Il Prefazio

Capitolo I
Il Prefazio
1. Significato
Nella liturgia romana c’è il canone della messa e il prefazio che,
oggi, sono due testi distinti e separati. Il canone è costituito da una
lunga intercessione all’interno della quale è collocato il racconto
dell’ultima cena con l’anamnesi e l’offerta del sacrificio. Prima del
canone c’è il prefazio che è un rendimento di grazie che termina con il
Sanctus; il suo titolo e la sua posizione, precedente il canone, gli hanno fatto attribuire da parte dei teologi medievali il titolo e la funzione
di Prefazione, Introduzione. Ossia qualcosa che viene prima e che di
conseguenza non è molto importante, mentre è molto importante il
canone. Il termine praefatio è di origine oscura e il suo significato non
è immediato. Molto giustamente J.A. Jungmann dice che nella liturgia romana precarolingia si ignorava il principio della suddivisione in
prefazio e canone.
Non solo si intendeva per canon l’intera preghiera eucaristica
ma, molto probabilmente, anche il termine «prefazio» aveva lo stesso significato. Come prova possiamo vedere che nel Sacramentario
gregoriano il termine «prefazio» è applicato anche all’Hanc igitur
(Accetta con benevolenza) e alle benedizioni che precedono la dossologia finale.1 Per Svetonio «praefatio» era la preghiera unita al sacrificio e quindi ci sarebbe – sempre secondo Jungmann – una continuità con l’uso cristiano. Il «prae-» di «praefatio» «indica un’azio­
1 J.A. Jungmann, Missarum sollemnia, Marietti, Torino 1963, II, 84 e nota 36. Per
l’Hanc igitur di consacrazione del vescovo, cf. J. Deshusses, Le sacramentaire grégo­
rien. Ses principales formes d’après les plus anciens manuscrits, Editions universitaires,
Fribourg 1971, n. 25; per la formula di benedizione dell’uva durante il canone, cf. ibi­
dem, n. 630; per il Communicantes della messa In cena Domini cf. ibidem, n. 330, in
apparato (si tratta del ms. Ottoboni lat. 313 della Biblioteca vaticana).
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ne compiuta nello spazio davanti a qualcuno e non nel tempo, ossia
un’azione compiuta prima di un’altra»;2 allora il senso di prefazio
sarebbe questo: preghiera solenne compiuta davanti all’assemblea,3
e sarebbe equivalente ad anafora o a canone. Come dom B. Capelle, anche C. Mohrmann accetta questa spiegazione ma la considera
solo un punto di partenza per la sua ricerca che ora richiamiamo.
Nel mondo classico il verbo «praefari» designa un «sacrificio previo»
o anche, secondo testi di Svetonio, un carmen con il senso generale di «formula di preghiera solenne».4 In Tito Livio appare il senso di anteriorità nel senso di formula o «preghiera previa»5 che C.
Mohrmann sottolinea fortemente, per passare poi a un testo delle
Metamorfosi di Apuleio ove il verbo «praefari» viene usato con il
significato di dire una preghiera senza che ciò implichi alcun senso
di anteriorità: il «prae-» si confonde con il «pro-».6 Dopo aver esaminato il senso che «praefatio» ha nella retorica, C. Mohrmann passa a
illustrare l’accezione «proclamare» nella quale non è racchiuso alcun
senso di anteriorità:
Un sostantivo derivato si trova in Simmaco, Rel. ad princ. 10,5: meo prae­
fatu «per mia proclamazione». Questa evoluzione ci richiama l’uso di
Apuleio ove praefari aveva il senso di «pronunciare una preghiera».7
Dopo aver concluso che l’uso di «praefatio» nel mondo classico
non ci è di grande aiuto,8 si passa all’esame dei testi cristiani. La differenza delle conclusioni di questa studiosa, rispetto a Jungmann, sta
nel metodo evolutivo di storia della lingua che ella ha adottato.
Nell’uso cristiano il termine «praefatio» ha un significato fluttuante; non si tratta infatti di un termine tecnico prima del VII secolo nella
Jungmann, Missarum sollemnia, 84, nota 37.
Jungmann, Missarum sollemnia, 84.
4 C. Mohrmann, «Sur l’histoire de praefari-praefatio», in Ead., Études sur le latin
des chrétiens, 3: Latin chrétien et latin liturgique (Storia e letteratura. Raccolta di studi
e testi 103), Edizioni di Storia e letteratura, Roma 1965, 292s.
5 Mohrmann, «Sur l’histoire de praefari-praefatio», 293.
6 Mohrmann, «Sur l’histoire de praefari-praefatio», 295-296.
7 Mohrmann, «Sur l’histoire de praefari-praefatio», 297.
8 «Se riassumiamo i risultati di queste ricerche preliminari, constatiamo che tutti i
testi nei quali praefari è usato senza un preciso senso di anteriorità sono di data piuttosto tarda: praefari “pronunciare” è dovuto ad una evoluzione secondaria. […] Nella
lingua religiosa è soprattutto praefari che ha ricoperto un senso tecnico; se si trova il sostantivo “praefatio”, ordinariamente si tratta di un vero nomen actionis» (Mohrmann,
«Sur l’histoire de praefari-praefatio», 298-299).
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liturgia gallicana e prima dell’VIII a Roma. Nella liturgia gallicana,9
infatti, il nostro prefazio si chiama «Contestatio» (confessione) o «Immolatio», mentre nella liturgia mozarabica si chiama «Inlatio / Illatio», che sarebbe la traduzione esatta di anafora. Nella liturgia gallicana «praefatio» compare con un altro significato. Indica la monizione che precede e introduce la celebrazione. Non si pensi a una semplice didascalia. È un vero e proprio solenne invitatorio. Qualcosa di
analogo all’invitatorio dell’«Exultet» della liturgia romana col quale,
esortandoli pressantemente e con grande efficacia, si invitano i fedeli
ai giusti sentimenti di gioia pasquale; ad esso seguirà poi la benedizione o lode del cero. Questo uso è in continuità con Cipriano, il primo
autore cristiano a usare questo termine in connessione con la liturgia
eucaristica: «E poi il sacerdote, prima della preghiera, premesso [il]
prefazio, prepara l’animo dei fedeli dicendo “In alto i cuori”».10 Assolutamente in linea con questa interpretazione del vocabolo è l’uso nel
seguente testo di Sulpicio Severo; si tratta di una ragazza muta che
viene guarita da san Martino con l’uso di olio previamente esorcizzato: «E quindi benedice un poco d’olio con il “prefazio dell’esorcismo”
(exorcismi praefatione)».11
Negli esorcismi sulle cose conosciamo spesso delle formule deprecative, in linguaggio performativo, che sono dei veri e propri «indirizzi» alle cose in questione12 se pure in senso di preghiera. Nel V secolo
Fastidius chiama «praefatio» l’annuncio «sancta sanctis» col quale si
proclama ai fedeli che è per i santi che i santi doni vengono distribuiti
in comunione.13
9 C. Bernard, «Contestatio / contestata - immolatio missae - praefatio: les noms latins de la préface eucharistique en Gaule tardo-antique et carolingienne», in B. Caseau
– J.-C. Cheynet – V. Déroche (a cura di), Pélerinages et lieux saints dans l’Antiquité et
le Moyen Âge, Mélanges offerts à Pierre Maraval (Collège de France – CNRS. Centre
de recherche d’histoire et civilisation de Byzance. Monographies 23), Association des
Amis du Centre d’Histoire et Civilisation de Byzance, Paris 2006, 25-83.
10 «Ideo et sacerdos ante orationem praefatione praemissa parat fratrum mentes
dicendo: susum corda, ut dum respondet plebs: habemus ad dominum, admoneatur
nihil aliud se quam dominum cogitare debere» (De dominica oratione 31, in CCSL
3/A, 109).
11 «Dein pusillum olei cum exorcismi praefatione benedicit, adque ita in os puellae
sanctificatum liquorem, cum et linguam illius digitis teneret, infudit» (Dialogus 3,2,6,
in C. Halm [a cura di], Sulpicius Seuerus. Dialogorum libri II [CSEL 1], Vindobonae
1866, 200, l. 11).
12 Cf. ad esempio l’esorcismo dell’olio dei catecumeni nel Sacramentario gelasiano:
GV, n. 617. In questo mi dissocio da C. Mohrmann che reputa questo caso assolutamente diverso dai precedenti.
13 Epistola de castitate, citata da Mohrmann, «Sur l’histoire de praefari-praefatio»,
301s).
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Nella liturgia romana abbiamo un uso analogo nell’Ordo roma­
nus XI risalente al VII secolo o anche alla seconda metà del VI. Siamo durante la liturgia di trasmissione del simbolo ai catecumeni. La
monizione-esortazione che introduce il Credo viene qui chiamata
«praefatio symboli»;14 così pure al Padre nostro: il lungo testo esortativo che presenta ai catecumeni questa preghiera, spiegandola versetto per versetto, viene chiamato «praefatio dominicae orationis».15 Nei
sacramentari romani «praefatio» non è particolarmente presente; ciò
è spiegabile col fatto che, nella liturgia romana, diventa termine tecnico solo dopo l’VIII secolo.16 Nel Sacramentario veronense anche le
orazioni non portano alcun titolo, mentre nel Gelasiano compare già
la «Secreta» e la «Post communionem». «Praefationes» introduce il
«uere dignum» nel Sacramentario gregoriano,17 ma la cosa non ha una
evidenza tale da farci pensare a un termine tecnico già consolidato.
Da ciò che si è visto fino ad ora, non è facile trarre delle conclusioni ed è per questo che C. Mohrmann se ne astiene. A mio parere è
però possibile fare qualche tentativo. È emerso sicuramente il senso
di preghiera-annuncio solenne, durante l’azione cultuale. E. Dekkers
rileva, giustamente, che non si tratta mai di una preghiera qualsiasi,
una preghiera minore. Si tratta sempre di una preghiera fondamentale: «Poteva essere tanto la grande preghiera eucaristica, che la preghiera delle ordinazioni, un esorcismo o una benedizione. Si conosce
una praefatio uuae, una praefatio exorcismi, una praefatio palmarum,
delle praefationes ordinandi subdiaconi, ad clericum faciendum, ad
uirginem benedicendam, una praefatio lectoris, una praefatio calicis
consecrandae, etc.».18 E. Dekkers sottolinea che si tratta sempre di
quella che, oggi, si chiamerebbe la forma del sacramento. La sua analisi prosegue trovando un nesso particolare tra il termine profezia e
il termine prefazio e i testi da lui addotti sono convincenti. Eligius
Dekkers tratta di un testo di Agostino ove il termine profeta viene
14 M. Andrieu, Les Ordines Romani, Spicilegium Sacrum Lovaniense, Louvain
1960, II, 433.
15 Andrieu, Les Ordines Romani, 437.
16 Mohrmann, «Sur l’histoire de praefari-praefatio», 303.
17 Deshusses, Le sacramentaire grégorien, I, n. 1515. Nella sua notizia che papa
Gelasio «fece preghiere e prefazi dei sacramenti (sacramentorum prefationes et orationes)», il Liber pontificalis non pare dare a questo termine un significato tecnico, proprio per l’uso del genitivo plurale. Cf. L. Duchesne (a cura di), Le Liber pontificalis,
De Boccard, Paris 1981, I, 255.
18 E. Dekkers, «Propheteia-Praefatio», in Mélanges offerts à Mademoiselle Chris­
tine Mohrmann, Spectrum Editeurs, Utrecht-Anvers 1963, 190.
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reso dal latino praefator.19 Isidoro di Siviglia accetta l’interpretazione
propheta-praefator e la propone con parole praticamente identiche
a quelle di Agostino.20 Dekkers cita anche un testo di Tertulliano,
autore che, come vedremo, merita particolare rilievo. Tertulliano sta
illustrando l’annuncio della fede e in questo contesto parla dei profeti. Per spiegare che cosa essi siano, dice: «Quos diximus praedicatores
prophetae de officio praefandi uocantur».21
Quindi abbiamo, per ora, questo risultato: praefator traduce pro­
feta e praefari traduce profetare-annunciare.
Se «praefari» è l’attività del «praefator» ossia del «propheta», dalla quale questi riceve addirittura il nome, ne consegue che «praefatio» (nomen actionis di «praefari») servirà a indicare la profezia. E.
Dekkers, giunto a questa stessa conclusione, si pone la domanda se
propheteia sia mai stata tradotta con la «sua replica latina letterale
praefatio». Egli conclude dicendo di non essere a conoscenza di nessun caso di questo tipo.22
In questa linea i dati si arrestano qui e non si può andare oltre.
Siamo giunti a comprendere l’etimologia del termine prefazio che va
collegato con il termine profezia.
L’uso liturgico è andato nella direzione dell’annuncio, un annuncio fatto al popolo per introdurre un importante testo di preghiera.
2. Valore teologico
Nel prefazio della liturgia romana viene concentrata tutta l’euca­
ristia, ossia l’azione di grazie, del Canone romano. Eucaristia è atteggiamento tipicamente cristiano e l’apostolo Paolo ne fa uno stato di
vita.23 Il testo del prefazio romano, nella sua parte introduttoria, ha
un chiaro sapore paolino:
È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza rendere
grazie sempre e in ogni luogo a te Signore, Padre santo, Dio onnipotente
ed eterno, per Cristo nostro Signore.
Contra Faustum, 13,1: PL 42,281.
Etymologiarum Libri XX, VII,8: PL 82,283.
21 «Quelli che abbiamo chiamato predicatori, si chiamano annunciatori dal loro
compito di annunciare» (Apologeticum 18,5; in CCSL 1, 118). Non dobbiamo dimenticare la grande diffusione che ha avuto l’Apologeticum nella Chiesa antica.
22 Dekkers, «Propheteia-Praefatio», 193.
23 «Siate in azione di grazie (eucharistoi ginesthe)» (Col 3,15).
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Ed ecco il testo di Paolo, di cui il prefazio sembra quasi voler attuare il messaggio:
Sempre e per ogni cosa rendete grazie a Dio e Padre, nel nome del Signor
nostro Gesù Cristo.24
Con il prefazio la comunità fa salire a Dio la propria viva azione
di grazie25 della quale elenca e descrive i motivi.
Il prefazio è composto di tre parti che vanno esaminate separatamente. Ci occuperemo solo delle prime due dato che la terza, la parte
conclusiva, non è altro che l’introduzione al Sanctus con l’enumerazione delle schiere angeliche. Questa non è particolarmente legata
all’argomento in oggetto. Di conseguenza, rinunciamo a trattarla.
Nulla andrà perduto, perché la cosa verrà ripresa nell’esame della
quarta preghiera eucaristica.
2.1. Il protocollo iniziale
Il testo inizia con l’enunciazione della propria intenzione di rendere grazie al Padre, una dichiarazione d’intenti che serve a rendere
formale e solenne l’azione. Così, il dire grazie si manifesta come un
atto riflesso e meditato, consapevole di se stesso e impegnativo della
persona.
Il rendere grazie si autodefinisce «cosa buona e giusta» (dignum
et iustum), due termini che dom Botte giudica sinonimi.26 Segue un
altro binomio, «aequum et salutare». Aequum, assieme a iustum est,
compare nelle acclamazioni delle elezioni imperiali nel 237 e 238.27
«Salutare» è tradotto con «fonte di salvezza» e, in questo modo,
vuol indicare il valore salvifico del rendere grazie;28 «aequum» viene
24 Ef 5,20. Cf. anche Col 3,17: «Ogni cosa che voi facciate in parole o in opere,
tutto (sia) nel nome del Signore Gesù rendendo grazie a Dio Padre per (mezzo di) lui».
25 2Cor 9,11-12.
26 B. Botte – C. Mohrmann (a cura di), L’ordinaire de la messe, Cerf, Paris-Louvain 1953, 74 nota 1.
27 Botte – Mohrmann (a cura di), L’ordinaire de la messe, 74 nota a.
28 Credo che questa traduzione sia debitrice più della teologia che dei dati filologici. Sappiamo che il Canone romano e questa parte del testo di azione di grazie derivano
dalla liturgia alessandrina (cf. E. Mazza, Dall’Ultima cena all’Eucaristia della Chiesa,
EDB, Bologna 2014, c. 8); il testo dell’anafora di san Marco dice a questo proposito:
«tais hēmeterais psuchais epōpheles», che si traduce con «utile alle nostre anime». In
latino, questo uso di epōpheles è traducibile con salutare, che significa che è utile e fa
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interpretato come «nostro dovere»: espressione capace di rendere la
aequitas latina, che è una virtù analoga alla giustizia,29 in stretta relazione con la pietas, attributo di colui che «compie i propri doveri»30
anzitutto verso gli dei.
È immediatamente visibile il carattere giuridico di questi vocaboli e non deve stupire. Ogni popolo ha la sua cultura che non può
non influire sul suo stile di preghiera. Quando viene evangelizzata
Roma, entra nel modo di pregare della Chiesa romana tutto lo stile
e il genio della cultura romana, compresa la sua concezione giuridica
della religione. Tanto nel culto domestico quanto in quello pubblico,
un medesimo carattere dominava tutte le cerimonie. Non si tratta di
carattere morale e tanto meno sentimentale o mistico: è un carattere
giuridico.31 Come lo Ius civile regolava i rapporti tra i singoli cittadini, così lo Ius divinum regolava i rapporti tra i cittadini e le potenze
divine. Esso prescriveva tutto ciò che si doveva fare per assicurare la
pax deorum, ossia l’atteggiamento non corrucciato degli dei verso gli
uomini. Questa pax deorum è un concetto che domina tutto il pensiero religioso del romano.32 Necessariamente, quindi, il vocabolario
religioso dei romani è ricco di termini giuridici.
Introdotti nel prefazio, essi ci attestano che questo rendimento di
grazie è culto perfetto e completo e che, nel suo rapporto con Dio,
l’uomo ha svolto il proprio compito.
Tutto ciò che a Dio è dovuto, gli viene tribuito nel rendimento di
grazie.
Sotto questo punto di vista si può dire che nell’azione di grazie è
implicita una connotazione offertoriale. Proprio nel Canone roma-
bene alle nostre anime. Il salutare latino, in tal caso, ha lo stesso senso del salutare ita­
liano. Tradurre con «fonte di salvezza» vuol dire imporre a questo termine un significato teologico che, di per sé, il termine non ha e che andrebbe dimostrato. In tal modo
rettifico completamente ciò che avevo scritto nelle precedenti edizioni di quest’opera.
29 Nel latino cristiano, delle parole improntate al linguaggio giuridico soppianteranno anche i termini più usuali della lingua corrente della quale spesso mitigano il
realismo con il loro carattere solenne. Così iustitia, che si trova anche nelle Scritture,
è talvolta sostituito con il più solenne aequitas (C. Mohrmann, «Notes sur le latin liturgique», in Ead., Études sur le latin des chrétiens, 2: Latin chrétien et latin mediéval
[Storia e letteratura. Raccolta di studi e testi 87], Edizioni di Storia e letteratura, Roma
1961, 105).
30 P. Fabre, «La religione romana», in M. Brillant – R. Aigrain (a cura di), Storia
delle religioni, Paoline, Alba 1960, 274.
31 Fabre, «La religione romana», 262.
32 T. Corbishley, «La religione dei romani», in F. König (a cura di), Cristo e le
religioni del mondo, Marietti, Torino 1967, 121.
21
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no questo movimento offertoriale, implicito nel rendimento di grazie,
avrà il massimo sviluppo.
2.2. Il corpo centrale
La parte centrale del prefazio costituisce il nucleo più esteso. È di
genere narrativo ed è costituita dall’enunciazione dei motivi dell’azio­
ne di grazie. Anche qui il testo è tributario di Paolo. Il dono divino,
ossia la salvezza e la grazia, moltiplicandosi, fa sovrabbondare la nostra azione di grazie.33
Non è di nostra iniziativa che rendiamo grazie: vi siamo spinti
dall’esperienza di aver trovato grazia presso Dio, in Cristo. Questo
è il punto in base al quale possiamo dire di non essere noi autori del
nostro ringraziamento; è Dio che lo produce in noi.
La lode sulle nostre labbra è un dono, esattamente come la fede
nei nostri cuori.34 Lo stesso Paolo accomuna i due concetti:
Col cuore infatti si crede per la giustizia; con la bocca poi si confessa (ho­
mologeitai) per la salvezza.35
È possibile infatti catalogare l’azione di grazie, la lode e la confessione all’interno del medesimo ordine di cose, dal punto di vista
teologico;36 la cosa non è così semplice dal punto di vista letterario.
Non possiamo fermarci sul contenuto dell’azione di grazie dei singoli prefazi dato il loro grande numero.37 Ognuno di essi rende grazie
per qualche particolare elemento della storia della salvezza che Dio
ha operato. A volte è il particolare momento dell’anno liturgico che
diventa tema del rendimento di grazie, o con la descrizione della conversione e salvezza dell’uomo, o con la particolare sottolineatura del
mistero che si celebra. Anche se la festa liturgica che viene celebrata
non riguarda direttamente il Cristo ma, ad esempio, i santi, tra i quali
2Cor 4,15.
Non dobbiamo dimenticare che, proprio in questa parte del testo, l’anafora stessa è professione di fede.
35 Rm 10,10.
36 J.-P. Audet, La Didachè. Instruction des apôtres, Gabalda, Paris 1958, 381. Cf.
anche E. Lanne, «La liturgia eucaristica in oriente e in occidente», in Liturgia e vita,
Marietti, Torino 1980, 25-28.
37 L’edizione latina del messale del 1970 ne riporta 82; il messale del 1975 ne aggiunge altri quattro. La Chiesa italiana si prepara ad averne un numero molto maggiore con il nuovo messale di prossima edizione.
33 34 22
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primeggia Maria, madre di Dio, nondimeno il prefazio che illustra
questo particolare aspetto del mistero della redenzione è sempre teo­
centrico. Al di là della pluralità dei testi, tipica caratteristica della
liturgia romana, e al di là della loro maggiore o minore riuscita letteraria, resta il fatto unificante che l’oggetto della descrizione è pur
sempre il dono: la grazia e la salvezza che Dio ha operato. Si commemora e si racconta il dono di Dio e l’uomo risponde lodando; si loda
Dio e si loda il dono in un unico movimento interiore dato che il dono
è rivelazione e manifestazione del donatore. Lodare il donatore e il
dono significa dichiararlo gradito e accettato. Accettare il dono significa rimanere impegnati.
È la logica del dono.
La legge del dono è stata magistralmente studiata da Marcel
Mauss,38 ed è all’interno di questo dato antropologico-culturale, chiamato il «sistema del dono», che dobbiamo interpretare l’azione di
grazie dell’anafora cristiana e, quindi, del prefazio romano.
In etnologia culturale, il «sistema del dono» va sotto il nome di
potlac.39
Non intendiamo ridurre la celebrazione eucaristica al potlac dei
primitivi, ma questo può aiutarci a capire l’azione eucaristica che,
quindi, potrà essere vista come la forma più alta e, proprio per questo, il superamento del potlac stesso.
Il potlac è sostanzialmente un incontro tra persone attraverso il
dono che, appunto, serve a creare il rapporto. Non si tratta però di
un rapporto qualsiasi; è un rapporto retto da leggi particolari insite
nel dono stesso.
I doni non hanno lo stesso scopo del commercio e dello scambio nelle
società più sviluppate. Lo scopo è prima di tutto morale…40
Sono tre gli elementi che ricaviamo da questi studi di etnologia. In
primo luogo il dono non può essere rifiutato: deve essere accettato;41
il rifiuto non lascia il donatario nello stato neutro in cui si trovava pri-
38 M. Mauss, «Saggio sul dono», in Id., Teoria generale della magia ed altri saggi,
Einaudi, Torino 1965.
39 «Lo stesso potlac, così tipico come fenomeno […] non è altro che il sistema dello
scambio dei doni» (Mauss, «Saggio sul dono», 209). La parola «potlac» vuol dire dono,
almeno presso la tribù dei Chinook (ibidem, 226).
40 Mauss, «Saggio sul dono», 183.
41 «L’obbligo di ricevere non è meno forte. Non si ha diritto di respingere un dono,
di rifiutare il potlac» (Mauss, «Saggio sul dono», 222).
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ma di rifiutare il dono: il donatario è ora connotato in senso negativo
di fronte al donatore dato che il rifiuto equivale
a una dichiarazione di guerra; è come rifiutare l’alleanza e la comunione.42
Il rifiuto di accettare il dono crea un rapporto negativo tra donatario e donatore. Il dono non è neutro, o crea o rompe un rapporto. Per
creare un rapporto, il dono «deve» essere fatto;43 questo è il secondo
elemento del potlac ed è il cardine stesso del «regime del dono»; perché esista il «regime del dono» il dono va fatto, ma non si tratta solo
di un prerequisito affinché decolli il potlac. Il dono è un’esigenza dei
rapporti tra uomini: senza il dono questi rapporti degenerano e la
convivenza diventa impossibile.
Quando il dono viene accettato, nasce nel donatario un vincolo
spirituale che genera una situazione particolare. Ogni dono genera un
pressante invito a contraccambiare; questo vincolo esige che il dono
sia ricambiato.
Siamo così al terzo elemento che costituisce il «regime del dono»:
il dono deve essere ricambiato in modo adeguato.
L’obbligo di ricambiare è tutto il potlac. […] l’obbligo di ricambiare de­
gnamente è imperativo44
dato che l’assenza di contraccambio pone il donatario in una situazione di inferiorità45 e di dipendenza dal donatore,46 mentre la restituzione e il contraccambio lo pongono sullo stesso piano del donatore.
Con il contraccambio infatti, il donatario diventa donatore egli
stesso.47
Mauss, «Saggio sul dono», 174.
«L’obbligo di dare è l’essere del potlac» (Mauss, «Saggio sul dono», 217ss).
Questa necessità può essere agevolmente tradotta in termini biblici: è la necessità della
teofania come evento di salvezza. Senza la teofania l’uomo non può rispondere a Dio.
Nel Vecchio Testamento «una teofania non è mai descritta come fine a se stessa, ma
prelude sempre ad un messaggio, ad una missione o ad un atto di giudizio» (J.-L. Déclais, «Mosè sul monte di Dio», in Parola per l’assemblea festiva, n. 13, Brescia 1972,
19).
44 Mauss, «Saggio sul dono», 224.
45 Nel nostro prefazio il termine aequitas sottolinea che non c’è situazione di inferiorità e che il rapporto ha raggiunto l’equilibrio.
46 «Il dono si porta dietro necessariamente la nozione di credito» (Mauss, «Saggio
sul dono», 211).
47 Mauss, «Saggio sul dono», 281. Ottima è la sintesi di Mauss: «Se le cose vengono
date e ricambiate, è perché ci si dà e ci si rende “dei riguardi” – noi diciamo anche –
42 43 24
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Sono tutto il donatore e tutto il donatario coinvolti in questo processo del potlac: «Tutti studiano o dovrebbero studiare il comportamento di esseri totali, non di esseri divisi in facoltà».48 Il potlac è uno
di quei fenomeni che potremmo chiamare «totali»; è contemporaneamente religioso, mitologico e sciamanistico:49 in certi potlac bisogna
dare tutto ciò che si possiede senza conservare niente.50
Dobbiamo notare un altro elemento della splendida analisi di
Marcel Mauss: in alcuni casi di alcune particolari tribù, abbiamo un
solo termine per indicare sia il dono che il contraccambio, il dare e il
ricevere.51
È con questo dato che cominciamo ad applicare all’eucaristia gli
elementi ricavati da M. Mauss.
Fin dai primordi – prendiamo ad esempio i capitoli 9 e 10 della
Didachè – il termine eucaristia designa due realtà: il pane e il vino,
da un lato, la preghiera eucaristica, dall’altro. Il pane e il vino sono il
dono di Dio all’uomo, in Cristo nella sua ultima cena. Cristo stesso è
il dono di Dio all’uomo.
La preghiera eucaristica sale dall’uomo a Dio, ed è il nostro contraccambio, la nostra risposta al dono; dono essa stessa che nelle anafore della liturgia alessandrina è oggetto del verbo «offrire» e che, per
il suo nome stesso, nelle liturgie di lingua greca, si colloca nella logica
dell’offerta. «Anafora» è qualche cosa che sale verso l’alto e che viene portato a Dio.
Eucaristia: lo stesso termine per indicare due operazioni che vanno in senso opposto; l’una è discendente, l’altra è ascendente; due
operazioni che non si identificano ma che si postulano a vicenda e
appartengono al medesimo ordine di cose: il «sistema del dono».52
Il dono in contraccambio non è qualcosa di diverso e un’altra realtà, dato che non è altro che lo spirito stesso del dono inizialmente
“delle cortesie”. Ma è anche che ci si dà donando e, se ci si dà, è perché ci si deve – sé
e i propri beni – agli altri» (ibidem, 239).
48 Mauss, «Saggio sul dono», 288.
49 Mauss, «Saggio sul dono», 216.
50 Mauss, «Saggio sul dono», 212.
51 «Le operazioni antitetiche sono indicate con la stessa parola» (Mauss, «Saggio
sul dono», 205).
52 Appartengono a questo sistema tutte le preghiere romane che contengono il
termine commercium solitamente tradotto con scambio. A titolo di esempio, una preghiera tra le tante: «Exercemus, domine, gloriosa commercia: offerimus quae dedisti,
ut te ipsum mereamur accipere: per (Celebriamo, Signore, questo glorioso scambio: ti
offriamo ciò che ci hai dato, per meritare di riceverti: per)» (Ve, n. 89).
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ricevuto.53 Il carattere di risposta insito nella preghiera eucaristica è
ciò che più chiaramente mette in luce che la nostra eucaristia appartiene a questo «sistema del dono» o potlac primitivo.
Assolutamente probanti sono i due testi seguenti, tratti dalla tradizione anaforica siriaca. Nell’anafora si narra e si rivive ciò che Dio
ha fatto per l’uomo: il dono della salvezza coronamento del dono
della creazione. Di fronte a questo dono l’uomo non è in grado di
contraccambiare:
Ti rendiamo grazie anche noi tuoi servi […] perché ci hai donato la tua
grande benignità che non può essere contraccambiata.54
Quando il dono eccede le possibilità di contraccambio del donatario, l’unica possibilità di risposta è la gratitudine, ossia l’azione di
grazie e la lode:
E per tutta questa tua grazia verso di noi, ti offriamo gloria e onore nella
tua santa Chiesa davanti al tuo altare propiziatorio.55
Questo è un concetto che troviamo anche nella liturgia visigotica
o mozarabica:
È degno e giusto, veramente nostro dovere e fonte di salvezza che noi ti lo­
diamo e ti benediciamo, se tu però (dato che niente di ciò che viene offerto
dall’uomo è degno della tua dignità e giustizia) ti degnerai di donarci – con
indicibile pietà – come poterti rendere (referre) le debite lodi e grazie.56
Di fronte a questa impossibilità di contraccambio l’uomo può offrire solo la propria gratitudine. Questo è l’unico contraccambio possibile nei confronti di Dio. Con la lode e l’azione di grazie noi confessiamo la grandezza della sua opera e del suo dono. Con l’eucaristia
abbiamo il vertice e il superamento stesso del regime del dono, dato
Mauss, «Saggio sul dono», 169-171.
A. Hänggi – I. Pahl (a cura di), Prex eucharistica. Textus e variis liturgiis anti­
quioribus selecti (Spicilegium friburgense 12), Editions universitaires, Fribourg 1968,
412. Un testo analogo si trova nell’anafora degli apostoli Addai e Mari, che è parallela
all’anafora terza di san Pietro apostolo. Per il testo critico di quest’ultima cf. J.M. Sauget, «Anaphora s. Petri apostoli tertia», in Pontificii instituti studiorum orientalium (a cura di), Anaphorae syriacae. Quotquot in codicibus adhuc repertae sunt, Roma
1973, II, fasc. 3, 285ss.
55 Anafora di Addai e Mari (Prex eucharistica, 377).
56 LMS, col. 196.
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che il dono che offriamo a Dio in contraccambio, la gratitudine, non
è un contraccambio vero e proprio; infatti la gratitudine è il modo di
ricevere e accettare il dono. Si tratta di un vero superamento dato che
non si contraccambia con un dono autentico – sarebbe impossibile –
ma non si esce dalla logica del «sistema del dono» dato che la nostra
risposta di rendimento di grazie, il nostro contraccambio, viene definito «veramente cosa buona e giusta, nostro dovere».57
Del «sistema del dono» si perde il contenuto poiché con Dio non
è possibile il contraccambio,58 ma si conserva la forma del sistema
poiché la gratitudine, che è il nostro modo di accettare il dono, diventa inno di lode e di grazie che viene fatto salire a Dio e a lui offerto
formalmente. Abbiamo un testo mozarabico che esprime bene questa
realtà:
È degno e giusto, o Dio Padre, che noi sempre ti offriamo un inno e ti
presentiamo un canto di lode.59
Concludendo, diremo che l’incursione che abbiamo fatto nell’ambito dell’antropologia culturale non è stata infruttuosa per la nostra
intelligenza dell’azione di grazie che si celebra nel prefazio. Esiste un
prefazio nell’odierno messale, che espone la teologia dell’azione di
grazie in modo che l’assemblea si formi a vivere sempre meglio questo rapporto con Dio. È un prefazio che teorizza se stesso:
Tu non hai bisogno della nostra lode, ma per un dono del tuo amore ci
chiami a renderti grazie; i nostri inni di benedizione non accrescono la
57 Questi vocaboli di ordine giuridico non sono solo frutto dell’accettazione della
cultura dei romani nella liturgia. C’è un’interdipendenza tra religioso, giuridico e morale nel sistema del potlac primitivo. Cf. Mauss, «Saggio sul dono», 183, 187, 206, 209 e
soprattutto: «In tutte le società possibili, la natura peculiare del dono è proprio quella
di obbligare nel tempo» (ibidem, 210). Questo implica un sistema giuridico che regga
nel tempo i doni e gli scambi che diventeranno poi i baratti e i contratti (ibidem, 211).
È il concetto di «obbligo» (appartenente alla natura del potlac) che, collocato nella
società e in una serie di rapporti multipli, finisce per evolversi in un discorso giuridicocontrattuale.
58 Il potlac è assai di più di un fenomeno giuridico; è un fenomeno che Marcel
Mauss propone di chiamare «totale» (Mauss, «Saggio sul dono», 216).
59 L’uomo infatti è salvato per grazia, ma non è che egli sia totalmente passivo nel
processo della giustificazione; la sua attività si manifesta soprattutto in questa gratitudine con la quale vive l’accettazione del dono. La gratitudine viene articolata in parole
e diventa professione di fede. L’uomo è giusto per la fede. Se la gratitudine viene offerta, si offre in essa la propria accettazione del dono. Nell’eucaristia cristiana i gesti
offertoriali del pane santo e del calice di salvezza sono la traduzione visiva di questo
atteggiamento.
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tua grandezza, ma ci ottengono la grazia che ci salva, per Cristo nostro
Signore.60
3. Il testo del «Santo»
Il prefazio sfocia nel Sanctus come sua logica conclusione. La celebrazione della lode divina diviene contemplazione della lode che
le schiere angeliche, ordinate e potenti come un esercito, cantano al
Padre che contemplano faccia a faccia.
Questo è senz’altro vero del rapporto Sanctus - Prefazio nell’odier­
na liturgia, ma la liturgia romana non è sempre stata così. L’introduzione del Sanctus nel Canone romano è relativamente recente.
L’odierno canone ha il canto del Sanctus collocato alla fine del
prefazio, prima del Te igitur (Padre clementissimo). Sappiamo della probabile assenza del Sanctus ai tempi di Ambrogio. Certamente
non c’era il Sanctus nell’anafora della Tradizione apostolica, circa nel
220, anche se la lettera di Clemente ai Corinzi attesta che la liturgia
del II secolo, non necessariamente l’eucaristia, conosceva l’uso del
Sanctus.61
In questo settore seguiremo la lucida esposizione del domenicano
P.-M. Gy che ha trattato il problema dell’inserimento del Sanctus nel
Canone romano.62 Alla fine del IV secolo o nei primi trent’anni del V,
il «Libellus» pseudoambrosiano De Spiritu sancto63 ritiene che il San­
ctus sia in uso in tutte le Chiese d’Oriente e in qualcuna dell’Occidente.
Effettivamente in quest’epoca il Sanctus è attestato a Gerusalemme,64
LMS, col. 213.
«Quia cum nostra laude non egeas, tuum tamen est donum quod tibi grates rependamus, nam te non augent nostra praeconia, sed nobis proficiunt ad salutem, per
Christum Dominum nostrum».
62 Clemente Romano, Lettera ai Corinzi, 34,6 (A. Jaubert [a cura di], Clément de
Rome. Epître aux Corinthiens [Sources chrétiennes 167], Cerf, Paris 1971, 154-156).
Terminata la citazione di Is 6,3 combinato con Dn 7,10, il testo prosegue: «E anche noi
[…] acclamiamo a lui» (34,7). Certo si tratta di assemblea liturgica dato che abbiamo:
«Riunendoci in uno stesso luogo» reso sia con «epi to auto» sia con «sunachthentes»;
questi sono come dei termini tecnici per indicare l’attività liturgica che ha nell’assemblea il suo costitutivo fondamentale. Su questo testo cf. W.C. van Unnik, «1Clem. 34
and the Sanctus», in Vigiliae christianae 5(1951), 204-248.
63 P.-M. Gy, «Le Sanctus romain et les anaphores orientales», in Mélanges litur­
giques offerts au R. P. Bernard Botte, Abbaye du Mont César, Louvain 1972, 167-174.
64 Libellus IV, 2 (L. Chavoutier [a cura di], Un Libellus pseudoambrosien sur le
saint Esprit, in «Sacris erudiri» 11[1960], 149). Il Libellus è certamente posteriore al
De Spiritu sancto di Ambrogio e anteriore alla crisi nestoriana. Più precisamente, Cha60 61 28
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ad Antiochia65 e in Egitto,66 mentre non se ne trova traccia né in Ambrogio né in Girolamo né in Agostino.67 Il padre Gy prosegue dicendo che L. Chavoutier ha raccolto tutte le attestazioni del Sanctus in
Occidente e che, dalla comparazione, risulta che tutte sono posteriori
al «Libellus».
Dato che abbiamo dei prefazi dotati di Sanctus che vengono attribuiti a san Leone Magno (440-461) e dato che in Africa si ignora il Sanctus ancora attorno al 430,68 dobbiamo concludere che esso
sia stato introdotto non molto prima di san Leone. Anteriormente, il
prefazio si concludeva con «Per Cristo nostro Signore». Con l’introduzione del Sanctus muta anche questa clausola finale che, con ogni
probabilità, diventa «per quem maiestatem tuam laudant angeli…»,
ove «maiestas» è tratto dalle antiche versioni latine delle Scritture
come traduzione di «doxa» (gloria).69 Il padre Gy mostra con molta
cura come il Sanctus romano non possa derivare dalla liturgia egiziana, dato che qui abbiamo la citazione letterale di Ef 1,21 prima
dell’enumerazione dei cori angelici; cosa totalmente assente nel testo
romano. Dato che il testo del Sanctus romano è il medesimo delle
anafore di Basilio, Giovanni Crisostomo e Giacomo, si può concludere che esso derivi da Gerusalemme e da Antiochia.
Forse per un influsso dell’anafora di Giovanni Crisostomo, con
san Leone il Sanctus prende talvolta significato trinitario.70 Come
esempio di prefazio senza Sanctus si può citare il testo della «messa di
un defunto» del Supplementum anianense.71 Nei sacramentari, quan-
voutier ritiene ragionevole porlo attorno all’anno 400, durante le discussioni sollevate
in Occidente dalla traduzione del De principiis di Origene, fatta da Rufino (399-402).
65 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche, V, 6 (A. Piédagnel [a cura
di], Cyrille de Jérusalem. Catéchèses mystagogiques [Sources chrétiennes 126], Cerf,
Paris 1966, 154).
66 Teodoro di Mopsuestia, Omelie mistagogiche 16 (R. Tonneau – R. Devreesse
[a cura di], Les homélies catéchétiques de Théodore de Mopsueste, Bibliotheca apostolica vaticana, Città del Vaticano 1949, 533-549).
67 Cf. l’anafora dell’Eucologio di Serapione (F.X. Funk [a cura di], Didascalia
et Constitutiones Apostolorum, I-II, Testimonia et scripturae propinquae, Ferdinand
Schoeningh, Paderbornae 1905, II, 174).
68 Gy, «Le Sanctus romain et les anaphores orientales», 167.
69 Gy, «Le Sanctus romain et les anaphores orientales», 169.
70 B. Botte, «Maiestas», in Botte – Mohrmann (a cura di), L’ordinaire de la messe,
111-113.
71 Sul problema del significato cristologico o trinitario cf. A. Gerhards, «Le phé­
nomène du Sanctus adressé au Christ. Son origine, sa signification, sa persistance dans
les anaphores de l’Eglise d’Orient», in A.M. Triacca – A. Pistoia (a cura di), Le Christ
dans la liturgie (Bibliotheca Ephemerides liturgicae. Subsidia 20), CLV – Edizioni liturgiche, Roma 1981, 65-83.
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do troviamo una clausola di prefazio costituita dal semplice «per», almeno teoricamente, potrebbe essere l’inizio di una conclusione dello
stesso tipo di quella del frammento ariano di Angelo Mai:
Per Gesù Cristo Signore e Dio nostro per mezzo del quale ti supplichiamo
e ti chiediamo…72
Da questo breve riassunto sull’ingresso del Sanctus nel canone,
emerge che all’inizio del V secolo il Canone romano è ancora aperto
a evoluzioni di notevole rilievo. Infatti, attraverso il Sanctus, entra nel
Canone romano l’idea che noi, con il canto dell’inno angelico, partecipiamo alla liturgia celeste. Non sappiamo quali furono i motivi che
decisero l’apertura generale verso questo uso dell’Oriente.
Più tardi, quando papa Gregorio opererà le sue innovazioni liturgiche, dovrà difendersi e dovrà spiegare e motivare il suo operato.73
Qui invece, per l’introduzione del Sanctus, non notiamo nulla di simile; nessuna protesta o polemica di sorta. L’ingresso del Sanctus non
fa notizia e non lascia traccia nelle opere patristiche dell’epoca. È un
caso ben diverso da quello di papa Gregorio; la differenza tra i due
casi è dovuta al mutamento del senso della «fissità» della liturgia.
Nel V secolo c’è ancora la consapevolezza che il testo del canone
è un testo suscettibile di variazione e di evoluzione.
72 Deshusses, Le sacramentaire grégorien, I, n. 1733. Altrettanto nella messa dei
santi Nereo ed Achilleo (ibidem, n. 1611); nella quarta domenica prima dell’ottava di
Pasqua (ibidem, n. 1610) e nella festa del natale dei santi Marcellino e Pietro (ibidem,
n. 1622).
73 «Per Iesum Christum Dominum et Deum nostrum, per quem petimus et rogamus» (G. Mercati, Antiche reliquie liturgiche ambrosiane e romane. Con un excursus
sui frammenti dogmatici ariani del Mai, Tip. Vaticana, Roma 1902, 52-53). Lo stesso
Mercati rileva che, con «petimus et rogamus», il prefazio sembra passare a un testo del
canone simile al Te igitur. Mercati resta a livello di «Quasi pare» (cf. nota 33). Il motivo
di tale incertezza viene detto esplicitamente: in base alle affermazioni di L. Duchesne,
gli risulta difficile pensare che a quest’epoca il prefazio fosse senza Sanctus. Il testo di
questo prefazio è reperibile anche in Prex eucharistica, 422.
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