donne chiesa mondo Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore L’OSSERVATORE ROMANO aprile 2014 numero 22 Isabella Ducrot, «Primavera» (2014) Nuovi ruoli, nuovi compiti È aperta da tempo fra le donne della Chiesa una riflessione sul loro ruolo e su possibili nuovi compiti che valorizzino la presenza femminile. Papa Francesco — che, nel primo anno di pontificato, ha stupito il mondo con la sua parola e i suoi gesti — ha annunciato un passo avanti anche su questo punto. Alla riflessione, importante e non più rinviabile, partecipa anche «donne chiesa mondo». Questo foglio sta cercando e cercherà nei prossimi mesi di rendere questo momento di riflessione il più possibile fecondo, ricco di idee, di pensieri e di fantasia. La nostra presenza in questi anni si è fondata su un’idea molto semplice: la Chiesa, composta in grandissima parte da donne, deve dare posto alle loro capacità e al loro contributo. «Pensiamo alla Madonna — ha detto di recente il Pontefice — nella Chiesa crea qualcosa che non possono fare né vescovi né Papi. È lei il genio femminile». La scelta di una pagina sulla teologia della donna ha rafforzato l’idea originaria. In questo numero padre GianPaolo Salvini precisa: «Non si tratta di clericalizzare le donne, come alle volte sembra venir proposto da certe soluzioni, ma di trovare gli spazi adatti in cui il carisma femminile possa esprimersi e venire valorizzato anche in termini di capacità decisionali e di autorità, o, come sarebbe più consono nella vita della Chiesa, di servizio autorevole all’intero popolo di Dio». Il cammino finora è stato difficile. Per questo, oltre che di una vera discussione, c’è bisogno di molta speranza e di molta fede. E quasi di un miracolo. «Nella Chiesa, come nella società, questa rivoluzione culturale esige dagli uomini e dalle donne l’umile riconoscimento del terreno troppo occupato dagli uni o lasciato inoccupato dagli altri» afferma nel suo articolo Dorothée Bauschke. E non si può non condividere. (r.a.) ovunque vi sia un uomo. E Noël Copain diceva che trattiamo questioni dove a essere in gioco è il destino dell’uomo. A noi non importa la superficie delle cose, ma piuttosto tutto ciò che ha conseguenze felici o meno felici sulla vita degli uomini del nostro tempo. Lei ha scritto: «Si deve guardare agli eventi da un'altra angolatura»: non è proprio questa la particolarità di «La Croix»? La cosa importante è capire le motivazioni delle persone. Ebbene, i temi legati al matrimonio, alla fine della vita, sono temi eminentemente politici che dovrebbero essere al centro delle riflessioni degli uomini politici. Lei è stata la prima donna a dirigere un quotidiano in Francia. Come vive il fatto di essere donna in mezzo a una novantina di giornalisti che sono in gran maggioranza uomini? Intellettuale collettivo Intervista a Dominique Quinio, prima donna a dirigere un quotidiano in Francia di CATHERINE AUBIN «Un quotidiano come il nostro è un collettivo. Anzi, è un “intellettuale collettivo”, meravigliosa espressione che ho ereditato da Alain Rémond, autore del billet sull’ultima pagina di «La Croix», e che condivido appieno. Non siamo un gruppo d’individui intellettualmente molto dotati, ma, piuttosto, è insieme che costruiamo qualcosa». È sicura Dominique Quinio, primo direttore donna del quotidiano cattolico francese «La Croix», incarico che ricopre ormai da otto anni. nalmente, insieme a una équipe, il Courrier des Lecteurs perché lo considero un elemento fondamentale, da un lato per individuare la soddisfazione o l’incomprensione rispetto alle cose che abbiamo fatto, e dall’altro per vedere quali sono gli argomenti che preoccupano i lettori. Ma i let- Amo far emergere le idee e mi considero una levatrice del lavoro altrui È femminile come modo di procedere? Indubbiamente sì! donne chiesa mondo Ci presenta il “suo” giornale? Ciò a cui guardano i nostri lettori è il giornale nel suo insieme e la loro storia con «La Croix» va ben al di là degli ultimi otto anni; si tratta di vecchi rapporti di fedeltà, dal 1975. Perché la mia carriera l’ho fatta soprattutto a «La Croix», e la ricchezza di questo rapporto di fedeltà e di scoperte è che, come qualsiasi altro rapporto, si evolve nel corso degli anni e delle funzioni che si esercitano, quando si è all’inizio della carriera, quando si è un elemento tra gli altri, e poi dopo, quando si assumono responsabilità. So che «La Croix» esisteva molto prima di me e so che esisterà molto dopo di me. Naturalmente, quando si dirige un giornale e bisogna scrivere molti dei suoi editoriali, inevitabilmente dall’esterno si viene identificati con esso, forse un po’ più degli altri giornalisti. Ma io sono solo “una” in una catena. Il mio lavoro è proprio quello di passare il testimone e di far muovere questa “vecchia signora” ultracentenaria («La Croix» esiste da centotrent’anni), di cogliere le nuove opportunità, comprese quelle tecniche (internet) così come l’evolversi della società, della Chiesa. Significa essere traghettatori da una generazione all’altra. Leggendo «La Croix» si percepisce una grande attenzione per la qualità delle relazioni tra i lettori e il giornale. Sì, ed è una cosa formidabile. La presenza del Courrier des Lecteurs (Lettere al direttore) è fondamentale per la ricchezza del giornale e per comprendere quel che dobbiamo fare: cogliere l’evolversi del pensiero è indispensabile. Gestisco perso- Dopo la laurea in lettere e il diploma presso il Centro di formazione dei giornalisti di Parigi, Dominique Quinio inizia la sua carriera di giornalista a «La Charente Libre»: è il 1974. L’anno dopo entra a «La Croix», dove sarà, nell’ordine, segretario di redazione, redattrice, responsabile del servizio “societé”, redattrice capo, vice direttrice nel 2000 e, dal 2006, direttrice. Sposata e madre di quattro figli, Quinio è stata revisore dell’Institut des Hautes Études de Défense Nationale (Ihedn), membro del comitato di redazione della rivista «Études» e dell’Alto Consiglio della popolazione e della famiglia. È anche membro del Comitato delle settimane sociali. tori non hanno sempre ragione: chiaramente, occorre anche fare una scelta in coscienza tra ciò che è importante e ciò che non lo è. Non dobbiamo forzatamente piegarci a una sorta di consenso del lettorato, ma è importante ascoltare la sua voce perché nella Chiesa cattolica non ci sono molti spazi di dibattito pubblico dove poter far crescere una sorta di opinione pubblica. Io sono estremamente fiera che qui, da noi, questo spazio di espressione esista. cerchiamo di fare — e che non è tanto frequente tra i nostri colleghi — è di dare ai lettori, nella situazione attuale spesso molto dura e triste, motivi per sperare. Vale a dire ricercare in questa attualità sprazzi di luce, persone luminose, persone che agiscono e infondono nei lettori la voglia d’impegnarsi. Che tipo di giornale siete? Assolutamente sì! Il cardinale Etchegarray ha invitato i giornalisti a guardare «La Croix» è un giornale di idee, non un giornale di parte. Possiamo affermare ciò in cui crediamo, oppure esprimere un giudizio — su un cambiamento sociale per esempio — e comunque rispettare le persone che non la pensano allo stesso modo. Cerchiamo di fornire gli elementi per comprendere una situazione, di far parlare la gente che può trovarsi al margine della società o della Chiesa, e di mantenere la calma nelle tempeste dove i divari sono talvolta molto consistenti. Tentiamo di essere fermento di pace e non un luogo d’inasprimento di conflitti. Vogliamo essere ponti e mediatori tra la Chiesa e la società, tra gli stessi cristiani, tra i cristiani e gli altri credenti e quanti non credono. Il nostro è uno spazio di dialogo che presuppone l’essere saldi nella propria identità: siamo un giornale cattolico che appartiene a una congregazione religiosa, dunque facciamo riferimento ai valori del Vangelo, il che non ci impedisce affatto di essere attenti a quel che si vive altrove. Sappiamo che ciò che il nostro giornale dice e scrive viene recepito dai suoi lettori e, attraverso il sito internet, da un pubblico molto più vasto, ossia “dalle periferie”, come direbbe Papa Francesco. C’è un grande interesse nei nostri confronti anche da parte del mondo mediatico circostante che, sapendo che siamo un quotidiano di qualità, è interessato a scoprire come su quali argomenti un giornale come «La Croix» prende posizione. Siamo molto diversi dagli altri giornali. Ciò che vi interessa, dunque, non è solo l’evento ma anche l’aspetto umano dell’evento? Il mio primo incarico come giornalista è stato quello che oggi viene chiamato segretario di redazione. Ciò vuol dire che mi trovavo alla fine di tutto il lavoro e alla messa a punto del lavoro altrui; tra la rilettura, la scelta dei titoli, l’impaginazione, dunque ero al servizio del lavoro altrui. Amavo farlo: amo far emergere idee, mi piace che le persone portino a termine le proprie idee, mi considero una levatrice del lavoro altrui. È femminile come modo di procedere? Indubbiamente sì! Le sue sfide? Una certa fermezza nell’apertura per continuare a far sì che «La Croix» sia un luogo di pace rivolto a favorire il dialogo tra le persone. Io stessa sono quasi al termine della mia carriera professionale e spero di avere molti, molti eredi. In cosa siete diversi? Nella gerarchia dell’attualità. La nostra ragion d’essere è l’attualità ed è essa a guidarci. Ma in questa abbondante attualità che “rimbalza” continuamente su di noi, facciamo ovviamente una selezione: tra ciò che è futile e ciò che è importante, tra ciò che ha gravi conseguenze per gli uomini del nostro tempo e ciò che invece è secondario. Vi sono argomenti che approfondiamo maggiormente, per esempio le questioni che riguardano l’etica, la società, la famiglia o la solidarietà sociale. Quello che I corridoi della scuola-convento sono troppo lunghi: per spostarsi, dunque, la madre superiora, suor Mary Angela, usa un monopattino azionato da un motore a batterie (Chicago, 1970) donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Un terreno occupato troppo e troppo poco Il romanzo Bella mia Il ruolo di uomini e donne nella Chiesa di oggi di D OROTHÉE BAUSCHKE er una biblista come me, dire e fare sono diventati inseparabili. Nel racconto biblico Dio è il primo a non permettersi di dire senza fare: «Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu» (Genesi, 1, 3). Noi, lettrici e lettori, a volte un po’ distratti, nella nostra vita di uomini e di donne riconosciamo tuttavia che la Parola — che è luce — si è fatta carne, e questo è proprio un “fare” che non esclude nulla di quel che noi chiamiamo essere umano. Come altri, anch’io sono un’appassionata lettrice della Bibbia. Questa lettura mi ha convinto che, parlando soltanto dell’essere uma- P Serve una vera rivoluzione culturale Per togliere i rovi da terra e poggiare i piedi senza pestare quelli altrui no, la Bibbia può anche parlarmi di Dio. Tale convinzione ha messo insieme da una parte la mia esperienza di vita di donna, di moglie e di madre, illuminata dalle scienze umane, e dall’altra una lettura sempre rinnovata dei testi. E ciò nel solco tracciato da quell’eminente lettore che fu il gesuita Paul Beauchamp. Concittadina e contemporanea di Elisabeth Schüssler-Fiorenza, ho preso da lei l’idea della Chiesa come una «comunità di discepoli uguali», basandomi allo stesso tempo sulla tradizione di Matteo che Papa Francesco ha ricordato nel suo messaggio per la celebrazione della Giornata mondiale della Pace del 1o gennaio 2014: «Ma voi non fatevi chiamare rabbì, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno padre sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo» (Matteo, 23, 8-9). Ammiriamo qui le due diverse forme del verbo “chiamare”, al passivo e all’attivo! Mi sembra sempre più evidente che solo l’abbandono di qualsiasi gerarchizzazione può condurre alla fraternità voluta dal nostro Maestro. Penso anche che il femminismo abbia contribuito all’avvento di questa fraternità indicando un ostacolo inevitabile lungo il cammino: il sessismo, che vive della paura di accogliere la differenza sessuale e i costanti interrogativi che essa ci pone. Ebbene, questa paura si è resa quasi indipendente al punto da condizionare ogni minimo distacco da schemi di potere saldamente stabiliti. Ma, diciamolo chiaramente: essere donna non protegge neppure dalla voglia di vedere altri più in basso nella scala! Vedendo ciò che il nostro Papa sta facendo, non ho dubbi che si avvicinerà il più possibile al dire e al fare nel tempo del suo ministero. Prendo a testimonianza la sua esortazione apostolica Evangelii gaudium (n. 11) dove spiega questa sfida: «Nella sua venuta, ha portato con sé ogni novità. Egli sempre può, con la sua novità, rinnovare la nostra vita e la nostra comunità, e anche se attraversa epoche oscure e debolezze ecclesiali, la proposta cristiana non invecchia mai. Gesù Cristo può anche rompere gli schemi noiosi nei quali pretendiamo di imprigionarlo e ci sorprende con la sua costante creatività divina. Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale. In realtà, ogni autentica azione evangelizzatrice è sempre «nuova”». Da quando ero giovane, una profonda amicizia mi lega a una donna italiana, Luisa Muraro, che ha dedicato la sua vita di filosofa a riflettere sulla differenza sessuale, accompagnando la lotta delle donne per diventare liberamente ciò che sono. Lei mi ha insegnato che non c’è nulla di scontato in questa presa di coscienza di sé da parte di noi donne, prigioniere quali noi siamo di rappresentazioni del mondo e della fede che, nella misura in cui falsano il “due” umano, sono radicalmente in disaccordo con il progetto di Dio, il solo “Uno”. Ancor più delle donne camerunensi, la cui vita ho condiviso per alcuni anni, noi donne europee abbiamo bisogno di una vera rivoluzione culturale, per ripulire dai rovi il terreno su cui poggiare il piede senza pestare quello altrui. Nella Chiesa, come nella società, questa rivoluzione culturale esige dagli uomini e dalle donne l’umile riconoscimento del terreno troppo occupato dagli uni o lasciato inoccupato dalle altre. Per anni sono stata membro di una comunità di base; era il prete che doveva sollecitare le donne a prendere la parola, perché spesso queste erano troppo poco convinte di essere portatrici di una parola libera e attendibile. Ora noi tutte sappiamo che in questo campo la società è cambiata, al di là del ripiego delle quote nella rappresentanza politica e sociale. Ma la Chiesa — che fa riferimento a Cristo, Parola e Luce — dovrebbe giustamente con il suo “fare” precedere e illuminare il cammino così ar- duo verso la fraternità. Come donna e come biblista, spero che lo Spirito Santo ispiri un giorno alla Chiesa il desiderio di ascoltare e di dibattere il tema della vita e del posto delle donne al suo interno. In ogni tempo i movimenti dello Spirito hanno incontrato esitazio- Bernardo Carvalho, «Andirivieni» (2013) ni nella Chiesa. Molte donne (e anche alcuni uomini) provano grande diffidenza verso una comunità di fede — la loro — che non le ascolta. Resto però convinta che la posta in gioco non consiste nelle rivendicazioni, ma che dipende piuttosto da quanto la fraternità battesimale sappia rilanciare la sfida ancora più lontano, ossia: la rottura con ogni forma di dominazione e di privilegio, istituiti in nome delle differenze, siano esse religiose, sociali o sessuali (cfr. Galati, 3, 26-28). Finché uomini e donne terranno più alla condizione clericale che al servizio fraterno, la Chiesa rischierà di non realizzare la conversione di tutto il popolo di Dio in vista della sua responsabilità pastorale. Troppo rari sono gli uomini ordinati che le rivolgono questo appello, troppo rare sono ancora le donne che accettano i segni della vicinanza di Dio da parte di un’altra donna. Un passo nel senso giusto sarebbe quello di notificare loro la qualità di discepoli uguali nel servizio della Parola. Una rivoluzione culturale (e cultuale) richiede tempo; bisogna cominciare a concederglielo. Una cosa è certa, già da lungo tempo: il rifiuto di andare nel senso di un popolo fraterno non può fondarsi su ragioni teologiche. Su un autobus in Thailandia Una missionaria cattolica racconta l’incontro quotidiano con Gesù al conducente buddista di TERESA BELLO osa avrà colto del mio Dio? Me lo sto chiedendo ancora dopo quattro mesi dalla conversazione con l’autista di un mezzo pubblico. In quel periodo andavo spesso, per lavoro, da un punto all’altro della città di Chiang Mai, in Thailandia, C Mentre la risposta stava per diventare parola prendevo coscienza della grande responsabilità che avrei assunto con quella affermazione e mi sedevo volentieri davanti, insieme con l’autista, per conversare, perché gli autisti sanno tante cose della città e dell’aria che tira. Quel giorno si trattava di un signore particolarmente loquace. Saputo che ero una missionaria, cominciò a farmi mille domande. Mi arresi alla sua curiosità e risposi cercando di essere breve ma anche precisa, visti gli argomenti: la consacrazione, la vita eterna, Dio. Tutte categorie ben diverse tra il buddismo e il cristianesimo; dovevo perciò fare attenzione per non dare risposte vaghe o comunicare concetti sbagliati. Nel mondo buddista dire monaco o monaca non significa necessariamente riferirsi a una scelta di vita per sempre. Anzi, nella maggioranza dei casi si è monaci per un tempo che può variare da qualche giorno a vari anni. Il mio interlocutore mi aveva chiesto perciò da quanto tempo ero religiosa e per quanto tempo ancora lo sarei stata. Gli risposi che nella nostra religione si tratta di una scelta definitiva, che più importante di tutto era il rapporto con Dio e che, per essere uniti a Lui più intimamente, alcuni accoglievano questo stile di vita come un dono da parte di Dio. La domanda successiva non arrivò a raffica come le precedenti. Ci fu uno stacco. Pensavo che ormai l’autista si acquietasse, che avesse esaurito il suo repertorio. E invece si preparava a farmi una domanda speciale, capace di rivo- luzionare il mio cuore e la mia mente e spingermi a un esame di vita velocissimo. Ancora oggi la sua domanda mi risuona nelle orecchie e nel cuore: «Tocchi Dio tutti i giorni?». Mi ritrovai anch’io a far pausa, alla ricerca di una risposta possibile, necessariamente breve, comprensibile e, soprattutto, credibile. Già, soprattutto credibile, perché mentre la risposta stava per diventare parola, prendevo coscienza della responsabilità che avrei assunto con quella affermazione. Avevo coscienza del mio limite, e le parole pesavano come macigni. Non volevano uscire. Il fatto è che il tocco di Dio, tutti i giorni possibile, doveva trovare corrispondenza in una vera trasformazione di me stessa, doveva essere percepibile nella mia concretezza relazionale. Me ne sentivo lontana, allora come rispondere? Quell’uomo stava aspettando e la corsa stava per finire. «Sì — osai — tutti i giorni», cercando poi di spiegare. Quel contatto impossibile è stato reso possibile da Gesù. In lui, Dio si è fatto uno di noi. E noi abbiamo accesso alla relazione con lui tutti i giorni. È un avvenimento ogni volta altissimo e inimmaginabile che il quotidiano mai deve banalizzare. Lo stavo dicendo a lui come a me, che sì, è proprio vero, posso toccare Dio. E lo posso fare tutti i giorni. Dio è così grande da potersi abbassare fino a noi — tutti i giorni — per amore, perché lui desidera farci ogni giorno di più persone capaci d’amare gratuitamente, proprio come Gesù. Ero arrivata a destinazione. Altra gente doveva essere condotta altrove. «Arrivederci, grazie». «Arrivederci, è stata una bella conversazione». Ero accaldata, e non solo per la temperatura esterna. Cosa avrà capito lui, il mio interlocutore buddista? Non so. Non so davvero. Ma so che io non ho più dimenticato la domanda. È lì come un dono e un impegno anche per la mia vita cristiana. Mi accompagna ormai da quattro mesi, ravvivando in me la gratitudine per il dono dell’incredibile prossimità di Dio e riconducendomi all’impegno quotidiano di conversione. La missione di ogni cristiano è bellissima: è rendere visibile la possibilità che ci è data di poter toccare Dio tutti i giorni. È farci prossimo sullo stile di Gesù, per essere anche noi, come lui, luogo di incontro, spazio di relazione possibile tra Dio e gli uomini. Che meraviglia la nostra fede: la relazione che noi viviamo con Dio non si esaurisce tra noi e lui, ma diventa spazio che permette a Dio di raggiungere i nostri fratelli. E anche permette ai nostri fratelli di incontrare e toccare Dio che ci abita. Credo che sia da intendere in questa linea l’espressione di Paolo: il marito non credente viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente (I Corinzi 7, 14). Ogni battezzato è perciò abilitato a essere missionario sempre perché è abitato da Dio. Il credente che accoglie nel suo cuore il prossimo non credente, dona a lui — insieme con l’amicizia — la possibilità di incontrare Dio che lo inabita e quindi di essere reso santo da lui. Voglia il Signore renderci sempre più casa abitata da lui dove altri possono entrare perché avvenga l’incontro. di AGNESE CAMILLI apa Francesco è stato chiaro: nel suo discorso ai giudici rotali, ha ricordato che a loro è richiesto un profilo umano, in modo da praticare «una giustizia non legalistica e astratta, ma adatta alle esigenze della realtà concreta». Ricordando, poi, che la carità «costituisce l’anima anche della funzione del giudice ecclesiastico». E questo atteggiamento è richiesto particolarmente oggi che la questione della nullità del vincolo matrimoniale è al centro del problema della famiglia, a sua volta al cuore della riflessione della Chiesa. Papa Francesco, infatti, ha deciso di affrontare quello che è il punto più caldo del rapporto fra Chiesa e modernità, e le donne vengono coinvolte anche nella sfera giuridica. Da più di trent’anni — per la precisione, dal 1982 — nei tribunali ecclesiastici sono entrate anche le donne, mentre le prime avvocatesse rotali sono state ammesse a patrocinare dal 1975. Dopo un primo periodo di ambientamento, le donne sono stabilmente inserite in questa realtà, in cui l’applicazione fedele dei principi della legge canonica non può prescindere dalla vicinanza caritatevole con persone che soffrono per avere visto distrutta la loro famiglia. Abbiamo svolto un’inchiesta sulla presenza femminile nei tribunali della Chiesa a partire dal Vicariato di Roma, ove hanno tra l’altro sede i tribunali di prima istanza e di appello per le cause di nullità matrimoniale del Lazio. Per ottenere la dichiarazione di nullità del celebrato matrimonio occorrono due gradi di giudizio. Nel corso del primo grado si introducono i capi di nullità che vengono posti a base della richiesta, si raccolgono le prove sia documentali che testimoniali, si espletano se necessario le perizie del caso, dopo di che i giudici sono chiamati a pronunciarsi. Ove venga riconosciuta la nullità del matrimonio per i capi di nullità introdotti, la causa viene trasmessa, dallo stesso tribunale di prima istanza, al tribunale di appello. Laddove, invece, la nullità non venga riconosciuta, il tribunale di appello viene consultato su istanza di parte, qualora questa intenda proseguire. In questa sede il collegio giudicante è chiamato a rivedere, sia sotto il profilo della legittimità che del merito, la sentenza di primo grado. Ove approvi l’operato del collegio giudicante che si è pronunciato in prima P Orgoglio e responsabilità Sono in molti a essere feriti: una città, colpita da un terremoto devastante; una famiglia, percossa dalle incomprensioni e dai lutti; una giovane donna, la cui vita è stata fin dall’infanzia vissuta nel cono d’ombra di una gemella che l’ha costantemente protetta con la sua forza. Eppure il romanzo dell’abruzzese Donatella Di Pietrantonio, Bella mia (Elliot, 2014) ambientato a L’Aquila, riesce a sganciarsi dal cliché di una mera storia di riscatto e ricostruzione. Perché affrontando le difficoltà del presente (aggravate dalla consapevolezza che la politica è venuta meno al suo senso etico) e trovandosi costretta a fare i conti con il passato, la protagonista — di professione ceramista — scopre che in realtà il confine tra vincitori e vinti è estremamente labile. Una consapevolezza, questa, che forse le permetterà di sciogliere quel nodo di cupezza che marca, come un leggero sibilo represso, ogni suo respiro. (@GiuliGaleotti) Inchiesta sulla presenza femminile nei tribunali ecclesiastici istanza, viene emesso un decreto di ratifica che conferma i capi di nullità che sono stati riconosciuti dal tribunale di primo grado. Il procedimento che indaga sulla nullità o meno del vincolo matrimoniale non può che valutare i presupposti che hanno condotto alla celebrazione del matrimonio e sul fil rouge che lega tali presupposti con l’avvenuto fallimento dello stesso. Ove il tribunale riscontri tale diretto rapporto, anche laddove siano intercorsi un certo numero di anni tra l’inizio della vita coniugale e la sua conclusione, non può che pronunciarsi accogliendo tale richiesta sebbene la normativa canonica vigente Papa Francesco lo ha ripetuto di recente La carità deve costituire l’anima della funzione del giudice ecclesiastico muova da un postulato di validità del vincolo matrimoniale. Le ragioni per cui può essere considerato nullo un matrimonio sono per lo più i vizi del consenso. Per poterli dimostrare occorre, dunque, indagare approfonditamente nella sfera più profonda della volontà dei nubendi, e in questo contesto si muovono gli operatori del diritto che sono chiamati a collaborare all’interno del tribunale. I ruoli di coloro che operano all’interno del tribunale sono essenzialmente tre: il ruolo di giudice e uditore, di difensore del vincolo e di notaio. Nell’ambito della prima funzione, nel tribunale di prima istanza le donne sono presenti quali uditrici: conducono, cioè, l’attività istruttoria secondo il mandato del giudice presidente del collegio e sono approvate dal vescovo. La presenza femminile è maggioritaria: tre donne su cinque uditori. Tra queste vi è Alessandra D’Arienzo, coniugata con due figli, che ha conseguito il dottorato in diritto canonico presso la Pontificia Università Lateranense, dopo aver ottenuto la laurea in giurisprudenza in Italia. «Quando ho cominciato a collaborare con il tribunale — ci dice — avevo una figlia molto piccola; prima di me erano state assunte due colleghe. Oggi, come uditrice, svolgo con orgoglio e profondo senso di responsabilità la mia attività, collaborando fattivamente con l’istituzione ecclesiastica e mettendo a servizio della stessa la mia qualifica professionale e la mia sensibilità di donna. Nell’ambito dell’istruttoria che conduco quotidianamente, cerco di accogliere le persone che incontro con rispetto, delicatezza e professionalità». I difensori del vincolo debbono, invece, valutare attentamente tutte le motivazioni per le quali deve essere considerato valido il vincolo coniugale impugnato. Questa figura non sempre viene compresa, ma è indispensabile affinché — nell’ambito della dinamica processuale — risultino ben chiari tutti gli aspetti a favore e contro le tesi proposte e il giudice possa disporre, prima della decisione, di tutti gli elementi necessari per decidere la causa secondo giustizia. In questo settore la presenza femminile è pari al sessantasette per cento. Chiara Gabellini — coniugata, due figli, un bambino di otto anni e una bambina di sei, laurea in giurisprudenza presso l’università di Roma La Sapienza e dottorato in diritto canonico — svolge da anni questo ruolo con passione e serietà. E così lo spiega: «Nell’ambito del mio ruolo di difensore del vincolo, portatore di un interesse pubblico che appartiene alla Chiesa, sono chiamata a proporre tutti gli elementi a favore della validità del matrimonio. Nello svolgere seriamente questo compito, necessario per la ricerca della verità, cui tende il processo canonico, mi confronto sempre con la sofferenza e le difficoltà che vivono i fedeli che purtroppo hanno visto fallire la loro unione matrimoniale e che si rivolgono al tribunale ecclesiastico per ottenere delle risposte in ordine al sacramento che hanno celebrato». I notai svolgono un ruolo altrettanto importante perché la loro presenza è indispensabile in quanto sono chiamati ad attestare la veridicità di quanto accade nel processo. Di fatto sono i garanti della correttezza dell’operato che si svolge nella quotidianità della vita dei tribunali ecclesiastici. Le donne sono il settantacinque per cento degli operatori in questo ambito. Il loro compito è tanto delicato quanto fondamentale. Solo dalla piena correttezza dell’iter processuale deriva il rispetto dell’uguaglianza dei diritti per tutte le parti in causa, necessario a garantire una sentenza giusta. Stefania Giombini — laureata anche lei in giurisprudenza, in procinto di conseguire il dottorato in diritto canonico, sposata e madre di un bambino di sedici mesi — svolge da otto anni il ruolo di notaio e sulla sua esperienza professionale evidenzia: «An- che per lo svolgimento della funzione di notaio la preparazione e la serietà del proprio operato rappresentano una collaborazione alla ricerca della verità. Per tale ragione ho deciso di completare la mia formazione giuridica in ambito canonico. Ho la convinzione che non è un lavoro come un altro in quanto ogni giorno sono chiamata ad accogliere con sensibilità le persone e a contribuire con il mio operato alla celerità del processo, rendendo un servizio alla Chiesa». Nell’ambito del tribunale di prima istanza del Vicariato di Roma, su una presenza femminile pari al quarantacinque per cento degli assunti, il quindici per cento delle presenze femminili ha oltre quindici anni di anzianità di servizio e il quaranta per cento ha circa dieci anni di servizio. I tribunali ecclesiastici competenti per le cause di nullità matrimoniale sono presenti in tutta Italia, come nel resto del mondo, e la presenza femminile è, ormai, importante. Come abbiamo anticipato, una vera e propria rivoluzione al femminile si è verificata anche nel ruolo della difesa. Se si analizza l’albo degli avvocati rotali il dato che balza agli occhi è che la presenza femminile si è in- È dal 1975 che le avvocatesse possono patrocinare nei processi per nullità matrimoniale crementata, negli ultimi venti anni in modo notevole. Se, infatti, sino al 1980 le presenze femminili erano solo di tre unità su trentasette avvocati iscritti all’Albo, nel decennio immediatamente successivo il numero aumenta fino a contare altre ventiquattro iscritte su cento avvocati. A partire dal 2000, si inverte il rapporto: su 154 nuovi iscritti ben 96 sono donne, cioè la presenza femminile arriva al sessantatré per cento degli iscritti circa. Dal 2010 a oggi, su 24 nuovi iscritti, le avvocatesse sono 13. Nella Città del Vaticano hanno sede anche i tribunali interni, che operano in materia di giustizia civile e penale, e in questa sede sono iscritti 82 avvocati, di cui 35 donne. Possiamo ormai esserne certi. Qualsiasi sia il cammino che il Papa riterrà di intraprendere in materia di legislazione matrimoniale, le donne apporteranno un contributo fondamentale. Il saggio Héroines de Dieu L’Ottocento è stato il secolo in cui la vitalità e il coraggio delle religiose sono esplosi offrendo al mondo numerosi esempi di dedizione straordinaria al messaggio cristiano. Ma queste vite, in gran parte, sono oggi dimenticate: meritorio quindi il bel libro di Agnes Brot e Guillemette de La Borie, Héroines de Dieu. L’epopée des réligieuses missionaires au XIXe siècle (Presses de la Renaissance, 2011) che ricostruisce i profili di otto missionarie francesi andate sino “ai confini del mondo” per evangelizzare, correndo pericoli e affrontando grandi difficoltà, ma anche facendo esperienze interessanti e usufruendo di una libertà d’azione che le donne laiche dell’epoca non si sognavano neppure di raggiungere. Fra gli indiani d’America, in Africa, in Oceania e Nuova Zelanda, in Terra santa e in Cina, in Brasile: niente poteva fermare il loro ardore missionario e il loro coraggio. Esse costituiscono senza dubbio un tassello dimenticato della storia dell’emancipazione femminile. (@lucescaraffia) Il film Monster’s Ball È un film duro. Molto duro. Soprattutto per la violenza psicologica che — specie nella prima parte — scava e travolge come implacabile bulldozer tutto quello che trova lungo la via. Eppure, la storia raccontata nel film Monster’s Ball (2002), del regista statunitense Marc Forster, dimostra come anche nella desolazione esistenziale, nella povertà emotiva che parrebbe senza speranza, una fiammella c’è. Scaturisce, con enorme fatica in una pellicola dominata da silenzi fragorosi, dall’incontro tra l’afroamericana Leticia, moglie di un condannato a morte e madre di un bambino obeso, e il razzista Hans, che lavora nel braccio della morte di una prigione della Georgia, come suo padre prima di lui e come suo figlio Sonny, assunto da poco. La donna e l’uomo si incontreranno sul precipizio dell’ennesimo dramma, dapprincipio ignari che le loro strade si sono già incrociate, quando Hans ha accompagnato il marito di Leticia alla sedia elettrica. La verità sarà sale ulteriore su vite già molto provate, ma Leticia — interpretata da Halle Barry, che per questa parte sarà la prima afroamericana a vincere il premio Oscar come migliore attrice protagonista — troverà la via per riconciliarsi con la vita. L’esecuzione capitale apre il film, il tentativo (riuscito) di superare la disperazione lo chiude. (@GiuliGaleotti) women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women NOMINE FEMMINILI IN EGITTO «La situazione resta difficile in Egitto, ma i segni di speranza per la rinascita della società locale non vanno ignorati»: così Wael Farouq, docente di arabo al Cairo, intervenendo a Milano a un convegno dedicato alla valenza ecumenica della dottrina sociale della Chiesa. Come esempi, Farouq ha ricordato due recenti elezioni: quella della dottoressa cristiana Mona Mina, uno dei volti più noti di piazza Tahrir, alla guida del sindacato dei medici egiziani, e quella della copta ortodossa Hala Shukrallah alla presidenza del Partito della Costituzione. Cinquantanove anni, sociologa, Shukrallah — che nel 2006 prese parte alla fondazione del Movimento degli egiziani contro la discriminazione — succede al premio Nobel Mohamed ElBaradei che, nell’aprile 2012, aveva fondato il Partito della Costituzione nel tentativo di superare la contrapposizione tra formazioni politiche religiose e laiche. Interessante che nelle sue prime dichiarazioni, Shukrallah abbia detto di non apprezzare l’insistenza con cui i media richiamano il suo essere la prima donna e la prima copta alla guida di un partito in Egitto. A suo avviso, infatti, questo tipo di presentazione induce a fermarsi alle etichette, invece di confrontarsi davvero «con i contenuti di ciò che si dice». LE SCHIAVE DI IERI Delle poche parole che l’attrice Lupita Nyong’ o ha pronunciato ritirando l’Oscar 2014 come migliore attrice non protagonista, la stampa ha per lo più ricordato il passaggio finale: «Questa statuetta significa che non importa da dove tu venga, i tuoi sogni possono comunque realizzarsi». Eppure erano state molto più interessanti le parole iniziali della trentunenne attrice kenyota, premiata per aver interpretato la schiava Patsey nella pellicola 12 years a slave di Steve McQueen. Tratto dalla autobiografia (1853) di Solomon Northup, il film racconta la storia del violinista di colore, uomo libero nello Stato di New York che, con l’inganno, viene rapito e portato in Louisiana dove rimarrà in schiavitù per 12 anni. Dopo aver ringraziato per l’Oscar, Nyong’o ha aggiunto: «Nemmeno per un secondo posso però dimenticare che la gioia di questo momento è stata resa possibile dall’enorme sofferenza di qualcun altro. Proprio per questo voglio ringraziare lo spirito di Patsey, che mi ha guidata. E ringraziare Solomon, per aver raccontato la storia vera di questa ragazza, e la sua». E circhi. Per cercare di far fronte al fenomeno, è stata fondata la ong Esther Benjamin Trust che, oltre a denunciare queste situazioni, dà rifugio alle vittime. Le cifre esatte non si conoscono, ma la ong stima che ogni anno siano almeno 500 i piccoli sfruttati nelle attività circensi tra spettacoli di varietà, acrobazie e contorsionismi. Si tratta normalmente di minori nepalesi, rapiti da villaggi poverissimi ai piedi dell’Himalaya, dove i rapitori arrivano promettendo ai genitori che i loro figli diventeranno artisti del circo. In cambio di una trentina di dollari, chiedono una firma su un documento scritto totalmente in inglese, quindi incomprensibile per i genitori, e si portano via i piccoli. Una volta in India, i bambini sono ridotti in schiavitù, subendo abusi di ogni genere. Esther Benjamin Trust finora è riuscito a salvare 700 piccole vittime, ospitandone una sessantina in un rifugio segreto fuori Kathmandu. Più in generale, la piaga del lavoro minorile in queste zone è in aumento: ci sono 20 milioni di piccoli lavoratori nelle fabbriche indiane e duecentomila schiavi nepalesi che non guadagnano neanche un centesimo pur lavorando quindici ore al giorno. GLI SCHIAVI DI O GGI Un tipo di schiavitù minorile tenuta scarsamente in considerazione è quella presente in Paesi come India e Nepal, dove centinaia di bambini vengono sfruttati nei ASILO NID O IN FACOLTÀ In Messico — dove dal 2000 è in aumento il numero di gravidanze tra le ragazze di età tra 12 e 19 anni — sta diventando un problema serio l’abbandono degli studi delle giovani per maternità. I dati oscillano intorno al 40 per cento per gli studi medio-superiori e al 20 per quelli superiori. Secondo la ricerca nazionale sull’abbandono, sono la vergogna e i pregiudizi le cause che inducono le adolescenti al ritiro. Le borse di studio disponibili per le giovani madri sono insufficienti. Per questo gli studenti della facoltà di giurisprudenza dell’università Juárez (Stato di Durango) hanno aperto un asilo nido unico nel suo genere. Creato dagli studenti per gli studenti, con il supporto di Governo e università, ha una retta che dipende dalle possibilità del singolo. Aperto dalle 7 alle 20, ospita 160 bimbi. Ma le domande sono molte di più. NUMERI SULLE D ONNE NEL MOND O Su un miliardo e 300 milioni di persone che vivono in condizioni di povertà estrema in tutto il mondo, 910 milioni sono donne. Cioè 7 su 10. Lo ha rivelato la ong spagnola Ayuda en Acción che, dal 1981, si dedica alla cooperazione internazionale per cercare di combattere la povertà mediante programmi di sviluppo autosostenibili e campagne di sensibilizzazione tra le fasce più vulnerabili. Le donne che vivono nei Paesi più poveri del mondo, nonostante producano il 70 per cento dei generi alimentari, non possiedono neanche il 2 per cento dei terreni coltivabili. A completare il quadro, le scarse possibilità di accedere all’istruzione e la piaga dei matrimoni e delle gravidanze precoci (secondo la ong, sono oltre 60 milioni le forzate spose bambine). Intanto una donna ogni minuto muore durante la gravidanza o il parto per complicazioni evitabili. Contestualmente l’Agenzia dei diritti fondamentali della Ue ha pubblicato un’indagine da cui emerge che i Paesi dove si registrano più violenze sulle donne sono quelli scandinavi. L’Italia si trova al diciottesimo posto, penultima prima della Polonia. Colpisce che a guidare la classifica siano proprio L’OSSERVATORE ROMANO aprile 2014 numero 22 Inserto mensile a cura di RITANNA ARMENI e LUCETTA SCARAFFIA, in redazione GIULIA GALEOTTI www.osservatoreromano.va i Paesi in cui le donne sono più presenti in politica e nel mondo del lavoro, come Danimarca, Finlandia e Svezia. UN FILO PER LE D ONNE ROM DI MILANO Taivè è una parola in lingua romanì che significa filo. Ed è proprio grazie a quel filo che otto donne rom stanno riuscendo a riscattarsi nelle baraccopoli di Milano, conquistando fiducia in se stesse e autonomia. Il progetto Taivè è il ramo femminile di sartoria e stireria della più ampia cooperativa sociale Ies (impresa etica sociale), ed è nato grazie alla collaborazione con la Caritas ambrosiana e al rapporto che l’organizzazione, lavorando nei campi rom cittadini, ha instaurato da tempo con molte donne rom e con le famiglie. A oggi sono in otto a tagliare, cucire e stirare con un orario part time nel laboratorio. Dal 2008, quando il progetto ha preso il via, alle macchine da cucire di Taivè si sono sedute 19 donne, di età tra 20 e 50 anni, provenienti da Romania, Macedonia e Kosovo. Di queste, due hanno trovato autonomamente lavoro una volta finito il periodo di formazione e altre sei, dopo essere state per un periodo con Taivè, sono passate ad altre occupazioni temporanee. LE D ONNE DELLO SWAZILAND La trentenne Wezi Kunene ha avverato il suo sogno: a Manzini, principale città dello Swaziland, suo Paese natale, gestisce un negozio specializzato in rivestimenti e riparazioni di mobili. La giovane ha costruito il suo successo a poco a poco, partendo dal corso di formazione frequentato nel 2006 presso il Centro professionale don Bosco. Il suo è solo uno dei tanti casi: i salesiani, infatti, sono attivi nel piccolo e problematico Paese africano, dove seguono molti progetti rivolti, in particolare, a donne vedove e ragazze madri. SE I GIORNALI FANNO CAMBIARE NOME ALLA PED OFILIA Da qualche tempo, la magistratura italiana sta indagando su un traffico sessuale avvenuto a Roma dove uomini adulti hanno abusato, in cambio di denaro, di due minorenni di 14 e 15 anni. I fatti sono già gravi nella loro sostanza, ma quello che colpisce è il modo in cui, quasi all’unanimità, la stampa italiana li racconta, aggiungendo costantemente nuovi dettagli. Nonostante le due abbiano un’età che le fa rientrare a pieno diritto nella Convenzione di Lanzarote sulla protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, i giornali continuano a parlare di «baby squillo». Eppure gli adulti che hanno rapporti sessuali con bambini e ragazzini sono, senza ombra di dubbio, pedofili. donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Maddalena, manager spirituale La santa del mese raccontata da Gianpaolo Romanato a Rivoluzione francese comportò un mutamento radicale nel ruolo della donna all’interno della Chiesa. Nel mondo prerivoluzionario esisteva una sola figura di donna consacrata: la monaca, che rinunciava al mondo e si isolava tra le mura del monastero. Pensiamo alla monaca di Monza di Alessandro Manzoni, che non è soltanto una grande creazione letteraria, ma un esempio concreto della condizione giuridica femminile del tempo. Invece, il mondo postrivoluzionario, cancellando molti monasteri, sopprimendo il valore pubblico dei voti e riportando le religiose dentro il diritto comune, pose le religiose stesse davanti alla necessità di ripensare la loro funzione in termini non di isolamento bensì di utilità sociale. Nacque da tale ripensamento quella figura nuova, prima inesistente, che è la suora, cioè la donna consacrata che non si astrae dal mondo ma vi si immerge, soprattutto dove il bisogno è più acuto: asili, scuole, ospedali, carceri, disabilità, marginalità, missioni nei Paesi lontani. La Chiesa cessò di essere una comoda nicchia sociale e divenne strumento di elevazione interiore al servizio dei più umili. All’origine di questo cambiamento troviamo un’aristocratica di ceppo antico, discendente di una delle più gloriose casate nobiliari italiane: Maddalena di Canossa. Era nata nel 1774 a Verona, una città investita in pieno dagli eventi rivoluzionari, per qualche tempo divisa in due: a destra dell’Adige si insediarono i francesi, a sinistra gli austriaci. Verona divenne così, per riprendere un’acuta osservazione di Cornelio Fabro, il punto geografico di maggior frizione fra il vecchio e il nuovo. Forse è per questo motivo che proprio Verona vide nascere in gran copia, nel corso dell’Ottocento, in particolare nella prima metà del secolo, nuove congregazioni religiose di vita attiva e non contemplativa: dagli stimmatini (ai quali apparteneva Fabro) ai mazziani, dai comboniani alle sorelle della Misericordia di Carlo Steeb, fino all’istituto di Antonio Provolo, dedito al recupero dei sordomuti. Fra bisogni sociali sempre più impellenti e trapassi di ricchezze molto più rapidi che nel passato, a Verona furono probabilmente più frequenti che altrove le crisi di coscienza che sconvolsero la vita delle persone e il loro modo di rapportarsi con Dio. La marchesa Maddalena di Canossa fu una di queste. Tentò la strada della vita claustrale fra le carmelitane, ma la sua vocazione era di cercare Dio nel prossimo, non nella solitudine. Come tutti i creatori di grandi iniziative caritative, non ebbe vita facile né in famiglia né nella Chiesa veronese. Tuttavia la sua tenacia fu più forte delle resistenze e tra il 1808 e la sua morte, che avvenne nel 1835, nacquero e fiorirono le sue case, a partire dalla prima, avviata nel quartiere di San Zeno, il più povero e derelitto della città. In meno di trent’anni le Figlie della Carità Serve dei Poveri — questa la denomi- L La scrittrice americana Flannery O’Connor Il limite come punto di forza di ELENA BUIA RUTT lannery O’Connor, nata nel 1925 a Savannah, in Georgia, da genitori di origine irlandese, aveva poco tempo a disposizione e lo sapeva: un lupus eritematoso (grave insufficienza del sistema immunitario), ereditato dal padre, se la sarebbe portata via alle prime ore del mattino del 3 agosto 1964, a soli trentanove anni, lasciando un allevamento di pavoni e una produzione letteraria ristretta, ma di inequivocabile e raro talento. La sua vita è povera di elementi biografici rilevanti, a parte un soggiorno di due mesi, nel 1948, nello Stato di New York e un viaggio in Europa dove, già gravemente malata, partecipò a un’udienza papale in Vaticano e a un pellegrinaggio a Lourdes. Quando nel 1951 lasciò l’ospedale di Atlanta, troppo debole per salire le scale, Flannery O’Connor si trasferì con la madre ad Andalusia, l’antica casa di famiglia poco distante dalla città di Milledgeville, piccolo centro agricolo della Geor- F Acutissima e autoironica, per via delle stampelle si definiva «una struttura ad archi rampanti» Lascia pochi ma folgoranti scritti che affondano le radici in un cattolicesimo ustionante e radicale gia. Al piano terra della fattoria, scrisse il suo primo romanzo La saggezza nel sangue (Wise Blood, 1952). Seppure in preda a profonde sofferenze, Flannery O’Connor considerò l’isolamento procuratole dalla malattia una benedizione — «Signore, sono contenta di essere una scrittrice eremita», scriveva a un’amica — per il fatto di trovarsi in pieno di fronte a quella che riteneva essere l’esperienza essenziale con cui ognuno di noi in qualche modo dovrebbe fare i conti: «l’esperienza della limitatezza». Considerava inoltre il suo stato fisico con profondo senso dell’umorismo, definendosi per via delle stampelle «una struttura ad archi rampanti» e per lettera si congedava sdrammatizzando: «Devo andarmene sulle mie due gambe d’alluminio». Nonostante la malattia e la produzione limitata, il successo arrise a Flannery O’Connor. I ventisette racconti e i due romanzi le fruttarono in vita due lauree ad honorem e tre volte la vittoria dell’O. Henry Award. Nel 1988 la sua opera fu inclusa nella prestigiosa collana Library of America, onore fino ad allora riservato, tra i contemporanei, solo a William Faulkner. Per quel che riguarda le edizioni italiane arrivano subito le dolenti note: se i romanzi e i racconti sono stati pubblicati per intero, lo stesso non è avvenuto per i saggi e soprattutto per le lettere, tradotte fino a ora solo in parte. Volendo azzardare una lettura della, se non scarsa, quanto meno faticosa fortuna di quest’autrice in Italia, si può convenire sul fatto che la narrativa di Flannery O’Connor affonda le sue radici in un cattolicesimo talmente ustionante, personale e radicale, che non stupisce il fatto che possa scatenare pregiudizi e atteggiamenti censori. Ma questa scrittura non prende di mira solamente quel buon senso vagamente laico, razionale e illuministico dell’ateo e dell’agnostico. Intende provocare — con ironia e sarcasmo — anche, e soprattutto, il lettore benpensante e rispettabile, espressione di un cattolicesimo convenzionale, spesse volte ipocrita e bigotto. Uno stile chiaro, veloce, traccia i confini di un territorio estremo dove muovono personaggi eccentrici e strampalati, ma inflessibili cercatori di assoluto. Anime pervicacemente chiuse in se stesse, fino a quando un fatto violento e imprevisto sopravviene a scardinarne convinzioni e chiusure. L’apertura raggiunta costa loro lacrime e sangue, ma è questa l’unica via possibile per raggiungere la prossimità con il mistero. Un mistero che, secondo Flannery O’Connor, è il riconoscimento intuitivo di un Dio che trascende e salva l’uomo, sanando la sua incompiutezza e fragilità, sinonimo di umanità. Leggere questa narrativa vuol dire quindi frequentare una zona spirituale faticosa. Vuol dire guardare la realtà alla luce di un realismo cristiano a volte sconcertante, che fa del limite dell’uomo il suo punto di forza. Uno sguardo tanto più impietoso, quanto più rimandante a una pietà più grande e incondizionata. Prima della Rivoluzione francese esisteva una sola figura di donna consacrata, cioè la monaca Poi cambia tutto e nasce la suora nazione canonica delle suore canossiane — conobbero una rapida diffusione che le portò in varie città del Veneto e della Lombardia, avendo ottenuto in pochi anni le approvazioni civili e religiose, fino al riconoscimento pontificio, che giunse nel 1828. Poi, dalla metà del secolo in poi, la diffusione anche all’estero, che le ha rese, oggi, una sorta di multinazionale della carità presente in tutti i cinque continenti. All’origine di questa crescita straordinaria, che coinvolse umili ragazze del popolo ma anche donne della migliore società del tempo — la sorella di Antonio Rosmini, Margherita, entrò nell'Istituto canossiano e fondò nel 1828 la casa di Trento — ci fu sicuramente l’ascendente spirituale di Maddalena, ma ci fu anche un’attitudine al comando, una managerialità, diremmo oggi, che doveva far parte da sempre del genio della famiglia. Questa era giunta in riva all’Adige nel Quattrocento e nel secolo seguente si stabilì nella dimora — appunto Palazzo Canossa, progettato da Sanmicheli e affrescato da Tiepolo (oggi questi dipinti sono andati perduti) — che divenne l’edificio di maggior pregio della città. Nel 1822 fu questo palazzo che ospitò i rappresentanti delle grandi Potenze riuniti nel Congresso di Verona, convocato per rimettere ordine nel continente. E due nipoti di Maddalena dominarono la città per buona parte dell’Ottocento: il cardinale Luigi ne fu vescovo per quarant’anni, mentre il marche- Gianpaolo Romanato (1947) insegna storia contemporanea e storia della Chiesa moderna e contemporanea all’università di Padova. Membro del Pontificio Comitato di Studi Storici, ha scritto tra l’altro: Pio X. La vita di Papa Sarto (1992); L’Africa nera fra Cristianesimo e Islam. L’esperienza di Daniele Comboni (2002); L’Italia della vergogna nelle cronache di Adolfo Rossi (2010); Giacomo Matteotti. Un italiano diverso (2011); Pio X. Alle origini del cattolicesimo contemporaneo, di uscita imminente. se Ottavio fu a capo del Comune sotto gli austriaci, rimanendo poi uno dei maggiorenti cittadini. Da questa famiglia potente, abituata a primeggiare, con influenze e relazioni estese dovunque, Maddalena — sua mamma era una nobildonna ungherese — rice- vette non solo un’educazione raffinata, ma anche la capacità di concepire e gestire imprese di successo. A tutto questo lei aggiunse il suo personale carisma: piegare una grande fortuna terrena, ponendola al servizio non della gloria mondana ma di una gigantesca opera di carità. Vetrata realizzata nello Studio Moretti Caselli di Maddalena Forenza per la chiesa di Santo Spirito (Perugia, 2010; foto: Michele Panduri-Metalli) di GIANPAOLO SALVINI Pasquale Cati, «Il Concilio di Trento» (1588, particolare) donne chiesa mondo aprile 2014 Salire più in alto fatto, una donna, Maria, è più importante dei vescovi» (n. 104). A questo punto si pone una grande sfida per la Chiesa e, direi, uno sforzo di fantasia, di cui lo Spirito Santo è sempre stato grande protagonista nella storia, e che sinora è mancato, per trovare le soluzioni più opportune. Non si tratta di clericalizzare le donne, come alle volte sembra venir proposto da certe soluzioni, ma di trovare gli spazi adatti in cui il carisma femminile possa esprimersi e venire valorizzato anche in termini di capacità decisionali e di autorità. O, come sarebbe più consono nella vita della Chiesa, di servizio autorevole all’intero popolo di Dio. Se le donne intendono acquisire potere nella Chiesa semplicemente sottraendolo agli uomini e rivendicandone le stesse funzioni, è probabile che risultino sempre perdenti. Ma è tutt’altro che facile identificare posizioni autorevoli, alternative a quelle occupate dagli uomini, adatte a valorizzare la complementarietà che la donna può e deve mettere al servizio della comunità ecclesiale e la loro femminilità. Pure in questo campo le donne devono esprimere quanto gli uomini non possono offrire, o non possono offrire da soli. Dio ha creato uomini e donne, due generi diversi tra loro, ma complementari e ugualmente necessari pure alla vita della Chiesa. In passato non sono mai mancate, nella storia della Chiesa grandi figure di donne che hanno smosso Papi e istituzioni. Come nella Bibbia sono presenti donne che hanno salvato il proprio popolo intervenendo nei momenti cruciali della storia della salvezza: Giuditta, Ester, Maria di Magdala che “sveglia” gli apostoli annunciando loro per prima la risurrezione di Gesù. Si tratta di interventi considerati spesso come straordinari, ma che in realtà fanno parte intimamente del tessuto biblico e, in particolare, del rapporto tra Gesù e le donne, come appare dai vangeli. La donna non aveva compiti istituzionali né molti diritti in seno alla società antica, anche ebraica. La società si è però profondamente trasformata dai tempi di Gesù e della fondazione della Chiesa. La legislazione e la cultura hanno fatto largamente posto alla donna e ai suoi carismi in fatto di istruzione, di cultura, di partecipazione alla vita politica e sindacale, ma non sempre hanno saputo predisporre i meccanismi adatti perché in tutti i settori le donne potessero effettivamente farsi valere. Il risultato è che in molti settori, ad esempio della vita pubblica e impresariale, le donne sono praticamente assenti nei posti direttivi. Nel tempo successivo alla laurea, infatti, mentre gli uomini fanno la gavetta, acquisiscono esperienze, si fanno conoscere e preparano così il loro accesso ai posti di responsabilità verso i 35-40 anni, le donne sono occupate a formarsi una famiglia e ad accudire i figli piccoli. Quando questi ultimi sono grandicelli e in grado di camminare con le proprie gambe, le donne che rientrano a pieno titolo in azienda o nell’amministrazione trovano tutti i posti già occupati dagli uomini. Non bastano quindi disposizioni legislative che assicurino parità di diritti, se non ci sono meccanismi adeguati che li tutelino di fatto con opportuni provvedimenti, rendendoli possibili. Nella Chiesa la cosa è certamente più complessa, perché il potere, o meglio, come preferisce dire il Papa, la potestà di giurisdizione — che dovrebbe essere di servizio (per evitare di scambiarlo per un dominio) — è riservata a chi è ordinato, e GianPaolo Salvini (Milano, 1936) entra nella Compagnia di Gesù l’8 dicembre 1954. Sacerdote dal 1967, studia filosofia, economia e teologia. Nel 1969 fa il suo ingresso nella redazione di «Aggiornamenti Sociali» — di cui diverrà poi direttore — occupandosi in particolare dei problemi del sottosviluppo e dell’America latina. Dopo aver vissuto alcuni anni a Salvador, in Brasile, dal 1984 è nella redazione de «La Civiltà Cattolica», rivista di cui è stato direttore per ventisei anni (1985-2011). Padre Salvini è oggi consultore del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. l’autore I della donna nella Chiesa si sta facendo sempre più vivace. Non che sia mancato il dibattito in passato, ma spesso ci si limitava a porre la questione, senza andare più in là. Senza risalire ai secoli passati, già Giovanni XXIII nella Pacem in terris vedeva come uno dei segni dei tempi la maggiore presenza femminile nella vita pubblica. Era ovvio che la stessa domanda si sarebbe posta anche nella vita della Chiesa. Con Giovanni Paolo II, specialmente con l’esortazione apostolica Mulieris dignitatem, il tema è stato posto dall’istanza più alta del magistero. Benedetto XVI ne ha parlato più volte, anche con accenti accorati, ma non ha fatto in tempo a tradurre in operazioni concrete, in strutture e meccanismi, i propositi espressi. È uno dei punti che, con il gesto rivoluzionario delle sue dimissioni, ha lasciato in eredità al suo successore. Papa Francesco ha ripreso più volte il tema con la consueta franchezza e spontaneità, e molti attendono che anche in questo campo proceda a gesti significativi e che lasceranno il segno. Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, primo e lungo documento ufficiale interamente del nuovo Pontefice, si afferma con decisione: «c’è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Perché “il genio femminile è necessario in tutte le espressioni della vita sociale; per tale motivo si deve garantire la presenza delle donne anche nell’ambito lavorativo” (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 295) e nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti, tanto nella Chiesa come nelle strutture sociali» (n. 103). Il concetto viene ribadito anche al numero seguente, sottolineando anche che nella Chiesa «di L TEMA DELLA PRESENZA l’ordine è stato sinora riservato agli uomini. Sono esistite certamente diaconesse nella storia della Chiesa, che hanno pure esercitato atti di giurisdizione, ma si discute ancora se si sia trattato di diaconesse che avevano ricevuto un’ordinazione vera e propria o soltanto una benedizione. In ogni caso la Chiesa ha sempre concesso larga autonomia e autorità di gestione alle comunità monastiche femminili, e alle loro abbadesse, priore, superiore, anche quando la società civile non concedeva uguale potere decisionale autonomo alle donne nelle proprie istituzioni. Ma non intendo qui addentrarmi in complesse questioni canoniche e teologiche. Voglio solo ricordare che la Chiesa, nella sua storia, ha sempre dimostrato più fantasia di quella che vorremmo oggi imprigionare nei canoni o in rigide norme intoccabili. Concretamente, per parlare dei vertici, esiste già nella Curia romana e in molte curie diocesane una presenza femminile, una volta impensabile. In particolare, per quanto riguarda i pontifici consigli (ventidue in tutto), istituiti dopo il concilio Vaticano II — più agili e meno rigidi delle nove Congregazioni che risalgono alla riforma di Sisto V — le donne sono ampiamente presenti, come in altri organi dell’amministrazione vaticana. Nel campo dell’arte, come nei Musei Vaticani, la presenza femminile arriva già al cinquanta per cento del personale e non soltanto esecutivo. In campo economico, amministrativo, universitario e della comunicazione sono ormai molte le donne ben preparate e qualificate che potrebbero rivestire e rivestono di fatto anche posti direttivi. Lo stesso avviene in molte curie vescovili anche di grandi diocesi, e nelle università cattoliche. Non è però solo un problema di strutture, ma anche di mentalità. Ricordo anni fa l’arcivescovo (peraltro notoriamente aperto e riformatore) di una grande città, che trovava difficoltà a ottenere da Roma la nomina di un suo teologo di fiducia come rettore dell’università cattolica della sua città che mi diceva, alquanto amareggiato: «Pensi che a Roma stanno facendo leggere i suoi scritti, per valutarne l’ortodossia, a una suora!», come evidente segno di incompetenza e di cattiva gestione dell’autorità. Ma si trattava, a quanto mi risulta, di una suora laureata in teologia e docente in una università ecclesiastica di Roma. Il lavoro di base nella Chiesa poi da sempre viene svolto in massima parte dalle donne, alle quali si deve anche la prima iniziazione cristiana dei bambini e delle bambine, che avviene (o avveniva) in famiglia a opera di mamme e nonne. Non è esagerato affermare che senza l’apporto delle donne la vita della Chiesa si fermerebbe e subirebbe un impoverimento globale determinante. Le suore del resto erano sino a non molto tempo fa assai più del doppio dei sacerdoti. Ma a questo dato di fatto non corrispondono strutture che riconoscano in modo adeguato il ruolo svolto e facciano sentire alle donne di occupare un posto degno nella Chiesa, sia a livello locale, che diocesano o romano. La Chiesa ha caratteristiche proprie che non si possono omologare a quelle della società civile, ma ovviamente la propria organizzazione e lo stile di vita della comunità ecclesiale hanno sempre profondamente risentito di quanto avveniva intorno a essa. Basta pensare a quanta parte del diritto romano è entrata a far parte del diritto canonico. Se il governo civile fa sempre maggior spazio alla consultazione popolare e a meccanismi di decisione collettivi, è evidente che questo influisce anche sulla Chiesa che non per nulla, dal Vaticano II in poi, parla di maggiore collegialità (nonostante le resistenze che vi si oppongono tenacemente), che poi non è altro che un ritorno allo stile dei primi secoli della Chiesa. A questo stile più collegiale e comunionale è impensabile che non partecipino anche le donne, in grado di contribuirvi con caratteristiche e qualità che non a caso Dio ha voluto complementari a quelle degli uomini. In particolare vorrei richiamare l’aspetto della maternità, che ha infinite sfumature di tenerezza e di dono di cui anche la Chiesa ha bisogno, anche, ad esempio, nel corso della formazione dei sacerdoti. Si tratta di inventarne le modalità e di non limitarsi a enunciarne la necessità, come si è fatto spesso sinora. La Evangelii gaudium constata «con piacere» che molte donne condividono già responsabilità pastorali insieme con i sacerdoti, dando il loro contributo per l’accompagnamento di persone, di famiglie o di gruppi e offrono nuovi apporti alla riflessione teologica. Molte sono laureate in teologia ed esperte in Sacra Scrittura con competenze e pubblicazioni non inferiori a quelle di molti colleghi maschi. Non sono poche le donne attive anche nel proporre esercizi spirituali e nell’animare riunioni spirituali. In realtà, le donne incontrano una doppia difficoltà per far sentire la propria voce e per svolgere ruoli attivi significativi: anzitutto quella che incontra tutto il laicato, che costituisce, come ricorda Papa Francesco, «l’immensa maggioranza del popolo di Dio» (Evangelii gaudium, n. 102) e che, nonostante gli sforzi, è ancora un “gigante addormentato”, ben lungi dal dare tutto l’apporto che potrebbe fornire. In secondo luogo quella di essere appunto donne, a cui si fa ancora a fatica a riconoscere la possibilità di accedere a ruoli tradizionalmente riservati agli uomini. Lavorando pochi decenni fa in un liceo gestito da religiosi (e frequentato allora soltanto da alunni maschi), le prime proposte di assumere anche insegnanti donne trovarono l’opposizione non dei religiosi che lo gestivano, ma degli insegnanti laici, tutti rigorosamente uomini, che evidentemente temevano un’agguerrita concorrenza femminile. O, più semplicemente, di perdere il posto. Così, in molti ambienti, il ruolo di servizio delle donne — come ha denunciato il Papa — rischia di scivolare verso un ruolo di servitù, alle volte con il pieno consenso delle relative superiore, se si tratta di religiose, che lo difendono come parte del proprio carisma. Fa onore alle donne che cerchino evangelicamente gli ultimi posti, ma tocca alla Chiesa, o alle comunità, chiamarle, altrettanto Lilli Carmellini, «Mai sole» (2009, particolare) evangelicamente, a salire più in alto. Le vocazioni alla vita religiosa e sacerdotale attraversano, come è noto, una profonda crisi, specialmente nei Paesi di antica tradizione cattolica. Il problema è assai complesso e i motivi sono pure molteplici, ma, nel caso delle religiose di vita attiva ci si può chiedere se, almeno in parte, il fenomeno non sia dovuto ai ruoli sistematicamente subalterni svolti dalla suore. Ruoli che oggi possono svolgere anche laiche, assistenti sociali, insegnanti che non rinunciano anche a formarsi una propria famiglia. L’identità della religiosa infatti non è più così specifica come una volta e si confonde con i compiti delle laiche, pur mancando della consacrazione espressa dai voti. Paradossalmente lo dimostra anche la tenuta della vita claustrale che, in media, non ha conosciuto la stessa crisi e la cui vocazione, come vita veramente alternativa, è tuttora chiaramente definita. Il successo dei movimenti, per quanto minoritari rispetto all’impianto delle parrocchie, dove le donne hanno spesso posti direttivi e decisivi, sembra confermarlo. Come si vede, si tratta di un ambito estremamente delicato, che riguarda tutta la Chiesa, ma che non può essere eluso, e nel quale il discernimento assistito dallo Spirito Santo, a cui il Papa, da buon gesuita, fa spesso appello dovrà essere messo coraggiosamente all’opera per rendere più amabile e credibile il volto della Chiesa del Signore.
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