Scarica un brano in pdf

Simbologia
omunicazione esoterica, dunque. Già Platone
e Aristotele ne discutevano, in particolare rispetto a una conclamata differenza tra il sapere
scritto (statico e impossibilitato a trasformarsi attraverso la
riflessione filosofica) e quello orale-dialettico, più adatto a
trasmettere conoscenze relative alle “verità ultime”.
Soprattutto in Platone – riguardo a tale argomento fedele discepolo del Maestro Socrate – più asserzioni in varie
opere inducono a ritenere che il filosofo considerasse i libri
mezzi poco adatti a contenere verità. E questo, secondo
molti studiosi, per il timore che conoscenze “delicate” potessero finire in mani sbagliate.
Preoccupazione senz'altro condivisibile e ben presente
tanto nel dibattito filosofico del mondo antico, quanto
nella tradizione esoterica in genere.
Tuttavia, a una lettura più attenta, nelle parole di Platone possiamo individuare anche un altro tipo di riflessione,
una considerazione che, a nostro parere, va ben oltre la
C
101
Connessione umana
semplice salvaguardia di una conoscenza non adatta che ai
soli iniziati. Scrive infatti il filosofo:
«Su queste cose non c’è un mio scritto, né ci sarà mai. In
effetti la conoscenza della verità non è affatto comunicabile come le altre conoscenze, ma dopo molte discussioni
fatte su questi argomenti, e dopo una comunanza di
vita, improvvisamente, come luce che si sprigiona dallo
scoccare di una scintilla, essa nasce nell’anima e da se
stessa si alimenta».13
Platone accenna qui all’espressione “comunanza di vita”,
facendo quindi riferimento alla struttura fondamentale
dell’insegnamento esoterico nella storia dell’uomo: non
tanto una segretezza settaria, quanto la necessità di una
condivisione tra chi sa, e insegna, e chi è fortemente “motivato” – diremmo oggi – a imparare. Motivazione che, in
tutta la tradizione esoterica, assomiglia più a un’aspirazione a comprendere, a un ardente desiderio di verità.
In questa prospettiva, la comunicazione esoterica non
era tanto “trasmissione di dati e significati”, quanto piuttosto “esercizio”, praxis, condivisione dell’insegnamento e
trasferimento della comprensione nella pratica, nell’azione
quotidiana. Solo in questo modo «...improvvisamente, come
luce che si sprigiona dallo scoccare di una scintilla, [la verità]
nasce nell’anima e da se stessa si alimenta». Che è poi il vero
senso della conoscenza esoterica.
13.Platone, Lettera VII, 341 B - 342 A.
102
Simbologia
Esattamente in questo punto si pone la nostra decisione
di includere in un testo sulla comunicazione il livello più
esoterico. Proprio per indicare che, nell’azione vitale, sta esattamente a chi agisce la possibilità di accedere a strati più
profondi di conoscenza.
Non con un approccio accademico, non da semiologo
o attraverso studi di iconografia, dunque, ma da essere umano che sente di esistere all’interno di qualcosa di più grande
di lui. E cerca le risposte, esplora se stesso con sincerità cercando di travalicare limiti che fanno parte di consuetudini,
condizionamenti, morali vecchie e stantíe che sono semplicemente i significati che altri uomini, prima di lui, hanno
attribuito alle cose.
Un uomo che impara a distinguere tra sapere (comunque utile, nell’organizzazione di dati e nozioni) e conoscenza, il primo – il “sapere” – frutto delle facoltà di una mente
raziocinante, la seconda – la “conoscenza” – aperta invece
a possibilità più vaste, il più delle volte non contenibili in
flussi lineari di pensiero.
Questo genere d’uomo non si accontenta e, nel suo
non sentirsi appagato non può che “andare oltre”, anche
rischiando di non trovare ciò che sta cercando, ma dando
interamente se stesso nell’impresa.
È così che costui, ponendosi di fronte al simbolo con
questa aspirazione a comprendere con tutto se stesso, diventerà a poco a poco in grado di “usarlo”, emancipandosi
dalla condizione di “essere usato” – come tutti siamo – dalle forze più grandi di noi.
103
Connessione umana
Allora egli metterà se stesso in quel simbolo, vitalizzandolo con la forza del suo desiderio, così che l’archetipo, il
significato e la forza di quel segno simbolico diventerà il
suo stesso potere.
Potere di fare.
Potere di essere.
E potere di comunicare, naturalmente, poiché riuscire a
portare nella propria esistenza ciò che, senza conoscenza, è
solo un vuoto segno, significa essere riusciti a trasformare
se stessi, fluidi nel mutamento, senza paura né padroni.
Significa essere diventati noi stessi un simbolo, e poter
di conseguenza comunicare ciò che si è senza mediazioni,
senza studio né controllo. Semplicemente con il cuore.
L’unica comunicazione che funziona.
Duplice valenza di un simbolo
Cos’è, dunque, un simbolo?
Come osserva lo storico August Wolf­stieg, «un simbolo
nasce là dove a un dato reale, un numero, una parola, un
segno, una pianta, un’immagine o un edificio, in breve, a una
cosa, si conferisce un senso più profondo di quanto essa non
possieda nella sua mera sussistenza reale – quando a queste
cose e alle loro forme si attribuisce una maggiore dignità e
un più alto valore di quanto ad esse non spetti propriamente,
quando alla cosa esteriore si dà un più profondo valore morale
104
Simbologia
o spirituale, rendendola così immagine di processi spirituali
non altrimenti rappresentabili.
«Il simbolo è allora l’inverso dell’allegoria, che realizza la
materializzazione sensibile di un’idea universale mediante la
rappresentazione di un processo unico [...] a partire da una
verità universale, l’allegoria cerca un’espressione sensibile per
un corso di pensieri già prima concepiti, mediante la rappresentazione di un singolo evento, ed è così cogente [cioè, che
costringe, NdR] per lo spettatore [...] il simbolo vuole, per
contro, elevare a validità universale un singolo concetto, una
singola sensazione [...] attenendosi costantemente a una cosa
già presente che fa da supporto e immagine, per evocare una
volta per sempre nella coscienza dello spettatore, mediante la
sua presenza, un determinato corso di pensieri, una verità
universale o un ammonimento. La forma sensibile lascia così
spazio in chi la contempla a ogni genere di rappresentazioni
e di interpretazioni».14
I simboli, quindi, presentano una duplice valenza: da una
parte descrivono sinteticamente un principio universale,
evocando nelle loro geometrie le leggi che lo rappresentano, dall’altra elevano qualcosa di già presente sul piano
manifesto a rappresentazione universale del principio che
sovrastà ad esso.
In ogni caso, essi fanno da tramite tra due dimensioni
14. August Wolfstieg, Bibliographie der freimauerischen Literatur, 3 voll.,
Burg. b. M., Leipzig 1911-1913.
105
Connessione umana
– due stati di diversa consapevolezza – in realtà per nulla
se­­parate.
Sono una “porta”, l’accesso tra due mondi. Al di sotto
c’è il sapere, con tutte le sottigliezze della mente razionale, oltre quella soglia sta la conoscenza, ovvero la possibilità di non essere “agiti” da quei simboli, diventando, al
contrario, agenti consapevoli.
Solo in quello spazio esistenziale – coscienti e presenti
a noi stessi – potremo allora davvero comprendere i simboli e ci sarà possibile utilizzarli con tutta la loro forza
evocatrice.
I numeri
«I numeri non furono gettati a caso nell’universo:
essi si disposero invece secondo un piano preordinato,
come le formazioni cristalline e le consonanze della scala
musicale, in perfetto accordo con le leggi dell’armonia».
A. Koestler
I numeri non sono un’invenzione di qualche straordinario
genio del­l’antichità. Esistono di per se stessi, collegati alla
molteplicità delle forme, nella dimensione dello spaziotempo materiale. Sono dei princípi, attraverso i quali è
possibile comprendere la nascita, lo sviluppo e l’evoluzione
di qualunque cosa nell’universo materiale. Rappresentano
degli archetipi che sottendono alle forme e alle idee di tutto ciò che possiamo conoscere e costituiscono un ottimo
106
Simbologia
strumento di conoscenza applicabile alla prassi quotidiana.
Secondo la filosofia di Pitagora (VI secolo a.C.), i nu­
meri costituiscono la chiave d’accesso privilegiata per la
comprensione delle leggi armoniche dell’universo; di qui il
loro valore simbolico posto in relazione con l’ordinamento
di tutte le cose che esistono.
Nella visione dei Pitagorici, ogni forma è esprimibile
nu­mericamente («tutto è numero») e i numeri stessi sono
“ar­­chetipi divini”, nascosti nel mondo ma evidenziabili at­
tra­verso una correlazione con le leggi che regolano il cosmo.
I numeri divennero così un’unità di misura e furono
considerati l’arché, il principio originario di ogni cosa, «il
legame principale, da sempre tale, che presiede all’essenza
delle cose» (Filolao, V secolo a C.).
Sulla base dell’evidenza che la periodicità dei cicli co­
smici era riconducibile a unità numeriche, nacque succes­
sivamente la convinzione che i numeri non fossero solo un’unità di misura antropomorfica ma veri principi
dell’ordinamento cosmico, qualità originarie dell’universo,
tracce “assolute” di potenze soprannaturali e, dunque, autentici simboli della divinità.
Tutto ha origine da “un numero che non è un numero”: lo
zero, vero e proprio paradosso concettuale. Pur non avendo
un valore proprio, esso è tuttavia in grado di influire sul valore di ogni altra espressione. Nel sistema decimale, infatti,
completa una serie (la decina), fornendo allo stesso tempo
la base per una prosecuzione della serie, fino all’infinito.
107
Connessione umana
Lo zero non è come le altre cifre: per non rimanere
inespresso necessita di un supporto, e sarà solo nel dieci
che diventerà comprensibile, con la chiusura di un ciclo.
Senza lo zero l’opera – il ciclo della manifestazione – rimane incompiuta, ma è anche vero che il concetto di zero
viene prima dell’uno, prima dell’inizio del tutto. Come
dire, cioè, che la fine si identifica con ciò che viene prima
dell’inizio.
Questa idea che noi consideriamo “il nulla” è così lo
spazio da cui proviene l’origine del ciclo della manifestazione e nel contempo ciò che ne consente il compimento. È il
vuoto (prima) e il pieno (dopo), ed è inconcepibile per la
mente, visto che il pensiero è un prodotto della manifestazione e sorge successivamente al vuoto che la genera.
Per questo motivo, l’unico modo per “parlarne” è quello di utilizzare la forma del paradosso, espediente presente
in molte tradizioni. Attraverso un’affermazione paradossale, infatti (per esempio nei koan dello Zen), la mente
viene spiazzata, producendo una lacerazione nel tessuto
logico-temporale. Si apre all’improvviso una “porta” attraverso la quale si può intravedere ciò che è oltre la logica,
non‑definito e non‑limitato.
In ogni caso, solo arrivando all’espressione del dieci
potremo cogliere – e solo in parte – il principio dello zero, il che significa che bisogna percorrere l’intero ciclo per
poter cominciare a comprendere “qualcosa” dell’origine.
Il simbolo che meglio rappresenta lo zero è il serpente
Ouroboros che ingoia la sua stessa coda. Idea di un’identità
108
Simbologia
tra inizio e fine, nonché di una ciclicità, ovvero una dimensione di esistenza cui lo zero appartiene e alla quale, nello
stesso tempo è estranea.
0
Qui sopra vediamo appunto raffigurato un Ouroboros,
insieme al simbolo Zen ku (vacuità) e ad una riproduzione
del valore “zero” in un moderno carattere tipografico.
Nello zero, risiede un’assoluta possibilità. Visto che ancora
non è stato creato nulla, in quello spazio tutto è ancora
possibile.
Qualunque donna, diciamo, ha la possibilità di essere eletta Miss Italia, ma perché questa possibilità si possa
tra­sformare in potenzialità occorre almeno iscriversi alle
selezioni. Fino alla serata finale, allora, chi si è iscritta è una
“potenziale vincitrice”.
Ecco dunque che l’assoluta possibilità dello zero si concentra in un solo punto, in cui diviene l’Unico, la potenzialità assoluta. Quella densità infinita che, secondo la scienza,
ha dato origine al Big Bang.
Nel cerchio vuoto compare ora un punto, che – lo diciamo per inciso – è anche il
simbolo del sole nella simbologia astrologica.
109
Connessione umana
Se il mio sogno è sempre stato quello di vincere la maratona alle Olimpiadi – e, in quanto essere umano, ne ho la
possibilità –, ora che mi sono iscritto alla gara per i prossimi
giochi ne ho anche l’assoluta potenzialità; confrontandomi
con altri concorrenti, potrò coronare il mio sogno. Ma, per
riuscirci, devo prima fare una cosa: cominciare a correre.
Ebbene, il momento in cui mi sistemerò alla linea di
partenza, in attesa del colpo di pistola, sarà l’inizio, il momento in cui il processo è già entrato nella sua fase realizzativa, sebbene non sia ancora stato realizzato nulla.
Ecco. Quel punto, quel momento, è l’uno, il principio
del movimento, che rende inevitabile ciò che ne seguirà.
Un principio dinamico – l’inizio, l’interfaccia fra immobilità (che non c’è più) e movimento (che non c’è ancora)
– in cui sta riposto il segreto del “fare”.
La nostra mente è piena di progetti, sogni, aspirazioni.
Tutte possibilità che rimangono il più delle volte inespresse. Qualche volta, però, attraverso un’opportunità che si
crea o una nostra precisa decisione, qualcuna di queste
possibilità si fa potenzialità. Ma c’è un momento, un punto – un solo punto, più un “click” della mente che un
tempo reale – in cui sappiamo con certezza che “faremo
quella cosa”.
Quello è esattamente l’uno, il centro immobile della spirale creativa, che
innesterà il movimento degli altri numeri, l’azione vera e propria.
110
Simbologia
Parlare del due è un problema. La mal interpretazione di
questo principio ha prodotto sconquassi nella storia del
pensiero, introducendo visioni dualistiche e manichee.
Il concetto del male, del peccato, è proprio collegato alla
concezione del due come antitesi all’uno. E questo è profondamente sbagliato.
Il due è un aspetto della manifestazione dell’uno, non è
un’altra cosa rispetto ad esso, né un suo prodotto.
Nella serie della decina – dall’uno al dieci, ovvero il
percorso che ci porta a comprendere qualcosa dello zero
– assistiamo a un processo, a una dinamica (già presente
nell’uno) che pian piano si svolge, manifestando progressivamente qualcosa.
È l’espressione della dinamica residente nell’uno che
genera il due, che non è qualcosa di nuovo o diverso
dall’uno, ma l’evidenziazione di un suo aspetto prima
inespresso.
Il due nasce dall’uno che si muove. È il movimento
dell’uno, cioè l’uno in azione, ciò che l’uno fa.
Il punto (uno) in sé è immobile, non ha un verso, una
direzione. Solo nel momento in cui si muove – in cui
“fa” – stabilisce una linea che è duplice (due) – alto-basso,
destra-sinistra, avanti-indietro, ecc. – rendendo così possibili, contestualmente, due possibili stati, interdipendenti e reciprocamente necessari.
Teniamo comunque presente – come sarà per tutti
gli altri numeri – che il due è senz’altro una “qualità di
manifestazione dell’uno”, ma costituisce anche, nel mo111
Connessione umana
mento stesso in cui questa qualità si manifesta, un nuovo
principio.
Muovendosi, dunque, l’uno stabilisce necessariamente
una direzione. Non preordinandola, ma semplicemente
attraverso “l’atto di muoversi”. Ma quella direzione può essere percorsa nei due versi, avanzando o arretrando. Muovendosi, l’uno, ha così posto in atto due possibilità, due
“nuovi” punti: quello di partenza e quello di arrivo. Due
punti che sono lo stesso punto originario, pur essendo diversi da questo e diversi fra loro.
Ecco dunque sorgere un nuovo principio, che in geometria definisce la linea, ovvero una direzione nello spazio
che, prima del due, era inerte.
Si è dunque creata una coppia, due punti che noi possiamo percepire in opposizione, ma anche come complementari. La nostra vita ne è piena, tanto nell’osservazione
del reale, quanto nei processi del pensiero.
Osserviamo infatti la luce e il buio, il giorno e la notte,
il caldo e il freddo, ma sperimentiamo anche idee di simpatia o antipatia, attività e inerzia, e siamo sempre propensi
a “spaccare il mondo in due”, piuttosto che soffermarci
sugli infiniti “grigi” che costituiscono il percorso dal bianco
al nero.
Ogni volta che utilizziamo il pensiero duale (che è poi
il linguaggio “digitale” della nostra mente) mettiamo nostro malgrado in relazione due elementi opposti (e complementari) come se esistesse un’entità che sovrastà ad essi e li
112
Simbologia
accomuna, una medaglia che è il senso delle due facce che
la compongono. Qualcosa che, nel due, parla dell’uno, che
parla dell’uno attraverso il due.
Questo “qualcosa” è il tre, presenza dell’uno nel due, che
costituisce il substrato del legame fra gli opposti. Ciò che in
termini esistenziali chiamiamo attrazione, desiderio, amore.
Un’energia che può però manifestarsi solo dalla contemporanea presenza dei due termini: scaturita dal due, lo
rende “coppia”, paio complementare, rendendo così l’opposizione un legame.
Questa forza, però, non riunisce la coppia, non riporta
il due all’uno, come le semplificazioni di tante teologie o
filosofie erroneamente propongono, ma mette in atto piuttosto una traenza, un desiderio di unità che fornirà la spinta
all’intera manifestazione successiva.
Non è un caso che molte religioni postulino una Trinità – o una Trimurti – all’origine della manifestazione, né
che in geometria il tre permetta la costruzione del triangolo, prima figura piana possibile che definisce una superficie, uno spazio circoscritto in cui può avvenire “qualcosa”.
La traenza del tre è forte, primordiale, istintiva: La sua
energia unificante ci conferma che gli opposti che sperimentiamo sono intimamente collegati e rappresentano
l’espressione di una medesima essenza, che li accomuna
e li attrae l’uno verso l’altro. Un’energia che è desiderio, e
che costituisce il “motore” della manifestazione, tanto nel
micro quanto nel macrocosmo. Un’energia che certamente
riporta il due all’uno, ma... non a “quell’uno”...
113
Connessione umana
Il tre, infatti, riproduce senz’altro un’unificazione dell’uno,
ma non riportando all’unità originaria, bensì generando
un’unità successiva, effetto dell’azione del tre sul due.
Si tratta di un uno “visto attraverso il due”, l’unico uno
possibile dopo la manifestazione del due. Un nuovo termine che appartiene dunque a pieno titolo alla manifestazione, ma mantiene un “profumo” di quell’uno originario.
Il desiderio di fusione degli opposti, genera quindi un
quarto termine, che è nuovo rispetto ai principi già in atto.
Un principio che, nello stesso tempo, ha e non ha la medesima natura dell’uno. È l’uno “raccontato” dal due, cioè
la definizione di ciò che è immanifesto (l’uno immobile)
attraverso il ricorso alla sua manifestazione, una sua “proiezione”: il quarto termine. Cioè il quattro.
Attraverso il simbolo, tutto questo processo vede inizialmente il punto – l’uno – manifestarsi nel movimento
che, reso in forma duale, genera il due, su un piano inferiore
un’energia unificante (il tre) rende la dualità “coppia” generando una traenza verso l’uno originario, tensione all’unità
114
Simbologia
cosa che dà origine a un quarto principio che, non potendo ricongiungersi all’uno, genera ciò che possiamo considerare l’uno posto su un piano inferiore a quello del due
il quattro è quindi collegato all’uno in quanto ne rappresenta la “proiezione” su un piano manifesto. È la possibilità di cogliere l’unico nella manifestazione, la presenza di
uno spirito immateriale nella materia.
Soprattutto, è la possibilità di dire ciò che non può
essere detto; di evocare, attraverso qualcosa che non è
l’origine, l’origine stessa. La natura del Creatore colta in
virtù del suo manifestarsi.
In sostanza, è anche la nascita del simbolo. Cioè la possibilità di rappresentare su un piano materiale qualcosa che
sta “oltre” e che, altrimenti, rimane del tutto indescrivibile.
Proprio in questo punto si pone una questione importante: quella della realtà del mondo.
Se consideriamo che il quattro – cioè tutto ciò che esi115
Connessione umana
ste – non è l’origine, allora è vero che l’universo materiale
(come sostengono alcune filosofie) è un sogno, un’illusione priva di ogni consistenza.
Ma è altrettanto vero che lo stesso concetto di realtà
– così come viene inteso – origina proprio con il quattro.
Ragion per cui tutto ciò che sperimentiamo è reale
nella misura in cui viene dal quattro in poi, su tutti i piani
che stanno “al di sotto” del piano del quattro. È reale per
chi – o cosa – appartiene a questi piani e ne fa parte, per
chi, “guardando dal basso”, vede in ciò che ha la sua stessa sostanza riflessa la realtà dell’uno.
Se ci poniamo dal punto di vista dei piani superiori,
invece, allora la realtà è illusoria, poiché “da là” il riflesso è
percepito come una non-realtà.
Tutto ciò è un processo innescato dall’uno nel momento in cui “ha deciso di muoversi”. Un processo creativo,
quindi, che, in termini religiosi, corrisponde alla creazione
del mondo.
Per questo nella simbologia si parla dei “quattro pilastri
della creazione”, per questo gran parte delle culture riconosce fuoco, acqua, aria e terra come gli elementi da cui
origina ogni cosa, ed è per lo stesso motivo che la prima
figura tridimensionale – la prima forma che definisce lo
spazio così come noi lo percepiamo, attraverso lunghezza,
larghezza e altezza – è il tetraedro (la piramide a base triangolare). Dal tre, procede un altro punto, che definisce uno
spazio tridimensionale in cui si colloca tutto ciò che esiste,
come riflesso dell’uno originario.
116
Simbologia
Possiamo considerare il quattro come lo spazio concreto
della nostra esperienza. Se l’uno corrisponde al principio
Fuoco, crogiuolo primordiale in cui tutto è potenzialità, e
nel suo movimento genera il due – principio inerte e passivo (Acqua) in cui però si rende possibile una direzione
– con il tre, il principio della manifestazione, avremo l’elemento Aria, energia unificante che porta la coppia a riconoscersi come tale. Aria, elemento impalpabile (lo Spirito), elemento del “contatto”, del rapporto, della mente,
matrice immateriale dell’agire concreto nella materia.
Ecco finalmente la materia, la dimensione con cui
abbiamo a che fare, la Terra, il quarto elemento, rappresentata appunto dal quattro.
La Terra, lo stesso termine con cui chiamiamo il pianeta in cui viviamo, lo spazio in cui si compie la nostra
esperienza, il “regno del quattro”, l’universo materiale in
cui siamo inseriti.
117
Connessione umana
Da sempre, simbolicamente, questa dimensione viene ovviamente rappresentata come un quadrato ed è interessante osservare come anche gli spazi su cui rappresentiamo
un’idea (fogli, libri, foto, monitor di computer, schermi
televisivi, cinematografici, ecc.) siano sempre dei quadrati
– seppur sovente nelle loro varianti rettangolari – come se
non avessimo che quella forma per delimitare lo spazio di
ciò che vogliamo rendere concreto.
D’altronde, ogni volta che si è voluto rappresentare
uno spazio esperienziale, si è sempre ricorsi al simbolo del
quadrato, come possiamo ben vedere nei labirinti, nelle
scacchiere (campo dell’azione) o anche nelle rose dei venti,
orientate alle quattro – ancora quattro – direzioni.
118
Simbologia
Sul piano della rappresentazione simbolica, possiamo anche raffigurare il movimento dell’uno nelle due direzioni
che definiscono lo spazio. Una linea verticale (che rappresenta la componente attiva, positiva, maschile, solare – i
cinesi direbbero yang – della coppia originaria) e una orizzontale, per la componente ricettiva, negativa, femminile,
lunare, o yin.
Il movimento dell’uno ha posto in essere una doppia possibilità, che si qualifica come coppia opposta e complementare, cioè il due.
Ma il desiderio di ricongiungimento, la tensione all’unità originaria, scatena una forza – il tre – che permette
alle due linee di scoprirsi parte di una coppia, di “sentirsi”
collegate, al punto da formare qualcosa di nuovo, un
principio manifesto che ricorda l’uno originario.
È il simbolo della croce, quello che definisce la realtà
della materia manifesta, l’evento che permette all’uno di
“proiettarsi” sul piano della manifestazione, e non a caso
119
Connessione umana
ha rappresentato il simbolo del Cristo che, nella sua realtà
storica ed esoterica, proprio questo genere di evento incarnava.
È il Tetragrammaton (quattro segni) della Kabbalah
ebraica, il sacro Nome di Dio, formato appunto da quattro
lettere (Iod, He, Vau, He, traslitterato jhvh). Ognuna delle
quattro lettere che lo compongono rappresenta un’energia
attiva nella Creazione e nella vita.
Quattro princípi, dunque, quattro elementi e quattro
le lettere del nome impronunciabile. Quattro anche gli evangelisti che portano al mondo la parola; quattro i bracci della croce e le direzioni dello spazio, i punti cardinali
e le stagioni.
Quattro è la base del mondo, creato con fuoco, acqua,
aria e terra. È il numero della manifestazione, la realtà di
maya, l’unico nell’universo dei sensi.
Il Fuoco espresse la volontà di Dio
e l’Acqua la accolse;
l’Aria la trasmise alla Terra,
che partorì ogni cosa.
Prima ancora di diventare il simbolo del Cristianesimo, la
croce ha sempre rappresentato questa conoscenza, generando simbologie anche diverse, ma sempre collegate al principio descritto. Dai reperti preistorici di epoca neolitica,
alla croce ansata egizia (ankh), alla swastika tibetana o giai­
nista, alla croce azteca di Tlaloc, fino a tutte le interpreta120
Simbologia
zioni generate dagli ordini cavallereschi e dalle fusioni con
altre culture (come la croce celtica), il simbolo ha comunque sempre voluto rappresentare l’evidenza di un principio
spirituale che si rende manifesto nella materia.
121
Connessione umana
Fermiamoci ora per un attimo. Lasciamo decantare (prima di “dare i numeri” veramente) e proviamo a chiederci
che cosa significa tutto questo.
Dalla comunicazione siamo passati a qualcosa che appare più astratto. Certo interessante, ma cosa c’entra con
la “nostra” comunicazione?
In realtà, quello di cui stiamo parlando è il “cuore” della
comunicazione. È il linguaggio, cioè, attraverso cui, nel nostro mondo, tutto comunica: numeri, geometrie, elementi,
forme, colori, suoni, parole e concetti non costituiscono
che complesse elaborazioni di questi principi di base. Sono
i “mattoni” con cui è edificato l’intero edificio.
Attenzione però a non farne una costruzione intellettuale (anche se nelle pagine precedenti abbiamo dato certo
il nostro contributo), perché si tratta di principi che vanno
realizzati e, come abbiamo detto, non sono “la verità”, ma
solo una soglia, una “porta” al di qua della quale – nel “regno del quattro” –, senza una vera consapevolezza, siamo
destinati a subirne il potere, o ad essere assoggettati al potere di coloro che li utilizzano per loro scopi.
A proposito di questo tema, ricordiamo il dialogo di
un film, apparso nelle sale qualche anno fa, 15 che ci sembra possa ben rappresentare la preoccupazione appena
espressa. Lo riportiamo di seguito brevemente.
15. The Oxford Murders, di Álex De la Iglesia, Spagna, Francia, 2008.
Con Elijah Wood, John Hurt, Leonor Watling, Julie Cox e Anna
Massey.
122
Simbologia
Il contesto è una lezione in un aula universitaria di Oxford.
Un celebrato docente di filosofia tiene un’affollatissima lecture sul tema della verità:
«...Wittgenstein ha fissato i limiti del nostro pensiero. L’enigma che egli ha tentato di risolvere era il seguente:
Possiamo noi conoscere la verità?
Tutti i grandi pensatori della storia hanno a lungo cercato
una singola certezza, qualcosa che nessuno potesse confutare,
come “due più due fa quattro”.
Per trovare questa verità Wittgenstein utilizzò di fatto la
logica matematica. Quale mezzo migliore per ottenere la certezza di un linguaggio immutabile, svincolato dalle passioni
degli uomini?
Procedette lento ma deciso, equazione dopo equazione,
con metodo impeccabile, finché non raggiunse una terrificante conclusione: “non esiste verità alcuna al di fuori della
matematica. Non c’è modo di giungere a una singola verità
assoluta, a un ragionamento irrefutabile che possa aiutarci a
rispondere ai quesiti dell’umanità”. La filosofia, di conseguenza è morta, perché su quello di cui non possiamo parlare, è
opportuno che rimaniamo in silenzio...».
A questo punto si alza un allievo (il protagonista del film)
che dice:
«...Io credo nel numero phi, nella sezione aurea, nella successione di Fibonacci. L’essenza della natura è matematica: c’è
123
Connessione umana
una significato recondito al di sotto della realtà. Le cose sono
organizzate secondo un modello, uno schema, una successione logica, anche un fiocco di neve nasconde nella sua struttura un principio numerico. Di conseguenza, se scopriremo
il significato nascosto dei numeri, conosceremo il significato
nascosto della realtà...»
Il professore ascolta, sbarra gli occhi, si mostra sorpreso (è
interpretato da un grandissimo John Hurt: andrebbe guardato anche solo per questa scena...) e replica:
«...Sorprendente, ci troviamo di fronte a una nuova appassionata difesa della matematica, come se i numeri fossero idee
preesistenti all’interno della realtà.
«In ogni caso non è una cosa nuova: dato che l’uomo è
incapace di conciliare pensiero e materia, tende a conferire
una sorta di concretezza alle idee, non sopportando il concetto
che quello che è puramente astratto esista soltanto nel nostro
cervello.
«“La bellezza e l’armonia di un fiocco di neve...” Che
delicatezza! “La farfalla che batte le ali e scatena un uragano
dall’altra parte del mondo...”. Si sente parlare di questa dannata farfalla da decenni, ma qualcuno è stato capace di prevedere anche un solo uragano? Nessuno al mondo!
«Mi dica una cosa: ma dove sta la bellezza, dov’è l’armonia nel... cancro? Cosa spinge una cellula a trasformarsi al­
l’improvviso in una metastasi assassina e a distruggere le altre
cellule di un corpo sano? Qualcuno di noi lo sa? No. Preferiamo pensare ai fiocchi di neve e alle farfalle invece che al dolore,
124
Simbologia
alla guerra, o a quel libro... Perché? Per il nostro bisogno di
credere che la vita abbia un significato, che intorno a noi tutto
sia governato dalla logica, e non da mera casualità...
«Se io scrivo due, poi quattro e sei, ci sentiamo tranquilli,
perché sappiamo che dopo verrà un otto: possiamo prevederlo.
Non siamo in totale balìa del destino...
«Sfortunatamente, però, tutto ciò non ha niente a che fare
con la verità. Non siete d’accordo?
«Questa è solo paura...
«È triste, ma così è...».
La verità sta oltre quella porta, oltre i simboli stessi, oltre il
“regno del quattro”, che semplicemente – l’abbiamo detto
– “ricorda” l’unità e la rappresenta. Ma non si tratta dell’unità, non si tratta della verità.
È certamente un fatto che il livello simbolico “fornisca”
una facile spiegazione delle cose, ma è altrettanto vero che
il simbolo, per quanto “iniziatore” (e in quanto “porta per
accedere”), rimane al di qua della comprensione. Solo oltre
di esso c’è la comprensione della verità, della vita, di noi
stessi e di dove vogliamo andare...
Possiamo disegnare qui un simbolo – qualsiasi esso sia
– e, attraverso di esso, cercare di utilizzarne il potere. Ma se
non siamo consapevoli delle forze in gioco, del significato
profondo della forma, della carica energetica che quella
figura può incanalare, della nostra stessa esistenza in questo
scenario che è la vita, non otterremo niente di niente.
Un simbolo senza consapevolezza di sé non è che un
125
Connessione umana
disegno senza forza, vuota forma. Come un vocabolo carico di significati in una lingua che non conosciamo (come
quando guardiamo quei bellissimi segni della lingua araba
– o degli ideogrammi orientali – cogliendone solo l’aspetto
estetico, senza mai comprenderne il valore linguistico).
Nella storia ci sono stati uomini che hanno incarnato
in se stessi la potenza di un intero universo di simboli.
Giordano Bruno, per esempio, ne ha fatto un sistema
straordinario che viene ricordato come “arte della memoria”, ma che era molto di più: una vera e propria architettura delle forze che muovono ogni cosa e, allo stesso tempo, una mappa in cui ritrovare se stessi e il proprio senso
nel mondo.
Un gigante della conoscenza, certo, ma anche un uomo come noi, curioso e determinato, che sapeva essere
pre­sente e consapevole in ogni respiro, anche davanti all’inquisizione e alla tortura.
Il simbolo serve per ricordarci che “esistiamo”, che siamo parte di uno scenario straordinario sempre in mutamento. E dentro questo simbolo, allora, potremo “metterci delle cose”, potremo “disegnare” la nostra presenza,
il nostro contributo al cammino dell’uomo, attraverso il
pensiero, le idee, la sensibilità, i sentimenti, il coraggio o
l’ideazione di oggetti, opportunità, occasioni di servizio per
il benessere di coloro con cui entriamo in contatto.
Lo faremo da manager, da impiegati, da insegnanti,
da padri di famiglia, da funzionari pubblici, da artigiani,
da amanti... Lo faremo da uomini, consci che tutto ciò
126
Simbologia
che è inerente alla vita, dipende anche da noi, per poco o
tanto potere che ci venga attribuito.
Torniamo ora ai “nostri” numeri e, insieme, ai simboli che
da essi si sono generati. Eravamo arrivati al quattro, e alle
forme simboliche del quadrato e della croce.
In realtà, il processo della formazione di questi due
simboli è inverso a come lo abbiamo enunciato. Il due,
attraverso la forza del tre, si congiunge, ritrovando la percezione di quell’unità perduta. Ma questa unione è un’altra
cosa, un principio diverso che nasce da quei due poli, ma
non è loro. Non è né due, né uno, che non esistono più,
poiché è andato a formarsi qualcos’altro: il “sogno” dell’unità che prende sostanza divenendo area, superficie, spazio.
Possiamo notare che, nel formarsi della croce e nel suo
riorientarsi, passando dal rombo al quadrato, esiste un unico punto immobile del processo. È il punto centrale, il
“cuore” della croce, che è anche il suo riconoscersi nell’uno,
il collegamento con la sua causa. Un punto che è presente
anche nel quadrato e si manifesta con la nascita del quattro.
127
Connessione umana
Con la dispersione della croce nello spazio, quel punto ha perduto la memoria della propria origine, eppure
continua a contenere, all’interno di sé, un collegamento
intimo con la fonte. Si sveglia all’interno del suo sogno,
nello spazio materiale del quattro, al quale appartiene. È
il punto all’interno del quattro, la materia animata, il sognatore che prende coscienza di sé sognante.
È dunque il cinque, la terra consapevole di sé che non
cessa tuttavia di essere ciò che è. È il numero della realizzazione, la pietra filosofale degli alchimisti, la quintessenza
(“quinta” essenza) di Aristotele e dei neoplatonici rinascimentali. Il quadrato, attraverso il punto centrale, ha preso
coscienza di sé, si è “ricordato” della sua origine, divenendo
consapevole di essere una manifestazione dell’Unico.
Consapevole dell’origine, ma inserito in uno spazio,
di cui entra a far parte, riorientandolo, con una punta
verso l’alto, di nuovo verso l’asse terra-cielo.
Non si tratta più, quindi, di uno spazio di esistenza
inerte, ma vivificato e consapevole di essere. È il pentagramma, lo spazio in cui i quattro elementi, vivificati dalla
quintessenza divina, interagiscono fra di loro, tracciando
infinite combinazioni nell’espressione della materia,
128
Simbologia
Quell’Uomo di Vitruvio di Leonardo da Vin­ci, tanto
gettonato dovunque e reso un bellissimo arazzo di tela in
vendita all’Ikea, non è altro che quel genere di simbolo,
il senso di un essere umano (una forma pentacolare) che
realizza il suo posto nel mondo (il quadrato) memore della
sua origine (il cerchio).
Ma possiamo ritrovare il concetto in innumerevoli altri
simboli, primo fra tutti il pentacolo di base, presente in
tutte le tradizioni e trasformato in “stella” nei disegni dei
bambini e negli addobbi natalizi (ma avete mai guardato
una stella in cielo? Dove sono le cinque punte? Chissà come mai se le sono “inventate”...). Tra l’altro, il suo rovesciamento allude a una negazione del principio cosciente,
quasi a volerne negare l’origine divina.
Attenzione, però, non fatevi troppo influenzare dai
129
Connessione umana
film e dalla letteratura pseudo-esoterica: così come viene
proposto, il pentacolo rovesciato non è che un disegno...
Lo ripetiamo, un simbolo è privo di potere in sé, deve
essere vivificato dall’intenzione di un essere consapevole,
e se anche è possibile incontrare qualcuno che fa dell’intenzione malvagia la sua ragion d’essere, è dalla sua ignoranza che dobbiamo guardarci, non dai segni che traccia
per fare paura agli altri e sentirsi più forte.
Quanto ai numeri, ci fermiamo qui, non perché l’argomento sia esaurito, ma semplicemente perché non vogliamo fare di un testo sulla comunicazione un manuale di
numerologia (o meglio, aritmosofia).
Ci può bastare quello che è stato detto, visto che il
nostro intento era quello di aprire uno spiraglio sul significato dei simboli come segni non tracciati a caso, ma
densi di significati profondi e molteplici.
Per millenni, la storia dell’uomo si è servita di questi
segnali per “raccontare” qualcosa, prima ancora che con
le parole. D’altronde non è semplice verbalizzare concetti
così legati all’intuizione di ciascuno e, soprattutto, alla
sua possibilità di comprensione.
Da questo punto di vista, un simbolo mente meno che
non le parole. È inequivocabile nel suo enunciare un significato: poi, il fatto che venga o meno compreso è un’altra
faccenda. Il più delle volte, infatti – soprattutto oggi –,
rimane un grazioso disegno ornamentale, totalmente privo
di alcun potere.
130