GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFI

GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFi
RASSEGNA STAMPA
Anno 7o- n.9, Settembre 2014
Sommario:
Herbert List - The magical in passing.…………………………………………………………………pag. 2
Siamo tutti macachi………………………..……………………………………………………………………pag. 3
Man Ray a Villa Manin..……………………….…………………….…………………………………………pag. 5
Stanislao Farri: "Sulle tracce della Luce".……………………………………………………………pag. 8
La famiglia allargata di Scianna……………………………………………………………………………pag.10
Guido Guidi veramente: retrospettiva del grande fotografo al MAR Ravenna……pag.11
Mentimi pure, non mi importa..……………………………………………………………………………pag.13
Matteo Cremonesi A++...………………….…………………………………………………………………pag.17
Scattare, stampare, servire con/dita......…………………….………………………………………pag.19
Le ceneri dell'umanità.Intervista a Pierpaolo Mittica, fotografo umanista…..…….pag.21
Fotografia Hopperiana: Campigotto, Crewdon e Tuchman a Photology...…….…..pag.24
Robert Doisneau, il maestro della "fotografia umanista".……………………………………pag.26
Man Ray, profeta dell'avanguardia.Intervista ai curatori G.Comis e A.Giusa.……pag.27
Scratching the surface………….………………………………………………………………………………pag.34
Orga e mecca, sfida nel deserto……..……………………………………………………………………pag.37
La fotografia come fonte di storia……………………………………..…………………………………pag.38
Armonia senza il "senza"………………………………………………………………………………………pag.40
Arco rovescio, tra scrittura e fotografia…………………………….…………………………………pag.41
Basta con l'educazione "artistica"…………………………………..……………………………………pag.43
Cinisello, a rischio chiusura il Museo della fotografia…………….……………………………pag.46
Fabbrica eri, polvere tornerai……….………………………………..……………………………………pag.47
Londra celebra Horst, il fotografo dello stile…….…………………………………………………pag.49
Leica, rinascita digitale della regina della fotografia………..…………………………………pag.50
Noi, negli occhi di pietra……….………………………………………………………………………………pag.53
Quella porta sullo sguardo - viaggio breve nella fotografia artistica italiana….…pag.56
La fotografia appesa a un filo..….…………………………………………………………………………pag.58
Il tempo dei fotografi..………….………………………………………………………………………………pag.60
Vita pendolare di un uomo-raggio..……………………………………………………………………..pag.61
Si può fotografare la serendipità?…………………………………………………………………………pag.63
Henri Cartier-Bresson…….………………………………………………….…………………………………pag.65
La fotografia come racconto...………………………………………………………………………………pag.66
Narciso sconfitto dal selfie………………………………………………….…………………………………pag.68
Berger, l'angelo della fotografia.……………………………………….…………………………………pag.68
Gianni Berengo Gardin, un fotografo di classe………………….…………………………………pag.72
La storia delle mostre (di fotografia) in un libro Contrasto…………………………………pag.73
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Herbert List - The magical in passing
da http://www.artribune.com/
La Fondazione Stelline organizza, in collaborazione con Magnum Photos e Herbert
List Estate, una grande mostra dedicata ad Herbert List, fotografo tedesco la cui
produzione è considerata uno dei capisaldi dell’arte fotografica del XX secolo.
Herbert List, entrato nell’Agenzia Magnum Photos negli anni cinquanta su
sollecitazione dell’amico Robert Capa, ha saputo combinare la passione per gli
studi classici e una sensibilità lirica a un’estetica quasi surrealista, riuscendo ad
afferrare la magia di certi momenti in istanti perfetti. Curata da Peer-Olaf Richter,
con una selezione di oltre 120 fotografie, la mostra restituisce l’intera ricerca
dell’artista tedesco, presentando capolavori di fama internazionale accanto ad
opere meno note, offrendo una panoramica di tutto il suo sfaccettato lavoro, in cui
si è confrontato con quasi ogni genere fotografico: architettura, still-life, street
photography, ritratto, documentazione e catalogazione, sfumandone i confini. La
documentazione di sculture greche o manufatti africani sconfina nella ritrattistica;
nel catturare la bellezza classica del corpo maschile non si comprende se ci si trovi
di fronte ad una composizione scrupolosamente impostata o se si tratta di un
diario fotografico intimo, scattato con naturalezza.
Il risultato dell’esposizione è un viaggio visivo che accompagna il lettore dagli
enigmatici scatti notturni, attraverso composizioni surreali e cupe, alla abbagliante
luce del Mediterraneo che si riflette sui corpi di giovani uomini e sulle rovine
dell’antica Grecia, proseguendo attraverso i ritratti di celebri artisti del ventesimo
secolo – come Berard, Cocteau, Honnegger, Morandi e Picasso – per giungere alla
dichiarazione d’amore di List per l’Italia, cui ha dedicato diversi lavori degli anni
‘50 e ‘60, e alla celebrazione dell’eterna bellezza della vita.
L’avverbio en passant descrive bene anche la vita e l’opera di Herbert List come
artista. In tutta la sua carriera ha sempre voluto essere considerato un fotografo
dilettante. Per lui la fotografia professionale aveva troppe restrizioni. Il fatto che il
suo lavoro dovesse sottostare alle specifiche del committente rappresentava il
massimo della limitazione.
All’età di 70 anni, ripensando alla sua carriera, Herbert List disse dichiarò di aver
provato “non sempre con successo, a ritrarre oggetti il cui significato sotteso si
rivelasse in se stesso”. I tentativi più efficaci furono quelli in cui riuscì ad afferrare
la magia del momento in modo quasi fortuito. La capacità di catturare il momento
en passant, cogliendone il significato più evanescente nel perfetto magico istante,
caratterizza le sue immagini migliori. “Tali immagini irradiano un’aura che né la
logica né l’estetica possono spiegare.”
“Attraverso le foto di List riviviamo attimi di magia. Ospitare le opere di uno dei
più grandi maestri della fotografia del XX secolo è per la Fondazione Stelline un
esercizio di contaminazione culturale ” – dichiara PierCarla Delpiano, Presidente
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della Fondazione Stelline – “le immagini rimangono scolpite nel tempo, la
poliedricità dell’artista ben si coniuga con la filosofia della Fondazione, sempre in
cerca di forme d’arte diverse seppur completari, dove l’unico filone è la capacità di
cogliere l’espressione artistica in ogni oggetto e soggetto. Con questa monografica
vogliamo offrire al pubblico una visione ampia, e per certi aspetti ancora
sconosciuta, di un maestro dell’arte contemporanea”.
La mostra arriva a Milano per la prima volta con un allestimento toalmente
rinnovato dopo il Festival di Fotografia Europea di Reggio Emilia.
BIOGRAFIA: Herbert List (Amburgo, 1903 – Monaco, 1975), nasce in una famiglia di
commercianti, inizia la sua carriera studiando letteratura e storia dell’arte e realizzando
fotografie senza alcuna pretesa artistica. Nel 1930, grazie all’incontro con Andreas Feininger,
fotografo del movimento Bauhaus, scopre la Rolleiflex. Sotto l’influenza degli artisti del
movimento Bauhaus e del Surrealismo, List sviluppa presto un suo personale linguaggio visivo
affine al Realismo Magico. Nel 1936, costretto ad abbandonare la Germania nazista, deve
rapidamente trasformare il suo hobby in professione. Lavorando in seguito a Parigi e a Londra
per “Harper’s Bazar”, rimane insoddisfatto delle sfide della fotografia di moda. List, quindi, si
concentra sul suo progetto Fotografia Metafisica realizzando nature morte simili ai dipinti di
Max Ernst e Giorgio de Chirico. Meno di un anno dopo la Grecia e l’Italia diventano il principale
interesse di List e Atene la sua residenza temporanea, dove spera di sfuggire alla guerra.
Immortalando gli antichi templi, le sculture e i paesaggi crea un diario fotografico della vita del
Mediterraneo, che include le sue famose immagini di giovani uomini. Con gli occhi di un poeta,
List fotografa anche i grandi artisti del suo tempo, da Picasso a Morandi, dalla Magnani alla
Dietrich. Dopo la guerra Herbert List incontra Robert Capa e decide di entrare a far parte
dell’agenzia fotografica Magnum. Qui scopre la fotocamera 35mm e il suo lavoro diventa più
spontaneo e viene influenzato dal suo collega della Magnum, Henri Cartier-Bresson, e dal NeoRealismo Italiano. Ancora oggi le sue immagini si possono trovare nelle maggiori collezioni
fotografiche del mondo.
Milano - dal 11/09/2014 al 09/11/2014 - PALAZZO DELLE
Magenta 61 - +39 0245462111- sito web [email protected]
STELLINE
-Corso
Siamo tutti macachi
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
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Con quella bocca, può dire ciò che vuole (Carosello Chlorodont, anni Sessanta).
Ma quanto mi diverte questa storia del macaco ladro e fotografo, ladro per
amore della fotografia… Chi legge Fotocrazia sa quanto siamo appassionati
dianimali fotografi, in particolare primati…
Una storia che sembra dar ragione a quella battuta di Henri CartierBresson che citiamoanche troppo spesso: “Chiunque può scattare fotografie.
Sull’Herald Tribune ho visto quelle di una scimmia che si destreggiava con una
Polaroid, con la stessa abilità di molti proprietari di quella macchina”.
Ve la riassumo in pillole. In Indonesia, tre anni fa, il fotografo naturalista
britannico David J. Slater si fa incautamente rubacchiare la fotocamera da un
macaco crestato, e riesce a recuperarla non prima che il simpaticone peloso
abbia sia scattato una raffica di foto, tra le quali alcuni selfie non disprezzabili.
Molto divertito, e chi non lo sarebbe, Slater carica le foto (“alcune sono un
po’ sfocate, ma si capisce, questo il macaco non lo ha ancora imparato”),
sistema un po’ quelle migliori, le ritaglia e le raddrizza, poi le pubblica online. E
diventano, ovviamente, virali.
Ma qui comincia il guaio. Wikimedia Commons pubblica l’immagine. Slater
chiede di rimuoverla in nome del (suo) diritto d’autore. Wikipedia rifiuta,
affermando che non è lui l’autore. Ovviamente non si spinge a sostenere che il
titolare del copyright sia il macaco: ma afferma che la fotografia, essendo stata
scattata da un animale non titolare di diritti, è di dominio pubblico.
Ultima puntata, di pochi giorni fa: dopo un costoso processo un tribunale
americano hadato ragione a Wikimedia. Le foto, devono aver soppesato i
giudici, sono frutto dell’iniziativa di un animale, e quindi non hanno un autore
umano che ne possa rivendicare i diritti.
Uno spasso. Spiace per l’ottimo Slater, ma temo che tutto il mondo
facesse il tifo per il macaco. Chi non sarebbe conquistato da un sorriso così…
Eppure Slater ha alcune buone ragioni. E non tanto per quella norma,
accolta da molte giurisprudenze, per la quale il proprietario di una fotografia è
necessariamente il proprietario della fotocamera che l’ha scattata. Io non sono
sicuro che sia così (ricordate la discussione qui in Fotocrazia sulle foto scattate
da Berengo Gardin per fare un favore a turisti ignari di chi fosse?).
Per affermarlo, come fa notare il sempre eccellente André Gunthert, bisogna
considerare la fotografia come un bene materiale e non come un’opera
dell’ingegno. Può valere per le foto-ricordo, per le foto private, personali, ma
un professionista dell’immagine accetterebbe di rinunciare all’autorialità in
cambio della mera proprietà.
No, io credo che Slater possa avanzare qualche pretesa proprio come
autore di quelle foto: ma soltanto in quanto co-autore. Ha provato a
rivendicare in tribunale (inutilmente) la sua piena autorialità: avevo impostato
io i programmi di scatto, ho poi scelto io le poche foto da pubblicare fra le
tante insignificanti, le ho modificate io (riquadrate, raddrizzate), non il macaco.
Ed è vero. Ma questo tipo di rivendicazione è a doppio taglio, almeno per i
fotografi orgogliosi che pensano di essere gli unici autori delle proprie
immagini. Se il solo fatto di selezionare, modificare e correggere una fotografia
qualifica come autore chi lo fa, allora sono co-autori di un servizio fotografico a
pieno diritto anche i tecnici di postproduzione, di camera oscura, i photoeditor,
i grafici impaginatori. Per inciso, è precisamente quello che io penso.
Slater può aspirare ad essere solo uno degli autori di quelle immagini.
Assieme a un autore non-umano, il macaco (privo di diritti legali, ma non per
questo meno decisivo: senza il suo gesto, per quanto inconsapevole, queste
foto non esisterebbero). Ma non solo a lui.
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Non riesco a capire perché nessuno ha detto, in questa vicenda, che
quelle foto le ha prese anche (e direi soprattutto) la fotocamera. Programmata,
come dice Franco Vaccari che non smetterò mai di citare, per strutturare una
fotografia anche in assenza di un autore umano consapevole.
Come infatti in questo caso è puntualmente accaduto. Le fotografie
“vengono” in qualche modo, perché la fotocamera “le sa fare”. Riescono anche
se è un macaco a dare l’ordine di scatto a casaccio. E alcune vengono buone.
Ma questo succede anche quando la fotocamera sta fra le nostre mani, non
solo fra quelle di un macaco. Anche noi, almeno la stragrande maggioranza di
noi, una volta inquadrata distrattamente una scena nello smartphone o nella
macchinetta a programma automatico, preme semplicemente il bottone di
scatto, avviando un programma che “fa venire” le foto comunque: e spesso le
fa venire molto bene.
Rassegnamoci: siamo tutti macachi.
[Le fotografie di questa pagina, nel rispetto del diritto d'autore, vengono
riprodotte per finalità di critica e discussione ai sensi degli artt. 65 comma 2,
70 comma 1 bis e 101 comma 1 Legge 633/1941.]
Tag: André Gunthert, David J. Slater, Franco Vaccari, Gianni Berengo Gardin, Henri
Cartier-Bresson,macaco fotografo, scimmie, selfie, Wikimedia
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Man Ray a Villa Manin
da http://www.villamanin-eventi.it/
MAN RAY A VILLA MANIN
13 settembre 2014 - 11 gennaio 2015
SEDE ESPOSITIVA
Villa Manin (Passariano di Codroipo)
ORARI DI APERTURA:
dal martedì a domenica: 10-19
chiuso lunedì
INGRESSI
€ 10,00 intero
€ 8,00 ridotto
€ 5,00 ridotto gruppi
Servizio di audioguida (italiano, inglese) compreso nel
biglietto di ingresso
Biglietti acquistabili fino a 45 minuti prima della
chiusura del la mostra
UFFICIO STAMPA
ddl+battage, Milano
Tel. +39 02 89052365
[email protected], [email protected]
MAN RAY A VILLA MANIN
Man Ray è autore di alcune delle opere più celebri del XX secolo come Le violon d’Ingres, nudo femminilecon due intagli
di violino all’altezza delle reni e Cadeau, ferro da stiro con la piastra percorsa da una fila di chiodi.
La straordinaria inventiva di un artista allo stesso tempo fotografo, pittore, ideatore di oggetti e autore di film
sperimentali, viene raccontata a Villa Manin attraverso più di trecento opere che permettono di seguire Man Ray nella
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sua lunga e movimentata carriera fra Stati Uniti ed Europa, amori e amicizie. Per Man Ray non esiste infatti distinzione
fra arte e vita, fra interesse estetico e sentimentale, desiderio e invenzione visiva. Pur mettendo in evidenza le diverse
espressioni dello stile dell’artista, talvolta quasi disorientanti nel loro carattere enigmatico, la mostra permette di cogliere
gli elementi di continuità nell’opera di Man Ray, le curiosità e le ossessioni che la punteggiano.
La creatività di Man Ray si esprime anche nei film sperimentali girati negli anni Venti: Retour à la raison, Emak Bakia,
Les Mystères du Chateau du dé, Etoile de mer, oggi unanimemente considerati fra i capolavori della cinematografia
surrealista.
A Villa Manin troverà spazio anche questa ulteriore manifestazione del talento visivo dell’artista.
Ingresso Mostra a Villa Manin
Le Violin d'Ingres, Man Ray, 1924
MAN RAY/EMMANUEL RADNITZKY
“Dipingo quello che non può essere fotografato. Fotografo quello che non voglio dipingere.
Dipingo l’invisibile. / Fotografo il visibile.”
Man Ray è lo pseudonimo di Emmanuel Radnitzky che nasce a Filadelfia nel 1890 da una famiglia di religione ebraica da
poco immigrata dall’Europa orientale.
Dopo l’apprendistato a New York dove si avvicina all’opera delle avanguardie e stringe amicizia con alcuni fra i più
importanti artisti dell’epoca, come Marcel Duchamp con cui condivide la passione per gli scacchi.
Man Ray sbarca nel 1921 a Parigi, accolto da numerosi colleghi artisti. Non è una scelta dettata dalla nostalgia delle
origini, ma dalla convinzione che a New York non sia possibile far attecchire una nuova arte. Man Ray è infatti uno
sperimentatore e un innovatore e i movimenti artistici cui si avvicina, dadaismo e surrealismo in primo luogo,
rappresenteranno lo spunto per invenzioni sempre nuove in campo fotografico, come i rayograph e le solarizzazioni, in
pittura, nella cinematografia e nella creazione di oggetti e assemblaggi.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, dopo un ventennio di intensissima attività artistica, ripara nuovamente negli
Stati Uniti. È però un soggiorno temporaneo. Nel 1951 l’artista, questa volta accompagnato da Juliet, conosciuta in
California e sposata nel 1946, fa ritorno a Parigi dove risiederà fino alla morte, nel 1976.
Frame tratto dal film di Renè Claire, 1929
Cigarettes, rayograph, Man Ray, 1924
LA FORMAZIONE ARTISTICA
Man Ray scopre presto la propria inclinazione per l’arte, tanto da decidere di rinunciare a una borsa di studio
universitaria per dedicarsi alla pittura mentre svolge un’infinità di diversi lavori. A partire dal 1908 frequenta la galleria
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291 di Alfred Stieglitz dove si avvicina all’opera dei più innovativi artisti europei: Cèzanne, Rodin, Van Gogh, ma anche
Brancusi e Picasso. Nel 1913 l’Armory Show, la mostra internazionale d’arte, sconvolge il modo artistico ancora
sonnolento di New York. Man Ray ha modo di ammirarvi le opere di coloro che presto diverranno suoi amici, primi fra
tutti Marcel Duchamp e Francis Picabia. Nel corso di pochi anni Man Ray brucia le tappe sperimentando diverse tecniche
– dalla pittura all’aerografia, dal collage al cliché verre – e diversi stili, approdando in breve dal cubismo al dadaismo. La
fotografia, dapprima opportunità di riproduzione e diffusione della propria opera, diviene in breve per l’artista una nuova
forma d’espressione, e grazie all’impegno di ritrattista, un’occasione per far coincidere passione e professione. La
convinzione che l’arte d’avanguardia non possa affermarsi a New York induce Man Ray ad abbandonare la città nel 1921
per cercare miglior fortuna a Parigi, dove approda preceduto dalla notorietà che l’amico Duchamp ha già avuto modo di
procurargli nei circoli d’avanguardia.
Senza titolo (Autoritratto), Man Ray, 1943
Revolving Doors (Decanter), Man Ray, 1926
VITA D'ARTISTA A MONTPARNASSE
Man Ray giunge a Parigi nel 1921, in un momento in cui la metropoli, finita la guerra, attraversa una fase di straordinaria
vitalità. La città è allora la culla dell’arte, della moda, della musica europee e, per molti aspetti
mondiali. Artisti, musicisti, scrittori, aristocratici e stilisti – e naturalmente modelle – sono gli esponenti della società in
cui Man Ray è proiettato appena sbarcato in Francia. Quasi ogni opera da lui creata si conduce a figure quasi mitiche
della vita d’allora. Cadeau, il ferro da stiro con la piastra irta di chiodi, si lega al ricordo del musicista Eric Satie, che
presiede alla creazione di quell’oggetto aiutando l’artista a procurarsi i materiali necessari alla sua realizzazione. Le
Violon d’Ingres, la celebre donna-violino, ritrae Kiki de Montparnasse, modella d’artisti, cantante e attrice con cui Man
Ray visse una appassionata storia d’amore. La celeberrima serie Erotique voilée ci restituisce la bellezza di Meret
Oppenheim e ci permette di coglierne il fascino disinibito e vagamente inquieto che ritroviamo nelle sue opere d’artista.
Groupe Dada, Man Ray 1922
Meret Oppenheim, Man Ray, 1993
DA NEW YORK A PARIGI
Insoddisfatto dei riscontri ottenuti a New York, nel luglio 1921 Man Ray tenta la fortuna a Parigi, e convince un ricco
collezionista a finanziare il suo viaggio. A Parigi lo accoglie Marcel Duchamp che lo presenta nei circoli d’avanguardia. Il
bagaglio di Man Ray è solo in una borsa da viaggio. Una cassa e un baule contenente alcune opere vengono ritirate
dall’artista qualche giorno dopo l’arrivo. “Andai alla dogana a ritirare le mie opere” racconta Man Ray nella propria
autobiografia. “Aprirono prima la grande cassa, che conteneva una mezza dozzina di tele. «Cubiste» sentenziò l’ispettore
con aria da intenditore, e le fece passare […] Fu la volta del baule, pesante. Due uomini lo sollevarono appoggiandolo su
di una piattaforma, ma non riuscivo a trovarne la chiave [e li invitai a forzare la serratura…]. L’ispettore sollevò un vaso
di cuscinetti a sfera in acciaio, immersi nell’olio; portava un’etichetta: New York, 1920. Quello, spiegai all’interprete, era
un elemento decorativo destinato al mio futuro studio parigino; agli artisti capita talvolta di non avere nulla da mettere
sotto i denti, e quel vaso mi avrebbe dato l'illusione che in casa c'era qualcosa da mangiare.”
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Flying Dutchman, Man Ray, 1920
Marcel Duchamp, Man Ray, 1920
PARIGI - LOS ANGELES E RITORNO
Man Ray realizza, fra gli anni venti e trenta, numerose immagini per il mondo della moda e per le riviste Vogue e
Harper's Bazar. L’eccentricità, ma anche la libertà di quella società fatta di figure geniali e spesso eccessive si ritrova negli
straordinari ritratti scattati da Man Ray a scrittori, come James Joyce e Gertrude Stein, ad aristocratici come la Marchesa
Casati – già annoverata da D’Annunzio fra le proprie amanti – ai colleghi artisti, da Picasso a Braque, da Henri Matisse a
Max Ernst, e naturalmente a donne di cui Man Ray riesce a trasferire sulla carta fotografica un fascino che appare ancora
irresistibile. Nel 1940 si trasferisce a Los Angeles dove risiede fino al 1951, dedicandosi in prevalenza alla pittura, per poi
ritornare a Parigi. Negli ultimi decenni l'artista rivisita temi che gli sono propri, accentuando le allusioni erotiche come
espressione di una nuova carica libertaria. Man Ray realizza molti ritratti della moglie Juliet dimostrando una grande
capacità di immaginare soluzioni formali sempre diverse.
Primat de la matière la pensée, Man Ray, 1929
Juliet in California, Man Ray, 1944
Stanislao Farri: ‘Sulle Tracce Della Luce’
redazionale da http://www.ilmattinodiparma.it/
La mostra è dedicata alle opere di Stanislao Farri, uno degli autori e degli
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interpreti più autentici della fotografia italiana, che compie proprio quest’anno
novant’anni. Parma celebra l’evento al Palazzo del Governatore, con
un’ampia retrospettiva di circa 200 immagini.
Negli ultimi trent’anni il fotografo reggiano ha già avuto modo di essere
presente, sulla scena espositiva di Parma, con alcune mostre dedicate ad
aspetti peculiari del suo lavoro.
Questa esposizione antologica, tuttavia, cerca di delinearne un ritratto
complessivo, di fotografo professionale per trent’anni e di fotografo amatoriale
dai primi anni Quaranta ad oggi, attento ed appassionato indagatore di temi (il
volto di Parma, le architetture e le sculture, i cieli, le nuvole, il retaggio della
memoria) e aspetti della vita quotidiana, e sperimentatore, anche attraverso il
lavoro in camera oscura – tutte le fotografie in mostra sono state stampate da
Farri -, di soluzioni formali innovative.
“Questa mostra – ha esordito l’assessore alla Cultura Laura Maria Ferraris –
è un omaggio ad un grande artista, ma è anche un progetto, nato da una rete
di collaborazioni, che rappresenta un modello di città partecipativa, una città
per tutti, dove ognuno ha i propri diritti e doveri e dove ciascuno può fare la
propria parte”.
Arnaldo Amadasi, C.S.U. Centro Sociale Universitario, organizzatore della
mostra, ha spiegato il lavoro di preparazione della mostra che rappresenta la
realizzazione di un sogno, tanto più perché riuscita in una città che non ha dato
i natali all’autore e Sandro Parmiggiani, curatore della mostra, ha
sottolineato come Farri rappresenti “un esempio di emancipazione culturale e
sociale. Fotografo innovativo che ha però voluto salvaguardare la memoria,
traghettandola a noi attraverso la propria opera”.
Emilia Caronna, delegata al coordinamento di iniziative per studenti disabili e
fasce deboli ha infine spiegato: “lo spirito di questo progetto, nato dalla
sinergia di tanti enti e persone, è quello di far conoscere le opere di Stanislao
Farri attraverso i sentimenti e non solo attraverso gli occhi. E’ la prima volta
che in Italia si organizza una mostra davvero per tutti”.
L’AUTORE – Stanislao Farri nasce a Bibbiano (Reggio Emilia) nel 1924, da
Giuseppe, calzolaio, e Luigia Casamatti, contadina. Lavora alcuni anni col
padre; al 1940 risale l’inizio della sua attività di tipografo -prima alla Tipografia
Notari di Reggio Emilia, e poi, dal 1945 al 1955, alla Cooperativa Operai
Tipografi, di cui è uno dei soci fondatori. Sempre al 1940 si può fare risalire il
suo primo interesse per la fotografia, che crescerà rigoglioso tanto da indurlo,
nel 1955, ad abbandonare la tipografia per dare vita, a Modena, assieme a due
amici, a un’impresa di fotografia professionale e di grafica. Due anni più tardi
allestisce, nella sua casa di Reggio, uno studio e inizia l’attività che lo vedrà,
fino alla fine degli anni Ottanta, lavorare per importanti aziende emiliane e,
sempre più, specializzarsi nella riproduzione di opere d’arte, di interni di edifici
e nella documentazione della civiltà e della cultura della sua terra. Quest’ultima
attività fornisce il materiale illustrativo per numerosi volumi a lui commissionati
e per una quindicina di libri, frutto diretto di ricerche fotografiche personali.
Parallelamente all’attività professionale, Farri si dedica, nel tempo libero, alla
fotografia amatoriale, accentuando, nel tempo, l’interesse per gli aspetti
formali dell’immaginazione e realizzando anche, in camera oscura, elaborazioni
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e sperimentazioni volte a saggiare e a conoscere procedimenti di sviluppo e di
stampa, compreso l’infrarosso. Tutta la vita di Stanislao Farri è un’intensa,
costante ricerca di registrazione e di documentazione della civiltà e della
cultura della nostra terra, indagine che ha fornito il materiale iconografico per
numerosi volumi illustrati con sue fotografie e per una quindicina di libri, esito
di ricerche fotografiche personali, culminata con la partecipazione a Fotografia
Europea 2011, dove ha esposto i suoi analogici bianchi e neri al fianco di nomi
come Franco Fontana, Michael Kenna e Ferdinando Scianna. Nel corso della sua
lunghissima carriera di fotografo, Farri ha ottenuto apprezzamenti e
riconoscimenti assai diffusi, sia in Italia che all’estero, ove l’interesse per il
lavoro del decano dei fotografi reggiani è andato crescendo proprio in questi
ultimi anni, riconoscimento del lavoro di tutta una vita, caratterizzato da una
padronanza assoluta del linguaggio fotografico, da un grande rispetto degli
aspetti formali dell’immagine e dalla progressiva conquista di una straordinaria
maestrìa in camera oscura.
Sulle Tracce Della Luce - mostra fotografica di Stanislao Farri
dal 20 settembre al 19 ottobre 2014- Palazzo del Governatore, Parma
Orario: da martedì a domenica 10:00-13:00 e 14:30-19:30, chiuso il
lunedì - Ingresso libero
La famiglia allargata di Scianna
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
© Ferdinando Scianna/Magnum Photos/Contrasto
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Nel grande album di famiglia di Ferdinando Scianna per lunghi anni non ci sono
state foto di famiglia. Della sua famiglia ristretta, cioè.
Eppure Visti & scritti, suo ultimo libro, è in realtà un album di famiglia, la
sua famiglia allargata, planetaria, affollata dagli incontri di un’intera carriera di
«fotoreporter fondamentalista».
Il «primo italiano in Magnum», storico cenacolo internazionale del
fotoreportage di marca umanista (un titolo che gli è piaciuto e gli ha pesato in
egual misura) è ben cosciente, come tutti i nomadi dell’obiettivo, i narratori del
mondo visto, che «nei nostri archivi ci sono più immagini di bambini che
soffrono la fame in Africa che dei nostri figli mentre fanno il bagnetto».
Ed è quasi con un moto di affettuoso mea culpa che finalmente, a pagina
336, appare Eleonora Scianna, sua figlia, già grande, con gatto.
Ma forse è solo quando si ha un gigantesco archivio di ritratti presi ai
quattro angoli del mondo, di persone le più diverse tra loro, grandi intellettuali
che mettono soggezione e contadini del Perù, donneaffascinanti e artisti
compiaciuti, personaggi senza nome e celebrità mondiali, solo riguardando
questo grande archivio di volti, questa piazza virtuale dove le persone
conosciute nei decenni si affollano, solo allora il grande fotografo che ha
sempre voluto raccontare la grande Storia capisce che «finire in un album di
famiglia, adesso lo so, è l’ambizione più grande per una fotografia».
E allora va ritrovare quei volti e li mette in fila, cominciando dai tre
ragazzini di Bagheria, paese natìo, che, quand’aveva quindici anni e per la
prima volta una Voigtländer in mano, furono le sue prime «vittime
consenzienti», per dirla con il suo maestro Cartier-Bresson, e che, a rivederli
ora, gli danno «quel colpo al cuore che solo sanno darti le fotografie di
famiglia».
Li ringrazia tutti, uno per uno, Scianna, i “parenti” vicini e lontani del suo
album, con poche righe misuratissime di memoria per ogni incontro.
Doppi ritratti istantanei, di penna e di lente, quasi tutti affettuosi, alcuni
meno, pochissimi spietati (non “ci si prende” sempre, coi parenti). Sciascia,
maestro e mentore. Papa Wojtyla irrequieto sul seggio come «un generale che
non vede l’ora di tornare a combattere». Marpessa, la splendida modella che lo
convinse a far foto di moda.
Tutti «immortalati», come vuole un luogo comune «tanto arrogante quanto
angosciato dalla nostra impermanenza».
Del resto, non glielo aveva detto subito, papà Giacinto, al piccolo
Ferdinando, che un fotografo è «uno che ammazza i vivi e resuscita i morti»?
[Una versione di questo articolo è uscita su Il Venerdì il 1 agosto 2014]
Tag: Eleonora Scianna, Ferdinando Scianna, fotogiornalismo, Henri Cartier-Bresson, Karol
Wojtyla,Leonardo Sciascia, Marpessa, ritratto
Scritto in da leggere, fotogiornalismo, ritratto, Venerati maestri | Un Commento »
Guido Guidi. Veramente:
retrospettiva del grande fotografo al MAR di Ravenna
da http://www.ravennanotizie.it/
Dall’11 ottobre 2014 all'11 gennaio 2015 il Museo d'Arte della Città di
Ravenna ospita una grande mostra di Guido Guidi, maestro indiscusso della
fotografia italiana, la cui storia è profondamente legata alla città di Ravenna,
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dove dal 1989 è docente di fotografia presso l’Accademia di Belle Arti. Ravenna
è la terza ed ultima tappa del progetto espositivo che ha già toccato le città di
Parigi e di Amsterdam.
Rimini Nord, Italia, 14 ottobre 1991 (particolare)
La retrospettiva, intitolata Veramente, è stata organizzata grazie alla
collaborazione con due prestigiose istituzioni europee dedicate alla fotografia:
la Fondation Henri Cartier-Bresson di Parigi e il museo Huis Marseille di
Amsterdam ed è accompagnata da due libri pubblicati dall'editore inglese
MACK:Veramente e Preganziol.
La collaborazione del Mar con Fondation Henri Cartier-Bresson e Huis Marseille
e l’organizzazione della mostra a Ravenna è stata resa possibile grazie al
prezioso lavoro di Silvia Loddo, che da anni segue attivamente le ricerche e
l’attività didattica di Guido Guidi. La mostra ripercorre quarant’anni di carriera
di Guido Guidi, i cui maestri sono stati da una parte i pittori italiani del
Rinascimento, da Piero Della Francesca a Domenico Veneziano, Giovanni
Bellini, Antonello Da Messina, dall’altra i fotografi americani del Novecento, da
Walker Evans a Paul Strand, Stephen Shore, Lee Friedlander.
Attraverso le fotografie e i libri si passa dagli esperimenti in bianco e
nero degli anni settanta, alle serie a colori come Preganziol, una bellissima
serie, piena di semplicità e mistero realizzata nel 1983 all'interno di una stanza
vuota di una casa nell’omonimo paese del trevigiano; In between cities, un
itinerario fotografico percorso, alla metà degli anni Novanta, lungo il tracciato
dell'antico asse viario tra la Russia e Santiago de Compostela; sino al recente
lavoro sui paesaggi ordinari della Sardegnacontemporanea, realizzato nel
2011 su commissione dell’Istituto Regionale Etnografico.
Al Mar verrà eccezionalmente esposta anche una selezione di fotografie di
Ravenna, proposte dal fotografo come un omaggio alla città.
Guido Guidi è nato nel 1941 a Cesena, dove vive e lavora. Frequenta il liceo
artistico a Ravenna e dal 1956 è a Venezia dove studia prima Architettura allo
IUAV e successivamente Disegno industriale, seguendo i corsi di Bruno Zevi,
Carlo Scarpa, Luigi Veronesi e Italo Zannier. Dalla fine degli anni sessanta
realizza importanti ricerche personali, indagando il paesaggio e le sue
trasformazioni e sperimentando al contempo il linguaggio fotografico stesso.
Nel 1989 avvia a Rubiera, con Paolo Costantini e William Guerrieri, Linea di
Confine per la Fotografia Contemporanea.
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Le sue fotografie sono state esposte in istituzioni italiane e internazionali - tra
le quali il Fotomuseum di Winterthur, il Guggenheim e il Withney Museum di
New York, il Centre Pompidou di Parigi, La Biennale di Venezia – e sono state
pubblicate in numerosi libri. Tra questi ricordiamo: Varianti (Art&, Udine,
1995); SS9 (IUAV, Venezia / Linea di Confine per la Fotografia
Contemporanea, Rubiera, 2000); In Between Cities (Electa, Milano, 2003);
VOL. I (Electa, Milano, 2006); A new Map of Italy (Loosestrife Editions,
Washington, 2011); Carlo Scarpa's Tomba Brion (Hatje Cantz, Ostfildern,
2011), A Seneghe (Perda Sonadora Imprentas, Seneghe, 2012). Dal 1989 è
docente di Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Ravenna, dal 2001 insegna
presso lo IUAV di Venezia e dal 2007 all’ISIA di Urbino.
Informazioni
Ingresso intero €3 - ridotto €2 - Orari domenica 12 ottobre: 10.00-18.00 |
martedì, giovedì e venerdì: 9.00-13.30 / 15.00-18.00 mercoledì: 9.00-13.30
sabato fino all’8 novembre: 9.00-18.00 | domenica: 15.00-18.00 - Giorno di
chiusura lunedì
Mentimi pure, non mi importa
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
“Del vero più bella è la menzogna” scrisse un nostro poeta barocco. Tutta
l’arte, del resto, è una dolce sapiente menzogna che prova a dire verità un po’
meno ovvie.
Ma
siamo
disposti a
farci
mentire
anche
dalle
fotografie?
Qualcuno chiede addirittura alle fotografie, a tutte le fotografie, di mentirci?
Statisticamente, devo ammettere di sì. Ogni volta che si discute di una
fotografia che si sa, o si sospetta, essere stata “costruita”, inscenata, recitata,
all’insaputa di chi la guarda (e i casi sono tanti, ahinoi…), qualcuno prova
subito a chiudere la discussione dicendo “non m’importa nulla se la scena che
vedo è stata simulata, conta l’emozione che questa foto mi trasmette”.
Solitamente succede con il Miliziano di Capa: un classico, un evergreen,
sono reduce dall’ennesima discussione su Facebook su questo.
Più appassionante un’altra discussione sempre su Facebook a proposito di
una grande fotografia, regina del finto: il Baiser de l’Hotel de ville di Robert
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Doisneau. La cui storia è nota: faceva parte di un reportage uscito su Life e
dedicato alla dolce consuetudine dei baci per strada a Parigi che tanto
stupivano i puritani americani.
Bene, è ormai noto che quelle foto furono recitate da attori
scritturati da Doisneau, che però lo ammise solo quarant’anni più tardi, di
malavoglia, solo per rintuzzare le pretese di risarcimento avanzate da una
coppietta che sosteneva di essere proprio quella sorpresa nel gesto d’amore
per eccellenza.
Dicevo, la proporzione tra i sostenitori della linea “non mi interessa se è
una finzione, perché mi emoziona”, e quelli che invece, come me, pensano che
una scena recitata, spacciata per presa dal vero e poi smascherata, non dia più
le stesse emozioni che voleva dare, quella proporzione è grosso modo di 8
contro 2.
Pertanto mi arrendo alla vox populi: le fotografie, la maggioranza delle
persone le guarda e le apprezza così, senza chiedersi nulla sulla loro genesi,
sui loro scopi, sulla loro funzione. Devo prenderne atto. Non senza farmi
qualche domanda, però. Rileggo allora le opinioni dei “non mi interessa”. La più
sensata suona più o meno così.
“Anche al cinema ti emozioni per un bacio, eppure sono attori”. Sì, ma
quando vai al cinema lo sai già che quelli sono attori. Salvo qualche
documentario, i film sono sempre delle messinscena. Ti emozioni perché entri
in modalità “sospensione temporanea di incredulità” e ti godi la storia come se
fosse vera, pur sapendo benissimo che è una finzione. Nessuno mente a
nessuno.
Senza questa modalità, neanche il teatro sarebbe mai esistito. Dunque
benissimo. Ma vale anche per la fotografia? Credo di sì, in certi casi, ma solo se
si presenta nelle stesse condizioni. Le fotografie di fiction esistono. In fondo
ogni ritratto in posa lo è. Le fotografie di moda, quelle della pubblicità, sono
finzioni recitate. C’è un intero genere fotografico d’autore che prende il nome
di staged.
Ma devo saperlo, se la foto che guardo è la foto di una recita, se è una
specie di film immobile. Qualcuno deve dirmelo. Oppure deve essere reso
evidente dal contesto che me la presenta, o dalle caratteristiche
del medium dove la incontro (su Vogue non mi aspetto reportage “dal vero”
ma scenografie con modelle).
Ma non è sempre così facile. La natura, la storia della fotografia sollecitano
per defaultun altro atteggiamento nel lettore: una fotografia normalmente
viene letta come lo specchio di qualcosa che è accaduta nel mondo fisico, e che
il fotografo ha semplicemente visto e registrato. Se vedo la foto di un soldato
morente, soprattutto su un giornale di informazione, penso per prima cosa che
sia la foto di un soldato che moriva davvero.
Qualche dubbio tuttavia può ancora venire. Ma nel caso del Baiser il
giornale stesso che mostrava le foto pensò bene di toglierli, i dubbi.
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Nel servizio che uscì su Life il 20 giugno del 1950 (lo potete sfogliare
integralmente via Google Libri) il testo non firmato che accompagnava il
servizio diceva, testualmente: “…Doisneau, che prese le fotografie non in
posa che vedete in queste pagine…”.
Life insomma suggerì al lettore di godere di queste immagini non come
fossero un film o una commedia, ma proprio perché erano “pezzi di realtà” colti
di sorpresa da un intenerito guardone.
Ma per forza. Vi chiedo: se Life invece di scrivere il falso, e cioè più o meno:
“A Parigi, a differenza che a new York, ci si bacia per strada. Il grande
Doisneau ci mostra come, in queste fotografie colte di sorpresa” avesse scritto
il vero, cioè: “A Parigi, a differenza che a new York, ci si bacia per strada.
Abbiamo chiesto al grande Doisneau di mostrarci come, e lui ha chiesto ad
alcuni amici di recitare questa dolce abitudine per voi”, dite, e siate sinceri:
questa foto vi avrebbe commosso allo stesso modo, come poi commosse
milioni di persone?
Life non poteva usare la seconda formula perché era un rotocalco di
informazione. Il più venduto rotocalco della sua epoca. E nei suoi slogan
prometteva di far “vedere il mondo, vedere la vita”. Non di far vedere un film
con attori che recitano il mondo e la vita. Quelle foto dovevano apparire, ed
essere presentate, come “scene rubate”.
E Doisneau, non c’è che dire, è stato abilissimo. La foto del bacio davanti
al municipio, diventata forse la cartolina più lacrimata del mondo, è
disseminata di segni visuali che suggeriscono “vedi? Questa è una fotografia
colta di sorpresa!”. Il punto di vista insolito, dal tavolino del dehors di
un bistrot, le figure mosse, tagliate ai bordi, la presenza ingombrante di una
figura in primo piano sulla sinistra, sfocata, un classico “errore” fotografico,
sono tutti stratagemmi convocati per funzionare come “effetti di verità”.
Non era facile smascherarle, eppure quelle foto erano in posa. Lo
sapeva ovviamente Doisneau, lo sapevano anche gli editor di Life? Be’, non
conta chi sia stato, è un fatto che qualcuno ha comunque mentito ai lettori.
Tuttavia tutto questo “non importa”, ai molti dei miei gentili interlocutori.
Mi è stato risposto, perfino con una certa impazienza, che le mie osservazioni
sulla fabbricazione di quella foto sono “noiosi legalismi”; mi è stato chiesto,
perfino con qualche irritazione, di smettere di rompere il sogno.
Per carità, non voglio rompere i sogni a nessuno. Ma siamo sicuri che le
fotografie siano sogni? Sensazioni libere? Pure emozioni? Davvero fra la foto di
una scena recitata e quella di una scena semplicemente vista non c’è alcuna
differenza?
Ma allora, poveri fotoreporter, perché vanno in giro per il mondo rischiando
a volte la vita, visto che potrebbero inscenare i loro reportage nel giardino di
casa, con un po’ di amici e qualche costume, dove è anche più facile fingere
scene “emozionanti”?
Rifiutarsi di dare importanza alla costruzione dell’immagine e ai suoi
“trucchi”, anche quando qualcuno te li mostra, mi fa pensare che molti di noi
siano rimasti fermi all’infanzia, quando piangevamo per la morte della mamma
di Bambi perché non riuscivamo bene a distinguere il vero dal finto.
“Papà, ma quel signore muore davvero?”, in genere i bambini smettono di
fare queste domande verso i sei anni. Per molti di noi invece è come se tornare
a quello stadio di stupore infantile fosse l’unico modo per riuscire a emozionarci
di fronte a un’immagine.
Badate bene, non sto dicendo che un racconto fotografico “costruito” sia
una disprezzabile menzogna da buttare nella pattumera della storia. Molti
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storici reportage d’autore sono tutt’altro che “spontanei”, eppure sono fatti con
grande sapienza.
Le photo story di cui Eugene Smith fu un maestro, per fare un esempio,
erano una complessa costruzione narrativa in cui il soggetto, anche se non era
un attore, recitava se stesso per la fotocamera. Molti indizi lo facevano capire
al lettore. Era ovvio che Gene Smith aveva passato un certo tempo col dottor
Ceriani o col dottor Schweitzer, e il lettore sapeva che i due dottori erano
consapevoli e d’accordo nell’essere fotografati.
Del resto, dentro le stesse foto di Smith si potevano scoprire segnali non
verbali che indicavano al lettore meno ingenuo che la scena non era “presa di
nascosto”, non era spontanea ma costuita. Impossibile, per dire, fotografare il
dottor Ceriani in primissimo piano mentre si fa un té senza che lui se ne
accorga, e se se ne accorge allora il lettore sa che in qualche modo si è messo
in posa. L’illusione del fotografo osservatore invisibile, se mai qualcuno se l’era
fatta, si rompe.
Qualcuno decifrava la semi-fiction, qualcuno no. Che ne facciamo noi, allora?
Possiamo goderne lo stesso?
Sì, io penso che sia possibile godere di una bugia visuale, ma solo quando
l’abbiamo smascherata. E anche lì, non potremo più godere della verità che
cercava di raccontarci, ma appunto, della sua bugia: ammireremo l’abilità del
fotografo come falsario, come regista, come sceneggiatore.
Ma Doisneau nelle foto di quel servizio ha simulato con grande maestria tutti
i segnali visuali della foto presa di nascosto, mentre non lo era, e quel che è
peggio garantiva esplicitamente di non esserlo. Difficile non considerare questo
un inganno al lettore.
Eppure anche in un caso così manifesto di insincerità, scatta il “non
importa, basta l’emozione”.
Verrebbe da pensare, insomma, che come i bambini molti di noi non
abbiano ben chiara la differenza fra fiction e testimonianza. Ma non è così.
Quella differenza è chiara a tutti. Semplicemente, quando si tratta di una
fotografia, molti di noi che pure non tollererebbero mai l’ambiguità fra fiction e
testimonianza in un telegiornale, o in un libro, abbassano la guardia. Se invece
dii intervistare Renzi il Tg1 intervistasse un attore suo sosia, scoppierebbe un
bel casino. Se un editore giurasse che Tolstoj ha assistito veramente, in quella
stazione, al suicidio di Anna Karenina, scoppierebbero grasse risate.
Ma quando c’è di mezzo una fotografia, quel confine tra fiction e
testimonianza “non interessa più”. Perché? Tento una risposta: perché la
fotografia appartiene, nell’opinione comune e purtroppo anche in quella
competente di molti critici e studiosi, esclusivamente al campo
dell’espressione, della creazione artistica.
La fotografia equivarrebbe in tutti e per tutto a un dipinto. Il fatto che il suo
punto d’origine sia un prelievo visuale dal reale viene relegato a mero dettaglio
tecnico, a scelta di uno strumento come un altro, come preferire i colori a olio
agli acquerelli.
La fotografia sarebbe insomma la pura e semplice traduzione visiva dei
sentimenti, dei pensieri, delle visioni di un creatore. Come un dipinto. Non ci
interessa molto, in effetti, se non come curiosità romanzesca, se la Ragazza
con la chitarra di Vermeer sia esistita davvero, e se sapesse suonare la chitarra
o facesse solo finta. Bene, in fotografia per molti è la stessa cosa.
Ma questo significa che, dopo 175 anni dalla sua esposizione al mondo, la
novità dirompente dell’immagine fotografica non è stata ancora compresa dai
più: parlo dell’assoluta novità antropologica degli ultimi due secoli, per dirla
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con Barthes, ossia di un’immagine che porta con sé, in qualche modo,
l’impronta visiva degli oggetti del mondo, la traccia sporca della realtà.
Il “cordone ombelicale” con il reale è ciò che fa di una fotografia una
fotografia. Se quel cordone, per quanto tenue e contraddittorio, sospetto e
incapace di garantire un senso univoco, non esistesse, non sarebbe una
fotografia. Nessuna obiezione per quanto sensata (la fotografia non è la realtà
ma una sua immagine deformata, la traccia si confonde e si intreccia con le
scelte soggettive del fotografo) può cancellare questa evidenza.
Bene, questa sacrosanta “anomalia” per tanti non conta, non interessa,
non esiste, forse perfino inquieta e disturba.
La fotografia è ancora per tante persone, che pure la usano e la
consumano tutti i giorni, un Ufo, un oggetto sconosciuto che si può accettare
solo normalizzandolo in vecchi schemi, riassorbendolo nel generoso grembo
dell’ideologia dell’arte.
Un’arte, però, che sia solo un’emozione privata, senza storia, senza
contesto, senza società, senza etica. Un’arte disincarnata, di pura emozione,
anzi di pura evasione, un rifugio caldo per non pensare ad altro.
Dire “questa foto è arte”, più che una consacrazione estetica, mi
sembra ormai solo un modo per tirarsi fuori dallo scomodo dovere di chiederci
cosa vuole da noi la fotografia che stiamo guardando.
Una fotografia, anche la più “astratta“, ci chiede sempre di essere lettori
attivi, di prendere posizione sulla realtà. E questo per molti è faticoso,
imbarazzante, mette a disagio. Mentre contemplare un’opera d’arte,
nell’opinione comune, ci chiede solo di restare passivi e esclamare “che
belloooo!” abbandonandoci a una dimensione estatico-estetica.
Va di moda dire che la fotografia è morta. A dispetto della sua veneranda
età temo che, come oggetto culturale, non sia mai davvero nata.
Tag: Life, manipolazioni, Robert Doisneau, staged
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Matteo Cremonesi
A++
da www.jarachgallery.com:/
www.jar achgallery.com/tp://www.jarachllery.c/
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Jarach Gallery (San Marco, 1997, 30124 Venezia) è lieta di presentare fino a
Sabato 8 Novembre 2014la personale "A++" di Matteo Cremonesi (*1986,
Milano) con il ciclo fotografico "SCULPTURES". Il testo critico che
accompagna la mostra è a cura di Simone Frangi.
Una pratica fotografica retta da close-up, attenta a realizzare immagini
sintetiche, impersonali, sobrie, effimere, formalmente equilibrate, educate, che
descrivono e declinano ripetutamente il minuzioso, il dettaglio, la linea della
superficie o “pelle” delle cose.
Attribuendo e affidando a questa disposizione alla formalizzazione la
capacità di raccontare sensibilmente attitudini e senso di un discorso e forse
anche più semplicemente di una “sensibilità”.
Cremonesi propone una riconfigurazione della fotografia di paesaggio che, dalla
presa statica all’oggetto quotidiano, si muove verso una pratica di superficie,
articolata dall’innocenza e dall’ambiguità di quest’ultima, e inquadrata dal gioco
delle patine e dell’impotenza dello sguardo.
"SCULPTURES" è un ciclo di lavori composto da collezioni (BIN, PRINTER,
PHOTOCOPIER, WASHER, CAMERA, MIRROR) di immagini fotografiche di
oggetti quotidiani. Le immagini documentano i soggetti, le forme, i materiali,
soffermandosi per mezzo di ripetuti tagli formali a indagarne le caratteristiche.
La ricerca di una dimensione ideale del soggetto, il tentativo di produrre su
questo uno sguardo non diverso da quello impiegato per registrare soggetti
naturali, divengono un pretesto per riferire una riflessione percettiva atta a
produrre una rappresentazione dell'habitat tecnologico contemporaneo che
prometta una relazione con la percezione stessa di “naturale”.
Matteo Cremonesi è nato nel 1986 a Milano; vive e lavora fra Milano e Trentino Alto
Adige.
Si è diplomato al dipartimento multimediale dell’Accademia di Belle Arti di Brera, e ha
proseguito i suoi studi di specializzazione biennale in fotografia nella medesima
Accademia. Il suo lavoro è stato esposto in varie gallerie in Italia e all’estero, tra
cui: “A specter from the land of if #2”, Still Gallery, Anversa; “Homeostasis is not
enough”, c\o Viafarini, Milano; Italia-Israele. “I sensi del Mediterraneo”, Fondazione
Hangar Bicocca\Milano; “These Peantus Are Bullets” NY; “Unpublished 03”, Le
Dictateur, Milano; “Là Bas” MC2 gallery; “Stile Libero Italiano”, Studio d’Arte
Cannaviello, Milano.
Cose a voce bassa
di Simone Frangi
“La nuit craque de tous les côtés. On la croyait éternelle.
On aurait dû dormir. […]
Tout est déjà passé. Tout est déjà passé de l'autre côté, déversé dans le gouffre où
les jours s'entassent lorsqu'ils ont été vidés[…]
et ma vie qui traîne le long des années et de mon âge sans y entrer jamais”
Marguerite Duras, La vie tranquille
Ciò che invecchia procede nell’indifferenza, tra il regime sonoro dell’evento e il regime
silenzioso della trasformazione. Ciò che cresce emerge in un’impervia condizione di
apparente stasi. Ciò che si consuma appare come insapore, vacillante tra due estremi,
in uno stato di equilibrio vuoto, teso tra la privazione totale e l’esaltazione parossistica.
Il recente lavoro seriale di Matteo Cremonesi s’innesta in questo territorio di
transizioni essenziali e impercepite, cercando di mediare tra l’insensibilità al
cambiamento sottopelle e l’emergenza dei risultati. Registrare il “minimo”, difficile da
tematizzare perché non si mostra mai incostante. Ossificare il fluido. Intenzionalizzare
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qualcosa che è dell’ordine della respirazione, che non annuncia nulla di nuovo, che
mantiene semplicemente in vita ciò che anima, alterandone perennemente lo stato
con l’obiettivo di ristabilirlo sempre uguale.
Non c’è nulla da vedere, molto poco, quasi nulla. O meglio, c’è ciò che vediamo
costantemente senza guardare.
Nell’austerità di queste superfici rade e inespressive giace un principio d’inerzia
intenzionale, una volontà di fare frizione con la velocità abitudinaria dello sguardo. E
una richiesta di estrema precisione.
Il progetto Sculpture cerca di produrre nello scatto fotografico lo spazio per un
intervallo. Uno spazio archivistico, dove far trovare luogo al consueto. Perché solo un
povero oggetto, preso nelle sue spigolosità e nelle sue rotondità banali, nelle sue
insignificanti e innocue fattezze può generare un arresto interdetto della visione. Close
up estremi e mistificazioni della figura richiamano l’attenzione su dettagli ormai
“democratizzati”, processati, liquidati.
La staticità estrema, pietrificante, sintetica richiama uno sguardo nella forma della
persistenza, della durabilità: della contemplazione. Cremonesi opera in un ambiente
fotografico burocratico, segnato della fissità degli oggetti e dei loro meccanismi, cosi
vicini e presenti da rasentare la disparizione.
Oggetti tecnologici inorganici – segnati dall’usura del sogno post-umano e
dall’inclemenza dell’obsolescenza programmata – sono posizionati sotto l’occhio come
residuati biologici. Una ritmica trama di non-spettacolare, immersa in un certo
silenzio, dominio della ripetizione sorda del quotidiano. In quel framework, la fotografia
pretende di misurare un persistente desiderio degli oggetti comuni di “essere qui”.
Guardare insistentemente ciò che già si conosce a memoria: ridare una voce bassa ad
oggetti che erano ridotti a mutismo. Anzi, alle cose. Cosa, nome dell’anonimato e di
un’efficacia impercepita.
Sculpture è un’operazione inversa al soffocamento, incentivata da un tropismo verso
l’astrazione, da un approccio frontale, direttamente scarno e da una poetica dello
stazionamento. Due strategie: incentivare quel processo di imprinting visivo che
l’oggetto di uso comune attiva, surrettiziamente, nella sua tremenda lentezza e
languire nell’attesa di un cambio di stato o del di decorso di un processo.
Un’operazione che predilige la descrizione come temine medio tra il prendere ed il
perdere peso delle cose. In questo ripiego dal crescere, dal consumarsi, dal funzionare
le cose accedono alla plasticità, alla capacità di ricevere o donare una forma. A quel
momento di esposizione sistematica, d’attesa assoluta, d’indeterminatezza.
Non c’è rimedio contro la noia ed il suo stagnare. Un giorno però non ci si annoierà
più e si scoprirà quanto era densa quella pausa dagli eventi.
Scattare, stampare, servire con/dita
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
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Oserei dire che è il genere fotografico più diffuso al mondo. La foto con/dita.
Prima o poi l’abbiamo scattata tutti(anche i grandi, che non lo
ammetteranno mai). Il dito nell’inquadratura. E se non è il dito, è la cinghia
della fotocamera, o un ciuffo di capelli (per le signore fotografe, il maledetto
colpo di vento).
Erik Kessels, eccentrico e per me geniale editore-curatore-gallerista
olandese, ha dedicato un volume della sua imperdibile collana di fotografia
vernacolare “In Almost Every Picture” alla spaventosa “invasione delle dita
giganti”, con esempi da tutte le epoche del fotografico.
Da noi, vengo a sapere che esiste una divertentissima pagina Facebook che
rivendica il diritto e il piacere della foto con/dita: deliberata, irruente estetica
dello scorretto. Bravi.
Sbagliate, rovinose, ridicole, insensate… ammettiamolo: ne abbiamo tutti
in casa. In gran Bretagna un premio le ha tirate fuori dai cassetti (sono
fantastiche, guardatele).
Bene: visto che ne possedete anche voi – ammettetelo, su – non
buttatele, se sono foto di carta. Non cancellatele, se sono foto digitali. Non
buttate via nessuno dei vostri vergognosi insuccessi fotografici. Non è solo una
cosa divertente. Valgono qualcosa.
Ho comprato in svendita un librino, sempre olandese, (in Olanda a
quanto pare adorano le fotografie “digitali” e fallimentari) stampato una
decina d’anni fa da una casa editrice specializzata in grafica, titolo bilingue che
m’incuriosiva, ormai si sa cosa mi incuriosisce: Non facturé. Rejected
Photographs.
Quasi niente testo, solo un’antologia di scarti. Di presunti scarti. Foto
mosse, sfocate, ostruite da oggetti intrusi, sovresposte, sottesposte. Sono gli
aborti delle vacanze, i cascami di un viaggio, le sbavature di una cerimonia.
Sono le foto che un laboratorio amico non ti stampava, o se ti aveva già
stampato automaticamente poi non ti faceva pagare. Non facturé. Sono le foto
che buttavi via appena aperto il pacchettino di stampe ritirato dal
supermercato. Rejected.
Errore. Qualcuno le ha ripescate dal cestino della spazzatura e ne ha
fatto, appunto, un libro. Un’insalata mista che io mi godo moltissimo. Il gusto
fotografico di un’epoca si capisce forse più dal suo rovescio che dal suo dritto.
I limiti della norma “infrangibile” del comune senso della foto si
comprendono meglio quando vengono infranti. Un librino così, per me è un
manuale di sociologia dell’immagine di massa.
E che bravi questi editori olandesi hanno pure raccolto le immagini in un
cd-rom allegato. Puoi anche vederle sul computer.
Magari puoi usarle per… Eh no! Leggi bene l’unica pagina di testo del libro.
C’è il ben noto marchietto con la © nel cerchietto, e c’è scritto: “Tutti i diritti
riservati. Contattare l’editore per l’autorizzazione all’uso delle immagini
contenute in quiesto libro e nel Cd”
Capito? Non è un volume di sociologia della fotografia popolare, non è
un’opera dimashup, di ri-mediazione, non è neppure un divertente
stupidario trash: è un catalogo di immagini utili, messe perfino in vendita.
Non saprei dire sugli aspetti legali della questione: foto scartate e
recuperate sono proprietà intellettuale di chi le ha ripescate dal cestino?
Avvocati, dite. Ma se anche è così, la cosa interessante resta un’altra: a quanto
pare, non esiste foto che non abbia un valore. Che non possa essere venduta.
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Anche la foto sbagliata, deforme, anche la foto-Quasimodo (nel senso del
gobbo di Notre Dame) ha diritto a un momento di gloria, può essere messa in
vendita, acquistata, utilizzata in un qualche progetto grafico, o artistico.
Davvero è così? Penso di sì. L’estetica fotoografica ci ha insegnato una
generosità che sconfina nell’indifferenziato. Nel corso della sua storia, la
fotografia ha prima scartato poi riabilitato tutte le imperfezioni, i difetti, gli
errori.
Sfocati, mossi, storti, abbiate pazienza, lasciate fare al tempo: per ogni
“Don’t” arriva il tempo del “Why not?”. Leggere Fautographie di Chéroux, uno
dei miei libri-bussola, per credere.
La fotografia è davvero il Franti della cultura visuale, e non solo. Distrugge
le categorie del diritto borghese (lo abbiamo visto tante volte), scompagina
quelle dell’estetica classica.
La fotografia è intrattabile, selvaggia, sovversiva. La fotografia mostra il
dito ai superciliosi padroni dei valori. Viva la fotografia con/dita.
Tag: Clément Chéroux, Erik Kessels, errori, fotografia, selfie
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Le ceneri dell’umanità.
Intervista a Pierpaolo Mittica, fotografo umanista
di Terry Peterle da http://www.artribune.com/
Pierpaolo Mittica, fotografo friulano classe 1971, ha inaugurato il 13 settembre
un’antologica nella nuova galleria Harry Bertoia di Pordenone. 150 immagini che
spaziano dal 1997 sino al nuovo progetto, “Living Toxic”. Mittica documenta quanto di
più assurdo e spaventoso l'uomo crea contro se stesso, contro la propria incolumità e
il proprio benessere. Lo abbiamo intervistato.
© Pierpaolo Mittica - Karabash Russia
Qual è stato l’evento che ti ha coinvolto e ti ha portato ad affrontare
temi sociali?
Inizio a fotografare a dodici anni grazie a mio zio, fotografo professionista,
Alfredo Fasan di Sacile. Durante una vacanza in Francia mi mette una Polaroid
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in mano, e lì scopro la fotografia. Poi, negli anni, inizio con la fotografia di
viaggio.
La svolta è avvenuta in Vietnam, durante un viaggio di piacere, assieme a degli
amici. Giravo da solo causalmente per la città di Da Nang. Mi sono ritrovato in
una bidonville costruita su palafitte e ho visto una realtà di cui avevo sempre
sentito parlare, ma che non avevo mai visto.
Qual è stato il tuo primo lavoro fotografico?
Era sui Balcani. Dal momento in cui ho scoperto di voler affrontare la fotografia
sociale, ci ho messo tre anni per capire e chiarire questo mio percorso, finché
nel 1997 ho preso la decisione di partire, direzione Sarajevo. Avevo seguito la
guerra nei Balcani e sono rimasto sconvolto dal fatto che a soli seicento
chilometri da casa mia ci fosse una guerra sanguinosa e atroce, e che i mezzi
di informazioni ne parlassero in modo molto mite.
Nei tuoi reportage c’è molta vicinanza con i “locali”. In che modo ti
approcci a loro e come riesci a conquistare la loro fiducia?
Prima di fotografare il soggetto cerco di costruire un legame, un’empatia.
Perciò ci metto molto tempo prima di fotografare. Arrivo in un luogo e inizio a
parlare con le persone, a farmi conoscere, spiego cosa sto facendo. E poi, inizio
a fotografare.
Per un fotografo sociale è importante dedicare gran parte del proprio tempo a
costruire legami umani con i soggetti del lavoro fotografico che si decide di
affrontare. È una parte del reportage che mi piace molto. Cerco di costruire
questi rapporti facendomi supportare da una guida locale o “fixer”, nel gergo
fotogiornalistico.
© Pierpaolo Mittica - Makomi in cerca di animali abbandonati,
Fukushima,Odaka, zona di esclusione, 2011
I tuoi lavori fotografici sono sia a colori che in bianco e nero. Come
decidi che un certo reportage si esprime meglio in un modo rispetto a
un altro?
Quando arrivo sul campo, osservo cosa può rendere di più nella fotografia che
cerco in quel momento. È una scelta di solito immediata. Mi è capitato poche
volte di non riuscire a scegliere e poi di dover decidere in postproduzione.
Il colore diventa importante quando è fondamentale per la storia che sto
raccontando. Se diventa un elemento di distrazione, preferisco eliminarlo.
Infatti i miei lavori sono soprattutto in bianco e nero. In Karabash (Living
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Toxic) il colore è stata una scelta obbligata per documentare uno dei luoghi più
inquinati della Terra. O ancora, in Indonesia per i minatori dello zolfo, il giallo,
l’arancione e il rosso sono stati elementi cardini del racconto, e quindi la scelta
del colore è stata immediata.
Nel momento in cui si sceglie di usare il colore o il bianco e nero, è necessario
allineare la mente con questa decisione, perché l’approccio è diverso. Nel
bianco e nero è importante la struttura, per cui mi concentro sugli elementi di
cui necessito per costruire una fotografia in bianco e nero.
Quali sono stati i tuoi maestri?
Il mio primo maestro è stato mio zio Alfredo Fasan, che mi ha trasmesso la
passione, mi ha istruito alla camera oscura e mi ha avvicinato ai primi
rudimenti di tecnica. Sicuramente, Giuliano Borghesan, che ho conosciuto qui a
Spilimbergo, che frequento e che continua ad aiutarmi.
I miei grandi maestri sono stati Walter Rosenblum, Naomi Rosenblum e
Charles Henri Favrod. Loro sono stati i miei mentori, quelli che di più mi hanno
aiutato nella fotografia e in questo campo, e con cui ho costruito un rapporto
profondo di amicizia negli anni. A loro devo tutto.
In che modo ti documenti per “rinfrescare l’occhio”?
I fotografi da cui traggo ispirazione sono innanzitutto Sebastião Salgado, poi
Paolo Pellegrin e James Natchway. Per allenarmi dedico almeno un paio d’ore a
settimana a visionare lavori di grandi fotografi che pubblicano in quel
momento, per educare l’occhio alla composizione, all’estetica e ai vari elementi
che servono per fotografare in modo consapevole.
Come riesci ad approcciarti all’editoria per la pubblicazione dei tuoi
lavori, nell’era del cosiddetto citizen journalism?
Oggi è sempre più difficile riuscire nel mestiere di fotogiornalista, proprio per la
sempre più numerosa presenza di fotografi e pseudo-fotografi. Con il digitale
chiunque, per fortuna o sfortuna, può disporre di una macchina fotografica,
assistere e documentare un evento, e poi dare le fotografie ai giornali. È un
circolo vizioso, poiché i giornali – un po’ per la crisi e un po’ perché vogliono
trarre sempre più profitto – tendono a cercare materiale gratuito. Questo ha
fatto crollare moltissimo il livello dell’editoria, perché la qualità delle fotografie
è bassa e di conseguenza abbassa la creazione di cultura fotografica, perché le
persone poi si abituano a vedere il peggio e non il “bello” della fotografia.
Hai fatto un lungo reportage su Chernobyl e sei stato il primo
fotoreporter a entrare nella zona proibita di Fukushima. In che modo
riesci ad affrontare la paura e il pericolo che potresti incontrare nel
fare il tuo lavoro?
I rischi in questo mestiere, come in tutti gli altri, esistono e sono molti. La
spinta per affrontarli li trovo nella passione e nella motivazione. Sicuramente ci
sono stati momenti in cui mi sono trovato in difficoltà, come gli arresti che ho
subito in Bielorussia, mentre lavoravo sul progetto di Chernobyl, e in quei
momenti di sconforto ti chiedi se ne vale la pena. Ma poi la motivazione è
sempre più forte, ed è questo che mi porta a continuare.
Sei un fotografo pluripremiato e con menzioni d’onore soprattutto
all’estero. Quali sono i limiti del fotogiornalismo italiano?
In Italia di fotogiornalisti bravi e capaci ce ne sono molti. I limiti sono
nell’editoria, che non valorizza quelli bravi. Il fotogiornalista non solo deve
realizzare lavori fotografici di qualità, ma anzitutto trasmettere un’informazione
corretta. Spesso, dalle pubblicazioni che si vedono in giro, mi accorgo che
l’informazione in sé è sbagliata. Nel resto del mondo è un po’ diverso. In
Giappone, ad esempio, il mestiere del fotografo è molto valorizzato.
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© Pierpaolo Mittica – Tokai mentre vola tra i rifuti,
discarica di Demra Matoel, Bangladesh
Come può un giovane intraprendere questa carriera seriamente?
Ci vuole anzitutto molta modestia. Bisogna lavorare tantissimo, riconoscere
sempre i propri limiti, non mollare. Le scuole di fotografia vanno bene per
avere una base, ma penso che la cosa più importante sia l’esperienza sul
campo e soprattutto il confronto con altri fotografi. Importante è anche trovare
un maestro. In questo senso mi ritengo fortunato per gli incontri avuti con i
miei mentori.
A che progetti stai lavorando adesso?
La mostra presso la galleria Harry Bertoia di Pordenone racchiude tutti i
progetti che ho fatto dal 1997 a oggi. La mostra finisce con un progetto che è
appena iniziato, Living Toxic, i luoghi più inquinati al mondo. È un lavoro che
ho iniziato a ottobre 2013 e si presenta in quattro parti, incluso il progetto su
Fukushima.
Se non ci prendiamo cura della Terra, non ci prendiamo cura neanche di noi
stessi. L’essere umano è la presenza peggiore che esista nel mondo. I regni
animale e vegetale si regolano da sé e vivono in perfetta armonia. L’essere
umano, invece, no. Distrugge e fa cose contro se stesso, contro gli altri e
contro la natura. Penso che, per il bene della Terra, il genere umano dovrebbe
estinguersi. Per questo è sempre più importante la natura e la sua
salvaguardia. Ed è per questo che ho intrapreso questo progetto fotografico:
per sensibilizzare e creare più consapevolezza.
Pordenone // fino all’11 gennaio 2014: Pierpaolo Mittica - Ashes/Ceneri
a cura di Angelo Bertani - GALLERIA HARRY BERTOIA, Corso Vittorio Emanuele 60
www.artemodernapordenone.it - www.pierpaolomittica.com
Fotografia Hopperiana:
Campigotto, Crewdson e Tuschman a Photology
da http://www.clickblog.it/post/123586/fotografia
I realismi silenziosi e malinconici della solitudine della società, ispirano la
lezione Hopperiana in mostra alla Photology Milano con i contributi fotografici
di Campigotto, Crewdson e Tuschman, insieme a Daniele Galliano.
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Nella Milano accessoriata dalla Settimana della Moda, che guarda all'Espò
2015 come una manna per chiunque, senza ignorare il contributo della
fotografia e di un PHOTOSHOW 2015 votato ad innovazione, creatività e
condivisione, le riflessioni sulla dimensione metropolitana fanno tesoro del
complesso equilibrio pittorico di prospettive e percezioni raggiunto dal
realismo di Edward Hopper (nel video con Hopper alla tela, Tom Waits alla
voce graffiata e graffiante come il sound)
Compiono un viaggio nella solitudine alienata della modernità, arrivando nella
gallery Photology della città lombarda, con la lezione Hopperiana ispirata ai
contributi fotografici diLuca Campigotto, Gregory Crewdson e Richard
Tuschman, affiancati da quello pittorico di Daniele Galliano.
Una singolare incursione negli abissi di desolazione e isolamento della società
fortemente individualistica, scovata dalle pennellate del pittore realista
americano dietro le vetrine di un bar, quanto negli spazi di passaggio dei
distributori di benzina, che a Milano torna tra i vicoli urbani con i racconti
notturni dei Citiescapes di Luca Campigotto.
Si confronta con la sinistra normalità in agguato tra ombra e luce, attraverso
gli elaborati set cinematografici delle inquietudini del quotidiano 'dirette'
da Gregory Crewdson, e quel mondo alla ricerca dell'istante perfetto
trasformato in documentario (Gregory Crewdson: Brief Encounters, USA /
2012, 78') da Ben Shapiro, che potete sbirciare nel trailer in link).
Guarda il paesaggio di esistenze urbane, attraverso donne vestite di
meditazioni solitarie, inondate di luce delle finestre aperte dei diorami costruiti
da Richard Tuschman operando una sorprendente sintesi di fotografia
(Photoshop) disegno grafico, pittura e assemblaggio.
Tre punti di vista decisamente singolari, con molte cose in comune, quante
sembrano averne con il contributo pittorico di Daniele Galliano
“Ho conosciuto l’America anche attraverso i dipinti di Hopper. Tramite la sua
opera Hopper ha saputo trasmettere la condizione della solitudine come
separazione, come desolazione e isolamento in una società fortemente
individualistica.
Ma la solitudine che il suo lavoro magistralmente raffigura, è diventata al
tempo stesso un paradigma estetico e simbolico della condizione primaria del
viaggio delle anime sulla Terra.
Il mio quadro nasce in un Primo Maggio del 2012 da una passeggiata nel
quartiere torinese di Barriera. Lì trovo un crogiolo di popoli, immagini di vita
proletaria, un terreno culturale e sociale fervido. Il quartiere è animato, quasi
tutti sono rimasti a casa. Alzo gli occhi e vedo la periferia di Torino, ma
potrebbe essere quella di una qualsiasi metropoli industriale americana, o di
chissà dove.
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Le immagini di Hopper diventano così archetipo di questa estetica, al punto che
diventa difficile determinare il confine tra lo sguardo dell’artista e
l’interpretazione dei personaggi, attori del quotidiano” - Daniele Galliano
Hopperiana - Campigotto, Crewdson, Tuschman
Photology - Via moscova, 25, 20124 Milano
da mercoledì 1 ottobre, dalle ore 19 alle 21 al 28 novembre 2014
da lunedì a venerdì, dalle ore 11 alle 19
Robert Doisneau, il maestro della ''fotografia umanista''
da http://www.libreriamo.it/
Un nuovo volume, edito da Taschen, racconta la vita e le principali opere di
uno dei maestri della fotografia contemporanea, Robert Doisneau. Conosciuto
soprattutto per i suoi ritratti con Parigi sullo sfondo, dal celebre Bacio
dell'Hotel de Ville alle immagini che ritraggono comitive di bambini, il
fotografo francese è annoverato tra i principali esponenti della così detta
''fotografia umanista''
MILANO – Il nuovo volume dedicato al celebre fotografo Robert Doisneau è
appena uscito in libreria, edito da Taschen e scritto da Jean Claude Gautrand,
uno dei più grandi esperti di fotografia di Francia, che già in passato aveva
raccontato di Doisneau e del suo amore per Parigi.
IL VOLUME - Personaggi carismatici, episodi divertenti e fugaci momenti di
umorismo e di amore. Questo ed altro nelle immagini che compongono il
catalogo monografico “Robert Doisneau”, che anche nel più umile dei contesti,
ha saputo distillare emozioni e momenti di pura empatia. Attraverso più di 400
immagini, provenienti dall’Archivio Fotografico Robert Doisneau, il lettore
intraprende un viaggio nella Parigi degli anni ’50, dalle periferie in cui Doisneau
visse gli anni della giovinezza, fino agli studi d’artista dove il fotografo
immortalò momenti di riflessione e creatività. Il volume comprende sia le
immagini più celebri che numerosi inediti, come la serie di scatti a colori di
Palm Springs che rivelano un nuovo punto di vista su quei luoghi. La
monografia è inoltre arricchita da aforismi e frasi che lo stesso Doisneau
pronunciò a proposito della fotografia.
Tags: Robert Doisneau, Fotografia umanista, Parigi, Taschen, Jean Claude Gautrand
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Man Ray, profeta dell’avanguardia.
Intervista ai curatori Guido Comis ed Antonio Giusa
di Terry Peterle da http://www.themammothreflex.com/
CODROIPO. E’ stata inaugurata a Villa Manin, una grande ed importante
retrospettiva su Man Ray, con la collaborazione della Fondazione Marconi
Milano e grazie al sostegno della Fondazione Crup con oltre 300 opere tra
dipinti, disegni, oggetti, fotografie e film del Novecento. Conosciuto per le
proprie icone come Violon d’Ingres, figura femminile con due intagli di violino
sulla schiena e Cadeu, ferro da stiro con la piastra percorsa da una fila di
chiodi, Man Ray è un artista straordinario, dalle molteplici espressioni e
correnti artistiche, e qui viene raccontato attraverso un ricco e variegato
percorso espositivo che permette di conoscere non solo “Man Ray artista” ma
anche e soprattutto “Man Ray uomo”, tra amicizie e amori.
Per saperne di più su questa mostra abbiamo intervistato Guido Comis
e Antonio Giusa, curatori della mostra.
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Man Ray a Villa Manin. Qual’è stata la scintilla che ha portato alla
scelta di questo artista?
GIUSA. La scelta di Man Ray è avvenuta grazie alla proposta di Guido Comis,
curatore del museo d’Arte di Lugano nella sede di Villa Malpensata, dove la
mostra è stata ospitata nel 2011. Abbiamo deciso assieme di rielaborarla per
proporla al pubblico di Villa Manin. Poiché altre mostre qui sono state dedicate
all’arte del ’900, come quella di Robert Capa, abbiamo deciso di continuare su
questa direzione. Villa Manin non è propriamente un luogo deputato alla
fotografia per cui la mostra è generalista ed è stata pensata in modo
multimediale per comunicare soprattutto le varie espressioni artistiche di Man
Ray. Questi inserti multimediali, sono sia cinematografici che biografici e in
quelli biografici ci sono anche interviste dell’artista che nelle varie stanze si
trovano in modo frequente.
Man Ray a Villa Manin , ph Terry Peterle
La mostra – prosegue Giusa- non è sempre incentrata sulla linea del tempo
della vita artistica dell’artista ma il periodo americano, che introduce la mostra,
è documentato in maniera completa perché forse per il pubblico è il meno
conosciuto. Agli esordi Man Ray desiderava fare il pittore, poi nel 1915 acquista
una macchina fotografica per fotografare le proprie opere e da lì nasce la sua
storia da fotografo, anche se non hai mai dimenticato la sua vena artistica di
pittore. In un documentario da 54 minuti nell’ultima sezione della mostra
dichiara che le persone comuni, amici e soprattutto artisti conosciuti andavano
da lui a farsi un ritratto allo stesso modo come lui ritraeva le sue opere d’arte e
quelle degli artisti più importanti dell’epoca. Per cui in mostra non troviamo
solo la sua storia nella fotografia ma soprattutto la storia della sua vita.
L’intervento curatoriale è stato leggero: il visitatore verrà aiutato dai racconti
multimediali di Man Ray che parla di sé stesso, della creazione di una certa
opera o di un incontro con una certa persona. Ad esempio nella Stanza degli
Scacchi, ci sarà il racconto di Man Ray sull’incontro con Duchamp; nel loro
primo approccio, nessuno dei due per incapacità linguistica – l’uno americano e
l’altro francese – si poterono capire. Il visitatore è da subito indotto a farsi
guidare dallo stesso Man Ray e potrà disporre, a richiesta, inoltre di
un’audioguida che si basa sull’autobiografia dell’artista.
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Man Ray a Villa Manin , ph Terry Peterle
Per dare ritmo alla mostra abbiamo deciso di mettere tra una stanza e l’altra,
delle gigantografie di Man Ray o di alcune foto da lui scattate, come alcuni
autoritratti. Ad esempio nella stanza di Duchamp, abbiamo voluto inserire un
grande fotogramma del film “Entr’acte”, film manifesto del cinema dadaista del
regista René Clair. Continua, poi, in modo preponderante il legame tra
Duchamp e Man Ray anche grazie al contributo del regista tedesco Hans
Richter “Dreams that money can Buy”, con un frammento di Duchamp e con
musiche di John Cage.
La Sala degli scacchi. Man Ray a Villa Manin , ph Terry Peterle
Come copertina della mostra è stata scelta l’immagine «Noire e
blanche» del 1926.
COMIS. Abbiamo scelto «Noire e blanche» del 1926, poiché nella mostra di
Lugano del 2011 è stata usata la foto più celebre in assoluto di Man Ray, e cioè
Le Violon d’Ingres e questa è la seconda più celebre.
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GIUSA. E poi era un’altro modo per far vedere Kiki de Montparnasse, che ha
vissuto sei anni di relazione con Man Ray. E’ sempre lei anche in Violon
d’Ingres ma questa è un’altra prospettiva.
Man Ray a Villa Manin , ph Terry Peterle
Man Ray è stato un’artista poliedrico dadaista e surrealista,
innovatore, sperimentatore, pittore, fotografo, creatore di oggetti e
cinematografo. Quante opere, in quante sezioni è divisa e qual’è il filo
portante della mostra?
GIUSA. La mostra è divisa in diverse sezioni. Al piano inferiore abbiamo la
formazione negli anni americani, echi cubisti, la stanza degli scacchi, poi una
sezione da New York a Parigi, la parte cinematografica, Vita da artista a
Montparnasse, compagne e muse ispiratrici e la sezione moda. Al piano
superiore abbiamo tecniche e sperimentazioni fotografiche, i rayograph, la
riflessione sul corpo, voyeurismo e sadismo e l’ultima stanza è dedicata a
Juliet, moglie di Man Ray che sposò nel 1946. In quest’ultima
sezione,emozionano varie cose. In primis la frase di Man Ray nei confronti di
quando conosce Juliet, che abbiamo riportato “Juliet aveva lineamenti
fauneschi e due occhi a mandorla che le davano un aspetto vagamente
esotico; anche lei frequentava gli ambienti artistici, mi conosceva di nome e
aveva visto i miei quadri. Mi sentivo lusingato.” Lineamenti fauneschi, è una
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affermazione che affascina. Verso la fine della sua vita Ray abbandona la
fotografia ma continua a ritrarre sua moglie Juliet. Tra queste foto quella che
Man Ray considera la più bella è il ritratto fatto nel 1954 in bianco e nero
all’Asac di Venezia. In questa stanza, ancora, c’è l’autoritratto di Man Ray del
1943, in cui lui si ritrae con mezza barba tagliata e mezza no. E poi, dal
racconto multimediale in questa sala, rilasciati da Juliet, sappiamo che Man
Ray di notte sognava spesso e la mattina si annotava in un quadernetto tutti
questi sogni, e questo è particolarmente interessante e affascinante per capire
l’arte di Man Ray.
Man Ray a Villa Manin , ph Terry Peterle
“Non esiste essere avanti rispetto ai tempi: i tempi sono sempre
indietro”. Cosa rappresenta oggi Man Ray, nel 2014?
GIUSA. Per me curare questa mostra è stata una grande possibilità. Nella
conoscenza più approfondita di Man Ray, costruendo ed enfatizzando questa
mostra, ho cercato di pensare alla sua arte, alla sua persona. Io
personalmente ho provato una profonda invidia. Attraverso la sua personalità –
e non l’appartenenza al movimento- Man Ray si affranca, cioè dal suo mestiere
di disegnatore tecnico in una casa editrice di New York diventa un affermato
artista, anche se l’affermazione (per gli artisti) avviene sempre dopo la morte.
Questo 2014 rappresenta per me un obiettivo di vita che mi ha spinto anche
controcorrente. E’ stata una bella esperienza quello di rileggerlo e non solo dal
punto di vista fotografico. La particolarità di questa mostra è l’artista che se ne
frega totalmente della tecnica. Gli artisti surrealisti propendevano per una
pratica dilettantistica e in effetti Man Ray dichiara “Io sono un autodidatta”. In
Man Ray, quindi, non bisogna cercare il maestro della fotografia inteso come
colui che attraverso lo strumento fotografico ha esaurito la propria vena
artistica: era semplicemente una delle arti che praticava.
Nella fotografia vediamo molti ritratti femminili.
COMIS. La vita di Man Ray non si è mai divisa tra arte e vita privata e come
lui stesso afferma nella citazione che il visitatore potrà leggere nella stanza dei
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nudi: “Davanti a me si aprono enormi possibilità, sia in arte che in amore”. Per
Man Ray la donna è una fonte di ispirazione, non c’è un vero confine tra
interesse sentimentale, sessuale o estetico. La donna non è vista solo come
una figura ma come un individuo da cui lui trae la sua arte.
Man Ray a Villa Manin , ph Terry Peterle
GIUSA. Abbiamo dei ritratti forse meno conosciuti ma sui quali abbiamo
puntato molto, come Lee Miller nel 1930 e lo scatto con le sue labbra del 1936.
Man Ray aveva questa abitudine: quando finiva una relazione con una donna
doveva elaborare il lutto e questo lo faceva con la fotografia, in modo vario.
Nella mostra tutto questo è visibile come lo sarà anche nei documentari che
proietteremo, come “Man Ray, profeta dell’avanguardia”.
Man Ray a Villa Manin , ph Terry Peterle
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Dalla vostra esperienza di curatori come definireste la personalità di
Man Ray?
GIUSA. La personalità di Man Ray è allo stesso tempo complessa ma anche
semplice. In fondo faceva quello che gli piaceva fare ed è riuscito a fare
l’artista sulla base della motivazione. Aveva un humor molto yiddish – che
viene sempre fuori nonostante non fosse un profondo professatore della fede
ebraica- e poi probabilmente accettava poche mediazioni. Diciamo che il
visitatore ha la possibilità di entrare in profondità e in relazione con le
sperimentazioni più importanti che fece Man Ray con la fotografia; dall’inizio
degli anni ’20 alle sperimentazioni dei rayograph alle solarizzazioni che ha fatto
entrare anche nel mondo della moda e della fotografia commerciale.
Man Ray a Villa Manin , ph Terry Peterle
Ci sono originali in mostra?
COMIS. In fotografia parlare di “originale” non è sempre corretto. Nella prima
stanza ci sono delle indicazioni precise e troviamo delle stampe di Man Ray nel
periodo in cui sono state stampate, cosiddette “Vintage”. Poi, ci sono delle
stampe di Man Ray fatte in vita e delle stampe che non sono di Man Ray ma
che sono state fatte dopo la sua morte, dal negativo all’originale.
Tra le varie opere esposte siete legati emotivamente a qualcuna in
particolare?
GIUSA. Personalmente sono molto legato alla foto di Meret Oppenheimer del
1933 nella stanza compagne e muse ispiratrici. Lei fu una delle sue muse e
quello che mi ha attratto e convinto di questa fotografia è la sensualità che
trasmette.
COMIS. Più che emotivamente sono molto legato esteticamente alla fotografia
solarizzata “Primat de la matiére sur la pensée” del 1929.
Quali sono gli approfondimenti che avete riservato per l’artista in
mostra? Ci sono degli elementi inediti in mostra?
GIUSA. In mostra ci sono moltissimi approfondimenti oltre che multimediali
anche cinematografici. Nel piano inferiore trasmetteremo in modo continuativo
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alcuni documentari surrealisti di Man Ray girati negli anni Venti come Retour à
la rason, Emak Bakia, Le Mysteres du Chateu du dé, Etoile de Mer,
testimonianze di eccezionale inventiva nell’uso della cinepresa e oggi
considerati fra i capolavori della cinematografia surrealista. Questa sezione è
curata da Carlo Montanaro, uno dei maggiori conoscitori cinematografici di Man
Ray in Italia e le musiche sono state rielaborate da Theo Teardo, friulano e
noto compositore musicale di colonne sonore per film e documentari.
Abbiamo anche riservato una sezione cinema e, come già detto prima, verrà
proiettato il film “Man Ray, profeta dell’avanguardia”. Ulteriori incontri di
approfondimenti saranno previsti di sabato e domenica in sala convegni con
conversazioni, presentazioni e incontri-cinema sull’arte di Man Ray, sulle
correnti artistiche e sulla vita dell’artista. Villa Manin, inoltre, nel corso dei
mesi della mostra, propone tre concerti tributi all’artista e alle atmosfere
dell’epoca, a numero chiuso.
COMIS. Rispetto alla mostra del 2011 a Lugano ci sono alcuni inediti. Ci sono
una serie di foto che ci sono pervenute dall’Asac (Archivio Storico delle Arti
Contemporanee – La Biennale di Venezia), esposte nella Biennale di Venezia
nel 1976 quando ancora Ray era in vita come ad esempio un ritratto di James
Joyce; alcuni nudi inediti nella Stanza dei Nudi e la sezione dei Rayograph,
presente anche a Lugano ma meglio esposta qui, e la pittura di Man Ray,
anche negli anni più maturi che non è molto nota al pubblico, e che a Lugano
abbiamo deciso nel 2011 di non approfondire perché sono opere a cui bisogna
dedicare più tempo, rispetto alla comunicabilità con il pubblico.
Man Ray a Villa Manin , ph Terry Peterle
Tag: Antonio Giusa, arte,avanguardia, cultura, Fondazione Marconi Milano,
fotografia, Guido Comis,interviste fotografi, Man Ray, news, photography
Scratching the surface
da http://undo.net/it
Photographs by Dennis Hopper. In mostra a Roma alla Gagosian Gallery
100 opere tra cui ritratti di artisti, attori e musicisti ormai leggendari.
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La serie 'Drugstore Camera' raccoglie una serie di fotografie scattate in
New Mexico che restituiscono un'immagine degli anni '60 -'70 da cui
emerge un forte idealismo politico.
COMUNICATO STAMPA
Questa è la storia di un uomo/bambino che decise di sviluppare i suoi
cinque sensi e di vivere e fare esperienze piuttosto che limitarsi a
leggere.
—Dennis Hopper
Gagosian Gallery è lieta di annunciare la prima grande mostra
fotografica a Roma di Dennis Hopper.
Hopper, noto come regista ed attore del film “cult” Easy Rider (1969),
ha recitato anche in altri “colossal” quali L’amico americano (1977),
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Apocalypse Now (1979), Velluto Blu (1986), Colpo Vincente (1986),
interpretando coraggiose performance; verso la fine degli anni ‘80 ha
firmato la regia di Colors—Colori di guerra (1988).
Verranno presentati in mostra fotografie degli anni ’60 e scatti dei primi
anni ’70, appartenenti alla serie Drugstore Camera, accompagnati dalla
proiezione di interviste e segmenti di alcuni dei suoi celebri film.
É durante l’ascesa verso la popolarità hollywoodiana che Hopper
comincia attraverso la fotografia a cogliere lo spirito ribelle degli anni
‘60 grazie a scatti ormai iconici che spaziano da Los An geles a Harlem,
a Tijuana in Messico, ai grandi personaggi dell’epoca tra cui Jane Fonda,
Andy Warhol e John Wayne.
Saranno in mostra un centinaio di “vintage prints” firmate degli anni
‘60, tra cui i ritratti di artisti, attori e musicisti ormai leggendari e
ripresi da Hopper con grande immediatezza: Claes Oldenburg appare ad
una festa nuziale circondato da fette di torta impiattate, realizzate in
gesso dall'artista per gli invitati; Andy Warhol, con indosso scuri
occhiali da sole e una cravatta sottile, sorride birichino nascondendosi
dietro a un piccolo fiore, mentre Ed Ruscha è ritratto davanti all’insegna
al neon di un negozio di elettrodomestici; in equilibrio su una scala,
Robert Irwin indica il fotografo tenendo tra i denti una lampadina;
membri della band Grateful Dead mandano baci alla macchina
fotografica.
Le fotografie appartenenti alla serie Drugstore Camera sono state
scattate a Taos, New Mexico, dove Hopper decise di stabilirsi dopo la
produzione di Easy Rider rimanendovi fino agli anni ’80 , e luogo in cui
ha scelto di essere sepolto. Realizzate con semplici macchine
fotografiche e sviluppate nei laboratori estemporanei tipici dei
“drugstore” americani, gli scatti raccontano gli amici e i familiari di
Hopper ambientati tra le rovine e i paesaggi del deserto sconfinato; i
nudi femminili in interni indefiniti; i viaggi “on the road” verso il natio
Kansas; e le nature morte improvvisate con oggetti abbandonati.
Queste fotografie e le tante altre di festival culturali, personaggi
leggendari e momenti intimi e quotidiani che catturarono l'attenzione di
Hopper, restituiscono un’immagine fortemente affascinante degli anni
‘60
e
‘70
ritraendo
l'idealismo
politico
e
l'ottimismo
tipici
della California dell’epoca.
La mostra è presentata nell’ambito del Festival Internazionale di Roma
FOTOGRAFIA, giunto alla sua XIII edizione.
Dennis Hopper (1936 Dodge City, Kansas–2010 Venice, California). Le
sue opere sono parte integrante delle collezioni permanenti del
Metropolitan Museum of Art, New York; del Muse um of Modern Art, New
York; del Los Angeles County Museum of Art; del Museum of
Contemporary Art, Los Angeles; e del Carnegie Museum of Art,
Pittsburgh. Tra le personali più importanti si annoverano: “Dennis
Hopper: Black and White Photographs,” Fort Worth Art Center Museum,
Texas (1970) e Corcoran Gallery of Art, Washington, D.C. (1970);
“Dennis Hopper: A Keen Eye; Artist, Photographer, Filmmaker,”
Stedelijk Museum, Amsterdam (2001); “Dennis Hopper: A System of
Moments,” Museum für angewandte Kunst, Vienna (2001); “Dennis
Hopper: Double Standard,” Museum of Contemporary Art, Los Angeles
(2010); “The Lost Album,” Martin Gropius Bau, Berlin (2012); “Dennis
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Hopper: En el camino,” Museo Picasso, Málaga (2013); “The Lost
Album,” Gagosian New York (2013).
“Dennis Hopper: The Lost Album” è in mostra alla Royal Academy of
Arts di Londra fino al 19 ottobre 2014 .
Ufficio
Stampa Francesca
Martinotti E. [email protected],
T.
+39.348.7460.312
Gagosian Gallery, via Francesco Crispi, 16, Roma. Orario: Orario: mar-sab
10:30-19 e su appuntamento - Ingresso libero
Orga e mecca, sfida nel deserto
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
da _08:08 Operating Rooms, © Pino Musi 2009, g.c.
Cinque minuti prima, era la sporca lotta per la vita. Dieci minuti dopo, sarà di
nuovo un luogo vergine, sterile, immacolato.
In quei dieci minuti di tempo sospeso, Pino Musi ha avuto il tempo per
prendere una sola fotografia con la sua macchina di grande formato e il
cavalletto.
In quei dieci minuti, la fotografia mette alla prova tutta se stessa. Mette
sotto stress il suo rapporto con lo spazio, il tempo, e il senso che ci sta in
mezzo.
“Teatro delle operazioni” è un termine militare. Definisce il campo di
battaglia nel suo senso più vasto: dalla linea del fuoco alle retrovie.
Anche il teatro delle operazioni chirurgiche è uno spazio complesso.
Centripeto, focalizzato sul lettino operatorio; concentrico, circondato da
macchinari, attrezzi, addetti, in ordine di vicinanza e necessità.
Ma il preciso piano di battaglia, la meticolosa disposizione dei reparti ogni
volta vengono sconvolti dalla singolarità dell’evento. L’operazione chirurgica
(curioso, è lo stesso termine che usano i bombardieri delle nuove guerre
asimmetriche) lascia le sue macerie sul campo. I medici se ne vanno, il
paziente è portato via. Gli attori sono scomparsi. Il teatro è vuoto.
Com’è andata? Non sappiamo nulla. Indizi? Disordine, detriti, garze forse
37
insanguinate, ma il bianco/nero che il fotografo ha scelto volutamente ci
confonde. Non è un reportage sulla buona o malasanità in Italia. Non ci si
chiede di indignarci, non si propone di rassicurarci sulla qualità delle cure che
ci attendono oltre la porta di un reparto d’ospedale.
Ci chiede – anzi lo chiede alla fotografia, l’unica che può farlo – di
immaginare, cioè di dare un’immagine, al rapporto irrisolto e inquietante fra il
corpo e la tecnologia, fra “orga” e “mecca” (per dirla con Spielberg).
La sala operatoria sospesa nel suo caos fra un intervento e un altro forse è
l’unica immagine possibile di quell’altro tempo sospeso, il tempo
dell’incoscienza, dell’anestesia, dell’affidamento assoluto del nostro corpo,
passivo come un oggetto, alla scienza e alla tecnica.
Un affidamento che siamo costretti a trovare normale, ma che a nessuno
di noi sembrerà mai naturale. E l’angoscia silenziosa delle sette immagini prese
da Musi immaginano quell’angoscia come meglio non si potrebbe a parole.
Sette immagini per sette giorni passati in un ospedale del Meridione,
attendendo con pazienza, anche per ore, che i chirurghi terminassero il loro
lavoro, per entrare nel “teatro” devastato e coglierlo prima che le inservienti lo
riportassero alla sua linda autorevolezza. Un altro corpo a corpo: quello del
fotografo con il suo soggetto precario ed effimero.
Lo ha fatto dal 21 al 27 marzo del 2009 ed ora, con l’aiuto del designer
Antonello Scotti, ne ha fatto un libro d’autore, _08:08 Operating
Theatre. Lasciando parlare frammenti di pensatori, scrittori, poeti, in cima a
tutti il visionario Antonin Artaud.
Di solito non amo i libri d’autore dove l’autore non fa lo sforzo di spiegare
quel che ha fatto: ma posso fare un’eccezione quando ogni lettore comprende
da solo quel che vede, perché fa parte della nostra cultura, della nostra vita,
delle nostre paure.
Ma anche la fotografia è una relazione fra corpi mediata da una macchina.
L’analogia è sorprendentemente calzante. La fotocamera, come i macchinari da
sala operatoria, è capace di eseguire solo certi programmi, vuole eseguire solo
quelli. L’operatore che la guida deve costringerla a fare anche quel che non
vuole, se serve per evitare che l’uomo soccomba.
Tutti i libri fatti con le con fotografie parlano della fotografia. Ma questo lo
fa in un modo molto speciale.
Tag: Antonello Scotti, Antonin Artaud, mecca, orga, Pino Musi, sala operatoria,
Seven Spielberg
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La Fotografia come fonte di storia
dal comunicato dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti
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E’ uscito a cura di Gian Piero Brunetta e Carlo Alberto Zotti Minici il
volume Atti delle Giornate di studio promosse dall’Istituto Veneto di Scienze,
Lettere ed che raccoglie gli atti del convegno internazionale, La fotografia come
fonte di storia, organizzato dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti
(Venezia, 4-6 ottobre 2012).
Si tratta di una riflessione di tipo storico e metodologico sulla fotografia come
fonte per lo studio della storia, che intende superare il modello dominante, ma
riduttivo, di storia della fotografia ancora incentrato, almeno in Italia,
sull’estetica e sugli autori. Da ciò deriva l’importanza di pensare a una storia
della fotografia che sia anche storia della presenza sociale di questo mezzo
ormai parte dell’orizzonte visivo e del vissuto di tutti: non più una storia della
fotografia, ma una ‘storia delle fotografie’, una storia di storie.
Questo volume vuole essere un tentativo di messa a punto di problemi, di
confronto tra esperienze di storici interessati alla fotografia e di storici della
fotografia, un modo di incrociare le testimonianze di alcuni protagonisti della
storia della fotografia degli ultimi cinquant’anni con quelle di organizzatori di
mostre ed eventi legati alla fotografia, un’occasione per conoscere le ricerche
in corso e prendere atto della vastità del campo e del suo presentarsi tuttora
come una vera e propria nuova frontiera immensa e inesplorata.
L’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti ha dedicato in passato altri incontri
allo studio del ruolo di Venezia e del Veneto nella storia del cinema italiano e
internazionale e una mostra dal titolo L’acqua e la luce, la fotografia a Venezia
all’alba dell’Unità d’Italia.
ELENCO DEI RELATORI: Leonardo Bonollo, Gian Piero Brunetta, Remo
Ceserani, Gabriele D’Autilia, Raffaele De Berti, Angelo Pietro Desole, Sara
Filippin, Giovanni Fiorentino, Giuseppe O. Longo, Danilo Mainardi, Francesca
Mambelli, Alessandra Menegazzi, Rossella Menegazzo, Adolfo Mignemi, Marina
Miraglia, Carlo Montanaro, Serge Noiret, Giorgio Olmoti, Anna Ottani Cavina,
Vittorio Pajusco, Silvia Paoli, Alberto Prandi, Paolo Preto, Arturo Carlo
Quintavalle, Elena Roncaglia, Ilaria Schiaffini, Maria Teresa Sega, Pierre Sorlin,
Camillo Tonini, Roberta Valtorta, Enrica Viganò, Massimo Zaccaria, Carlo
Alberto Zotti Minici.
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ELENCO DEI FOTOGRAFI: Isabella Balena, Letizia Battaglia, Giovanni
Chiaramonte, Nino Migliori, George Tatge.
Il volume, formato 15,7 x 24 - 744 pp., ill. B/N e colore, € 38,00 - Venezia
2014
ISBN 978-88-95996-49-7 è acquistabile online :
http://www.ivsla.it/store/
Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti - 30124 VENEZIA - Campo S. Stefano
2945
tel. 041 24 07 711 fax 041 52 10 598 [email protected] - Ufficio Stampa:
Anna Zemella, 041 5208493 - 335 5426548, [email protected]
Armonia senza il “senza”
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Franco Fontana, da Bellezze disarmoniche, 2012, © Franco Fontana, g.c.
Condottieri su destrieri, alle pareti. Visitatori su sedie a rotelle nella sala. Il
bello canonico dell’arte di fronte alla bellezza mutevole della vita.
In una mostra di fotografie fuori dai suoi schemiabituali Franco Fontana,
maestro del colore, ha affrontato con delicatezza e senza retorica la sfida che i
corpi disabili lanciano ai modelli estetici.
Bellezze disarmoniche porta questa sfida nel posto giusto, un museo
(quello di Palazzo Madama a Torino), che può essere il luogo dove la bellezza si
congela in regola assolute, ma anche dove, mostrando la latitudine dei suoi
confini, si mette in discussione.
Il volume che accompagna la mostra, curato da Liborio Termine e
Michelangelo Dotta, molto più di un catalogo, è uno studio sulla disarmonia del
bello nella storia dell’arte e nel lavoro dei fotografi.
Vi sottopongo, qui sotto, un mio testo che compare nel libro.
————————————————————————
Mi chiedo (sono ignorante, lo so) se qualche illustre storico dell’arte
classica abbia mai formulato, anche solo per paradosso, l’ipotesi che le statue
dell’Antichità, almeno alcune, siano state deliberatamente scolpite senza le
braccia.
Io non me ne stupirei, neanche un po’. Quando osservo, sui loro piedistalli,
le celebrità mutilate di marmo, non riesco quasi mai a figurarmi con
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l’immaginazione le membra mancanti, a ricreare con la fantasia la posa
integrale della figura.
Qualsiasi ipotesi faccia, è peggio di quel che ho sotto gli occhi. E non riesco
a non pensare che sia stato così anche per lo scultore, lo vedo assillato
dall’angoscia per quegli arti che non si sa bene dove mettere, in che modo
piegare, come quando ci rigiriamo insonni nel letto e ci sembra che qualcosa
del nostro copro sia troppo ingombrante.
Magari è solo una deformazione storica del gusto, la stessa che ci fa
immaginare candidi i templi che erano sfolgoranti di tinte come un modellino
fatto col Lego, ma questa cosa che la bellezza del corpo, per gli uomini che ne
fissarono i canoni destinati a resistere ai millenni, potesse contraddire la
dotazione biologica dei medesimi, ecco, questa idea mi piace.
È l’idea prometeica, anti-naturalistica, che l’uomo possa scegliere di
alterare la forma del proprio corpo, o accettarne le alterazioni, senza dipendere
da alcuna norma estetica spacciata per “naturale”, ovvia, evidente. Anche
l’ossimoro generoso che dà il titolo a questa mostra, Bellezze disarmoniche, mi
sembra nascondere un tranello, un concetto di armonia che alla fin fine viene
confermato proprio dalle sue trasgressioni.
In ogni caso: non so cosa abbia convinto Franco Fontana a cercare in un
museo questa disarmonia bella, ma di certo l’ha cercata nel posto giusto. Un
museo che meriti questo nome ha il preciso compito, che gli viene facile se è
onesto, di scardinare i canoni del bello.
O per lo meno di dimostrarne la latitudine così ampia, che i suoi bordi
estremi sono agli antipodi del suo centro. È nei musei infatti che le statue
senza braccia hanno imposto per secoli la loro bellezza non mancante di nulla.
E poi, Fontana cerca con lo strumento giusto. La fotografia, pure, non
conosce canoni. O meglio, li conosce, li subisce un po’ da tutti (il fotografo, il
costruttore della fotocamera, l’editore), ma riesce sempre (se è una fotografia)
a sfuggir loro, almeno un po’.
La sua cultura obbediente di strumento non neutro ma orientato la obbliga
a mettere in forma, a imporre una forma alle cose. La sua natura ribelle di
attrezzo di raccolta la spinge ad accettare, ad accogliere, la forma che hanno le
cose.
La fotografia è una ragazza ingenua, con qualche pregiudizio, ma in fondo
sincera. Imperfetta, come i migliori fra noi.
Tag: Franco Fontana
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Arco rovescio, tra scrittura e fotografia
© Pietro D’Agostino da http://www.puntodisvista.net/
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Sono varie le considerazioni cui sottoporre il lavoro di Giulio Marzaioli dal
titolo Arco rovescio: potrebbe essere interessante trovare una correlazione di
base all’interno del dialogo trasversale tra i testi e le immagini fotografiche
pubblicate nel libro. La necessità di approfondimento proviene dal rumore di
fondo che soggiace nello sfogliare le pagine, dove da una presupposta
intenzione come si legge nella dedica “a L., doveva essere un libro di fiabe”
diviene anche altro.
Pur mantenendo una sorta di altalenante litania iniziale, le dinamiche testuali si
snodano insieme alle immagini fino a divenire, nella forma del sottrarre, una
dimensione incompleta, lacunosa, per poi riapparire con una consistenza legata
agli eventi negli ultimi segmenti fintanto, nell’ultima pagina, a scomparire
definitivamente. Queste menomazioni, carenze, fanno sì che si evidenzi la
struttura portante che le sostiene e in effetti è ragionando su ciò che manca
che se ne palesa una presenza.
Anche le immagini fotografiche concorrono al fondamento dell’impianto, certo
non sotto l’egida della comparazione, dell’accostamento, piuttosto ad un
comune esercizio sui materiali dei linguaggi in essere, scrittura e fotografia.
Mentre, alla fine del libro, come esempi pratici a sostenere una propositività
opposta, un’illustrazione e una nota dell’autore si caratterizzano per le loro
qualità di vademecum informativi: un disegno architettonico descrittivo delle
parti sostanziali di una galleria e un elenco di parole che vanno interpretate nel
senso con cui l’autore ce le descrive.
Se questo processo nella parte testuale iniziale tende a sommare pagina dopo
pagina le azioni all’interno di un racconto e, arrivato a un certo punto, ne
comincia a sottrarre sempre più un senso univoco, al contrario le immagini
fotografiche, inizialmente prive di riferimenti iconografici, procedono sul senso
dell’oggetto in questione, verso la direzione della riconoscibilità.
Non solo: delle note testuali poste al margine inferiore di ogni pagina si
attivano per ulteriori possibili sguardi con cui attraversare la scrittura sopra
stante. Questo fluttuare del senso in una continua ridefinizione dei gesti e delle
azioni, inizialmente attiva una perdita costante di punti di riferimento;
contemporaneamente si attiva dall’energia dell’assenza la struttura portante
(l’arco rovescio) che sostiene, apparentemente invisibile, l’impianto del testo e
delle immagini e cioè il materiale dei linguaggi. Il materiale, i materiali dei
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linguaggi sono i nostri concetti di realtà, in definitiva altro non sono che modelli
di rappresentazione.
Quando poniamo degli interrogativi sulla realtà abbiamo, in una incerta misura,
delle risposte da schemi e modelli rappresentativi e non dalla realtà in sé: la
sfera evolutiva della comprensione e dell’adattamento avviene tramite la
modifica e l’aggiornamento dei nostri modelli di rappresentazione. Possiamo
sicuramente realizzare modelli molto complessi e raffinati ma l’indeterminato è
possibile in qualsiasi momento, non ha nessuna fisionomia data e può
assumere diversi indizi di senso. Gli eventi accadono per il relazionarsi delle
cose tra di loro, noi compresi, e questo avviene con o senza la nostra
cognizione e approvazione.
In sostanza ecco cosa emerge dal lavoro sui linguaggi in Arco Rovescio, con e
sulla scrittura e altrettanto con e sulla fotografia: sono tentativi di modifica e di
aggiornamento dei modelli di rappresentazione su cui poggiano i nostri concetti
di realtà. Questa frase di Laurent Montaron da Nature of the self (2014),
descrive in maniera esauriente affrontando l’argomento in piena assunzione di
consapevolezza: “Il confine del mio linguaggio è il confine del mio mondo”.
CREDITI
Titolo: Arco Rovescio / Autore: Giulio Marzaioli / Editore Tielleci Editrice,
Colorno (PR), 2014 / Collana: Scrittura e ricerca Benway Series (quinto testo) /
Lingue: Italiano, Inglese / Traduzione: Sean Mark / Pagine: 96 / € 10,00
Basta con l’educazione “artistica”
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Michele Smargiassi, Londra 2014, licenza Creative Commons
“Adesso bambini facciamoun bel disegno!”, diceva a un certo punto della
lezione la maestra, e noi tiravamo un bel sospirone di sollievo.
Sollievo perchè, con quell’ordine, la mattinata scolastica svoltava,
deragliava dai binari dello studio imposto, della disciplina, della valutazione,
per imboccare quelli del disimpegno, del libero gioco.
Nulla di male, eh, sia chiaro, nel disimpegno e nel gioco, nulla di
diseducativo, al contrario. Si può giocare utilmente anche con le parole, anche
con le cose “serie” della scuola: da Rodari in poi i maestri intelligenti ce l’hanno
insegnato.
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Ma questa distinzione, nella cultura visuale italiana, ha prodotto danni
enormi.
Sì, lo so, amici insegnanti me lo ripetono ogni volta, il tempo è passato, le
cose a scuola sono cambiate, la materia, alle medie, non si chiama più
“educazione artistica” ma “arte e immagine”, si fanno cose bellissime e
intelligenti…
Sì, ho sfogliato i libri di testo di oggi, ho letto i programmi ministeriali,
sono anche interessanti, condivisibili, parlano di “rapporto immaginecomunicazione nel testo visivo”, di codici, segni e funzioni, linguaggi e contesti,
tutto giusto, tutto ben detto.
Eppure, ho come l’impressione che non sia cambiato molto. Che una
sottile distinzione fra le materie “serie” e quelle “leggere” esista ancora.
Nel primo gruppo, le materie di studio che si fondano sulla parola scritta e
su quel che si definisce pensiero razionale. Nel secondo, tutto ciò che si fonda
sul segno visivo, affidato all’intuizione e all’emozione.
Che cosa me lo fa dire? Le accese discussioni sulle immagini che mi capita
di avere con persone di ogni genere, incontrate di persona o sui social, persone
uscite dalla scuola italiana, anche in anni recenti.
Discussioni su quel che le immagini fanno, sul loro potere, su quel che
vogliono farci fare, pensare, credere. Discussioni che finiscono quasi sempre
con affermazioni come “ma a me piace, non importa spiegare perché”, “è bella
e questo mi basta”, “non c’è nulla da capire, l’arte va semplicemente goduta”,
“le immagini parlano da sole”, eccetera.
Sto parlando di discussioni non su opere d’arte, non sul gusto, ma su
immagini efficienti, mediatizzate, immagini che comunicano qualcosa, che
propagandano qualcosa, che informano su qualcosa, che tentano di formare le
nostre opinioni su qualcosa. Che sono poi la stragrande maggioranza delle
immagini che ci vengono incontro nelle nostre giornate. Di fronte a queste, il
disarmo del senso critico è accettato e generalizzato.
Persone che non si lascerebbero prendere per il naso dalle promesse di un
politico accettano senza farsi domande immagini persuasive altrettanto
politiche, purché siano belle e si possa esclamare “ooooh! Guarda questa!”. È
l’atteggiamento che ho già definito estetico-estatico, e si estende a qualsiasi
immagine.
Non in tutti la scuola riesce a formare il senso critico, non le si possono
dare tutte le colpe, in fondo ognuno è in gran parte responsabile della propria
crescita intellettuale. Ma per quanto riguarda la cultura dell’immagine
(professori, mi ucciderete…) mi pare che la scuola spesso ci rinunci in
partenza.
E questo perché il modo di concepire l’approccio al visuale come un fatto
naturale, istintivo, emotivo, estetico, in realtà è ancora quello imperante nela
nostra cultura. Quando il senso della vista è chiamato al giudizio, entrano in
funzione criteri diversi da quelli che usiamo per giudicare un testo, una
conversazione, un evento, un esperimento scientifico.
Ed è pericolosissimo, perché si vien su pensando che, mentre il pensiero
verbale ha regole, doveri, richiede impegno e disciplina, è permeabile al
dubbio, alla menzogna, alla distorsione, quello visivo sia invece libero e puro
spontaneismo, stato brado della mente, relax, evasione, sempre innocuo
perché naturale e trasparente.
E questo accade perché nulla ha mai seriamente scalfito l’idea
che ogni immagine appartenga al campo dell’arte, e che l’arte non abbia
bisogno che di essere guardata con gli occhi dell’anima. Come dire, non si può
imparare a capire l’immagine: o lo sai fare o non lo saprai mai, sembra una
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cosa genetica, ereditaria, o un dono divino. Chi a scuola non riesce in “arte”,
poverino, non è colpa sua, “non è portato”, volete dagli tre in pagella? Mica si
può bocciare un biondo per non essere moro.
Gli effetti di questo preconcetto purtroppo sono ben visibili: nel paese
dell’arte, nella culla della pittura, l’ignoranza diffusa delle profondità del
linguaggio visuale, spacciato per “linguaggio universale”, è drammatica.
Non è davvero mai stata accettata l’idea che la cultura visuale sia,
come quella letteraria, qualcosa di cui è necessario studiare la storia,
conoscere le regole più o meno artificiali, capire le strutture, come necessario
bagaglio critico del cittadino.
Invece un’idea di sensibilità artistica che può solo “venire da dentro” ha
disarmato gli occhi degli italiani, ha reso la loro cultura visuale un campo
aperto alle scorribande di qualsiasi furbo gestore di messaggi persuasivi,
propagandistici, pubblicitari.
Forse riceverò commenti indignati di bravi professori che invece ci
provano, nonostante tutto, a fare cultura visuale e non educazione artistica. A
loro faccio le mie scuse preventive per questa polemica che non li riguarda, ma
non è neppure è senza bersagli.
Del resto, un passo di un eccellente libro di Riccardo Falcinelli, noto visual
designer, mi fa pensare che sia ancora il caso di insistere sul punto. Critica,
Falcinelli, l’insegnamento delle discipline artistiche nella scuola elementare
proprio perché, a differenza dei compiti di italiano, o di storia o geografia, dove
i bambini
vengono corretti se espongono in maniera non chiara i loro concetti, questo
non accade con i disegni, per i quali ricevono generici complimenti più o meno
entusiastici: i disegni non sono trattati come comunicazione, ma come
espressione del sé. Non c’è quindi nulla da correggere secondo gli insegnanti.
La produzione di immagini a scuola è abitualmente considerata una
pratica che gratifica i “dotati”, quelli “portati per il disegno”, potenziali artisti
secondo il luogo comune per cui artisti si nasce, aziché essere la fase
sperimentale, hands-on, di un percorso di apprendimento del visuale, che
prescinde dalla “bravura”. Cito ancora l’ottimo e didascalico Falcinelli:
Relegando [il disegno] al dominio del talento e del genio, si privano i meno
predisposti di uno strumento utile al ragionamento e alla visualizzazione del
pensiero. Immaginiamo una situazione ribaltata: poiché un bambino non
manifesta subito un talento per la scrittura, l’educatore, non vedendo in lui un
potenziale Goethe, si rifiuta di insegnargli a scrivere.
E questo accade, lo ripeto ancora, per colpa del prepotente paradigma
estetico-estatico che spadroneggia nella nostra cultura ancora segnata
dall’idealismo; e anche per colpa di una concezione imperialista dell’arte,
secondo la quale tutto il visuale rientra senza sbavature nel campo della libera
intuizione individuale, dote naturale, che non si può apprendere.
Bene, questo modello è all’opera potentemente anche nel campo della
fotografia, che pure nacque proprio per ovviare alla mancanza del talento nel
disegno (leggere il racconto di William Henry Fox Talbot sui motivi che lo
spinsero a inventare il suo procedimento fotografico, ossia la frustrazione dei
disegnatori poco talentuosi).
La fotografia, scintilla di Prometeo, aveva promesso agli uomini un
meccanismo che consentisse anche a chi non possedesse specifiche abilità
manuali di produrre oggetti visuali efficienti e soddisfacenti.
Ma presto, e con prepotenza, terrorizzato da quello che Baudelaire riteneva
un sacrilegio, il mondo dell’arte ha reagito a questa popolarizzazione
inchiodando Prometeo a una cornice di museo; mettendo una maiuscola alla
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parola Fotografia e appropriandosene come riserva di caccia della creazione
d’autore.
Difatti ancora oggi, spesso con arroganza, senti stillare istericamente:
“non è fotografia!” di fronte alle fotografie che fanno tutti. Strillassero almeno
“non è arte!”, si potrebbe rispondere con una pernacchia, “e chi se ne frega”.
Ma questa pretesa di monopolio sulla parola fotografia, che è una pratica a
disposizione di tutti, è davvero intollerabile.
A scuola, comunque, la fotografia non esiste. Ogni ragazzino ha in tasca
un aggeggio che fa toto, ogni ragazzino fa migliaia di foto, ogni ragazzino
produce oggetti visuali ormai al ritmo del proprio respiro, ma la scuola, anche
a dispetto di qualche appropriato consiglio ministeriale, fa beatamente finta di
non saperlo, e continua – temo – a considerare l’educazione visuale come la
vecchia “educazione artistica”.
Come se si trattasse di scoprire il Picasso della classe. E non invece di
insegnare ai ragazzi, qualsiasi “propensione artistica” manifestino, come usare
al meglio il linguaggio non verbale con cui conversano ogni giorno, come
scoprire i trucchi e gli inganni della comunicazione visuale di cui sono bersagli
ogni giorno, come diventare cittadini coscienti e attrezzati della comunità delle
immagini che li circonda ogni giorno. Che è poi la condizione di base per
avvicinarsi anche a quel particolare genere di immagini, e di fotografie, che
“fanno arte”.
La mia modesta proposta, dunque: bandire la parola “artistico”
dall’educazione visuale a scuola. Sarebbe un buon inizio.
Tag: Charles Baudelaire, educazione artistica, fotografia, regole, Riccardo
Falcinelli, Scuola, William Henry Fox Talbot
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Cinisello, a rischio chiusura il Museo della fotografia
di Ferdinando Baron da http://milano.corriere.it/
Una struttura unica nel suo genere (oltre due milioni di immagini), è in ginocchio
perché la Provincia di Milano non ha 200 mila euro da mettere in bilancio.
Un museo pubblico unico nel suo genere, con un patrimonio di due milioni di
fotografie dal dopoguerra ad oggi di artisti come Gabriele Basilico, Letizia
Battaglia, Fischli&Weiss, Gianni Berengo Gardin, Luigi Ghirri, Candida Höfer,
Mimmo Jodice, Uliano Lucas, Federico Patellani, Ferdinando Scianna, Thomas
Struth, cui si aggiunge l’archivio analogico dell’agenzia Grazia Neri, che ha
raccontato per immagini la storia italiana degli ultimi 40 anni. A Londra
sarebbe già considerato monumento nazionale. A Parigi si troverebbe citato da
tutte le guide turistiche. A Berlino ci sarebbe la coda per entrare. A Milano
rischia di chiudere perché la Provincia, che insieme al Comune di Cinisello l’ha
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realizzato nel 2004, non ha 200mila euro da mettere nel bilancio 2014, come
sarebbe suo dovere. E’ la storia dal finale triste del museo di fotografia
contemporanea che si trova in villa Ghirlanda, collegato alla città dal tram 31 e
luogo di cultura di grandissimo valore.
A vuoto
L’ultimo incontro tra rappresentanze sindacali dei lavoratori - 12 in tutto i
dipendenti dell’ente, tutti laureati, precari ed esperti - e amministrazione
comunale di Cinisello si è svolto venerdì. Fumata nera, perché mancava la
Provincia: non c’era né Guido Podesta, presidente, né Novo Umberto Maerna,
assessore di quell’ente che è stato chiuso, ma non certo i suoi debiti. La
richiesta è semplice: stanziare i soldi che mancano, previsti dal bilancio e
fondamentali per far funzionare il museo. Altrimenti, come sta accadendo,
niente stipendi e porte chiuse.
Città metropolitana
Il museo di Cinisello è l’unico in Italia esclusivamente dedicato alla fotografia e
di proprietà di enti pubblici. Nel corso degli anni ha accumulato un notevole
patrimonio di negativi e foto sull’Italia ma anche su grandi paesi del mondo,
donato da grandi artisti e fotografi professionisti con lo scopo proprio di
valorizzare la fotografia. Numerose le mostre, le iniziative con le scuole, le
università e punto di riferimento per gli studiosi. Tutto rischia però di finire nel
nulla: la Provincia si è disinteressata della sua creatura, come accaduto per
l’agenzia sviluppo Milano Metropoli e i consorzi bibliotecari. L’ente ha
semplicemente smesso di pagare, lasciando implicitamente tutto alla Città
Metropolitana, che però non sarà operativa prima del 2015. PROTESTE- Il
Comune di Cinisello, l’altro socio, non può pagare al posto della Provincia:
senza un formale atto di rinuncia da parte di Palazzo Isimbardi, sarebbe
un’ingerenza tra enti e porrebbe a rischio di causa per danno erariale. I
lavoratori attendono un cenno e promettono un autunno di proteste per
salvare il museo.
Fabbrica eri, polvere tornerai
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
David Lynch, Untitled (Lodz), 2000. © Collection of the artisti, g.c.
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Alberi stecchiti dall’inverno, vetrate in frantumi, lastricati imbrattati d’olio
ormai secco.
Le fabbriche abbandonate sono corpi morti sulla cui pelle decomposta
fioriscono muffe di ruggine e calcinacci.
Se trovate bizzarre queste fotografie di comignoli, mattoni sbrecciati e
finestre fracassate firmate David Lynch, forse non avete visto il primo, più
sconcertante e kafkiano dei suoi film, Eraserhead, dove ilmood claustrofobico è
appunto quello di una surreale fabbrica.
Le fabbriche, funzionanti o decadenti, sono un leitmotiv sottile nella
filmografia di uno dei più eclettici e irregolari registi contemporanei, ma solo da
poco sappiamo che lo ossessionano anche in veste di pittore, e di fotografo.
Presentate di recente alla Photographers’ Gallery di
Londra,
le
sue Factory Photographs arrivano in anteprima in Italia nel luogo migliore
possibile: al Mast di Bologna, il Beaubourg della cultura industriale fondato
dall’imprenditrice Isabella Seràgnoli, in una mostra che è la nuova tappa di un
itinerario di scoperta della fotografia industriale storica contemporanea.
E va detto, ci vuole un certo coraggio, da parte di una fondazione culturale
che fa pur sempre capo a un’impresa in buona salute, a mettere in mostra una
visione del paesaggio industriale così inquietante.
Ma il Mast, probabilmente l’unica galleria dedicata specificamente alla
fotografia industriale in Europa, diretta con grande intelligenza da Urs Stahel,
ci ha abituato a scelte non autocelebrative, critiche, anche rischiose: e con
David Lynch, è chiaro, il rischio è altissimo. Tutto da correre.
Lynch cominciò a fotografare fabbriche in bianco e nero agli inizi degli
Ottanta, mentre cercava nell’Inghilterra del nord, assieme al suo direttore della
fotografia Freddie Francis, le location per un film che poi non fece mai, Ronnie
Rocket. «Il tempo scompare quando giro in una fabbrica, è meraviglioso»,
scriveva.
Girò invece The Elephant Man, suo primo film di grande successo, storia
ambientata all’alba dell’era industriale, e pochi anni dopo Dune, saga
interstellare che salta direttamente all’altro capo della parabola tecnologica. E
anche in questi suoi film meno sperimentali, il clangore dell’officina risuona in
sottofondo.
Nel frattempo continuò a perlustrare le periferie urbane del mondo,
affascinato dalle aree industriali dismesse, da Berlino a Lodz, dal New Jersey a
Los Angeles, in cerca di organismi artificiali un tempo “creatori”, possenti e
rumorosi di bagliori elettrici e fumi acri, poi aggrediti, demoliti e digeriti
lentamente dalla natura.
Ripresi sempre in inverno, la stagione che più si addice a quelle mute
«storie di distruzione sparizione e perdita». Uno sguardo al futuro del pianeta,
forse, più che a quello post-industriale.
[Una versione di questo articolo è apparsa su Il Venerdì di Repubblica il 12
settembre 2014]
Tag: David Lynch, fabbriche, fotografia industriale, Freddie Francis, Isabella
Seràgnoli, Mast
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Londra celebra Horst, il fotografo dello stile
da http://www.libreriamo.it/
Fino al 4 gennaio presso il Victoria&Albert Museum di Londra è
possibile visitare la mostra ''Horst. Photographer of Style'',
retrospettiva di uno dei più importanti fotografi di moda del XX secolo,
accanto a Irving Penn e Richard Avedon. L'esposizione si divide in 10
sezioni, dall'Haute Couture ai nudi, passando per il tema del viaggio e
le influenze del Surrealismo. La mostra indaga non solo la fotografia di
moda, ambito principe del lavoro di Horst, ma anche gli sconfinamenti
nell'arte, nel design, nel teatro, per un'indagine a 360 sulla figura
progessionale e privata di quest'uomo
MILANO – Ha inaugurato il 6 settembre presso il V&A Museum di Londra la
prima retrospettiva dedicata a Horst P. Horst, creatore di immagini che
trascendono la moda e il tempo. Horst ha fotografato grandi icone della moda
e del cinema, da Marlene Dietrich a Lisa Fonssagrives, forse la prima
supermodel della storia. Le 10 sezioni in cui la mostra ''Horst. Photographer
of Style'' si divide sono: Haute Couture, Surrealism, Stage and Screen, Travel,
Patterns from Nature, The Studio, Fashion in Colour, Living in Style, Nudes e
Platinum.
IL PERCORSO ESPOSITIVO – La mostra si snoda attraverso 10 sezioni, che
raccontano la vita e il lavoro del fotografo tedesco. Immagini che raccontano
un mondo, quello della moda, e che emanano un’elegante raffinatezza e
sensualità. Quando Horst iniziò a collaborare conVogue nel 1931, Parigi era
ancora il centro indiscusso del mondo dell'Haute Couture; in questo scenario
l'editore Condé Montrose Nast incominciò a investire ingenti somme
didenaro per migliorare la qualità di riproduzione delle immagini, che non
erano più mere illustrazioni ma fotografie vere e proprie. Ma gli anni ’30 sono
anche caratterizzati dalle forti influenze del Surrealismo, il movimento
artistico surrealista che ha esplorato modi unici di interpretare il mondo,
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rivolgendosi al sogno e all'inconscio come fonte di ispirazione: Horst collabora
infatti con Elsa Schiapparelli e Salvador Dalí, condividendo la stessa
fascinazione per la rappresentazione del corpo femminile. In questo periodo le
fotografie di Horst presentano elementi misteriosi, stravaganti e surreali
combinati con la sua estetica classica. Nei primi anni 1950 Horst ha prodotto
una serie di fotografie che si differenziano di gran lunga rispetto alla sua
precedente produzione: si tratta di figure maschili, esposte per la prima volta a
Parigi nel 1953 e raccolti nella sezione Nudes. Da sottolineare
anche Platinum, che mette in mostra le stampe stampate su platino,
immagini ricercate e molto costose (data la qualità del supporto),
particolarmente apprezzate dai collezionisti per le loro tonalità sfumate, la
qualità superficiale e la durata nel tempo.
12 settembre 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Tags: Horst P. Horst, Victoria&Albert Museum, Horst. Photographer of Style, Condé
Nast,Elsa Schiapparelli, Salvador Dalí, Parigi, Platinum, fotografia, fotografia di
moda
Leica, rinascita digitale della regina della fotografia
di Antonio Dini da http://www.corrierecomunicazioni.it/
A 60 anni dal lancio dello storico modello "M" l’azienda tedesca torna
in attivo dopo la bancarotta analogica. Grazie agli investimenti in
tecnologia dell’imprenditore austriaco Andreas Kaufmann.
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È uno Steve Jobs austriaco il salvatore di Leica, uno dei marchi-simbolo della
tecnologia analogica che era stato quasi travolto dalla rivoluzione digitale
all’inizio del ventunesimo secolo. Una storia da raccontare per capire come le
aziende europee tradizionali si possono salvare cavalcando la rivoluzione hitech e offrendo una alternativa ad asiatici e statunitensi.
Se sugli altari della cronaca è salito Jobs, che con il suo ritorno alla guida di
una morente Apple nel 1997 è riuscito a creare la più grande azienda per
capitalizzazione di mercato, in futuro un posto dovrebbe essere riservato anche
a Andreas Kaufmann, elusivo ma determinato imprenditore austriaco che ha
acquistato la maggioranza della tedesca Leica con la sua società di investimenti
Acm Projektentwicklung di Salisburgo e con la partecipazione del fondo
americano Blackstone, che ha una quota di minoranza. Tanto da arrivare non
solo all’attivo (e all’azzeramento del debito) finanziando lo sviluppo e i futuri
prodotti con il proprio cash-flow, ma anche al delisting dalla Borsa di
Francoforte alla fine del 2012, trasferendo le quote a Lisa Germany Holding,
società interamente controllata da Acm e da Blackstone.
La storia di Kaufmann è singolare quanto il lavoro fatto per Leica.
L’imprenditore arriva al mondo della finanza e del business dopo aver studiato
arte, tedesco e scienze politiche, partecipato al Sessantotto e insegnato dal
1983 al 1998. “Formare le nuove generazioni è un atto rivoluzionario”, dichiara
in un’intervista, spiegando il suo impegno nella scuola di Waldorf-Rudolf
Steiner. Poi, la svolta capitalistica. Dal 1998 al 2002 fa esperienza nelle società
di famiglia: con i due fratelli eredita le più grandi cartiere austriache, di
proprietà dei Kaufmann per 101 anni. Intuendo che il mercato della carta sta
morendo, a partire dagli anni Novanta i tre vendono le azioni creando la
società di investimento Acm dalle iniziali dei loro nomi. Il primo acquisto è
un’azienda di ottica, la Weller Feinwerktechnik, vicino a Wetzlar, dove ha
sede Leica (produce strumenti ottici di precisione oltre alle fotocamere). Poi,
nel 2002, Acm acquista anche la piccola Via Opti, fornitrice di Leica, e
Kaufmann, che non è appassionato di fotografia e a malapena conosce il
marchio dell’azienda, entra in contatto con vari manager Leica.
Alla fine la decisione: entra nella proprietà di Leica che sta andando in
bancarotta, con l’idea di ristrutturare e ripartire. I fratelli di Kaufmann si
spaventano ed escono da Acm, mentre l’imprenditore austriaco resiste. Anche
se per crederci bisogna avere molta fiducia in se stessi: il mercato analogico
implode, quello digitale cresce alla grande. Leica come tutta risposta proprio in
quegli anni lancia una campagna (Kaufmann la definisce “suicida”) in cui si
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vanta di essere “il dinosauro della pellicola” in un mondo dominato dai
mammiferi giapponesi del digitale.
La storia del dinosauro è comunque straordinaria: nata come azienda per le
ottiche di precisione nel 1849, fondata dal ventitreenne Carl Kellner, nel 1869
rinasce con il nome Leitz dal nuovo fondatore, l’allora ventiseienne Ernst Leitz.
Due ricercatori sono però strumentali al successo di Leitz: Oskar Barnack,
capo dei laboratori di ricerca, e Max Berek, talento assoluto nella
progettazione delle lenti. Barnack, appassionato di fotografia e malato
d’asma, stanco di trascinare le voluminose macchine su treppiede di inizio
‘900, nel 1913 inventa la prima Leica (contrazione di Leitz Camera), che è per
la prima volta tascabile, dotata di telemetro e usa la pellicola 35 millimetri del
cinema, di qualità e poco costosa.
La super-compatta esordisce dopo la Prima guerra mondiale e per trent’anni
incarna il mito del fotoreporter: da Robert Capa a Henri Cartier-Bresson
passando per i fotografi Magnum e moltissimi dei grandi nomi anche italiani
(da Tazio Secchiaroli a Mario Dondero). Un mito per una nicchia di puristi
(fotocamera a telemetro solida, messa a fuoco solo manuale, senza fronzoli e
con ottiche fisse) con prezzi altissimi (5-6mila euro per un corpo, da 4 a 10mila
per una lente) ma destinata al fallimento. Arrivando al punto di cambiare nome
all’azienda nel 1986 (da Leitz a Leica) e città (da Wetzlar a Solms) pur di
tenere il passo con il mercato.
Siamo alla crisi e all’arrivo di Acm. “Ho cambiato tutto, e ho progetti molto
ambiziosi per i prossimi quattro o cinque anni”, spiega Kaufmann che dopo
aver preso il controllo dell’azienda ha rivoluzionato il management e investito
nel digitale mantenendo però l’attenzione per l’originalità del marchio.
Macchine fotografiche lavorate a mano, eccellenti e di posizionamento molto
alto, ma con le ultime tecnologie digitali tra sensori e processori. Il primo
esperimento nel 2008-2009 (M8 ed M9) con due generazioni di sensori Kodak con
tecnologia Ccd, poi il passaggio al sensore Cmos full frame progettato in
Europa da Cmosis e realizzato in Francia da ST Microelectronics, mentre il
cuore è nel processore Maestro, sviluppato da Leica e basato sulla famiglia
Milbeaut di Fujitsu. Operazione riuscita: ancora oggi prendere in mano una
Leica M Typ 240 è soprattutto un’emozione, e la qualità delle immagini
prodotte è superiore di gran lunga a quello che sono capaci di fare i giapponesi.
La fortuna aiuta gli audaci perché l’antica impostazione a telemetro del
prodotto-simbolo dell’azienda, la Leica M, compete perfettamente con le nuove
mirrorless (le ultimissime di Fuji, Panasonic, Olympus, Sony e Samsung) e
“tiene” nel mercato della fotografia digitale che si sta contraendo per via degli
smartphone.
Intanto Leica torna a Wetzlar in un’avveniristica fabbrica per la lavorazione dei
metalli e del vetro, lancia nuovi prodotti (Leica T), compie 100 anni dalla prima
ur-Leica e 60 con la linea M, e a partire dal 2012 riprende il controllo della
distribuzione in molti Paesi, non ultima l’Italia, cominciando ad aprire una
catena di negozi di proprietà (anche qui, l’esempio corre agli Apple Store) tra
cui San Francisco e Milano, Tokyo e Berlino. Accanto a pochi prodotti
dell’azienda ci sono mostre di fotografie, spazi per workshop, tutto all’insegna
di un arredamento Bauhaus che sarebbe piaciuto a Ludwig Mies van der Rohe e
al suo “less is more”.
L’operazione rebranding ha successo: i conti che nel 2012 già andavano bene
continuano a migliorare: il Made in Germany nella meccanica di precisione ma
anche nel lusso attacca sui mercati. Lo dimostrano marchi di orologeria
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come A.Lange & Sohne, Sinn, Nomos, e Porsche nel settore automobilistico.
La strategia di Kaufmann è portare il brand accanto a questi marchi di lusso: in
meno di 10 anni ha centrato il bersaglio.
Noi, negli occhi di pietra
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Mimmo Jodice, Venere da Baia, 1986 © Mimmo Jodice, courtesy l’autore
Dove va quel piede senza corpo? Dov’è finito il corpo di quel piede?
Un calzare senza moda e senza tempo varca una soglia di pietra, un passo
immobile da due millenni, eppur si muove ancora, va, cerca. Cosa cerca?
Appartiene forse a uno dei voltisenza corpo che ci guardano, occhi
spalancati, volti rapiti da emozioni mute? Cosa vogliono, cosa cercano, perché
ci guardano così?
“Sono tornati per cercare qualcosa”. Mio figlio, diciassette anni, se li
guarda tutti, poi con un po’ di timidezza dice la sua. “Sono dei morti senza
pace, rimpiangono quello che non hanno fatto, o quello che hanno fatto, o
quello che hanno perso, e tornano per rimediare”.
Mimmo Jodice lo ascolta. Annuisce, non dice né si né no. Dice: “Sta tutto
nel modo che ho scelto per vederli e farli vedere. Non sono documenti. Puoi
costruire la tua storia, guardandoli. Non c’è una storia giusta e una sbagliata,
ognuno trova la sua”.
Forse non è la risposta che mio figlio si aspettava, ma è quella giusta. Jodice
non autorizza né proibisce qualsiasi lettura sincera dei suoi ritratti
dell’antichità.
La sua è un’archeologia primaria delle emozioni, uno scavo di reperti
dell’anima che trova nascosti sotto un sottile velo di materia dura, che porta
alla luce, rianima, e poi affida agli studiosi, che siamo tutti noi, esperti di vita.
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A Modena, per il Festival Filosofia dedicato alla Gloria, Jodice ha ripreso e
rinnovato con inediti uno dei cuori battenti della sua poetica: le tracce della
vita di pietra che il tempo, invece di cancellare, ha reso più viva.
Se la sai vedere. Sono volti scolpiti due volte, dall’artista che volle infondere
loro vita, poi dalla corrosione del vento, della pioggia, del mare, dalla storia,
che hanno impresso su quei volti la mimica drammatica di nuovi sentimenti.
Mimmo Jodice, Amazzone ferita, 1992, © Mimmo Jodice, courtesy l’autore
Una Venere rimasta sola piange lacrime che le scavano la guancia. Un
uomo dal volto ridotto a un corallo calcareo guarda ancora qualcosa.
Una giovinetta, amazzone ferita, attende qualcuno, forse un aiuto, forse un
amante, con ansia crescente, seminascosta da una tenda di luce. Un compagno
di Ulisse dal corpo perfetto ma dal volto tramutato in una orribile spugna, grida
attonito cercando di liberarsi dal sortilegio.
Il tempo ha tolto, il tempo ha dato.Questi ideali perfetti di pietra sono
diventati nell’acqua, sotto la sabbia, nel vento, corpi imperfetti, carne
sofferente, anima dolente.
Piegati, piagati, corrotti da qualche misteriosa peste, mutilati da qualche
ignoto colpo, ci guardano, ancora vivi. La gloria è andata. L’umanità esplode.
Sfido chiunque a provare le stesse emozioni in un museo archologico.
Persino di fronte a queste stesse statue, nei luoghi del Mediterraneo dove
Jodice ha incontrato le sue persone.
Fotografate da lui, ci guardano: Jodice ha restituito loro gli occhi. Anche a
quelli che li avevano già. Anche a quelli che non li hanno.
Disegnare gli occhi era l’ultimo atto della fabbricazione di una statua
classica. Atto sacro, eseguito in presenza di sacerdoti: perché così si infondeva
l’anima nel sasso, e la statua non era più solo sasso.
Mimmo lo ha fatto senza toccarle, studiandole in silenzio, annusando la
luce, aggiungendo alla bisogna una pennellata di torcia elettrica, un riflesso
rimbalzato su un cartoncino bianco, non molto di più. Poi, in camera oscura,
quel mezzo giro alla manopola dell’ingranditore, avanti o indietro, che muove i
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bordi dell’immagine, che fa vibrare, tremare lo sfondo e i dettagli. Come il
tocco del demiurgo, come lo scappellotto divino che sveglia l’Adamo di fango
dall’immobilità: “vai, ora sei vivo”.
Mimmo Jodice, Il Compagno di Ulisse, Baia, 1992, © Mimmo Jodice, courtesy l’autore
E quelli, sbigottiti, aprono gli occhie vedono. E quel che vedono non li
lascia tranquilli. Vedono e sono spaesati, vedono e sono commossi, o
spaventati, o confusi, o indecisi, o angosciati. Cosa? Perché? Non ce lo dicono.
Non hanno la parola. Tacciono.
La risposta non sta nella fotografia.Sta dall’altra parte. Sta nella cosa che i
risvegliati di pietra guardano quando riaprono gli occhi, e che noi non vediamo,
perchè sta nel luogo dove stiamo noi, sta lì dove li guardiamo.
Vedono noi, i risvegliati di pietra.Noi che siamo i loro figli dei figli dei figli.
Noi, che siamo il loro futuro.
Forse siamo noi, quella cosa che sono tornati a cercare, siamo noi la cosa
lasciata a metà che ha angosciato i loro sonno millenari. Siamo noi la loro
opera incompiuta.
Ci hanno cercato, ora ci hanno trovato. Ma non gli piacciamo. Incutiamo
loro paura, quasi terrore, sempre sorpresa. Dunque siete così, figlioli nostri?
Dunque era questo che noi abbiamo preparato, generato, immaginato? Dunque
è così che ci avete ereditato, questo è il mondo che avete cambiato mentre
dormivamo?
Mimmo non autorizzerà questa fantasia sulle sue fotografie. Neppure la
smentirà. Archeologo dell’anima, spolveratosi dal fango dei secoli, per lui il
lavoro è finito. Il resto tocca a noi.
Tag: classicità, Mediterraneo, Mimmo Jodice, stat/ue, Ulisse, Venere
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Quella porta sullo sguardo
Viaggio breve nella fotografia artistica italiana.
a cura di Enzo Carli, Ideas Edizioni Benevento 2014
Comunicato Stampa
La fotografia ha rivoluzionato il modo di vedere e comunicare per
rappresentazioni e nulla sarà più come prima di questa scoperta. Ha
contribuito a educare il mondo attraverso la diffusione seriale di immagini,
determinando un fenomeno sociologico di una vastità inimmaginabile.
Come pratica artistica, ormai svincolata dalle funzioni di rapida informazione,
rientra nel quadro più generale della cultura umana, tra le moderne attività
espressive. Nonostante Ippolyte Bayard nel 1839 presentasse la prima mostra
di fotografia a Parigi questa nuova arte per troppo tempo è stata considerata
antiaccademica in quanto strumento tecnico (fisico- chimico- ottico) con
funzioni di riproduzione della realtà, più in linea con le “invettive profetiche” di
Baudelaire che c on il nuovo mondo di Delacroix. La gerarchia culturale ha
troppo spesso considerato la fotografia (e il suo uso popolare e utilitario) come
cultura inferiore. Poiché la realtà umana non può trovarsi nella fotografia ma
nell’intenzioni del fotografo (Ferrarotti, 1974), ciò che differenzia le fotografie
non è solo il contenuto ma la forma, le interpretazioni e gli utilizzi che se ne
fanno. (Pasini,)
Da qui la necessità di ricomporre e ricondurre nella giusta collocazione la
fotografia in Italia e i valori, la sensibilità e la produzione del Fotografo. Ci
prova in primis Giuseppe Cavalli, (fratello gemello di Emanuele fotografo,
pittore tonale che nel 1933 insieme a Capogrossi e Melli, compilò il “Manifesto
del Primordialismo plastico” e che collaborò con Giuseppe).
Cavalli, avvocato, letterato, fine esteta, fotografo di rara qualità, ideatore del
lirismo chiarista (higt-key), diviene in Italia uno degli interpreti assoluti della
ricerca che sancisce la piena autonomia del linguaggio fotografico, svincolato
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da ogni utilizzo strumentale, asserendo nel Manifesto del 1947 (firmato con
Veronesi, Vender, Finazzi e Leiss) l’artisticità della fotografia.
A Cavalli si affiancano per le ricerche condotte in diverse direzioni: Paolo Monti,
deciso fotografo mittle-europeo, portatore delle nuove istanze europee (in
particolare la fotografia soggettiva di O.Stainert), attento alle nuove
sperimentazioni espressioniste, rielaborate in chiave intimistica e tipicamente
italiana, con un deciso linguaggio a toni alti (low-key), promotore della famosa
Ecole de Venice, come veniva chiamata la Gondola, foto club veneziano in
apparente dissenso linguistico con le proposte della Bussola, attivo fin dal
1948; Mario Giacomelli allievo prediletto di Cavalli, caso della fotografia
italiana, pittore astratto-materico, poeta, fotografo del reale immaginario o
realismo magico, impegnato in un’analisi dentro il sistema della fotografia che
assurge ad elemento congeniale per indagare, radiografando la propria
interiorità; Gianni Berengo Gardin, allievo di Monti, con il suo impegno civile è
la coscienza visiva di un’Italia che cambia, il fotografo testimone del
mutamento sociale e del lavoro di reporter sulla situazione italiana dagli anni
‘60 ai giorni nostri, una protesta con immagini toccanti che hanno contribuito
alla soluzione di roventi questioni sociali(ricordiamo la situazione degli ospedali
psichiatrici italiani prima della L.190); Nino Migliori, un fotografo capace di
misurarsi con le più avanzate elaborazioni, un inventore, ricordiamo i
pirogrammi, bruciature effettuate sul negativo da stampare (1948), l’offcamera, la fotografia senza macchina fotografica, senza prospettiva
illusionistica, e poi le ossidazioni, i clichés verres, gli ideogrammi e come un
libro aperto per anni, i muri. Nino Migliori come il Man Ray italiano uno
sperimentatore a tutto tondo in competizione con la avanguardie artistiche.
Il contributo non ha pretese esaustive né altre finalità se non quelle di
individuare le matrici teoriche della fotografia moderna italiana e
principalmente alcuni protagonisti, personaggi chiave del processo innovativo,
su cui avviare la riflessione nella fotografia artistica italiana a partire dai primi
anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Altri illustri importanti e decisivi fotografi e intellettuali (Tino Petrelli, Rinaldo
Prieri, Gustavo Millozzi, Ferruccio Ferroni, Mario Lasalandra, Stanislao Farri,
Luigi Ghirri, Franco Fontana, Franco Vaccari, Paolo Gioli, Roberto Salbitani,
Oliviero Toscani, Ferdinando Scianna, Giovanni Chiaromonte, Gabriele Basilico,
Mimmo Iodice, Cesare Colombo, Fulvio Roiter..). a cavallo dagli gli anni ‘70
fino all’inizio del nuovo millennio, nella direzione intrapresa, si sono cimentati
con grande successo, nella ricerca di nuovi e importanti linguaggi in fotografia,
qualificando la fotografia italiana, innalzando il livello di qualità nel panorama
internazionale, corroborando le loro immagini con idee e proposizioni critiche e
di contenuto. Un discorso a parte meritano in quegli anni, i fotoamatori, la
punta più evoluta di un arte media e popolare che nell’ambito della loro pratica
e delle loro attività, sono usciti spesso dal torpore delle meritocrazie dei
concorsi, e hanno portato la fotografia a risultati di grande dignità e versatilità
contribuendo nella definizione dei linguaggi fotografici contemporanei e nell’uso
e divulgazione della conoscenza e della pratica fotografica.
Il libro presenta anche testimonianze e segnalazioni una panoramica sui alcuni
Movimenti e Protagonisti della tradizione e di una nuova stagione fotografica; il
lavoro si conclude con una serie di indicatori didattici sull’unità fotografica,
sugli elementi compositivi e sulla lettura delle immagini fotografiche. L’Autore
ringrazia tutti gli Autori e Fotografi che hanno contribuito alla realizzazione del
volume, scusandosi con le inevitabili omissioni.
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“Questo breve e incompleto panorama sulla fotografia artistica, esprime il
complesso significato e l’intensa partecipazione che la fotografia ha avuto e ha
nel quadro della cultura italiana contemporanea e nello stesso tempo vuole
essere un pretesto ed un invito per conoscere, approfondire e definire il grande
serbatoio di proposte e di idee della fotografia contemporanea italiana.
Di questa storia, molto si deve raccontare” (Enzo Carli)
L’Autore
Enzo Carli, (Senigallia) sociologo,giornalista, fotografo per necessità, si occupa
di fotografia e cultura fotografica. Allievo affettuoso del grande Mario
Giacomelli, ha partecipato a dibattiti, convegni, organizzato e partecipato a
mostre di fotografia in tutt’Italia e all’Estero. Al suo attivo numerose
pubblicazioni di critica e storia della fotografia (Alinari, Fabbri, Charta,
Gribaudo, Il Lavoro Editoriale,New Art Diffusion Co., Ltd.,-Tokyo, Metropolitan
Museum of Photography, Adriatica Editrice,Edizioni Lussografica, ecc). Già
consulente di Enti pubblici e privati in Italia e all’estero, direttore artistico del
progetto di fotografia europeo, “Human work” ha collaborato tra gli altri con la
BNF di Parigi e con il Museum of Photography di Tokyo. Già docente in Istituti
superiori, professore di sociologia della cultura e di fotografia all’Università di
Camerino e di Urbino è stato responsabile della teoretica e direttore
dipartimento comunicazioni della FIAF.
Con Ideas edizioni ([email protected]) ha, oltre a questo volume, pubblicato
anche il libro fotografico: ”Archeologia dei sentimenti”.
La fotografia appesa a un filo
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Michele Smargiassi, Appese a un filo, Londra 2014, licenza Creative Commons
Critica, bellissima parola sottovalutata. Da κρίνω, scelgo, separo, giudico.
Radice etimologica anche della parola crisi.
Chi fa critica insomma è uno che sceglie,giudica, separa e magari mette in
crisi qualcosa.
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Dalla critica fotografica dunque mi aspetto che metta in crisi la fotografia.
Che tenga la fotografia in equilibrio sul filo della sua esperienza, per metterla
alla prova.
Che faccia ben ballonzolare i suoi fondamenti, le sue ideologie, le sue
convenzioni. Per meglio capire, scegliere, giudicare.
Ho appena chiuso un libro che riporta le voci di molti esponenti della nuova
e giovaneGenerazione critica, libro stimolante e utile sotto molti aspetti.
Bene, ho imparato molte cose che non conoscevo, soprattutto nomi e
storie di artisti e spiegazioni accurate del loro progetti. Ho letto insomma
buoni esempi di critica fotografica.
Ma sono arrivato all’ultima pagina senza incontrare una risposta a quella
che speravo fosse la domanda all’origine del libro: che cosa è la critica
fotografica? Come si esercita? Qual è il suo vero oggetto?
Ho trovato insomma riflessioni interessanti sul sostantivo critica, non
sull’aggettivofotografica. Ma il punto, per me, è lì. Che cosa distingue la
critica fotografica dal resto della critica d’arte? Che cosa ha di specifico?
Non basta dire che la critica fotografica è semplicemente quella porzione
della critica d’arte che si occupa specificamente di fotografia. Perché se anche
sembra lessicalmente corretta, l’analogia con la critica della pittura, o della
scultura, o della performance non regge. Le categore non sono equivalenti.
Occuparsi di pittura significa occuparsi di una pratica per definizione
artistica (fra le cose che si possono fare con colori e pennelli, resta fuori dal
campo dell’arte forse solo il lavoro dell’imbianchino). Occuparsi di fotografia
significa, all’esatto opposto, occuparsi di pratiche che stanno in prevalenza
fuori dal campo dell’arte.
Di queste pratiche (la fotografia di massa, quella scientifica, quella
familiare e privata, quella funzionale e professionale, oggi quella
“conversazionale”…) i “critici fotografici” invece solitamente non si occupano.
Le lasciano (a volte con una smorfia di degnazione) ai sociologi, ai semiologi,
agli storici.
Dunque dovrebbero almeno chiamarsi “critici della fotografia artistica” o
“critici degli usi artistici della fotografia”. Ma è una definizione che viene
evitata, perché percepita come riduttiva. Una certa tendenza assolutista del
campo artistico, oppure l’errata convinzione che ciò che non è arte non è
neppure “veramente” fotografia, vuole che “fotografia” sottintenda sempre e
solo “arte”.
E così molti critici fotografici sembrano essere del tutto convinti che il loro
oggetto sia la fotografia tout court. Mentre è solo quella sezione molto
ristretta, e insensata se separata dal resto, che sta in capo agli artisti, spesso
presunti tali.
(Per chi già si irrita alla parola presunti, preciso: sì, avrei meno problemi
se ogni volta che parlo di fotografia d’arte premettessi un disclaimer:
“naturalmente ci sono tanti foto-artisti originali e seri e meritevoli ecc. ecc.”,
cosa che ovviamente è vera, ma per me sarebbe solo, scusate il francesismo,
una paraculata. Molta fotografia contemporanea d’arte mi sembra noiosa,
presuntuosa e pretestuosa, e lo dico).
L’indebita generalizzazione della fotografia d’arte a fotgrafia e basta
produce autosufficienza. Nel libro di ci sto parlando, per fare un esempio, il
capitolo sulla fotografia nell’era della condivisione è in realtà un capitolo, molto
interessante certo, su come alcuni artisti interpretano la condivisione delle
immagini. E il capitolo che affronta la spinosa, annosa questione del precario
rapporto fra la fotografia e il reale, è in realtà una rassegna, soddisfacente in
questo, di come alcuni artisti affrontano quel rapporto.
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Sia ben chiaro, un lavoro critico specializzato sugli “artisti che usano la
fotografia” ci serve. Ma non esaurisce, e non può fingere di esaurire il lavoro
che va fatto sulla fotografia, sull’immagine tecnica, sulla cultura visuale di
un’epoca in cui il visuale è un campo di battaglia tra poteri e ideologie.
Non sto affatto chiedendo ai critici di fare i sociologi, i semiologi, i
politologi. Chiedo loro di fare il loro mestiere, cioè di aiutarci a capire gli artisti.
Gli artisti (quelli veri, quelli che, dopo un secolo di arte che parla dell’arte,
hanno ripreso a parlare del mondo) ci aiutano spesso a trovare “ingressi” non
scontati a questi scenari epocali. I critici ci aiutano a capire quali tra loro lo
fanno seriamente, e perché.
Ma chiedo loro di farlo coscienti della parzialità e della relatività di quel
compito, della necessità di collaborare, scambiare metodi e attnzioni, di andare
in prestito di altri approcci alla fotografia. E questo richiede, per prima cosa, di
avere un’idea più vasta delle relazioni tra pratiche fotografiche diverse di quella
che sembrano avere (non sto più parlando degli autori di questo libreo, sia
chiaro) i critici che arricciano il naso di fronte alle fotografie deisocial network,
alle fotografie di mercato, alle fotografie del cosiddetto privato.
Ecco, questa disponiblità, direi questa umiltà, dovrebbe essere evidente
(nelle citazioni, nei rimandi, nella definizione del proprio campo, nella
coscienza del limite) anche negli scritti critici sulla fotografia da galleria e da
museo, nelle presentazioni di mostre e nei testi dei cataloghi, che invece trovo
spesso autosufficienti e autoreferenti in modo a volte perfino compiaciuto.
Il mio è un auspicio, non una critica. Vorrei leggre cose diverse. Sono un
lettore, non sono un critico, e non sono neppure, almeno per mestiere, un
critico della critica…
Tag: arte, Critica fotografica
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Il tempo dei fotografi
da www.iltempodeifotografi.org
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IL TEMPO DEI FOTOGRAFI
27 settembre - 9 novembre 2014
Villa Manin - Esedra di Levante - Passariano, Ud
•••
Cinque progetti tematici interpretati da uno straordinario gruppo di fotografi
del Friuli Venezia Giulia.
Balsamini, Brunello, Bulaj, Cecere, Criscuoli Crivellari,
Culot, Da Pozzo, Frullani, Genuzio Giacuzzo, Giraldi, Grundner, Indrigo,
Klun, Kusterle, Laureati, Mittica, Paviotti,
Perini Rinaldi, Rupolo, Scabar, Sillani, Tedeschi, Tubaro.
Oltre 90 opere esposte per la prima volta insieme in un unico percorso.
Dal colore al bianconero, dagli scatti rubati in aree del mondo
quasi inaccessibili, seguendo le orme degli autori di reportage, all’immediatezza
della street-photography, dalla documentazione di un paesaggio naturale,
urbano o industriale al ritratto d’autore fino all’incanto estetico della fotografia d’arte
o della staged-photography.
ORARIO MOSTRA
Da martedì a venerdì 15.00-19.00 / sabato e domenica 10.00-19.00
www.iltempodeifotografi.org
Vita pendolare di un uomo-raggio
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Man Ray, Meret Oppenheim, 1933, collezione privata, Courtesy Fondazione Marconi © MAN RAY TRUST /
ADAGP, Paris, By SIAE 2014
Tic-toc, tic-toc… Incollato al ritmo perfetto dell’asta di un metronomo, l’occhio
dell’amante perduta oscillava, persecutore.
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La storia è nota: era la foto di un occhio della bellissima Lee Miller, e Man
Ray esorcizzava così, nel 1932, il dolore dell’abbandono. Secondo i suoi stessi
piani avrebbe dovuto distruggerla, quell’opera auto-terapeutica, con un “colpo
ben mirato di martello”, quando il suo rintocco l’avesse esasperato del tutto. Lo
fece solo nel 1957. Man Ray aveva un alto grado di sopportazione.
Più che un’opera, il metronomo è un’autobiografia. L’esistenza
dell’”uomo-raggio”, ineffabile attraversatore di avanguardie del Novecento, fu
un movimento pendolare tra eccitazione e delusione, gioia e sofferenza,
bohème e lusso, volontà e caso; fra Parigi e l’America, fra pittura e fotografia,
fra arte e vita.
Ogni volta che si cerca di ricostruirla, come fa la grande retrospettiva a
Villa Manin che apre in questi giorni, bisogna fare i conti con l’evidenza: la più
coerente opera di Man Ray fu Man Ray.
Era un ragazzo sveglio, il figlio di immigrati ebrei russi Emmanuel
Radnitzky di Philadelphia, aveva le idee chiare: voleva fare il pittore. Ma il
destino aveva le idee più chiare di lui e non glielo lasciò del tutto fare.
Fu la fotografia a dargli la fama e i soldi che aveva sognato nella
stamberga della comunità proto-hippy di Ridgefield, New Jersey, pasticciando
con i pennelli, affascinato dal cubismo.
E questo un po’ lo contrariò. Il suo celebre epigramma, “dipingo quello che
non posso fotografare, fotografo quello che non voglio dipingere”, è assai
tardivo (lo scrisse per una mostra a Torino, nel ’74, due anni prima di morire)
e suona più rassegnazione che proposito.
La fotografia l’aveva incontrata nelle gallerie di Alfred Stieglitz, il
pontefice newyorkese del bianco e nero, ma voleva servirsene solo per
riprodurre i suoi quadri. Tuttavia, quando nel 1921, trentunenne, stufo di
incomprensione in patria, con cento franchi in tasca e un baule di dipinti sbarcò
a Parigi, la fotocamera gli si offrì come mezzo di sostentamento.
Il sarto Poiret lo scritturò per fotografare le sue creazioni. I suoi ritratti
piacevano agli artisti e alle gentildonne. Sapeva poco o nulla di tecnica, ma
quelli erano anni strani. Una botta inavvertita al cavalletto, e la contessa Casati
si ritrovò con due paia di occhi. “Meraviglioso! È il ritratto della mia anima!”
trillò la nobildonna, e retribuì profumatamente.
Era arrivato a Parigi con tre propositi: parlare francese, fare fotografie e
imparare la danza. Raggiunti tutti e tre. Decisamente basso ma proporzionato,
quell’ometto gradevole che aveva scelto uno pseudonimo da fumetto faceva
furore in società.
Man Ray, Noire et blanche, 1926, collezione privata, Courtesy Fondazione Marconi © MAN RAY TRUST /
ADAGP, Paris, By SIAE 2014
62
Di più, l’americano a Parigi piaceva alle donne, moltissimo. Non riusciva ad
avere solo modelle: amanti. Colse la perla più ambita, la chanteuse Kiki di
Montparnasse, regina deltabarin, curve morbide e boccuccia a cuore.
La rimpiazzò poi con una biondina americana esile e algida che si era
presentata al suo studio dicendo: “mi chiamo Lee Miller, lei non lo sa ma sono
la sua nuova assistente”. Insieme fecero follie, erano la perfetta coppia da
cronaca mondana, al ricevimento elegante dei Pecci Blunt si presentarono in
divisa da tennisti.
La vita era provocazione, la provocazione era arte, Dada impazzava.
L’amico Duchamp aveva presentato a Man Ray una truppa di irregolari,
Aragon, Soupault, Breton, Eluard, era il surrealismo in fasce e Man Ray ci saltò
dentro a piè pari.
Voleva essere il pittore del movimento. Ne fu il fotografo, un po’ renitente.
Raccontò sempre le sue celebri invenzioni in camera oscura come scoperte
casuali: i rayogrammi, perché gli capitò di lasciare oggetti su un foglio di carta
sensibile e quelli vi impressero le loro magiche ombre bianche; le
solarizzazioni, perché Lee, spaventata da un topo, accese la luce in laboratorio
prima del fissaggio di un ritratto, e quello si circonfuse d’una strana aureola.
Miracolose serendipità non progettate. Come se Man Ray resistesse
all’idea di essere diventato celebre grazie a un’arte che non aveva scelto, e la
tenesse a distanza. “La fotografia non è un’arte”, continuò a ripetere. “Del
resto”, aggiungeva beffardo, “l’arte non è fotografia”.
Tic-toc, oscillò per decenni come un metronomo fra le due,
sovrspponendole fino a “completare il circolo di confusione”. Molto dada.
Geloso delle sue pitture e ossessionato dal perderle, era indifferente alla sorte
delle sue foto, che lasciava ristampare a volontà (per il caos delle expertise e
la gioia dei falsari).
Completò
altri
circoli.
Assaggiò
il
cinema, con
cortometraggi
d’avanguardia (recuperati e visibili in mostra, bella sorpresa). Tornò in Usa
quando i cieli di Parigi si corrugarono di guerra, e scelse Hollywood,
nientemeno. Comprò una macchina sportiva, pigiava l’acceleratore come un
teddy boy. Si godeva la fama.
Ma dopo la guerra tornò per la seconda volta a vivere sotto la Tour Eiffel,
e si dedicò alla sua nuova passione per gli oggetti engmatici.
Fu forse più ammirato che amato, ma amò molto. Le sue opere, le sue
donne. Juliet Browner, ballerina, fu l’ultima, la più fedele, la più adorata. Le
dedicò un’ossessiva infinità di ritratti. Tutti fotografici. Tic-toc.
[Una versione di questo articolo è apparsa su La Repubblica il 14 settembre 2014]
Tag: Alfred Stieglitz, André Breton, cubismo, Dada, Emmanuel Radnitzky, Juliet Browner,
Kiki, Kiki de Montparnasse, Lee Miller, Luis Aragon, Luisa Casati, Man Ray, Marcel
Duchamp, Montparnasse, Paul Eluard, Philippe Soupault, rayogramma, rayograph,
Ridgefield, solarizzazione, surrealismo, Tristan Tzara
Scritto in Storie, Venerati maestri | Commenti »
Si può fotografare la serendipità?
di Becky Harlan da http://www.nationalgeographic.it/
PROOF In un mondo dominato dal digitale, la fotografia può essere ancora
frutto del caso? Benjamin Lowy ci prova, raccontando la sua New York in una
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serie di"walkscapes", foto composite scattate camminando, e che sembrano
opere astratte.
fotografie di Benjamin Lowy:


« PRECEDENTE
 Foto 1 di 8
SUCCESSIVA »
Cosa hanno in comune il velcro e i raggi X? Sono entrambe invenzioni
importanti effettuate per caso, da parte di persone che osservavano il mondo
con mente aperta. Sono frutto cioè di quello che in inglese viene chiamato
serendipity, serendipità, ovvero la fortuna di compiere felici scoperte per puro
caso e, anche, il trovare una cosa non cercata e imprevista mentre se ne stava
cercando un'altra. È questo il tipo di emozione che cerca di ricreare il fotografo
Benjamin Lowy con le sue immagini; un obiettivo, dice, più raggiungibile
quando si lavora su pellicola che in digitale.
“Il mondo digitale è così preciso che agli dei della casualità fotografica è
lasciato ben poco margine di intervento", dice Lowy. "Quindi nel mio lavoro
cerco di creare queste occasioni".
Cercando la serendipità e un modo di rappresentare il mondo in una maniera
più viscerale e meno calcolata, Lowy ha sperimentato varie applicazioni finché
non si è imbattuto in una che lo ha finalmente soddisfatto. “È una app per
timelapse nata per uno scopo diverso dal mio, che di solito percorro a piedi due
o tre isolati e poi metto tutto insieme per creare una sola immagine, ma
funziona”. Il risultato sono quelli che Lowy chiama “Walkscapes” (paesaggi in
cammino), ovvero singole immagini composte da 30-100 scatti effettuati
64
durante
una
breve
passeggiata
e
poi
compressi
in
una
sola
foto.
In questa fotogalleria, ecco una serie di foto realizzate a New York, la città
dove vive Benjamin Lowy.
Per saperne di più sul suo lavoro, visitate il suo sito web, o seguitelo su
Instagram a BenLowy e Conceptual_Ben
tag: fotografia, arte, fotografi
Henri Cartier-Bresson
Comunicato Stampa da http://undo.net/
MUSEO DELL'ARA PACIS, ROMA
La retrospettiva ripercorre l'intera vita del fotografo attraverso 500
opere tra fotografie, disegni, dipinti, film e documenti, riunendo sia le
immagini piu' famose che quelle meno conosciute. L'itinerario espositivo
offre una doppia visione: rintraccia la storia dei suoi lavori svelando allo
stesso tempo la storia del Ventesimo secolo.
a cura di Clément Chéroux
Sarà esposta a Roma dal 26 settembre 2014 al 25 gennaio 2015, presso
il Museo dell’Ara Pacis, la mostra retrospettiva Henri Cartier -Bresson a
cura di Clément Chéroux. La grande esposizione, realizzata dal Centre
Pompidou di Parigi in collaborazione con la Fondazione Henri CartierBresson, è promossa da Roma Capitale Assessorato alla Cultura,
Creatività e Promozione Artistica - Sovrintendenza Capitolina ai Beni
Culturali e prodotta da Contrasto e Zètema Progetto Cultura e viene
presentata a dieci anni esatti dalla morte di Henri Cartier-Bresson.
65
Clément Chéroux è storico della fotografia e curatore presso il Centre
Pompidou, Musée national d’art moderne.
Il genio per la composizione, la straordinaria intuizione visiva, la
capacità di cogliere al volo i momenti più fugaci come i più
insignificanti, fanno di Henri Cartier-Bresson (1908 – 2004) uno dei più
grandi fotografi del ventesimo secolo. Nel corso della sua lunga
carriera, percorrendo il mondo e posando lo sguardo sui grandi momenti
della storia, Cartier-Bresson è riuscito a unire alla potenza de lla
testimonianza la poesia.
Questa retrospettiva ripercorre cronologicamente il suo percorso, con
l’ambizione di mostrare che non c’è stato un solo Cartier -Bresson ma
diversi.
La mostra propone, infatti, una nuova lettura dell'immenso corpus
d’immagini di Cartier-Bresson, coprendo l’intera vita professionale del
fotografo. Saranno esposti oltre 500 opere tra fotografie, disegni,
dipinti, film e documenti, riunendo le più importanti icone ma anche le
immagini meno conosciute del grande maestro: 350 stampe vintage
d’epoca, 100 documenti tra cui quotidiani, ritagli di giornali, riviste, libri
manoscritti, film, dipinti e disegni. L’itinerario espositivo offre una
doppia visione: rintraccia la storia dei lavori di Ca rtier-Bresson, per
mostrare l’evoluzione del suo cammino artistico in tutta la sua
complessità e varietà, e, al tempo stesso, raccoglie e ”rappresenta” la
storia del Ventesimo secolo attraverso il suo sguardo di fotografo.
La mostra è accompagnata da un ampio ed esaustivo catalogo
(pubblicato da Contrasto) con saggi di studiosi, esperti e testi inediti di
Cartier-Bresson. Oltre al catalogo, sarà disponibile anche un’agile guida
alla mostra.
Immagine: Henri Cartier-Bresson, Children; © Henri Cartier-Bresson /
Magnum Photos
Museo dell'Ara Pacis, Lungotevere in Augusta - Roma.
Orario:mar - dom 9-19, ultimo ingresso ore 18
Biglietto integrato Museo e Mostra 12 intero; 10 ridotto
“La fotografia come racconto”
dal Comune di Senigallia www.comune.senigallia.an.i
66
Senigallia espone gli scatti di Leo Matiz
In ossequio al suo titolo di Città della Fotografia, Senigallia si accinge a
ospitare un'altro grande evento espositivo di respiro internazionale. Il 18
ottobre prossimo, infatti, sarà inaugurata alla Rocca roveresca la mostra "Leo
Matiz: la fotografia come racconto".
Il progetto, realizzato con la compartecipazione della Fondazione Città di
Senigallia e sostenuto finanziariamente da importanti sponsor privati come
Fondar, Eurogas, Namirial, Fiorini International, Sica Altoparlanti, Tms Clima,
Rotary Club di Senigallia e Lions Club di Senigallia, è stato presentato questa
mattina nella sala giunta del Comune di Senigallia.
Matiz, nato ad Aracataca (Colombia), la magica Macondo di Cent’anni di
solitudine di Gabriel García Márquez, oltre a essere considerato uno dei giganti
della fotografia del Novecento, è stato anche caricaturista, pittore, gallerista,
editore e attore. Tra i suoi lavori più noti, la suite di scatti dedicati all'intenso e
tormentato rapporto sentimentale tra Frida Khalo e Diego Rivera, il cui
interesse, di recente, è stato riacceso dal successo registrato dalla mostra delle
opere dell'artista messicana alle Scuderie del Quirinale .
La suite di Frida e Diego, sarà riproposta a Senigallia in un più ampio
panorama di cinquanta fotografie rappresentative del mondo artistico
frequentato dall’autore, ma anche di un attraente e splendido momento del
cinema americano e di uno sguardo sulla vita sociale e della politica del
Novecento.
La mostra è curata da Carlo Emanuele Bugatti, direttore del Musinf di
Senigallia, e dall’architetto Gianni Volpe. Entrambi, insieme ad Alejandra Matiz,
figlia di Leo e attuale presidente della Fondazione Matiz di Città del Messico,
hanno anche curato la redazione del catalogo. E proprio ad Alejandra Matiz, si
deve il rilancio dell’interesse intorno agli scatti relativi a Frida Khalo e Diego
Rivera, grazie a due mostre realizzate a Parigi e a Roma. Forte è il legame tra
la Matiz e Senigallia, nato molti anni fa quando venne in città per incontrare
Mario Giacomelli: grande estimatrice delle raccolte conservate al Musinf, oggi è
ambasciatrice in America della fotografia italiana e, in particolare, dei talenti
senigalliesi.
La stessa Matiz, in collegamento via skype da Città del Messico, è intervenuta
durante la conferenza stampa per salutare gli intervenuti e augurare il
massimo successo alla mostra.
"Avvalendosi della sua consolidata immagine di città della fotografia - afferma
il sindaco Maurizio Mangialardi - Senigallia sta diventando sempre più un
importante polo di attrazione per quanti amano questa arte così attraente e
aperta a nuove prospettive. E’ per perseguire questa finalità che, dopo il
successo della mostra del fotografo turco Ara Guler al Palazzo del Duca,
portiamo ora in città l'opera di un altro grande autore come Leo Matiz. Tutti
sanno che Matiz è un fotografo che ha iscritto il suo nome nella storia della
fotografia del Novecento e credo che l’itinerario di cinquanta foto che è stato
qui predisposto possa utilmente contribuire alla conoscenza approfondita della
sua vasta opera".
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"Siamo partiti dalla presenza in Italia di Leo Matiz - aggiunge l'assessore alla
Cultura Stefano Schiavoni - alla ricerca delle originarie radici friulane. A lavori
in corso siamo stati anche noi attratti dal successo che stavano avendo prima a
Parigi, poi a Roma, le esposizioni della suite di fotografie relative a Frida Khalo
e Diego Rivera. Abbiamo pensato che questo capitolo dell’esperienza di Matiz
non potesse mancare nella mostra, naturalmente accanto alla ritrattistica.
S’imponeva poi la presenza della documentazione sulla sua fotografia sociale.
Non poteva mancare, infine, l’analisi del sentimento che Matiz ha avuto della
fotografia come arte. Alla fine ci siamo detti che il percorso espositivo alla
Rocca roveresca si stava componendo filologicamente da sé, in un itinerario
antologico, che individua tanti settori di futura ricerca sull’opera di questo
grande protagonista della fotografia del Novecento"
“Credo che la mostra alla Rocca Roveresca – ha sottolineato Bufatti - sia dotata
di una suite di immagini, che consente di apprezzare ampiezza e profondità
della sua esperienza fotografica. Una fotografia, che sì parte dalla pratica del
reportage giornalistico, ma tende poi a ricongiungersi, in un lungo percorso di
esperienze, alla primigenia e preponderante disposizione artistica e creativa
dell’autore”.
“Le sue foto – ha concluso Volpe - sono ormai icone dei maggiori musei del
mondo. La coppia Frida Kahlo-Diego Rivera deve molto della sua notorietà
anche all’umanimità con cui è stata presentata da Leo Matiz, così come il
dinamismo e il gigantismo delle imprese sudamericane ha avuto un successo
pubblicitario planetario proprio grazie ai nuovi concetti spaziali ideati da Matiz”.
Narciso sconfitto dal selfie
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Narciso è sull’orlo di una crisi di nervi. Nulla va come dovrebbe andare. Il mito s’è
imbizzarrito.
Guarda la superficie limpida dello stagno, ma quel che ci vede non gli piace. Non
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s’innamora più della propria immagine. La trova insopportabile. Brutta. No, peggio:
insignificante.
“Sono venuto male”, dice. Prova a cambiare stagno. Poi ne cambia un altro, poi
un altro.
Terrorizzato dalla possibilità che nessuno stagno gli restituisca più l’immagine
bellissima di sé, comincia a barare. Fa smorfiette, tira fuori la lingua. Macchia l’acqua
del laghetto con colorini e inchiostrini.
Le prova tutte, ma non c’è nulla da fare. Il copione del suo mito lo costringe
ancora a specchiarsi, compulsivamente, nell’immagine di se stesso, ma
quell’immagine non lo attira, non lo soddisfa, non lo seduce più.
Narciso non si butta più nell’acqua per raggiungere l’Io adorato. Continua invece
a cercarlo, all’infinito, ripetendo compulsivamente l’atto di specchiarsi. Chiama tutto il
mondo a raccolta, tutti gli amici, anche quelli che non conosce, mostra loro tutti i suoi
ritratti insufficienti, e chiede conforto, tremebondo: be’, almeno questo a voi piace? E
questo? E quest’altro? Sono davvero io? Sono davvero così? In quale sono davvero
così?
In nessuno. La sindrome dello specchio vuoto: così la chiama Ferdinando
Scianna, in un piccolo saggio molto saggio che esce da Laterza.
Parentesi: non gli si sta dietro, a Scianna. Ha sempre scritto molto, sulla
fotografia, ma mai come ultimamente. Lo abbraccerei, Scianna, quando fa passare
con la sua colta semplicità anti-intellettuale cose che, quando le scrive uno come me,
riceve contumelie da fotografi offesi nell’orgoglio. Per esempio:
“Si dice che il fotografo fa le fotografie, ma è un abuso linguistico. [...] Il fotografo
non rappresenta, si limita piuttosto a manipolare uno strumento che permette di
registrare l’immagine. [...] Noi fotografi siamo dei recettori, siamo degli interpreti, dei
lettori”.
Bravo Ferdinando, diglielo tu, almeno ti ascolteranno.
E mi fa anche un po’ rabbia, Scianna, perché scrive benissimo, apparentemente
senza sforzo, come fotografa. Certe sue intuizioni trovano posto dentro tre righe ben
equilibrate e chiare come dentro il mirino della sua Leica. Per esempio:
“Tutti hanno diritto al loro quarto d’ora di celebrità, profetizzò Andy Warhol. Il guaio
è che non ci sono abbastanza quarti d’ora per tutti”.
Fine parentesi. Sì, non c’è abbastanza celebrità per tutti, sui media, la promessa
di Warhol era stata troppo generosa. Ma un dio vendicatore è arrivato a fornire un
buon surrogato dell’illusione di notorietà. E dunque pubblichiamo la nostra faccia sul
Web, e la disseminiamo potenzialmente a qualche miliardo di nostri spettatori.
Pochissmi dei quali la vedranno, e quei poch per pochi second, ma facciamo finta
di non saperlo e aspettiamo il conforto dei like, spiccioli di popolarità, lenitivi
dell’insicurezza.
Al Narciso di massa basterebbe questa fallace sensazione. Ma anche lui
comincia a capire che non c’è bisogno di essere su Snapchat per vedere i nostri
speranzosi avatardissolversi subito, perdersi nel flusso gigantesco delle imamgini e
quindi dimenticati dopo pochi istanti perfino dai nsotri amici. “Come un certificato di
esistenza in vita che duri solo qualche secondo, il tempo minimo per ricominciare a
fuggire”, dice Scianna.
Senza essere apocalittico - non è nella sua natura di intellettuale della Magna
Grecia – questa volta Scianna apre, mi pare, uno spiraglio sul lato oscuro della
condivisione di massa, ubiqua e omnidirezionale, della fotografia privata nell’era del
Web.
L’immagine di un’umanità di Narcisi in posa angosciata davanti allo specchio che
non rimanda più nessuna immagine soddisfacente ha qualcosa di angoscioso: l’ombra
della solitudine che si allunga proprio sul massimo dell’esposizione sociale.
È l’effetto perverso della sovrapproduzione di immagini del sé: “Nessuno può
guardare con interesse qualcuno che sta perennemente in posa, soprattutto se è a sua
volta occupato a stare in posa pure lui” (ecco, accidenti, questa è un’altra delle sintesi
che ti invidio, Ferdinado…).
Non sappiamo bene dove ci porterà la deriva della condivisione compulsiva dell’Io.
69
Ma Scianna ha intravisto qualcosa. Non si tratta solo di farsi un bel ritratto per piacere
agli amici e avere tanti like.
C’è qualcosa che queste immagini stanno cambiando nel nostro approccio con la
realtà, soprattutto con quello che della realtà non ci piace (compresi, a volte, noi
stessi).
Ma su questo credo tornerò presto.
Tag: Autoritratto, Facebook, Ferdinando Scianna, Narciso, selfie
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Commenti
Berger, l’angelo della fotografia
di Geoff Dyer da http://www.lastampa.it/
Un rapporto costante con la pittura e il disegno ispirato da una ceramica di
Luca della Robbia
John Berger Capire la fotografia” pp. 190, € 19,90
GEOFF DYER
Non ho cominciato a interessarmi di fotografia facendo o guardando fotografie,
ma leggendone. Il nome dei tre scrittori che mi hanno fatto da guida non
coglierà certo di sorpresa: Roland Barthes, Susan Sontag e John Berger. Ho
letto Sontag a proposito di Diane Arbus prima di aver visto una sola foto di
Arbus (in Sulla fotografia non ci sono immagini ), Barthes su André Kertész e
Berger su August Sander senza conoscere una sola fotografia oltre a quelle
poche riprodotte in La camera chiara e Sul guardare . (Il fatto che la foto sulla
copertina di Sul guardare fosse attribuita a un certo Garry Winograd per me
non aveva il minimo significato.)
Per tutti e quattro la fotografia era un campo di particolare interesse, ma non
uno specialismo. Non affrontavano la fotografia con l’autorità dei curatori o
degli storici del mezzo, bensì come saggisti e scrittori. I loro scritti
sull’argomento non erano tanto frutto di un sapere accumulato, quanto
70
testimonianze attive del modo in cui conoscenza e comprensione erano state o
stavano per essere acquisite.
È particolarmente evidente nel caso di John Berger, che non ha dedicato un
intero libro all’argomento fino ad Another Way of Telling, nel 1982. In un certo
senso, tuttavia, era proprio lui quello la cui formazione e la cui carriera
portavano più direttamente alla fotografia. Sontag aveva seguito una
traiettoria piuttosto istituzionale di studi accademici prima di diventare una
scrittrice freelance, e Barthes è rimasto all’interno dell’accademia durante la
sua intera carriera. La vita creativa di Berger, peraltro, aveva radici nelle arti
visive.
Abbandonando la scuola posseduto da un’unica idea – «Voglio disegnare donne
nude. Tutto il giorno.» –, aveva frequentato la Chelsea e la Central School of
Arts. Nei primi anni Cinquanta del secolo scorso cominciò a scrivere d’arte e
diventò un critico abituale – iconoclasta, marxista, molto ammirato, spesso
deriso – per il New Statesman. Il suo primo romanzo, Ritratto di un
pittore(1958), fu il risultato diretto dell’immersione nel mondo dell’arte e della
politica di sinistra. A metà degli anni Sessanta aveva ampliato il suo raggio ben
al di là dell’arte e del romanzo per diventare uno scrittore non intralciato da
categorie e generi. Di cruciale importanza, per il nostro ragionamento, è che
avesse cominciato a collaborare con il fotografo Jean Mohr.
Il loro primo libro, A Fortunate Man (1967) fu un significativo passo avanti nel
solco tracciato dall’opera pionieristica di Walker Evans e James Agee, Sia lode
ora a uomini di fama (1941), sulla povertà rurale durante la Grande
depressione. (A Fortunate Man ha come sottotitolo «Storia di un medico di
campagna», in omaggio, si presume, al grande saggio fotografico di W. Eugene
Smith, Il medico di campagna, pubblicato su Life nel 1948). Il libro fu seguito
dal loro studio sul lavoro migrante, Un settimo uomo (1975), e, qualche tempo
dopo, daAnother Way of Telling. La cosa importante, in tutti e tre i libri, è che
le fotografie non sono lì ad illustrare il testo, e, per contro, il testo non è inteso
come una sorta di ampia didascalia per le immagini. Respingendo quella che
Berger considera una specie di «tautologia», parole e immagine esistono,
piuttosto, in un rapporto di mutua integrazione e potenziamento reciproco. Si
stava forgiando e rifinendo una nuova forma.
Barthes ha descritto il primo impulso a scrivere La camera chiara in questi
termini: fotografia «contro cinema»; gli scritti di Berger sulla fotografia si
incardinano sul suo rapporto con la pittura e il disegno. Invecchiando, la sua
prima formazione – nel disegno – invece di perdere d’importanza è diventata
sempre più uno strumento fidato di ricerca e di indagine (è significativo che il
suo libro più recente, pubblicato nel 2011 e ispirato in parte da Spinoza, si
intitoli Il taccuino di Bento). In un passaggio emblematico di My
BeautifulBerger racconta di essersi imbattuto, in un museo di Firenze, nella
testa in ceramica di un angelo di Luca della Robbia: «Ho fatto un disegno per
cercare di capire meglio l’espressione del suo volto». Che possa rientrare nella
passione di Berger per la fotografia? Non solo perché si tratta di un modo
totalmente diverso di produrre immagini, ma perché è immune dalle
spiegazioni fornite dal disegno? Va da sé che una fotografia può
essere drawn (disegnata), ma come si fa a draw out (tirarne fuori) al meglio il
significato?
71
Gianni Berengo Gardin, un fotografo di classe.
da http://borful.blogspot.it/
Berengo Gardin guarda Ugo Mulas, GAM Torino. ©2008 Fulvio Bortolozzo.
Da più parti ultimamente salgono voci a criticare le varie dichiarazioni di Gianni
Berengo Gardin (classe 1930) sulla fotografia vera o presunta, sul digitale,
sull'arte e via dicendo. Indignazioni, repliche, stracciar di vesti di ardenti
sostenitori delle tesi opposte. Bene, scusate il francese, ma mi sono rotto le
palle di sentir tutto questo agitarsi di scudi contro un signore che ha raggiunto
un'età veneranda dopo una vita da fotografo, quando fare il fotografo era un
mestiere come un altro. Questo è il vero punto, ora che in troppi per avere una
fotocamera in mano si considerano artisti, autori, intellettuali prestati, docenti
incaricati.
Gianni Berengo Gardin è un uomo che tutto solo soletto si è inventato da zero
un lavoro che gli piacesse, in epoche in cui il lavoro che non ti piaceva, ma ti
manteneva a vita, era elargito con una certa abbondanza. Con la sua
fotocamera ha ideato, realizzato e pubblicato, cercando non senza fatica la via
economica di volta in volta giusta e senza rubare nulla a nessuno, centinaia di
libri. In Italia, quando era già GBG da decenni, nessuno voleva pubblicargli il
lavoro sugli zingari, andò a cercare all'estero e in Germania trovò un editore
che lo pubblicò e così prese il Premio Oscar Barnack 1994. Ha pushato the
button milioni di volte, l'ho visto a Biella, nel 2005 mi pare, con il pollice
slogato e il motore sotto la Leica per poter continuare a scattare.
Cosa dica Gianni oggi sul digitale, sul colore, sugli artisti semplicemente NON
MI INTERESSA. Sarebbe come chiedere ad un bravissimo artigiano brianzolo
del legno di discettare sull'arte contemporanea. Gianni parla da sempre con il
suo operaismo, con il suo uscire a fotografare ogni santo giorno, come uno va
alla FIAT a montare auto. La quasi totalità di chi lo critica non ha fatto, e non
farà mai in vita sua, la millesima parte del lavoro che ha fatto invece Gianni.
Gianni lavora come gli operai di una volta, quelli della ormai dimenticata
"classe operaia". Questo da sempre dice non con la bocca, ma con le braccia
72
che impugnano la macchina, e lasciamo stare l'occhio, la mente e il cuore che
è roba da borghesi parigini che poi si stufano e appendono la macchina al
chiodo per mettersi a fare disegnini qualsiasi.
La storia delle mostre (di fotografia) in un libro Contrasto
di Marco Enrico Giacomelli da http://www.artribune.com/
Da qualche anno è diventata una disciplina nota e percorsa anche da studiosi
italiani (Roberto Pinto, ad esempio): parliamo della storia delle mostre. Ora
Alessandra Mauro dedica un volume Contrasto alla storia specifica delle mostre
di fotografia, colmando un vuoto importante. L'abbiamo intervistata.
Photoshow. Le mostre che hanno segnato la storia della fotografia
Cosa differenzia la curatela di mostre fotografiche dalla curatela di
mostre d’arte visiva in senso “ampio”?
La fotografia spesso rappresenta un modo di essere nel mondo e di raccontare
la realtà, pur se in modo parziale, o magari filtrato attraverso le esperienze e
le sensazioni personali. In genere, quindi, le mostre di fotografia insistono di
più su un aspetto narrativo. Si costruisce una mostra di fotografia come un
vero racconto e le fotografie, una dopo l’altra, ripercorrono a volte reportage
interi o anche sequenze comunque significative dove le immagini si sorreggono
una con l’altra.
La mostra fotografica per sua natura tende a rispecchiare questo carattere
narrativo, cercando quindi di “dimostrare” al visitatore l’importanza di una
visione, di un aspetto del reale finora mai osservato, di un’esperienza toccante
e straordinaria di un autore. Anche nella mostra di Henri Cartier-Bresson,
inaugurata qualche giorno fa a Roma, questo lavoro di continua rifinitura sul
73
layout è evidente.
La mostra del 1955 The Family of Man può essere considerata
nell’ambito fotografico l’equivalente dei Magiciens de la Terre?
Il paragone è molto interessante. Per certi versi, le due mostre possono essere
avvicinate, soprattutto per quel che riguarda la centralità del curatore più che
degli autori e per una pretesa di complessità esaustiva.
Ma nella preparazione de Les Magiciens de la Terre si partiva comunque da una
selezione ristretta di autori da coinvolgere mentre The Family of Man, almeno
sulla carta, intendeva coinvolgere tutti, professionisti come amatori, nel
racconto della vicenda umana attraverso la fotografia. Proprio per questo,
Steichen con il suo comitato passò molto tempo a vagliare le immagini che
erano state mandate da tutto il mondo, non solo dai fotografi affermati. Poi
certo, come sappiamo, in mostra comparirono quasi solo immagini di
professionisti.
Le prime mostre di fotografia nella storia e le più rilevanti.
Raccontacene un paio in poche righe.
Le prime mostre di fotografia sono quelle che vengono organizzate nell’estate
del 1839 a Parigi, prima che il Senato (agosto 1839) decida di acquistare da
Daguerre il brevetto. C’era bisogno di convincere che la tecnica era giusta, che
l’innovazione era strabiliante. Insomma, c’era bisogno di “mostrare” la
fotografia. Ecco che due piccole mostre, nel giugno e nel luglio 1839,
contrappongono due metodi e due attori, Daguerre e Bayard, che si
contendono il primato dell’invenzione fotografica in terra di Francia. Le mostre
più rilevanti sono forse quelle che hanno accomunato nel modo più forte le
immagini e il sentimento degli uomini. Penso alle grandi mostre collettive.
Come The Family of Man del 1955, quando dopo la Seconda guerra mondiale si
vuole tentare con la fotografia di indicare una nuova unità del genere umano –
uguale a ogni latitudine e uguale nei suoi sentimenti primari (amore, dolore,
vita, morte, cibo…). Oppure a here is new york, quando, dopo la tragedia
dell’11 settembre, si decide di realizzare una mostra -manifesto chiedendo a
tutte le persone di New York di inviare le proprie fotografie di quei giorni. La
mostra diventa così un riconoscimento collettivo, in nome della fotografia, della
tragedia che si sta vivendo e, attraverso questo riconoscimento, può nascere
una nuova identità che può aiutare a dare vita a un nuovo inizio. Un inizio che
è anche estetico.
The Family of Man, 1955
Uno dei saggi del volume che hai curato è sulla Guerra di Crimea: che
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ruolo ha la fotografia durante i conflitti?
Con la Guerra di Crimea la fotografia entra sullo scenario della lotta. E da allora
in poi, i fotografi sono chiamati a raccontare, spesso “embedded”, quel che
vedono. La fotografia come strumento di propaganda è stato sempre presente
per cercare di indirizzare l’opinione pubblica. Ma, ugualmente, il fronte di
guerra è anche l’evidenza della storia nel suo farsi, il momento in cui l’uomo
arriva al culmine di quel che sente e quel che è. Insomma, un appuntamento
che la fotografia non può perdere in nessun modo.
Quale ruolo rivestono le pubblicazioni di fotografia, siano esse
periodici o libri? In taluni casi si possono considerare “mostre su
carta”?
Non credo che le pubblicazioni possano essere considerate mostre su carta.
Possono essere delle guide, degli ausili, ma il medium è diverso. Così come è
diverso il movimento del visitatore da quello del lettore. Il lettore è fermo ed è
concentrato. Il visitatore si muove in uno spazio, può essere distratto da mille
cose e il curatore deve riuscire a fargli mantenere la concentrazione; deve
prenderlo per mano in una passeggiata che è come un cinema al contrario: qui
è lo spettatore a muoversi invece delle immagini.
Allestimento come opera d’arte: il saggio è firmato da Francesco
Zanot, ma ci spieghi di cosa si tratta?
Si tratta dell’altra faccia del saggio su Peress e Salgado: quando il fotografo
diventa curatore e pensa a un progetto che fin dalla fase dello scatto ha come
fine un esito espositivo. Il fotografo può essere fotogiornalista, e la sua mostra
può quindi parlare della guerra o di altre emergenze sociali, oppure può
sentirsi più vicino agli artisti e allora il suo sarà un progetto più personale ma
che ugualmente non è il frutto dell’idea di un curatore ma, appunto, nasce già
nella fase di scatto del fotografo.
Happening, performance ecc.: qui il ruolo della fotografia non si limita
alla documentazione di eventi d’arte. Cosa diventa? Ad esempio, le
fotografie delle performance di Vanessa Beecroft sono considerate
opere della stessa Beecroft, senza alcun credit per chi scatta. Qual è la
tua opinione in merito?
Lo statuto della fotografia è ibrido. Questa è la sua forza e insieme la sua
fragilità. E certo, il suo fascino. Visto il legame che intrattiene con la realtà, la
fotografia è insieme creazione, interpretazione e documento. Quelle di Vanessa
Beecrof sono documentazioni del suo lavoro. Possiamo dissentire sul fatto che
siano vendute come fotografie “d’arte” a firma della Beecroft, ma questo è il
mercato. Fotografie documentative di altri happening non raggiungono quelle
quotazioni perché sono firmate dall’autore dello scatto e non dall’artista che ha
ideato la performance. Ma, di nuovo, è il mercato che parla e certo, vedere il
documento di un happening non è assolutamente come averci partecipato.
Certo, altro caso ancora – da non confondere – è quando l’happening è
fotografico ed è il fotografo a realizzare la performance così come la sua
documentazione (come ad esempio Vaccari).
Il Dipartimento di Fotografia del MoMA è stato il primo in un museo.
Ha avuto una rilevanza storica fondamentale, ma ora non credi che
istituzioni analoghe rischino di trasformarsi in ghetti?
Nella conversazione che apre il volume Photoshow parlo di questo con Quentin
Bajac, responsabile del dipartimento fotografico del MoMA. La scommessa per i
musei è di andare avanti e di includere nuovi momenti e nuovi spazi per la
fotografia tenendo sempre uno sguardo vigile non solo sulla conservazione e
valorizzazione del patrimonio, ma soprattutto sulla creazione contemporanea
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che usa la fotografia in modo attuale e spregiudicato. È fondamentale che si
faccia così.
Henri Cartier-Bresson
Cosa ne pensi delle fiere di fotografia, dalla corazzata Paris Photo alla
milaneseMIA?
Credo che il Mia sia completamente diverso da Paris Photo. Non sono stata
nelle ultime due edizioni del Mia e quindi non posso parlarne. Paris Photo si sta
spostando sempre di più verso una dimensione simile alle grandi fiere d’arte,
spazzando via tutta una parte di creatività “dal basso” che invece
caratterizzava le prime edizioni della fiera e che rappresentava uno degli
appuntamenti interessanti anche per l’attenzione a un vivaio di esperienze.
Ma non dobbiamo dimenticare che una fiera non è un museo, né una mostra,
né tantomeno una biennale: situazioni che hanno il compito di presentare le
novità e gli indirizzi più suggestivi e contemporanei della ricerca. Una fiera è il
punto in cui si fa mercato: si vende e si compra. Se non si vendesse e se non
si comprasse, non avrebbe senso fare una fiera. E se Paris Photo si sta
spostando verso una direzione ben precisa, significa che esiste un mercato più
ampio, fatto di maggiori disponibilità, che può sorreggere un certo tipo di
fotografia. Non dobbiamo aspettarci da un mercato di svolgere funzioni che
invece dobbiamo chiedere ad altre istituzioni e realtà.
Photoshow. Le mostre che hanno segnato la storia della fotografia a cura di Alessandra Mauro CONTRASTO BOOKS, Pagg. 272, € 45 - ISBN 9788869654572 www.contrastobooks.com
--------------Rassegna Stampa del Gruppo Fotografico Antenore
www.fotoantenore.org
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a cura di G.Millozzi
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