Studi postcoloniali di cinema e media (Postcolonial Film and Media Studies) 2 Direttore Leonardo D E F RANCESCHI Università degli Studi Roma Tre Comitato scientifico Gina A NNUNZIATA Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” Maria C OLETTI Centro Sperimentale di Cinematografia Derek D UNCAN University of St Andrews Kenneth W. H ARROW Michigan State University David M URPHY University of Stirling Áine O’H EALY Loyola Marymount University Farah P OLATO Università degli Studi di Padova Sandra P ONZANESI Universiteit Utrecht Isabel S ANTAOLALLA University of Roehampton–London TAN See Kam University of Macau Comitato redazionale Laura C AMPANILE Alice C ASALINI Riccardo C ENTOLA Francesca I ANNANTUONI Alessandro J EDLOWSKI Renata Ornella O RLANDO Studi postcoloniali di cinema e media (Postcolonial Film and Media Studies) Quali sono i motivi e le forme che il cinema (e più in generale i dispositivi dell’audiovisione) utilizza per raccontare culture e società dei paesi del sud e per riflettere sull’esperienza delle migrazioni, delle diaspore, dell’esilio? Questa collana intende provare a dare risposte a domande del genere, facendo dialogare studi filmici e studi postcoloniali, e riflettendo insieme su modi di produzione, espressione e rappresentazione. Lavoriamo a un approccio teorico consapevole della complessità storica dell’esperienza coloniale e in grado di dar conto dello scenario postcoloniale attuale, dominato dalla crisi dello stato–nazione, da un interminabile e fecondo processo di negoziazione delle identità culturali, dalla recrudescenza di forme di razzismo e sfruttamento che colpiscono i soggetti subalterni e migranti. In copertina, foto di scena da Africa addio (Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, 1966). Archivio Storico del Cinema / afe, Roma. Joy Nwosu Cinema e Africa L’immagine dei neri nel cinema bianco e il primo cinema africano visti nel 1968 Premessa alla seconda edizione di Leonardo De Franceschi Prefazione di Mino Argentieri . Copyright © MMXIV ARACNE editrice int.le S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Quarto Negroni, 15 00040 Ariccia (RM) (06) 93781065 ISBN 978-88-548-7653-8 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. II edizione: ottobre 2014 I edizione: Tindalo, Roma 1968 a P. Desmond Byrne INDICE Premessa alla seconda edizione di Leonardo De Franceschi 13 Prefazione di Mino Argentieri 37 Introduzione 43 Film europei e americani sull’Africa 47 Il negro nel film 61 Il tentativo degli indipendenti 73 Cinema africano oggi 89 Appendice Profilo dell’autrice 107 Conversazione con Joy Nwosu 111 Conversazione con Mino Argentieri 121 English Box 129 Bibliografia aggiuntiva 143 Indice dei nomi 147 Decolonizzazione, de-gerarchizzazione, condivisione. Pratiche e forme di video partecipativo in Italia tra etnografia e cooperazione Indice dei nomi 00 LEONARDO DE FRANCESCHI PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE Il novembre 1968 è un mese caldo per la politica interna e internazionale. Nello scacchiere africano, in Nigeria, l’esercito intensifica la stretta intorno al piccolo stato del Biafra, con una manovra che produrrà a medio termine un disastro umanitario nella regione a dominanza Igbo; in Mali, il presidente Modibo Keita viene rovesciato da un colpo di stato militare guidato da Moussa Traoré. Negli Stati Uniti, dopo aver promulgato in primavera il Fair Housing Act a seguito degli scontri di piazza provocati dall’uccisione di Martin Luther King, Johnson perde di misura le elezioni soprattutto per la fallimentare gestione della guerra in Vietnam. In Grecia, dopo il fallito attentato al dittatore Papadopoulos, Panagulis viene condannato a morte ma la sentenza è sospesa a seguito di vigorose pressioni internazionali. In Italia, il clima, già infiammato dalle occupazioni studentesche in atto in diverse città, si surriscalda ulteriormente con lo sciopero generale del 14 novembre per la riforma delle pensioni che porta alle dimissioni del governo Leone. Sulla scena cinematografica, dopo la tumultuosa edizione della Mostra di Venezia che chiude il periodo della gestione Chiarini e sancisce la sospensione del concorso, il pubblico delle sale continua a premiare film italiani, dividendosi tra commedia (Il medico della mutua, Straziami, ma di baci saziami, La ragazza con la pistola), western (I quattro dell’Ave Maria) e il primo esotico-erotico, Bora bora. Impara così a conoscere Brock Peters, uno dei “quattro dell’Ave Maria”, mentre sta per ritrovare in analoghe vesti Woody Strode (C’era una volta il 14 Joy Nwosu west esce a Natale) e nelle stesse settimane rivisita tutte le ambiguità di un “cuore di tenebra” in salsa commedica con Riusciranno i nostri eroi, che Scola aveva girato in un’Angola ancora faticosamente controllata dal Portogallo di Salazar. È in questo contesto che Cinema e Africa nera viene dato alle stampe. A pubblicarlo è un piccola casa editrice romana, Tindalo1. Ne è autrice Joy Nwosu, una giovane nigeriana, a Roma dal 1962. A firmare la prefazione è un nome di punta della critica militante come Mino Argentieri, titolare della rubrica cinema su Rinascita e storico direttore della rivista Cinemasessanta. Ma chi è Joy Nwosu e perché abbiamo deciso di ripubblicare dopo quasi cinquant’anni questo allora librettino di centocinquanta pagine, con 24 tavole fotografiche in bianco e nero, dall’insolito formato di 9 per 18 centimetri? Joy era una delle decine di migliaia di giovani borsisti di belle speranze che, nei primi anni Sessanta, gli stati africani di nuova costituzione inviarono in Europa o in Nordamerica per formarsi un’istruzione superiore o per specializzarsi, perlopiù in ingegneria, medicina, scienze politiche. Alcune migliaia di loro2, una percentuale irrisoria rispetto a quelli diretti in Francia o in Gran Bretagna, scelsero l’Italia. La loro storia rimane in buona sostanza segreta. Solo alcuni documentari hanno alluso a questa presenza discreta, concentrata perlopiù in pochi poli di attrazione (Roma, Bologna, Perugia) ma visibile, nell’Italia tutto sommato provinciale degli anni Sessanta e Settanta: penso per esempio al poco noto Africa chiama di Ansano Giannarelli, girato nel 1961; ad Appunti per un’Orestiade africana, uscito nel 1970, in cui Pasolini intervista una piccola platea di studenti africani 1 La breve parabola della Tindalo dura solo quattro anni. Nasce nel 1967 e si chiude nel 1970, pubblicando per lo più scritti politici di ispirazione comunista (Guevara, Lenin, Ho Chi Minh, Garaudy) ma anche opere di narrativa. Rare le pubblicazioni legate al cinema: oltre a Cinema e Africa nera, solo la sceneggiatura di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri e Ugo Pirro (1970) e il Bollettino dei cinegiornali liberi. 2 Secondo una tabella riportata in Forcesi 2004 (p. 214), gli studenti stranieri iscritti alle università italiane nel 1960 sono 3.700, pari all’1,4% sul totale degli iscritti, contro i circa 27 mila iscritti in Francia, i 21 mila in Germania e i 12 mila in Gran Bretagna. Va detto che la statistica si riferisce a studenti stranieri, includendo quindi non solo quelli provenienti dai paesi in via di sviluppo ma anche quelli in arrivo da altri paesi europei o extra-europei. Cinema e Africa 15 dell’Università “La Sapienza” di Roma; al più recente Il colore delle parole (2009), in cui Puccioni rievoca l’esperienza del camerunese Ndjock Ngana e di altri tre africani, romani d’adozione, arrivati in Italia per studiare all’inizio degli anni Settanta. Joy, tuttavia, fa davvero un po’ storia a sé. Non solo perché viene da un paese, la Nigeria, che vantava scarsi rapporti con l’Italia, se si esclude la presenza dell’ENI, attestata già dal 1962, ma soprattutto per un percorso di formazione, ricerca e avvio al lavoro davvero unici. Atterrata a Roma con in tasca un biglietto aereo per Dublino (mèta, il Royal College), Joy, che nonostante la giovane età (22 anni), ha già una cospicua formazione musicale ed esperienza concertistica in patria come cantante e pianista, si ferma a Roma solo per un’audizione al Conservatorio di Santa Cecilia e, una volta ammessa, decide di fermarsi nella patria del belcanto e nella città del papa (di confessione cattolica, si è formata a Enugu in un istituto di suore). Diplomatasi nel 1965, potrebbe rientrare in Nigeria, ma decide invece di iscriversi nel 1966 alla neonata Università Internazionale per gli Studi Sociali Pro Deo (che nel 1977 si sarebbe trasformata nell’attuale LUISS), allora diretta da padre Felix Morlion, noto per la sua influenza negli ambienti cinematografici (e per i rapporti con la CIA, ma questa è un’altra storia): Joy si iscrive al corso di laurea in comunicazioni di massa, con specializzazione in cinema, completa il suo curriculum di studi in tre anni e si laurea nel 1968 col massimo dei voti. Come spiega nella conversazione riportata alla fine del volume, una volta diplomatasi al Conservatorio, Joy aveva ritenuto opportuno rimanere a Roma e dirottare i suoi interessi verso il cinema, in considerazione di diversi fattori. Anzitutto, si chiedeva che futuro avrebbe potuto avere una giovane cantante lirica come lei in un paese come la Nigeria, privo di una tradizione operistica, senza un vero teatro per concerti e ancora carente anche sul piano della musicologia; vale la pena aggiungere poi che la Nigeria postcoloniale già dal 1966 era entrata in una fase politica molto turbolenta, con due colpi di stato consecutivi, e dal 1967 era impegnata in una sanguinosa guerra civile contro la regione orientale del Biafra, autoproclamatasi indipendente, che sarebbe durata fino al 1970, divenendo tristemente nota anche in 16 Joy Nwosu Italia nel 1969 per il cosiddetto «eccidio del Biafra»3, e costando oltre un milione di morti, tra militari e civili, periti perlopiù per le conseguenze della terribile carestia sviluppatasi nella regione4. Non c’è da stupirsi quindi se Joy decise di rimanere a Roma anche dopo la laurea nel 1968, tanto più che nel frattempo, come racconta sempre nell’intervista a fine volume, aveva cominciato a fare anche alcune esperienze di attrice, prima come figurante, in film come Cleopatra (1963) e La decima vittima (1965) e come poi coprotagonista, nel ruolo autobiografico di una musicista nigeriana in Italia, di un’opera prima destinata a non uscire mai in sala ma a lasciare traccia nel dibattito critico dell’epoca, Il nero di Giovanni Vento5. Girato a Napoli con un produttore e un montatore anche loro al debutto (rispettivamente, Armando Bertuccioli e Roberto Colangeli), un cast d’attori che mescolava mestieranti solidi (Regina Bianchi, Andrea Checchi, Bianca Doria), una giovanissima Orchidea De Santis e per protagonisti due non-professionisti (Mario Monaco e Silvano Manera), figli di militari afroamericani di stanza a Napoli durante la seconda guerra mondiale, Il nero, scritto da Vento insieme a Lucio Battistrada e a Franco Brocani, poggiava però su due nomi di primo livello alla direzione luci e colonna sonora, vale a dire Aiace Parolin e Piero 3 Il cosiddetto eccidio del Biafra vide l’attacco nel maggio 1969 di un comando di biafrani ad alcune basi petrolifere dell’ENI, con la successiva cattura di alcuni tecnici italiani, la loro condanna a morte e l’avvio di una delicata trattativa, conclusasi nel giugno 1969. Nell’azione morirono dieci tecnici italiani e un arabo. In quei giorni, la notizia catalizzò l’attenzione di tutti i media italiani. 4 Joy avrebbe toccato con mano la gravità della situazione in Biafra, inviata dalla Caritas nel 1970 ad Abidjan per organizzare una scuola con i bambini evacuati da quella che era anche la sua regione d’origine e appartenenti al suo gruppo etnico (gli Igbo). Proprio la sua distanza dal conflitto e la sua vicinanza affettiva alla popolazione della regione la portò a sviluppare un atteggiamento di polemica nei confronti dei capi dell’insurrezione in Biafra che rese in breve tempo la sua situazione ad Abidjan insostenibile, costringendola a rientrare a Roma (Sadoh 2011, p. 25). 5 Presentato a Berlino nella Settimana del giovane cinema italiano (luglio-agosto), il film viene dato in uscita dall’Unità dell’11 agosto ma scompare dalla scena, salvo alcune recensioni (tra cui una di Argentieri) e due approfondimenti dedicatigli da Cinema nuovo tra il 1969 e il 1970. In occasione dei Colloqui cinematografici tenutisi a Carrara nel 1969, inutilmente un gruppo di critici tra cui Guido Aristarco, Adelio Ferrero, Guido Fink e Liborio Termine indirizzano una lettera aperta al direttore dell’Italnoleggio, pubblicata sull’Unità del 15 luglio, perché prenda in carico la distribuzione del film, ma non se ne fa nulla e Il nero, riproposto un paio di volte in pubblico ma mai neppure trasmesso in televisione, continua a rimanere sconosciuto alla maggior parte della critica non solo internazionale ma anche italiana. Cinema e Africa 17 Umiliani (col sax di Gato Barbieri e la voce di Laura Betti). Concepito come una sorta di omaggio ironico a Ombre, pieno di ammiccamenti al “nuovo cinema italiano” (Bertolucci, Pasolini, Bellocchio), questa commedia drammatica cuciva insieme con grande libertà compositiva una serie di microstorie di vita quotidiana nella Napoli di Tammurriata nera e dei “figli della Madonna”, tema affrontato solo all’inizio degli anni Cinquanta e in chiave patetica in Campane a martello e nel dittico Il mulatto e Angelo tra la folla. Il film di Vento non riuscì a trovare un distributore ma lasciò un ricordo importante anche in Joy Nwosu, che in Cinema e Africa nera dedica ampio spazio a Il nero e anche al successivo documentario di Vento, Africa in casa (1968). Tra i due, come rivela Joy nella conversazione, c’era un rapporto sentimentale consolidato ma anche una collaborazione alla pari, molto forte: è infatti lo stesso Vento a spingere Joy a riprendere in mano la tesi di laurea discussa nel 1968, l’aiuta a svilupparla, a trovare editore e prefatore6 e cura una sorta di supervisione del manoscritto di Cinema e Africa nera. Confesso di essermi innamorato intellettualmente di questo intrigo a due che produce un libro e un film pressoché usciti in contemporanea e sostanzialmente dimenticati, ma la scelta di ripubblicare Cinema e Africa nera poggia su ragioni non solo sentimentali, per così dire. Certo, che Joy Nwosu si ritrovi ad essere protagonista di questi due testi comunque fondamentali nell’economia di una controstoria meticcia, postcoloniale, del cinema italiano, è un dato tutt’altro che ininfluente. Entrando propriamente nel merito di questa premessa, urge infatti anzitutto constatare la posizione di primato stabilita da questo volumetto nella tradizione italiana degli studi filmici: prima di Cinema e Africa nera, la critica italiana nel suo insieme aveva prodotto ben poco sui due snodi problematici di fondo affrontati da Nwosu, vale a dire l’immagine dei neri (anzi dei negri, come era pacifico scrivere nel 1968) e la produzione delle emergenti cinematografie dell’Africa subsahariana (anzi nera, sempre per restare nel gergo del periodo), ma su questo torneremo. 6 Vento veniva dalla critica militante, aveva scritto un’importante monografia a quattro mani su Cinema e resistenza (1959) e sedeva nel comitato di fondazione di Cinemasessanta insieme ad Argentieri. 18 Joy Nwosu Certo, lo sguardo dell’autrice, benché ampio e documentato (sono poco meno di duecento i film citati, 193 per essere esatti), può essere considerato probante ma non esaustivo. Il registro dominante delle sue argomentazioni oscilla tra la critica militante e l’invettiva da pamphlet, rimanendo spesso lontana da un’equilibrata e distaccata ratio scientifico-accademica, nonostante l’originaria matrice del testo, vale a dire una tesi di laurea. Proprio questa vis polemica radicale e indubbiamente corrosiva che riscalda la sua scrittura, oltre a rispecchiare per certi versi lo spirito del tempo, rappresenta un altro dei fattori che mi hanno spinto a ridisseppellire questo testo e a riproporlo ai lettori e alle lettrici degli anni Dieci del Duemila. In genere gli estensori di tesi di laurea, compilative o sperimentali che siano, tendono a non esporsi criticamente nei confronti della loro bibliografia di riferimento: Nwosu invece ostenta un piglio analitico-interpretativo estremamente assertivo e autonomo, sia quando prende in esame l’immagine dei negri e sia quando commenta i primi esiti delle nascenti cinematografie dell’Africa nera, forse proprio perché Nwosu, dotata di un talento e di una professionalità riconosciuti in ambito operistico-musicale, affronta la tesi in un’età già matura (26 anni) e, da absolute beginner degli studi filmici, si trova su un doppio terreno relativamente vergine per la critica, affrontato per giunta senza le incrostazioni razziste e colonialiste che costituiscono l’habitus dell’homo italicus degli anni Sessanta, indipendentemente dalla sua appartenenza di classe, di età e di genere o dalla sua collocazione sullo scacchiere politico. Ma vediamo un po’ più in dettaglio le scelte di fondo compiute da Nwosu nell’articolazione del suo Cinema e Africa nera. L’edizione originale si apre con l’agile prefazione di Mino Argentieri e comprende, dopo l’introduzione, quattro capitoli. Il primo (Films europei e americani sull’Africa) copre a volo d’uccello oltre sessant’anni di storia del cinema internazionale, prendendo in esame le costellazioni semiotiche e simboliche dominanti che hanno caratterizzato l’immagine dell’Africa, dalle origini del cinematografo alla stagione delle nouvelles vagues, soffermandosi soprattutto sulla produzione di quattro cinematografie diversamente protagoniste della scena imperiale, coloniale e postcoloniale, vale a dire Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Italia. Nell’economia del capito- Cinema e Africa 19 lo, colpisce l’ampiezza dello spazio concesso all’Italia, che è più o meno equivalente a quello dato a tutte e tre le restanti cinematografie messe insieme: questa scelta dell’autrice deriva anche da opzioni discorsive precise – per esempio, solo nel caso dell’Italia l’autrice si spinge a sviluppare considerazioni su film degli anni Sessanta, mentre negli altri casi si ferma agli anni Cinquanta (Stati Uniti) o ancora prima – ma questo sguardo privilegiato sulla produzione italiana si presta a mio avviso ad ulteriori chiavi di lettura. 1) Emerge chiaro l’intento di prendere posizione soprattutto rispetto al cinema italiano, segnalando la presenza di cogenti elementi di continuità tra il cinema coloniale di regime degli anni Trenta-Quaranta e la produzione più recente, dai generi di profondità al cinema d’autore; 2) si intravede la volontà di contribuire a colmare un oggettivo vuoto bibliografico di saperi di base e interpretativi su questa produzione, rispetto alle altre cinematografie in esame; 3) si evidenzia tra le righe l’impegno a dimostrare che il discorso prodotto da questi testi filmici sull’Africa ha avuto ed ha un impatto sull’immaginario dominante che è almeno comparabile a quello provocato dagli altri filoni di produzione “africanistica” coloniale e postcoloniale, quantitativamente più cospicui, almeno in valori assoluti. Come a dire che, sì, il colonialismo italiano sarà stato sicuramente minore rispetto a quello di altre potenze europee (il caso statunitense evidentemente fa un po’ storia a sé) ma l’incontro con l’Africa ha prodotto ricadute pesanti sull’immaginario dominante degli spettatori e non solo. Su questo aspetto, che per certi aspetti anticipa sul piano euristico la “svolta postcoloniale” in atto negli studi critici italiani, tornerò. La bibliografia non solo italiana ma internazionale sul tema dell’“Africa nel cinema” era nel 1968 piuttosto esigua (non che nel 2014 le cose siano molto migliorate, ma questa è un’altra storia): esisteva uno studio limitato all’area del Maghreb (solo lambita dall’autrice) e pressoché introvabile come Caméras sous le soleil, edito ad Algeri nel 1956; un paio di saggi compilativi del primo Jean Rouch e qualche cenno di Sadoul sulla sua celebre storia del cinema mondiale. L’unico testo di riferimento, molto citato da Nwosu anche negli altri capitoli, rimaneva il pioneristico The Negro in Films, pubblicato a Londra dal critico inglese Peter Noble nel 1948 e tradotto in italiano nel 1956 col titolo Il negro nel film, «a cura e con un aggior- 20 Joy Nwosu namento» di Lorenzo Quaglietti – postilla piuttosto corposa a dire il vero, visto che contava ben 51 pagine ed era suddivisa in quattro paragrafi su Italia (mai coperta invero da Noble, che limita la sua analisi alla produzione statunitense e britannica), Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. La relativa assenza di letteratura critica sui film italiani a tema o ambientazione africana (lo stesso Quaglietti si era fermato nell’analisi al 1954), spinge Nwosu non solo a concentrare il suo impegno criticointerpretativo proprio sulla produzione italiana degli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche a produrre argomentazioni di insolita severità sul razzismo dominante in questo filone, denunciando la sostanziale continuità con il cinema coloniale fascista, in passaggi come questo: noi non crediamo di sbagliare se riteniamo che fu a questo tipo di cinema che si ispirò quello di Africa addio, Violenza per una monaca, Violenza segreta, Congo vivo, così come non pensiamo di sbagliare se affermiamo che fu dai film di Camerini, di Alessandrini, di Genina che nacquero quei documenti come Eva nera, Mal d’Africa, Continente perduto, sul mal d’Africa – questo sì un contributo razzista veramente originale – da cui non si salvò neppure certa produzione di qualità (L’eclisse di Michelangelo Antonioni). Perché il fascismo, nella sua sintesi sentimental-cattolico-guerriera, fu un fenomeno sinceramente italiano: e un fenomeno che dura. Nwosu tornerà ad insistere sugli umori regressivi di fondo al centro di questa produzione, che svaria «dal cattolicesimo più puro alla inclinazione sentimental-fascistico-sexual», laddove si nota un certo piacere nel gioco con l’italiano, lingua d’adozione, che l’autrice confessa apertamente nella conversazione a fine volume. Più avanti, Nwosu non manca di sparare a zero contro quell’Africa addio di Jacopetti e Prosperi che la critica di sinistra – da Lino Micciché allo stesso Argentieri, come si vede nell’introduzione – non aveva mancato di denunciare per l’inaccettabilità delle tesi, ma trovo che il contributo più originale stia da una parte nell’attacco rivolto verso L’eclisse di Antonioni, epitome di un cinema d’autore nel quale «si vede che gli italiani finiscono per fare del razzismo anche quando sono convinti di essere gli apostoli dell’antirazzismo», e dall’altra nell’ironica esaltazione del «lavoro degli afrodoppiatori italiani: ai quali va il merito di aver inventato a uso e consumo del negro una vera e propria lingua». Solo in
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