Capitolo 3, "Tecniche sperimentali"

Capitolo 3
Tecniche sperimentali.
In questo capitolo esaminiamo alcune tecniche sperimentali classiche (potremmo anche dire: “povere”), basate sulla strumentazione di uso pi`
u comune in un laboratorio
di spettroscopia e fotochimica: lampade, fotometri, spettrometri e combinazioni di
questi elementi.
3.1
Sorgenti di luce, filtri, monocromatori.
Le pi`
u comuni sorgenti di luce in ambiente domestico sono le lampade a filamento
di tungsteno, che emettono uno spettro continuo simile a quello di un corpo nero.
La lunghezza d’onda corrispondente alla massima irradianza `e inversamente proporzionale alla temperatura del filamento, e l’emissione totale `e proporzionale a T 4 .
La temperatura `e determinata dalla potenza elettrica dissipata, ma non pu`o essere
troppo alta, per non danneggiare il filamento. Con l’aggiunta di un alogeno nel
bulbo, per esempio iodio, si protegge il filamento dall’evaporazione; in questo modo
si possono raggiungere temperature pi`
u alte, il che aumenta l’efficienza (energia radiante prodotta per unit`a di energia elettrica consumata) e consente l’emissione di
luce UV, fino a circa 200 nm.
Lampade pi`
u potenti e con altre caratteristiche favorevoli sono quelle che utilizzano
una scarica elettrica in un gas. Il gas pu`o essere un gas raro, per esempio xenon,
o un elemento sufficientemente volatile alle alte temperature, come il mercurio. La
lampada `e un tubo ermetico con almeno un catodo ed un anodo. Gli elettroni inizialmente emessi dal catodo per effetto termoionico vengono accelerati verso l’anodo e
per collisione eccitano o ionizzano gli atomi del gas. La ionizzazione produce cationi
ed altri elettroni, che amplificano l’effetto di quelli emessi dal catodo. Ogni ione o
elettrone ha un cammino libero medio inversamente proporzionale alla densit`a del
gas. Durante il percorso, acquista energia cinetica in proporzione al cammino libero
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medio ed al campo elettrico, il quale a sua volta `e uguale alla differenza di potenziale
tra gli elettrodi divisa per la loro distanza. Affinch´e la scarica si mantenga, occorre
che l’energia degli urti sia sufficiente a ionizzare altri atomi, e ci`o dipende, come
abbiamo visto, dalla densit`a del gas, dalla geometria della lampada, e dal circuito
esterno che deve mantenere una differenza di potenziale nonostante il passaggio di
corrente nel tubo. La luce `e emessa dagli atomi eccitati, nel qual caso si ha uno
spettro di righe. Oppure, uno ione pu`o catturare un elettrone emettendo al tempo
stesso un fotone. Quest’ultimo fenomeno `e una transizione da stato dissociativo,
di energia qualsiasi dipendente dall’energia cinetica dell’elettrone, ad uno legato;
di conseguenza, lo spettro emesso `e continuo. Con l’aumentare della pressione e
della temperatura, aumenta la potenza in uscita; la porzione continua dello spettro
tende a prevalere; possono essere emesse righe diverse, perch´e sono popolati stati
eccitati pi`
u alti, e le righe mostrano allargamento dovuto ai frequenti urti (“pressure
broadening”).
Figura 3.1: Spettro di emissione di una lampada a xenon. Lampada a flash PX-2,
Ocean Optics, Florida; energia di un impulso, 45 mJ; durata di un impulso, 5 µs a
1/3 della potenza di picco; potenza media, 9.9 W; frequenza degli impulsi, 220 Hz.
Le lampade a xenon emettono uno spettro di righe sovrapposto ad un continuo
(vedi figura 3.1). A bassa pressione le righe principali sono fra 220 e 650 nm, come
nella figura; ad alta pressione si spostano a lunghezze d’onda tra 800 e 1000 nm,
perch´e prevalgono transizioni tra stati eccitati, piuttosto che verso il fondamentale.
Le lampade a mercurio a bassa pressione emettono uno spettro di righe, tra cui
quella di gran lunga prevalente `e a 254 nm (transizione 3 P1 →1 S0 ); invece ad alta
pressione sono emesse molte righe, tra cui quelle a 313, 365, 405, 436, 546 e 579 nm;
la riga a 254 nm `e soppressa per l’assorbimento dei vapori freddi vicino alle pareti
della lampada.
Per lo studio della cinetica di specie transienti, ed in particolare degli stati eccitati,
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`e necessario disporre di sorgenti di luce ad intensit`a variabile nel tempo; comunemente, si tratta di lampade o laser che emettono lampi di luce a ripetizione. Se
il circuito elettrico esterno di una lampada a scarica comprende un condensatore
per accumulare carica, la differenza di potenziale tra gli elettrodi sale gradualmente
fino a raggiungere la soglia oltre la quale inizia la ionizzazione e quindi la scarica;
una volta ionizzato il gas, la corrente molto intensa scarica il condensatore, e si
torna alle condizioni di partenza; di conseguenza la lampada emette lampi di luce
a ripetizione. L’energia emessa da un lampo, la durata del lampo e la frequenza di
ripetizione sono determinate dalla geometria della lampada, dal tipo e dalla pressione del gas, e dal circuito di alimentazione (lampade “free running”). Per esempio,
aumentando la pressione occorre una differenza di potenziale pi`
u alta per far partire
il lampo, quindi i lampi sono pi`
u potenti e pi`
u radi. Si pu`o introdurre un secondo
catodo, che un circuito secondario porta al potenziale necessario per la scarica ad
intervalli di tempo regolabili: in questo modo si hanno lampi pi`
u frequenti e meno
potenti (lampade “gated”). La durata dei lampi `e tipicamente dell’ordine dei µs
e pu`o scendere fino a qualche ns, a scapito della potenza emessa. Per avere lampi
ancora pi`
u brevi bisogna ricorrere ai LED (“light emitting diode”, durata del lampo
<1 ns) o ai laser (vedi sezione 8.2, durate fino a pochi fs).
Nella maggior parte degli esperimenti di fotochimica `e preferibile o necessario usare
luce (quasi) monocromatica. Avendo una lampada ad emissione continua, ci`o si pu`o
realizzare con un monocromatore a reticolo o a prisma. In questo modo la potenza
utilizzata `e solo una piccola frazione di quella emessa dalla lampada. Vari tipi di filtri
possono consentire di selezionare intervalli pi`
u o meno ampi di lunghezze d’onda.
Bisogna ricordare che i materiali che costituiscono le pareti della lampada, della
cella dove `e racchiuso il campione, ed altre parti dello strumento attraversate dalla
luce, inevitabilmente assorbono. Di solito vengono quasi completamente tagliate le
lunghezze d’onda inferiori ad una soglia (“cutoff”): 350 nm per il vetro comune,
330 nm per il vetro Pyrex, tra 185 e 165 nm per il quarzo, a seconda della purezza.
L’aria stessa assorbe λ < 200 nm. I filtri possono essere soluzioni o vetri contenenti
coloranti, oppure sottili lamine di vari materiali che bloccano le lunghezze d’onda
non volute in base a effetti di interferenza.
3.2
Rivelatori e actinometri.
Per determinare spettri e rese quantiche, occorre misurare l’irradianza della luce
incidente sul campione, di quella trasmessa, ed eventualmente di quella emessa. I
pi`
u semplici rivelatori sono termopile, bolometri e fotocellule. Le termopile e il
bolometri si basano sul riscaldamento prodotto dalla luce incidente su una superficie assorbente. La termopila `e costituita da una serie di termocoppie; per ogni
termocoppia, una giunzione `e adiacente alla superficie riscaldata dalla radiazione, e
l’altra `e mantenuta a temperatura costante; in questo modo la termopila genere una
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differenza di potenziale proporzionale alla potenza radiante assorbita. Un bolometro
contiene invece una resistenza elettrica, il cui valore cambia con la temperatura; la
resistenza fa parte di un circuito bilanciato, per cui la corrente che passa in un dato
ramo del circuito `e proporzionale all’aumento di temperatura. Termopile e bolometri
sono sensibili solo alla potenza totale del raggio, e non al tipo di energia trasportata,
purch´e assorbita dalla superficie esposta; possono essere fotoni di qualsiasi lunghezza d’onda, oppure particelle dotate di energia cinetica. Questi strumenti si possono
calibrare mediante procedure interne; per esempio, entrambe le serie di giunzioni
di una termopila possono essere riscaldate alla stessa temperatura, ottenendo una
corrente nulla: una serie `e riscaldata da un raggio di luce, e l’altra da un circuito
ausiliario che fornisce una potenza nota; in questo modo si determina la potenza
assoluta del raggio di luce.
Le fotocellule sono strumenti pi`
u sensibili e di uso pi`
u pratico, perch´e meno influenzate dalla temperatura ambiente. Inoltre hanno una risposta molto pi`
u rapida a
variazioni del flusso luminoso. Una fotocellula `e un tubo a vuoto con un fotocatodo
capace di emettere elettroni per effetto fotoelettrico, se colpito da fotoni in un ampio
intervallo di lunghezze d’onda. A questo fine il fotocatodo `e coperto da uno strato di
composizione solitamente mista, metallico o semiconduttore. Gli elettroni sono attratti da un anodo e la corrente prodotta `e proporzionale al numero di fotoni incidenti
nell’unit`a di tempo. Tuttavia, la costante di proporzionalit`a, cio`e la sensibilit`a della
fotocellula, varia con la lunghezza d’onda della luce, a seconda della composizione
del fotocatodo. Questa `e una ragione di pi`
u per usare luce monocromatica.
Figura 3.2: Schema di un fotomoltiplicatore.
I fotomoltiplicatori sono gli strumenti pi`
u sensibili per misurare la luce (vedi figura
3.2). Un fotomoltiplicatore contiene un fotocatodo, come la fotocellula. Gli elettroni
emessi vengono attratti da un primo “dinodo”, cio`e un elettrodo con potenziale circa
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100 V pi`
u alto del fotocatodo. Quando un elettrone impatta sul dinodo, ne estrae
molti altri (dell’ordine di una decina), i quali sono attratti da un altro dinodo a
potenziale ancora pi`
u alto. Con 8-10 dinodi, si pu`o avere un’amplificazione di un
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fattore 10 − 10 (elettroni che arrivano all’ultimo dinodo, l’anodo, per ogni fotone
incidente sul fotocatodo). I dinodi hanno forma e disposizione nello spazio tali
da obbligare gli elettroni a muoversi da un dinodo al successivo, piuttosto che ad
uno di quelli pi`
u a valle. La corrente `e proporzionale al numero di fotoni incidenti
purch´e non sia troppo grande, nel qual caso la corrente stessa altera le d.d.p. tra i
dinodi. Il tempo di risposta dipende dalla velocit`a con cui si muovono gli elettroni,
ed `e dell’ordine di 10 ns. Negli esperimenti di spettroscopia risolta nel tempo, `e
importante che questo ritardo sia costante. In qualche caso bisogna tener conto di
una lieve dipendenza del tempo di risposta dalla lunghezza d’onda (fino a circa 10%),
detta “effetto colore”; essa `e dovuta al fatto che fotoni di lunghezza d’onda pi`
u corta
estraggono dal fotocatodo elettroni pi`
u energetici, che raggiungono il primo dinodo
pi`
u rapidamente.
La misurazione del flusso radiante basata su effetti fisici, come negli strumenti
visti sopra, solitamente fornisce dati relativi, non assoluti, e quindi necessita di
una calibrazione. Una soluzione possibile `e l’uso di actinometri chimici. Un actinometro `e un sistema nel quale avviene una reazione fotochimica, con alcune caratteristiche indispensabili o desiderabili: 1) alta resa quantica, indipendente dalla
lunghezza d’onda e dalle condizioni ambientali per un largo intervallo; 2) spettro
di assorbimento del reagente altrettanto esteso; 3) prodotti di reazione facilmente
misurabili. Un actinometro molto usato `e costituito da una soluzione acquosa di
“potassio ferriossalato”, K3 Fe(C2 O4 )3 , acida per aggiunta di H2 SO4 . La reazione `e,
formalmente:
hν
+
Fe(C2 O4 )3−
−→ Fe2+ + CO2 + 5/2 H2 C2 O4
3 + 5H
(3.1)
La resa quantica `e circa 1.2 per 250 < λ < 360 nm, e di poco inferiore fino a
λ = 580 nm. La concentrazione di Fe2+ prodotto si misura accuratamente per
via spettrofotometrica, complessandolo con o-fenantrolina. Da questo dato si risale
al numero di fotoni assorbiti, e, conoscendo il coefficiente di estinzione molare del
ferriossalato, al numero di fotoni incidenti.
3.3
Apparati per fotochimica.
A seconda dello scopo da raggiungere, sono convenienti diverse disposizioni di sorgenti di luce, reattori fotochimici o celle per il campione, filtri e altri dispositivi visti
sopra. Nella pratica industriale e di laboratorio, per assicurare la massima conversione di reagenti in prodotti, si tende solitamente a sfruttare al meglio la luce emessa
dalla sorgente. Per questo scopo si pu`o immergere la lampada nel reattore, in modo
che tutta la luce emessa attraversi la soluzione dei reagenti. Naturalmente in questo
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modo le varie parti della miscela di reazione saranno illuminate con irradianze molto
diverse. La prima ragione `e la diminuzione dell’irradianza con la distanza per una
sorgente che emette in tutte le direzioni, in assenza di assorbimento; idealmente,
con una sorgente puntiforme, l’irradianza `e proporzionale a 1/R 2 ; per una sorgente
lineare, ovvero a simmetria cilindrica, `e proporzionale a 1/R. La seconda ragione `e
P
l’assorbanza della miscela dei reagenti, A = ( K εK (λ) MK ) l, dove l `e lo spessore
attraversato dalla luce. Se A 1, l’illuminazione `e pi`
u uniforme, ma molta luce
esce dal reattore; si pu`o rimediare con pareti a specchio; se A ≈ 1, si avr`a una forte
differenza tra le zone pi`
u vicine alla lampada e quelle lontane. Questa disomogeneit`a
porta a differenze di concentrazione nei reagenti e nei prodotti quando la reazione
avanza, per cui diventa importante un buon mescolamento.
La misura di rese quantiche di reazione richiede un arrangiamento molto diverso.
Occorre determinare il numero di moli di reagente trasformate, e quello di fotoni assorbiti. Si desidera una illuminazione uniforme del campione, in primo luogo perch´e
questo semplifica la misura dell’assorbimento totale di luce; inoltre pu`o verificarsi
che la resa quantica o la velocit`a di reazione dipendano direttamente dall’irradianza,
o da condizioni (come le concentrazioni di reagenti e prodotti) che varierebbero da
punto a punto all’interno della cella. Perci`o, mediante un’ottica opportuna, i raggi luminosi vengono resi paralleli, e vengono diretti sulla cella, che `e termostatata.
Un rivelatore (fotocellula o altro), posto al di l`a delle cella, misura la radiazione
trasmessa. Per differenza, usando una cella riempita solo col solvente, si ottiene la
potenza assorbita. A volte si limita la conversione dei reagenti in prodotti ad una
piccola percentuale, per non alterare le condizioni di reazione durante l’esperimento.
Un metodo alternativo per conoscere con precisione la radiazione assorbita consiste
nel porre un actinometro nelle stesse condizioni del sistema reagente, e per lo stesso
tempo. Il rapporto tra i numeri di fotoni assorbiti dai due sistemi `e allora uguale al
rapporto delle rispettive assorbanze (preferibilmente non molto diverse). L’esperimento si realizza al meglio mettendo le celle con l’actinometro e quelle con i reagenti
(che possono essere pi`
u d’una) in un apparato ruotante (“merry-go-round”), che le
espone per lo stesso tempo e nelle stesse condizioni alla sorgente di luce.
Se si vogliono studiare specie transienti, come eventuali prodotti o intermedi di
reazione instabili, o gli stessi stati eccitati, si possono utilizzare la spettroscopia di
assorbimento o quella di emissione. In ogni caso, `e importante avere la massima concentrazione possibile del transiente, e occorre un apparato capace di fare la misura
in un tempo molto breve. Inoltre, `e interessante poter seguire la variazione nel tempo della concentrazione dei transienti. A questo scopo, occorre eccitare il campione
con un lampo di luce il pi`
u breve possibile, e poi monitorare spettroscopicamente i
cambiamenti che seguono. Un tale esperimento viene detto “flash photolysis” (col
termine fotolisi si indica genericamente l’atto di provocare una qualsiasi reazione
fotochimica) e rientra nella categoria pi`
u generale “pump-and-probe” (eccitazione e
rivelazione). Un apparecchio per flash photolysis in cui i transienti sono rivelati per
assorbimento `e schematizzato in figura 3.3. La cella ha forma allungata, eventual58
Figura 3.3: Apparato per flash photolysis (Laboratorio di chimica fisica, Hamburg
Universit¨at).
mente con ingresso e uscita alle estremit`a per rinnovare continuamente i reagenti ed
eliminare i prodotti. La lampada o le lampade sono altrettanto lunghe e parallele
alla cella; a volte l’involucro dello strumento `e di sezione ellittica e riflettente, con la
lampada e la cella nei due fuochi; in questo modo tutta la luce emessa dalla lampada,
dopo aver colpito la parete, `e riflessa verso la cella. La lampada di probe invece manda un raggio in direzione assiale lungo la cella, per avere la massima assorbanza. In
questo schema `e una lampada alogena, che emette uno spettro continuo e costante nel
tempo. Dopo aver attraversato la cella, il raggio `e scomposto da un monocromatore
e la frazione corrispondente ad un piccolo intervallo di lunghezze d’onda desiderate
`e inviata ad un fotomoltiplicatore. Il segnale generato va ad un oscilloscopio per
essere monitorato in funzione del tempo; il tempo zero `e dato dall’arrivo della luce
diffusa a 90◦ delle lampade di pump. In questo strumento si ottiene una completa
“spazzata” nel tempo, ma limitata ad una sola lunghezza d’onda. Per avere tutto
lo spettro ad un tempo dato, si pu`o utilizzare un dispositivo CCD come sensore per
l’assorbimento di luce; in passato allo stesso scopo si usavano lastre fotografiche.
Il CCD (“charge-coupled device”) `e un array di microcondensatori a stato solido,
collegati tramite un circuito integrato, i quali si caricano in proporzione al numero
di fotoni incidenti; la risposta dipende anche dalla lunghezza d’onda, ma di questo
si tiene conto in sede di elaborazione del segnale; la luce dispersa dal monocromatore cade sul CCD, in modo che ogni microcondensatore (“pixel”) riceve un piccolo
intervallo di lunghezze d’onda. Il CCD pu`o essere attivato elettronicamente per un
tempo breve (≈100 ps), in modo da registrare lo spettro con un ritardo prefissato
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rispetto al lampo eccitante. Per ottenere risoluzioni temporali pi`
u spinte, occorre
che anche la lampada o il laser di probe emetta lampi molto brevi; il ritardo rispetto
al lampo di eccitazione pu`o essere regolato elettronicamente o allungando il percorso
della luce (“optical delay”, 3 m ↔ 10 ns) con un gioco di specchi. In tutti i casi, il
rapporto segnale/rumore `e migliorato ripetendo la sequenza eccitazione-rivelazione
molte volte.
3.4
Fluorimetria.
Per la misura della fluorescenza o della fosforescenza si usano fluorimetri, come quello schematizzato in figura 3.4. La sorgente pu`o essere una lampada oppure un laser;
se si desidera variare in maniera continua la lunghezza d’onda di eccitazione λ E ,
occorre un laser accordabile (vedi sezione 8.2), oppure l’accoppiamento di una lampada con emissione almeno in parte continua, con un monocromatore M 1 . Nello
strumento illustrato in figura, il raggio di luce monocromatico `e suddiviso in due
parti da una lamina semiriflettente (“beam splitter”). Una piccola percentuale della
luce `e inviata ad una cella di riferimento, la cui fluorescenza `e raccolta da un fotomoltiplicatore P M1 ; ci`o permette di ottenere un segnale proporzionale al flusso
di fotoni del raggio eccitante, con l’accorgimento di porre nella cella di riferimento
un “quantum counter”, cio`e una soluzione con alta assorbanza di un colorante fluorescente che obbedisca alla regola di Kasha; in queste condizioni, tutta la luce del
raggio di riferimento viene assorbita, e viene emessa fluorescenza in proporzione al
flusso di fotoni di eccitazione, indipendentemente da λ E ; d’altra parte lo spettro di
emissione `e esso pure indipendente da λ E , cos`ı la risposta del fotomoltiplicatore non
ne `e influenzata.
Il raggio che prosegue verso la cella del campione pu`o attraversare un polarizzatore. La cella `e racchiusa in un alloggiamento con pareti nere e di forma adatta
a evitare che luce diffusa o riflessa, proveniente dalla lampada, venga inviata all’apparato rivelatore insieme alla luce di fluorescenza. Sempre per questo scopo, si
misura la fluorescenza che viene emessa ad angolo retto rispetto alla luce eccitante.
Anche il raggio emesso per luminescenza pu`o attraversare un polarizzatore, poi trova un monocromatore M2 che seleziona la lunghezza d’onda della luminescenza λ L ,
ed infine la sua intensit`a `e misurata da un fotomoltiplicatore P M 2 . Va notato che
il monocromatore M2 , se non `e regolato sulla stessa lunghezza d’onda di M 1 , impedisce alla luce eccitante di arrivare al fotomoltiplicatore P M 2 . Nel caso si elimini
il monocromatore, `e bene interporre un filtro tra la cella e P M 2 , capace di bloccare
la luce eccitante.
L’apparecchio permette di misurare spettri di fluorescenza o fosforescenza e spettri
di eccitazione, tenendo conto di vari fattori di distorsione, quali la dipendenza da λ
dell’emissione della lampada e dell’efficienza di monocromatori e fotomoltiplicatori.
Uno spettro di emissione si misura tenendo fissa la λ di eccitazione, di solito scelta
60
Figura 3.4: Schema di fluorimetro (da J. R. Lakowicz, Principles of fluorescence
spectroscopy).
M2
P M2
P M1
M1
in maniera da massimizzare la luce assorbita; a questo scopo si considerano gli
spettri di assorbimento del campione e di emissione della lampada. Azionando il
monocromatore M2 si spazza l’intervallo di λL desiderato. Il segnale ottenuto SL (λL )
`e proporzionale all’intensit`a emessa I L ma anche al fattore di risposta R2 del sistema
monocromatore e fotomoltiplicatore M 2 /P M2 :
SL (λL ) = R2 (λL ) IL (λL )
(3.2)
Un modo per conoscere il fattore R2 `e di misurare il flusso di fotoni IE (λE ) ottenuto
dal sistema lampada + monocromatore M 1 , mettendo un quantum counter nella
cella del campione; variando la lunghezza d’onda selezionata da M 1 ed escludendo
o tenendo fisso M2 , si ha un segnale proporzionale a IE (λE ). Questa misura preliminare non `e necessaria negli strumenti dotati di quantum counter di riferimento,
come nello schema 3.4. Si procede poi ad una seconda misura, con una sospensione
di MgO nella cella, che diffonde la luce in arrivo dalla lampada, indipendentemente
61
dalla lunghezza d’onda. Questa volta si azionano entrambi i monocromatori all’unisono (λL = λE ), cos`ı il segnale `e proporzionale a R 2 (λE ) IE (λE ). Dal rapporto fra
i due segnali si ricava R2 (λ), che permette di correggere gli spettri di luminescenza
registrati, secondo eq. (3.2).
Figura 3.5: Spettro di eccitazione di fluorescenza della fluoresceina (da J. R.
Lakowicz, Principles of fluorescence spectroscopy).
Lo spettro di eccitazione di fluorescenza esprime la dipendenza del flusso di fotoni
emesso dalla lunghezza d’onda della luce eccitante, λ E . Un concetto analogo vale per
l’efficienza di altri processi (reazioni, trasferimenti di carica o di energia, etc). Per
registrare uno spettro di eccitazione, si mantiene fisso o si esclude il monocromatore
M2 ; variando λE , si registra un segnale che `e proporzionale a I E (λE ) ε(λE ) ΦL (λE );
qui ε(λ) `e il coefficiente di estinzione molare della specie luminescente, e Φ L (λE ) `e la
resa quantica di luminescenza. Se la regola di Kasha `e rispettata, Φ L `e indipendente
dalla lunghezza d’onda eccitante; quindi, dividendo il segnale per I E (λE ), si ottiene
uno spettro molto simile a quello di assorbimento. Lo spettro di eccitazione pu`o
essere molto utile nel caso in cui una specie fluorescente si trovi in una miscela
con altri cromofori che assorbono in maniera preponderante. Noti gli spettri di
assorbinmento dei componenti, lo spettro di eccitazione permette di identificare
la specie fluorescente. Se invece lo spettro di assorbimento non `e noto, quello di
eccitazione ne costituisce solitamente un’ottima approssimazione.
62
3.5
Misura di tempi di vita di stati eccitati.
Per la misura diretta dei tempi di vita sono disponibili due tipi di metodi: quelli
basati su lampi di luce molto brevi e quelli basati su una variazione periodica dell’intensit`a della luce eccitante. In entrambi i casi si misura l’intensit`a di fluorescenza
o fosforescenza in funzione del tempo, che `e proporzionale alla concentrazione di
molecole nello stato eccitato. L’emissione di radiazione `e spesso il miglior mezzo
per rivelare la presenza di stati eccitati, ma non bisogna dimenticare che la popolazione dello stato eccitato dipende da tutti i processi di decadimento: per esempio, il tempo di decadimento della fluorescenza non `e semplicemente K F−1 , bens`ı
τS = (KIC + KISC + KF )−1 .
Figura 3.6: Decadimento esponenziale dopo un lampo di luce eccitante.
radiazione eccitante
intensit`a
emissione, τ = 20 ns
emissione, τ = 60 ns
0
50
100
tempo (ns)
150
200
Nei metodi “impulsati”, cio`e basati su impulsi di radiazione, idealmente occorrerebbe
un lampo di durata molto breve rispetto al tempo di vita dello stato eccitato, τ , in
modo da poter osservare il decadimento per un tempo significativamente lungo, senza
interferenza da parte dei processi di eccitazione ed emissione stimolata. Le lampade
a flash possono fornire lampi con una durata di qualche nanosecondo, al meglio, e di
solito hanno una lunga “coda” dell’ordine di 100 ns. Dato che il tempo di vita di un
singoletto `e raramente molto pi`
u lungo di 10 ns, non siamo nelle condizioni ideali per
` allora opportuno applicare una procedura di del’osservazione del decadimento. E
convoluzione, per separare i due fattori che contribuiscono alla variazione del segnale
nel tempo: variazione dell’intensit`a della luce eccitante, I(t), e decadimento dello
stato eccitato, R(t). A questo scopo `e necessario misurare separatamente la forma
dell’impulso, I(t), e occorre che questa sia ben riproducibile, anche perch´e l’acquisizione dei dati si compie generalmente su una lunga serie di impulsi. La forma
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dell’impulso si pu`o determinare ponendo un diffusore (per esempio, una sospensione
di MgO) nella cella; il segnale `e semplicemente proporzionale al flusso di fotoni di
eccitazione, in funzione del tempo, perch´e la diffusione `e un processo istantaneo.
Per avere impulsi pi`
u brevi di qualche nanosecondo, occorre fare ricorso ai laser,
che permettono di scendere fino a pochi femtosecondi (1 fs = 10 −15 s). Una limitazione dei laser `e che pochi di essi sono accordabili in frequenze. I laser a coloranti,
accordabili su ampi intervalli, hanno di solito frequenze di ripetizione dell’impulso
piuttosto basse (100-1000 Hz), quindi necessitano di tempi lunghi per l’acquisizione
dei dati, specie col metodo “single photon counting” descritto nel seguito.
Il metodo “single photon counting” richiede che l’intensit`a della fluorescenza sia
molto bassa, in modo che il rivelatore sia colpito da un solo fotone, o da nessuno,
per ogni impulso di luce eccitante. Occorre che in media arrivi un fotone ogni 20
impulsi o pi`
u, cos`ı la probabilit`a che ne arrivino due `e molto bassa: (1/20) 2 = 1/400.
Per ottenere questo, basta attenuare la luce eccitante e/o quella emessa, e usare
soluzioni diluite; `e comunque un metodo adatto a composti con piccola resa quantica
di fluorescenza. Si registra il tempo che intercorre tra il flash e l’arrivo del primo
e unico fotone emesso. Dopo un gran numero di impulsi (≈ 10 5 ), l’istogramma
dei tempi fornisce la curva di intensit`a di fluorescenza. La risoluzione nella misura
dei tempi `e circa 0.2 ns. Se arrivano troppo spesso due o pi`
u fotoni invece che
uno, il tempo di vita viene sottostimato, perch´e si prende il primo fotone come
rappresentativo di tutti.
Il metodo “pulse sampling” consiste nel misurare l’intensit`a di fluorescenza ad un
tempo ∆t successivo a quello del lampo di luce. Variando ∆t si ottiene la curva
del decadimento. Per avere una misura di intensit`a centrata in un intorno di ∆t, si
pu`o attivare il fotomoltiplicatore applicando una d.d.p. a un dinodo per un tempo
molto breve (0.2 ÷ 1 ns), oppure se ne pu`o intercettare elettronicamente il segnale
` da notare che attualmente non esistono
per tempi ancora pi`
u brevi (∼ 30 ps). E
rivelatori in grado di fornire una risoluzione temporale migliore di questa: per tempi
ancora pi`
u brevi bisogna fare ricorso a coppie di impulsi laser, uno per l’eccitazione
e l’altro per la rivelazione (esperimenti “pump-and-probe”).
I metodi basati sulla variazione periodica dell’intensit`a della luce eccitante fanno uso
di modulatori, ossia elementi ottici in grado di smorzare la radiazione con efficienza
variabile nel tempo. Ad esempio, i modulatori ultrasonici sono celle con una parete
costituita da un cristallo di quarzo piezoelettrico; la cella `e riempita di una soluzione
acqua-etanolo; il quarzo vien fatto vibrare da una d.d.p. alternata e produce onde
acustiche stazionarie nella soluzione, riflesse dalla parete opposta. Le zone a pressione diversa nel liquido agiscono come un reticolo di diffrazione per un raggio di
luce che attraversa la cella. Il reticolo, che appare e scompare ≈ 10 8 volte al secondo,
attenua la radiazione secondo una funzione armonica del tempo. Se λ `e la lunghezza
d’onda del suono nella soluzione, c la sua velocit`a e ν la frequenza, abbiamo λ = c/ν;
con c ' 1400 m/s, λ ha il giusto ordine di grandezza per la diffrazione di luce visibile
o ultravioletta. La miscela acqua/etanolo `e scelta per minimizzare la variazione di
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Figura 3.7: Misura di tempi di vita mediante modulazione di intensit`a.
radiaz. eccitante
emiss. τ = 20 ns
B
intensit`a
emiss. τ = 60 ns
A
∆t = φ/Ω
0
100
200
300
tempo (ns)
400
500
600
c con la temperatura.
L’intensit`a di assorbimento varia in proporzione a quella della luce eccitante, con
una legge del tipo:
IA (t) = A + B sin(Ωt)
(3.3)
Il rapporto M = B/A `e detto rapporto di modulazione (normalmente dell’ordine
del 50%). A regime, l’intensit`a della fluorescenza emessa varia anch’essa nel tempo,
con la stessa legge e la stessa frequenza ma con un ritardo di fase φ:
IF (t) = KF [S1 ] = a + b sin(Ωt − φ)
(3.4)
il rapporto di modulazione m = b/a e l’angolo φ si possono misurare e dipendono
dalla legge di decadimento dello stato eccitato. Se questo segue una cinetica di
prim’ordine, con un semplice decadimento esponenziale caratterizzato dal tempo di
vita τ , abbiamo:
d[S1 ]
= IA (t) − τ −1 [S1 ] =
dt
a
b
b
= A + B sin(Ωt) −
−
sin(Ωt)cosφ +
cos(Ωt)sinφ
KF τ
KF τ
KF τ
(3.5)
D’altra parte, dall’equazione (3.4) abbiamo:
Ωb
Ωb
Ωb
d[S1 ]
cos(Ωt − φ) =
cos(Ωt)cosφ +
sin(Ωt)sinφ
=
dt
KF
KF
KF
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(3.6)
Eguagliando separatamente i termini in cos(Ωt), quelli in sin(Ωt) e quelli costanti,
delle due espressioni per d[S1 ]/dt, otteniamo:
Ωb
b
sinφ =
cosφ
KF τ
KF
(3.7)
B−
Ωb
b
cosφ =
sinφ
KF τ
KF
(3.8)
A−
a
=0
KF τ
(3.9)
Dalla (3.7) si ricava il cosiddetto “phase lifetime”:
τp = Ω−1 tgφ
(3.10)
che dipende solo dalla misura della fase φ. Dalle altre due equazioni, (3.8) e (3.9),
otteniamo la relazione tra i rapporti di modulazione m e M :
m = M cosφ
(3.11)
M2
= 1 + tg 2 φ
m2
(3.12)
ossia
Ricorrendo ancora all’eq. (3.7) si ottiene il cosiddetto “modulation lifetime”:
τm = Ω−1
M2
−1
m2
!1/2
(3.13)
Naturalmente, se le equazioni (3.3-3.6) sono esatte, τ p e τm coincidono; in particolare, occorre che il decadimento dello stato eccitato obbedisca ad una cinetica del
prim’ordine come ipotizzato in eq. (3.5). Se per esempio sono presenti due o pi`
u
composti fluorescenti, con tempi di decadimento diversi, la risposta del sistema non
`e descritta correttamente dalle equazioni viste sopra e risulta τ p 6= τm . Inoltre, i
veri tempi di vita sono ovviamente indipendenti dalla frequenza di modulazione Ω:
le due formule dovrebbero dare gli stessi τ p e τm in seguito ad esperimenti condotti
con Ω diverse; tuttavia, ci`o non si verifica in presenza di decadimenti multipli. Un
trattamento matematico pi`
u complesso permette di estrarre due o pi`
u tempi di vita
da una sufficiente variet`a di dati sperimentali, come del resto nel caso dei metodi
pulsati.
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