Tra Percedol, il Monte Orsario e Monrupino Dario Gasparo (testo, disegni e foto) con il contributo di Riccardo Ravalli, Ambra Betic, Elio Polli, Maria Luisa Perissinotto (“Morfologie carsiche di superficie in rocce carbonatiche”) e il Catasto Grotte della Regione FVG. L ’itinerario parte dalla dolina di Percedol e sale con il sentiero 43 nella Riserva Naturale Regionale del Monte Orsario. Da lì prosegue alla Rocca di Monrupino per chiudersi al punto di partenza, percorrendo un ampio anello che consente di farsi un’idea esaustiva del territorio carsico, con le sue peculiarità antropiche, geologiche e vegetazionali. L’intero percorso ha uno sviluppo di una decina di km. Queste zone conservano numerosi percorsi, probabilmente già utilizzati in età protostorica e romana, che sfruttano anche l’antica viabilità agricola che collegava i borghi con limitrofe zone di pascolo nonché aree a bosco. Testimonianze del periodo preistorico e protostorico sono state messe in luce da scavi archeologici condotti in molte delle cavità che si aprono in questa zona e sulle alture, un tempo sede, fra metà del II e I millennio a.C., di villaggi fortificati, che caratterizzano ancora oggi il paesaggio carsico con le poderose macerie delle cinte murarie di questi abitati, quali quelle visibili presso la Rocca di Monrupino, sede proprio di uno di questi abitati, meglio noti come castellieri. Tracce di un passato non così remoto sono costituite oggi dai muretti a secco per la delimitazione di proprietà, anche conseguenza dello spietramento dei campi, e da numerose cave, dismesse e in attività. D al punto di vista naturalistico, l’uso del territorio per il pascolo ha dato vita alla landa carsica, tipico ambiente ricco di endemismi vegetali (anche per la selezione dovuta all’azione dei pascolo e dello sfalcio). L’abbandono progressivo delle pratiche agricole ha comportato un cambiamento degli ambienti e una perdita di biodiversità, con la riduzione delle superfici a landa, causata del progressivo rimboschimento naturale con arbusti (es. scotano e quindi bosco a querce e frassini). Ne deriva, tra l’altro, un aumento del rischio incendio. Lungo il percorso si ha modo di osservare la landa carsica, i prati falciati, la boscaglia carsica a ceduo, il rimboschimento a pino nero e la vegetazione delle doline. D al punto di vista geomorfologico, il processo di formazione della roccia calcarea è iniziato circa 120 milioni di anni fa in ambienti di scogliera, con climi tropicali, e piccole eterogeneità nella composizione, nello spessore degli strati rocciosi e nella struttura cristallina; a questi sono succeduti fenomeni chimici di dissoluzione carsica. Le rocce deformate dal sollevamento delle Alpi Meridionali, del Carso e delle Alpi Dinariche vengono esposte all’azione degli agenti atmosferici e dell’azione chimico-fisica legata al suolo ed alla vegetazione. Il sollevamento ha innescato fenomeni erosivi che nel tempo hanno allontanato le rocce più erodibili (il flysch formato da alternanze di arenaria e marna). Oggi si assiste oggi al risultato della progressiva dissoluzione della roccia carsica, in superficiale e in profondità, fino alla scomparsa dell’idrografia superficiale. In circa 10 milioni di anni è stato cancellato dal carsismo uno spessore di circa 300 m di roccia (3 cm ogni 1000 anni). La manifestazione più evidente di questo fenomeno si ha, lungo il percorso, nei piccoli e grandi campi solcati, nella scannellature, nelle grize, nelle doline e nelle grotte. L’Abisso di Lazzaro Jerco, nei pressi della Dolina di Percedol, rappresenta una nuova finestra sul corso sotterraneo del Fiume Timavo, in un inseguimento che si protrae dall’800. L 'ambiente carsico, benché povero di un reticolo idrografico di superficie, è stato frequentato dall'uomo fin dai tempi più remoti, sfruttandone al meglio le risorse e le peculiarità. Le numerose grotte che si aprono anche in questa porzione del Carso triestino, compresa fra Monrupino e Fernetti, sono state oggetto di studi fin dalla fine dell'Ottocento da parte di speleologi e paletnologi, i quali hanno messo in luce importanti tracce del nostro passato: strumenti in pietra scheggiata e levigata, manufatti in corno ed osso, resti di pasto e grande abbondanza di frammenti di recipienti ceramici. Lo studio di questi reperti archeologici ha permesso di ricostruire una cronologia relativa della frequentazione di queste cavità, utilizzate come abitazioni/rifugi temporanei, come ricovero per gli animali o per sfruttare eventualmente l'acqua di stillicidio o stoccare derrate alimentari. Fra tutte la Caverna dei Ciclami si apre proprio ai margini del sentiero che dalla Dolina di Percedol conduce al Monte Orsario e fu scavata già da Raffaello Battaglia nel 1925 e poi da alcuni consoci della Commissione Grotte E. Boegan dell'Alpina delle Giulie a fine anni Cinquanta- inizio anni Sessanta. La grotta ha restituito molti materiali relativi ad un lungo arco cronologico di circa 8000 anni, con una stratigrafia che va dal Mesolitico al periodo romano. S ulla cima del Monte Orsario non sono oggi più visibili i resti di una sepoltura a inumazione sotto grande tumulo di pietra calcarea, cancellato dalla costruzione di opere militari risalenti alla seconda guerra mondiale. Il tumulo, individuato e segnalato già da Carlo Marchesetti, risale all'età del Bronzo e costituiva agli inizi del Novecento uno degli elementi integranti del paesaggio carsico, ben diverso da come ci appare oggi. Sul colle dove si erge la Rocca di Monrupino, sede in passato di un tabor e oggi importante santuario mariano; qui sorgeva un castelliere, villaggio fortificato su altura dell'età dei metalli, che con il suo perimetro di circa 1600 m è da considerarsi fra i più grandi del Carso triestino. Le imponenti strutture di fortificazione dell'abitato protostorico sono parzialmente tuttora visibili, benché anch'esse oggi a rischio conservazione, e si articolavano in tre cinte difensive concentriche, la più antica delle quali dovrebbe corrispondere con buona probabilità a quella sfruttata dal tabor. A monte di uno dei Torrioni di Monrupino, accanto all'attuale cimitero, sono facilmente individuabili tracce del vallo più esterno, la cui base poggia su un esteso campo solcato. Il muro è largo oltre 4m e ad un certo punto presenta un varco, successivamente chiuso da un muro, a lato del quale era stato costruito un largo bastione semicircolare. Analoga struttura, visibile salendo al santuario lungo la strada asfaltata sulla sinistra, era stata eretta a difesa della porta principale dell'abitato. Gli scavi condotti dalla Soprintendenza durante gli anni Settanta evidenziarono l'esistenza di grandi ripiani terrazzati all'interno del castelliere e in uno di questi a ridosso di un muro di cinta fu scoperto un battuto pavimentale realizzato con ciottoli calcarei, forse pertinente ad una delle abitazioni. Griza, solchi e scannellature carsiche, torrioni di Monrupino DALLA CONCA DI PERCEDOL AI CAMPI SOLCATI E ALL’ABISSO DELLA VOLPE STAGNO O CONCA DI PERCEDOL Dal 1984 l’area è soggetta a tutela ambientale per le numerose rarità faunistiche rappresentate soprattutto da anfibi e libellule. Il microclima della conca è progressivamente più freddo e più umido rispetto a quello esterno, cambiamento che si riflette anche sulla vegetazione, tanto che dal carpino nero e dal frassino posti sui margini esterni, si passa scendendo al cerro e al carpino bianco. Sul fondo della conca si incontra lo stagno, il più conosciuto di tutto il Carso, sulle cui sponde si alterna una grande varietà di piante spontanee, come ninfea e mestolaccia, o piantate dall’uomo, come abete bianco, greco, rosso, salice caprino e piangente. Lo stagno, amato in passato anche come pista di pattinaggio invernale, ha una profondità di 3 metri e un'ampiezza massima di 38 metri (circa 800 mc d’acqua). La sua formazione è probabilmente dovuta alla presenza di un letto impermeabile formato da flysch e da accumulo di terra rossa compattata. La dolina ha una lunghezza di 400 metri ed una larghezza di 270, con fondo pianeggiante 150 x 70 metri (dislivello – 34 m). Scendere sul fondo della dolina è come salire di 630 metri (sommati ai 300 metri del piano quota fanno una montagnola di 1000 metri). Nelle doline compare infatti il fenomeno dell'inversione termica: scendendo verso il fondo della dolina, la temperatura si abbassa. Le variazioni osservate sono mediamente di 1 °C per ogni 14 metri di profondità (6 gradi ogni 100 m, mentre salendo in montagna la variazione è 10 volte inferiore), ma possono anche arrivare a 1 °C per ogni metro di profondità nel caso di condizioni meteo ben precise di calma meteorologica (cielo sereno, bassa umidità, assenza di vento). In tali occasioni si possono facilmente riscontrare anche differenze di 30 °C tra il fondo e il bordo della dolina. Via via che si scende nella dolina si incontrano carpino bianco, frassino e quindi cerro e carpino bianco, pioppi, olmi e specie alloctone quali abete greco, abete rosso, salice caprino e salice piangente. Sul versante occidentale ci sono Cedri dell’Himalaia e su quello orientale le querce rosse (Quercus rubra) di origine nordamericana. Genesi di una dolina tipica. 1)La formatone di un punto di assorbimento accompagnato da altri di minore importanza attraverso gli strati calcarei, dà origine a una formazione a imbuto tendente ad allargarsi e approfondirsi. 2) Successivamente il punto centrale di assorbimento si chiude, e ai processi di demolizione e corrosione subentrano quelli di deposizione dei detriti sul fondo e lungo i pendii. (modif. da Dante Cannarella) Genesi di una dolina di crollo. 1) Da una o più fessure I'acqua penetra negli strati sottostanti originando una cavità che può essere anche di grandi dimensioni. 2) Proseguendo la sua opera di demolizione, l'acqua assottiglierà la copertura di superficie sinché questa crollerà originando un baratro che, con il tempo, si coprirà di terra acquistando così l'aspetto di una dolina. ABISSO DELLA VOLPE (100/155 VG) A circa 300 metri dal sentiero principale, verso est, si trova l’abisso della volpe. Il 26 settembre 1897 fu iniziata l'esplorazione di questo profondo pozzo naturale, scoperto nel maggio precedente da G. Walach; la cavità si rivelò la più impegnativa tra quelle affrontate sul Carso fino a quel momento. Per la discesa del grande pozzo interno si utilizzò per la prima volta un verricello posto in superficie. Il vasto imbocco si apre sul fondo di una dolina alberata che dal lato occidentale presenta un pendio di moderata inclinazione, mentre gli altri fianchi scoscendono con rocce dirupate e ripidi scivoli di terra e foglie. La roccia friabile è coperta da muschi e piante per lungo tratto; la sua struttura è complicata da vari ripiani e terrazzi, intervallati da speroni e nicchie dove vivevano dei gufi. Sul fondo, quasi piatto, non vi sono concrete prospettive di proseguimento anche se è probabile l’esistenza di nuovi vani sotterranei che portano a punti soffianti, palesemente in relazione con l'acqua sotterranea e le piene del Timavo. CAMPI SOLCATI A poco più di 1 km dalla partenza presso il parcheggio della Conca di Percedol, dopo aver percorso un bel tratto verso sud, si devia decisamente a sinistra piegando a nord-est lungo il sentiero 43. Una camminata di 5 minuti porta, sulla sinistra, ad un ampio spazio aperto occupato da un campo solcato. La genesi delle forme di dissoluzione carsica superficiale è determinata da agenti chimici (acqua contenente CO2 e gli acidi umici), fisici (fenomeni crioclastici, con azione di gelo e disgelo) e biologici (microrganismi che attaccano la roccia: batteri, microfite, alghe, licheni, muschi). Si possono distinguere fattori passivi (litologia, caratteri strutturali della roccia, condizioni geomorfologiche quali l’inclinazione della superficie) e attivi (i fattori biologici e il clima, con la disponibilità d’acqua, l’umidità, la temperatura, il gelo e disgelo). Il calcare è una roccia sedimentaria formata principalmente da carbonato di calcio, proveniente dai resti di gusci di molluschi (rudiste) e di foraminiferi (alveoline e nummuliti), e da altri minerali che a seconda del loro contenuto renderanno il calcare più o meno carsificabile. Infatti è il carbonato di calcio, determinante la purezza del calcare, che viene sciolto dall'acqua piovana resa acidula dall'anidride carbonica incontrata nel passaggio atmosferico, e ancora di più passando in un terreno ricco di sostanze organiche. Questo processo di dissoluzione che prende il nome di carsismo può interessare rocce calcaree superficiali (carsismo epigeo) e sotterranee (carsismo ipogeo). MICROFORME DI DISSOLUZIONE CARSICA SUPERFICIALE Le forme carsiche di superficie vengono distinte in microforme e macroforme. Le microforme, centimetriche o decimetriche, vengono indicate con il termine generico di Karren, a lungo interpretati come forme dovute all’erosione glaciale; la genesi per dissoluzione carsica viene enunciata appena alla fine del 1800 e classificata negli anni ’50 e ’60. Possiamo distinguere due principali forme di Karren in base al tipo di solubilità: - solubilità dinamica: azione dello scorrimento dell’acqua - solubilità statica: dissoluzione statica di acque stagnanti in depressioni Scannellature Si tratta di minuscole forme rappresentate da solchi rettilinei profondi circa 1 cm, larghi da 1 a 4 cm e lunghi 5-50 cm. Hanno sezione arrotondata e sono spesso riuniti a pettine, a penna, a fascio e a isola. Una crestina aguzza e tagliente funge da spartiacque. Sono tipiche delle superfici poco inclinate (le forme più in risalto si rinvengono sulle superficie con inclinazione fra i 20° e i 70°). L’inclinazione della superficie e la presenza di irregolarità fa sì che l’acqua scorra in filetti di corrente lungo la linea di massima pendenza, dando origine ad una prima incisione delimitata da due microversanti. L’incisione diventa una via preferenziale di incanalamento e scorrimento e si approfondisce progressivamente. Il campo solcato risulta suddiviso in piccoli bacini idrografici; quanto più fitta è la rete di spartiacque di tali bacini, tanto più numerose risultano le scannellature. Eventuali scannellature anomale, con traiettorie trasversali alla linea di massima pendenza, sono legate alla presenza di vento forte che devia il filetto idrico. Alla base delle scannellature si possono osservare spesso delle piccole conche che corrispondono alla zona in cui i filetti si riuniscono dando origine ad uno scorrimento in strati laminari. Solchi carsici a doccia Si tratta di solchi larghi più di 5 centimetri, profondi più di 3 cm e lunghi più di un metro, con direzione corrispondente alla linea di massima pendenza della superficie. Come le scannellature, seguono la massima pendenza della superficie calcarea ed hanno anch’essi sezione ad U. I fianchi possono essere più o meno acclivi e gli spartiacque più o meno aguzzi. Possono avere sviluppo contorto o rettilineo. Il fondo è liscio o incavato da un solco secondario e talvolta sono presenti delle conchette a gradini (un fiume in miniatura con marmitte). Spesso nella loro genesi interviene anche l’attacco biologico: dove si ha circolazione idrica, l’umidità è più alta e maggiore è l’attività biologica. Crepacci carsici Si tratta di profonde fratture, spesso vie di deflusso delle acque guidate dalla fratturazione. Fianchi molto inclinati, fondo piatto o a V. Sono simili ai solchi carsici, ma mentre in questi è la massima pendenza a guidare il defluire dell’acqua, nei crepacci sono i piani di discontinuità (quelli di frattura) che condizionano la direzione del deflusso. Vaschette di corrosione Si tratta di piccole conche chiuse profonde 2-50 cm e larghe da 5 a 200 cm. Sono tondeggianti e poco profonde rispetto alla larghezza, perché la corrosione è più attiva ai bordi che sul fondo. Nell’immagine sotto viene riportato uno schema delle tipologie di vaschette di corrosione (kamenitze) in sezione. Il fondo è quasi sempre orizzontale con sezione a piatto o scodella allargata alla base. Spesso è presente un canale emissario di scarico e talvolta, se originate lungo fratture, un bacino di impluvio. Vaschette di corrosione e canale di deflusso con scannellature Le vaschette di corrosione sono piccole conche di forma tondeggiante, elissoidale, o irregolare, con diametro variabile da pochi centimetri ad alcuni metri. Vaschette vicine coalescenti assumono una forma lobata. La profondità è inferiore rispetto al diametro, a differenza dei fori in cui la profondità è maggiore del diametro; inoltre nei fori l’acqua si perde, mentre nelle vaschette ristagna. Il fondo della vaschetta è generalmente orizzontale, anche se può presentare asperità frammenti di roccia. Le vaschette si formano su superfici pianeggianti o debolmente inclinate. Le vaschette possono presentare un solco emissario che funge da troppo pieno e scarica l’acqua in eccesso. Le vaschette attive hanno un colore più scuro della roccia circostante: bruno, nero o rossiccio. L’origine delle vaschette è probabilmente dovuta a fitocarsismo (o biocarsismo), per azione di alghe endolitiche. La formazione delle vaschette avviene su superfici poco inclinate, con depressioni in cui si ha un ristagno di acqua; in queste conche si accumulano sostanze organiche portate dal vento o da animali che si abbeverano. Si creano quindi le condizioni per insediamento di alghe endolitiche che attaccano la roccia direttamente ed inoltre, con la loro fotosintesi, producono anidride carbonica che acidifica l’acqua. La forma tondeggiante delle kamenitze è spiegata con la diffusione a macchia d’olio delle alghe e con conseguente attacco alla roccia in tutte le direzioni. La forma elissoidale osservabile in alcuni casi può essere dovuta al condizionamento della originaria depressione. Le vaschette si approfondiscono e si allargano gradualmente e regolarmente, ma la velocità con cui si allargano è maggiore rispetto a quella di approfondimento, per cui le kamenitze presentano sempre un diametro maggiore della profondità. Ciò è dovuto al fatto che i fianchi della kamenitza, essendo fuori da livello dell’acqua più frequentemente, subiscono un’azione di fitocarsismo più intensa e più rapida rispetto al fondo; le parti emergenti, infatti, rimangono imbibite d’acqua per capillarità, ed inoltre più intensi sono gli scambi di gas con l’atmosfera (scambi di ossigeno e anidride carbonica con la fotosintesi), e di conseguenza la crescita delle alghe è più rapida. Ciò spiega anche il mantenimento del fondo orizzontale: le asperità sporgenti dal fondo vengono rapidamente corrose. Vaschetta di corrosione più profonda. Si noti come i bordi siano in rilievo, taglienti e il fondo piatto Questo meccanismo spiega anche i bordi sottoescavati: la parte superiore, al di sopra del livello di sfioro dell’acqua, subisce la corrosione chimica sul bordo esterno, superiore, mentre nella parte inferiore, la presenza di umidità (per imbibizione e perché la zona d’ombra evita l’essiccamento) favorisce una rapida corrosione per biocarsismo. L’acqua di troppo pieno delle vaschette deborda, dando origine, con il tempo, ad un solco emissario sul lato a valle. Può anche accadere che un solco, allungandosi verso l’alto per corrosione, arriva ad intercettare la vaschetta. I solchi nella parte iniziale, prossima alla vaschetta, mostrano in genere delle superfici scure, per azione del fitocarsismo, mentre nelle parti più a valle hanno colori molto chiari poiché vi interviene la sola corrosione chimica. Quando i solchi si approfondiscono fino ad arrivare a livello del fondo della kamenitza, si determina lo svuotamento permanente della vaschetta, con la morte delle alghe; l’evoluzione della forma proseguirà per dissoluzione chimica e non più per biocarsismo: il fondo diventa concavo e di colore chiaro, i fianchi si svasano verso l’alto, spesso scolpiti da scannellature. Fori di dissoluzione Si tratta di micropozzi, tubi larghi da pochi mm a qualche cm, circolari o ellittici, “trapanati” verticalmente nella roccia in corrispondenza a fratture, fino ad un sottostante interstrato. La genesi avviene per dissoluzione lungo i canalicoli che si formano nelle fratture che vengono allargate progressivamente dapprima dal basso verso l’alto per capillarità e poi per circolazione dell’acqua. Essi fanno parte di una rete di vuoti costituita da fori, crepacci, cavità interstrato, piccole condotte, che drenano le acque provenienti dalla superficie morfologica esterna. Anche quando i fori sulla superficie esterna appaiono isolati, risultano anastomizzati tra loro sotto la superficie. Crepacci carsici Hanno forma allungata e spesso derivano dalla fusione di più fori allineati. Fori e crepacci si formano in corrispondenza della rete di fratture dell’ammasso roccioso, secondo sistemi di tipo reticolare a maglie rettangolari, romboidali o poligonali. In genere si tratta di forme di corrosione accelerata che una volta formate si allargano rapidamente. Essi si formano dal basso verso l’alto a partire da cavità di interstrato: quando la cavità è embrionale, l’acqua vi circola per risalita per capillarità, poi quando il foro diventa aperto, la forma evolve grazie alla circolazione di acqua e aria umida. I crepacci carsici si possono anche formare dall’alto verso il basso, per corrosione lungo fratture a causa delle acque scorrenti in superficie. I crepacci veri e propri si prolungano verso il basso restringendosi gradualmente nel piano della stessa frattura lungo cui si sono generati. Grize Si tratta di pietraie costituite da blocchetti di roccia staccati dal substrato roccioso per carsismo lungo le superfici di discontinuità e isolati, senza trasporto. Genesi tipica: allargamento di graffi, eventualmente associati a cavità d’interstrato, sino alla frammentazione in blocchi della roccia. Le grize di frana sono forme complesse derivanti dalla corrosione di accumuli di frana. Campi solcati Detti anche “campi carreggiati”, sono aree di affioramenti rocciosi nei quali sono presenti più morfotipi fra quelli descritti: solchi, scannellature, crepacci, vaschette ecc.. DALL’ABISSO DELLA VOLPE ALLA CIMA DEL MONTE ORSARIO Si prosegue lungo il sentiero 43 verso nord-est fino a raggiungere una carrareccia più ampia che piega verso est, a destra. Qui, sulla sinistra, a pochi metri dalla strada, troviamo due grotte importanti: la grotta delle Perle e la grotta dei Ciclami. GROTTA DELLE PERLE (569/2699 VG) L'ingresso della grotta si trova sul fondo di una dolina dirupata, a diciotto metri dal sentiero segnato n. 43. Il fianco meridionale della dolina è costituito da una parete strapiombante, alla base della quale sono accumulati massi e pietre, superando i quali si entra in un passaggio basso che sbocca in un corridoio in discesa dal suolo argilloso; in questo punto nel 1959 sono stati rinvenuti alcuni cocci e manufatti preistorici, a testimonianza del fatto che la grotta era stata visitata già in tempi assai remoti. Risalito un gradino, si giunge ad una prima sala con massicce formazioni colonnari, alcune delle quali appaiono spezzate, forse a causa di un movimento sismico relativamente recente. La cavità si chiude da questa parte con due basse caverne sovrapposte, dove le concrezioni ostacolano il passaggio; alla massima profondità della grotta si giunge, invece, seguendo una lunga galleria discendente dal suolo fangoso e con segni di una viva corrosione sulle pareti. Dopo la scoperta della nuova galleria nella vicina Caverna dei Ciclami (501/2433VG), si portò una poligonale tra il fondo di essa e l'estremità di questa grotta, accertando che tra i due punti vi è una distanza di 20m. E'indubbio che le due cavità erano un tempo unite in un unico ed esteso sistema sotterraneo. Durante una visita alla cavità , venne scoperta un'apertura situata alla fine del ramo discendente, nel punto che allora era il più profondo raggiungibile. Aperto un passaggio ci si trovò in un angusto vano da cui ebbe inizio l'esplorazione di questo insospettato, e quanto mai interessante, sistema di pozzi e gallerie. CAVERNA DEI CICLAMI (501/2433 VG) Questa cavità si apre a fianco del sentiero n. 43 che da Villa Opicina porta al Monte Orsario e si sviluppa in parte sotto il sentiero stesso. Si trova un centinaio di metri prima dello sbocco del sentiero sulla strada asfaltata che unisce Fernetti e Zolla, sentiero che poi procede per la cima dell’Orsario. la Grotta dei Ciclami riveste estremo interesse per lo studio della preistoria carsica ed un primo assaggio di scavo venne eseguito probabilmente dal Neumann. In seguito la grotta fu esaminata sommariamente dal Battaglia durante la campagna di ricerche del 1925. Nel 1959 la caverna venne presa in esame dalla Sezione Scavi e Studi di Preistoria Carsica della Commissione Grotte ed i lavori ebbero inizio con una trincea praticata a ridosso della parete Sud; con il procedere in profondità lo scavo divenne progressivamente più vasto e raggiunse, a cinque metri dal livello originario e dopo aver reso accessibile una diramazione ricca di concrezioni che si estende verso Ovest, uno strato sterile di argilla rossa. La stratigrafia messa in luce va dall'epoca romana al mesolitico ed ha dato un'enorme quantità e varietà di reperti: vasi (quasi 300), utensili, ornamenti, armi, oggetti microlitici, dai quali è stato possibile ricavare un quadro completo degli insediamenti umani avvicendatisi nella cavità lungo un lasso di tempo di oltre 6000 anni. A pochi metri dall'ingresso si apre il Pozzo dei Ciclami (1259/4200VG), mentre il punto più basso della nuova diramazione si trova ad una ventina di metri dall'estremità della Grotta delle Perle (569/2699VG), con la quale la Grotta dei Ciclami era unita un tempo in un unico sistema di sviluppo considerevole. Oltrepassata la strada asfaltata si può eventualmente raggiungere, lungo la strada asfaltata che da Fernetti conduce a Monrupino, vicino ad una dolina, la GROTTA DELL' ELMO (542/2696 VG). L’imbocco della grotta, verdeggiante di muschi ed altre piante, ha la forma di una larga fenditura, interrotta all'estremità SE da un piccolo ponte di roccia. La discesa del pozzo, le cui pareti sono accidentate da numerose nicchie nelle quali nidificano i colombi selvatici e che è senza dubbio uno dei più belli del Carso triestino, da qualunque punto la si faccia partire avviene sempre nel vuoto. Negli ultimi metri si apre la volta di una spaziosa caverna e dopo un piccolo ed erto cono detritico ricco di humus il suolo è occupato da grandi massi di crollo coperti di concrezioni; più avanti appaiono numerosi e suggestivi gruppi di stalagmiti e di colonne di grandi proporzioni. A ridosso delle pareti e tra gli enormi massi si aprono alcuni stretti pozzi verticali. La caverna termina con un piano d'argilla asciutta, ma in tutto il resto della cavità lo stillicidio è abbondante. Nel corso della prima esplorazione, nel 1929, ai piedi del cono detritico venne trovato un elmo di bronzo risalente al IV-V secolo, in parte ricoperto da una crosta di calcite e analogo a quello raccolto nella Grotta delle Mosche nei pressi di S. Canziano (Slovenia). RIprendendo il sentiero 43 appena superata la strada asfaltata, dopo aver visitato la grotta dei Ciclami, si supera il “Pozzetto presso Fernetti”, uno stretto budello verticale, lungo circa 3 m, che sbocca sulla volta di una cavernetta dove è possibile notare un ponte naturale largo m 4 x 2. Si supera anche la GROTTA A SE DI MONRUPINO (3254/5093 VG), una cavità che si apre sul fondo di una dolina: dopo due salti di pochi metri s'apre un pozzo, profondo 25m, con le pareti interessate da una forte erosione; alla sua base un altro saltino porta sul fondo della cavità, coperto da materiale clastico. Percorsi circa 200 metri si lascia il sentiero per una breve deviazione a destra (est) che ci porta ad una vasca di 3,6 x 3 m costruita su un campo solcato probabilmente fin dagli anni ’60. Sono presenti il tritone comune Lissotriton vulgaris meridionalis e il Rospo comune (Bufo bufo spinosus). Di forma pentagonale, la vasca è stata costruita sfruttando una depressione formatasi alla base d’alcuni lastroni calcarei leggermente inclinati. Il bacino è alimentato dall’acqua piovana che vi giunge pure da un solco situato a nord. Le dimensioni della vasca sono: 3,75 x 3,20 m e profondità, sotto il cordolo meridionale, di 70 cm. Si riprende il sentiero principale verso nord-est superando a destra e sinistra ampi tratti di landa incespugliata e una serie di grotte. Quando la strada piega decisamente a sinistra, è possibile abbandonare il sentiero per visitare il POZZO DEL MUSCHIO (1018/4058 VG). Il pozzo (una dozzina di metri) si trova sul limitato dosso che divide due grandi doline, vicinissime tra loro, ed è nascosta tra massi e rocce. E’ questa la zona denominata “Konjski Dol”, un sistema dolinare costituito da tre profondi avvallamenti, nei quali l’inversione termica è itale che l’ambiente racchiude una particolare vegetazione d’ambiente fresco ed umido, fra cui il raro elabro nero (Veratrum nigrum). Nei pressi del “Pozzo del Muschio”(1018/4058 VG, profondo 27 m), sul fondo della dolina, si erge un imponente esemplare di carpino bianco (Carpinus betulus), la cui circonferenza misurata da Polli nel 2008 era pari a 1,57 m. Subito ad ovest del carpino si trova una allungata e profonda vasca in roccia (90 x 40 x 54 cm), e nei pèaraggi si apprezza anche la èpresenza di alcuni notevoli cerri (Quercus cerris) e roveri (Quercus petraea). Si riprende il sentiero fino al punto in cui gira a destra, verso nord (selletta di quota 373, 9 m), e si può deviare a sud per circa 200 metri per visitare un’altra vasca utilizzata dagli anfibi. Dalla selletta di quota 373, 9 m si abbandona il tracciato svoltando a sinistra (sud) lungo un evidente solco, verso la quota di 377, 3 m posta a una novantina di metri. Si passa a sud-ovest della quota ed alcuni metri più in basso della cima, seguendo una pista usata dagli animali che vi si recano all’abbeverata, si perviene ad una capiente vasca in roccia. La raccolta d’acqua è stata adattata per limitare le perdite, creando oggi qualche problema nell’ambito della gestione dei geositi carsici all’interno del Sito Natura 2000. La vasca, descritta da Elio Plolli, è lunga 2,40 m, larga 2,29 m e profonda 0,37 m. Le uniche 3 cifre visibili sul suo margine meridionale indicano 196... L’ultima è un 8 o uno 0. Sul bordo occidentale è debolmente incisa nella roccia una croce. Polli segnala la presenza di Biancospino (Crataegus monogyna/monogyna), orniello (Fraxinus ornus/ornus), Rosa canina (Rosa canina/canina), Farinaccio (Sorbus aria), Roverella (Quercus pubescens) e Carpino nero (Ostrya carpinifolia). Nello strato erbaceo si rilevano la Peonia, il Sigillo di Salomone (Polygonatum multiflorum), la bocca di lupo (Melittis melissophyllum/melissophyllum), il Ranuncolo bulboso (Ranunculus bulbosus), il Vincetossico (Vincetoxicum hirundinaria/hirundinaria) e la Campanula piramidale (Campanula pyramidalis). Pochi metri a sud si trova un’altra vasca di corrosione chimica, di dimensioni 1,09 x 0,35 x 0,10 m. Di nuovo sul sentiero 43 si procede verso nord, e prima di tornare in direzione Nord-ovest si può deviare per circa 200 metri a destra verso la cima dell’Orsario, tra rocce scoscese, dove si apre la CAVERNETTA SUL MONTE ORSARIO (1430/4375 VG). La cavernetta è raggiun- gibile percorrendo un'esile traccia di sentiero. A causa del progressivo crollo della volta la caverna è ridotta ad un breve vano (la lunghezza è di una quindicina di metri); uno scavo effettuato a ridosso della parete destra non ha rilevato la presenza di resti preistorici. Rientrati sul sentiero si prosegue verso nord-ovest fino alla sella di quota 405 m, in presenza della boscaglia carsica. Qui si può raggiungere un’altra vasca, svoltando ancora a sud. Dal sentiero si deve superare una griza, una boscaglia, delle emersioni e in circa 300 metri, prima di giungere alla cima di 383 m con pietre infisse, si raggiunge la vasca utilizzata da molti animali (presenza di tritone comune Lissotriton vulgaris meridionalis). La vasca in roccia porta inciso sul margine occidentale la data 1961; essa si trova un’ottantina di metri a nord dalla selletta di quota 374,9 m, circa 500 metri a sud del bivio tra i sentieri 3 e 43. Ha dimensioni 1,87 x 0,93 x 0,35 m. Di nuovo sul sent. 43 si prende a nord fino a girare decisamente verso est, puntando alla cima dell’Orsario. Prima di arrivare alla vetta a quota 460 m possiamo deviare a sinistra verso l’altra cima (quota 447 m, Babice) con i suoi torrioni ruiniformi, la pineta, le grize, le pietre infisse, che si erge distante 600 m a nord-ovest dell’Orsario. Queste emersioni calcaree non sono più visibili dalla cima dell’Orsario perché sono sempre più avvolte dalla vegetazione, che le maschera alla vista. Attualmente questa cima secondaria è costellata di piccoli menhir eretti da qualche appassionato. Ritorniamo alla cima dell’Orsario: alla base dei ruderi della casermetta del 1938 costruita un’ottantina di metri a nord-ovest dalla cima del monte dell’Orsario, c’è una cisterna militare rettangolare, semi-coperta, di dimensioni: 7 x 5 x 1,5 m. Dalla cima del Monte Orsario (Veliki Medvedjak, 472 m) la vista spazia a sud verso Trebiciano e Gropada ed a sud-ovest verso Percedol e Villa Opicina. Sul Carso sloveno si vedono Sesana (q. 368 m) e il vicino Piccolo Orsario (Mali Medvedjak, q. 463 m). Dalla torretta, verso nord, la vista spazia sulle Alpi Giulie: sono visibili da sinistra a destra il Zuc dal Bor (2195 m di quota, a 93 km di distanza), il Canin (2587m, 78km), il Montasio (2753m, 86 km), il Foronon del Buinz (2531m, 83 km), il Jof Fuart (2666m, 84 km), il Monte Rombon (2208m, 76 km), il Krn (2244m, 63 km) e il Mangart (2677m, 82 km). Ci troviamo all’interno della RISERVA NATURALE REGIONALE DEL MONTE ORSARIO, costituita con legge regionale 42 nel 1996. L’area protetta è anche SITO NATURA 2000 in base alle direttive Habitat e Uccelli. Il sito è di natura carsica con rilievi di tipo collinare e doline e altri fenomeni carsici di superficie e ipogei. Aree estese sono occupate dalla boscaglia carsica a carpino nero e roverella, ma sono presenti anche boschi a rovere e cerro. Le doline profonde ospitano alcune specie di flora rara che nel sito hanno una delle poche segnalazioni regionali. Vi sono alcune zone a landa carsica arida (Carici humilis-Centaureetum rupestris e Chrysopogono-Centaureetum rupestris) caratterizzata dalla presenza di specie vegetali di interesse botanico. Tra queste la Viperina elvetica, il Citiso strisciante, la Genista sericea, l’Eufrasia d’illiria, il Fiordaliso triestino e l’Euforbia fragolina. L'area si distingue per la presenza di discrete popolazione di Gatto silvestre (Felis silvestris) e Riccio europeo, episodiche invece le presenze dell'Orso bruno e dello Sciacallo dorato (Canis aureus). Raro l’Orso (Ursus arctos). Nell’area sono frequenti anche la vipera dal corno (Vipera ammodytes) e l’Algiroide magnifico (Algyroides nigropunctatus); sono inoltre diffusi il Biacco maggiore (Hierophis viridiflavus = Coluber viridiflavus), il Saettone (o Colubro di Esculapio = Zamenis longissimus), la Lucertola dei muri (Podarcis muralis), il Ramarro occidentale (Lacerta bilineata). Riguardo gli uccelli sono diffuse le specie silvicole: Astore (emblema della riserva, Accipiter gentilis), Sparviere, Picchio nero (Dryocopus martius) e Gufo reale (Bubo bubo). Vanno ricordati anche il Succiacapre (Caprimulgus europaeus), il Biancone (Circaetus gallicus), il Falco pecchiaiolo (Pernis apivorus), l’Averla piccola (Lanius collurio), la Tottavilla (Lullula arborea). Non è raro veder passare, alto nel cielo, anche il Grifone (Gyps fulvus). Tra gli insetti, le popolazioni della specie protetta Morimus funereus sono tra le più importanti in Italia; sono presenti anche Cerambyx cerdo e Lucanus cervus. Le tipologie ambientali presenti sono: Brughiere, Boscaglie, Macchia, Garighe, Friganee (75%), Praterie aride, Steppe (10%), Habitat rocciosi, Detriti di falda, Aree sabbiose, Nevi e ghiacci perenni (14%) e altro (1%). DALLA CIMA DEL MONTE ORSARIO A PERCEDOL Si ridiscende dalla cima dell’Orsario fino a superare la pineta che circonda la vetta per qualche centinaio di metri e si imbocca il sentiero 3, lasciando a siistra la deviazione che ripercorre il sentiero 43 dell’andata. Si costeggiano delle cave di pietra scendendo verso il paese, si supera la strada asfaltata e si sale alla Rocca di Monrupino, che fu prima castelliere preistorico, poi castellum fortificato romano ed infine fortezza inespugnabile contro i Turchi, dal 1470 e per 150 anni (“Tabor” deriva dallo slavo e significa “luogo fortificato”). Quando divenne reale il periodo delle scorrerie turche, gli abitanti del luogo eressero intorno alla chiesa un rozzo muro, non molto spesso, ma con un legante molto tenace; la costruzione a quei tempi, con voce slava, veniva chiamata tabor. il muro, alto anche 8 metri, circonda un’area di circa 2 mila metri quadrati. Si possono visitare la chiesa, l’antichissima casa comunale e il muro di cinta. Nel 1512, al posto di un precedente edificio sacro, venne edificata la chiesa dedicata alla Beata Vergine. In una cronaca del 1694 viene descritta la presenza di un ponte levatoio. Il campanile, alto 19 metri è del 1802 ed è bene visibile da tutto il Carso. Addossata alla chiesa vi è la Casa Comunale, dove i contadini si riunivano per discutere: si tratta di una casa carsica monocellulare con tetto coperto di lastre in pietra, una delle più antiche della provincia, costruita su uno sperone di roccia di alcuni metri; oggi c’è una scala in pietra ma probabilmente si accedeva alla casa con una scala in legno removibile, per isolare l’edificio. Su un ingresso di una delle tre case parrocchiali che danno sul piazzale è impressa la data “1559”. L’edificio più importante è la chiesa di Santa Maria Assunta, a pianta rettangolare con un‘abside poligonale di stile gotico; la copertura del tetto è in lastre di calcare. Si ipotizza che la chiesa fosse inizialmente una cappella dei Templari che sorvegliavano la strada per garantire la sicurezza dei pellegrini (già nel 1316 un documento cita la Santa Maria Reypen. Durante i mesi estivi la rocca è sede di numerose manifestazioni culturali, tra le quali la più conosciuta è sicuramente quella delle nozze carsiche che si svolge ogni due anni l’ultima domenica di agosto. I festeggiamenti hanno inizio una settimana prima delle nozze con l’addio al celibato e l’addio al nubilato. La leggenda racconta che un pastore dell'altipiano decise di costruire una chiesetta per la Vergine Maria. Dopo il lavoro di tutto un giorno si ritirò per dormire. Al mattino trovò le mura distrutte e pensò fosse stata opera del diavolo: ricostruì quello che era stato demolito e si coricò nuovamente come la sera prima. All'indomani, con grande sorpresa , vide che la chiesetta era bella e finita. La gente del luogo è convinta che la Madonna abbia voluto aiutare quel suo zelante devoto e ne è testimonianza l'impronta di un piedino ritrovata impressa nel masso rettangolare posto alla base dello spigolo della Casa comunale. Pianta del castelliere di Monrupino, modif. da Dante Cannarella Lasciamo la rocca. Scendendo verso il cimitero, alla sinistra del parcheggio si apre un viottolo delimitato da un alto muro oltre il quale si scorge la chiesa che domina la collina. Anche qui c’è un torrione di 8 metri (foto a sinistra) e, poco dopo, le strutture murarie del CASTELLIERE DI MONRUPINO che, con i suoi 1600 metri di perimetro, è il più grande della Provincia. II Castelliere di Monrupino aveva funzione difensiva e di controllo del territorio, fu costruito a metà del secondo millennio avanti Cristo difeso da due cinte di muraglionì costruiti a secco, posti sulla sommità di un'altura a diversi livelli di altitudine. Il primo vallo, quello posto più in alto e quindi più stretto, si sviluppava per circa 150 metri, mentre il muro più basso aveva un perimetro di circa 280 metri, II castelliere è stato scavato negli anni Settanta e in quell'occasione si è notata la presenza di un focolare: elemento indispensabile alla vita delle genti che abitavano l'altura, sia per la cottura dei cibi, sia per l'esecuzione di svariati mestieri, come ad esempio la trasformazione del latte in formaggio, cibo che ben si presta ad essere conservato anche per i periodi di minori disponibilità. Il vallo è alto più di due metri. Vi è dapprima un gradino di sostegno lungo 17 metri la cui base poggia su un campo solcato. Il muro è spesso 4 metri ed è interrotto dopo 34 m da un varco largo due metri e mezzo. Lo stipite sinistro formato da grossi blocchi è in parte dissestato da un grosso Tiglio, mentre lo stipite opposto è crollato ma prosegue all’eterno per una lunghezza di 10 metri formando, a monte, un lato del corridoio d’accesso. A monte si sviluppa un largo bastione semicircolare a difesa della porta. I Torrioni di Monrupino si elevano sul lato opposto al cimitero. Una gradinata porta alla base di un monolite sul quale la targa del 1983 recita “Ai figli del nostro popolo vittime del fascismo”. Si tratta di formazioni calcaree alte oltre dieci metri. Sono costituiti da una roccia (bioclastite) formata in massima parte da gusci triturati di conchiglie, prevalentemente Bivalvi (Rudiste), cementati con calcite. I torrioni sono un fenomeno naturale di particolare interesse geomorfologico dovuto sia all'azione dissolutiva dalle acque meteoriche sia alla particolare posizione topografica. I blocchi di bioclastite che risentono in forma minore dell'azione aggressiva dell'acqua piovana sono rimasti isolati rispetto alle superfici calcaree circostanti maggiormente solubili. Inoltre tali affioramenti rocciosi si trovano in una sella dove il dilavamento è più intenso: i residui insolubili delle rocce carbonatiche non rimangono sul posto, determinando un maggiore dislivello tra le bioclastiti e il piano di campagna circostante. Ne risultano questi imponenti monumenti naturali, che vanno ad aumentare il valore paesaggistico di questo itinerario. Imbocchiamo il sentiero a destra del primo torrione per scoprire altre rocce imponenti: sono i gusci delle conchiglie ad aver reso meno solubili i torrioni preservandoli dall’erosione. Si tratta perciò di resti di paleo suoli, dove i dintorni dei torrioni si sono solubilizzati nel tempo facendo emergere queste rocce. Visitati i torrioni e il bel campo solcato che si trova in cima al rilievo, procediamo lungo in sentiero fino ad arrivare alla cisterna Glinica, vicino alla stradina asfaltata che unisce Zolla di Monrupino a Percedol. A proposito dei toponimi: “Zolla” (“Col”) detiva dal tedesco “dogana”, Monrupino deriva dal latino “Rupinum”, “pietroso”: quindi “Monte Pietroso”. Il nome sloveno del paese, Repentabor, è una composizione di “Repen” e “Tabor”. Torniamo alla cisterna: si tratta di uno specchio d’acqua di 70 mq (13 x 6,5m, profondità dell’acqua 0,80m), con profondità massima di un metro. In esso, in passato, si accumulava la preziosa acqua che in inverno, sotto forma di ghiaccio, veniva stoccata e conservata nella vicina “Jazera”, un pozzo di pietre profondo che permetteva la conservazione del ghiaccio fino a primavera-estate. Oggi vi si trovano Lemna minor, Ceratophyllum demersum, Potamogeton crispus, Juncus compressus e J.articulatus e vi è la presenza di Rana agile (Rana dalmatina) e Tritone comune (Lissotriton vulgaris meridionalis). Superata una vecchia cava si giunge alla strada asfaltata principale e si taglia subito dentro al prati, passando sotto alla ferrovia, per recarci nuovamente allo stagno di Percedol. Prima di passare la ferrovia è possibile una visita alla GROTTA LAZZARO o NELLA DOLINA SOFFIANTE DI MONRUPINO (2305/4737 VG) L'esplorazione della cavità iniziò 1967, quando un gruppo di speleologi notò la presenza di notevoli correnti d'aria sul fondo della dolina in cui ora si apre la cavità. Nel 1987 venne scavato un nuovo pozzo, scaricando il materiale di scavo nel vecchio pozzo: dopo 7 mesi gli scavatori giunsero nuovamente a quota -27, alla base di un pozzo semiartificiale, franoso, parallelo a quello costruito negli anni '60, in un ambiente estremamente instabile che comunicava, attraverso un esiguo passaggio, con il vecchio pozzo. Successivamente iniziano gli scavi in quello che diverrà il "Ramo Est", che viene scavato fino a -40, incontrando strada facendo una piccola galleria concrezionata e sboccando, nel febbraio del 1998, in un pozzo naturale, profondo 12m cui segue un altro pozzo che scende per oltre 40m portando in una serie di belle gallerie e caverne riccamente concrezionate, che portano la profondità della cavità a -123m ed il suo sviluppo a 220m. Tutta la prima parte della cavità viene attrezzata con scale fisse e luce elettrica. Alla base vi è un'ampia caverna sul cui fondo scorre il fiume Timavo. Questa grande sala, attraversata per un centinaio di metri dal corso d'acqua, è dedicata a Saverio Luciano Medeot, speleologo triestino attivo negli anni '30. Dalla caverna Medeot, il fiume è stato risalito ad Est, lungo una galleria larga ma non molto alta, sino ad un secondo salone interamente occupato da un profondo lago. Nella caverna Medeot, il fiume termina, ad Ovest, in un lago in cui è stato individuato il sifone d'uscita, percorso da uno speleosub per un breve tratto: oltre, la galleria allagata prosegue molto ampia ed in accentuata discesa. Nell'acqua, che anche in regime di magra scorre vorticosamente, sono stati visti dei protei ed un paio di pesci. Si procede lungo il sentiero che costeggia da ovest quello percorso all’andata e si rientra nella dolina di Percedol.
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