donne chiesa mondo

donne chiesa mondo
Sua madre confrontava
tutte queste cose nel suo cuore
L’OSSERVATORE ROMANO aprile 2014 numero 22
Isabella Ducrot,
«Primavera» (2014)
Nuovi ruoli, nuovi compiti
È aperta da tempo fra le donne della Chiesa una
riflessione sul loro ruolo e su possibili nuovi
compiti che valorizzino la presenza femminile.
Papa Francesco — che, nel primo anno di
pontificato, ha stupito il mondo con la sua
parola e i suoi gesti — ha annunciato un passo
avanti anche su questo punto. Alla riflessione,
importante e non più rinviabile, partecipa anche
«donne chiesa mondo». Questo foglio sta
cercando e cercherà nei prossimi mesi di rendere
questo momento di riflessione il più possibile
fecondo, ricco di idee, di pensieri e di fantasia.
La nostra presenza in questi anni si è fondata su
un’idea molto semplice: la Chiesa, composta in
grandissima parte da donne, deve dare posto
alle loro capacità e al loro contributo.
«Pensiamo alla Madonna — ha detto di recente
il Pontefice — nella Chiesa crea qualcosa che
non possono fare né vescovi né Papi. È lei il
genio femminile». La scelta di una pagina sulla
teologia della donna ha rafforzato l’idea
originaria. In questo numero padre GianPaolo
Salvini precisa: «Non si tratta di clericalizzare le
donne, come alle volte sembra venir proposto da
certe soluzioni, ma di trovare gli spazi adatti in
cui il carisma femminile possa esprimersi e
venire valorizzato anche in termini di capacità
decisionali e di autorità, o, come sarebbe più
consono nella vita della Chiesa, di servizio
autorevole all’intero popolo di Dio». Il
cammino finora è stato difficile. Per questo, oltre
che di una vera discussione, c’è bisogno di
molta speranza e di molta fede. E quasi di un
miracolo. «Nella Chiesa, come nella società,
questa rivoluzione culturale esige dagli uomini e
dalle donne l’umile riconoscimento del terreno
troppo occupato dagli uni o lasciato inoccupato
dagli altri» afferma nel suo articolo Dorothée
Bauschke. E non si può non condividere. (r.a.)
ovunque vi sia un uomo. E Noël Copain
diceva che trattiamo questioni dove a essere in gioco è il destino dell’uomo. A noi
non importa la superficie delle cose, ma
piuttosto tutto ciò che ha conseguenze felici o meno felici sulla vita degli uomini
del nostro tempo.
Lei ha scritto: «Si deve guardare agli eventi
da un'altra angolatura»: non è proprio questa la particolarità di «La Croix»?
La cosa importante è capire le motivazioni delle persone. Ebbene, i temi legati
al matrimonio, alla fine della vita, sono temi eminentemente politici che dovrebbero
essere al centro delle riflessioni degli uomini politici.
Lei è stata la prima donna a dirigere un
quotidiano in Francia. Come vive il fatto di
essere donna in mezzo a una novantina di
giornalisti che sono in gran maggioranza uomini?
Intellettuale collettivo
Intervista a Dominique Quinio, prima donna a dirigere un quotidiano in Francia
di CATHERINE AUBIN
«Un quotidiano come il nostro è un collettivo. Anzi, è un “intellettuale collettivo”, meravigliosa espressione che ho ereditato da Alain Rémond, autore del billet
sull’ultima pagina di «La Croix», e che
condivido appieno. Non siamo un gruppo
d’individui intellettualmente molto dotati,
ma, piuttosto, è insieme che costruiamo
qualcosa». È sicura Dominique Quinio,
primo direttore donna del quotidiano cattolico francese «La Croix», incarico che
ricopre ormai da otto anni.
nalmente, insieme a una équipe, il Courrier des Lecteurs perché lo considero un
elemento fondamentale, da un lato per individuare la soddisfazione o l’incomprensione rispetto alle cose che abbiamo fatto,
e dall’altro per vedere quali sono gli argomenti che preoccupano i lettori. Ma i let-
Amo far emergere le idee e
mi considero una levatrice del lavoro altrui
È femminile come modo di procedere?
Indubbiamente sì!
donne chiesa mondo
Ci presenta il “suo” giornale?
Ciò a cui guardano i nostri lettori è il
giornale nel suo insieme e la loro storia
con «La Croix» va ben al di là degli ultimi otto anni; si tratta di vecchi rapporti di
fedeltà, dal 1975. Perché la mia carriera
l’ho fatta soprattutto a «La Croix», e la
ricchezza di questo rapporto di fedeltà e
di scoperte è che, come qualsiasi altro rapporto, si evolve nel corso degli anni e delle funzioni che si esercitano, quando si è
all’inizio della carriera, quando si è un elemento tra gli altri, e poi dopo, quando si
assumono responsabilità. So che «La
Croix» esisteva molto prima di me e so
che esisterà molto dopo di me. Naturalmente, quando si dirige un giornale e bisogna scrivere molti dei suoi editoriali,
inevitabilmente dall’esterno si viene identificati con esso, forse un po’ più degli altri
giornalisti. Ma io sono solo “una” in una
catena. Il mio lavoro è proprio quello di
passare il testimone e di far muovere questa “vecchia signora” ultracentenaria («La
Croix» esiste da centotrent’anni), di cogliere le nuove opportunità, comprese
quelle tecniche (internet) così come l’evolversi della società, della Chiesa. Significa
essere traghettatori da una generazione
all’altra.
Leggendo «La Croix» si percepisce una
grande attenzione per la qualità delle relazioni tra i lettori e il giornale.
Sì, ed è una cosa formidabile. La presenza del Courrier des Lecteurs (Lettere al
direttore) è fondamentale per la ricchezza
del giornale e per comprendere quel che
dobbiamo fare: cogliere l’evolversi del
pensiero è indispensabile. Gestisco perso-
Dopo la laurea in lettere e il
diploma presso il Centro di
formazione dei giornalisti di
Parigi, Dominique Quinio
inizia la sua carriera di
giornalista a «La Charente
Libre»: è il 1974. L’anno
dopo entra a «La Croix»,
dove sarà, nell’ordine,
segretario di redazione,
redattrice, responsabile del
servizio “societé”, redattrice
capo, vice direttrice nel 2000
e, dal 2006, direttrice.
Sposata e madre di quattro
figli, Quinio è stata revisore
dell’Institut des Hautes
Études de Défense Nationale
(Ihedn), membro del
comitato di redazione della
rivista «Études» e dell’Alto
Consiglio della popolazione
e della famiglia. È anche
membro del Comitato delle
settimane sociali.
tori non hanno sempre ragione: chiaramente, occorre anche fare una scelta in coscienza tra ciò che è importante e ciò che
non lo è. Non dobbiamo forzatamente
piegarci a una sorta di consenso del lettorato, ma è importante ascoltare la sua voce perché nella Chiesa cattolica non ci sono molti spazi di dibattito pubblico dove
poter far crescere una sorta di opinione
pubblica. Io sono estremamente fiera che
qui, da noi, questo spazio di espressione
esista.
cerchiamo di fare — e che non è tanto frequente tra i nostri colleghi — è di dare ai
lettori, nella situazione attuale spesso molto dura e triste, motivi per sperare. Vale a
dire ricercare in questa attualità sprazzi di
luce, persone luminose, persone che agiscono e infondono nei lettori la voglia
d’impegnarsi.
Che tipo di giornale siete?
Assolutamente sì! Il cardinale Etchegarray ha invitato i giornalisti a guardare
«La Croix» è un giornale di idee, non
un giornale di parte. Possiamo affermare
ciò in cui crediamo, oppure esprimere un
giudizio — su un cambiamento sociale per
esempio — e comunque rispettare le persone che non la pensano allo stesso modo.
Cerchiamo di fornire gli elementi per
comprendere una situazione, di far parlare
la gente che può trovarsi al margine della
società o della Chiesa, e di mantenere la
calma nelle tempeste dove i divari sono
talvolta molto consistenti. Tentiamo di essere fermento di pace e non un luogo
d’inasprimento di conflitti. Vogliamo essere ponti e mediatori tra la Chiesa e la società, tra gli stessi cristiani, tra i cristiani e
gli altri credenti e quanti non credono. Il
nostro è uno spazio di dialogo che presuppone l’essere saldi nella propria identità: siamo un giornale cattolico che appartiene a una congregazione religiosa, dunque facciamo riferimento ai valori del
Vangelo, il che non ci impedisce affatto di
essere attenti a quel che si vive altrove.
Sappiamo che ciò che il nostro giornale
dice e scrive viene recepito dai suoi lettori
e, attraverso il sito internet, da un pubblico molto più vasto, ossia “dalle periferie”,
come direbbe Papa Francesco. C’è un
grande interesse nei nostri confronti anche
da parte del mondo mediatico circostante
che, sapendo che siamo un quotidiano di
qualità, è interessato a scoprire come su
quali argomenti un giornale come «La
Croix» prende posizione. Siamo molto diversi dagli altri giornali.
Ciò che vi interessa, dunque, non è solo
l’evento ma anche l’aspetto umano dell’evento?
Il mio primo incarico come giornalista è
stato quello che oggi viene chiamato segretario di redazione. Ciò vuol dire che mi
trovavo alla fine di tutto il lavoro e alla
messa a punto del lavoro altrui; tra la rilettura, la scelta dei titoli, l’impaginazione,
dunque ero al servizio del lavoro altrui.
Amavo farlo: amo far emergere idee, mi
piace che le persone portino a termine le
proprie idee, mi considero una levatrice
del lavoro altrui. È femminile come modo
di procedere? Indubbiamente sì!
Le sue sfide?
Una certa fermezza nell’apertura per
continuare a far sì che «La Croix» sia un
luogo di pace rivolto a favorire il dialogo
tra le persone. Io stessa sono quasi al termine della mia carriera professionale e
spero di avere molti, molti eredi.
In cosa siete diversi?
Nella gerarchia dell’attualità. La nostra
ragion d’essere è l’attualità ed è essa a guidarci. Ma in questa abbondante attualità
che “rimbalza” continuamente su di noi,
facciamo ovviamente una selezione: tra ciò
che è futile e ciò che è importante, tra ciò
che ha gravi conseguenze per gli uomini
del nostro tempo e ciò che invece è secondario. Vi sono argomenti che approfondiamo maggiormente, per esempio le questioni che riguardano l’etica, la società, la famiglia o la solidarietà sociale. Quello che
I corridoi della scuola-convento sono troppo lunghi: per spostarsi, dunque, la madre superiora,
suor Mary Angela, usa un monopattino azionato da un motore a batterie (Chicago, 1970)
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Un terreno occupato troppo e troppo poco
Il romanzo
Bella mia
Il ruolo di uomini e donne nella Chiesa di oggi
di D OROTHÉE BAUSCHKE
er una biblista come me, dire e fare
sono diventati inseparabili. Nel racconto biblico Dio è il primo a non
permettersi di dire senza fare: «Dio
disse: “Sia la luce!”. E la luce fu»
(Genesi, 1, 3). Noi, lettrici e lettori, a volte un
po’ distratti, nella nostra vita di uomini e di
donne riconosciamo tuttavia che la Parola —
che è luce — si è fatta carne, e questo è proprio un “fare” che non esclude nulla di quel
che noi chiamiamo essere umano.
Come altri, anch’io sono un’appassionata
lettrice della Bibbia. Questa lettura mi ha convinto che, parlando soltanto dell’essere uma-
P
Serve una vera rivoluzione culturale
Per togliere i rovi da terra
e poggiare i piedi
senza pestare quelli altrui
no, la Bibbia può anche parlarmi di Dio. Tale
convinzione ha messo insieme da una parte la
mia esperienza di vita di donna, di moglie e
di madre, illuminata dalle scienze umane, e
dall’altra una lettura sempre rinnovata dei testi. E ciò nel solco tracciato da quell’eminente
lettore che fu il gesuita Paul Beauchamp.
Concittadina e contemporanea di Elisabeth
Schüssler-Fiorenza, ho preso da lei l’idea della
Chiesa come una «comunità di discepoli
uguali», basandomi allo stesso tempo sulla
tradizione di Matteo che Papa Francesco ha
ricordato nel suo messaggio per la celebrazione della Giornata mondiale della Pace del 1o
gennaio 2014: «Ma voi non fatevi chiamare
rabbì, perché uno solo è il vostro maestro e
voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno
padre sulla terra, perché uno solo è il Padre
vostro, quello del cielo» (Matteo, 23, 8-9).
Ammiriamo qui le due diverse forme del
verbo “chiamare”, al passivo e all’attivo! Mi
sembra sempre più evidente che solo l’abbandono di qualsiasi gerarchizzazione può condurre alla fraternità voluta dal nostro Maestro.
Penso anche che il femminismo abbia contribuito all’avvento di questa fraternità indicando un ostacolo inevitabile lungo il cammino:
il sessismo, che vive della paura di accogliere
la differenza sessuale e i costanti interrogativi
che essa ci pone. Ebbene, questa paura si è resa quasi indipendente al punto da condizionare ogni minimo distacco da schemi di potere
saldamente stabiliti. Ma, diciamolo chiaramente: essere donna non protegge neppure dalla
voglia di vedere altri più in basso nella scala!
Vedendo ciò che il nostro Papa sta facendo,
non ho dubbi che si avvicinerà il più possibile
al dire e al fare nel tempo del suo ministero.
Prendo a testimonianza la sua esortazione
apostolica Evangelii gaudium (n. 11) dove spiega questa sfida: «Nella sua venuta, ha portato
con sé ogni novità. Egli sempre può, con la
sua novità, rinnovare la nostra vita e la nostra
comunità, e anche se attraversa epoche oscure
e debolezze ecclesiali, la proposta cristiana
non invecchia mai. Gesù Cristo può anche
rompere gli schemi noiosi nei quali pretendiamo di imprigionarlo e ci sorprende con la sua
costante creatività divina. Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la
freschezza originale del Vangelo spuntano
nuove strade, metodi creativi, altre forme di
espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale. In realtà, ogni autentica azione evangelizzatrice è sempre «nuova”».
Da quando ero giovane, una profonda amicizia mi lega a una donna italiana, Luisa Muraro, che ha dedicato la sua vita di filosofa a
riflettere sulla differenza sessuale, accompagnando la lotta delle
donne per diventare liberamente
ciò che sono. Lei mi ha insegnato che non c’è nulla di scontato
in questa presa di coscienza di
sé da parte di noi donne, prigioniere quali noi siamo di rappresentazioni del mondo e della fede che, nella misura in cui falsano il “due” umano, sono radicalmente in disaccordo con il progetto di Dio, il solo “Uno”. Ancor più delle donne camerunensi, la cui vita ho condiviso per
alcuni anni, noi donne europee
abbiamo bisogno di una vera rivoluzione culturale, per ripulire
dai rovi il terreno su cui poggiare il piede senza pestare quello
altrui. Nella Chiesa, come nella
società, questa rivoluzione culturale esige dagli uomini e dalle
donne l’umile riconoscimento
del terreno troppo occupato dagli uni o lasciato inoccupato
dalle altre. Per anni sono stata
membro di una comunità di base; era il prete che doveva sollecitare le donne a prendere la parola, perché spesso queste erano
troppo poco convinte di essere
portatrici di una parola libera e
attendibile. Ora noi tutte sappiamo che in questo campo la
società è cambiata, al di là del ripiego delle
quote nella rappresentanza politica e sociale.
Ma la Chiesa — che fa riferimento a Cristo,
Parola e Luce — dovrebbe giustamente con il suo “fare” precedere
e illuminare il cammino così ar-
duo verso la fraternità. Come donna e come
biblista, spero che lo Spirito Santo ispiri un
giorno alla Chiesa il desiderio di ascoltare e di
dibattere il tema della vita e del posto delle
donne al suo interno. In ogni tempo i movimenti dello Spirito hanno incontrato esitazio-
Bernardo Carvalho, «Andirivieni» (2013)
ni nella Chiesa. Molte donne (e anche alcuni
uomini) provano grande diffidenza verso una
comunità di fede — la loro — che non le ascolta. Resto però convinta che la posta in gioco
non consiste nelle rivendicazioni, ma che dipende piuttosto da quanto la fraternità battesimale sappia rilanciare la sfida
ancora più lontano, ossia: la rottura con ogni forma di dominazione e di privilegio, istituiti in
nome delle differenze, siano esse
religiose, sociali o sessuali (cfr.
Galati, 3, 26-28).
Finché uomini e donne terranno più alla condizione
clericale che al servizio fraterno,
la Chiesa rischierà di non
realizzare la conversione di tutto
il popolo di Dio in vista della
sua responsabilità pastorale.
Troppo rari sono gli uomini
ordinati che le rivolgono questo
appello, troppo rare sono ancora
le donne che accettano i segni
della vicinanza di Dio da parte
di un’altra donna. Un passo nel
senso giusto sarebbe quello di
notificare loro la qualità di discepoli uguali nel servizio della
Parola. Una rivoluzione culturale (e cultuale) richiede tempo; bisogna cominciare a concederglielo. Una cosa è certa, già
da lungo tempo: il rifiuto di andare nel senso di un popolo fraterno non può fondarsi su ragioni teologiche.
Su un autobus in Thailandia
Una missionaria cattolica racconta l’incontro quotidiano con Gesù al conducente buddista
di TERESA BELLO
osa avrà colto del mio
Dio? Me lo sto chiedendo
ancora dopo quattro mesi
dalla conversazione con l’autista
di un mezzo pubblico. In quel
periodo andavo spesso, per lavoro, da un punto all’altro della città di Chiang Mai, in Thailandia,
C
Mentre la risposta
stava per diventare parola
prendevo coscienza
della grande responsabilità
che avrei assunto
con quella affermazione
e mi sedevo volentieri davanti, insieme con l’autista, per conversare, perché gli autisti sanno tante
cose della città e dell’aria che tira.
Quel giorno si trattava di un signore particolarmente loquace.
Saputo che ero una missionaria,
cominciò a farmi mille domande.
Mi arresi alla sua curiosità e risposi cercando di essere breve ma
anche precisa, visti gli argomenti:
la consacrazione, la vita eterna,
Dio. Tutte categorie ben diverse
tra il buddismo e il cristianesimo;
dovevo perciò fare attenzione per
non dare risposte vaghe o comunicare concetti sbagliati.
Nel mondo buddista dire monaco o monaca non significa necessariamente riferirsi a una scelta
di vita per sempre. Anzi, nella
maggioranza dei casi si è monaci
per un tempo che può variare da
qualche giorno a vari anni. Il mio
interlocutore mi aveva chiesto
perciò da quanto tempo ero religiosa e per quanto tempo ancora
lo sarei stata. Gli risposi che nella
nostra religione si tratta di una
scelta definitiva, che più importante di tutto era il rapporto con
Dio e che, per essere uniti a Lui
più intimamente, alcuni accoglievano questo stile di vita come un
dono da parte di Dio.
La domanda successiva non arrivò a raffica come le precedenti.
Ci fu uno stacco. Pensavo che ormai l’autista si acquietasse, che
avesse esaurito il suo repertorio. E
invece si preparava a farmi una
domanda speciale, capace di rivo-
luzionare il mio cuore e la mia
mente e spingermi a un esame di
vita velocissimo. Ancora oggi la
sua domanda mi risuona nelle
orecchie e nel cuore: «Tocchi Dio
tutti i giorni?».
Mi ritrovai anch’io a far pausa,
alla ricerca di una risposta possibile, necessariamente breve, comprensibile e, soprattutto, credibile.
Già, soprattutto credibile, perché
mentre la risposta stava per diventare parola, prendevo coscienza
della responsabilità che avrei assunto con quella affermazione.
Avevo coscienza del mio limite,
e le parole pesavano come macigni. Non volevano uscire. Il fatto
è che il tocco di Dio, tutti i giorni
possibile, doveva trovare corrispondenza in una vera trasformazione di me stessa, doveva essere
percepibile nella mia concretezza
relazionale. Me ne sentivo lontana, allora come rispondere?
Quell’uomo stava aspettando e la
corsa stava per finire.
«Sì — osai — tutti i giorni», cercando poi di spiegare. Quel contatto impossibile è stato reso possibile da Gesù. In lui, Dio si è fatto
uno di noi. E noi abbiamo accesso
alla relazione con lui tutti i giorni.
È un avvenimento ogni volta altissimo e inimmaginabile che il quotidiano mai deve banalizzare.
Lo stavo dicendo a lui come a
me, che sì, è proprio vero, posso
toccare Dio. E lo posso fare tutti i
giorni. Dio è così grande da potersi abbassare fino a noi — tutti i
giorni — per amore, perché lui desidera farci ogni giorno di più persone capaci d’amare gratuitamente,
proprio come Gesù. Ero arrivata a
destinazione. Altra gente doveva
essere condotta altrove. «Arrivederci, grazie». «Arrivederci, è stata
una bella conversazione».
Ero accaldata, e non solo per la
temperatura esterna. Cosa avrà capito lui, il mio interlocutore buddista? Non so. Non so davvero.
Ma so che io non ho più dimenticato la domanda. È lì come un
dono e un impegno anche per la
mia vita cristiana. Mi accompagna
ormai da quattro mesi, ravvivando
in me la gratitudine per il dono
dell’incredibile prossimità di Dio
e riconducendomi all’impegno
quotidiano di conversione.
La missione di ogni cristiano è
bellissima: è rendere visibile la
possibilità che ci è data di poter
toccare Dio tutti i giorni. È farci
prossimo sullo stile di Gesù, per
essere anche noi, come lui, luogo
di incontro, spazio di relazione
possibile tra Dio e gli uomini.
Che meraviglia la nostra fede:
la relazione che noi viviamo con
Dio non si esaurisce tra noi e lui,
ma diventa spazio che permette a
Dio di raggiungere i nostri fratelli. E anche permette ai nostri fratelli di incontrare e toccare Dio
che ci abita.
Credo che sia da intendere in
questa linea l’espressione di Paolo: il marito non credente viene
reso santo dalla moglie credente e
la moglie non credente viene resa
santa dal marito credente (I Corinzi 7, 14). Ogni battezzato è perciò
abilitato a essere missionario sempre perché è abitato da Dio. Il
credente che accoglie nel suo cuore il prossimo non credente, dona
a lui — insieme con l’amicizia — la
possibilità di incontrare Dio che
lo inabita e quindi di essere reso
santo da lui. Voglia il Signore
renderci sempre più casa abitata
da lui dove altri possono entrare
perché avvenga l’incontro.
di AGNESE CAMILLI
apa Francesco è stato chiaro: nel suo discorso ai giudici rotali, ha ricordato che
a loro è richiesto un profilo
umano, in modo da praticare «una giustizia non legalistica e
astratta, ma adatta alle esigenze della
realtà concreta». Ricordando, poi, che
la carità «costituisce l’anima anche della
funzione del giudice ecclesiastico». E questo atteggiamento è richiesto particolarmente oggi che la questione della nullità del
vincolo matrimoniale è al centro del problema della famiglia, a sua volta al cuore della
riflessione della Chiesa. Papa Francesco, infatti, ha deciso di affrontare quello che è il
punto più caldo del rapporto fra Chiesa e
modernità, e le donne vengono coinvolte anche nella sfera giuridica.
Da più di trent’anni — per la precisione,
dal 1982 — nei tribunali ecclesiastici sono entrate anche le donne, mentre le prime avvocatesse rotali sono state ammesse a patrocinare dal 1975. Dopo un primo periodo di ambientamento, le donne sono stabilmente inserite in questa realtà, in cui l’applicazione fedele dei principi della legge canonica non
può prescindere dalla vicinanza caritatevole
con persone che soffrono per avere visto distrutta la loro famiglia.
Abbiamo svolto un’inchiesta sulla presenza
femminile nei tribunali della Chiesa a partire
dal Vicariato di Roma, ove hanno tra l’altro
sede i tribunali di prima istanza e di appello
per le cause di nullità matrimoniale del Lazio.
Per ottenere la dichiarazione di nullità del
celebrato matrimonio occorrono due gradi di
giudizio. Nel corso del primo grado si introducono i capi di nullità che vengono posti a
base della richiesta, si raccolgono le prove sia
documentali che testimoniali, si espletano se
necessario le perizie del caso, dopo di che i
giudici sono chiamati a pronunciarsi. Ove
venga riconosciuta la nullità del matrimonio
per i capi di nullità introdotti, la causa viene
trasmessa, dallo stesso tribunale di prima
istanza, al tribunale di appello. Laddove, invece, la nullità non venga riconosciuta, il tribunale di appello viene consultato su istanza
di parte, qualora questa intenda proseguire.
In questa sede il collegio giudicante è chiamato a rivedere, sia sotto il profilo della legittimità che del merito, la sentenza di primo
grado. Ove approvi l’operato del collegio
giudicante che si è pronunciato in prima
P
Orgoglio e responsabilità
Sono in molti a essere feriti: una città,
colpita da un terremoto devastante; una
famiglia, percossa dalle incomprensioni e
dai lutti; una giovane donna, la cui vita è
stata fin dall’infanzia vissuta nel cono
d’ombra di una gemella che l’ha
costantemente protetta con la sua forza.
Eppure il romanzo dell’abruzzese
Donatella Di Pietrantonio, Bella mia
(Elliot, 2014) ambientato a L’Aquila,
riesce a sganciarsi dal cliché di una mera
storia di riscatto e ricostruzione. Perché
affrontando le difficoltà del presente
(aggravate dalla consapevolezza che la
politica è venuta meno al suo senso etico)
e trovandosi costretta a fare i conti con il
passato, la protagonista — di professione
ceramista — scopre che in realtà il confine
tra vincitori e vinti è estremamente labile.
Una consapevolezza, questa, che forse le
permetterà di sciogliere quel nodo di
cupezza che marca, come un leggero
sibilo represso, ogni suo respiro.
(@GiuliGaleotti)
Inchiesta sulla presenza femminile nei tribunali ecclesiastici
istanza, viene emesso un decreto di ratifica
che conferma i capi di nullità che sono stati
riconosciuti dal tribunale di primo grado.
Il procedimento che indaga sulla nullità o
meno del vincolo matrimoniale non può che
valutare i presupposti che hanno condotto alla celebrazione del matrimonio e sul fil rouge
che lega tali presupposti con l’avvenuto fallimento dello stesso. Ove il tribunale riscontri
tale diretto rapporto, anche laddove siano intercorsi un certo numero di anni tra l’inizio
della vita coniugale e la sua conclusione, non
può che pronunciarsi accogliendo tale richiesta sebbene la normativa canonica vigente
Papa Francesco
lo ha ripetuto di recente
La carità
deve costituire l’anima
della funzione del giudice ecclesiastico
muova da un postulato di validità del vincolo matrimoniale.
Le ragioni per cui può essere considerato
nullo un matrimonio sono per lo più i vizi
del consenso. Per poterli dimostrare occorre,
dunque, indagare approfonditamente nella
sfera più profonda della volontà dei nubendi,
e in questo contesto si muovono gli operatori
del diritto che sono chiamati a collaborare
all’interno del tribunale.
I ruoli di coloro che operano all’interno
del tribunale sono essenzialmente tre: il ruolo
di giudice e uditore, di difensore del vincolo
e di notaio.
Nell’ambito della prima funzione, nel tribunale di prima istanza le donne sono presenti quali uditrici: conducono, cioè, l’attività
istruttoria secondo il mandato del giudice
presidente del collegio e sono approvate dal
vescovo. La presenza femminile è maggioritaria: tre donne su cinque uditori.
Tra queste vi è Alessandra D’Arienzo, coniugata con due figli, che ha conseguito il
dottorato in diritto canonico presso la Pontificia Università Lateranense, dopo aver ottenuto la laurea in giurisprudenza in Italia.
«Quando ho cominciato a collaborare con il
tribunale — ci dice — avevo una figlia molto
piccola; prima di me erano state assunte due
colleghe. Oggi, come uditrice, svolgo con orgoglio e profondo senso di responsabilità la
mia attività, collaborando fattivamente con
l’istituzione ecclesiastica e mettendo a servizio della stessa la mia qualifica professionale
e la mia sensibilità di donna. Nell’ambito
dell’istruttoria che conduco quotidianamente,
cerco di accogliere le persone che incontro
con rispetto, delicatezza e professionalità».
I difensori del vincolo debbono, invece,
valutare attentamente tutte le motivazioni per
le quali deve essere considerato valido il vincolo coniugale impugnato. Questa figura non
sempre viene compresa, ma è indispensabile
affinché — nell’ambito della dinamica processuale — risultino ben chiari tutti gli aspetti a
favore e contro le tesi proposte e il giudice
possa disporre, prima della decisione, di tutti
gli elementi necessari per decidere la causa
secondo giustizia. In questo settore la presenza femminile è pari al sessantasette per
cento.
Chiara Gabellini — coniugata, due figli, un
bambino di otto anni e una bambina di sei,
laurea in giurisprudenza presso l’università di
Roma La Sapienza e dottorato in diritto canonico — svolge da anni questo ruolo con
passione e serietà. E così lo spiega:
«Nell’ambito del mio ruolo di difensore del
vincolo, portatore di un interesse pubblico
che appartiene alla Chiesa, sono chiamata a
proporre tutti gli elementi a favore della validità del matrimonio. Nello svolgere seriamente questo compito, necessario per la ricerca della verità, cui tende il processo canonico, mi confronto sempre con la sofferenza
e le difficoltà che vivono i fedeli che purtroppo hanno visto fallire la loro unione matrimoniale e che si rivolgono al tribunale ecclesiastico per ottenere delle risposte in ordine
al sacramento che hanno celebrato».
I notai svolgono un ruolo altrettanto importante perché la loro presenza è indispensabile in quanto sono chiamati ad attestare la
veridicità di quanto accade nel processo. Di
fatto sono i garanti della correttezza dell’operato che si svolge nella quotidianità della vita
dei tribunali ecclesiastici. Le donne sono il
settantacinque per cento degli operatori in
questo ambito.
Il loro compito è tanto delicato quanto
fondamentale. Solo dalla piena correttezza
dell’iter processuale deriva il rispetto
dell’uguaglianza dei diritti per tutte le parti
in causa, necessario a garantire una sentenza
giusta. Stefania Giombini — laureata anche
lei in giurisprudenza, in procinto di conseguire il dottorato in diritto canonico, sposata
e madre di un bambino di sedici mesi —
svolge da otto anni il ruolo di notaio e sulla
sua esperienza professionale evidenzia: «An-
che per lo svolgimento della funzione di notaio la preparazione e la serietà del proprio
operato rappresentano una collaborazione alla ricerca della verità. Per tale ragione ho deciso di completare la mia formazione giuridica in ambito canonico. Ho la convinzione
che non è un lavoro come un altro in quanto
ogni giorno sono chiamata ad accogliere con
sensibilità le persone e a contribuire con il
mio operato alla celerità del processo, rendendo un servizio alla Chiesa».
Nell’ambito del tribunale di prima istanza
del Vicariato di Roma, su una presenza femminile pari al quarantacinque per cento degli
assunti, il quindici per cento delle presenze
femminili ha oltre quindici anni di anzianità
di servizio e il quaranta per cento ha circa
dieci anni di servizio. I tribunali ecclesiastici
competenti per le cause di nullità matrimoniale sono presenti in tutta Italia, come nel
resto del mondo, e la presenza femminile è,
ormai, importante.
Come abbiamo anticipato, una vera e propria rivoluzione al femminile si è verificata
anche nel ruolo della difesa. Se si analizza
l’albo degli avvocati rotali il dato che balza
agli occhi è che la presenza femminile si è in-
È dal 1975 che le avvocatesse
possono patrocinare
nei processi per nullità matrimoniale
crementata, negli ultimi venti anni in modo
notevole. Se, infatti, sino al 1980 le presenze
femminili erano solo di tre unità su trentasette avvocati iscritti all’Albo, nel decennio immediatamente successivo il numero aumenta
fino a contare altre ventiquattro iscritte su
cento avvocati.
A partire dal 2000, si inverte il rapporto:
su 154 nuovi iscritti ben 96 sono donne, cioè
la presenza femminile arriva al sessantatré
per cento degli iscritti circa. Dal 2010 a oggi,
su 24 nuovi iscritti, le avvocatesse sono 13.
Nella Città del Vaticano hanno sede anche i
tribunali interni, che operano in materia di
giustizia civile e penale, e in questa sede sono iscritti 82 avvocati, di cui 35 donne.
Possiamo ormai esserne certi. Qualsiasi sia
il cammino che il Papa riterrà di intraprendere in materia di legislazione matrimoniale, le
donne apporteranno un contributo fondamentale.
Il saggio
Héroines de Dieu
L’Ottocento è stato il secolo in cui la
vitalità e il coraggio delle religiose sono
esplosi offrendo al mondo numerosi
esempi di dedizione straordinaria al
messaggio cristiano. Ma queste vite,
in gran parte, sono oggi dimenticate:
meritorio quindi il bel libro
di Agnes Brot e Guillemette de La Borie,
Héroines de Dieu. L’epopée des réligieuses
missionaires au XIXe siècle (Presses de la
Renaissance, 2011) che ricostruisce
i profili di otto missionarie francesi andate
sino “ai confini del mondo” per
evangelizzare, correndo pericoli e
affrontando grandi difficoltà, ma anche
facendo esperienze interessanti e
usufruendo di una libertà d’azione che le
donne laiche dell’epoca non si sognavano
neppure di raggiungere. Fra gli indiani
d’America, in Africa, in Oceania e Nuova
Zelanda, in Terra santa e in Cina, in
Brasile: niente poteva fermare il loro
ardore missionario e il loro coraggio. Esse
costituiscono senza dubbio un tassello
dimenticato della storia
dell’emancipazione femminile.
(@lucescaraffia)
Il film
Monster’s Ball
È un film duro. Molto duro. Soprattutto
per la violenza psicologica che — specie
nella prima parte — scava e travolge come
implacabile bulldozer tutto quello che
trova lungo la via. Eppure, la storia
raccontata nel film Monster’s Ball (2002),
del regista statunitense Marc Forster,
dimostra come anche nella desolazione
esistenziale, nella povertà emotiva che
parrebbe senza speranza, una fiammella
c’è. Scaturisce, con enorme fatica
in una pellicola
dominata da silenzi
fragorosi,
dall’incontro tra
l’afroamericana
Leticia, moglie di
un condannato a
morte e madre di
un bambino obeso,
e il razzista Hans,
che lavora nel
braccio della morte
di una prigione
della Georgia,
come suo padre
prima di lui e come
suo figlio Sonny,
assunto da poco. La donna e l’uomo si
incontreranno sul precipizio dell’ennesimo
dramma, dapprincipio ignari che le loro
strade si sono già incrociate, quando
Hans ha accompagnato il marito di
Leticia alla sedia elettrica. La verità sarà
sale ulteriore su vite già molto provate,
ma Leticia — interpretata da Halle Barry,
che per questa parte sarà la prima
afroamericana a vincere il premio
Oscar come migliore attrice protagonista
— troverà la via per riconciliarsi
con la vita. L’esecuzione capitale apre il
film, il tentativo (riuscito)
di superare la disperazione lo chiude.
(@GiuliGaleotti)
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NOMINE
FEMMINILI IN
EGITTO
«La situazione resta difficile in Egitto, ma i segni di
speranza per la rinascita della società locale non vanno
ignorati»: così Wael Farouq, docente di arabo al Cairo,
intervenendo a Milano a un convegno dedicato alla
valenza ecumenica della dottrina sociale della Chiesa.
Come esempi, Farouq ha ricordato due recenti elezioni:
quella della dottoressa cristiana Mona Mina, uno dei volti
più noti di piazza Tahrir, alla guida del sindacato dei
medici egiziani, e quella della copta ortodossa Hala
Shukrallah alla presidenza del Partito della Costituzione.
Cinquantanove anni, sociologa, Shukrallah — che nel
2006 prese parte alla fondazione del Movimento degli
egiziani contro la discriminazione — succede al premio
Nobel Mohamed ElBaradei che, nell’aprile 2012, aveva
fondato il Partito della Costituzione nel tentativo di
superare la contrapposizione tra formazioni politiche
religiose e laiche. Interessante che nelle sue prime
dichiarazioni, Shukrallah abbia detto di non apprezzare
l’insistenza con cui i media richiamano il suo essere la
prima donna e la prima copta alla guida di un partito in
Egitto. A suo avviso, infatti, questo tipo di presentazione
induce a fermarsi alle etichette, invece di confrontarsi
davvero «con i contenuti di ciò che si dice».
LE
SCHIAVE DI IERI
Delle poche parole che l’attrice Lupita Nyong’ o ha
pronunciato ritirando l’Oscar 2014 come migliore attrice
non protagonista, la stampa ha per lo più ricordato il
passaggio finale: «Questa statuetta significa che non
importa da dove tu venga, i tuoi sogni possono
comunque realizzarsi». Eppure erano state molto più
interessanti le parole iniziali della trentunenne attrice
kenyota, premiata per aver interpretato la schiava Patsey
nella pellicola 12 years a slave di Steve McQueen. Tratto
dalla autobiografia (1853) di Solomon Northup, il film
racconta la storia del violinista di colore, uomo libero
nello Stato di New York che, con l’inganno, viene rapito
e portato in Louisiana dove rimarrà in schiavitù per 12
anni. Dopo aver ringraziato per l’Oscar, Nyong’o ha
aggiunto: «Nemmeno per un secondo posso però
dimenticare che la gioia di questo momento è stata resa
possibile dall’enorme sofferenza di qualcun altro. Proprio
per questo voglio ringraziare lo spirito di Patsey, che mi
ha guidata. E ringraziare Solomon, per aver raccontato la
storia vera di questa ragazza, e la sua».
E
circhi. Per cercare di far fronte al fenomeno, è stata
fondata la ong Esther Benjamin Trust che, oltre a
denunciare queste situazioni, dà rifugio alle vittime. Le
cifre esatte non si conoscono, ma la ong stima che ogni
anno siano almeno 500 i piccoli sfruttati nelle attività
circensi tra spettacoli di varietà, acrobazie e
contorsionismi. Si tratta normalmente di minori nepalesi,
rapiti da villaggi poverissimi ai piedi dell’Himalaya, dove
i rapitori arrivano promettendo ai genitori che i loro figli
diventeranno artisti del circo. In cambio di una trentina
di dollari, chiedono una firma su un documento scritto
totalmente in inglese, quindi incomprensibile per i
genitori, e si portano via i piccoli. Una volta in India, i
bambini sono ridotti in schiavitù, subendo abusi di ogni
genere. Esther Benjamin Trust finora è riuscito a salvare
700 piccole vittime, ospitandone una sessantina in un
rifugio segreto fuori Kathmandu. Più in generale, la piaga
del lavoro minorile in queste zone è in aumento: ci sono
20 milioni di piccoli lavoratori nelle fabbriche indiane e
duecentomila schiavi nepalesi che non guadagnano
neanche un centesimo pur lavorando quindici ore al
giorno.
GLI SCHIAVI DI O GGI
Un tipo di schiavitù minorile tenuta scarsamente in
considerazione è quella presente in Paesi come India e
Nepal, dove centinaia di bambini vengono sfruttati nei
ASILO
NID O IN FACOLTÀ
In Messico — dove dal 2000 è in aumento il numero di
gravidanze tra le ragazze di età tra 12 e 19 anni — sta
diventando un problema serio l’abbandono degli studi
delle giovani per maternità. I dati oscillano intorno al 40
per cento per gli studi medio-superiori e al 20 per quelli
superiori. Secondo la ricerca nazionale sull’abbandono,
sono la vergogna e i pregiudizi le cause che inducono le
adolescenti al ritiro. Le borse di studio disponibili per le
giovani madri sono insufficienti. Per questo gli studenti
della facoltà di giurisprudenza dell’università Juárez
(Stato di Durango) hanno aperto un asilo nido unico nel
suo genere. Creato dagli studenti per gli studenti, con il
supporto di Governo e università, ha una retta che
dipende dalle possibilità del singolo. Aperto dalle 7 alle
20, ospita 160 bimbi. Ma le domande sono molte di più.
NUMERI
SULLE D ONNE NEL MOND O
Su un miliardo e 300 milioni di persone che vivono in
condizioni di povertà estrema in tutto il mondo, 910
milioni sono donne. Cioè 7 su 10. Lo ha rivelato la ong
spagnola Ayuda en Acción che, dal 1981, si dedica alla
cooperazione internazionale per cercare di combattere la
povertà mediante programmi di sviluppo autosostenibili e
campagne di sensibilizzazione tra le fasce più vulnerabili.
Le donne che vivono nei Paesi più poveri del mondo,
nonostante producano il 70 per cento dei generi
alimentari, non possiedono neanche il 2 per cento dei
terreni coltivabili. A completare il quadro, le scarse
possibilità di accedere all’istruzione e la piaga dei
matrimoni e delle gravidanze precoci (secondo la ong,
sono oltre 60 milioni le forzate spose bambine). Intanto
una donna ogni minuto muore durante la gravidanza o il
parto per complicazioni evitabili. Contestualmente
l’Agenzia dei diritti fondamentali della Ue ha pubblicato
un’indagine da cui emerge che i Paesi dove si registrano
più violenze sulle donne sono quelli scandinavi. L’Italia si
trova al diciottesimo posto, penultima prima della
Polonia. Colpisce che a guidare la classifica siano proprio
L’OSSERVATORE ROMANO aprile 2014 numero 22
Inserto mensile a cura di RITANNA ARMENI e LUCETTA SCARAFFIA, in redazione GIULIA GALEOTTI
www.osservatoreromano.va
i Paesi in cui le donne sono più presenti in politica e nel
mondo del lavoro, come Danimarca, Finlandia e Svezia.
UN
FILO PER LE D ONNE
ROM
DI
MILANO
Taivè è una parola in lingua romanì che significa filo. Ed
è proprio grazie a quel filo che otto donne rom stanno
riuscendo a riscattarsi nelle baraccopoli di Milano,
conquistando fiducia in se stesse e autonomia. Il progetto
Taivè è il ramo femminile di sartoria e stireria della più
ampia cooperativa sociale Ies (impresa etica sociale), ed è
nato grazie alla collaborazione con la Caritas ambrosiana
e al rapporto che l’organizzazione, lavorando nei campi
rom cittadini, ha instaurato da tempo con molte donne
rom e con le famiglie. A oggi sono in otto a tagliare,
cucire e stirare con un orario part time nel laboratorio.
Dal 2008, quando il progetto ha preso il via, alle
macchine da cucire di Taivè si sono sedute 19 donne, di
età tra 20 e 50 anni, provenienti da Romania, Macedonia
e Kosovo. Di queste, due hanno trovato autonomamente
lavoro una volta finito il periodo di formazione e altre
sei, dopo essere state per un periodo con Taivè, sono
passate ad altre occupazioni temporanee.
LE
D ONNE DELLO
SWAZILAND
La trentenne Wezi Kunene ha avverato il suo sogno: a
Manzini, principale città dello Swaziland, suo Paese
natale, gestisce un negozio specializzato in rivestimenti e
riparazioni di mobili. La giovane ha costruito il suo
successo a poco a poco, partendo dal corso di formazione
frequentato nel 2006 presso il Centro professionale don
Bosco. Il suo è solo uno dei tanti casi: i salesiani,
infatti, sono attivi nel piccolo e problematico Paese
africano, dove seguono molti progetti rivolti, in
particolare, a donne vedove e ragazze madri.
SE
I GIORNALI FANNO CAMBIARE NOME ALLA PED OFILIA
Da qualche tempo, la magistratura italiana sta indagando
su un traffico sessuale avvenuto a Roma dove uomini
adulti hanno abusato, in cambio di denaro, di due
minorenni di 14 e 15 anni. I fatti sono già gravi nella loro
sostanza, ma quello che colpisce è il modo in cui, quasi
all’unanimità, la stampa italiana li racconta, aggiungendo
costantemente nuovi dettagli. Nonostante le due abbiano
un’età che le fa rientrare a pieno diritto nella
Convenzione di Lanzarote sulla protezione dei minori
contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, i giornali
continuano a parlare di «baby squillo». Eppure gli adulti
che hanno rapporti sessuali con bambini e ragazzini sono,
senza ombra di dubbio, pedofili.
donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne
Maddalena, manager spirituale
La santa del mese raccontata da Gianpaolo Romanato
a Rivoluzione francese comportò un mutamento radicale nel
ruolo della donna all’interno
della Chiesa. Nel mondo prerivoluzionario esisteva una sola
figura di donna consacrata: la monaca,
che rinunciava al mondo e si isolava tra le
mura del monastero. Pensiamo alla monaca di Monza di Alessandro Manzoni, che
non è soltanto una grande creazione letteraria, ma un esempio concreto della condizione giuridica femminile del tempo. Invece, il mondo postrivoluzionario, cancellando molti monasteri, sopprimendo il valore pubblico dei voti e riportando le religiose dentro il diritto comune, pose le religiose stesse davanti alla necessità di ripensare la loro funzione in termini non di
isolamento bensì di utilità sociale.
Nacque da tale ripensamento quella figura nuova, prima inesistente, che è la
suora, cioè la donna consacrata che non si
astrae dal mondo ma vi si immerge, soprattutto dove il bisogno è più acuto: asili, scuole, ospedali, carceri, disabilità, marginalità, missioni nei Paesi lontani. La
Chiesa cessò di essere una comoda nicchia
sociale e divenne strumento di elevazione
interiore al servizio dei più umili.
All’origine di questo cambiamento troviamo un’aristocratica di ceppo antico, discendente di una delle più gloriose casate
nobiliari italiane: Maddalena di Canossa.
Era nata nel 1774 a Verona, una città investita in pieno dagli eventi rivoluzionari,
per qualche tempo divisa in due: a destra
dell’Adige si insediarono i francesi, a sinistra gli austriaci. Verona divenne così, per
riprendere un’acuta osservazione di Cornelio Fabro, il punto geografico di maggior frizione fra il vecchio e il nuovo.
Forse è per questo motivo che proprio
Verona vide nascere in gran copia, nel corso dell’Ottocento, in particolare nella prima metà del secolo, nuove congregazioni
religiose di vita attiva e non contemplativa: dagli stimmatini (ai quali apparteneva
Fabro) ai mazziani, dai comboniani alle
sorelle della Misericordia di Carlo Steeb,
fino all’istituto di Antonio Provolo, dedito
al recupero dei sordomuti. Fra bisogni sociali sempre più impellenti e trapassi di
ricchezze molto più rapidi che nel passato,
a Verona furono probabilmente più frequenti che altrove le crisi di coscienza che
sconvolsero la vita delle persone e il loro
modo di rapportarsi con Dio.
La marchesa Maddalena di Canossa fu
una di queste. Tentò la strada della vita
claustrale fra le carmelitane, ma la sua vocazione era di cercare Dio nel prossimo,
non nella solitudine. Come tutti i creatori
di grandi iniziative caritative, non ebbe vita facile né in famiglia né nella Chiesa veronese. Tuttavia la sua tenacia fu più forte
delle resistenze e tra il 1808 e la sua morte, che avvenne nel 1835, nacquero e fiorirono le sue case, a partire dalla prima, avviata nel quartiere di San Zeno, il più povero e derelitto della città.
In meno di trent’anni le Figlie della Carità Serve dei Poveri — questa la denomi-
L
La scrittrice americana Flannery O’Connor
Il limite
come punto di forza
di ELENA BUIA RUTT
lannery O’Connor, nata nel 1925 a Savannah, in Georgia, da genitori di origine irlandese, aveva poco tempo a
disposizione e lo sapeva: un lupus eritematoso (grave
insufficienza del sistema immunitario), ereditato dal padre, se
la sarebbe portata via alle prime ore del mattino del 3 agosto
1964, a soli trentanove anni, lasciando un allevamento di pavoni e una produzione letteraria ristretta, ma di inequivocabile
e raro talento.
La sua vita è povera di elementi biografici rilevanti, a parte
un soggiorno di due mesi, nel 1948, nello Stato di New York e
un viaggio in Europa dove, già gravemente malata, partecipò
a un’udienza papale in Vaticano e a un pellegrinaggio a Lourdes. Quando nel 1951 lasciò l’ospedale di Atlanta, troppo debole per salire le scale, Flannery O’Connor si trasferì con la
madre ad Andalusia, l’antica casa di famiglia poco distante
dalla città di Milledgeville, piccolo centro agricolo della Geor-
F
Acutissima e autoironica, per via delle stampelle
si definiva «una struttura ad archi rampanti»
Lascia pochi ma folgoranti scritti
che affondano le radici
in un cattolicesimo ustionante e radicale
gia. Al piano terra della fattoria, scrisse il suo primo romanzo
La saggezza nel sangue (Wise Blood, 1952).
Seppure in preda a profonde sofferenze, Flannery O’Connor considerò l’isolamento procuratole dalla malattia una benedizione — «Signore, sono contenta di essere una scrittrice
eremita», scriveva a un’amica — per il fatto di trovarsi in pieno di fronte a quella che riteneva essere l’esperienza essenziale
con cui ognuno di noi in qualche modo dovrebbe fare i conti:
«l’esperienza della limitatezza». Considerava inoltre il suo stato fisico con profondo senso dell’umorismo, definendosi per
via delle stampelle «una struttura ad archi rampanti» e per
lettera si congedava sdrammatizzando: «Devo andarmene sulle mie due gambe d’alluminio».
Nonostante la malattia e la produzione limitata, il successo
arrise a Flannery O’Connor. I ventisette racconti e i due romanzi le fruttarono in vita due lauree ad honorem e tre volte
la vittoria dell’O. Henry Award. Nel 1988 la sua opera fu inclusa nella prestigiosa collana Library of America, onore fino
ad allora riservato, tra i contemporanei, solo a William
Faulkner.
Per quel che riguarda le edizioni italiane arrivano subito le
dolenti note: se i romanzi e i racconti sono stati pubblicati per
intero, lo stesso non è avvenuto per i saggi e soprattutto per
le lettere, tradotte fino a ora solo in parte. Volendo azzardare
una lettura della, se non scarsa, quanto meno faticosa fortuna
di quest’autrice in Italia, si può convenire sul fatto che la narrativa di Flannery O’Connor affonda le sue radici in un cattolicesimo talmente ustionante, personale e radicale, che non
stupisce il fatto che possa scatenare pregiudizi e atteggiamenti
censori. Ma questa scrittura non prende di mira solamente
quel buon senso vagamente laico, razionale e illuministico
dell’ateo e dell’agnostico. Intende provocare — con ironia e
sarcasmo — anche, e soprattutto, il lettore benpensante e rispettabile, espressione di un cattolicesimo convenzionale,
spesse volte ipocrita e bigotto.
Uno stile chiaro, veloce, traccia i confini di un territorio
estremo dove muovono personaggi eccentrici e strampalati,
ma inflessibili cercatori di assoluto. Anime pervicacemente
chiuse in se stesse, fino a quando un fatto violento e imprevisto sopravviene a scardinarne convinzioni e chiusure. L’apertura raggiunta costa loro lacrime e sangue, ma è questa l’unica
via possibile per raggiungere la prossimità con il mistero. Un
mistero che, secondo Flannery O’Connor, è il riconoscimento
intuitivo di un Dio che trascende e salva l’uomo, sanando la
sua incompiutezza e fragilità, sinonimo di umanità.
Leggere questa narrativa vuol dire quindi frequentare una
zona spirituale faticosa. Vuol dire guardare la realtà alla luce
di un realismo cristiano a volte sconcertante, che fa del limite
dell’uomo il suo punto di forza. Uno sguardo tanto più impietoso, quanto più rimandante a una pietà più grande e incondizionata.
Prima della Rivoluzione francese
esisteva una sola figura
di donna consacrata, cioè la monaca
Poi cambia tutto e nasce la suora
nazione canonica delle suore canossiane —
conobbero una rapida diffusione che le
portò in varie città del Veneto e della
Lombardia, avendo ottenuto in pochi anni
le approvazioni civili e religiose, fino al riconoscimento pontificio, che giunse nel
1828. Poi, dalla metà del secolo in poi, la
diffusione anche all’estero, che le ha rese,
oggi, una sorta di multinazionale della carità presente in tutti i cinque continenti.
All’origine di questa crescita straordinaria, che coinvolse umili ragazze del popolo ma anche donne della migliore società
del tempo — la sorella di Antonio Rosmini, Margherita, entrò nell'Istituto canossiano e fondò nel 1828 la casa di Trento — ci
fu sicuramente l’ascendente spirituale di
Maddalena, ma ci fu anche un’attitudine
al comando, una managerialità, diremmo
oggi, che doveva far parte da sempre del
genio della famiglia.
Questa era giunta in riva all’Adige nel
Quattrocento e nel secolo seguente si stabilì nella dimora — appunto Palazzo Canossa, progettato da Sanmicheli e affrescato da Tiepolo (oggi questi dipinti sono
andati perduti) — che divenne l’edificio di
maggior pregio della città. Nel 1822 fu
questo palazzo che ospitò i rappresentanti
delle grandi Potenze riuniti nel Congresso
di Verona, convocato per rimettere ordine
nel continente. E due nipoti di Maddalena dominarono la città per buona parte
dell’Ottocento: il cardinale Luigi ne fu vescovo per quarant’anni, mentre il marche-
Gianpaolo
Romanato (1947)
insegna storia
contemporanea e
storia della Chiesa
moderna e
contemporanea
all’università di
Padova. Membro
del Pontificio
Comitato di Studi
Storici, ha scritto
tra l’altro: Pio X.
La vita di Papa
Sarto (1992);
L’Africa nera fra
Cristianesimo e
Islam. L’esperienza
di Daniele Comboni
(2002); L’Italia
della vergogna nelle
cronache di Adolfo
Rossi (2010);
Giacomo Matteotti.
Un italiano diverso
(2011); Pio X. Alle
origini del
cattolicesimo
contemporaneo, di
uscita imminente.
se Ottavio fu a capo del Comune sotto gli
austriaci, rimanendo poi uno dei maggiorenti cittadini.
Da questa famiglia potente, abituata a
primeggiare, con influenze e relazioni
estese dovunque, Maddalena — sua mamma era una nobildonna ungherese — rice-
vette non solo un’educazione raffinata, ma
anche la capacità di concepire e gestire
imprese di successo. A tutto questo lei aggiunse il suo personale carisma: piegare
una grande fortuna terrena, ponendola al
servizio non della gloria mondana ma di
una gigantesca opera di carità.
Vetrata realizzata nello Studio Moretti
Caselli di Maddalena Forenza
per la chiesa di Santo Spirito
(Perugia, 2010;
foto: Michele Panduri-Metalli)
di GIANPAOLO SALVINI
Pasquale Cati, «Il Concilio di Trento» (1588, particolare)
donne chiesa mondo
aprile 2014
Salire più in alto
fatto, una donna, Maria, è più importante dei
vescovi» (n. 104). A questo punto si pone una
grande sfida per la Chiesa e, direi, uno sforzo
di fantasia, di cui lo Spirito Santo è sempre
stato grande protagonista nella storia, e che
sinora è mancato, per trovare le soluzioni più
opportune. Non si tratta di clericalizzare le
donne, come alle volte sembra venir proposto
da certe soluzioni, ma di trovare gli spazi
adatti in cui il carisma femminile possa
esprimersi e venire valorizzato anche in
termini di capacità decisionali e di autorità.
O, come sarebbe più consono nella vita della
Chiesa, di servizio autorevole all’intero
popolo di Dio. Se le donne intendono
acquisire potere nella Chiesa semplicemente
sottraendolo agli uomini e rivendicandone le
stesse funzioni, è probabile che risultino
sempre perdenti. Ma è tutt’altro che facile
identificare posizioni autorevoli, alternative a
quelle occupate dagli uomini, adatte a
valorizzare la complementarietà che la donna
può e deve mettere al servizio della comunità
ecclesiale e la loro femminilità. Pure in questo
campo le donne devono esprimere quanto gli
uomini non possono offrire, o non possono
offrire da soli. Dio ha creato uomini e donne,
due generi diversi tra loro, ma complementari
e ugualmente necessari pure alla vita della
Chiesa. In passato non sono mai mancate,
nella storia della Chiesa grandi figure di
donne che hanno smosso Papi e istituzioni.
Come nella Bibbia sono presenti donne che
hanno salvato il proprio popolo intervenendo
nei momenti cruciali della storia della
salvezza: Giuditta, Ester, Maria di Magdala
che “sveglia” gli apostoli annunciando loro
per prima la risurrezione di Gesù. Si tratta di
interventi considerati spesso come
straordinari, ma che in realtà fanno parte
intimamente del tessuto biblico e, in
particolare, del rapporto tra Gesù e le donne,
come appare dai vangeli. La donna non aveva
compiti istituzionali né molti diritti in seno
alla società antica, anche ebraica. La società si
è però profondamente trasformata dai tempi
di Gesù e della fondazione della Chiesa. La
legislazione e la cultura hanno fatto
largamente posto alla donna e ai suoi carismi
in fatto di istruzione, di cultura, di
partecipazione alla vita politica e sindacale,
ma non sempre hanno saputo predisporre i
meccanismi adatti perché in tutti i settori le
donne potessero effettivamente farsi valere. Il
risultato è che in molti settori, ad esempio
della vita pubblica e impresariale, le donne
sono praticamente assenti nei posti direttivi.
Nel tempo successivo alla laurea, infatti,
mentre gli uomini fanno la gavetta,
acquisiscono esperienze, si fanno conoscere e
preparano così il loro accesso ai posti di
responsabilità verso i 35-40 anni, le donne
sono occupate a formarsi una famiglia e ad
accudire i figli piccoli. Quando questi ultimi
sono grandicelli e in grado di camminare con
le proprie gambe, le donne che rientrano a
pieno titolo in azienda o nell’amministrazione
trovano tutti i posti già occupati dagli
uomini. Non bastano quindi disposizioni
legislative che assicurino parità di diritti, se
non ci sono meccanismi adeguati che li
tutelino di fatto con opportuni provvedimenti,
rendendoli possibili. Nella Chiesa la cosa è
certamente più complessa, perché il potere, o
meglio, come preferisce dire il Papa, la
potestà di giurisdizione — che dovrebbe essere
di servizio (per evitare di scambiarlo per un
dominio) — è riservata a chi è ordinato, e
GianPaolo Salvini (Milano,
1936) entra nella Compagnia
di Gesù l’8 dicembre 1954.
Sacerdote dal 1967, studia filosofia, economia e teologia.
Nel 1969 fa il suo ingresso
nella redazione di «Aggiornamenti Sociali» — di cui diverrà poi direttore — occupandosi
in particolare dei problemi del
sottosviluppo e dell’America latina. Dopo aver vissuto alcuni
anni a Salvador, in Brasile,
dal 1984 è nella redazione de
«La Civiltà Cattolica», rivista
di cui è stato direttore per ventisei anni (1985-2011). Padre
Salvini è oggi consultore del
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace.
l’autore
I
della donna
nella Chiesa si sta facendo sempre
più vivace. Non che sia mancato il
dibattito in passato, ma spesso ci si
limitava a porre la questione, senza
andare più in là. Senza risalire ai
secoli passati, già Giovanni XXIII
nella Pacem in terris vedeva come uno
dei segni dei tempi la maggiore
presenza femminile nella vita
pubblica. Era ovvio che la stessa
domanda si sarebbe posta anche
nella vita della Chiesa. Con Giovanni
Paolo II, specialmente con
l’esortazione apostolica Mulieris dignitatem, il
tema è stato posto dall’istanza più alta del
magistero. Benedetto XVI ne ha parlato più
volte, anche con accenti accorati, ma non ha
fatto in tempo a tradurre in operazioni
concrete, in strutture e meccanismi, i propositi
espressi. È uno dei punti che, con il gesto
rivoluzionario delle sue dimissioni, ha lasciato
in eredità al suo successore. Papa Francesco
ha ripreso più volte il tema con la consueta
franchezza e spontaneità, e molti attendono
che anche in questo campo proceda a gesti
significativi e che lasceranno il segno.
Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium,
primo e lungo documento ufficiale
interamente del nuovo Pontefice, si afferma
con decisione: «c’è ancora bisogno di
allargare gli spazi per una presenza femminile
più incisiva nella Chiesa. Perché “il genio
femminile è necessario in tutte le espressioni
della vita sociale; per tale motivo si deve
garantire la presenza delle donne anche
nell’ambito lavorativo” (Compendio della
Dottrina Sociale della Chiesa, n. 295) e nei
diversi luoghi dove vengono prese le decisioni
importanti, tanto nella Chiesa come nelle
strutture sociali» (n. 103). Il concetto viene
ribadito anche al numero seguente,
sottolineando anche che nella Chiesa «di
L TEMA DELLA PRESENZA
l’ordine è stato sinora riservato agli uomini.
Sono esistite certamente diaconesse nella
storia della Chiesa, che hanno pure esercitato
atti di giurisdizione, ma si discute ancora se si
sia trattato di diaconesse che avevano ricevuto
un’ordinazione vera e propria o soltanto una
benedizione. In ogni caso la Chiesa ha
sempre concesso larga autonomia e autorità di
gestione alle comunità monastiche femminili,
e alle loro abbadesse, priore, superiore, anche
quando la società civile non concedeva uguale
potere decisionale autonomo alle donne nelle
proprie istituzioni. Ma non intendo qui
addentrarmi in complesse questioni canoniche
e teologiche. Voglio solo ricordare che la
Chiesa, nella sua storia, ha sempre dimostrato
più fantasia di quella che vorremmo oggi
imprigionare nei canoni o in rigide norme
intoccabili. Concretamente, per parlare dei
vertici, esiste già nella Curia romana e in
molte curie diocesane una presenza
femminile, una volta impensabile. In
particolare, per quanto riguarda i pontifici
consigli (ventidue in tutto), istituiti dopo il
concilio Vaticano II — più agili e meno rigidi
delle nove Congregazioni che risalgono alla
riforma di Sisto V — le donne sono
ampiamente presenti, come in altri organi
dell’amministrazione vaticana. Nel campo
dell’arte, come nei Musei Vaticani, la presenza
femminile arriva già al cinquanta per cento
del personale e non soltanto esecutivo. In
campo economico, amministrativo,
universitario e della comunicazione sono
ormai molte le donne ben preparate e
qualificate che potrebbero rivestire e rivestono
di fatto anche posti direttivi. Lo stesso
avviene in molte curie vescovili anche di
grandi diocesi, e nelle università cattoliche.
Non è però solo un problema di strutture, ma
anche di mentalità. Ricordo anni fa
l’arcivescovo (peraltro notoriamente aperto e
riformatore) di una grande città, che trovava
difficoltà a ottenere da Roma la nomina di un
suo teologo di fiducia come rettore
dell’università cattolica della sua città che mi
diceva, alquanto amareggiato: «Pensi che a
Roma stanno facendo leggere i suoi scritti,
per valutarne l’ortodossia, a una suora!»,
come evidente segno di incompetenza e di
cattiva gestione dell’autorità. Ma si trattava, a
quanto mi risulta, di una suora laureata in
teologia e docente in una università
ecclesiastica di Roma. Il lavoro di base nella
Chiesa poi da sempre viene svolto in massima
parte dalle donne, alle quali si deve anche la
prima iniziazione cristiana dei bambini e delle
bambine, che avviene (o avveniva) in famiglia
a opera di mamme e nonne. Non è esagerato
affermare che senza l’apporto delle donne la
vita della Chiesa si fermerebbe e subirebbe un
impoverimento globale determinante. Le
suore del resto erano sino a non molto tempo
fa assai più del doppio dei sacerdoti. Ma a
questo dato di fatto non corrispondono
strutture che riconoscano in modo adeguato il
ruolo svolto e facciano sentire alle donne di
occupare un posto degno nella Chiesa, sia a
livello locale, che diocesano o romano. La
Chiesa ha caratteristiche proprie che non si
possono omologare a quelle della società
civile, ma ovviamente la propria
organizzazione e lo stile di vita della
comunità ecclesiale hanno sempre
profondamente risentito di quanto avveniva
intorno a essa. Basta pensare a quanta parte
del diritto romano è entrata a far parte del
diritto canonico. Se il governo civile fa
sempre maggior spazio alla consultazione
popolare e a meccanismi di decisione
collettivi, è evidente che questo influisce
anche sulla Chiesa che non per nulla, dal
Vaticano II in poi, parla di maggiore
collegialità (nonostante le resistenze che vi si
oppongono tenacemente), che poi non è altro
che un ritorno allo stile dei primi secoli della
Chiesa. A questo stile più collegiale e
comunionale è impensabile che non
partecipino anche le donne, in grado di
contribuirvi con caratteristiche e qualità che
non a caso Dio ha voluto complementari a
quelle degli uomini. In particolare vorrei
richiamare l’aspetto della maternità, che ha
infinite sfumature di tenerezza e di dono di
cui anche la Chiesa ha bisogno, anche, ad
esempio, nel corso della formazione dei
sacerdoti. Si tratta di inventarne le modalità e
di non limitarsi a enunciarne la necessità,
come si è fatto spesso sinora. La Evangelii
gaudium constata «con piacere» che molte
donne condividono già responsabilità
pastorali insieme con i sacerdoti, dando il loro
contributo per l’accompagnamento di
persone, di famiglie o di gruppi e offrono
nuovi apporti alla riflessione teologica. Molte
sono laureate in teologia ed esperte in Sacra
Scrittura con competenze e pubblicazioni non
inferiori a quelle di molti colleghi maschi.
Non sono poche le donne attive anche nel
proporre esercizi spirituali e nell’animare
riunioni spirituali. In realtà, le donne
incontrano una doppia difficoltà per far
sentire la propria voce e per svolgere ruoli
attivi significativi: anzitutto quella che
incontra tutto il laicato, che costituisce, come
ricorda Papa Francesco, «l’immensa
maggioranza del popolo di Dio» (Evangelii
gaudium, n. 102) e che, nonostante gli sforzi, è
ancora un “gigante addormentato”, ben lungi
dal dare tutto l’apporto che potrebbe fornire.
In secondo luogo quella di essere appunto
donne, a cui si fa ancora a fatica a riconoscere
la possibilità di accedere a ruoli
tradizionalmente riservati agli uomini.
Lavorando pochi decenni fa in un liceo
gestito da religiosi (e frequentato allora
soltanto da alunni maschi), le prime proposte
di assumere anche insegnanti donne trovarono
l’opposizione non dei religiosi che lo
gestivano, ma degli insegnanti laici, tutti
rigorosamente uomini, che evidentemente
temevano un’agguerrita concorrenza
femminile. O, più semplicemente, di perdere
il posto. Così, in molti ambienti, il ruolo di
servizio delle donne — come ha denunciato il
Papa — rischia di scivolare verso un ruolo di
servitù, alle volte con il pieno consenso delle
relative superiore, se si tratta di religiose, che
lo difendono come parte del proprio carisma.
Fa onore alle donne che cerchino
evangelicamente gli ultimi posti, ma tocca alla
Chiesa, o alle comunità, chiamarle, altrettanto
Lilli Carmellini, «Mai sole» (2009, particolare)
evangelicamente, a salire più in alto. Le
vocazioni alla vita religiosa e sacerdotale
attraversano, come è noto, una profonda crisi,
specialmente nei Paesi di antica tradizione
cattolica. Il problema è assai complesso e i
motivi sono pure molteplici, ma, nel caso
delle religiose di vita attiva ci si può chiedere
se, almeno in parte, il fenomeno non sia
dovuto ai ruoli sistematicamente subalterni
svolti dalla suore. Ruoli che oggi possono
svolgere anche laiche, assistenti sociali,
insegnanti che non rinunciano anche a
formarsi una propria famiglia. L’identità della
religiosa infatti non è più così specifica come
una volta e si confonde con i compiti delle
laiche, pur mancando della consacrazione
espressa dai voti. Paradossalmente lo dimostra
anche la tenuta della vita claustrale che, in
media, non ha conosciuto la stessa crisi e la
cui vocazione, come vita veramente
alternativa, è tuttora chiaramente definita. Il
successo dei movimenti, per quanto minoritari
rispetto all’impianto delle parrocchie, dove le
donne hanno spesso posti direttivi e decisivi,
sembra confermarlo. Come si vede, si tratta di
un ambito estremamente delicato, che
riguarda tutta la Chiesa, ma che non può
essere eluso, e nel quale il discernimento
assistito dallo Spirito Santo, a cui il Papa, da
buon gesuita, fa spesso appello dovrà essere
messo coraggiosamente all’opera per rendere
più amabile e credibile il volto della Chiesa
del Signore.