PARADISO CANTO XV° Il canto XV° è il primo di un trittico, detto il trittico di Cacciaguida, ma se è vero che si può parlare di nuclei narrativi nella Commedia è ancor più vero che bisogna guardare all’unità narrativa di tutto il poema e tutti i problemi posti e non risolti nell’Inferno e nel Purgatorio trovano soluzione nel Paradiso. E questi tre canti, canti sublimi,danno il sigillo alla missione redentrice del poeta e rivelano il senso della vita dell’autore protagonista (vv. 1-3 canto I° Inferno). Sono i canti centrali della cantica del Paradiso e questo non può non avere importanza in un poema come la Commedia, dove i numeri hanno la loro sacralità. E’ proprio in questi canti, infatti, che si risolve quel dubbio che aveva attanagliato un Dante timoroso all’inizio del viaggio che si sé dice “Io non Enea, non Paulo sono” ed è qui che si imprime il suggello alla missione redentrice del poeta, badate bene, poeta dico che sarà Paolo ed Enea insieme e si spiega la ragione di quell’acerbo dolre dell’esilio che gli è riservato. Questi canti vanno intesi, come dice la Chiavacci Leonardi, come la storia dell’uomo nel tempo quale riflesso del pensiero e amore divino a cui l’uomo, nella sua libertà, può corrispondere o sottrarsi. Ma passiamo alla lettura (vv. 1-6) Benigna volontade in che si liqua sempre l'amor che drittamente spira, come cupidità fa ne la iniqua, silenzio puose a quella dolce lira, e fece quïetar le sante corde che la destra del cielo allenta e tira. “La volontà rivolta al bene nella quale sempre si manifesta l’amore che si muove nella giusta direzione, come la cupidigia si manifesta nella volontà di fare il male, impose silenzio a quel dolce coro e fece tacere le sante corde (spiriti beati), che la mano celeste rilascia e tende”. Siamo nel cielo di Marte, ricordiamoci, già dal v. 94 del canto XIV, quando a Dante appaiono delle luci disposte a croce in cui lampeggia Cristo, da cui emana una melodia indistinta che rapisce Dante al punto che pospone ad essa “il piacer degli occhi belli” (v. 130) quegli occhi per rivedere i quali il Dante dubbioso del canto II° dell’Inferno si era deciso a intraprendere il viaggio. Gli spiriti sono quelli dei combattenti per la fede e le potenze angeliche che presiedono al movimento del cielo sono le virtù. Ma, messi da parte questi dati che servono ad orientarci, soffermiamoci sulla musica del Paradiso. Dal rapimento del canto precedente siamo ora di fronte ad una pausa di silenzio (connotata da silenzio v. 4, quietar v. 5 e tacer v. 9), di immobilità delle danze, con cui si determina una rottura con le aspettative del lettore. C’è un forte senso di attesa che preannuncia un evento eccezionale. Già da questa terzina si imposta l’antitesi, semanticamente rilevante, del contrasto bene-male, cielo-terra. V. 2 “spira”: verbo biblico. Vv. 6-12 Come saranno a' giusti preghi sorde quelle sustanze che, per darmi voglia ch'io le pregassi, a tacer fur concorde? Bene è che sanza termine si doglia chi, per amor di cosa che non duri etternalmente, quello amor si spoglia. “Come potranno essere sorde alle nostre giuste preghiere quelle anime che, per invogliarmi a pregarle, tacquero tutte insieme? E’ bene che soffra eternamente, chi per amore di cose effimere, si priva per l’eternità di quell’amore”. V. 6 Inizia la terzina con una domanda retorica, Dante infatti già dal Purgatorio fonda i rapporti tra le anime del Purgatorio e del Paradiso e l’umanità sul dogma della comunione dei santi, come ci dimostra l’insistenza nella terzina di preghiere e pregare. Vv. 9-12 La seconda terzina ci riporta sul piano dell’antitesi bene-male, tempoeterno, falso amore e vero amore che corrispondono all’opposizione lupa-veltro del canto I Inferno. V. 11 La virgola può stare alla fine del verso o con un bellissimo enjembement dopo etternalmente. La Chiavacci preferisce la prima ipotesi perché l’eternità della pena non è proporzionata alla colpa che è inevitabilmente finita, ma all’eternità del bene. “Nel giro di una terzina di tutta naturalezza si pone e si risolve un problema teologico” (Chiavacci), cioè come possa essere giusta una pena infinita per una colpa finita. Vv. 13-30 Quale per li seren tranquilli e puri discorre ad ora ad or sùbito foco, movendo li occhi che stavan sicuri, e pare stella che tramuti loco, se non che da la parte ond' e' s'accende nulla sen perde, ed esso dura poco: tale dal corno che 'n destro si stende a piè di quella croce corse un astro de la costellazion che lì resplende; né si partì la gemma dal suo nastro, ma per la lista radïal trascorse, che parve foco dietro ad alabastro. Sì pïa l'ombra d'Anchise si porse, se fede merta nostra maggior musa, quando in Eliso del figlio s'accorse. «O sanguis meus, o superinfusa gratïa Deï, sicut tibi cui bis unquam celi ianüa reclusa?». “Come per il sereno cielo notturno, quieto e limpido, di quando in quando passa improvvisamente una luce, facendo muovere gli occhi che erano fermi, e sembra una stella che cambi luogo, mentre nel luogo dove quella luce si accende, nessuna stella viene a mancare ed essa dura poco, così dal braccio destro della croce venne ai piedi di quella una delle luci della costellazione che risplende in quel cielo, né quella luce si allontanò dalla fascia luminosa, ma corse nella striscia formata dai due raggi come una fiamma che passa dietro una lastra di alabastro. Con uguale affetto si presentò l’ombra di Anchise, se merita fede il nostro maggior poeta, quando nell’Eliso si accorse di suo figlio. - O sangue mio, o sovrabbondante grazia divina, a chi, come a te, fu mai aperta due volte la porta del cielo?-” Con improvviso mutamento si apre la scena su un cielo stellato connotato da un pianssimo musicale. L’avvicinarsi rapido di Cacciaguida è oggettivato in due paragoni, il primo dei quali contiene un inganno visivo, come abbiamo visto, mentre il secondo è interno e volto ad evidenziare l’intensità luminosa dell’anima (che parve foco ……). V. 16 C’è un’evidente ripresa di un verso di Ovidio (Met.) riferito a Fetonte. V. 22 L’insistenza sull’indissolubilità degli spiriti dal segno della croce dà risalto morale e religioso all’episodio così come il gesto improvviso dell’anima di Cacciaguida (la luce che si muove) è espressione della sua pietas nei confronti di Dante. Giacalone nota che il movimento di questa luce è sottolineato da parole luminose foco, stella, astro, costellazione che non sono impressioni visive ma immagini spirituali che ci rimandano alla quiete colma di misteriosa attesa e tensione espressa dal v. 15 dove gli occhi di Dante sicuri = sine cura sono improvvisamente attratti dal movimento. V. 24 Dante forse ha presente la suggestione creata dalla luce in San Vitale e nel mausoleo di Galla Placidia a Ravenna dove le finestrelle erano sicuramente di alabastro. Vv. 25 sgg. C’è un richiamo esplicito a Virgilio. Questa similitudine dà un tono di affettuosa intimità al racconto e non è soltanto un ricordo letterario ma una analogia figurale di natura politica e morale. Enea ricevette la missione di fondatore dell’impero romano, segno della giustizia divina in terra, Dante riceverà l’investitura di una missione redentrice dell’umanità e sarà Enea e Paolo. Eneide e Commedia fanno parte per Dante di un’unica tradizione letteraria. Da notare sempre al v. 25, pia e si porse che sottolineano l’affettuoso slancio dell’avo nei confronti di Dante. V. 27 Il latino con cui Cacciaguida si rivolge a Dante ci lega al mondo classico e a quello biblico. Oltre a rendere solenne l’incontro ha una ragione figurale (Giacalone) in quanto Cacciaguida parla sul piano dell’eternità e Dante intende sul piano del tempo. Nel piano del tempo si svolge il dramma e l’impegno di Dante poeta, ma sul piano dell’eternità si placa e si completa spiritualmente la vicenda di Dante personaggio. Dal punto di vista stilistico notiamo con quanta naturalezza Dante piega all’endecasillabo italiano la struttura e il lessico della lingua latina. Vv. 31-42 Così quel lume: ond' io m'attesi a lui; poscia rivolsi a la mia donna il viso, e quinci e quindi stupefatto fui; ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo de la mia gloria e del mio paradiso. Indi, a udire e a veder giocondo, giunse lo spirto al suo principio cose, ch'io non lo 'ntesi, sì parlò profondo; né per elezïon mi si nascose, ma per necessità, ché 'l suo concetto al segno d'i mortal si soprapuose. “Così disse quel lume: per cui io rivolsi la mia attenzione a lui, poi volsi lo sguardo verso la mia donna e da una parte e dall’altra rimasi stupefatto; perché dentro ai suoi occhi ardeva un riso tale che io pensai coi miei di toccare il termine estremo della mia grazia e della mia beatitudine. In seguito, trasmettendo gioia a udirlo e a vederlo, lo spirito aggiunse alle parole dette in principio cose che io non lo capii, tanto profondo era il suo parlare; e non mi rimase incomprensibile per sua scelta, ma per necessità, in quanto i suoi pensieri andarono al di là del limite della nostra intelligenza”. Vv. 31sgg. Dante non rivela ancora il nome di quell’anima e in quel silenzio cresce la tensione dell’attesa di fronte a quella esperienza straordinaria che è avvertita come privilegiata effusione di grazia. Questa e la terzina seguente sono di assoluta naturalezza, con la semplice paratassi del v. 33 e quel toccar lo fondo ancora in uso nel nostro parlare. Riandiamo con la mente all’esperienza della Vita Nova ma con ben altra intensità. Alla progressiva rivelazione di Beatrice corrisponde una maggior convinzione di Dante e quindi la gioia del traguardo raggiunto. V. 38 Il discorso di Cacciaguida è rivolto a Dio, è il linguaggio dell’empito mistico; non è la lingua ma i concetti che superano l’intendimento umano. Si tratta di un ringraziamento per la grazia concessa a Dante e forse si parla del mistero della predestinazione o delle ragioni per cui Dante è stato prescelto, come si può desumere dai versi successivi. Ancora una volta dobbiamo mettere in evidenza l’incomunicabilità tra tempo (Dante) ed eterno (Cacciaguida). Vv. 43-69 E quando l'arco de l'ardente affetto fu sì sfogato, che 'l parlar discese inver' lo segno del nostro intelletto, la prima cosa che per me s'intese, «Benedetto sia tu», fu, «trino e uno, che nel mio seme se' tanto cortese!». E seguì: «Grato e lontano digiuno, tratto leggendo del magno volume du' non si muta mai bianco né bruno, solvuto hai, figlio, dentro a questo lume in ch'io ti parlo, mercé di colei ch'a l'alto volo ti vestì le piume. Tu credi che a me tuo pensier mei da quel ch'è primo, così come raia da l'un, se si conosce, il cinque e 'l sei; e però ch'io mi sia e perch' io paia più gaudïoso a te, non mi domandi, che alcun altro in questa turba gaia. Tu credi 'l vero; ché i minori e ' grandi di questa vita miran ne lo speglio in che, prima che pensi, il pensier pandi; ma perché 'l sacro amore in che io veglio con perpetüa vista e che m'asseta di dolce disïar, s'adempia meglio, la voce tua sicura, balda e lieta suoni la volontà, suoni 'l disio, a che la mia risposta è già decreta!». “E quando la tensione dell’ardente carità si fu sfogata al punto che le parole discesero a livello della nostra comprensione umana, la prima cosa che da me fu compresa fu benedetto sei tu, trino ed uno, che sei tanto generoso verso la mia discendenza -. E continuò - tu hai soddisfatto, figlio, una lunga e gradita attesa che io avevo accolto in me leggendo nel libro dove nulla mai può mutare, dentro a questo lume nel quale ti parlo, grazie a colei che ti ha dato le ali per questo alto volo. Tu credi che il tuo pensiero derivi a me da Dio così come dalla conoscenza dell’uno deriva quella del cinque e del sei e per questo non mi chiedi chi io sia e perché io mi mostri a te più gioioso di tutti in questa gioiosa folla. Tu credi cosa vera; poiché chi partecipa di questa vita (cioè tutti i beati), dai gradi più bassi ai più alti, guarda in quello specchio (la mente divina), nel quale tu manifesti il tuo pensiero ancor prima di pensarlo; ma affinchè quel divino amore nel quale io vigilo con gli occhi perennemente aperti in Dio e che mi dà ardente brama (m’asseta) di questo dolce desiderio, possa essere meglio soddisfatto, la tua voce, sicura, balda e lieta faccia risuonare la tua volontà, il tuo desiderio per il quale è già stabilita la mia risposta!-” V. 43 La metafora dell’arco, portata dal segno del verso precedente e del v. 45, è ricorrente nel poema, ed indica la tensione dell’incontro, incontro tra umano e divino dove la tensione intellettuale discendente di Cacciaguida richiama la tensione teologale ascendente che vedremo nella risposta di Dante. V. 48 Mio seme corrisponde al sanguis meus dell’inizio del discorso e rivela che chi parla è un antenato di Dante. V. 49 Grato e lontano digiuno la lunga attesa, da quando Cacciaguida è morto (1189): queste prime parole ci portano a Virgilio (Eneide VI°) “ Sei venuto alfine”, ma mentre queste rimangono sul piano dell’affetto paterno quelle sono “elevate sul registro della divina predestinazione e di una gioia più sacra che terrena” (Chiavacci). Il complemento oggetto è retto da solvuto hai del v. 52 e questo cstrutto inverso contribuisce a creare l’attesa. Le metafore digiuno e volume (topos medioevale per indicare l’onniscienza di Dio) hanno la funzione di pausare qualsiasi effusione umana tra i due personaggi, la parentela qui è più ideologica che di sangue (Giacalone). Il tono è sempre di alta oratoria. V. 53 Il merito di aver reso possibile il grande viaggio è di Beatrice, come si dirà anche nel canto XXXI° Paradiso al momento del congedo. L’alto volo è antitetico al folle volo di Ulisse. V. 55 Tu credi, ripetuto in anafora al v. 61 come rafforzativi di verità assolute, è volto ad assicurare la vicenda umana e soprannaturale di Dante entro la volontà divina. V. 57 Nel simbolismo ebraico-cristiano il cinque e il sei (pentagono, esagono) significano il microcosmo ed il macrocosmo, l’uomo singolo e l’uomo universale. V. 65 Asseta, digiuno: continua la metafora. Tutta la terzina è intessuta di parole forti e si collega all’inizio del canto benigna volontade. V. 67 Questi aggettivi sembrano preannunciare la chiusa gloriosa dell’incontro. V. 68 L’iterazione di suoni esprime un comando. La Chiavacci mette in risalto che l’aspetto corporeo ha la sua importanza nell’universo dantesco. Secondo Sermonti la voce è residuo divino nell’uomo e il “sacrificio della voce” è l’atto con cui la creatura si restituisce al Creatore. Io umilmente proporrei di rileggere San Paolo Rm. 10 “Con il cuore …….. si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza”. E giustizia e salvezza sembra che siano temi forti di questo canto. Vv. 70-87 Io mi volsi a Beatrice, e quella udio pria ch'io parlassi, e arrisemi un cenno che fece crescer l'ali al voler mio. Poi cominciai così: «L'affetto e 'l senno, come la prima equalità v'apparse, d'un peso per ciascun di voi si fenno, però che 'l sol che v'allumò e arse, col caldo e con la luce è sì iguali, che tutte simiglianze sono scarse. Ma voglia e argomento ne' mortali, per la cagion ch'a voi è manifesta, diversamente son pennuti in ali; ond' io, che son mortal, mi sento in questa disagguaglianza, e però non ringrazio se non col core a la paterna festa. Ben supplico io a te, vivo topazio che questa gioia prezïosa ingemmi, perché mi facci del tuo nome sazio». “Io mi volsi a Beatrice e quella comprese prima che io parlassi e con il suo sorriso mi rivolse un cenno di assenso che fece crescere in me il desiderio di far domande. Poi cominciai così - La capacità affettiva e quella intellettiva, non appena vi si manifestò la prima uguaglianza (Dio) divennero per ciascuna di voi perfettamente equilibrate giacchè quel sole (Dio) che vi illumunò con la sua luce e infiammò con il suo calore è così perfettamente uguale che ogni altra somiglianza appare inadeguata. Ma nei mortali il desiderio e lo strumento per esprimerlo (la parola), per la ragione che a voi è chiara, hanno diverse potenzialità; per cui io, che sono mortale,mi sento in questa disuguaglianza e perciò non ringrazio se non col cuore per questa festa paterna e tuttavia ti supplico, vivo topazio, che sei una gemma di questo gioiello (cielo) di appagare il mio desiderio di sapere il tuo nome -“. V. 71 arridere è transitivo. V. 72 la metafora riprede il v. 54. V. 73 le parole di Dante vogliono corrispondere all’altezza del parlare di un così grade personaggio. V. 79 inizia una terzina difficile che apre ad un confronto tra tempo ed eterno. V. 80 continua la metafora. V. 83 disugguaglianza: in antitesi con iguali del v. 77. V. 84 Dante non trova le parole per esprimere la sua gratitudine, sa solo evidenziare le differenze presenti nei mortali. V. 85 supplico col dativ come in latino. Topazio con valore simbolico perché non è rosso come gli spiriti di Marte. Forse il topazio ha un influsso benefico. V. 87 sazio corrisponde a digiuno e asseta del v. 65: linguaggio mistico-realistico. Vv. 88-96 «O fronda mia in che io compiacemmi pur aspettando, io fui la tua radice»: cotal principio, rispondendo, femmi. Poscia mi disse: «Quel da cui si dice tua cognazione e che cent' anni e piùe girato ha 'l monte in la prima cornice, mio figlio fu e tuo bisavol fue: ben si convien che la lunga fatica tu li raccorci con l'opere tue. “- O mio discendente nel quale mi compiacqui già solo nell’attesa, io fui il tuo capostipite: - così cominciò la sua risposta. Poi mi disse: - Colui dal quale deriva il nome della tua casata e che per più di cento anni ha girato intorno al monte del Purgatorio nella prima cornice, fu mio figlio e tuo bisavolo: è giusto che tu abbrevi con le tue opere buone la sua dura pena-“. Vv. 88 sgg. Cacciaguida ancora non rivela il suo nome ma con linguaggio scritturale dichiara di essere il capostipite della casata da cui Dante discende (radice vedi Isaia, compiacemmi = questo è il mio figlio diletto in cui mi compiacqui Matth., Marc., Luc.). Tale linguaggio preannucia o ribadisce la consacrazione della missione di Dante. V. 92 cognazione dal latino indica la parentela fino al VI° grado. Quel ….. è Alighiero I°, figlio di Cacciaguida e padre di Bello e di Bellincione, da cui nacque Alighiero II°, padre di Dante, figlio di primo letto avuto da donna Bella. Alighiero I° è ricordato in due documenti del 1189 e del 1201, ma Dante lo considera morto prima del 1200. Da lui la discendenza assume il cognome Alighieri cioè di Alighiero (genitivo patronimico). Costui aveva sposato una figlia di Bellincion Berti dei Ravignani che denota l’alto livello sociale della famiglia, poi decaduta. Il padre di Dante era un modesto faccendiere e usuraio. V. 95 fatica: ci ricorda che i superbi portavano massi sulle spalle. A questo punto il discorso si sposta dal cielo alla terra e inizia il grande flash back su Firenze antica. Vv. 97-129 Fiorenza dentro da la cerchia antica, ond' ella toglie ancora e terza e nona, si stava in pace, sobria e pudica. Non avea catenella, non corona, non gonne contigiate, non cintura che fosse a veder più che la persona. Non faceva, nascendo, ancor paura la figlia al padre, ché 'l tempo e la dote non fuggien quinci e quindi la misura. Non avea case di famiglia vòte; non v'era giunto ancor Sardanapalo a mostrar ciò che 'n camera si puote. Non era vinto ancora Montemalo dal vostro Uccellatoio, che, com' è vinto nel montar sù, così sarà nel calo. Bellincion Berti vid' io andar cinto di cuoio e d'osso, e venir da lo specchio la donna sua sanza 'l viso dipinto; e vidi quel d'i Nerli e quel del Vecchio esser contenti a la pelle scoperta, e le sue donne al fuso e al pennecchio. Oh fortunate! ciascuna era certa de la sua sepultura, e ancor nulla era per Francia nel letto diserta. L'una vegghiava a studio de la culla, e, consolando, usava l'idïoma che prima i padri e le madri trastulla; l'altra, traendo a la rocca la chioma, favoleggiava con la sua famiglia d'i Troiani, di Fiesole e di Roma. Saria tenuta allor tal maraviglia una Cianghella, un Lapo Salterello, qual or saria Cincinnato e Corniglia. “Firenze stava in pace, sobria e pudica, dentro l’antica cerchia delle mura, da dove ancora riceve i rintocchi delle ore di terza e nona (le nove e le quindici). Non c’erano monili, non corone, non vesti ricamate, non cinture che fossero più appariscenti della persona che le indossava. Il padre non doveva ancora temere se gli nasceva una figlia, perché l’età della sposa e la cifra della dote non oltrepassavano usta misura l’una in difetto, l’altra in eccesso. Non c’erano case prive di figli; non vi era ancora giunto Sardanapalo (la depravazione) a mostrare ciò che si può fare in camera da letto. Non era stato ancora superato Monte Mario (Roma) dal vostro Uccellatoio (Firenze) che, come è vinto nell’ascesa, sarà superato nella decadenza. Vidi Bellincion Berti andare cinto con la cintura di cuoio con fibbia d’osso e sua moglie lasciare lo specchio senza essersi truccata il viso; e vidi i Nerli e i Del Vecchio accontentarsi della pelle senza ornamenti e le loro donne al fuso e al pennecchio. Oh fortunate, ciascuna era certa della sua sepoltura (sarebbero morte nella loro città, perché non vi erano esili e dispersioni delle famiglie) e ancora nessuna era stata lasciata sola nel letto per andare a commerciare in Francia. Una vegliava intenta a curare i piccoli nella culla e, per consolarli, usava quel linguaggio che diverte prima di tutto i padri e le madri; l’altra (l’anziana) nell’atto di filare (la chioma o pennecchio è il fiocco di lana che si avvolge sulla rocca per filarlo) raccontava alla sua servitù le leggende dei Troiani, di Fiesole e di Roma. A quel tempo una Cianghella (donna scostumata) e un Lapo Salterello (uomo politico corrotto) sarebbero stati oggetto di meraviglia, come oggi lo sarebbero Cincinnato e Cornelia (di esemplari virtù morali)”. V. 97 la visione di Cacciaguida si sposta, come abbiamo detto, dal cielo alla terra, alla storia della sua Firenze, al mito di un mondo di cortesia perduto, alla mitica città del buon tempo antico in cui la carità concorde del ben vivere di cittadini è figura della carità del Paradiso. Senti qui tutta la nostalgia dell’esule e l’ideale del vivere civile di Dante-Cacciaguida. La cerchia antica è quella delle mura carolinge costruite tra il IX° e il X° secolo e riadattate tra l’XI° e il XII° secolo. V. 98 il tempo del lavoro (9-15), scandito dal suono della campana della Badia ha un fascino particolare e forse quell’ancora indica che il passato può tornare o esprime l’amaro rammarico per l’inutilità di una scansione del tempo non più rispettata nella Firenze moderna? Sono tra i versi più belli del poema per questa risonanza insieme privata ed universale. V. 99 pace: questa parola ci dà la chiave di lettura non solo del canto che si chiude anche con pace, ma di tutto il poema. Sobria e pudica indicano la prima il costume esteriore, la seconda quello interiore (temperanza). Vv. 100 sgg la rievocazione di quell’età felice prende rilievo dalla comparatio per contrarium con la malvagità del presente. La ripetizione in anafora del non per nove volte colpisce per la sua violenza. Lo schema ideologico che segue Dante e che si completa con il canto XVI° è: dentrofuori, piccolo-grande, ordine-caos dove l’interno, il piccolo è ordine che, tradotto in linguaggio storico, significa il passaggio del comune dalla fase aristocratica a quella popolare-borghese di fine ‘200 inizi ‘300, da una economia di sopravvivenza ad una economia di mercato, di espansione commerciale. Non avea: francesismo, il n’y avait. V. 105 la dote fino al XIII° secolo di cento lire diviene poi di mille lire e poi mille fiorini. V. 106 la società del benessere comprime le nascite. V. 107 Assurbanipal, re degli Assiri, qui per metonimia è la lussuria. Vv. 108-109 Montemalo, Uccellatoio: toponimi con valore di sineddoche. Il fasto delle costruzioni non aveva ancora superato quello di Roma, ma come la supererà in grandezza così la supererà in decadenza. V. 110 vostro perché Cacciaguida ormai è cittadino del cielo. V. 112 la posposizione del pronome soggetto dà una particolare forza espressiva al verbo. Bellincion Berti e la moglie sono citati come esempi di onestà, perché illustri personaggi dell’antica Firenze che, insieme ai Nerli e ai Vecchietti, contribuiscono a dare forza realistica a tutta le rievocazione. V. 118 l’esclamazione sembra prorompere dal cuore dell’esule Dante più che da quello dello spirito di Cacciaguida. La terzina segna il passaggio da un quadro di parsimoniosa vita esteriore ad uno che presenta “in una raccolta scena d’interno i valori intimi e profondi del vivere familiare” (Chiavacci). V. 120 diserta = lt. deserere. Esili e commerci sono la causa della rovina delle famiglie. Se il Decameron è l’epos dei mercanti fiorentini (Branca) Dante non comprende bene il progresso economico di Firenze di cui vede solo le conseguenze morali e civili. V. 121 le due terzine seguenti celebrano la dolcezza degli affetti familiari e vedono riunite tre generazioni: le giovani donne a studio della culla e le anziane, filando, a favoleggiare con la servitù (famiglia) di Troia, Fiesole e Roma dove il lungo verbo favoleggiava dà l’andamento di favola al racconto. (Enea fonda Roma, i romani distruggono Fiesole e fondano Firenze). Quanta nostalgia in Dante di questi affetti, lui che aveva perso la madre da piccolo! V. 127 in antitesi Cianghella e Lapo Salterello, esempi di donna corrotta e politico corrotto dei tempi moderni che allora sarebbero stati un’eccezione come, al tempo di Dante, un Cincinnato e una Cornelia, esempi di alta probità pubblica e privata. Nomi e fatti segnano il passaggio dal favoleggiare di un tempo alla realtà odierna. Vv. 130-138 A così riposato, a così bello viver di cittadini, a così fida cittadinanza, a così dolce ostello, Maria mi diè, chiamata in alte grida; e ne l'antico vostro Batisteo insieme fui cristiano e Cacciaguida. Moronto fu mio frate ed Eliseo; mia donna venne a me di val di Pado, e quindi il sopranome tuo si feo. “A una vita così bella e tranquilla di cittadini, ad una cittadinanza così fidata, ad una dimora così dolce, mi diede Maria, invocata nelle grida del parto; e nel vostro antico Battistero divenni cristiano con il nome di Cacciaguida. Moronto ed Eliseo furono miei fratelli; mia moglie venne dalla Val Padana e da lei si formò il tuo cognome”. Vv.130-132 la terzina osserva la Chiavacci raccoglie nella serie dei sereni aggettivi riposato, bello, fida, dolce, tutta la pacifica vita finora descritta. Il personaggio che parla, solo ora descrive la sua vita che ha avuto origine dentro quella modesta cerchia di mura, protezione, nella sua piccolezza e nella sua circolarità per i suoi concittadini. La pace della Firenze di Cacciaguida prefigura quella stessa del Paradiso. Ma sentite la bellezza di questi versi con questo accumularsi di aggettivi in progressione (non frequente in Dante) con la conduplicatio del così e due enjembement che si sciolgono in quel Maria del primo verso della terzina seguente che imprime alla nascita di Cacciaguida un segno divino: elementarità di linguaggio che corrisponde alla semplicità di quel modello di “buona città” di cui l’esule Dante ha nostalgia, ma che propone anche, forse, come programma politico per il futuro. V. 134 Batisteo è il Battistero di San Giovanni. V. 135 Cristiano e Cacciaguida: sono due segni indivisibili di riconoscimento dell’uomo. Finalmente l’anima rivela il suo nome al discendente. Vv. 136-138 Moronto ed Eliseo furono due fratelli d Cacciaguida di cui due documenti ci assicurano l’esistenza oppure uno solo Moronto che conserva il cognome della nobile famiglia degli Elisei, mentre lui, Cacciaguida, dal nome della moglie (forse di Ferrara) dà il cognome agli Alighieri. Era frequente dare ad un figlio il nome derivato dal cognome materno, così dalla madre avrebbe preso il nome Alighiero I° figlio di Cacciaguida e bisnonno di Dante. Da lui nacquero i due figli, Bello e Bellincione, da quest’ultimo nasce il primogenito Alighiero II° padre di Dante, avuto in prime nozze con donna Bella. Vv. 139-148 Poi seguitai lo 'mperador Currado; ed el mi cinse de la sua milizia, tanto per bene ovrar li venni in grado. Dietro li andai incontro a la nequizia di quella legge il cui popolo usurpa, per colpa d'i pastor, vostra giustizia. Quivi fu' io da quella gente turpa disviluppato dal mondo fallace, lo cui amor molt' anime deturpa; e venni dal martiro a questa pace». “Poi seguii l’imperatore Corrado ed egli mi investì del suo ordine cavalleresco, tanto gli divenni gradito per le buone opere. Gli andai dietro contro la perversità di quella religione (musulmana) il cui popolo usurpa, per colpa dei vostri pastori, la terra che secondo giustizia spetterebbe a voi cristiani. Qui io per mano di quella gente turpe fui liberato dal mondo ingannevole la cui attrattiva porta a rovina molte anime; e dal martirio giunsi a questa pace”. V. 139 Corrado è Corrado III° di Svevia, sceso in Italia nel 1127 e incoronato a Monza nel 1128, per cui Cacciaguida avrebbe potuto conoscerlo. Non tutti sono d’accordo; per alcuni è Corrado II°. Ma certamente la crociata a cui si allude è quella del 1147-1148 in cui morì Cacciaguida. V. 140 militia da miles che era il titolo dato al cavaliere. Mi cinse perché l’investitura a cavaliere veniva fatta cingendo i fianchi del candidato con la spada. Da notare che il titolo di cavaliere veniva dato solo ai nobili, il che è garanzia dell’origine nobiliare della famiglia. V. 145 quivi: in Terrasanta. V. 148 la chiusa, bellissima, maestosa compendia due parole supreme di questa poesia: martirio e pace, dove martirio (tale era considerata la morte dei crociati combattenti per la fede) ha sicuramente il suo valore etimologico di “testimonianza”. “Le due parole si staccano nella possente rappresentazione di quella estrema liberazione (disviluppata) da tutto ciò che è disvalore e si dispongono fino al verso isolato …… in cui la marcia guerresca che ha condotto Cacciaguida dal dolce ostello e dall’investitura guerresca alla ….. morte in Terrasanta si conclude nel suo ideale compimento dell’ascesa in cielo” (Binni). Concluderei con l’osservazione di Giacalone che “pace” richiama per analogia la pace nella Firenze antica, che in terra fu prefigurazione del Paradiso. Il verso finale del canto rivela il coincidere della figura dell’avo con quella del nipote: anche per lui, esule, la vita è un diuturno martirio, anche per lui la morte segnerà il momento della sospirata pace che intitola il racconto della città amata e perduta per sempre (Chiavacci). Bibliografia Paradiso con il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi ed. Zanichelli Paradiso a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio ed. Le Monnier Paradiso commento di Vittorio Sermonti ed. scolastiche Bruno Mondadori Paradiso commento di Giuseppe Giacalone ed. Angelo Signorelli
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