E.B. -Torino alle città rivali – Tipografia Artero e Comp

TORINO
ALLE
CITTÀ RIVALI
TORINO, 1864
Tipografia ARTERO e COMP., Via Cavour N. 18
Casa del march. Della Rovere.
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I.
Piemontesi! vi accusano di municipalismo; vantatevene; gloriatevene, sì siamo municipalisti; ma il nostro
municipalismo fece l’Italia; quelle delle altre province tende a disfarla.
Che cosa è codesta accusa? ci accusate di amare sovra ogni altra cosa la terra nostra, quella che ci fu
culla, che rinchiude le tombe dei nostri padri, quella per la cui libertà ed indipendenza per secoli
combattemmo contro il ladrone Tedesco e Gallo ed Ispano versando il sangue sotto il comando di quei Re
fra cui in tante generazioni, non fuvvi un tiranno, e che di stirpe nostra, non d’origine straniera sempre
trattarono i loro sudditi qual figli, non come schiavi addetti alla terra ad essi pervenuta per dritto di
conquista?
E questa fu virtù che le città rivali ben possono nel loro cuore invidiare al Piemonte, ma non negare; e
per essa l’Italia divenne libera; da qui partì il primo grido d’indipendenza fuori lo straniero: da qui solo si
mosse contro la prepotenza austriaca un Re Magnanimo, ed al solenne bando si sa come risposero gli altri
sovrani d’Italia che lo tradirono ed abbandonarono.
II.
Nè la bandiera Piemontese fu mai bandiera di conquista ma di libertà ed indipendenza per i popoli tutti
d’Italia, e per amore di questa il Piemonte prodigò sangue e tesori; ma non rimproverateci, che abbastanza
non abbiam fatto; di più non abbiate a domandarci; nè richiedeteci ulteriori sacrificii; non basta che a
migliaia si contino i figli nostri morti nelle patrie battaglie, che non siavi famiglia, che non abbia portato il
lutto de’ cari suoi; che le immense imposte sopportate, il debito pubblico oltre le forze accresciuto, abbiano
diminuito le sorgenti di ricchezza, cagionato la rovina de’ privati, tolte le braccia all’agricoltura, ed avvilito il
prezzo degli stabili, talchè la più gran parte de’ proprietari si vide ridotta a metà e meno ancora il valore dei
suoi patrimoni; ma pretendete ancora che col trasporto della sede di governo da Torino senza necessità
alcuna e solo per soddisfare a malnate rivalità cada il Piemonte nella estrema rovina?
III.
Questo è troppo, nè tanto si può richiedere dal Piemonte: e questo non è municipalismo per ritenere la
capitale; a questa già rinunciò quando fu proclamata Roma; nè mai ebbe pretesa che in Torino rimanesse
sempre la sede del Governo; ma se vi è rinuncia a Roma e scelta di altra capitale, Torino non vuol servire al
municipalismo delle città rivali, e ad una ingiusta e rovinosa preferenza.
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IV.
Italia è nome astratto che ciascun cittadino può ben amare perchè racchiude la terra ove nacque, ma
colla rovina di questa egli non vuol sacrificare la sua esistenza, ciò è contro natura; i più grandi esempi di
amor patrio che la storia rammenti furono di municipalisti; e tali furono i Romani che miravano alla salvezza
di Roma ed i Greci a Sparta ed Atene; e fra i popoli moderni Irlandesi e Scozzesi non stimano che
l’Inghilterra sia patria loro; nè benché tutti Germani, Prussiani, Bavaresi, Austriaci, Sassoni sono disposti a
sacrificarsi per l’amore di una ideale Germania, sibbene per lo stato in cui nacquero; e non altrimenti pure
la Francia, benché uniti in una sola nazione, Bretoni, Normanni, Borgognoni, Provenzali guardano come loro
patria la provincia loro, e per amor di essa combattono; e questo è vero amor patrio, che può capire in
cuore umano; quei sentimenti troppo universali non esistono, e son mera ipocrisia; come quegli umanitarii
che fan pompa di amare il genere umano, e lasciano perire nella miseria i loro più stretti congiunti.
V.
Il municipale Piemonte, se così volete chiamarlo, creò adunque questa Italia una ed indipendente, che
voi, care province sorelle, tendete a disfare. E voi pei primi, fratelli Toscani, che cosa avete fatto a
pretendere che il Piemonte s’immoli non per l’Italia, ma per voi! Lo dice il vostro giornale la Nazione di
Firenze: «non aveste l’ambizione di aver la sede del Governo; altrimenti non avreste fatto l’annessione del
I860; il plebiscito fu pronunciato fra gli inni di gioia, e gridando con cento bocche: Immoliamo la Toscana
sull’altare della patria!» Ridicoli! Ecco quanto avete fatto. Eravate uno Stato di un milione e mezzo
d’abitanti sotto un duca Austriaco; che capitale d’importanza! ed avete avuto la bontà di far parte di una
nazione di 20 milioni: avete messo garbatamente in carrozza il gran Duca e l’avete spedito; quale rapidezza
di autonomia sarebbe stato il contrario! e ben ve lo disse il Ricasoli, cittadino di molto senno che avete fra
voi. Mettete questi vostri meriti accanto le battaglie combattute dal Piemonte, il sangue de’ suoi padri, i
milioni del suo tesoro, mentre , la dotta, la civile Firenze, la città di Crusca bazzicava coi Tedeschi; ed or
sembra che rimpianga ancora l’antico stato e la microscopica capitale del feudo tedesco, anziché la gloria
de’ padri suoi.
VI.
E tale sembra che abbia ad essere il destino delle nazioni che quanto più in alto siansi sollevate per fama di
virtù e di fortezza, di tanto più al basso debbano ricadere; e così la Grecia da Temistocle ed Aristide ad una
scuola di retori e sofisti, e sotto il giogo Musulmano ad un nido di pirati; e la capitale del Mondo da Cesare
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ad Eliogabala, e da barbari in barbari nel dominio dei preti, ed ora: Roma non più Babel de’ Papi druda.
Colle sue strane pretese adunque, coi suoi ridicoli vanti la Toscana terra di morti, di molli soldati accrescerà
la discordia fra le città d’Italia, ed il Piemonte riguarderà questa schiera d’ingrati, di Caini, non quali
concittadini, ma nemici, che cospirano alla sua rovina ed il Piemonte ha braccia e cuore.
VII.
Municipalisti voi pure, o Napolitani, che non ostante il solenne voto del Parlamento che proclamava
Roma a capitale d’Italia, pure con alte grida domandavate il trasferimento della capitale a Napoli; e
sebbene in ciò poteste avere millanta buone ragioni a petto di Firenze, ed avesse potuto anche giovare
assai più alla causa d’Italia, pur tuttavia fu spirito municipale e di rivalità al Piemonte che a ciò vi spinse;
non considerando quanto danno potesse a quello avvenirne in guiderdone degli enormi sacrificii di sangue
e di tesori per esso fatti a prò della causa stessa. Ne parlate de’ sacrificii vostri; siete usciti dal dominio dei
Borboni, eredi di quella schiatta spagnuola, stranieri tutti, che per secoli condussero il vostro bel paese
nella barbarie e nella ignoranza, per entrare nella unione italiana e per essere retti da un Governo e da un
Re Italiano, che non risparmiano a spese per attivare nelle vostre contrade tutti quei miglioramenti, che la
civiltà moderna ha portato, strade ferrate, facilità di comunicazioni, istruzione pubblica, educazione civile e
militare, e più avrebbero sinora riuscito se la cospirazione de’Borbonici e clericali non vi facesse ostacolo; e
se fossero secondati dagl’impiegati vostri, che avversi al governo gli gridano al piemontesismo, e per la loro
incapacità e mal volere rappresentano alle popolazioni per male tutto ciò che si fa in loro bene.
Voi di più irridendo ai nostri destini ci mandate fraterni saluti o cogli scherzi dei vostri prezzolati giornali
incoraggiate Torino a morire da forte — Torino deve obbedire; Pietro Micca da fuoco alla mina, e muore da
eroe. Sì a migliaia vi saranno i Pietro Micca; ma potrebbero dar fuoco a tal mina, che sconquasserebbe
l’Italia dall’AIpi al Lilibeo.
VIII.
E voi, Siciliani, avrete voi pure una capitale a rimpiangere, oppressi dai Borboni, trattati da Iloti, toltevi
tutte le vostre franchigie; soffocate nel sangue le grida dei vostri generosi, che vi spingevano a rivendicare
la libertà della vostra patria, e scuotere il tirannico giogo borbonico, siete voi pure a gridare al
Piemontesismo? E partigiani di una autonomia, che vi ridurrebbe al nulla, siete disposti a rinunciare a quella
unione italiana, che sola può rendere la nazione forte e rispettata? Ma l’approvazione vostra della fatale
Convenzione del 15 settembre ne sarebbe la conseguenza, e ne verrebbe rescisso il patto di unione per la
discordia che fra le antiche province e quelle annesse sarebbe per introdursi, e per l’odio inestinguibile che
fra esse ne sorgerebbe.
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IX.
Municipalisti voi tutti, Lombardi, e popoli dell’Emilia, che per l’odio al Piemonte, purché la capitale sia
tolta a Torino vi rimanete contenti e fate voti acchè sia per intero approvata la umiliante Convenzione. Voi
parlate pure delle cinque capitali immolate sull’altare della patria, e rammentate il paterno regime degli
Austriaci Duchini, e del Papa, e vi pare gran merito e sacrificio nell’annessione vostra al Piemonte che fece
sorgere l’Italia; di quel Piemonte che non ebbe altro compenso che imposte di sangue e di danaro; che pur
s’inchina al gran nome di Roma proclamata capitale dal Parlamento, ma freme di sdegno nel pensare, che
altra città qualunque sia a lui anteposta per farla sede di quel governo che da secoli fu in Torino, e qui
rappresentò sempre tutte le aspirazioni d’Italia; che quivi accolse e trattò come fratelli e cittadini tutti
coloro che fuggivano dagli stranieri tirannelli che li signoreggiavano; e qui ricoverarono come a sola patria
italiana; ora dai beneficii compartiti non raccolse che odio ed ingratitudine; ma il torto fatto, ma l’ingiuria
ricevuta ricadrà sul capo di coloro che l’inflissero, ed il municipalismo sia Toscano, Lombardo, Napoletano,
sia Austriaco o Papalino ha frapposto tale una barriera di sangue che impossibile sarà resa la unione delle
province animate oramai da spirito d’odio e di vendetta; il pomo della discordia fu gettato e sarà raccolto;
fu scavato l’abisso che più non verrà ricolmo.
X.
Voi però tutte città d’Italia che appunto odiate Torino e ne agognate la rovina pei beneficii che ne avete
ricevuto, che d’interno livore ed invidia vi rodete, perchè non potete negarle il primato per la superiore
civiltà, per la fortezza dei suoi figli, per la prudenza e moderazione dei suoi cittadini, per essere patria de’
grandi cui l’odierna Italia non ha nomi eguali ad opporre e culla di Regi soli di nobilissima, e generosa
schiatta italiana, valorosi in guerra, e padri dei popoli in pace, voi tutte stolte nemiche aveste almeno il
coraggio dell’odio vostro, invece di prodigarci l’insulto e lo scherno colle ipocrite lodi, che ci impartite nei
vostri giornali; non altrimenti che s’infiora la vittima che si vuol condurre al sacrificio; sentiamo la nobile, la
nobilissima Torino, la eroica Torino, la città di grandi sacrificii, la fortissima terra dei prodi, il baluardo della
italiana indipendenza, l’asilo sicuro degli esuli, soggiorno e culla del Re Galantuomo, del primo soldato
d’Italia, ecc., ecc.; dunque a tutti questi ineriti deve aggiunger quello di suicidarsi, di dar fuoco alla mina del
Micca per saltare in aria e rendervi contente? Dunque, dite voi, per tutti questi beneficii che ne abbiamo
avuto uccidiamola, conduciamola ornata e festevole al macello fra il plauso delle moltitudini, sicché taccia
alfine la voce di piemontesismo, e colla sua supremazia non sia Torino un rimprovero ognor presente a noi
della nostra abbiettezza e codardia e della mostruosa ingratitudine che annida nei nostri cuori.
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XI.
E voi redattori di giornali torinesi, vili appaltatori di menzogne, che presumete farvi organi della pubblica
opinione, e non appartenete a queste province, voi prezzolati dal caduto ministero d’infamia, che qui
giungeste umili, lambenti a far mercato della vostra penna, serpi che rifocillammo nel nostro seno, aveste
almeno il pudore del silenzio, od imparzialità a fronte dell’odipso patto che ci condanna, ma no, sfacciati, vi
fate lodatori e sostenitori dell’iniquo decreto, e con ipocrite parole spargendo il biasimo sui Torinesi,
andate predicando concordia, e rassegnazione, e raccogliete soltanto nelle vostre colonne quanto dalle
altre province vi può giungere che favorisca il vostro tema; ma nulla dite della indignazione profonda
destata nel paese, de’ propositi d’ira e vendetta che ovunque si palesano, delle conseguenze fatali che se
ne preveggono, cercate imprudenti di gettar acqua sul fuoco che cova sotto le ceneri, ma ciò non impedirà
che ad ora opportuna possa scoppiarne un terribile incendio; coi vostri articoli che vogliono essere di calma,
ma non sono che irritanti ad una popolazione sdegnata, fallite allo scopo, che pur dite sia il vostro, di
conciliazione, e più innasprite gli animi profondamente feriti dalla ingiustizia dei vostri giudizii, e gli spingete
alla resistenza; il vaso delle iniquità già trabocca pel Piemonte, e riversando può dar fonte a torrente che
commisto ad elementi che son presti ad aggiungenti e da lungo fermentano in Italia, travolgerà voi, chi vi
sostiene e per voi parteggia, assieme al paese, all’ultima rovina.
XII.
Questa convenzione che uccide il Piemonte parto de’ nemici suoi, di ministri traditori del Re e del paese,
pur diciamolo ad onta nostra, trova tuttavia quattro piemontesi che osano presentarla al Parlamento, un
Lamarmora, un Lanza, un Sella, un Pettiti. Del primo fa meraviglia che per casato, per antica divozione a
Casa di Savoia e pei prestati servigi deve amare il proprio paese; il Lanza era del partito di coloro che nel
1848 già votavano pel trasporto della capitale a Milano, primo germe di discordia, che rovinò la causa
italiana, onde non grave sforzo in lui per approvare la convenzione; gli altri due se accettarono di essere
ministri nelle condizioni presenti non è certamente per soverchia divozione al Re, o per salvezza della
patria. Piemontesi, voi che accettaste quella fatale condizione ad umiliazione e danno della terra in cui
nasceste, se il Piemonte non registerà i vostri nomi nella sua storia, accanto a quelli dei Minghetti e Peruzzi,
uccisori di popolo, certamente non si annovererà tra quei grandi patrioti che venerati andranno nell’età
futura per fortezza ed amor patrio i Bogino, i Balbo, i Priocca e Vallesa. Costoro col pugno sotto la mannaia
non avrebbero sottoscritto il patto d’infamia, ed avrebbero affrontata la morte anziché farsi complici della
rovina della loro patria; poiché le conseguenze di quello possono essere ai chiaroveggenti la guerra civile, il
giogo straniero ed il Piemonte offerto in olocausto da’ nemici suoi.
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XIII.
Noi vivevamo fidenti nella lealtà di quel Re che nato fra noi riguardavamo come padre, e ci stringevamo
attorno al trono di lui, come fecero i nostri padri, pronti sempre a presentare i nostri petti per difenderlo, e
le braccia in alto per abbattere i suoi nemici, sicuri di mutuo affetto; di quel Re che ognor preferì il bivacco
sui nostri ghiacchiai alle caccie reali ne’ parchi de’ caduti tiranni del mezzogiorno, ed i turbini delle nostre
Alpi ai zeffiri spiranti sulle sponde dell’Arno, e del Sebeto; e forte coi forti era per noi più compagno che
Sovrano. Noi tenevam fermo un patto di otto secoli, nè credevamo che umana malizia valesse ad
infrangerlo; le nostre sorti erano alligate a quelle della Augusta Casa, i cui Re non avevano che a battere il
suolo col piede per farne sorgere un’armata di soldati coraggiosi, devoti, ma modesti nel loro coraggio,
tanti eroi senza nome ed esempio al Pietro Micca e con essi dispersero le galliche schiere, e stettero
animosi e soli innanzi ai riuniti eserciti tedeschi ed ispani. Noi nella semplicità de’ nostri cuori credevamo
tutto ciò, nè dammo ascolto mai a subdole insinuazioni in contrario; fummo ingannati, cadde la benda, il
disinganno fu terribile; feriti nel cuore, l’indignazione ebbe il soppravvento, corse al labbro la bestemmia,
ma non trovò varco solito ad aprirsi soltanto ad evviva di gioia ed affetto; piangenti, smemorati, contando
le vittime giacenti sulle piazze per mano d’infami sgherri, comandati da più infami ministri, ci guardammo
attorno, e ci parve che a terra cadessero le lacerate pagine dell’antico patto fra popolo e Sovrano, le quali
nessuna arte umana più varrà a ricongiungere.
XIV.
Se dagli affetti che han maggior possanza ne’ cuori de’ privati dobbiam giudicare di quelli che pur
avrebbero a dominare nell’animo dei reggitori de’ popoli. Se dessi sentono ad un modo con noi umili
mortali; se l’amor paterno, l’affetto ai luoghi in cui abbiamo passata la nostra infanzia, alla casa in cui
nascemmo, alla famiglia che ne circonda; se la venerazione alla memoria degli avi, il rispetto alle ceneri loro
ed alle tradizioni tramandate sono pur insiti nel cuore dei Re come del più umile popolano; e quando per
avversa fortuna per prepotenza di circostanze siamo costretti ad agire contro questi naturali sentimenti,
quale strazio nel cuore, che pare si strappi dal petto; ovvero sacrifichiamo quelli per mondane mire, quanto
è il rimorso che ne consegue; oh! come da compiangere è Vittorio Emanuele, Re d’Italia; quando la
primogenita di Savoia, la dolce Clotilde, quell’angelo di rassegnazione, pronubo il conte di Cavour, che il
cuore avea di un ambizioso, fu data agli amplessi di un Bonaparte, del nipote di colui che usurpò gli antichi
Stati dei nostri Re, di colui che italiano pure fece strazio d’Italia, qual paese di conquista; ed a guerrieri suoi
affamati e laceri — Vaghi di lauro no, ma di rapina — dalla sommità delle Alpi indicava il bel paese qual
segno alle ladre imprese, di colui che a caratteri indelebili è dipinto nelle eterne pagine di Botta e di Ugo
Foscolo; oh quale dovette essere lo spasimo reale, il contrasto degli affetti pria di cedere alla ragion di
Stato, e separarsi da colei che prima gli fe’ sentire le dolci emozioni di padre; vero è che non siamo più nella
età degli Agamennoni, e dei Jefte e non fa d’uopo di velo per coprire nel quadro gli smarriti volti; una
corona adombra il tutto; e non è lontano l’esempio dell’imperatore Francesco d’Austria; ma pur si trattava
di Napoleone il Grande, e di conservare una corona non di acquistarla.
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XV.
E quando alla seconda prova dovette rinunciare al nome di sua Casa, cedere la terra avita per far l’Italia
una, abbandonare nelle mani straniere le tombe degli avi, sciogliere quel vincolo meno di sudditanza che di
famiglia, che da tanti secoli legava i Reali di Savoia ai prodi abitanti di essa, la cui fede fu sempre bianca e
pura come la neve eterna delle loro montagne, contaminata però sovente dal sangue che a rivi versarono
per difendere i loro Re; certo dovette aver presenti come a rimprovero le gloriose ombre degli antichi
Duchi, e premere l’affannato core nel seno sicché non scoppiasse nel segnare la ingrata cessione.
Sottoscrivendo infine, spinto da malvagi consiglieri, e servendo la straniera prepotenza, il fatale decreto
d’onta ed insulto alla regal Torino a soddisfazione di malnati odii municipali per rovinarla ne’ suoi più vitali
interessi, e prepararla forse al fato della Savoia, ben comprese con dolore che Torino sposata da secoli ai
suoi Re avrebbe sentito l’infamia del ripudio, e grave peso trovò la corona in fronte cui sostegno potranno
essere in avvenire le armate falangi, non il petto de’ suoi fidi per tradimento allontanati. Oh! si a vista di
tanto strazio compiangiamo V. E., e non facciamo meraviglia se all’affannato cuore, alla travagliata
memoria cerca sollievo nei ritrovi della Venaria, e nelle caccie alpine.
XVI.
Ma veniamo all’intrinseco di questa Convenzione che tanto va a sangue de’ nostri giornali
antipiemontesi; ciò che appare evidente si è che la lodano per la sola condizione che per ora abbia ad
eseguirsi, cioè la traslocazione della capitale a Firenze (almeno che pure s’intenda l’accollamento dei 4|5 del
Debito Pontificio), traslocazione che alcuni giorni prima la ministeriale, la cattedratica Opinione, quando
altro giornale già aveane parlato, dichiarava solennemente una idea pazza da non capire che nel cervello
dell’onorevole Ricciardi.
Ora la idea pazza, bislacca divenne eccellente, e se nel primo momento col coraggio civile che li
distingue non osarono affrontare la pubblica opinione, ben raccolgono tutti gli argomenti, che secondo essi
quella giustificano, e fanno gravi sermoni all’assennato popolo Piemontese acciò si persuada che tutto è
per lo meglio, e che debba in pace trangugiare quest’ultimo affronto, ed acconsentire di buona voglia alla
sua condanna.
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XVII.
Che il trasferimento della capitale a Firenze importi rinuncia a Roma non è d’uopo dimostrarlo; ciò fu
abbastanza dichiarato e nei giornali officiosi francesi, ed appare evidente dall’ultima nota del ministro degli
affari esteri, e sarebbe secondo la idea di Napoleone di riconciliare l’Italia col Papa, il che non poteva aver
luogo finchè stava la pretesa di far Roma capitale d’Italia, secondo la solenne dichiarazione del Parlamento;
cessata questa pretesa e scelta altra capitale, con promessa e guarentigia di rispettare l’integrità del
territorio pontifìcio, e farla rispettare, la cosa andava da sè, onde nessuna necessità di mantenere
ulteriormente le truppe francesi in Roma per difendere il Pontefice. E che in tal senso la Convenzione debba
intendersi, nessuno di buona fede vorrà negarlo.
XVIII.
Non potendo adunque contrastare che veramente la cosa stia così, vedete qual razza di argomento ci
mettono in campo; la Convenzione, dicono, deve approvarsi perchè non ha da essere osservata; dessa è un
passo che ci avvicina a Roma, la quale fra due anni, ritiratisi i Francesi, sarà riunita all’Italia; i Romani
faranno immantinenti una rivoluzione senza che noi, osservando la Convenzione, ci abbiamo parte, e
pronunceranno la loro annessione che nessuno c’impedirà di accettare.
Ma adagio, signori miei, con questa strana interpretazione, che vorrebbe sottintesa nella Convenzione la
malafede dei contraenti, il che mai si suppone; in questo modo sarebbe quella un indegno tranello e per
parte del nostro Governo, e dell’imperatore dei Francesi. Ora, vi dico io, la Convenzione può osservarsi e
verrà per intiero osservata a favore del Pontefice, cioè dopo due anni Napoleone vorrà o potrà richiamare
le sue truppe da Roma, il che sarà sempre incerto perchè può dipendere da futuri avvenimenti; intanto noi
trasferiamo tosto la capitale con immensa spesa, ci accolliamo il Debito Pontificio, e per la lealtà del nostro
Governo certo nulla non tenteremo contro la integrità di quel territorio, la quale difenderemo anzi dagli
attacchi che potrebbero venirgli dalla frontiera nostra.
XIX.
Si è detto e troppo detto che appena usciti i Francesi per una porta da Roma insorgerebbe il popolo, e
caccierebbe dall’altra i cardinali; lo credete voi? Io non ci credo, per quanto potesse assicurarvene
quell’invisibile Comitato, che pretende regolare i moti del popolo Romano. Ora a che si riduce lo Stato
Pontificio? Ad un mezzo milione forse di abitanti, di cui i due quinti per lo meno in Roma; e questo popolo è
da secoli educato al dominio clericale, la ignoranza, la superstizione per conseguenza deve in esso
prevalere, senza parlare del rispetto che pure inspira la religione verso il Supremo Pontefice, e che più deve
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essere in coloro profondo, i quali vi vengono continuamente in ogni maniera richiamati colle pompe
religiose e dai pulpiti, e ne’ confessionali, i quali mezzi efficacemente agiscono massime sulle donne, le
quali pure hanno grande influenza sul popolare sentimento. Fra questo popolo in tal modo allevato,
assuefatto al rispetto verso il rappresentante di Cristo, e confuso, mescolato con una schiera di preti e frati,
sarebbe follia il credere che numerosi aderenti non abbiano i principi cardinali e gli innumerevoli vescovi,
monsignori, prelati che compongono una vera armata clericale, e posseggono mezzi di ogni sorta; sicché
tanti essendo i loro dipendenti in ogni classe del popolo, che da coloro traggono la sussistenza, non è
probabile questa concorde risoluzione di popolani che li spinga ad una rivoluzione contro il Papale Governo,
il quale troverà al certo anche tra quelli numerosi difensori e partigiani.
XX.
Ammessa poi anche la possibilità di una rivoluzione che non potrebbe essere che parziale, non ha forse il
Papa, durante i due anni in cui deve ancora durare l’occupazione francese, tutto il tempo a prepararsi e
comporsi un’armata più che sufficiente a prevenire e soffocare qualunque seria rivolta contro l’autorità
sua, siccome porta la Convenzione stessa? E siate certi che non gli mancheranno i battaglioni e spagnuoli ed
austriaci, i quali, mutate vesti, indosseranno la insegna papale; nè volontari belgi, francesi e di altre nazioni;
comandati da capi fanatici e spinti più dall’odio all’Italia che per difesa del Papa, i quali accorreranno ad
ingrossare quell’esercito numeroso abbastanza ad assicurare il dominio temporale del Papa, nel che verrà
pur potentemente aiutato dalla Francia; e sollevate le finanze pontificie dal peso del debito pubblico, e col
denaro di San Pietro potrà provvedere al mantenimento dell’esercito raccogliticcio e fornire tutto il
materiale occorrente ad attivarlo.
XXI.
E neppure avrà il Papa a temere esterni attacchi di partito rivoluzionario; le imprese di Marsala non si
rinnovano; non sempre e popoli e soldati cospirano ad uno stesso fine; e si ha un capo come Garibaldi
fornito da ogni parte de’ necessari mezzi a condurre a bene l’impresa; nè i vascelli inglesi facilmente si
troverebbero colà pronti a facilitare e proteggere uno sbarco, ma piuttosto flotte spagnuole, austriache ed
anche francesi, che guarderanno il littorale pontificio da ogni temeraria impresa di partito, la quale non
servirebbe che ad uno spargimento di sangue senza pro alcuno per la causa d’Italia. Laonde è necessario
conchiudere che la Convenzione del 15 di settembre è cosa seria, ch’essa verrà dalle parti osservata e fatta
osservare, che Roma non sarà nostra nè dopo due anni, nè in seguito; e che intanto senza necessità alcuna
incontriamo le spese del trasferimento della capitale a sfregio e danno di nobilissima città, ed accresciamo
le discordie municipali cospiranti contro la italiana unità.
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XXII.
Già abbastanza si è parlato di questo pretesto di ragioni strategiche opportunatamente inventate per
giustificare il trasporto della capitale a Firenze; e la insussistenza di quelle si mostrò così palese da non far
d’uopo di dimostrarla; or dunque in questi due anni si è contro la Francia che volete premunirvi, dacché da
quel lato soltanto in caso di guerra potrebbe venire un attacco contro Torino; ed è contro Napoleone con
cui convenite, il vostro fido alleato, e protettore, che vi preparate alla difesa? Imperocche quanto agli
austriaci soli nostri nemici e contro cui può esservi probabilità di una guerra, prima che dalle sponde del
Mincio abbiano condotto un esercito a Torino, dovranno aver occupato Milano, valicato il Ticino, e gli altri
fiumi che ci riparano, e noi con un’armata di 400 mila soldati non saremmo capaci ad arrestarli? Con una
popolazione militare loro avversa, con un guardia nazionale numerosa, bene istruita, valente e pronta a
versare il sangue a difesa del paese natio?
E quale è quell’esercito tedesco che vorrà avventurarsi nella ristretta valle del Po lasciandosi dietro
Casale, Alessandria, Piacenza ed altre fortezze in un paese nemico, con un’armata nazionale di fronte, ed
un’altra pronta a sbucargli alle spalle appoggiata alle suddette fortezze, col prospetto in caso di rovescio, di
con aver pure alcun varco alla ritirata pel riparo dei monti che chiudono la nostra valle? E ben Io disse il
vecchio generale Hess all’imperatore Francesco, quando interrogato sull’impresa comandata a Giulay di
occupare Torino, risposegli che ben conosceva la via che conduce a Torino, ma non quella per uscirne. E
non osò pure lo stesso Giulay trattenuto sulla Sesia dall’allargamento della Lomellina, e benché la nostra
armata non giugnesse pur anco alla metà della sua, e fosse accampata sulla destra del Po verso Casale ed
Alessandria e quando non erano ancor discese le truppe francesi in nostro aiuto. Talchè appena informato
del movimento dell’armata franco-sarda pel novarese verso il Ticino ritirossi in furia per Mortara e
Vigevano, dietro la linea di quel fiume, che transitarono in un giorno 90 mila uomini, lasciandosi dietro ed
abbandonando immensi approvviggionamenti; tanto era la paura di essere prevenuto dall’armata nemica,
che superiormente avesse attraversato il Ticino.
XXIII.
Laonde anche sotto il punto strategico la posizione di Torino, oltre il coraggio dei suoi abitanti, soldati
tutti, è tale che nessuna armata austriaca vorrebbe avventurarsi nella sua valle col nemico minacciante alle
spalle appoggiato a fortezze di primo ordine, e coll’evidente pericolo di vedersi tagliata la ritirata; per cui
abbastanza sicura si è in quella strenua città la sede del governo come sempre fu mantenuta. E qualora poi
per i casi della guerra si volesse credere seriamente minacciata, non abbiamo Genova, la superba città dei
Dogi, degli immensi palagi, coronata di fortezze inespugnabili capaci a contenere una intera armata, nella
quale in 24 ore può venir traslocato e Governo e Parlamento? Si vorrà forse fare alla posizione di Genova
qualche obbiezione strategica? Con un’armata appoggiata ad Alessandria da una parte ed a Piacenza
dall’altra vi è forse a temere un attacco per terra dagli austriaci, oltre al riparo dei monti che la proteggono,
i quali non danno passaggio ad un’armata d’invasione, e facili a difendersi; od avessimo forse a paventare
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un bombardamento dalla flotta austriaca? Siamo forse a tanto che la flotta nostra non sia capace e per
numero e per bontà di respingere in mare qualsivoglia austriaca aggressione?
XXIV.
Quanto alla sicurezza di Firenze come capitale, e sede di governo pel riparo degli Appennini; non sono
questi certamente insuperabili dagli austriaci non essendovi passaggio difeso da fortezza, ed essi padroni
del passaggio del Po pel mantovano possono quando che sia invadere la Toscana, se loro non viene
opposto un esercito a difesa, e quindi ritirarsi in caso di rovescio, rivalicando il Po, nel mezzo del loro
famoso quadrilatero.
Non vi fidate dunque, o Toscani, nella vostra tanto sicura strategica posizione, e preparate le braccia ed i
cuori, ma non siamo al tempo dell’assedio di Firenze, e di Ferrucci non avete abbondanza, meschinelli! I
venti degli Apennini son lieve soffio alle tremende tempeste delle Alpi, la valanga che ne precipita distrugge
cittadi, e castella; e l’onda del Re dei fiumi è amaro veleno ai Gallici, e Tedeschi armenti, più soliti ad
abbeverarsi alle dolci e piacevoli acque dei rivi d’Etruria.
XXV.
Questa condizione del trasporto della capitale fu dessa imposta da Napoleone per accedere alla
convenzione dello sgombro di Roma, come direbbero le nostre spiegazioni ministeriali, ovvero fu offerta dai
ministri stessi per ottenere l’imperiale concessione come apparirebbe piuttosto dai giornali officiosi
francesi? Dicesi che dopo intesa la convenzione, abbia Napoleone soggiunto; ch’eravi tuttavia una
condizione ad aggiungervi, ed interrogato se si trattasse di qualche cessione di territorio abbia detto di no,
ma volere una guarentigia nel trasferimento della capitale a Firenze al che i nostri eccellentissimi avrebbero
tosto aderito; ma dubitando del reale consenso, ciò abbia dato motivo al viaggio di Pepoli e Menabrea, che
non seppero, oppure neanco cercarono di persuadere Napoleone a rinunciare a condizione siffatta,
sebbene al re nostro male accetta.
Se la cosa sta in questi termini, come appare verosimile, si fa palese che la esigenza della traslocazione
della capitale non fu per guarentigia della obbligazione assunta per parte nostra di non attaccare in nessun
caso il territorio pontificio, anzi d’impedire ogni aggressione che contro esso fosse diretta dal partito
rivoluzionario, giacché ciò si poteva adempiere dal nostro governo, sia che risiedesse a Torino che a Firenze
dipendendo solo dalla buona fede del medesimo, ed in ogni caso avrebbe dovuto eseguirsi per mezzo di
forze di cui poteva disporre tanto da una città, quanto dall’altra, pertanto non può altrimenti intendersi che
qual rinuncia alle nostre pretese di aver Roma per capitale poco doveva importare a Napoleone che la
provvisoria capitale fosse a Torino ovvero a Firenze, purché rimanesse sicura, ritirate le truppe francesi, la
integrità dell’attuale territorio pontificio al che bastava l’osservanza della convenzione, ma apponendoci
l’obbligo di scegliere altra capitale, e di smentire alla solenne dichiarazione del Parlamento, ne seguiva che
noi non avevamo più interesse alcuno d’andare a Roma, cui avevamo rinunciato per assicurare il dominio
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temporale del Papa, e che la questione romana era risolta, o sepolta come vuolsi, se non fosse che questa
esigenza di nuova scelta di capitale e di sede di governo a Firenze non possa riguardarsi come la
preparazione di un disegno da maturarsi in seguito nella mente imperiale riguardo al Piemonte.
XXVI.
Comunque, per quanto grandi siano i servigi che Napoleone ha reso alla libertà ed indipendenza d’Italia
non è meno umiliante per noi il subire da un Sovrano estero una condizione che ci obbliga a cambiare la
Sede del Governo, e a scegliere una capitale; tali determinazioni non possono essere che oggetto di
questione interna, cui nessuna straniera influenza deve aver parte; Napoleone stesso rispettando la
indipendenza di un Governo da lui riconosciuto, non avrebbe dovuto nè imporla nè suggerirla, ed i nostri
ministri gelosi della nazionale dignità avrebbero dovuto rifiutarla; quand’anche non avessero preso in
considerazione le dannose conseguenze di essa la scelta della Sede del Governo è di prerogativa reale, di
quello nelle cui mani, secondo lo Statuto, sta il potere esecutivo, e che dovendo comandare ed
amministrare deve poter scegliere il luogo che più opportuno crede al Governo, che gli è riservato, ed ivi
convocare a norma della Costituzione i corpi legislativi; dessa è tal questione da non sottoporsi pure al
Parlamento, se non fosse di quella finanziaria; che può esservi annessa. I ministri che subirono od offrirono
questa inopportuna traslocazione di capitale furono improvvidi, o traditori, mossi da spirito municipale, ed
infetti di quella malaugurata piaga del piemontesismo; evocarono la discordia in Italia che mai più verrà
sedata fra le antiche e le nuove province, diedero ansa al partito di azione, alienarono dal Re i suoi più fidi e
antichi sudditi; rinunziarono alla questione romana contrariamente al voto del Parlamento; e servendo alla
volontà imperiale non capirono i futuri disegni che si celavano sotto la mal consulta Convenzione.
XXVll.
E delle terribili conseguenze ebbero la minima previdenza questi prudenti reggitori di Stato? i loro
giornali parlavano con una ammirabile tranquillità al popolo torinese, siccome ad un ragazzo docile, che
pare non voglia sottomettersi con buona grazia alla imposta penitenza; e non si vedevano intorno
l’agitazione popolare che fremeva, e tanta fiducia dimostravano nel senno de’ Torinesi, che incapaci li
credettero di alcun eccesso, benché cosi indegnamente provocati, nè ciò era per sfilza che ne facessero, ma
perchè in essi la moderazione, la longanimità genera disprezzo, come appartenenti a province di vili e
turbolenti assassini col pugnale; ed il Pepoli, a chi gli parlava di qualche moto popolare de’ Torinesi, diceva
nulla non temere, che altrimenti però se fossero Romagnoli; e madama Peruzzi era così fidente sulla
riuscita del marito ministro, che dicesi apertamente proclamasse che desso si sarebbe piuttosto fatto
tagliare la testa, ma che la capitale sarebbe trasportata a Firenze. Talmente s’illudevano, e se non giugneva
a tempo il licenziamento degl’indegni ministri a calmare l’ira popolare, e la brama di vendetta, e la nomina
del Lamarmora, in cui il popolo aveva fiducia, chi vuol dire che sarebbe succeduto a Torino nella giornata
del 23 settembre, mentre dalle province vicine già erano accorsi drappelli di armati cittadini; ed in questo
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popolo ogni cittadino è soldato e per legge e per mestiere, ed è avvezzo alle armi sin dall’infanzia. Che cosa
sia questo popolo torinese potevate giudicarne dalla nobile risposta fatta dal marchese di Rorà al
ministeriale Mercurio, che veniva ad esso per trattare di compensi; che Torino ben poteva sacrificarsi, ove
ciò veramente richiedesse la salvezza della patria, ma non vendersi a peso di milioni; ed alla nobile risposta
unanimi applaudirono gli egregii consiglieri municipali; e si che la maggior parte di essi è composta di
cittadini, che per cariche coperte, per eminenti servigi, per senno, per natali non soffrono paragone con
quella eletta schiera, che con tanta spensieratezza e tracotanza si chiamavano consiglieri della corona, e
supremi amministratori dello Stato; e la deputazione di quelli, con a capo il sindaco Rorà, Ubaldino Peruzzi
avrebbe ricevuto col sigaro in bocca, e con superbi modi avrebbe detto loro che non si tratterebbe mai di
demissione di ministri, che avevano per essi la forza, e i cannoni pronti a spegnere colla mitraglia
qualunque moto popolare dei Torinesi; sensi e parole degni di colui che sguinzagliava i segugi della polizia
contro una inerme moltitudine.
XXVIII.
Queste adunque furono le immediate conseguenze dell’annunzio del fatto, strage di cittadini, crisi
ministeriale, incertezza di governo, diffidenza, mal volere nella popolazione, stagnazione negli affari, nelle
contrattazioni, e queste si potevano prevedere; eppure non si vollero, non si seppero ovviare. Ma chi vorrà
dire ciò che verrà in seguito quando sarà eseguita la convenzione? Ed innanzi tutto questa traslocazione di
capitale non cagionerà al certo una lieve spesa al Governo, e col dissesto, direi, colla rovina delle nostre
finanze, mentre si predicano da ogni lato economie, senza alcuna evidente necessità, per soddisfare aduna
volontà imperiale, ci sobbarchiamo a tale sopraccarico di spese, dopo tanti milioni profusi in questi anni per
provvedere i convenienti locali pei varii ministeri in questa provvisoria; nè crediate che quelle possano
essere indifferenti, e potete giudicarne da quelle a cui rilevarono per l’ampliazione soltanto delle tante
amministrazioni già qui stabilite; si dice che non saranno di grande ammontare; che intanto in questi due
anni, sempre nella persuasione di andare a Roma, si potrà provvedere, trasportando soltanto a Firenze le
divisioni di gabinetto dei ministri; ma si può durare ad amministrare in questo modo, anche per soli sei
mesi, non che per due anni; qual sarebbe l’incaglio negli affari ? quindi vi dico io, che nè in due nè in tre
anni, se ciò avverrà mai, anco ne’ vostri lusinghieri prospetti potrete stabilirvi in Roma; ed intanto
l’amministrazione dovrebbe rimanere parte in una provvisoria e parte in un’altra; laonde la intera spesa di
traslocazione è inevitabile, e ci vorranno de’ bei milioni a supplirvi, altro che risparmi ed economie.
Inoltre tutti questi impiegati di tanti dicasteri di tante amministrazioni dipendenti, il numero dei quali è
grandissimo, vorrete voi spedirli così su due piedi a proprie loro spese? non sarà necessario ed equo per
questo traslocamento in massa non richiesto di dar loro una conveniente indennità? e di questi impiegati
una gran parte hanno famiglia, hanno casa, hanno impegni qui contratti, e sarebbe una grave ingiustizia che
non siano tutti resi indenni pel fatto di questo traslocamento, oltre gli altri danni che loro possono avvenire
per tante separazioni di famiglia ed i pregiudizi nei loro interessi; del che tutto, se vorrete esser giusti,
dovrete tener calcolo per le convenienti indennità; e questa in complesso ascenderà a rilevante somma, ed
altri milioni ci vorranno a farvi fronte. Non parlo poi del danno che ne avverrà alle Finanze pel minore
reddito delle pubbliche entrate, che sarà la conseguenza della considerevole diminuzione di popolazione di
una città fiorente come Torino, ne sarà compensato dalla ristretta e povera città di Firenze inferiore di un
100 mila abitanti in popolazione.
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XXIX.
Accennammo prima alla discordia che già esistente andrà crescendo fra le antiche, e le nuove province;
e sarà questo un mezzo veramente per mantenere l’Italia una ed indipendente; già era viva questa
mostruosa piaga del Piemontesismo, derivato da malnato spirito di municipalismo, che non voleva
assogettarsi ad una primazia di Governo del Piemonte, la quale non pretesa sua, ma le circostanze gli
avevano data, dacché tutto egli fece per riunire queste sparse membra d’Italia, senza che finora non
abbiane avuto altro compenso che imposte di sangue e di danaro; ed abbia soltanto seminato benefìzii per
raccogliere ingratitudine; per distruggere quella piaga che pure avevano fomentato, soddisfare agli odii
municipali, e dar farmaco alla malata Toscana, dissero fra sé i caduti ministri, uccidiamo il Piemonte,
mettiamolo al bando d’Italia, e tutti saranno contenti, nè più avremo il peso del benefìcio; come quegli
eredi assassini, che per non dividere la eredità, uccidono i coeredi; già dicevano prima che da Torino non si
potesse governare l’Italia, come se a nostri tempi colle strade ferrate ed il telegrafo non fosse indifferente
per la facilità delle comunicazioni che la capitale colla sede del governo fosse pur anco sul Moncenisio; ma
la difficoltà di governare stava nelle vostre popolazioni corrotte ed ignoranti,avverse ad ogni disciplina, e
miglioramento e nelle barbarie e malvagità loro, che gli assassini od i briganti non sorgono per partito
politico; e ne fa prova la Vandea ed il Tirolo; che Charette ed Hofer combattevano, ma non assassinavano.
Ma il Piemonte, divenuto avversario irriconciliabile, non si distrugge così facilmente; questa è terra
d’uomini forti ed energici, e la sua influenza sarà tuttavia grandissima sui destini d’Italia, senonchè cambierà necessariamente direzione, e nel Piemonte fattosi oppositore del Governo, nell’antico Piemonte
monarchico, e costituzionale non fia meraviglia che si odano le grida Viva Mazzini e la repubblica se già ciò
non avvenne; ed il partito d’azione, troverà qui il terreno preparato per divenir centro alla rivoluzione che
sta meditando, e ben altro aiuto potrà averne da uomini di tal tempra profondamente innaspriti e feriti,
che dal rimanente d’Italia. E nell’armata persino in cui predomina sotto ogni rapporto (che altrimenti poco
conto si avrebbe a farne) l’elemento Piemontese già regna il malcontento nei valorosi soldati e capi delle
patrie battaglie, che concordi imprecano e maledicono alla fatal convenzione ad umiliazione della patria
loro; nè ciò è gratuita allegazione, ma certezza; questa fia la concordia e la conciliazione, che avete
preparato; nè verrà più ristabilita; il Piemonte fu ferito nel cuore, la piaga è profonda nè più sarà saldata; la
fiducia è cessata; il Piemonte ripagherà coll’odio, e la vendetta la malnata rivalità, che ne volle la rovina; e
vi accorgerete di questo universale cambiamento, che già si è operato, nelle prossime elezioni, e nelle
ovazioni che verranno fatte a Garibaldi, a questo generoso, e magnanimo soldato, che pur ama l’Italia, ma
detesta l’ingiustizia, e la ingratitudine.
XXX.
Ora a tutti questi malanni che vi colgono, inventori e propugnatori della famosa convenzione del 15
settembre, già cercate il rimedio, e nel trovarlo sarete validamente aiutati da Napoleone, il quale studiando
la vita di Cesare bene avrà imparato che cosa fosse la Gallia Cisalpina, e nella mente impenetrabile sta
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maturando le idee dell’immortale zio, che nato in italiana terra pure non ne sapeva la lingua, e non mai
considerò il Piemonte qual parte d’Italia 1.
Egli è abbastanza noto come Napoleone, il Grande, nel creare a suo capriccio un regno d’Italia, che poco
più comprendeva che la Lombardia, di cui colla ferrea corona cingevasi la fronte, ne tenne escluso però il
Piemonte, del quale formò cinque dipartimenti, che vennero riuniti alla Francia, e furono poi col trattato di
Parigi restituiti naturalmente al loro legittimo sovrano, il Re di Sardegna; e sì che gran lagni ne mossero
sempre gli scrittori francesi per questa mutilazione che, secondo essi, avrebbe dovuto subire la Francia, non
che per gli altri dipartimenti verso il Reno, e la Savoia, che pure le vennero tolti, e formanti sempre secondo
essi, la sua cosidetta naturale frontiera; tanto è che s’ella è cosa facile il prendere, è sempre doloroso il
restituire il male acquistato; ed i francesi entrarono facilmente nella opinione del loro Imperatore che il
Piemonte non fosse Italia, e senza pregiudicio al principio di nazionalità potesse venirne staccato; e così la
pensano anche le care nostre province sorelle, le quali, dacché mal si accorda Achille con Tersite, si
adattano benissimo a che il Piemonte abbia fatto la zampa del gatto per trarre i marroni dal fuoco. E ciò sia
detto a comprova che codesto smembramento sarebbe da una parte senza scrupolo chiesto ed accettato, e
dall’altra non male accolto per uccidere finalmente quella mala bestia del Piemontesismo.
XXXI.
Ben avrebbe detto Napoleone che per questa convenzione dello sgombro di Roma non richiedeva
compensi: ma sarebbe la stessa cosa quando altri servigi potesse far valere per aver promosso la unità
d’Italia?
Per quanto avventati e improvvidi fossero i cessati Ministri si può ragionevolmente supporre, anzi è
affatto probabile, che nelle trattative che precedettero la convenzione del 15 settembre, siasi pure parlato
della questione Veneta, richiamata l’antica promessa di far l’Italia libera dall’Alpi all’Adriatico, e che qualche
impegno, morale sempre s’intende, siasi assunto Napoleone, perchè tale questione sia pur sciolta alfine; e
ben lo intese l’Austria che nella convenzione vide una minaccia per essa.
Ora tale questione non può sciogliersi che mediante la cessione della Venezia, ovvero colla guerra, al
primo mezzo ripugna l’Austria per superbia e ostinazione tedesca, siccome contro l’onore della Monarchia
e perchè spera sempre, mantenendo un piede in Italia, di ricuperare la perduta Lombardia, rivendicarvi la
sua influenza, e ristabilirvi i duchi suoi, d’altronde l’Italia male si troverebbe in grado di pagar il prezzo della
cessione; il secondo mezzo, cioè la guerra, nelle presenti condizioni dell’Europa servirebbe mirabilmente
alle mire di Napoleone.
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Narra il Bourienne che Napoleone visitando la Università, credo di Pavia, mise in grave imbarazzo un professore di filosofia con
questa strana domanda: Qual differenza vi è tra la morte e la somiglia ? traducendo con quest’ultima parola quella francese di
sommeil, sonno; e divagando nel rispondere il professore che non aveva capito, Napoleone gli voltò le spalle, e se ne andò.
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XXXII.
Difatti col togliere all’Austria la Venezia distruggerebbe per sempre ogni di lei influenza in Italia, si
vendicherebbe della condotta di essa nella questione della Polonia e nella Danese, e del rifiuto datogli al
famoso invito del Congresso; e verrebbe a consolidare in Italia un Regno, il quale per la sua posizione
neutrale, per la comunanza di latina origine, e per gratitudine sarebbe sempre disposto a sostenere la sua
politica.
Nè avrebbe a temere di soccombere in questa lotta, la Francia è già abbastanza forte da per se stessa
contro l’Austria; che vorrassi dire quando sia unita all’esercito italiano di 300 e più mila soldati, i quali
combatterebbero per l’indipendenza della patria; e se alla Prussia prendesse la vaghezza di mettersi della
partita accanto all’Austria, ebbene tanto meglio per Napoleone; ciò gli darebbe occasione di tosto
impadronirsi dei dipartimenti sul Reno, che la Francia agogna come suoi limiti naturali, i quali la Prussia non
potrebbe difendere, nè le forze riunite dell’Austria e della Prussia sarebbero da tanto a sopraffare quelle
della Francia unita all’Italia per i mezzi immensi di cui essa dispone, e per numero ed eccellenza di soldati
sempre soliti a vincere nelle tedesche guerre che sostennero, oltrecchè l’Austria ha abbastanza in casa sua
impacci ed inquietudini per l’Ungheria, la Venezia, ed anche per le altre province, e le finanze in mal sesto
per poter disporre di tutte le sue forze, che deve tenere disseminate, e contrapporle a quelle del suo
avversario unite e compatte, e combattenti coll’ardore della giustizia della causa. Nè pure avrebbe a
temere alcun ostacolo da parte di altre potenze, che nè la Russia nè l’Inghilterra vorrebbero entrare in lizza
per aiutare l’Austria a conservare la Venezia, che pur desse già le consigliarono a cedere nello stesso di lei
interesse e per oggetto ad esse così indifferente non vorrebbero rinnovare la coalizione del 1814, senza
essere minacciate in alcun modo ed unicamente a favorire l’Austria alleata sempre dubbia e di mala fede, e
di cui fu detto aver fatto stupire l’Europa per la sua mostruosa ingratitudine.
XXXIII.
Compiuta così l’indipendenza d’Italia, scacciatone lo straniero tedesco, data una finale lezione
all’Austria, assicurata la esecuzione del programma del 1859, interrotta a Villafranca, riacquistati i confini
sul Reno; sarà allora il caso per Napoleone di pensare a compensi, ed ovvia si presenta la cessione del
Piemonte a riavere i cinque dipartimenti dovuti restituire nel 1814. E sì che vi proveranno come due, e due
fan quattro che il Piemonte non è di razza italiana, che non è che una superfetazione all’Italia, la quale
conviene recidere siccome dannosa al compimento della unità sua, che i Piemontesi anelano ad essere
riuniti à la belle France di cui già ebbero la fortuna di far parte, che egli è pericoloso per la Francia e contro
la sua politica avere un potente Stato per vicino, ed ammettere l’Italia qual grande potenza a far parte
dell’Europeo consesso; che essa ha duopo di guarentigie ecc., ecc. Ed allora Napoleone non sarà più così
tenero del potere e dell’indipendenza del Papa abbandonerà Roma al suo fato, e permetterà che ritorni
all’Italia cui appartiene, e ne divenga la capitale. Vi sarà bene qualche nota diplomatica, si faranno strilli e
discorsi senza fine nelle Camere inglesi contro l’ampliazione territoriale della Francia; ma l’Inghilterra la
grande providenza dei fatti compiuti non promuoverà al certo una coalizione europea contro la sua
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secolare rivale, e si rispetta troppo per deviare dalla prefissa regola, che quanto avviene sul continente non
merita il sacrifizio d’un uomo e di un scellino del suo, e Napoleone riderà nella sua barba delle minacce
gettate al vento, che non palesano che gelosia, egoismo ed impotenza.
XXXIV.
Ed il Piemonte piangerà la sua rovina, la perduta esistenza, male dirà alla tradita fede, rammentando
con dolore il dominio degli antichi suoi re, deplorerà la sua cecità di non aver seguito la regola che beneficia
in invitum non conferuntur; e che si deve provvedere in casa sua anziché immischiarsi negli affari altrui, solo
sollievo gli sarà il pensare alla redenta Venezia, che maggior tributo dei figli suoi ebbe a fornire per le
guerre dell’italiana indipendenza, e che più d’ogni altra provincia avea ragione di lamentare la perduta
libertà, tradita e venduta a Campoformio; e non avrà speranza che in un grande sconquassamento Europeo
da cui possa sorgere riparazione ai conculcati diritti dei popoli, e Torino consegnerà agli archivi i progetti
per la erezione di un monumentale edificio alla memoria del conte di Cavour, e sarà favorita forse di una
corte imperiale pel principe Napoleone e la nostra Clotilde di Savoia, come già pel principe Borghese e la
Paolina Bonaparte da Napoleone I.
XXXV.
Che bel colpo da maestro diranno i diplomatici decantando la politica Napoleonica; lo aver punite ed
umiliate le tedesche potenze, tronfie per le ingiuste e facili imprese ad opprimere la nobile Danimarca:
acquistati alla Francia nuovi trionfi, della quale ben fu detto che può pagare la sua gloria; raggiunto il vanto
di ristoratore generoso dell’indipendenza d’Italia, ritenuta però come vassalla e padrona delle Alpi e del
Piemonte libero d’invaderla e dominarla privata de’suoi migliori soldati, e sostituita la francese all’austriaca
influenza; fatto tacere ogni opposizione nella nazione del partito clericale a cagione dell’abbandono del
Papa e di Roma a fronte del Nazionale sentimento per la gloria acquistata, e l’aumento di territorio
restituito ai cosidetti limiti naturali, e consolidata in tal modo la sua dinastia pei successi ottenuti, a
dispetto dell’eterna nemica l’Inghilterra e delle altre potenze d’Europa. E veramente a fronte di questo
magnifico risultato che da una guerra sarebbe per ritrarre Napoleone, non è azzardato giudicio il predire
che egli possa soccombere alla tentazione per gloria sua e della Francia e per la grandezza di sua casa.
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XXXVI.
Ma intanto in questa estrema parte d’Italia per malvagia rivalità e ad eterna infamia, rimarrà divulsa, e
separata una provincia, che tutto sacrificò per l’unità di quella; e toccherà ad essa nuovamente la triste
sorte di essere condannata a straniero dominio e di dovere
… del non suo ferro cinta
Pugnar col braccio di straniere genti
Per servir sempre o vincitrice o vinta.
Questi sono i veri sensi dei piemontesi; non v’illudete, ve lo gridano abbastanza senza velo, senza
ritegno nelle città, ne’ villaggi, sulle pubbliche piazze, ne’ caffè, pe’ trivii, cittadini, contadini, donne, ragazzi,
vecchi, giovani, ne’ palazzi de’ ricchi, come negli abituri de’ poveri; chi piemontese tal pubblica voce non
riconosce e ad essa non concorda, è scemo o traditore; pensate alle conseguenze; cosa fatta capo ha.
Giammai così grave questione fu portata al giudicio dell’italiano Parlamento, grave per gli obblighi che
veniamo a contrarre colla Convenzione di cui si tratta tanto sotto l’aspetto politico che finanziario; grave
per le conseguenze fatali che possono avvenirne alla unità dell’Italia.
Ministri piemontesi, voi che dovete presentarla; pensate che non fu da voi sottoscritta, e che nessun
impegno dovete avere a quella sostenere se la credete contraria ai veri interessi d’Italia.
Senatori, Deputati, deponete alle case vostre le meschine rivalità municipali; venite colla coscienza di
uomini giusti ed imparziali; giudicate se il Piemonte così benemerito della libertà ed indipendenza d’Italia,
se la regal Torino, l’ospitale città per futili argomenti, e travisato il senso della stipulata Convenzione,
meritano lo sfregio e il danno che loro si vorrebbe infliggere, e che ben potranno subire ma perdonare ad
obbliare non mai.
E. B.
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