica di ogni contenuto reale, rivelandosi incompatibile con l’articolo 31 capoverso 1 CV [57]. Ad ogni modo, l’applicazione della dottrina dell’OCSE a una CDI risalente al 1979, come quella sottoscritta fra la Svizzera e l’Italia, è certamente priva di ogni fondamento giuridico valido. 5. Applicazione alla CDI-I: l’Italia ha commesso un treaty override? 5.1. Scopo e senso della CDI-I Il preambolo alla CDI-I contiene oltre al rimando alla volontà di evitare le doppie imposizioni[58] anche l’esplicita scrittura della volontà di combattere nel modo più rigoroso possibile l’evasione e la frode fiscale attraverso l’applicazione di misure previste dalla legislazione interna[59]. Anche la necessità di impedire l’uso senza causa legittima della CDI-I è stata espres- 23 24 Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 samente iscritta nel preambolo della stessa[60]. Sembrerebbe allora a prima vista, secondo una lettura grammaticale del testo della CDI-I, che le condizioni poste nella parte teorica per l’applicazione di misure antiabuso domestiche, anche posteriori alla conclusione di una CDI, siano adempiute. In realtà le cose non stanno proprio così. Diversi elementi lasciano supporre con un elevato grado di certezza che la reale intenzione delle parti fosse diversa. Nel messaggio del Consiglio federale all’Assemblea federale concernente la ratifica della CDI-I, viene infatti inequivocabilmente dato un contenuto a questi rimandi alla legislazione interna antiabuso e alla riserva antiabuso generale[61]. Nel messaggio viene inizialmente fatto un rimando diretto al Modello di Convenzione OCSE del 1977, riconoscendo comunque uno scollamento rispetto a tale Modello nel titolo, nel preambolo e nel rimando alle norme antiabuso domestiche. Viene, però, espressamente negata un'eccezionalità per la riserva antiabuso generale, da riferirsi chiaramente al Decreto del Consiglio federale (di seguito DCF) del 1962, in vigore a quei tempi anche con la Francia, la Germania e il Belgio. Ancora più determinante e chiaro, invece, si presenta il commentario alla CDI-I di Menétrey, aggiunto scientifico dell’Amministrazione federale delle contribuzioni e inserito nel più diffuso commentario sull’Imposta federale diretta dell’epoca, dunque ad una data, il 1985, non troppo distante dall’entrata in vigore della CDI-I. In questo commentario, come nel messaggio al Consiglio federale, viene riconosciuta la formulazione particolare del testo rispetto al Modello di Convenzione OCSE, ma con l’attribuzione di un carattere puramente dichiaratorio senza implicare un impegno particolare da parte degli Stati contraenti rispetto al rimando alle norme antiabuso domestiche[62]. Inoltre, un’interpretazione secondo la buona fede seguendo il senso ordinario da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto, non può esimersi dal ricordare come il commentario OCSE del 1977 pone la lotta all’evasione e alla frode fiscale nei semplici termini di una generica astensione al loro sostegno. Scopo e obiettivo delle CDI rimane, nel 1977, l’eliminazione delle doppie imposizioni. Si ricordi anche che la Svizzera, ieri come oggi in totale continuità, ha validamente espresso la propria opinione con riserva esplicita, in cui ritiene non corretto ritenere la lotta all’evasione e alla frode fiscale come un obiettivo perseguibile dalle CDI. Infine, se l'interpretazione ai sensi della CV da dare al preambolo della CDI-I fosse quella di una Convenzione in cui uno degli obiettivi primari è la lotta all'evasione fiscale e in cui viene espressamente riservato il diritto antiabuso interno, allora l’Italia sarebbe stato l’unico Paese al mondo, e questo almeno per circa i due decenni successivi, a potersi privilegiare di questi elementi convenzionali. Non esistono però veri elementi indicativi, oltre alla menzione grammaticale, che supportano tale tesi. Sulla base di tutti gli elementi presentati, è molto più plausibile pensare che i rimandi contenuti nel preambolo della CDI-I siano stati fatti in riferimento al DCF del 1962, una norma comunque importante utilizzata dalla Svizzera in favore dei propri partner convenzionali al fine di combattere fenomeni di treaty shopping e di rule shopping. Si noti, inoltre, come il risultato di questa interpretazione è in perfetta conformità con quanto risulta dall’analisi dell’articolo 23 CDI-I. 5.2. Rapporto fra misure antiabuso interne e convenzionali. L’articolo 23 CDI-I costituisce in tutta evidenza una clausola antiabuso convenzionale Secondo il paragrafo 1 dell'articolo 23 CDI-I, una persona giuridica residente in uno Stato contraente, nella quale persone non residenti di detto Stato hanno un interesse preponderante, sia direttamente sia indirettamente, in forma di partecipazione o in altro modo, non possono per questa ragione usufruire di uno sgravio delle imposte dell'altro Stato riscosse sui dividendi, gli interessi e i canoni provenienti da detto altro Stato. Anche in questo caso vengono riservati i provvedimenti più ampi che sono stati o saranno presi da uno Stato contraente per impedire che venga preteso abusivamente lo sgravio di un'imposta riscossa alla fonte dell'altro Stato. Inoltre, sussidiariamente, ai sensi del paragrafo 2, una persona giuridica residente della Svizzera, nella quale persone non residenti della Svizzera hanno un interesse preponderante, sia direttamente sia indirettamente, in forma di partecipazione o in altro modo, può pretendere, anche se soddisfa le condizioni di cui al paragrafo 1, uno sgravio delle imposte riscosse dall'Italia sugli interessi o canoni che le sono pagati in provenienza dall'Italia, solo se, nel Cantone dove la persona giuridica ha la sede, gli interessi o i canoni sono assoggettati all'imposta cantonale sul reddito a condizioni identiche o analoghe a quelle previste dalle disposizioni concernenti l'imposta federale diretta. Anche in questo caso, anche se limitatamente alla riscossione di un’imposta alla fonte su dividendi, interessi e canoni di licenza, rispettivamente per canoni e interessi in presenza di tassazioni privilegiate elvetiche, siamo di fronte a un rimando a misure antiabuso domestiche supplementari. Questo rimando implica di conseguenza un’adozione dinamica successiva alla conclusione della CDI-I di qualsiasi normativa domestica supplementare? La risposta è ancora una volta negativa. Il messaggio del Consiglio federale concernente la CDI-I è lapidario. La disposizione antiabuso convenzionale è identica a quella che figura nella CDI dell’epoca sottoscritta con la Francia[63]. Ora, nell’articolo 14 della CDI con la Francia del 1967, prima della sua rinegoziazione nel novembre 2010, il riferimento è chiarissimo al DCF del 1962, in quanto ne riprende sostanzialmente la formulazione domestica. Non può essere un caso. Si noti, ad abundantiam, come nel 2001, la Corte di Appello di Parigi ha giudicato le norme CFC francesi incompatibili con l’articolo 14 della CDI conclusa tra Svizzera e francia nel 1967[64]. Rammentando allora le riserve svizzere al commentario OCSE del 1977, la costante prassi elvetica in materia di rapporto fra norme antiabuso domestiche e convenzionali, l’obiettivo e scopo delle CDI ai sensi del commentario OCSE del 1977, i principi di interpretazione della CV, è molto plausibile pensare che il rimando contenuto nell’articolo 23 CDI-I a norme antiabuso interne sia stato fatto con esclusivo riferimento al DCF del 1962 e che, in ogni caso, viste le condizioni vigenti all’epo- Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 ca, è impossibile che con tale testo la Svizzera abbia firmato una sostanziale cambiale in bianco per l’introduzione e l’applicazione di misure antiabuso domestiche future in campi che vadano al di là di quanto già normato nell’articolo 23 CDI-I. 5.3. Il treaty override italiano realizzato attraverso misure antiabuso interne inserite a posteriori Come già enunciato, l'Italia, a partire dalla fine degli anni '90, ha introdotto nel proprio ordinamento domestico una serie di misure antiabuso contro i cosiddetti "paradisi fiscali". Ai fini di tali norme, la Svizzera è stata equiparata, o come intero Paese o con riferimento solo ad alcuni tipi di società a tassazione privilegiata, a paradisi fiscali classici come le Bahamas, le Bermuda e le Isole Cayman, con tutte le conseguenze connesse a tale qualifica. La presenza di un Paese estero in una delle blacklist italiane non comporta solo delle forti penalizzazioni fiscali per i soggetti residenti in Italia che effettuano investimenti nei Paesi black-list, ma anche la negazione, ai residenti di detti Paesi, di certi benefici fiscali previsti in Italia. Il sistema italiano prevede delle white-list e delle black-list[65]. Nelle white-list figurano Stati con tassazione ordinaria e con un adeguato scambio di informazioni. Ai sensi del Decreto ministeriale (di seguito D.M.) del 4 settembre 1996, aggiornato con il D.M. del 27 luglio 2010 con l'inserimento di Cipro e Lettonia, i residenti di tali Paesi possono beneficiare in Italia dell'esenzione dalla ritenuta alla fonte sugli interessi delle obbligazioni pubbliche, delle obbligazioni emesse da banche o da società quotate in borsa. Esistono poi tre black-list. Nella prima, introdotta con D.M. del 4 maggio 1999, la Svizzera figura come Stato nella sua intera dimensione territoriale. Nella seconda, introdotta con D.M. del 21 novembre 2001, la Svizzera vi figura limitatamente a certe società con determinate caratteristiche fiscali. Nella terza, introdotta con D.M. del 23 gennaio 2002, la Svizzera vi figura limitatamente a certe società con determinate caratteristiche. Inoltre, alcune misure restrittive fanno riferimento ad un solo tipo di black-list, mentre altre misure più recenti si riferiscono contemporaneamente sia alla black-list del 1999, sia a quella del 2001. Analizziamo allora queste norme antiabuso tentando di capire se l’Italia abbia commesso, o meno, un treaty override in relazione alla CDI-I. 5.3.1. La black-list di cui al D.M. del 4 maggio 1999 La Svizzera figura in questa black-list come intero Stato, accanto a classici paradisi fiscali. Lo scopo originario di questa lista concerne il trasferimento di residenza. Se una persona fisica residente in Italia (e cittadino italiano) trasferisce la sua residenza in uno di tali Paesi, essa continua ad essere considerata fiscalmente residente in Italia (salvo prova contraria). La presunzione relativa può essere vinta dal contribuente se dimostra che ha effettivamente trasferito la residenza all'estero. Di conseguenza, il trasferimento della residenza di un residente in Italia in qualsiasi Cantone della Svizzera, a prescindere dal sistema di tassazione adottato, ordinario o sul dispendio, non fa venire meno automaticamente la residenza fiscale in Italia. Ora, considerato come questo aspetto sia oggetto dell’articolo 4 CDI-I, in cui la questione è gia stata regolata con la negazione del trasferimento in caso di tassazione sul dispendio, un aggravamento delle condizioni materiali necessarie per il trasferimento della residenza in Svizzera, ossia l’inclusione anche del regime di tassazione ordinario con l’inversione dell’onere della prova, è in chiaro contrasto con la norma convenzionale. 5.3.2. La black-list di cui al D.M. del 21 novembre 2001 La Svizzera figura in questa black-list con riferimento alle società a tassazione privilegiata. Nella norma, secondo la Risoluzione n. 18/E del 2002 dell'Agenzia delle Entrate, sono incluse anche società o stabili organizzazioni localizzate in Svizzera che, pur astrattamente soggette ad imposta municipale e/o cantonale, di fatto beneficiano, per effetto di accordi amministrativi, di trattamenti fiscali particolari sostanzialmente analoghi all'esenzione dalle predette imposte. Lo scopo originario di questa lista concerne il regime CFC. Per partecipazioni di controllo o anche solo di collegamento, sia diretto che indiretto, si applica l'imputazione del reddito della società estera in capo al socio residente in Italia, indipendentemente dalla distribuzione del dividendo. Quale esimente per la non applicazione della norma vale, in caso di interpello preventivo, la dimostrazione di svolgere un'effettiva attività industriale o commerciale nello Stato della sede societaria, rispettivamente la dimostrazione che dalla partecipazione non consegue l'effetto di localizzare i redditi in Stati o territori a fiscalità privilegiata. L'esimente dell'attività industriale o commerciale è stata recentemente inasprita dal Decreto Legge (di seguito D.L.) n. 78/2009 in vigore ai fini delle norme CFC dal 2010. Per effetto delle modifiche apportate da detto D.L., l’esercizio dell’attività di impresa deve radicarsi nel mercato dello Stato in cui ha sede la società e non più semplicemente nello Stato di insediamento. In particolare, il requisito dell'attività nel mercato per le attività bancarie e finanziarie è soddisfatto solo se la maggior parte delle fonti, degli impieghi o dei ricavi originano nello Stato o territorio di insediamento. Per ben intenderci, una banca svizzera con clientela prevalente estera, seppur sia chiaro che svolga un’attività commerciale con personale e struttura propria, non potrebbe prevalersi dell’esimente sulle CFC. Per le altre società, inoltre, l'esimente non vale se la società estera ha conseguito proventi per più del 50% qualificabili come passive income. Per società svizzere indicate nella black-list del 21 novembre 2001 che svolgono attività di prestazioni di servizi a società del gruppo, il reddito di tale società viene comunque imputato al socio controllante italiano. Inoltre, il D.L. n. 78/2009 ha esteso l’applicabilità delle norme CFC anche alle società non residenti o localizzate in Stati o territori black-list, qualora la società estera sia soggetta ad una tassazione inferiore al 50% di quella che sconterebbe in Italia e la società estera abbia conseguito proventi per più del 50% qualificabili come passive income. In questo caso, tuttavia, non si applica il regime CFC se il soggetto partecipante dimostra che l'insediamento estero non rappresenta una costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale. 25 26 Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 Nei confronti della Svizzera si applicano entrambi i regimi CFC. Ora, da un punto di vista convenzionale, la materia è già coperta dall'articolo 23 CDI-I in qualità di norma antiabuso. Appare inoltre chiara anche la violazione del divieto di discriminazione ai sensi dell’articolo 25 CDI-I. ciale, oppure che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico. Anche se le operazioni sono state poste in essere con soggetti del tutto terzi e alle condizioni di mercato, detti importi devono comunque essere evidenziati separatamente nella dichiarazione dei redditi. Ancora in questo caso, la materia è già coperta dall'articolo 23 CDI-I in qualità di norma antiabuso convenzionale. Si ravvisa inoltre la violazione del divieto di discriminazione ai sensi dell'articolo 25 CDI-I. 5.3.5. La black-list del D.M. del 4 maggio 1999 e del D.M. del 21 novembre 2001 Originariamente ognuna delle due black-list aveva un proprio scopo. Con il D.L. n. 78/2009 e il D.L. n. 40/2010 si fa riferimento a entrambe le liste nere. Ciò significa che le novità introdotte riguardano la Svizzera nella sua interezza territoriale. 5.3.3. Regime impositivo dei dividendi in Italia post 2003 Dopo la riforma fiscale del 2003, i dividendi e le plusvalenze su partecipazioni estere hanno in Italia lo stesso trattamento fiscale dei dividendi e delle plusvalenze interne. Esenzione del 95% in capo a società di capitali residenti, esenzione del 50,28% in capo a società di persone, a persone fisiche imprenditori e a persone fisiche con partecipazioni qualificate (partecipazione superiore al 25% del capitale sociale o al 20% dei diritti di voto); tassazione del 20% in capo a persone fisiche non imprenditori con partecipazioni non qualificate. Per contro, per i dividendi e le plusvalenze su partecipazioni in società residenti in Stati black-list valgono le seguenti condizioni. In caso di applicazione del regime CFC, il reddito è escluso dalla tassazione fino a concorrenza del reddito imputato. Se per contro il regime CFC non è applicabile, perché la partecipazione non raggiunge il 20% oppure quando l'imputazione viene esclusa dall'esimente dell'attività industriale o commerciale, il reddito è integralmente tassabile in Italia, sia in capo a persone fisiche che in capo a società di capitali. Tale misura potrebbe essere in contrasto con il divieto di discriminazione ai sensi dell'articolo 25 CDI-I. 5.3.4. La black-list di cui al D.M. del 23 gennaio 2002 La Svizzera figura in questa black-list unicamente con riferimento alle società a tassazione privilegiata. Lo scopo originario di questa lista, la prima volta introdotta già con un D.M. del 1992, poi aggiornata con il D.M. del 23 gennaio 2002, era quello di individuare i Paesi nei confronti dei quali vale una disciplina sulla indeducibilità dei costi derivanti da operazioni realizzate tra imprese residenti in Italia e imprese domiciliate fiscalmente in Paesi a fiscalità privilegiata non appartenenti all'Unione europea. In questo senso, qualsiasi tipo di costo che un'impresa italiana sostiene per l'acquisto di beni e servizi da società svizzere a tassazione privilegiata viene considerato indeducibile dalla legge fiscale italiana, salvo dimostrazione che la società svizzera svolga in via prevalente un'attività commer- Il D.L. n. 78/2009 ha introdotto una presunzione relativa, secondo cui gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenute negli Stati, di cui alle due liste, da persone fisiche residenti in Italia, in violazione degli obblighi di monitoraggio fiscale, sono stati costituiti mediante redditi sottratti a tassazione. In pratica, se l'Amministrazione accerta che il contribuente non ha indicato nel modulo RW dei redditi da attività detenute in Svizzera, si presume che l'intero capitale non dichiarato sia costituito da redditi sottratti a tassazione in Italia. Con il D.L. n. 40/2010 è stato inoltre introdotto l'obbligo per tutti i soggetti IVA italiani di comunicare in via telematica all'Agenzia delle Entrate le cessioni di beni e le prestazioni di servizi, effettuati o ricevuti, con operatori economici residenti in Paesi con regime fiscale privilegiato di cui alle due liste predette, per le operazioni effettuate dal 1. luglio 2010. La prima misura, potrebbe essere in violazione con l'articolo 24 CDI-I (per assenza del credito per le imposte pagate all'estero). 5.4. Conclusione sulle misure antiabuso interne italiane In conclusione, appare chiaro, sulla base dell’applicazione dei principi teorici sviluppati alle norme antiabuso che l'Italia ha introdotto nella propria legislazione interna dopo la conclusione della CDI-I, come sia stato commesso in diverse occasioni un treaty override in palese violazione della CDI-I. Occorre allora porsi un’ulteriore domanda: una volta determinata una violazione convenzionale, quali sono le conseguenze a livello di diritto internazionale pubblico? 6. La responsabilità internazionale degli Stati e contromisure La responsabilità internazionale è l'istituto secondo il quale un soggetto di diritto internazionale è chiamato a rispondere della violazione di un obbligo di diritto internazionale verso un altro soggetto di diritto internazionale. Il diritto sulla responsabilità internazionale degli Stati è di origine largamente consuetudinaria, anche a carattere imperativo (ius cogens). A tal Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 riguardo risultano fondamentali sia la CV, sia i lavori della International Law Commission (di seguito ILC) che ha portato, dopo 40 anni di lavori, a un progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati per fatti internazionali illeciti che sono stati adottati dalle Nazioni Unite nel 2001 sotto forma di risoluzione[66]. Anche se non vincolante, questa risoluzione serve oggi da filo conduttore per l'applicazione del diritto nell'ambito della responsabilità internazionale. 6.1. La responsabilità internazionale degli Stati secondo la CV La CV è esplicita nella sua terza sezione sull'estinzione dei trattati e sulla sospensione della loro applicazione. All’articolo 60 capoverso 1 CV, una sostanziale violazione di un trattato bilaterale da parte di una delle parti autorizza l'altra parte a invocare la violazione come motivo per porre termine al trattato o sospenderne completamente o parzialmente l'applicazione. Per violazione sostanziale si intende, ai sensi del capoverso 2 lettera a, o un rifiuto del trattato che non sia autorizzato dalla CV stessa, o, ai sensi del capoverso 2 lettera b, la violazione di una disposizione essenziale per la realizzazione dell'oggetto o dello scopo del trattato. Circostanze esimenti vengono identificate nella sopravvenienza di una situazione che renda impossibile l'esecuzione ai sensi dell’articolo 61 CV, nel mutamento fondamentale delle circostanze ex articolo 62 CV e nella sopravvenienza di una nuova norma imperativa di diritto internazionale generale (ius cogens) conformemente all’articolo 64 CV. La CV definisce inoltre anche la procedura da seguire in caso di violazione del diritto internazionale. Secondo l’articolo 65 CV, la procedura da seguire per la nullità di un trattato, la sua estinzione, il ritiro di una parte o la sospensione dell'applicazione di una convenzione, comporta la notifica della propria pretesa alle altre parti. La notifica deve indicare il provvedimento previsto nei confronti del trattato e le ragioni che l'hanno determinato. Se dopo un periodo di tempo che, salvo casi di particolare urgenza, non deve essere inferiore a tre mesi dal ricevimento della notifica, la controparte non solleva obiezioni, la parte che ha fatto la notifica può adottare nelle forme previste dall'articolo 67 CV il provvedimento che ha deciso di adottare. Qualora tuttavia l'altra parte avesse sollevato un’obiezione, le parti dovranno cercare una soluzione facendo uso dei mezzi indicati nell'articolo 33 della Carta delle Nazioni Unite. Se, ai sensi dell’articolo 66 CV, nei dodici mesi successivi alla data in cui è stata sollevata l'obiezione, non sarà stato possibile giungere ad una soluzione in base al paragrafo 3 dell'articolo 65 CV, verranno applicate le seguenti procedure. Ogni parte di una controversia che riguardi l'applicazione o l'interpretazione degli articoli 53 o 64 CV può, qualora ne faccia richiesta, sottoporre la controversia alla decisione della Corte internazionale di giustizia, a meno che le parti non decidano di comune accordo di sottoporre la controversia ad arbitrato. Ogni parte di una controversia relativa all'applicazione o all'interpretazione di uno qualsiasi degli altri articoli della parte V della CV può porre in atto la procedura indicata nell'allegato della CV inviando, a tale scopo, una richiesta al Segretario generale delle Nazioni Unite. Secondo l’articolo 67 CV, gli strumenti aventi lo scopo di dichiarare la nullità di un trattato, di porvi termine, di effettuarne il ritiro o di sospenderne l'applicazione sono relativamente semplici. La notifica prevista al paragrafo 1 dell'articolo 65 CV deve essere fatta per iscritto, mentre qualsiasi atto che dichiari la nullità di un trattato, vi ponga termine o attui il ritiro o la sospensione dell'applicazione di un trattato in base alle disposizioni dei paragrafi 2 e 3 dell'articolo 65 CV, deve essere redatto in uno strumento comunicato alle altre parti. Se lo strumento non è firmato dal Capo dello Stato, dal Capo del Governo o dal Ministro degli affari esteri, il rappresentante dello Stato che fa la comunicazione può essere invitato ad esibire i suoi pieni poteri. 6.2. Acquiescence ed Estoppel Un ulteriore aspetto di rilievo, evidenziato e studiato dalla dottrina, riguarda i concetti di acquiescence ed estoppel. Secondo il principio di buona fede e del principio di fiducia, non può esistere una responsabilità se uno Stato contraente ha tollerato per lungo tempo una situazione di fatto, anche se di per sé illegale. Una tolleranza prolungata viene a tutti gli effetti parificata ad un’accettazione implicita dello stato di fatto oggetto di discussione e che potrebbe altrimenti condurre alla responsabilità internazionale dello Stato che tale comportamento ha posto in essere. 6.3. La responsabilità internazionale degli Stati secondo la ILC Il progetto di articolato sulla responsabilità internazionale degli Stati, preparato dalla Commissione del diritto internazionale e oggetto di formale risoluzione nel 2001 da parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, conferma e fortifica quanto già espresso nella CV, apportando alcune specifiche di dettaglio all’idea generale di responsabilità dello Stato. In linea generale, ogni atto internazionalmente illecito da parte di uno Stato comporta la sua responsabilità internazionale[67]. Un atto internazionalmente illecito consiste in un’azione o in un’omissione che può essere attribuito a uno Stato[68] , in aperta violazione di un obbligo internazionale, qualunque ne sia la fonte o la natura[69]. Conformemente al principio del pacta sunt servanda, il diritto interno di un Paese non ha alcuna influenza sulla qualifica di illiceità internazionale[70]. Anche per la ILC esistono circostanze che escludono l’illiceità internazionale, riconducibili al consenso, alla legittima difesa, alla presa di contromisure, alla forza maggiore, all’estremo pericolo, allo stato di necessità e al rispetto di norme imperative[71]. Si noti come la presa di contromisure, ovviamente nel rispetto del diritto internazionale, esclude la responsabilità internazionale dello Stato che ha adottato tali contromisure. Gli altri elementi esimenti risultano dall’applicazione a fatti internazionali di principi di buon senso comune. Appare abbastanza ovvio evitare la responsabilità internazionale nel caso in cui due Stati siano in realtà d’accordo, oppure nel caso in cui uno dei due Stati contraenti abbia firmato un obbligo sotto minaccia. Per quel che concerne il contenuto della responsabilità internazionale, l’ILC è più precisa rispetto alla CV. Stabilita una responsabilità internazionale, si prevede come prima misura la cessazione e la non ripetizione dell’azione o l’omissione che ha 27 28 Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 portato alla responsabilità internazionale[72]. Inoltre, lo Stato responsabile ha l’obbligo di riparare integralmente il pregiudizio causato dall’atto o l’omissione internazionalmente illecito[73]. Il pregiudizio comprende ogni danno, sia materiale che morale, causato all’altro Stato. Per quanto attiene agli aspetti procedimentali, la disciplina elaborata dall’ILC non diverge di molto rispetto a quanto indicato dalla CV. Difatti, uno Stato leso che invoca la responsabilità internazionale di un altro Stato deve dare comunicazione della sua domanda a tale Stato[74]. Lo Stato leso può in particolare precisare il comportamento che lo Stato responsabile dovrebbe tenere per porre fine all’illecito, e se tale comportamento non viene messo in atto, la forma che la riparazione dovrebbe assumere. Nella maggioranza dei casi, la comunicazione avviene per via consolare. Al fine di indurre lo Stato internazionalmente responsabile di un atto illecito a conformarsi ai propri obblighi, lo Stato leso può adottare delle contromisure[75]. Queste contromisure adottate dovrebbero permettere la ripresa degli adempimenti degli obblighi internazionali e dovrebbero essere commisurate al pregiudizio subìto, tenendo conto della gravità dell’atto illecito e dei diritti in gioco[76]. Considerando come sia la responsabilità internazionale, sia l’adozione di contromisure, siano atti gravi, si prevede la necessità, prima di prendere contromisure, di comunicare allo Stato responsabile ogni decisione di ricorrere a contromisure e offrirsi di negoziare con tale Stato[77]. In casi urgenti, lo Stato offeso può prendere le contromisure immediate necessarie a preservare i propri diritti. efficacia giuridica pratica[80]. Per questo motivo, la controversia dottrinale sul fatto che un treaty override costituisca o meno una sostanziale violazione di un trattato bilaterale[81] va certamente risolta in favore della prima ipotesi. D’altronde, un numero sempre maggiore di contributi dottrinali afferma con estrema chiarezza la violazione del diritto pubblico internazionale da parte di pratiche di treaty overriding[82]. Nell’ambito delle relazioni fiscali bilaterali fra la Svizzera e l’Italia, è stato appurato come quest’ultima abbia violato volontariamente e costantemente a partire dalla fine degli anni ’90, in numerosissime occasioni, la CDI-I. Non vi è ombra di dubbio alcuno, anche se ci si riferisce unicamente alla dottrina dell’OCSE sulle conseguenze di un treaty override consistente in un giudizio caso per caso, che l’Italia abbia violato in modo sostanziale la CDI-I. Appare altrettanto evidente, che le normative esimenti sulla responsabilità internazionale degli Stati non siano applicabili. Non esiste alcuna forza maggiore che possa giustificare l’adozione di tali e tante misure antiabuso domestiche nei confronti della Svizzera[83]. Anche in relazione all’estoppel, la Svizzera ha sin dall’adozione delle prime misure antiabuso italiane tempestivamente comunicato alla controparte, in ambito di relazioni tecniche, la possibile violazione della CDI-I. Infine, in relazione alla proporzionalità del blocco dei ristorni dell'imposta alla fonte sui redditi dei frontalieri, considerato il valore complessivo (nel 2013) delle importazioni in Svizzera dall'Italia, pari a circa 18.8 miliardi di franchi, e delle esportazioni dalla Svizzera in Italia, pari a circa 15 miliardi di franchi, è plausibile pensare che una contromisura che blocca un importo di circa 28.4 milioni di franchi rispetti il criterio di proporzionalità. 7. Il Cantone Ticino come soggetto di diritto pubblico internazionale L’ultima domanda da porsi, prima di dare una risposta definitiva al quesito iniziale, concerne la soggettività giuridica del Canton Ticino ai sensi del diritto pubblico internazionale. Più in particolare, occorre chiedersi se il Canton Ticino può autonomamente bloccare il ristorno dell'imposta alla fonte sui redditi dei frontalieri di fronte a una CDI sottoscritta da Berna. 6.4. Applicazione alla CDI-I Ad oggi, non sono conosciuti casi di applicazione concreta della responsabilità internazionale susseguenti ad un tax treaty override[78]. Tale situazione è certamente da ricondurre agli enormi interessi economici in gioco[79]. Ciò nonostante, da un punto di vista giuridico, le conseguenze di un treaty override non possono essere alterate da logiche economiche e dalla mancanza di adeguati mezzi giuridici atti a contrastare, parole dell’OCSE stessa, pratiche che mettono in serio pericolo la credibilità internazionale delle CDI. Infatti, la semplice notifica ai sensi dell’articolo 60 CV dell’avvenuto treaty override, senza susseguente adozione di contromisure, risulta un semplice esercizio dichiaratorio, un appello alla buona volontà dell’altro Stato contraente, senza alcuna reale forza di penetrazione e A livello di diritto pubblico internazionale, esiste una lunga tradizione di Stati federativi o confederativi. L'autonomia più o meno grande data a regioni facenti parte di detti Stati è un problema di principio costituzionale interno, a cui il diritto internazionale pubblico non si oppone. Anzi, in alcuni casi esso fa addirittura esplicito riferimento a costruzioni federative o confederative. La nuova Costituzione Svizzera del 1999 conferma e rinforza la secolare tradizione elvetica di attribuire ai Cantoni una sovranità originaria e di attribuirne la facoltà di non solo collaborare alle decisioni di politica estera, ma addirittura di partecipare ai negoziati internazionali ai sensi dell'articolo 55 Cost. Questo è già successo in passato, difatti il Canton Ticino ha partecipato ai negoziati per la conclusione della CDI-I e in questo ambito è stato espressamente attribuito al Canton Ticino il ruolo di agente pagatore. Pertanto, il suo ruolo come soggetto giuridico internazionale è riconosciuto sin dal momento delle contrattazioni che hanno portato alla stesura e Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 alla ratifica della CDI-I nel 1979. Di conseguenza, attraverso la mediazione di Berna, il Canton Ticino può venir ritenuto come un soggetto giuridico di diritto internazionale pubblico e in qualità di agente pagatore esplicito, il Canton Ticino può autonomamente decidere le sorti del ristorno, o meno, dell’imposta alla fonte prelevata ai frontalieri ai sensi dell’Accordo sulla fiscalità dei frontalieri inerente alla CDI-I. 8. Il blocco dei ristorni dell'imposta alla fonte sui redditi dei frontalieri è veramente illegale? La Svizzera non ha mai comunicato per via consolare ufficiale all’Italia la propria opposizione all’adozione da parte italiana di misure antiabuso domestiche posteriori alla ratifica della CDI-I, né ha mai comunicato la violazione convenzionale di tali misure e neppure la volontà di prendere contromisure adeguate conformemente alla responsabilità internazionale degli Stati. Elenco delle fonti fotografiche: http://banche-svizzere.com/wp-content/uploads/2013/02/Banche-Svizzere-in-Italia.jpg [26.05.2014] http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/c/cf/UN_meeting_ on_environment_at_General_Assembly.jpg [26.05.2014] http://www.lastampa.it/rf/image_lowres/Pub/p3/2014/01/31/Verbania/Foto/RitagliWeb/2014-01-30T135918Z_1593161442_BM2EA 1U156Y01_ RTRM ADP_3_ ITALY-SWIT ZERL AND -TA X-459 -k8 [email protected] [26.05.2014] http://3.bp.blogspot.com/-KTYXyki7d_Y/UD2sABNTlaI/AAAAAAAAARs/ PzkPFCFdvVo/s1600/acordo.jpg [26.05.2014] http://ak5.picdn.net/shutterstock/videos/135685/preview/stock-footage-un-flag-with-real-structure-of-a-fabric.jpg [26.05.2014] http://1.bp.blogspot.com/-3jTTlNdQTFo/UAVEckgdziI/AAAAAAAACLI/ sVve-lceSnE/s1600/Palazzo-della-Pace.jpg [26.05.2014] Pertanto, da un punto di vista formale, non sono adempiute le condizioni richieste sia dalla CV che dalla ILC per procedere all’adozione di contromisure e, in questo senso, il blocco del ristorno dell’imposta alla fonte attuato dal Canton Ticino nel 2011 è illegale. Ciò non di meno, da un punto di vista materiale, il blocco, come possibile contromisura da adottare contro il treaty override italiano, appare perfettamente in linea con le condizioni e i parametri dettati dal diritto pubblico internazionale. [1] Si veda il lavoro pionieristico di Metzger Dieter, “Pacta sunt servanda” - A level playing field for international fiscal law, ASA 61, pagine 215 e seguenti. [2] Accordo tra la Svizzera e l’Italia relativo all’imposizione dei lavoratori frontalieri ed alla compensazione finanziaria a favore dei Comuni italiani di confine, RS 0.642.045.43. [3] Convenzione fra la Confederazione Svizzera e la Repubblica Italiana per evitare le doppie imposizioni e per regolare talune altre questioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio, RS 0.672.945.41. [4] Articolo 6 Accordo sui frontalieri. [5] Articolo 1 Accordo sui frontalieri. [6] Articolo 2 Accordo sui frontalieri. [7] Accordo di Roma e Lugano del luglio 1985. Si veda Bernasconi Marco, L’Accordo tra la Svizzera e l’Italia relativo all’imposizione dei frontalieri e alla compensazione finanziaria a favore dei comuni italiani di confine del 3 ottobre 1974, RDAT II/1990, pagine 24 e seguenti. [8] Articoli 3 e 4 Accordo sui frontalieri. [9] Articolo 4 Accordo sui frontalieri. [10] Articolo 5 Accordo sui frontalieri. [11] Bernasconi Marco, op. cit., pagina 16. [12] Schubiger Patrick, Treaty Override und Gegenmassnahmen im Rahmen von Doppelbesteuerungsabkommen, Masterarbeit SIST MAS Taxation 2010-2012, pagina 5. [13] Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, RS 0.111. [14] Bracco Pietro, Chapter 10: Italy, in: Maisto Guglielmo (a cura di), Tax Treaties and Domestic Law, Amsterdam 2006, pagina 5. [15] Per un'interessante disamina dei rapporti fra principio democratico e principio di legalità, nonché del principio di concordanza, in caso di treaty override da un punto di vista tedesco, si veda Rust Alexander, Die Hinzurechnunsbesteuerung, Monaco 2007, pagine 108 e seguenti. [16] Engelen Frank, Interpretation of Tax Treaties under International Law, Amsterdam 2004, pagina 131. [17] Ibidem, pagina 132. [18] Ibidem, pagina 135, “which requires that terms of a treaty must be interpreted according to the meaning which they possessed, or which would have been attributed to them, in the light of current linguistic usage, at the time when the treaty was originally concluded, is based of the principle of good faith, as well.” [19] Ibidem, pagina 139, “which requires that treaties are to be interpreted as a whole, and particular parts and chapters also as a whole.” [20] Ibidem, pagina 141, “treaties are to be interpreted primarily as they stand, and on the basis of their actual texts”. [21] Ibidem, pagina 173, “It should be noted that the ILC clearly rejected the teleological method of interpretation under which the object and purpose of a treaty should always be given effect, even if this would mean going beyond what is expressed or necessarily to be implied in the actual terms of the treaty”. [22] OCSE, Tax Treaty Override, Parigi 1989, nota 19, lettera a, e nota 20. [23] Il Tribunale federale, nella sentenza Danimarca (BGer 28.11.2005, A. Holding ApS, 2A.239/2005), ha utilizzato il commentario OCSE in modo dinamico, riprendendo elementi introdotti nello stesso dopo la conclusione della CDI in discussione. In maniera piuttosto isolata, il Tribunale federale ritiene di conseguenza esistente una clausola antiabuso non scritta in ogni CDI ratificata dalla Svizzera. Questa prassi interpretativa ha provocato una veemente reazione della dottrina svizzera, che ritiene (quasi all'unanimità) inammissibile un'interpretazione dinamica del commentario OCSE. Si veda Matteotti René, Die Verweigerung der Entlastung von der Verrechnungssteuer wegen Treaty Shoppings, in: ASA 75 (2006/07), pagina 792; De Broe Luc, International Tax Planning and Prevention of Abuse, Amsterdam 2008, pagine 332 e seguenti; Reich Markus/Waldburger Robert, Rechtsprechung im Jahr 2005 (1. Teil), FStR 2005, pagina 222. [24] Melis Giuseppe, Lezioni di diritto tributario, Torino 2013, pagina 198. [25] Lang Michael, Art. 3: Définitions générales, pagina 135, nota 55, in: Danon Robert/Gutmann Daniel/Oberson Xavier/Pistone Pasquale (a cura di), 29 30 Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 Modèle de Convention fiscale OCDE concernant le revenu et la fortune, Commentaire, Basilea 2014; Oesterhelt Stefan, Bedeutung des OECD-Kommentars für die Auslegung von Doppelbesteuerungsabkommen, in: ASA 80 (2011/12), pagina 373. [26] Lang Michael, op. cit., pagina 135, nota 56. [27] Vern Krishna/Borden Ladner Gervais, Treaty Shopping and the Concept of Beneficial Ownership in Double Tax Treaties, Canadian Current Tax, volume 19, numero 11, pagina 137. [28] De Broe Luc, op. cit., pagina 349, nota 123. [29] Ziegler Andreas, Introduction au droit international public, Berne 2006, pagina 89, nota 215. [30] Commentario OCSE 2008, articolo 1, cifra 27.9. [31] Ibidem. [32] Ibidem. [33] Commentario OCSE 1977. [34] Storchmeijer Sansonetti Alexandra, Art. 1: Personnes visées, pagina 24, nota 57, in: Danon Robert/Gutmann Daniel/Oberson Xavier/Pistone Pasquale (a cura di), Modèle de Convention fiscale OCDE concernant le revenu et la fortune, Commentaire, Basilea 2014. [35] OCSE, Thin capitalization, Parigi 1986. [36] OCSE, Double Taxation Conventions and the Use of Base Companies, Parigi 1986; OCSE, Double Taxation Conventions and the Use of Conduit Companies, Parigi 1986. [37] OCSE, Double Taxation Conventions and the Use of Base Companies, Parigi 1986, nota 39. [38] OCSE, Double Taxation Conventions and the Use of Base Companies, Parigi 1986, note 41 e 42. [39] OCSE, Double Taxation Conventions and the Use of Conduit Companies, Parigi 1986, nota 43. [40] OCSE, Tax Treaty Override, Parigi 1989. [41] Storchmeijer Sansonetti Alexandra, op. cit., pagina 24, nota 57. [42] Commentario OCSE 1992. [43] Commentario OCSE 1995. [44] OCSE, Harmful Tax Competition - An Emerging Global Issue, Parigi 1998. [45] OCSE, Restricting the Entitlement to Treaty Benefits, Parigi 2002. [46] Commentario OCSE 2003. [47] I paragrafi da 22 a 24 all'articolo 1 del commentario OCSE sono stati sostituiti con i paragrafi 22 e 23. Si noti comunque come la nuova referenza non viene riflessa né nel titolo né nel preambolo del Modello di Convenzione OCSE. Anche la prevenzione degli abusi è visibile solo in alcune disposizioni del commentario OCSE, in particolare all'articolo 7, paragrafo 2, all’articolo 9, paragrafo 1, agli articoli 10-12, all'articolo 13, paragrafo 4, all'articolo 17 e all'articolo 26. [48] Commentario OCSE 2008, articolo 1, cifra 27.9. [49] Commentario OCSE 2008, articolo 1, dalla cifra 21.5 alla cifra 26. [50] Storchmeijer Sansonetti Alexandra, op. cit., pagine 28-29, nota 79. [51] Commentario OCSE 2008, articolo 1, dalla cifra 27.4 alla cifra 27.9. [52] Jung Marcel, Abkommensmissbrauch im internationalen Steuerrecht der Schweiz, Berna 2011, pagina 46; Matteotti René, Der Durchgriff bei von Inländern beherrschten Auslandsgesellschaften im Gewinnsteuerrecht, Berna 2003, pagina 287 (citato: Gewinnsteuerrecht); De Broe Luc, op. cit., pagina 335. [53] Matteotti René, Gewinnsteuerrecht, pagina 298; De Broe Luc, op. cit., pagina 313, nota 88, pagina 315, nota 92. [54] Schubiger Patrick, I difficili rapporti fiscali tra Svizzera e Italia: alcuni retroscena interessanti, in: NF 4/2014, pagine 12-13. [55] Commentario OCSE 2008, articolo 1, cifra 9.6. [56] De Broe Luc/von Frenckell Eric, La notion de "bénéficiaire effectif" et la question d'abus de convention en matière de swaps sure rendement total (total return swaps), in: ASA 81 (2012/13), pagina 287. [57] Danon Robert, Art. 1: Personnes visées, pagina 56, nota 157, in: Danon Robert/Gutmann Daniel/Oberson Xavier/Pistone Pasquale (a cura di), Modèle de Convention fiscale OCDE concernant le revenu et la fortune, Commentaire, Basilea 2014. [58] CDI-I, Preambolo, prima parte della prima frase del primo paragrafo. [59] CDI-I, Preambolo, seconda parte del terzo paragrafo. [60] CDI-I, Preambolo, seconda parte del quinto paragrafo. [61] Messaggio del Consiglio federale all'Assemblea federale concernente una convenzione di doppia imposizione con l'Italia del 5 maggio 1976, Foglio federale II, 1976, pagina 665. [62] Menétrey Gérald, Commentario alla Covenzione di doppia imposizione fra l’Italia e la Svizzera, pagina 587, nota 2, in: Masshardt Heinz/ Tatti Quirino, Imposta Federale Diretta, Viganello 1985. [63] Messaggio del Consiglio federale all'Assemblea federale concernente una convenzione di doppia imposizione con l'Italia del 5 maggio 1976, Foglio federale II, 1976, pagina 672. [64] Ammon Toni/Bouzoraa Dali, Zweitinstanzliches Urteil zur Anwendbarkeit der französischen CFC-Regelung im Verhältnis zur Schweiz, ASA 70 (2001/02). [65] Mayr Siegfried, Die gewinnsteuerlichen Beziehungen zwischen Italien und der Schweiz, FStR 2010, pagine 132 e seguenti. Tutte le misure antiabuso descritte di seguito sono state riprese da questo articolo specialistico. [66] Draft Articles on Responsibility of States for Internationally Wrongful Acts, Report of the International Law Commission, Official Records of the General Assembly, 56th Session, Supplement N. 10 2004 (di seguito ILC-Draft). [67] ILC-Draft, Parte I, Capitolo I - Principi generali, articolo 1. [68] Ibidem, articolo 2. [69] Ibidem, articolo 12. [70] Ibidem, articolo 3. [71] Ibidem, articoli 20-26. [72] ILC-Draft, Parte II, Capitolo I, articolo 30. [73] Ibidem, articolo 31. [74] ILC-Draft, Parte III, Capitolo I, articolo 43. [75] Ibidem, articolo 49. [76] Ibidem, articolo 51. [77] Ibidem, articolo 52. [78] Gani Raphael, La clause de limitation des bénéfices dans la convention de double imposition entre la Suisse et les Etats-Unis, Berna 2008, pagina 238. [79] La minaccia di disdetta della CDI fra gli Stati Uniti e le Antille Olandesi ha comportato un peggioramento delle condizioni creditizie sul mercato di capitali internazionali per le aziende americane. Il pericolo, nel 1998, di sospendere parte della CDI fra le Isole Mauritius e l’India, ha portato la borsa indiana a incassare notevoli perdite nel giro di quarantotto ore. La Gran Bretagna, insieme ad altre Nazioni, ha minacciato gli Stati Uniti di prendere contromisure verso la unitary taxation americana. La stessa Svizzera ha introdotto il DCF del 1962 sulla base di una massiccia pressione da parte degli Stati Uniti, della Germania e della Francia, che avevano minacciato di disdire le proprie CDI con la Svizzera. Si veda, in merito, Schubiger Patrick, Treaty Override und Gegenmassnahmen im Rahmen von Doppelbesteuerungsabkommen, Masterarbeit SIST MAS Taxation 2010-2012, pagina 47. [80] Gebhardt Ronald, Deutsches Tax Treaty Overriding, Wiesbaden 2013, pagina 17. [81] Secondo Gani, op. cit., pagina 238, un treaty override non costituisce di per sé una sostanziale violazione di un trattato bilaterale, ma la dimostrazione va addebitata interamente allo Stato apparentemente leso. Secondo l’OCSE, nel rapporto sul treaty override, nota 23, la decisione va presa caso per caso. [82] Gebhardt Ronald, op. cit., pagina 18; Rust Alexander, op. cit., pagina 11; Matteotti René, Gewinnsteuerrecht, pagina 257. [83] Schubiger Patrick, Treaty Override und Gegenmassnahmen im Rahmen von Doppelbesteuerungsabkommen, Masterarbeit SIST MAS Taxation 2010-2012, pagine 70 e seguenti. Diritto tributario internazionale e dell'UE L’Accordo italo-svizzero sui frontalieri del 1974 e la sua possibile denuncia Stefano Dorigo Avvocato in Firenze e Milano Dottore di ricerca in diritto internazionale e dell’Unione europea presso l’Università di Pisa Docente di diritto tributario, Università di Firenze Un’analisi alla luce del diritto internazionale 1. L’Accordo del 1974 ed i riferimenti alla Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Svizzera La possibilità di porre fine all’Accordo tra la Svizzera e l’Italia relativo all’imposizione dei lavoratori frontalieri ed alla compensazione finanziaria a favore dei Comuni italiani di confine (di seguito Accordo), stipulato il 3 ottobre 1974 ed entrato in vigore, con efficacia retroattiva al 1. gennaio 1974, nel 1979, è – secondo quanto si può leggere sulla stampa – oggetto di particolare dibattito in Svizzera ed in particolare nei Cantoni più direttamente interessati alla disciplina ivi prevista. Nel contesto italiano, al contrario, la questione desta molto meno interesse. Ciò è verosimilmente il portato dell’impegno finanziario che i predetti Cantoni sono ogni anno tenuti a sostenere a favore dei Comuni italiani prossimi alla frontiera e che, specialmente in tempi di particolare crisi economica, gravano in modo considerevole sulle casse dei medesimi. Sul versante politico, è stata ipotizzata da taluni la possibilità di denunciare l’Accordo e di porre perciò fine alla sua vigenza. Una posizione peraltro, sino ad ora, rigettata dagli organi federali preposti alla gestione dei rapporti internazionali con l’Italia, sulla base dell’argomento secondo il quale, essendo l’Accordo divenuto parte integrante della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Svizzera (di seguito Convenzione), esso potrebbe venire meno solo a seguito della denuncia di quest’ultima nel suo complesso. Al di là delle posizioni di tipo politico, la questione deve essere in questa sede affrontata sul piano giuridico, verificando cioè se le regole sul venir meno degli effetti di un trattato, come codificate nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, siano applicabili e, nel caso, a quali esiti esse possano condurre. Conviene, al riguardo, prendere le mosse dall’analisi delle convenzioni che vengono in considerazione nel caso di specie ed in primis dell’Accordo del 1974. La disposizione che appare di particolare interesse ai fini della nostra indagine è quella dell’articolo 6 dell’Accordo, che si occupa dei profili temporali di efficacia dello stesso. Di esso è prevista una durata pari a cinque anni, con entrata in vigore successivamente allo scambio degli strumenti di ratifica, ma se ne realizza una efficacia retroattiva con decorrenza dal 1. gennaio 1974. Le ragioni di tale peculiare disciplina sono molteplici e si collegano, principalmente, all’esigenza originariamente condivisa tra i due Stati di realizzare una convivenza tra l’Accordo e la Convenzione, le cui rispettive normative erano intese come complementari e avrebbero perciò dovuto avere efficacia a partire dallo stesso momento qualunque fosse la data di entrata in vigore formale dell’uno e dell’altra. Di tale esigenza è, appunto, espressione il terzo paragrafo dell’articolo 6, il quale stabilisce che “il presente Accordo farà parte integrante della Convenzione da stipularsi tra l’Italia e la Svizzera per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio”. La particolare collocazione di tale enunciato, nel corpo di una disposizione (l’articolo 6 appunto) dedicata esclusivamente ai profili temporali di efficacia dell’Accordo, rende evidente come la prospettata integrazione vada intesa con riferimento esclusivo ai detti profili, essendo in sostanza volta a garantire la sopravvivenza dell’Accordo, anche oltre il quinquennio originariamente previsto, a seguito della stipula della Convenzione contro le doppie imposizioni. Sembra, insomma, possibile inferire dal testo della norma come l’intenzione non fosse quella di una piena integrazione in punto di disciplina sostanziale, bensì piuttosto di un collegamento finalizzato a consentire ai due trattati di andare di pari passo. Una simile interpretazione è avvalorata dal tenore del messaggio che il Consiglio federale ha inviato all’Assemblea federale il 2 luglio 1975 all’apertura dell’iter di approvazione parlamentare dell’Accordo. Esso ripercorre, infatti, la storia dei rapporti tra i due Stati in merito alla soluzione del problema della doppia imposizione e dà conto delle diverse posizioni manifestate, da un lato l’Italia desiderosa di trattare separatamente il tema della doppia imposizione in generale rispetto a quello del regime dei frontalieri in particolare, dall’altro la Svizzera propensa ad una trattazione ed approvazione congiunta. Ne scaturisce un quadro nel quale i due trattati paiono essere autonomi l’uno dall’altro ed idonei a dettare una disciplina specifica non sovrapponibile; l’unico momento di intersezione tra essi è, appunto, individuato sul piano degli effetti temporali: 31 32 Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 “l’accordo è conchiuso per una durata di cinque anni (cpv. 1), ma sarà parte integrante di una convenzione di doppia imposizione da concludersi; se dunque questa convenzione verrà conchiusa, l’accordo sui frontalieri avrà la stessa durata della convenzione di doppia imposizione; per contro se una convenzione di doppia imposizione non verrà conchiusa, l’accordo diverrà automaticamente caduco alla scadenza del termine di cinque anni". 2. La diversa integrazione contemplata dalla Convenzione contro le doppie imposizioni del 1976 La Convenzione contro le doppie imposizioni è stata sottoscritta tra i due Stati nel 1976 ma è entrata in vigore solo il 1. gennaio 1979. Essa riprende dall’Accordo l’esigenza di integrazione, ma pare declinarla in termini parzialmente differenti. Due sono, al riguardo, le norme che occorre analizzare: l’articolo 15, paragrafo 4, e l’articolo 31. Quest’ultima norma si colloca in continuità rispetto a quanto aveva previsto l’articolo 6, paragrafo 3, dell’Accordo: essa, infatti, si riferisce ai profili temporali del trattato e afferma che “la presente Convenzione, di cui l’Accordo citato nel paragrafo 4 dell’art. 15 costituisce parte integrante, rimarrà in vigore sino alla denuncia da parte di uno degli Stati contraenti”. Dunque, questo primo riferimento all’Accordo mira a confermare l’esistenza di un regime unitario di efficacia, valevole sia per questo che per la Convenzione, svincolato dalla durata quinquennale del primo e collegato ad una scadenza che è lasciato alle parti, tramite il ricorso alla denuncia, definire. Fin qui, dunque, nulla di nuovo. Sennonché, l’articolo 15, paragrafo 4, della Convenzione effettua un ulteriore richiamo all’Accordo e realizza una sorta di inserzione di questo nel proprio tessuto normativo. Peraltro, la tecnica redazionale impiegata da tale articolo è tale da ingenerare qualche ambiguità. L’articolo 15 si occupa del trattamento fiscale dei redditi da lavoro dipendente che il residente in uno dei due Stati contraenti ritrae dall’attività subordinata svolta nell’altro Stato; il paragrafo 4 si riferisce al caso specifico dei redditi dei frontalieri e così si esprime: “il regime fiscale applicabile ai redditi ricevuti in corrispettivo di un’attività dipendente dei lavoratori frontalieri è regolato dall’Accordo tra la Svizzera e l’Italia relativo alla imposizione dei lavoratori frontalieri ed alla compensazione finanziaria a favore dei Comuni italiani di confine, del 3 ottobre 1974, i cui articoli da 1 a 5 costituiscono parte integrante della presente Convenzione”. Dunque, da un lato la norma dichiara che la disciplina fiscale dei compensi percepiti dai lavoratori frontalieri è retta dall’Accordo; dall’altro, e con una disposizione di portata sostanziale, incorpora nel proprio ordito direttamente la regolamentazione recata sul punto dal medesimo Accordo e cristallizzata negli articoli da 1 a 5 dello stesso. L’effetto che ne scaturisce è il seguente: le regole che, secondo la Convenzione, presiedono al trattamento fiscale dei compensi percepiti dai lavoratori frontalieri nello Stato diverso da quello di residenza coincidono con quelle dell’Accordo, ma trovano – in virtù del diretto inserimento delle relative disposizioni nella Convenzione contro le doppie imposizioni – la loro fonte non più nel primo bensì in quest’ultima. Detto altrimenti, è come se i redattori dell’articolo 15, paragrafo 4, si fossero resi conto che il semplice richiamo all’Accordo avrebbe finito per creare incertezza, dal momento che la disciplina della Convenzione avrebbe in qualche modo dovuto “inseguire” le vicende che, nel tempo, avrebbero potuto riguardare l’Accordo (cosiddetto “rinvio mobile”); di talché, ciò che rileva è la regolamentazione sostanziale di cui agli articoli 1-5 di questo che viene ad essere separata dalla fonte che l’ha in origine prevista ed inserita nel testo della Convenzione, facendone parte integrante e destinata così a rimanere anche nell’ipotesi in cui il primo dovesse per qualsiasi ragione venir meno. L’integrazione realizzata dalla Convenzione, in sostanza, non è più legata alla coesistenza di due testi pattizi autonomi, come prefigurato dall’articolo 6 dell’Accordo, bensì si realizza attraverso il diretto inserimento nella prima della disciplina sostanziale prevista dal secondo. 3. Quali ricadute della regolamentazione in esame sulla possibilità di denunciare l’Accordo? Sulla base della ricognizione testuale che si è compiuta nei paragrafi precedenti, anche alla luce dell’assetto degli interessi concretamente perseguito dalle parti e dell’orientamento manifestato dal Consiglio federale, si può tentare di elaborare qualche soluzione interpretativa relativamente al tema della possibilità per la Svizzera di porre fine legittimamente all’Accordo del 1974. Al riguardo, possono in linea teorica individuarsi due macroipotesi. La prima si fonda sulla considerazione che l’Accordo e la Convenzione rappresentano due trattati internazionali distinti ed autonomi, la cui integrazione è stata prevista solo al fine di superare gli stretti limiti temporali originariamente previsti dai redattori dell’Accordo. Saremmo, dunque, in presenza di due accordi separati nella rispettiva regolamentazione sostanziale ed uniti soltanto per la durata. La seconda, invece, si basa sulla prospettazione secondo cui l’Accordo ha rappresentato la prima fase degli accordi tra Italia e Svizzera volti a regolamentare reciprocamente la doppia imposizione ed ha quindi esaurito la propria funzione a seguito dell’inserimento della sua disciplina sostanziale nel corpo della Convenzione: di talché, si potrebbe sostenere che, con l’entrata in vigore di quest’ultima, l’Accordo sia venuto implicitamente a cessare, trovando, la suddetta disciplina, la propria fonte esclusiva proprio nell’articolo 15, paragrafo 4, della Convenzione contro le doppie imposizioni. Se si assume la prima tesi, diventa in astratto percorribile la via della denuncia autonoma dell’Accordo, volta a porvi fine. Non importa, al riguardo, che il testo del trattato non contempli Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 espressamente una facoltà di denuncia per una delle parti, atteso che la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, al suo articolo 56, contempla proprio questo caso, affermando che non viene meno la possibilità di denunciare il trattato purché sussista almeno una delle due condizioni ivi menzionate: che sia provato che le parti intendevano ammettere la possibilità di denuncia o cancellazione del trattato, ovvero che un simile diritto si possa ricavare per implicito dalla natura del trattato stesso. Non sembrano esservi, nel caso di specie, ragioni per escludere tali circostanze. Nonostante il silenzio delle parti, infatti, la natura dell’Accordo, riguardando una situazione specifica e contingente come quella del trattamento fiscale dei compensi tratti dai frontalieri nell’esercizio di una attività di lavoro subordinato, ben si presta alla possibilità di ravvisare la possibilità di una conclusione dei suoi effetti. Non va dimenticato che il testo poi trasfuso nell’articolo 56 della Convenzione di Vienna era stato approvato dalla Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, la quale aveva condiviso la tesi di quei membri secondo cui “in certain types of treaty, such as treaties of alliance, a right of denunciation or withdrawal after reasonable notice should be implied in the treaty unless there are indications of a contrary intention”. D’altra parte, la stessa Convenzione di Vienna suggerisce, al riguardo, una soluzione in grado di rendere in qualche modo superflua una simile interpretazione. L’articolo 59, infatti, si riferisce al caso in cui un trattato sia sospeso o terminato in via implicita a seguito della conclusione successiva di un nuovo trattato, laddove tra l’altro “appaia dal trattato successivo o si provi altrimenti che le parti intendevano che l’intera questione fosse governata da quel trattato” (paragrafo 1, lettera b). Di fatto, secondo tale norma, laddove si susseguano due trattati, regolanti una medesima materia, il più recente si può ritenere abroghi il precedente laddove appaia chiaro che l’intenzione delle parti era quella di compendiare nel primo l’intera disciplina. Come si vede, è questo il caso in esame, nel quale l’Accordo era inteso come un frammento della più generale regolamentazione dei fenomeni di doppia imposizione tra i due Stati, il cui completamento sarebbe avvenuto solo per mezzo di un’apposita convenzione generale contro le doppie imposizioni: chiarissimo, al riguardo, il preambolo dell’Accordo, ove si legge che i due Stati sono “desiderosi di eliminare le doppie imposizioni che possono risultare per i lavoratori frontalieri dall’applicazione delle legislazioni fiscali dei due paesi in materia di imposte sul reddito”; ma anche il già citato messaggio del Consiglio federale, che sottolinea come “lo statuto fiscale dei lavoratori frontalieri non è attualmente regolato nelle relazioni con l’Italia per la mancanza di una convenzione generale di doppia imposizione tra i due Paesi” e conclude che “il presente accordo intende supplire a questa lacuna prevedendo l’imposizione esclusiva dei frontalieri nel luogo di lavoro”. Una volta entrata in vigore la Convenzione, recante una disposizione ad hoc sul punto, è ragionevole sostenere che l’Accordo sia venuto meno, in quanto implicitamente superato dalla regolamentazione più generale recata dalla prima. 4. La perdurante vigenza della disciplina sostanziale dell’Accordo in seno alla Convenzione Quale che sia la soluzione che si prescelga, è allora evidente che un problema di cessazione degli effetti dell’Accordo non si pone: da un lato, in quanto la denuncia può dirsi ammessa ai sensi dell’articolo 56 della Convenzione di Vienna; dall’altro, in alternativa, poiché si può ritenere che gli effetti di esso siano già venuti meno a seguito dell’entrata in vigore della Convenzione. Certo è che, in entrambi i casi, i fautori dell’eliminazione dal mondo del diritto della disciplina dell’Accordo sarebbero nella sostanza niente affatto soddisfatti. La cessazione degli effetti dell’Accordo – già realizzata in base all’articolo 59 della Convenzione di Vienna, ovvero possibile da perseguire in attuazione dell’articolo 56 della stessa – non risolve infatti la perdurante vigenza della regolamentazione sostanziale in esso prevista, dal momento che questa si trova adesso incorporata nella Convenzione all’articolo 15, paragrafo 4 più volte citato. Si vuole dire, in altri termini, che il tema vero da affrontare e, se possibile, risolvere non è tanto quello della sorte dell’Accordo in sé, quanto piuttosto quello della possibilità di eliminare dalla Convenzione contro le doppie imposizioni la disciplina sui lavoratori frontalieri, dal momento che ormai questa sussiste ed ha efficacia a prescindere dall’Accordo medesimo. Ebbene, sul punto – sempre che non si voglia passare da una messa in discussione globale della Convenzione, ciò che pare non essere nell’agenda neppure dei sostenitori della tesi della denunciabilità dell’Accordo – può provare a trarsi qualche argomento invocando un’altra disposizione della Convenzione di Vienna su diritto dei trattati, segnatamente l’articolo 44. Questo pone due regole distinte. La prima, che si trova al paragrafo 1, stabilisce che il diritto di una parte di porre fine al trattato – previsto espressamente nel testo o ricavabile per implicito ai sensi del citato articolo 56 – può essere esercitato solo in relazione all’intero trattato, salvo che questo non preveda altrimenti ovvero che le parti non consentano all’esercizio parziale di detto diritto. La regola, allora, è quella della non separabilità del trattato in relazione all’operatività del diritto di denuncia, recesso o sospensione, mentre l’eccezione deve essere espressamente contemplata o comunque oggetto di un accordo ulteriore tra le parti. La seconda regola, di cui al paragrafo 2, riguarda la possibilità di invocare una delle cause di invalidità, cessazione, recesso o sospensione del trattato “riconosciute” in seno alla Convenzione di Vienna. Anche qui la regola è per l’operatività di queste cause solo con riguardo all’intero trattato, mentre la possibilità di invocarle con riguardo a specifiche clausole è limitata al ricorrere cumulativo di tre condizioni: 33 34 Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 a) che dette clausole siano separabili dal resto del testo con riguardo alla loro applicazione; b) che appaia dal trattato ovvero sia provato altrimenti che l’accettazione di dette clausole non ha costituito base essenziale per il consenso dell’altra parte o delle altre parti ad essere vincolata all’intero trattato; e c) che la perdurante vigenza della rimanente parte del trattato non sia ingiusta. Così riassunta la norma, sembra a chi scrive quanto mai problematico invocarne l’applicazione nel caso di specie. Da un lato, la Convenzione, pur contemplando un diritto di denuncia, ne riferisce l’efficacia all’intero trattato e non contiene alcuno spunto nel senso di una riferibilità del medesimo diritto solo ad alcune clausole: ciò che esclude l’invocabilità dell’articolo 44, paragrafo 1, della Convenzione di Vienna. In questo senso, del resto, si era espressa la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite nel commentario all’articolo 41 del progetto in articoli sul diritto dei trattati, poi trasfuso appunto nell’articolo 44 della Convenzione di Vienna: si legge infatti al paragrafo 3 del commentario che “in the case of a right provided for in the treaty, it is for the parties to lay down the conditions for the exercise of the right; and, if they have not specifically contemplated a right to denounce, terminate, etc. parts only of the treaty, the presumption is that they intended the right to relate to the whole treaty”. D’altra parte, la disciplina del paragrafo 2 della medesima disposizione si riferisce esclusivamente alle specifiche cause di invalidità, cessazione, recesso o sospensione previste dalla stessa Convenzione di Vienna e, dunque, in assenza di una di queste cause essa non pare potersi applicare. Non risulta che i sostenitori della possibilità di denuncia abbiano sinora invocato l’esistenza di una causa di invalidità o cessazione degli effetti contemplata dalla Convenzione di Vienna (errore, minaccia, corruzione, eccetera). Di talché, la regolamentazione del paragrafo 2 non pare idonea a costituire valido supporto alla tesi della denunciabilità parziale della Convenzione. Potrebbe, in astratto, attribuirsi una qualche rilevanza alla causa di recesso del trattato prevista dall’articolo 62 della Convenzione di Vienna, la quale riguarda il mutamento fondamentale delle circostanze che accompagnarono la conclusione dell’Accordo: si potrebbe, infatti, sostenere che dal 1974 ad oggi il fenomeno legato ai lavoratori transfrontalieri sia notevolmente mutato e, con esso, la sostenibilità dell’onere economico legato ai ristorni da parte dei Cantoni di frontiera. Tuttavia, occorrerebbe in questo caso verificare le condizioni al cui ricorrere la medesima norma subordina l’operatività della causa di recesso, in particolare che le predette circostanze costituirono elemento essenziale al momento della prestazione del consenso a vincolarsi al trattato e che il loro mutamento sia tale da trasformare radicalmente l’estensione degli obblighi derivanti da questo. Si tratta di elementi assai stringenti e la cui dimostrazione in concreto appare tutt’altro che agevole. V’è, infine, da dire che in ogni caso, anche cioè se si ammette che l’articolo 44 sia in astratto invocabile nel caso di specie, la sua operatività in concreto risulta esclusa in quanto non ricorre la condizione di cui alla lettera b del paragrafo 2 sopra ricordato. Essa subordina la possibilità di far valere una causa di estinzione o cessazione degli effetti di singole clausole del trattato alla verifica che queste non abbiano “costituito per l’altra parte o le altre parti del trattato una base essenziale del loro consenso a vincolarsi al trattato nel suo complesso”. Ebbene, la storia dei rapporti tra Italia e Svizzera relativamente alla soluzione pattizia delle questioni legate alla doppia imposizione mostra come per l’Italia sia sempre risultato essenziale prevedere un regime di tassazione dei frontalieri tale da imporre alla Svizzera, in cambio del riconoscimento del diritto esclusivo a sottoporre a imposizione i redditi prodotti, il ristorno di parte del gettito a favore dei Comuni italiani di frontiera. Tanto è vero che fu proprio l’insistenza del governo italiano a condurre alla separazione dei negoziati sulla doppia imposizione, anticipando la soluzione del problema dei frontalieri mediante la stipula dell’Accordo. Non sembra, quindi, corretto sostenere che le clausole inserite nella Convenzione e mutuate dagli articoli 1-5 dell’Accordo siano indifferenti per l’altro contraente (ovvero l’Italia), anzi – come si legge nei dibattiti svoltisi in seno all’Assemblea federale – furono proprio la concessione della Svizzera a introdurre la regolamentazione dell’Accordo in tema di frontalieri e la successiva resistenza a consentirne l’entrata in vigore a indurre l’Italia a siglare la Convenzione contro le doppie imposizioni tra i due Stati. La corretta ricostruzione del contesto nel quale sono maturati tanto l’Accordo quanto la Convenzione induce in sostanza a ritenere che le clausole contenute nel testo di quest’ultima e concernenti il regime fiscale dei lavoratori frontalieri abbiano costituito un motivo essenziale per la partecipazione dell’Italia alla Convenzione nel suo complesso. Di talché, non pare potersi legittimamente invocare da parte della Confederazione la disciplina della separabilità di cui all’articolo 44 della Convenzione di Vienna. Laddove le tendenze politiche favorevoli alla soppressione della disciplina sui frontalieri prevalessero, non resterà che denunciare la Convenzione nel suo complesso ovvero, soluzione più verosimile, inserire il tema nei negoziati da tempo in corso tra i due Stati per la revisione della Convenzione medesima. Per maggiori informazioni: Per l’esame del testo della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati e dei lavori preparatori della Commissione di diritto internazionale, si rivia a: www.un.org/law/ilc [26.05.2014] Elenco delle fonti fotografiche: http://www.fiscooggi.it/files/immagini_articoli/stretta%20di%20mano. jpg [26.05.2014] http://media.tumblr.com/tumblr_lspk6rT6al1qlz3wr.jpg [26.05.2014] Rassegna di giurisprudenza di diritto tributario svizzero Il termine del 31 marzo è determinante per richiedere all’autorità fiscale delle deduzioni supplementari in ambito di imposizione alla fonte? Sabina Rigozzi Collaboratrice scientifica SUPSI Sentenza del Tribunale federale, del 5 marzo 2013, n. 2C_684/ 2012, in: RDAF 2013, pagine 246-256 1. La fattispecie oggetto della sentenza Il signor X. (di seguito X.), domiciliato in Francia, nel 2008 ha lavorato a Ginevra. Il 30 gennaio 2009, ha ricevuto l’attestazione fiscale[1] relativa al 2008, dalla quale è emerso che l’imposta alla fonte sul reddito ginevrino di 491'617 franchi ammontava a 166'980 franchi, pari ad un tasso d’imposizione del 33,95 per cento. Per posta, con timbro postale datato 4 aprile 2009, X. ha chiesto all’amministrazione fiscale di Ginevra (di seguito amministrazione cantonale) di correggere l’imposta alla fonte per l’anno 2008 sul suo reddito, al fine di prendere in considerazione gli alimenti versati alla sua ex moglie e alla loro figlia, così come i versamenti effettuati presso il suo istituto di previdenza individuale vincolata, essendo deduzioni non previste dalla normativa vigente in materia di imposta alla fonte. L’11 febbraio 2010, l’amministrazione cantonale ha respinto il reclamo, poiché tardivo. X. ha impugnato la decisione dell’amministrazione cantonale presso la Commissione cantonale di ricorso in materia amministrativa, divenuta dal 1. gennaio 2011 Tribunale amministrativo di prima istanza del Canton Ginevra (di seguito TAPI), che ha ammesso il ricorso del contribuente e rinviato la causa all’amministrazione cantonale, il 9 marzo 2012. A sua volta, l’amministrazione cantonale ha impugnato la decisione del TAPI presso la Camera amministrativa della Corte di giustizia ginevrina (di seguito Corte). Con sentenza del 12 giugno 2012, quest’ultima ha ammesso il ricorso, annullato la sentenza del TAPI e riabilitato la decisione dell’amministrazione cantonale dell’11 febbraio 2010. Nelle sue motivazioni, la Corte ha spiegato, in sostanza, che la ritenuta d’imposta alla fonte eccessiva non era dovuta, nella fattispecie, all’errore di un terzo, ciò che avrebbe giustificato una protezione particolare del contribuente. Al contrario, la ritenuta eccessiva risultava dalla mancata presa in considerazione delle deduzioni, che il contribuente avrebbe dovuto far valere entro il termine legale stabilito dall’articolo 137 LIFD, ciò che invece ha omesso di fare. Il 10 luglio 2012, X. ha quindi adito il Tribunale federale contro la sentenza della Corte, chiedendone l’annullamento e chiedendo nel contempo la riabilitazione della sentenza del TAPI. La Corte ha rinunciato a formulare osservazioni in merito al ricorso di X., rinviando peraltro alle motivazioni già formulate nella sua sentenza. L’amministrazione cantonale ha chiesto il respingimento del gravame, così come l’Amministrazione federale delle contribuzioni (di seguito AFC), che si è quindi allineata alla presa di posizione dell’amministrazione cantonale. 2. Considerazioni sulla ricevibilità del ricorso del contribuente Innanzitutto il Tribunale federale ha giudicato ricevibile il ricorso in materia di diritto pubblico di X., poiché il ricorrente ha partecipato alla procedura nell’istanza precedente, è particolarmente condizionato dalla sentenza in quanto contribuente ed ha un interesse degno di protezione affinché la sentenza impugnata sia annullata o modificata. X. ha altresì i requisiti per poter ricorrere alla sentenza della Corte ginevrina e il ricorso è depositato in tempo utile e nelle forme richieste. Il Tribunale federale ha sottolineato in seguito che il ricorso deve contenere delle conclusioni e che anche in questo senso lo stesso è ricevibile[2]. Ha poi spiegato che la Corte ha emanato una sola sentenza e non ha effettuato nessuna distinzione, nel dispositivo della stessa, tra l’imposta federale diretta 35 36 Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 e le imposte cantonali e comunali; questo perché, tra le altre cose, l’articolo 85 capoverso 2 LIFD stabilisce che il tasso per la percezione alla fonte dell’imposta federale diretta è inglobato nel tasso per la percezione alla fonte dell’imposta cantonale. Di conseguenza, anche la sentenza del Tribunale federale ha seguito il medesimo ragionamento, ma i giudici federali hanno esposto le loro considerazioni separatamente per ciascuna categoria d’imposta, al fine di non nuocere alla chiarezza del ragionamento. Il Tribunale federale ha emanato la sentenza basandosi sui fatti così come emersi nella sentenza dell’istanza precedente, dato che non sono adempiute le condizioni[3] per le quali il Tribunale federale può discostarsene. 3. Considerazioni sulla fattispecie Innanzitutto i giudici dell’Alta Corte hanno osservato che la controversia non è inerente all’assoggettamento stesso del ricorrente all’imposta alla fonte, bensì alle modalità con le quali è avvenuto. I giudici hanno rammentato che il sistema di imposizione alla fonte, che si fonda su un sistema di “auto-tassazione”, si discosta notevolmente dal sistema di imposizione ordinario sul reddito e la sostanza, che si fonda su un sistema di tassazione “misto”. Di conseguenza, anche la procedura di tassazione è molto diversa nei due sistemi di imposizione; in particolare, nell’imposizione alla fonte avviene una sostituzione fiscale: è infatti il debitore della prestazione imponibile (il datore di lavoro) che si vede assumere, per legge, gli obblighi formali e materiali derivanti dal rapporto fiscale, in sostituzione al creditore della prestazione imponibile (il lavoratorecontribuente)[4]. In particolare, il datore di lavoro ha l’obbligo di trattenere l’imposta dovuta alla scadenza della prestazione imponibile e di rilasciare al lavoratore-contribuente un’attestazione che ne indica l’importo trattenuto[5]. L’attestato ha lo scopo di informare il contribuente sull’importo della ritenuta effettuata e di permettergli, in caso di contestazione, di esigere che l’autorità di tassazione gli notifichi una decisione in merito all’esistenza e all’estensione dell’assoggettamento (in altre parole l’ammontare dell’imposta dovuta) secondo l’articolo 137 capoverso 1 LIFD. Secondo tale disposizione, il lavoratore-contribuente oppure il suo datore di lavoro possono effettuare tale contestazione, esigendo una decisione della competente autorità di tassazione in merito all’esistenza e all’ammontare dell’imposta dovuta, entro il 31 marzo dell’anno che segue quello relativo all’assoggettamento all’imposta alla fonte. Tale termine è stato introdotto nella legge al fine di preservare la certezza del diritto. In effetti le parti coinvolte hanno un interesse a sapere quando l’imposta diventa definitiva e la tassazione cresce in giudicato, anche in un sistema di auto-tassazione come quello dell’imposizione alla fonte. La legge stabilisce poi che quando il datore di lavoro opera una ritenuta alla fonte troppo elevata, deve restituire l’importo in eccesso al contribuente (articolo 138 capoverso 2 LIFD[6]). Si tratta di una forma di procedura di revisione semplificata, che si giustifica, sempre secondo il ragionamento dei giudici, poiché nella procedura dell’imposizione alla fonte il contribuente è rappresentato dal debitore della prestazione imponibile e non dispone generalmente delle informazioni necessarie per difendere i propri interessi. Per via della sostituzione fiscale tipica del sistema di imposizione alla fonte, dove l’imposta è calcolata sul reddito lordo, dato che le principali deduzio- ni sono prese in considerazione forfettariamente nell’aliquota d’imposta (articolo 86 capoverso 1 LIFD), il contribuente è coinvolto solo marginalmente nella procedura di tassazione. Le deduzioni non comprese nell’aliquota d’imposta possono essere richieste marginalmente a titolo individuale, secondo l’articolo 2 lettera e dell’Ordinanza sull’imposta alla fonte nel quadro dell’imposta federale diretta (di seguito OIFo)[7]. Il Tribunale federale si è poi soffermato su una sua precedente sentenza del 2009[8] , nella quale ha esaminato il rapporto reciproco fra gli articoli 137 e 138 LIFD. In quella fattispecie, il datore di lavoro del ricorrente aveva applicato un tasso di imposizione errato, ma quest’ultimo lo aveva contestato solamente dopo il 31 marzo dell’anno successivo. Il Tribunale federale, in quella sede, aveva quindi evidenziato che se il contribuente richiede una decisione dell’autorità di tassazione entro tale data e poi tale decisione non viene contestata, la stessa cresce in giudicato e diventa definitiva. Se il contribuente o il debitore della prestazione imponibile non richiedono tale decisione entro il termine legale prefissato, allora le conseguenze sono meno evidenti, dato che l’auto-tassazione non è di principio una decisione stessa, poiché né il contribuente, né il debitore della prestazione imponibile hanno l’autorità per prendere delle decisioni[9]. Il Tribunale federale aveva quindi concluso la sua analisi ritenendo che le disposizioni degli articoli 137 e 138 LIFD dovevano essere interpretate nel senso che dopo la scadenza del termine del 31 marzo non è più possibile sollevare contestazioni in merito all’assoggettamento fiscale, ma che invece rimaneva salva, anche oltre tale termine, la possibilità di contestare l’ammontare della ritenuta di imposta e ciò sia che la contestazione fosse da parte del fisco, che del contribuente. L’articolo 138 LIFD è stato quindi considerato dai giudici come lex specialis rispetto all’articolo 137 LIFD, ma limitatamente ai problemi che si pongono in caso di trattenuta alla fonte eccessiva o insufficiente e non in merito all’assoggettamento stesso all’imposta. L’interpretazione dei giudici derivava dal fatto che l’articolo 138 capoverso 1 LIFD permette al fisco, in caso di trattenuta d’imposta insufficiente, di esigere il pagamento dell’importo mancante anche dopo il termine del 31 marzo. Per il principio della parità delle armi, bisognava quindi riconoscere la medesima possibilità al contribuente, secondo il capoverso 2 del medesimo articolo[10]. Tornando alla sentenza qui in esame, il Tribunale federale ha segnalato che l’opinione della dottrina sulla sentenza del 2009 è discordante. Ha quindi osservato che il reclamo di X. porta il timbro postale del 4 aprile 2009, data che non rispetta il termine legale stabilito dall’articolo 137 LIFD. I giudici si sono quindi chiesti se la sentenza del 2009 si applica anche alle situazioni in cui il contribuente reclama il beneficio di una de- Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 duzione supplementare, in applicazione dell’articolo 2 lettera e OIFo, o se invece, in tale caso, deve imperativamente far valere i suoi diritti entro il termine del 31 marzo. Ebbene nella sentenza in oggetto si legge anzitutto che la fattispecie in esame, in cui il contribuente intende far valere delle deduzioni a posteriori, si discosta dal sistema dell’auto-tassazione, dato che in questo caso il contribuente è tenuto a un comportamento personalmente attivo nei confronti del fisco per chiedere che le deduzioni non comprese nell’aliquota fiscale, siano prese in considerazione. A prescindere dal fatto che il datore di lavoro ne sia a conoscenza o meno. In effetti, nel Canton Ginevra è il contribuente a doversi indirizzare attivamente all’amministrazione cantonale per far valere tali deduzioni supplementari, per mezzo di una domanda di rettificazione in forma ufficiale, nel termine ultimo del 31 marzo[11]. A detta dei giudici questa esigenza, che concretizza l’articolo 137 LIFD, è giustificata, poiché la situazione di un contribuente, imposto alla fonte, che si prevale di deduzioni supplementari è in effetti più vicina a quella di un contribuente imposto ordinariamente, che fa valere le proprie deduzioni in sede di dichiarazione di imposta, che a quella di un contribuente imposto alla fonte in applicazione della sola aliquota applicabile, senza ulteriori deduzioni. Contrariamente al lavoratore-contribuente che è vittima di un errore di applicazione della scala di aliquote, oppure dell’aliquota stessa da parte del suo datore di lavoro e il cui errore non può essere scovato autonomamente dal contribuente, lo stesso che omette di far valere delle deduzioni supplementari entro il termine definito si rende colpevole di una violazione dei suoi obblighi di diligenza. A detta dei giudici, tale contribuente deve quindi “sopportarne le conseguenze”, anche perché non è giustificabile ammettere a un contribuente imposto alla fonte, che vuol far valere delle deduzioni supplementari, un termine più lungo, poiché ciò implicherebbe creare una disparità di trattamento rispetto al contribuente imposto ordinariamente, che può far valere le proprie deduzioni soltanto fino alla scadenza del termine di reclamo[12]. La situazione del contribuente che intende far valere delle deduzioni supplementari è fondamentalmente differente da quella di un contribuente che è vittima di un errore di applicazione di aliquota da parte del datore di lavoro, dato che, nel primo caso, la tassazione è corretta. Nella sua “arringa” il ricorrente ha rivendicato il fatto che la non presa in considerazione delle deduzioni supplementari ha avuto un’incidenza importante sull’aliquota fiscale applicabile dato che la stessa è progressiva. Di conseguenza è stata applicata un’aliquota errata, il che giustifica il diritto del contribuente a poter beneficiare della giurisprudenza del Tribunale federale del 2009. Il Tribunale federale ha tuttavia cassato il ricorrente nel suo ragionamento, poiché è vero che l’aliquota applicabile nell’imposizione alla fonte è progressiva, ma lo stesso vale per l’imposizione ordinaria. Perciò un contribuente, tassato ordinariamente, che omette di inoltrare un reclamo nei termini previsti per far valere delle deduzioni precedentemente tralasciate, deve sopportare l’onere fiscale relativo al tasso corrispondente al suo reddito senza le predette deduzioni. Permettere a un contribuente imposto alla fonte di far valere le deduzioni oltre il termine stabilito, significherebbe creare una disparità di trattamento ingiustificata rispetto alle persone tassate ordinariamente. Il Tribunale federale ha quindi esaminato la possibilità che il ricorrente si sia trovato in una situazione tale che l’inosservanza del termine del 31 marzo sia scusabile. A norma dell’articolo 133 capoverso 3 LIFD, un reclamo tardivo è ricevibile soltanto se il contribuente prova che a seguito del servizio militare, del servizio civile, di una malattia, dell’assenza dal Paese o per altri gravi motivi, non ha potuto presentare il reclamo in tempo utile e che comunque l’ha inoltrato entro 30 giorni dopo la fine dell’indisposizione. Data questa premessa, emerge che il contribuente non ha notificato impedimenti di tale natura, né in sede di procedura cantonale, né innanzi al Tribunale federale e, hanno concluso i giudici, nemmeno esistono secondo i fatti stabiliti dalla Corte di giustizia ginevrina. Di conseguenza le condizioni per la concessione di un reclamo tardivo non sono adempiute[13]. Il Tribunale federale, prendendo atto del fatto che la normativa inerente le condizioni dell’assoggettamento all’imposta alla fonte, il calcolo dell’imposta e la procedura di reclamo a livello federale sono le stesse di quelle a livello cantonale, in particolare a quella ginevrina, ha quindi concluso che le considerazioni sviluppate per l’imposta federale diretta, di cui si è detto sopra, si applicano parimenti alle imposte cantonali e comunali relative al periodo fiscale in esame. 4. Il dispositivo Il Tribunale federale ha quindi risolto la questione dichiarando che la Corte di giustizia ginevrina ha ritenuto in maniera legittima che il reclamo inoltrato dal ricorrente in data 4 aprile 2009 è irricevibile perché tardivo. Dati tali presupposti, i giudici dell’Alta Corte hanno respinto il ricorso. 37 38 Novità fiscali / n.5 / maggio 2014 Elenco delle fonti fotografiche: http://www.bger.ch/img/vt-la-36-lrg.jpg [26.05.2014] http://www.bger.ch/it/bg1.jpg [26.05.2014] [1] Il datore di lavoro è obbligato a fornire un’attestazione al contribuente relativamente all’imposta alla fonte trattenuta, a norma degli articoli 100 capoverso 1 lettera b della Legge federale sull'imposta federale diretta (di seguito LIFD) e 37 capoverso 1 lettera b della Legge federale sull'armonizzazione delle imposte dirette dei Cantoni e dei Comuni (di seguito LAID). [2] Considerando 1.2 e 1.3 della sentenza qui in esame. [3] Tali condizioni sono: (i) i fatti sono stati accertati in maniera manifestamente inesatta oppure (ii) in violazione del diritto (si veda il considerando 3 della sentenza qui in esame). [4] Per ulteriori approfondimenti relativamente all’imposizione alla fonte, si veda AFC, Recueil informations fiscales, E. Notions fiscales, L'imposition à la source (Edition février 2009), 11 maggio 2009, in: http://www.estv.admin.ch/dokumenta tion/00079/00080/00736/?lang=fr [26.05.2014]. [5] Nella sentenza si fa riferimento all’articolo 88 capoverso 1 lettere a e b LIFD; a parere di chi scrive, pur essendo i contenuti sostanzialmente identici a quelli dell’articolo in questione, era più appropriato citare l’articolo 100 capoverso 1 lettere a e b LIFD, poiché relativo alle persone senza domicilio o dimora fiscale in Svizzera, come è il caso del signor X., residente in Francia. [6] Dalla disposizione in esame non emerge dunque chiaramente il rapporto con l’articolo 137 LIFD, in particolare, se il termine del 31 marzo di cui all’articolo 137 capoverso 1 LIFD vale anche per la restituzione d’imposta di cui all’articolo 138 capoverso 2 LIFD. [7] A parere di chi scrive, dubbi sorgono relativamente alla possibilità di far valere le deduzioni individuali non comprese forfettariamente nelle aliquote anche da parte di un contribuente come il signor X., che non ha domicilio o dimora fiscale in Svizzera, dato che l’articolo 2 lettera e OIFo è rubricato all’interno della sezione 1 “Persone fisiche con domicilio o dimora fiscale in Svizzera”. In ogni caso, la questione principale della controversia è la ricevibilità del reclamo e non il suo contenuto. [8] DTF 135 II 274. [9] DTF 135 II 274, considerando 5.3.1. [10] DTF 135 II 274, considerando 5.4. [11] Considerando 5.4 della sentenza qui in esame. Il formulario per la domanda di rettificazione si può scaricare dal seguente link: http://ge.ch/ impots/iso-15 [26.05.2014]. [12] Considerando 5.4 della sentenza qui in esame. Il contribuente imposto ordinariamente ha tempo fino a 30 giorni dopo la notifica della decisione di tassazione da parte dell’autorità fiscale per inoltrare un reclamo (articolo 132 capoverso 1 LIFD). [13] Considerando 5.6 della sentenza qui in esame. Pubblicazioni Nuovo redditometro e difesa del contribuente Nicola Fasano Avvocato, Studio Legale Tributario, Milano È disponibile la pubblicazione di Nicola Fasano e Giorgio Confente, edita da Maggioli Editore Il libro offre una visione di insieme sul Redditometro, su cui recentemente è intervenuto il decisivo parere del “Garante della Privacy” e – a seguito di esso – la nuova importantissima Circolare n. 6/E dell’11 marzo 2014 dell’Agenzia delle Entrate, che ha fornito ulteriori indicazioni circa le modalità operative di tale strumento di lotta all’evasione fiscale. Nel testo vengono esaminate le procedure di accertamento sintetico, sia quelle applicabili fino al periodo di imposta 2008 (oggetto fra l’altro di un rilevante contenzioso ancora pendente), sia quelle successive: dall’anno di imposta 2009, infatti, entra in azione per la prima volta il “nuovo” Redditometro, con le modalità dapprima esplicate nella Circolare del 31 luglio 2013 dell’Agenzia delle Entrate e in seguito puntualizzate nel nuovo provvedimento già citato. La trattazione – ricca di numerosi esempi pratici, oltre che di riferimenti normativi e di prassi – dà ampio spazio anche alle possibili difese esperibili a tutela del contribuente, dal contraddittorio con l’Amministrazione finanziaria fino alla gestione del contenzioso, fornendo conoscenza dei più recenti orientamenti della giurisprudenza (si segnala da ultimo la sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 6396 del 19 marzo 2014, in tema di prova contraria rispetto agli incrementi patrimoniali contestati dal Fisco), proponendosi così come un supporto operativo completo per il professionista, oltre che come riferimento informativo per il privato. Giorgio Confente Avvocato tributarista in Milano Per maggiori informazioni: http://ordini.maggioli.it/clienti/product_info.php?products_id=10661 [26.05.2014] 39 Offerta formativa Seminari e corsi di diritto tributario Sì, sono interessata/o e desidero ricevere maggiori informazioni sui seguenti corsi: Master of Advanced Studies □ Diritto Economico e Business Crime Certificate of Advanced Studies Dati personali Nome Cognome Telefono E-mail □ Imposta sul valore aggiunto □ Approfondimenti di diritto tributario Altri corsi formativi □ Fiscalità e diritto finanziario Seminari □ Novità in materia di fiscalità finanziaria italiana Indicare l’indirizzo per l’invio delle comunicazioni Azienda/Ente Via e N. NAP Località Data Firma Inviare il formulario Per posta SUPSI Centro competenze tributarie Palazzo E Via Cantonale 16e CH-6928 Manno Via e-mail [email protected] Via fax +41 (0)58 666 61 76 16 giugno 2014, Manno □ Analisi dei rapporti finanziari e liste selettive 25 giugno 2014, Manno □ La Riforma III dell'imposizione delle imprese 25 settembre 2014, Manno □ Aggiornamento imposta preventiva 29 ottobre 2014, Cadempino
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