Relazione del Presidente Nazionale Carlo Costalli

IL MOVIMENTO CRISTIANO LAVORATORI
PER UN’ECONOMIA A SERVIZIO DELL’UOMO
IL
LAVORO
PRIMO FATTORE
DI RIPRESA
REALIZZARE LE RIFORME PER GARANTIRE
DEMOCRAZIA E GIUSTIZIA SOCIALE
RELAZIONE DEL PRESIDENTE NAZIONALE
Carlo COSTALLI
IL XII CONGRESSO NAZIONALE MCL
Un’economia al servizio dell’uomo
Il dodicesimo Congresso nazionale del Movimento Cristiano Lavoratori si
apre in uno scenario sociale, politico ed economico profondamente cambiato
rispetto al precedente Congresso. Infatti, pur in un contesto di problematiche
apparentemente simili, cioè quello di una crisi strettamente legata alla globalizzazione ed alla finanziarizzazione dell’economia mondiale, la situazione di
oggi e quella del 2009 risultano profondamente diverse. Mentre, nel 2009 ci
trovavamo di fronte ad una crisi iniziata da appena un anno, e molti ancora si
illudevano che tutto presto sarebbe tornato come prima, oggi siamo nel sesto
anno consecutivo di una crisi trasformatasi in pesante recessione: e non è più,
ormai, possibile, per nessuno coltivare illusioni in tal senso.
E’ necessario, allora, che ci fermiamo ad analizzare la dimensione strutturale di questa crisi e le sue ragioni profonde. Dobbiamo farlo richiamandoci ai
punti fermi della nostra identità di Movimento per mettere a fuoco la situazione attuale, comprenderne la peculiarità e poter dare il nostro contributo per
affrontarla e superarla.
Questi punti fermi, chiave di volta per orientarci in un contesto storico tanto
travagliato, caratterizzano, da sempre l’identità e la storia del nostro Movimento. Sono: la natura ecclesiale del MCL, dunque, la fedeltà alla Chiesa ed alla
Dottrina Sociale Cristiana; il nostro essere Movimento di lavoratori,la scelta
prioritaria per la promozione della persona, del lavoro e della giustizia sociale;
la fedeltà alla democrazia da cui nasce il nostro impegno prioritario e costante
nella difesa della libertà, nella sua pienezza di concreta partecipazione alla vita
politica, sociale ed economica.
Di fronte ad una crisi di cui la stessa durata e profondità attestano il carattere strutturale, la Dottrina Sociale della Chiesa manifesta tutta la propria attualità ed incisività.
Come ben specifica Papa Francesco: “La crisi finanziaria che attraversiamo
ci fa dimenticare che alla sua origine vi è una profonda crisi antropologica: la
negazione del primato dell’essere umano” (Evangelii Gaudium n. 55).
Questa illuminante diagnosi di Papa Francesco ci fornisce lo strumento culturale indispensabile per riallacciare tutti i nodi della crisi odierna nei suoi diversi aspetti. Aspetti di cui altrimenti ci sfuggirebbe l’intrinseca unitarietà fondata su una visione antropologica che “nega il primato dell’essere umano”.
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Partendo da questo presupposto diventa ben chiaro come i molteplici aspetti della crisi che stiamo vivendo siano tutti strettamente interconnessi e nascano dalla comune radice di questa negazione o anche, se vogliamo dirlo con altre parole, dalla negazione della centralità della persona. Diventa ben chiaro
come sia non solo logico, ma inevitabile, che la finanziarizzazione dell’economia determini un progressivo impoverimento di massa, la distruzione dei ceti
medi, l’accumularsi della maggior parte delle ricchezze mondiali in un numero
sempre più ristretto di mani ed il progressivo smantellamento di molte delle
garanzie sociali conquistate nel corso del novecento.
Diventa inoltre evidente perché la globalizzazione finanziaria sia accompagnata, nei paesi occidentali, da un progressivo smantellamento dell’economia reale
e da una crescente disoccupazione di massa che, a sua volta, genera ulteriore
impoverimento.Ciò avviene perché la visione culturale neoliberista nega in radice
l’assioma della Dottrina Sociale della Chiesa ed in particolare della Laborem excersens, che il “lavoro è per l’uomo”, rispondendo solo ai parametri del profitto,
dell’autonomia assoluta del mercato e della speculazione finanziaria.
Diventa, infine, chiaro perché in tutto l’occidente i meccanismi della democrazia risultino progressivamente svuotati e la sovranità popolare sempre più
vanificata. Mettendo così in crisi tutti quei meccanismi di rappresentanza diffusa, non solo politica ma anche sociale, che sono il presupposto ed il sale
della democrazia, intesa non solo come fatto elettorale ma anche come partecipazione e promozione della persona. Con l’ideologia neoliberista, che difende l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria “si instaura
una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone in modo unilaterale
ed implacabile, le sue leggi e le sue regole” (Evangelii Gaudium n. 56). In questo quadro la politica, percepita dall’opinione pubblica come sempre più inutile perde colpi e credibilità ogni giorno di più.
Il lavoro primo fattore di ripresa
La scelta di incentrare il nostro Congresso sul tema “Il lavoro primo fattore di
ripresa” nasce dalla amara constatazione che tale asserzione,che pur è stata
al cuore della grande crescita economica e sociale del XX secolo, oggi non è
più affatto scontata: il lavoro, oggi, non è più al centro delle politiche economiche. Assistiamo da tempo, al presentarsi di teorizzazioni e scelte che hanno
relegato in secondo piano il problema dell’occupazione. La realtà della condizione economica e occupazionale lo dimostra.
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I dati macroeconomici dell’Europa, soprattutto per i paesi dell’area mediterranea, che mostrano andamenti recessivi o di una crescita ridotta, sono ancor
più negativi per quanto riguarda la disoccupazione che, complessivamente, ha
superato il 12 per cento, mentre in Spagna e Grecia si aggira sul 26 per cento
e da noi giunge sin quasi al 13 e per i giovani ha raggiunto, addirittura, al 42,4
per cento.
Tra il 2008 e il 2013 ha perduto circa un milione di posti di lavoro. Siamo di
fronte ad una situazione che ha fatto teorizzare la cosiddetta “crescita senza
occupazione”, che si ha quando lo sviluppo organizzativo, intrecciandosi con il
progresso tecnologico, consente di produrre sempre più beni e servizi con minore impiego di persone. Ma c’è anche un altro aspetto più significativo perché non legato allo sviluppo scientifico e tecnologico, per comprendere questo
paradosso: molti settori produttivi hanno sviluppato una tendenza a delocalizzare l’attività di base, pur rimanendo come società in Italia: è evidente che se
aumenta la produzione e si distribuiscono utili l’azienda è attiva, ma l’occupazione in Italia diminuisce. La libertà dei movimenti dei capitali li mette a contatto con altri capitali, bypassando di fatto il lavoro. Ricchezza finanziaria crea
ricchezza finanziaria. Il risultato è una divaricazione sempre più forte fra redditi da lavoro e profitti. In un simile contesto è indispensabile reagire per invertire la rotta anche recuperando competitività. Ma per fare questo è, urgente una
riflessione puntuale sulle attuali criticità e sulle scelte da compiere per recuperare la centralità del lavoro.
L’avvento della terza rivoluzione industriale
Abbiamo assistito, negli ultimi decenni, ad una profonda evoluzione dei sistemi economici occidentali che ha inciso non solo sul prodotto ma, soprattutto, sul lavoro, sulla qualità della vita e sulla condizione sociale dei cittadini.
L’avvento della terza rivoluzione industriale (quella dell’informatica e delle
tecnologie telematiche) ha ribaltato molti assunti.
I servizi incominciano a contare, come valore aggiunto e numero di occupati, più dell’industria. La competizione economica si fa globale e le distanze
commerciali si assottigliano. La produzione industriale di base, si sposta verso i paesi in via di sviluppo, dove le risorse naturali sono molto più vicine ed
energia e (soprattutto) lavoro, costano assai meno. A questo punto l’Occidente, svuotato dall’industria primaria, non può certo pensare di competere
nel risparmio dei costi (e quindi nell’abbassamento dei prezzi) o nelle quan5
tità prodotte. Ciò vale tanto per il settore secondario quanto per buona parte
del terziario.
Nuovi lavori e globalizzazione
Di conseguenza, volente o nolente, il mondo produttivo occidentale sta riscoprendo la produzione di qualità e i servizi avanzati, tecnologicamente o per
coinvolgimento della persona. Si parla sempre di più di lusso, produzione di
nicchia, industria aereo-spaziale, informatica. Ma anche di terzo settore, e servizi alla persona. L’economia della conoscenza sta portando con sé nuove professioni e un più alto livello formativo dei cittadini. Mai un’epoca storica ha assistito a una così rapida evoluzione economica, indubbiamente migliorativa,
ma non per questo esente da squilibri e iniquità. Sono occorsi millenni per il
passaggio dall’agricoltura all’industria, un secolo per l’affermazione dei servizi,
pochi anni perché si diffondesse il terziario avanzato. Mentre cambiava l’Italia,
ancor più velocemente mutava il mondo, sempre più caratterizzato dalla cosiddetta globalizzazione.
La valenza educativa e formativa del lavoro
Mai come in questo periodo, sono messe a dura prova la “concezione artigiana” del lavoro e la capacità dell’Italia di competere nel mondo.
Il segnale più preoccupante di questa emergenza è la concezione di lavoro
che i giovani apprendono nelle scuole e nelle università.
Né si può pensare di affermare la valenza educativa e formativa del lavoro
ghettizzandola nel solo ambito della formazione professionale.La sfida della
globalizzazione esige che si riscopra la dignità del lavoro, di tutti i lavori, in
ogni ordine e grado della formazione dei giovani. Serve più lavoro, quindi, anche nei licei e negli istituti tecnici. Ma anche nelle università, indipendentemente dalla facoltà. Non si tratta di una necessità solo culturale, quanto di un
improrogabile adempimento per la maggiore competitività dell’Italia. Numerose ricerche economiche dimostrano la correlazione positiva tra la diffusione di
modalità di formazione incentrate sull’alternanza scuola/lavoro e i tassi di disoccupazione, occupazione e inattività giovanile. Concretamente, quindi, l’affermazione della valenza educativa del lavoro, nei percorsi formativi, passa per
tre vie: maggiore e migliore formazione professionale per i più giovani, numerose esperienze di alternanza scuola/lavoro durante il percorso secondario superiore e universitario, diffusione del contratto di apprendistato.
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Quale lavoro per quale futuro?
Il mercato del lavoro e il futuro del welfare in Italia
Queste proposte che discendono da una concezione del lavoro come elemento costitutivo della persona, e inerente al suo stesso processo educativo,
debbono misurarsi con una difficile situazione occupazionale e dei sistemi di
welfare che ha aspetti di vera drammaticità.
Le proiezioni del 2020 di tutti i principali indicatori in materia di occupazione e
crescita vedono l’Italia - e più ancora il Mezzogiorno - in una posizione di ritardo
e grave difficoltà rispetto al resto dell’Europa. La crisi economica e finanziaria degli ultimi anni ha solo esasperato, nella sua severità e persistenza, i precari equilibri di un mercato del lavoro poco inclusivo e storicamente condizionato da un
tasso di occupazione largamente insufficiente a garantire la sostenibilità del sistema di welfare. Le persone con un lavoro sono, in effetti, solo 22 milioni, a
fronte di una popolazione di poco superiore ai 60 milioni. Un così modesto tasso
di occupazione regolare si traduce non solo in una bassa crescita del PIL, ma
anche in un ridotto gettito fiscale. Inevitabile, in questo contesto, che tasse e aliquote contributive siano particolarmente elevate per i pochi che lavorano alimentando, di contro, illegalità diffusa e fughe in una economia sommersa sempre
più florida. Di immediata evidenza, nel confronto internazionale e comparato, sono del resto talune disfunzioni strutturali di un modello di welfare che, da tempo,
è sotto pressione anche a causa del progressivo invecchiamento della popolazione, della emersione di nuovi bisogni e dei vincoli, sempre più stringenti, di finanza pubblica. Non sono invero mancati, in questi anni, progetti di riforma e tentativi, più o meno organici, di riordino e riequilibrio della spesa sociale. Si è sempre
trattato, tuttavia, di interventi parziali e limitati che, come accaduto proprio con
l’ultima riforma delle pensioni, sono stati adottati sull’onda dell’emergenza, assecondando una impostazione semplicistica di taglio lineare dei costi che ha alimentato macroscopiche iniquità sociali (si pensi al caso dei lavoratori cosiddetti
esodati!). E’ manifesta, in questi provvedimenti emergenziali, l’assenza di una visione globale delle dinamiche di reale funzionamento del mercato del lavoro e
del sistema di welfare. Ciò che tutt’ora manca è una solida risposta, non solo
tecnica e contabile ma, prima di tutto, antropologica e di lungo periodo.
Un nuovo modello sociale per un mondo del lavoro in trasformazione
Le criticità, le lacune, le disfunzioni, gli sprechi e talune palesi iniquità del
nostro attuale modello di welfare sono ampiamente noti e dibattuti. Così come
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ben conosciuto è il quadro complessivo delle relative compatibilità macro-economiche che, certo, non consente grandi margini di azione e manovra alla iniziativa di guida e indirizzo politico. L’alta spesa pensionistica e la bassa crescita comprimono, ancor più, in una stagione segnata da recessione strisciante e
rigidi vincoli di bilancio, la capacità di risposta, e prima ancora di prevenzione,
rispetto ai bisogni delle persone soprattutto se appartenenti agli strati più deboli ed emarginati della società. I bassi livelli di occupazione regolare e lo scarso dinamismo del mercato del lavoro penalizzano i giovani, le donne, i disabili
e i lavoratori, sempre più numerosi, espulsi dai processi produttivi dopo più o
meno lunghi periodi di parcheggio in cassa integrazione e, a seguire, in mobilità. Persiste il marcato differenziale geografico tra Nord e Sud d’Italia, mentre
crescono fenomeni oramai storici come il precariato, la sottoccupazione, la disoccupazione intellettuale. La mancanza di efficienti servizi al lavoro e di percorsi formativi orientati a soddisfare i fabbisogni professionali delle imprese
hanno ingenerato, nel sindacato e tra i lavoratori, soprattutto quelli con basse
professionalità, una cultura del lavoro improntata alla strenua difesa del posto
di lavoro, più che dei livelli occupazionali in generale, agevolando un utilizzo
assistenzialistico e deresponsabilizzante di strumenti di protezione del reddito
- che dovrebbero avere, invece, natura temporanea - e disincentivando i processi fisiologici di ristrutturazione e riqualificazione professionale.
Il sistema di ammortizzatori sociali ancora non segue - quantomeno nelle
sue dinamiche reali - un disegno di incentivazione per il rapido reinserimento,
nel mercato del lavoro dei lavoratori in esubero o, comunque, il loro coinvolgimento in adeguati percorsi formativi e di riqualificazione.
Circostanza questa che, non di rado, spinge i percettori di sussidio pubblico
a rifiutare occasioni di lavoro alternative preferendo sommare l’ammortizzatore
sociale, per quanto contenuto, a ulteriori redditi maturati con attività in nero
realizzate nell’ambito dell’economia sommersa.
La stessa dimensione abnorme del lavoro non dichiarato e irregolare, con
stime percentuali due o tre volte superiori a quelle degli altri paesi europei, sta
indubbiamente a indicare il persistere di situazioni di arretratezza, illegalità diffusa e sottosviluppo e forse anche, almeno in taluni casi, il dinamismo e la forza propulsiva di una società che cresce e cerca di adattarsi ai tumultuosi cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro senza, tuttavia, ancora riuscire a trovare una adeguata rappresentazione nella legislazione vigente:una legislazione
incapace di superare gli schemi del passato.
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Il tessuto produttivo italiano e gli stessi lavori sono profondamente cambiati
nel corso degli ultimi decenni. Produzioni sempre più sofisticate, con impiego
di tecnologie la cui introduzione comporta il controllo di numerose variabili gestionali, richiedono lo sviluppo di competenze e nuovi saperi anche nelle funzioni operaie con la relativa assunzione di forme più o meno marcate di autonomia e responsabilità decisionale. Eppure le proiezioni al 2020segnalano, per
l’Italia, una rilevante carenza di professionalità elevate, intermedie, e specialistiche, legate ai nuovi lavori; una carenza aggravata da un generalizzato rifiuto
da parte dei nostri giovani del lavoro manuale e dei mestieri artigianali e da un
sempre maggiore disallineamento della offerta formativa rispetto ai fabbisogni
professionali e alle richieste delle imprese.
Aumenta la libertà del prestatore di lavoro con riferimento ai tempi e alle
modalità, non solo tecniche, di esecuzione delle proprie mansioni. Si stemperano, di conseguenza, quei rigidi vincoli di subordinazione, controllo e gerarchia attorno a cui è stata edificata la legislazione del lavoro. Una legislazione
imponente, simbolicamente rappresentata dallo Statuto dei diritti dei lavoratori
dal 1970, che, tuttavia, con la dissoluzione del lavoro di massa, risulta ora priva di un chiaro paradigma economico e sociale di riferimento quale, per lungo
tempo, è stato l’operaio della grande fabbrica sindacalmente presidiata.
Sempre laborioso e contrastato ogni tentativo di Riforma - percorso iniziato
con le leggi Treu e Biagi e mai portato a compimento - per riequilibrare il mercato del lavoro tra la cosiddetta flessibilità in entrata e flessibilità in uscita.
Ciò che deve essere tutelato, in un mercato del lavoro in continua evoluzione, non è più il posto di lavoro. Al centro di un moderno sistema di tutele va
piuttosto collocata la persona del lavoratore a cui devono essere garantire adeguate forme di protezione-non solo del reddito, ma anche di orientamento, formazione e riqualificazione professionale- nelle sempre più frequenti transizioni
da una occupazione all’altra. E’ in corso un ampio dibattito su questi temi ed
è, estremamente importante che questo processo riformatore si sia messo
nuovamente in moto: ad iniziare dal tanto atteso Jobs Act: accanto ad un “Titolo” aspettiamo di capire meglio i concetti:lo seguiremo con grande attenzione, anche con proposte concrete.
E’ giunto il momento di scelte coraggiose: giusto semplificare le assunzioni a
tempo determinato (utile nel breve periodo per riattivare il mercato del lavoro)
e giusto semplificare l’apprendistato. Molto positiva la scelta di tagliare le tasse
sul lavoro dipendente (ma non dimentichiamo però i pensionati più poveri).
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Ma il grosso delle scelte delle semplificazioni del mercato del lavoro (di cui si
sa ancora poco) è rimandato ad una legge delega che dovrà subire tutte le
complicazioni, i tempi del Parlamento (di solito due o tre anni).
Nel frattempo, non tendono a diminuire le pressioni sui livelli occupazionali
e salariali e sulla qualità del lavoro prospettando in taluni casi (si pensi all’Ilva
di Taranto e anche a molte realtà aziendali meno conosciute) drammatiche
contrapposizioni tra il diritto al posto di lavoro e il diritto ad ambienti di vita e di
lavoro sicuri. Per i mercati del lavoro europei- e quello italiano in particolare- si
aprono nuove sfide che difficilmente potranno essere affrontate in chiave meramente regolatoria e normativa. La crisi economica e finanziaria degli ultimi
anni ha evidenziato, ancora una volta, la centralità di una risposta antropologica e culturale a partire dalla necessità di una visione del lavoro maggiormente
attenta alla dimensione relazionale e comunitaria. Si tratta pertanto di progettare e portare a definitivo compimento un welfare positivo. Un welfare capace
cioè di ribaltare la vecchia cultura assistenzialistica e paternalistica volta a correggere o al più limitare le conseguenze di patologie ed eventi negativi solo
quando si sono già verificati.
Il contributo della dottrina sociale alla costruzione del nuovo modello sociale
Il necessario cambiamento che deve interessare la visione del lavoro e la riforma del welfare non può che fondarsi su una concezione complessiva dell’uomo che ne riconosca la sua dimensione reale.
L’atteggiamento aspramente conflittuale e antagonista che condiziona ancora il confronto politico e sindacale sui complessi temi del lavoro non solo non
aiuta a risolvere i tanti problemi e le emergenze del nostro mercato del lavoro,
ma ha anche portato a trascurare, nel corso del tempo, l’importanza e l’estrema attualità dell’insegnamento della dottrina sociale, che è davvero poco conosciuta. Eppure, sin dalla sua prima elaborazione, la dottrina sociale ha offerto una risposta concreta rispetto alle tensioni sociali e alle incertezze connesse
alle incessanti trasformazioni dei rapporti di produzione e lavoro. Ciò è successo in passato a seguito degli epocali sconvolgimenti causati dalla rivoluzione
industriale e dal progressivo emergere della questione sociale, ma lo stesso
può valere, oggi, nel complesso, e non meno insidioso passaggio, dalla vecchia economia di stampo industrialista alla nuova società della informazione e
della conoscenza che pare segnata da ricorrenti fasi di recessione e da preoccupanti fenomeni di crescita senza occupazione.
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Già nella enciclica Rerum Novarum Leone XIII elencava una serie di errori
che davano luogo ai mali della società di allora e che, sono, tutto sommato, gli
stessi della società di oggi. Esclusa la drastica soluzione antagonista proposta
dal comunismo, nella Rerum Novarum si individua, nella collaborazione tra
capitale e lavoro, il percorso attraverso cui accompagnare il mutamento sociale. Già poi, con la Quadragesimo Anno di Pio XI, la Chiesa chiamava in causa
l’incontrollata espansione dei gruppi finanziari, nazionali e internazionali, ammonendo a rispettare la centralità della persona e rigettando il liberalismo inteso come illimitata competizione tra forze economiche. Si tracciava, così, in antitesi al pensiero liberale e al totalitarismo di matrice statalista, quella che oggi
chiamiamo economia sociale di mercato. La Quadragesimo Anno, fissava la
regola che i salari debbono essere proporzionali ai bisogni del lavoratore e a
quelli della sua famiglia. Richiamava, soprattutto il fondamentale principio di
sussidiarietà. Si tratta di un principio moderno e ancora largamente inesplorato sul piano progettuale e normativo, se non in alcuni rilevanti passaggi della
Legge Biagi, oggi marginalizzati dalla riforma Fornero. E’ la prospettiva in cui si
è più recentemente collocata l’enciclica Caritas in veritate di Papa Benedetto
XVI, quando si preoccupa di ricordare “che il primo capitale da salvaguardare
e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità: l’uomo, infatti, è l’autore,
il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale”. E’ proprio da qui che dobbiamo partire per tracciare correttamente una concreta e plausibile agenda di
riforme: dalla riscoperta della estrema attualità e forza della dottrina sociale;
dalla nostra capacità di collocare la dottrina sociale al centro della agenda politica e culturale.
Come ricorda il Compendio della dottrina sociale della Chiesa i problemi del
lavoro e della sua qualità chiamano “in causa le responsabilità dello Stato, al
quale compete il dovere di promuovere politiche attive del lavoro”. [§291].
Tuttavia, “il dovere dello Stato non consiste tanto nell’assicurare direttamente il diritto al lavoro di tutti i cittadini, irreggimentando l’intera vita economica e
mortificando la libera iniziativa dei singoli, quanto piuttosto nell’assecondare
l’attività delle imprese, creando condizioni che assicurino occasioni di lavoro,
stimolandola ove essa risulti insufficiente o sostenendola nei momenti di crisi”
[§291]. Al centro della dottrina sociale si pone, dunque, la tensione verso il
bene comune definito come somma totale delle condizioni sociali che consentono alle persone, come gruppi e individui, di raggiungere la loro realizzazione
più pienamente.
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Proprio perché il bene comune è garantire lo sviluppo della persona nella
sua interezza, lo Stato non deve sostituirsi alla sua libertà e alla sua responsabilità ma, piuttosto, deve prestare assistenza economica, istituzionale e progettuale alle cellule indispensabili alla società – famiglia e associazioni sindacali
in primis – lasciandole organizzarsi e fare quanto è in loro potere. Ancora una
volta, quella della sussidiarietà è la chiave interpretativa e la linea di azione attraverso cui cercare di fornire risposte concrete e operative agli interrogativi
sollevati dalla crisi e dalle turbolenze dei mercati finanziari e al loro impatto sugli indicatori del mercato del lavoro.
Una sussidiarietà sia orizzontale, verso le organizzazioni di tutela e rappresentanza dei lavoratori e degli imprenditori, sia verticale, verso i livelli più prossimi al
rapporto di lavoro; una sussidiarietà che porta a suggerire un minor peso della
regolazione statale a favore di una maggiore e più convinta diffusione della contrattazione collettiva di prossimità e delle forme di sostegno alla stessa contrattazione individuale, espressione dell’autonomia della persona che è parte di una
relazione di lavoro. Si deve, infatti, poter fare affidamento su persone incentivate
a contribuire al processo creativo proprio di ogni lavoro, persone che costruiscono giorno per giorno il proprio potere contrattuale investendo sulle competenze
professionali e relazionali; sulle capacità di adattamento e di apporto individuale
piuttosto che su un sistema di garanzie tanto rigide quanto inefficaci.
Le tre dimensioni del lavoro
Come abbiamo cercato di evidenziare ci sono almeno tre dimensioni che
qualificano la centralità del lavoro, primo fattore di ripresa, nella vita degli uomini e della società. C’è innanzitutto la dimensione economica, attraverso la
quale passa la possibilità di offrire a se stessi e ai propri familiari una vita dignitosa. Il lavoro come una modalità essenziale del “prendersi cura” di sé e
degli altri. C’è, inoltre, la dimensione che connette il lavoro con il senso della
propria realizzazione personale. Nel lavoro si mettono alla prova le proprie conoscenze, capacità e abilità; è dal lavoro che dipende la soddisfazione di avere realizzato qualcosa di “ben fatto”. C’è infine la dimensione riguardante il
contributo che, attraverso il lavoro, viene offerto alla costruzione della società e
del bene comune. In quanto relazione tra uomini che lavorano insieme, cooperando nella creazione di prodotti e servizi utili anche ad altri, esso crea società. Per tutte queste ragioni il lavoro è parte integrante di un progetto di vita:
è legato all’identità personale e sociale, alla possibilità di costruire il futuro, di
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istituire legami duraturi, di realizzare qualcosa che possa permanere nel tempo. In questo senso il lavoro è un aspetto fondamentale della trasmissione dell’eredità sociale e culturale, il tramite del legame e della solidarietà tra le generazioni. Attraverso il lavoro si porta avanti un’eredità del passato, come è il caso del passaggio dell’azienda di famiglia da una generazione all’altra o come è
il caso dell’apprendimento e dello scambio di competenze e di segreti del mestiere nel lavoro artigiano e intellettuale. Nel lavoro si realizza infine una promessa di futuro, la possibilità di far crescere i figli, di dar loro delle opportunità
almeno pari alle proprie. Esattamente quanto la crisi del lavoro di questi anni
non sembra riuscire più a garantire. Si pensi alla concorrenza che sussiste ormai tra le generazioni adulte e quelle più giovani.
La nostra idea è che di fronte a questa crisi, che non è soltanto italiana ma
che in Italia si fa sentire forse più che altrove, anche a causa della debolezza
delle nostre istituzioni politiche e di un mercato del lavoro spesso bloccato da
troppe rigidità legislative e corporative, sia necessaria innanzitutto una grande
svolta culturale. Un’azione capace di incidere su molteplici livelli: dal fronte
politico a quello delle relazioni sindacali; dal mondo della formazione, dove si
impara il lavoro e l’imprenditoria, a quello delle relazioni sociali, dove si accredita il significato del lavoro come occasione per la formazione dell’uomo. Fra i
diversi problemi su cui abbiamo cercato di porre attenzione, in questi anni, mi
sembra opportuno sottolineare i seguenti:
Il rapporto fra il lavoro dentro la famiglia e il lavoro fuori dalla famiglia
Nel senso che è indispensabile studiare sia i cambiamenti che il lavoro produce nelle relazioni familiari, sia la realtà del lavoro femminile, sia le decisioni
in merito ai tempi del lavoro remunerato. La famiglia (fondata sul matrimonio
fra un uomo e una donna) soggetto sociale essenziale da sostenere e supportare, il cui ruolo è centrale: una speranza per il futuro dell’Italia.
I giovani e il lavoro
Solo degli adulti che vivono in pienezza il senso del lavoro, come garanzia di
sicurezza per sé e per la propria famiglia nonché come partecipazione a
un’opera comune, possono educare al senso e al gusto del lavoro. Occorre
considerare la possibile scollatura fra le aspirazioni lavorative del singolo giovane e le possibilità concrete di trovare lavoro remunerato secondo tali aspirazioni: si tratta di una sofferenza oggettiva.
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La scuola e il lavoro
Il rapporto fra scuola e lavoro va nei due sensi perché educare è un lavoro,
così come l’essere educati. E’ utile essere educati al lavoro non solo acquisendo le necessarie competenze ma, anche e soprattutto, imparando il significato
del lavoro. Ciò ha notevoli implicazioni per l’istituzione scolastica, ma richiede
anche che l’attenzione al lavoro entri nella dimensione educativa delle famiglie, dei gruppi e delle associazioni giovanili.
Il ruolo dei sindacati dei lavoratori
I sindacati sono sicuramente ancora oggi, utili strutture di tutela degli interessi dei loro associati ed istituzioni necessarie a questo scopo, soprattutto se
riescono di più a riformarsi:ma non sufficienti a rispondere creativamente alle
nuove sfide. Di qui l’urgenza anche di aggregazioni nuove, di iniziative dal basso, di opere sociali a sostegno del lavoro, dell’educazione al lavoro, del lavoro
come educazione.
Quali proposte?
Oltre a rivedere profondamente la cultura economicista che ha condotto alla marginalizzazione del lavoro, il nostro movimento ha il dovere di presentare
alcune proposte per avviare da subito quelle politiche che affrontino i nodi
che legano e limitano il lavoratore nel sistema attuale. Quali politiche, di breve
e di lungo periodo, in sostanza, potrebbero essere attuate per affrontare i
suddetti nodi?
a) Liberare il mercato del lavoro. Su scala globale appare sempre più evidente l’estrema diversificazione dei mercati. Non ci sono più solo i mercati
industriali e quelli finanziari, né solo quelli di sfruttamento di risorse naturali
e manodopera: nascono e si espandono mercati che sono di produzione e
consumo insieme, le economie for profit e quelle non profit, le economie civili, le economie dell’informazione, le economie della conoscenza, tanto per
citarne alcune, e poi, in particolare tutto il settore cooperativistico. Liberare il
mercato del lavoro significa non irreggimentare queste diverse economie
dentro modelli standard. Non ci si può limitare a cercare dei rimedi ad alcuni squilibri (bassi salari, perdita del potere d’acquisto) creandone di nuovi,
con misure di piccolo cabotaggio che hanno effetti positivi limitati e rischiano di deprimere le dinamiche occupazionali, oltre a non fare avanzare le
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nuove economie. Misure come gli incentivi, gli sgravi fiscali, sostegni temporanei a questo o quel settore, sono certamente utili, ma solo in situazioni di
emergenza, non come interventi strutturali e per tempi lunghi. Sono misure
di corto respiro: un perfetto esempio di modernizzazione ancora vincolata a
vecchi modi di concepire il lavoro e la sua remunerazione. Bisognerebbe, invece, rafforzare sempre più la contrattazione aziendale e territoriale come
opportunità per l’impresa di negoziare con i lavoratori soluzioni organizzative
in grado di renderla competitiva sui mercati, in una logica vantaggiosa per
entrambi. Andrebbero altresì promossi i cosiddetti contratti di tipo relazionale, cioè contratti che trattano il lavoro per le relazioni sociali che implica, includendo non solo lo schema classico della prestazione, ma anche servizi di
welfare per la famiglia del lavoratore (dai nidi per i figli alla conciliazione dei
tempi familiari e lavorativi, ecc.) e misure assicurative e previdenziali che seguono il nesso fra i gradi di libertà del lavoratore e le sue responsabilità nell’impresa.
b) Più formazione. La produttività non è più, da molto tempo il risultato dei
classici fattori della produzione industriale. Essa diventa espressione soprattutto delle capacità di innovazione nella formazione del capitale umano, della generazione di capitale sociale dell’azienda e della comunità intorno, delle nuove
tecnologie in senso lato. Occorre che le imprese si facciano carico di questi
aspetti e che siano sostenute da un sistema scolastico, universitario e di ricerca scientifica e tecnologica capace di competere sul piano della globalizzazione: cosa che purtroppo non avviene.
Occorrerebbe fare entrare più lavoro anche negli istituti tecnici e nei licei,
puntando sulla promozione delle esperienze di alternanza scuola-lavoro per fare conoscere ai giovani almeno una o due professioni caratteristiche del territorio e contribuire al superamento del paradossale disallineamento tra competenze richieste dal mercato e competenze formate.
Le principali barriere di ingresso dei giovani italiani nel mercato del lavoro
risiedono certo in relazioni industriali obsolete, poco cooperative e centralizzate, ma soprattutto nell’assenza o debolezza di adeguati percorsi di transizione dalla scuola al lavoro, ossia di appropriati strumenti di orientamento e
di incontro (professionale) tra la domanda e l’offerta di lavoro, capaci di connettere sinergicamente il mondo del sapere a quello del saper fare, cioè
scuola e impresa.
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c) Una nuova idea di produttività. Pensare che il solo aumento di produttività, in senso quantitativo, possa risolvere il problema dei salari e dello scarso
potere d’acquisto delle famiglie rientra ancora nella vecchia logica di una società industriale che sta scomparendo all’orizzonte. In tutto il mondo, ormai, il
problema è quello di superare il concetto di PIL (prodotto interno lordo) con
quello di BIL (benessere interno lordo).La produttività deve essere il risultato di
un altro modo di lavorare, più attento alle ricompense intrinseche del lavoro e
alla possibilità di scambiare parte del compenso monetario con servizi di qualità sociale per i bisogni delle persone, delle famiglie, delle comunità. La maggiore produttività è presente oggi nelle imprese che praticano il welfare aziendale, o quella che può essere chiamata la “cittadinanza dell’impresa”, con la
quale i lavoratori si sentono protetti e sostenuti in un largo spettro di bisogni
nella loro vita quotidiana, a prescindere dal «monte salari».
d) Una nuova cultura del lavoro. Una nuova cultura del lavoro deve prendere atto che il lavoro è sussidiario alla persona umana e alla famiglia, e non
viceversa. Questo principio sta davanti a noi come un punto fermo.Quando
un’impresa modifica la sua divisione del lavoro, quando adotta misure di welfare aziendale (ad esempio per conciliare i tempi di lavoro e quelli della famiglia) si tratta di vedere se queste iniziative corrispondono effettivamente alla
realizzazione dei fini umani della persona e al sostegno delle sue relazione familiari o, invece, rispondono a criteri di mera utilità e profitto dell’impresa.La
divisione del lavoro non deve riflettere solo esigenze economiche (di produttività, efficienza, competizione, ecc.), bensì anche il bisogno di un nuovo modo di
relazionarsi agli altri e al consumo: nel lavoro deve riflettersi un nuovo stile
complessivo di vita. L’idea di fondo è promuovere un lavoro che elevi la qualità
della vita.
Parallelamente dovrà essere adeguata la figura del contratto di lavoro, dando vita a nuove tipologie fra cui quelle, più innovative, dei contratti relazionali
che, oltre alla parte retributiva e normativa in cui si definiscono diritti e doveri
del singolo lavoratore, contemplano anche le misure di conciliazione fra l’impegno lavorativo individuale e i tempi e i servizi necessari alla sua famiglia. Come fare perché il mercato del lavoro e il sistema di selezione delle risorse
umane valorizzino la persona, i suoi meriti, le sue potenzialità? Intanto seguiremo le nuove esperienze di Democrazia Economica che finalmente sembra nasceranno dalle privatizzazioni: la partecipazione dei lavoratori agli utili dell’im16
presa è stato uno dei nostri “cavalli di battaglia” da tantissimi anni insieme alla
CISL,(il nostro sindacato di riferimento), e pochi altri. Dobbiamo con convinzione aprirci a sperimentazioni seguendo esempi già avanzati in tanti Paesi Europei. Un segno che le nostre relazioni industriali sono diventate finalmente più
mature.
e) Una nuova cultura del merito. E’ evidente a tutti che il sistema-Italia non
premia il merito, non valorizza le persone, e non punta a sviluppare le potenzialità del lavoratore, in particolare le donne, ma fa esattamente il contrario. Le
indagini dicono a chiare lettere che in Italia prevalgono regole di assunzione
nel lavoro che sono improprie e pre-moderne. Il lavoro viene ottenuto in base a
conoscenze personali e clientelari, per dare compensazioni alle condizioni più
sfavorite anziché per capacitare le persone e i gruppi sociali. Scarse sono le
prospettive di accrescimento nelle abilità professionali. La formazione viene
spesso delegata ad agenzie esterne che sono costose e poco efficaci. Un
evento come la maternità, importante anche per la società,diventa spesso motivo per negare il lavoro. La pubblica amministrazione è legata a filo doppio
con la classe politica; la grande industria vive di sovvenzioni e facilitazioni statali; i piccoli e medi imprenditori non investono nel capitale umano perché dicono di non avere le risorse e le economie di scala necessarie. Parlare di cultura del merito significa, dunque, rimettere la persona al centro dell’economia
e farne il perno dello sviluppo sociale. Ma per ottenere questo, occorre praticamente ribaltare le regole che di fatto prevalgono nel mondo del lavoro in Italia.
f) Investire maggiormente sul nostro patrimonio artistico e sull’innovazione scientifico-tecnologica. L’Italia ha tutte le potenzialità per creare, anche
nel lungo termine, lavoro qualificato ma deve puntare di più sulla cura del suo
grande patrimonio artistico e paesaggistico e sulla scienza: i due pilastri su cui
possono fondarsi il turismo e l’innovazione tecnologica, motori primari dello
sviluppo economico di un paese povero di risorse naturali. Della trascuratezza
nei confronti del nostro patrimonio artistico parlano in continuazione le cronache; meno nota, ma non meno grave, è invece la nostra trascuratezza nei confronti della ricerca scientifica, un settore cruciale per il lavoro di domani, nel
quale l’Italia potrebbe giocare una partita importante. Come abbiamo sottolineato più volte, la nostra produttività scientifica e tecnologica è al livello di
quella dei maggiori paesi europei e, in alcuni casi, addirittura superiore, se
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commisurata al numero dei lavoratori dell’intelletto. Possiamo contare su un
punto di partenza, ma gli investimenti pubblici devono essere duplicati e quelli
privati triplicati; occorre investire in scienza, e occorre farlo soprattutto in tempi di crisi perché per raggiungere livelli decenti ci vogliono dieci-quindici anni.
g) Il lavoro «a regola d’arte». Uno dei patrimoni socio-culturali più grandi dell’Italia è rappresentato dal lavoro artigiano. Si tratta di una cultura del
lavoro basata sull’eccellenza, sulla maestria, su quel gusto del fare, e del
far bene, che, proprio in Italia, abbiamo saputo estendere dalle piccole botteghe artigiane del Rinascimento fino a molte delle nostre medie imprese,
specialmente le più attente alla qualità dei prodotti, (strategiche ed eccezionali, quelle che operano nel settore agro-alimentare), all’innovazione, alla
necessità di promuovere un ambiente di lavoro soddisfacente e ben integrato con la vita della comunità. Si potrebbero fare in proposito molti esempi di buone pratiche. Il successo del cosiddetto made in Italy dipende dalla
capacità di molte nostre imprese di saper inglobare in se stesse la maestria
del lavoro artigiano: una maestria che, ben lungi dal rappresentare un semplice retaggio del passato al quale guardare magari con nostalgia, può oggi
essere utilissima a tutti i livelli della vita sociale e sulla quale invece, soprattutto in termini culturali, non si è investito abbastanza. La nostra idea, in
estrema sintesi, è che riguardo sia alla produzione delle merci, sia alla produzione dei servizi dovrebbe essere sempre richiamata l’importanza della
cultura del lavoro “ben fatto”, del lavoro “a regola d’arte” capace di produrre soddisfazione tanto nel lavoratore che lo fa, quanto in colui che a vario titolo ne usufruisce.
Nel corso della storia l’Italia ha dimostrato più volte di riuscire a dare il meglio di sé proprio di fronte alle sfide più difficili: in questo momento quella del
lavoro è la sfida più difficile. Dobbiamo impegnarci tutti per dimostrare che
una nuova cultura del lavoro è possibile: una cultura del lavoro che generi una
economia che sia al servizio dell’uomo.
Realizzare le riforme per garantire democrazia e giustizia sociale
Anche la questione del lavoro e della sua giusta collocazione nel sistema
economico e produttivo, dipende da una nuova capacità e forza delle istituzioni di avviare una fase realmente nuova con l’obbiettivo di attuare quelle riforme in grado di riaffermare una più solida e stabile democrazia.
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Non è certo casuale che già nel sottotitolo del XII Congresso nazionale MCL
il tema delle riforme venga esplicitamente finalizzato all’obbiettivo di garantire
democrazia e giustizia sociale. In questo particolare momento storico,che è
quello della “globalizzazione finanziaria”, ci troviamo, infatti, a fronteggiare un
drammatico problema, di dimensioni internazionali, ma che investe l’Italia con
maggior forza d’urto in ragione della estrema debolezza dei suoi assetti politici
e della conseguente maggiore fragilità del suo sistema economico e sociale:
quello della crisi della democrazia, cioè della rappresentanza e della partecipazione, e quello della crisi della giustizia sociale, cioè del crescere e moltiplicarsi delle disuguaglianze, del dilagare della povertà e della disoccupazione.
Dalla fine dello scorso secolo ad oggi, assistiamo, spesso impotenti, sia ad un
progressivo svuotamento del potere democratico e dunque ad una macroscopica crisi della rappresentanza, sia ad una radicale rimessa in discussione delle conquiste sociali ed economiche che, nel corso del novecento, determinarono la nascita di un vasto ceto medio marginalizzando radicalmente l’incidenza
della povertà e della proletarizzazione nei paesi avanzati: fino a garantire un livello di vita, se non benestante quantomeno dignitoso, alla stragrande maggioranza della popolazione.
Diventa, allora, ben chiaro come, soprattutto nel caso italiano, le riforme non
possano soltanto essere finalizzate ad una razionalizzazione organizzativa del
sistema politico-istituzionale, per garantire la migliore efficienza dei meccanismi decisionali, né ad una semplice razionalizzazione efficientistica dei sistemi
di welfare o del mercato del lavoro. E’ necessaria un’iniziativa di largo respiro
con il coraggio di proporre un programma riformatore che, pur nel necessario
gradualismo, sia innervato da una visione culturale profondamente innovatrice, e dall’ambizione di ribaltare di 180° il comune sentire, prettamente individualistico, del pensiero unico dominante. Si tratta di riportare al centro dell’attenzione dell’economia e della politica la persona, la famiglia e le comunità naturali: di dare in altre parole, la concretezza politica e riformatrice a quanto affermato da Papa Francesco: “il denaro deve servire, non governare” (Evangelii
Gaudium n. 58). Anche in questo ambito il riformismo, che trova le sue radici
nella dottrina sociale della Chiesa, rivendica la necessità impellente e centrale,
come prima riforma essenziale, di mettere mano ad un nuovo patto tra il popolo e istituzioni, tra la gente e la politica per rinvigorire la rappresentanza sia politica, sia sociale. Oggi, di fronte al discredito, pressochè universale, di cui gode la politica in Italia, ma non solo, potrebbe sembrare un discorso quasi luna19
re: eppure è, questa, l’unica strada per realizzare riforme capaci di restaurare
democrazia e giustizia sociale.
È solo la politica- parliamo ovviamente della “buona politica”, non certo della troppa politica odierna intessuta di personalismi, ambizioni fini a se stesse,
interessi particolari, commistioni affaristiche e sudditanze corporative - che
può avere la capacità di fondere il metallo vile degli interessi particolari, nell’oro dell’interesse generale; che può avere la capacità di interpretare e costruire il “bene comune”; che può avere una visione dell’Italia come comunità
di destino nella storia. Se questo è, allora il problema dell’Italia, dobbiamo ragionare per dare un nostro contributo, su come tale problema debba essere
affrontato. L’obiettivo si potrà centrare solo se la politica ritroverà tutte le sue
credibilità, autorevolezza e capacità, non solo di rappresentanza, ma anche di
mobilitazione e partecipazione popolare. Si tratta di compiere scelte politiche
epocali e misurarsi con opposizioni ideologiche e “poteri forti” particolarmente
agguerriti. Si tratta di restaurare la centralità della sovranità popolare; restituire
ruolo e dignità alla politica in un corretto equilibrio tra i poteri ed ordini dello
Stato; ripristinare la pienezza della democrazia, pericolosamente svuotata da
oligarchie e poteri non democratici, nazionali ed internazionali.
E’ questa la ragione vera per cui, senza riforme costituzionali,l’Italia non potrà
mai invertire il suo attuale trend di declino. Per mettere in moto un vero processo di sviluppo “di governo e di popolo” sono indispensabili le riforme costituzionali su due precise linee d’intervento: governabilità e partecipazione che sono i
due pilastri essenziali di ogni autentica democrazia. Governabilità significa capacità incisiva di decisione, stabilità di governo, chiarezza immediata il giorno
dopo le elezioni su chi governa e chi fa l’opposizione. Partecipazione significa
ricreare le condizioni perché i cittadini ritrovino la voglia, e abbiano la possibilità, di partecipare recuperando la convinta consapevolezza che le scelte della
politica non solo non sono ininfluenti ma sono, al contrario, determinanti sia per
il futuro dell’Italia che per la vita propria e delle proprie famiglie.
E’ solo in questo contesto che si potrà, efficacemente lavorare per ricostruire
quell’indispensabile “habitat” culturale e sociale di rinnovata fiducia nella politica capace di far risorgere il desiderio di partecipazione alla vita pubblica. Un
desiderio di partecipazione che certo non può essere alla lunga incarnato dall’illusione della “democrazia diretta”del Web: scelta che, con l’esperienza grillina, ha ormai manifestato tutti gli ambigui tratti di manipolazione e condizionamento che la caratterizzano.
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Per avere successo, un processo di simile portata non può, infatti, prescindere da un forte rinnovato impegno dei movimenti cattolici e di tutto il mondo
cattolico. Un impegno che deve offrire, alla società italiana in crisi, l’apporto
della nostra identità e dei nostri valori, nonché la forza del nostro radicamento
nel territorio e nella società. E’ proprio nel momento più buio della crisi della
politica e della credibilità delle istituzioni che i cattolici devono ritrovare la dimensione sociale e comunitaria della loro fede e della loro tradizione per metterla al servizio del rinnovamento della Nazione nella democrazia e nella giustizia sociale. E’ un impegno a cui nessuno di noi può sottrarsi! E’ un appello che
noi lanciamo dal Congresso. Da questo processo può derivare anche una rinnovata organizzazione partitica, con la positiva conseguenza della ricostruzione dei canali di formazione di una nuova classe dirigente: un percorso che,
pur nel rispetto delle autonomie non può vederci insensibili. E’ iniziato fra alti e
bassi un nuovo percorso: lo seguiremo con attenzione, anche risottolineando il
ruolo, determinante, dei corpi intermedi, che qualcuno vuole rottamare. Un
percorso che ci ha visto protagonisti, negli ultimi anni attraverso il forum del lavoro e gli incontri a Todi: un percorso che ha avuto una brusca battuta d’arresto (non certo per colpa nostra!), ma che ci ha visto subito rialzarci, ripartire
per costruire una presenza, la più unitaria possibile, dei cattolici in politica: insieme ad altri, ma anche da soli se altri sono impegnati in altre “faccende”…
Investire in quel “potenziale di sviluppo” della democrazia, che ancora esiste
nel paese ed è disponibile (e di cui anche noi facciamo parte) diventa sempre
più indispensabile. Intanto abbiamo un nuovo Governo: all’inizio abbiamo parlato di scelte azzardate e piene di insidie ma che lo avremmo giudicato sui fatti. Ricevuta la fiducia dal Parlamento su un programma particolarmente ambizioso abbiamo confermato che avremmo aspettato i fatti. Le aspettative sono
molto alte… e bisogna essere in grado di fornire risposte all’altezza delle
aspettative suscitate: risposte che non saranno semplici, nel momento in cui si
passa dalle parole ai fatti. Abbiamo anche dichiarato che siamo disponibili ad
una apertura di credito, ma condizionata alla capacità di fare rapidamente le
riforme, condizionata alle capacità di affrontare con incisività la questione
drammatica, del lavoro e della lotta alla disoccupazione, condizionata all’attenzione reale che si metterà ai problemi delle famiglie. Condizionata alla capacità
di avere una visione alta e non faziosa del compito di questo Governo che non
può, in nessun modo, farsi portatore di forzature sui temi etici. Questa apertura di credito, confermeremo a questo Congresso.
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L’esperienza associativa
A questo punto, avendo assunto come obbiettivo l’indicazione di un grande
cambiamento, abbiamo il dovere di indicare anche in termini organizzativi
nuovi con i quali operare. Le analisi che abbiamo svolto e le proposte che riteniamo necessarie per la difesa del lavoro e per una nuova stagione di riforme,
debbono anche camminare con le gambe del movimento, con il suoi grande
patrimonio di esperienze e di volontariato e le sue diffuse articolazioni nella realtà territoriale.
Entrati nel quinto decennio di vita, sentiamo, quindi, l’urgenza di rinnovare e
adeguare alle mutate esigenze anche il nostro percorso associativo, la nostra
vita interna, le modalità per rendere efficace ed incisiva una presenza.
In ciò consapevoli che tale percorso non ha un aspetto autoreferenziale, ma
ha risvolti e ricadute proprio sulla attività all’esterno, nella società, nei luoghi in
cui esprimiamo il nostro carisma associativo.
Sono tre, gli aspetti su cui abbiamo deciso da tempo si concentri l’attenzione del Movimento con la raccomandazione che la nostra connaturata tendenza riformatrice non riguardi solo gli altri ma sia esercitata anche al nostro interno, al centro ed in periferia, superando piccole sacche di conservazione e di
nostalgia di tempi passati. Tempi che invece vanno governati ed indirizzati in
quella complessità che richiede risposte adeguate, intelligenti, profetiche.
Questi tre ambiti:
La presenza sul territorio
La Formazione
Gli Enti di servizio
Che abbiamo sottolineato più volte, e dibattuto, nel percorso congressuale,
meritano un attento approfondimento e un rilevante rafforzamento.
La presenza sul territorio
Per noi, oggi, restare saldamente ancorati alla natura popolare delle nostre
origini significa rafforzare le forme di rappresentanza, valorizzando ancora di
più una presenza articolata nei differenti territori del Paese. (l’ho ripetuto tante
volte in questi anni……).
Un Movimento come il MCL ecclesiale, popolare, sociale, individua nella valorizzazione della dimensione locale un’evoluzione di sensibilità che vediamo
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come positiva, in quanto ci avvicina ancora più alle persone là dove concretamente vivono. Se vogliamo impegnarci per più democrazia nel nostro Paese, e
più partecipazione attiva alle persone, è evidente che è relazionandoci direttamente con loro che potremo far crescere una sensibilità ed una assunzione di
responsabilità.
E’ il circolo (l’abbiamo ripetuto spesso), nelle varie modalità assunte, -secondo le particolari tradizioni locali- lo strumento privilegiato di questo progetto. E’ il circolo nel suo stare nel cuore della città, ad essere il punto di irradiazione di una sensibilità nuova che richiami i cattolici ad una stagione feconda
di presenza utile a tutta la comunità. Questo ha come conseguenza un impegno dei circoli stessi ad assumere sempre più un ruolo di “soggetto” attivo nella propria realtà, a delineare un progetto di azione “esterna” con la necessità
di rapportarsi con i diversi attori operanti sul territorio.
Innanzitutto con le parrocchie, che da sole fanno fatica ad attivare percorsi
di conoscenza della Dottrina Sociale della Chiesa e della sua declinazione pratica, con i Comuni e gli altri enti pubblici, con le altre formazioni sociali ed associative.
Attualmente il nostro statuto prevede che l’orientamento ed il coordinamento dell’attività dei circoli sia esercitato dalle sedi provinciali. Abbiamo lavorato
affinché, dove se ne riscontrassero le opportunità, tali competenze possano
essere affidate anche ad una realtà territoriale più ampia, in particolare per
aiutare le provincie più piccole a coprire tutti gli ambiti di presenza sociale e di
rappresentanza delle attività di servizio del Movimento.
Un percorso che abbiamo dibattuto nel corso delle diverse assemblee e nel
Consiglio Generale, con le prime decisioni nelle sue linee e motivazioni essenziali e che necessita ulteriori approfondimenti. Anche le sedi regionali dovrebbero assumere un ruolo più forte ed incisivo riguardo ai tre aspetti principali
che abbiamo indicato in questo percorso.
Formazione
Una più rilevante, qualificata e non occasionale presenza pubblica comporta la necessità di incrementare decisamente l’aspetto formativo, dapprima nella sua fondativa dimensione spirituale e come conseguenza, in tutti gli altri
ambiti. Pensiamo sia utile riconfermare che, quando parliamo di formazione,
ci riferiamo a due aree di intervento: la prima è principalmente di competenza
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dei circoli e delle sedi provinciali e riguarda la specifica previsione dell’art. 2
dello Statuto che comporta una formazione alla testimonianza cristiana e ad
un coerente impegno negli ambienti di vita e di lavoro; la maturazione della
capacità di lettura dei problemi, affrancandosi dai luoghi comuni e dal condizionamento imposto dai grandi mezzi di informazione e dalle Lobby di potere e
trovando le modalità di un corretto “orientamento dal basso” dell’opinione
pubblica; l’educazione alla piena partecipazione alla vita sociale per apportarvi
un decisivo contributo. È in questa logica che nel corso di questi anni abbiamo, anche, significativamente potenziato l’attività della nostra Fondazione Europa Popolare. Vogliamo insistere sul rafforzamento della personale vita di fede
e, per questo, riteniamo importantissimo che ogni nostra aggregazione possa
avere un sacerdote che lo accompagni.
La seconda area di intervento riguarda l’acquisizione di specifiche competenze in tutti i campi della nostra attività che devono riguardare: la legislazione
sul lavoro, il sistema di welfare, il ruolo del Terzo settore, la previdenziale e il fisco, l’assetto istituzionale, la cooperazione, ecc.
Naturalmente questa seconda area dovrà avere coordinamenti a livelli superiori, (quello regionale e nazionale) per quei dirigenti più sensibili e preparati
(del Movimento e dei Servizi) per i giovani che partono mediamente da un più
alto livello di istruzione, facendo conto sulle fruttuose sinergie attivate con autorevoli partners tra i quali ricordiamo l’Università Cattolica nel suo complesso,
(e il suo Centro di Ateneo per la DSC e l’Aseri), l’Adapt e Centro Studi Marco
Biagi, per gli aspetti del lavoro, l’Osservatorio Van Thuan, ecc.. . A questi enti
ed ai loro responsabili va la gratitudine del Movimento.
Si ipotizza così, a livello nazionale, insieme ad uno specifico Dipartimento
che aiuti, stimoli, indirizzi, anche una Alta scuola, che potrebbe essere aperta
ad altre realtà associative affini che, come noi, prestano attenzione ad una
maggiore, coerente e competente presenza dei cattolici negli ambiti pubblici.
Vogliamo ribadire quanto già indicato in premessa: la formazione in tutti i suoi
molteplici aspetti dovrà essere il punto principale di impegno della prossima
fase associativa.
Enti di servizio
Essendo inseriti in un “popolo” si incontrato persone e se ne percepiscono
le esigenze. Quante situazioni difficili abbiamo incrociato in questi anni! Quan24
ta richiesta di ascolto da parte di giovani e anziani, quanta solitudine, quante
richieste “di un sostegno”, di un lavoro, pur se occasionale!
Il MCL ha risposto a questi bisogni attraverso enti di servizio, che hanno
sempre rappresentato uno strumento particolarmente importante nell’opera di
azione sociale condotta in favore dei lavoratori e delle loro famiglie, dei pensionati, dei disoccupati, immigrati e, in generale, verso tutti coloro che nei nostri
Servizi hanno trovato ascolto, risposte, tutela.
Patronato SIAS, Efal, Caf, Feder.Agri, Als perseguono l’obiettivo di essere
con la gente e per la gente, come solo un Movimento che trae origine dal popolo può fare e, insieme ad esso, opera per una società più equa. Nuove politiche dei servizi in forte sinergia, e con un coordinamento più forte, e statutariamente meglio definito, potranno significativamente concorrere alla definizione e applicazione di nuovi modelli di welfare in cui il contributo del non profit
diventa determinante.
Valorizzando così le comunità ed i territori ed alleggerendo un sistema di
welfare prevalentemente pubblico che oggi dimostra di non reggere più, soprattutto nei settori di sanità e assistenza. Saper offrire servizi al passo con i
tempi (in qualche caso anche precedendoli) con il supporto di grandi professionalità capaci di incontrare le persone e le loro richieste, che variano al variare delle situazioni, rappresenta un’esigenza ineludibile che abbiamo già affrontato e va ulteriormente affinata e diffusa.
Un sistema integrato di servizi del MCL è già realtà visibile, supportato da un
contratto unico dei collaboratori che sono ormai moltissimi. Un sistema che
avrà sempre più bisogno di veder coinvolte e protagoniste tutte le realtà territoriali in un programma di responsabilità condivisa.
Come si è detto, è dall’incontro con le persone che nascono le rispose non
sempre riconducibili all’ambito dei cosiddetti “servizi storici”. Nascono così le
associazioni dei pensionati; dei lavoratori immigrati; le attività riguardanti il lavoro domestico con la duplice attenzione ai lavoratori ed alle famiglie;la tutela
della persona ammalata; la promozione dei lavori artigianali tradizionali sul territorio; i servizi di formazione e informazione sul lavoro rivolti particolarmente ai
giovani in una fase di drammatica assenza di lavoro (prontolavoromcl); l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro; la promozione della figura dell’amministratore di sostegno; le presenze tecniche e corporativistiche in agricoltura, ecc.. .
La necessità che riscontriamo è quella di rafforzare in tutti, dirigenti del Movimento e operatori dei servizi, la consapevolezza di mettere in campo attività
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sempre più qualificate ed efficienti che sappiano dialogare e rapportarsi non
solo con le strutture centrali, ma anche a livello periferico, con comuni, consorzi, aree metropolitane, regioni e quegli enti a cui verrà affidata la gestione
dei servizi di welfare, confrontandosi con loro e partecipando attivamente ai tavoli co-programmazione.
Ed è proprio per questo che si è rafforzato il coordinamento da ricondurre al
presidente ai diversi livelli, in ciò confermando la consolidata politica associativa di non distinguere il Movimento dai servizi e i servizi dal Movimento.
Laddove c’è il MCL ci deve essere anche con i suoi enti di servizio alla persona, e dove tali attività ci sono si devono porre in simbiosi con la presenza del
Movimento: affermazione più volte fatta ma che deve avere “valenza” congressuale, anche con la definizione di appropriate linee guida.
La nostra scelta per l’Europa
Continuiamo a credere che un ruolo più importante rispetto alle situazioni
critiche nel mondo, e in particolare nell’area mediterranea a noi più vicina,
possa giocarlo l’Europa ed è anche per questo che abbiamo dato più forza alla
rappresentanza del MCL negli organismi comunitari che ci vedono presenti:
quali Eza ed UELDC, anche con nostri dirigenti ai vertici di queste organizzazioni. Il MCL si è sempre impegnato ed adoperato, fin dalla sua nascita, per
rafforzare e favorire la crescita di un’Europa in cui la persona fosse al centro di
un disegno che, con la famiglia ed il lavoro, vedesse crescere le motivazioni
solidali di uno stare insieme per superare le grandi difficoltà, per un nuovo
ruolo, per la crescita più politica, più vicina ed al servizio delle persone, dei
530 milioni di cittadini europei, con uno sguardo verso il resto del mondo.
Oggi con la crisi economica diffusa nel Continente e alla vigilia delle elezioni
per il rinnovo del Parlamento Europeo, siamo chiamati ad un rinnovato slancio
che possa far corrispondere le nuove esigenze con una proposta inclusiva che
sappia ancora sintetizzare le domande dei cittadini. Occorre ancora più sviluppo, non soltanto rigore, occorre una nuova stagione morale e civile in un’Europa tesa alla costruzione degli Stati uniti d’Europa, per continuare a favorire
esperienze solidali di cooperazione, di sviluppo e di pace. Si esce dalla crisi
con più Europa, con un’Europa davvero unita, con una sola voce che punti ad
un’economia al servizio dell’uomo e non a tecnicismi che strangolano la crescita e lo sviluppo. Questa nostra consapevolezza nasce da una cultura popolare forte che ha ben presente l’irreversibilità e la centralità del processo di
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unificazione europea e la necessità di puntare alla nascita di un’Europa politica. È una posizione radicalmente antitetica ala populismo distruttivo che rigetta la stessa prospettiva europea.
Vogliamo ancora che il dialogo sociale sia il perno fondamentale per continuare a sviluppare la coesione europea, ma dobbiamo decisamente lavorare
per superare questo momento critico della nostra storia europea. Lo dobbiamo
fare con lo spirito del dialogo e della convivenza alimentato dalle sue radici cristiane.
E’ a partire da questa matrice che l’Europa, pur vivendo il ritorno dei localismi e dei particolarismi, non deve deflettere dalla vocazione universalistica,
impressa dai suoi padri fondatori e che ne è la caratteristica portante.Lanceremo nelle prossime settimane una grande campagna, “in nome dell’Europopolarismo” ed una chiara avversione ai cedimenti relativistici per contrastare una
deriva anti-europea e radicale: facendoci promotori della costruzione di un
“europeismo consapevole”.
Oltre i confini
La condizione dell’Europa e, ormai dell’Italia, è interessata da forti migrazioni che derivano dalla globalizzazione, dai conflitti nelle aree del Medio Oriente
e dagli squilibri determinati dall’aggravarsi delle situazioni nelle aree più povere del pianeta. La risposta multiculturale non è sufficiente ed anzi, può compromettere il giusto processo di integrazione.
Alle accresciute difficoltà della nostra gente, si sono, quindi, aggiunte le persone straniere con necessità ulteriori: la lingua, le questioni burocratiche,
l’educazione al rispetto delle regole, il diritto di famiglia, gli obblighi scolastici,
la casa e molto altro ancora, ad iniziare dal tema della cittadinanza ai loro figli
nati, cresciuti, educati in Italia.
A queste esigenze sarebbe velleitario rispondere con un unico metro nazionale perché sono diverse da nord a sud, da est a ovest: la nostra sede nazionale può, come ha fatto, offrire strumenti che vanno, però, adeguati e mediati
nell’esperienza locale, a cui si chiede quella vivacità e genialità che siamo certamente in grado di mettere in campo e incrementare.
L’impatto così forte di questi anni con l’immigrazione ci ha rafforzato nella
convinzione di ampliare la nostra presenza nei Paesi di origine, per una adeguata informazione e per cercare di evitare quei “viaggi della speranza” che rischiano spesso di tramutarsi in tragedie o in nuove povertà e schiavitù. Ecco,
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allora, l’apertura di punti di assistenza nelle nazioni del Mediterraneo occidentale e del Nord Africa, nell’Est europeo e nell’Africa centrale. Ma non solo questo: si è incrementato (nonostante i momenti difficili) il sostegno della cooperazione internazionale allo sviluppo, direttamente, e tramite la meritoria opera
del CEFA, l’ong nata nell’ambito del MCL per opera di Giovanni Bersani, primo
presidente del MCL, a cui va un saluto affettuoso nel centesimo anno della sua
intensissima vita.
Non è poi mancato, in queste zone, il sostegno alle tante Chiese che vivono
situazioni di difficoltà ed ecco le campagne, anche pubbliche, di sensibilizzazioni e raccolta fondi per Gerusalemme: -le case per giovani coppie, per l’università di Madaba tanto cara a SE Mons. Twal-, per le tante iniziative a Sarajevo, e poi ancora in Eritrea, Moldavia, Romania, Sud Sudan, Marocco, e molti
altri problematici contesti.
In questa occasione ringrazio per il lavoro svolto all’estero, dalla nostra comunità, ed in particolare i nostri dirigenti che in Europa, Nord e Sud America,
in Australia (qui rappresentati da amici delegati) hanno tenuto alta la bandiera
del MCL.
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In conclusione
E’ più che evidente che occorre forza e continuità per sostenere una presenza associativa così articolata e diffusa, ed è anche per questo che si è particolarmente puntato e investito in questi anni sui giovani del Movimento:che
sono tanti, bravi e appassionati.
A loro va rivolto l’invito a perseverare, stando dentro e non a lato delle situazioni.
Le porte sono spalancate e qualora fossero, in qualche (raro) caso, solo socchiuse, fatevi sentire, bussate forte e vi verrà (evangelicamente o meno) aperto.
Cari amici siamo alla conclusione del mandato congressuale: un periodo
particolarmente impegnativo per i cambiamenti in corso e anche per la crescita del MCL.
In questi anni abbiamo intrapreso la strada di un impegno più grande, più
qualificato (che qualche volta ci preoccupa per le responsabilità che comporta….).
Abbiamo camminato insieme spingendo il Movimento verso i problemi della
società e ci siamo accorti di avere le capacità e la maturità di affrontarli, per
dare risposte attente e puntuali a chi si è rivolto a noi, per trovare riferimento
alle proprie necessità.
Abbiamo, inoltre, mantenuto e qualificato il nostro riferimento ecclesiale.
Una scelta che matura quotidianamente e si equilibra, dando visibilità con il
nostro agire. Il Movimento, abbiamo voluto che fosse: “un Movimento di testimonianza evangelica”, oggi lo confermiamo con l’esperienza maturata in questi anni.
L’essere Chiesa ci richiama ad una responsabilità personale, matura, spirituale, vissuta che si fa testimonianza per scelta, non certo in modo superficiale. E qui riconfermiamo l’adesione convinta alle Reti nate (anche per merito
nostro) all’interno del vasto mondo cattolico: in primis il Forum della Famiglia e
poi Scienza e Vita e Retinopera.
Credo di poter dire che siamo chiamati, dopo questi anni vissuti insieme, a
riproporci una missione profetica del Movimento. Missione che per giungere a
compimento deve essere vissuta con tanta passione: saremo così capaci di riprendere il cammino e, accanto ad una società in crisi, potremo offrire la certezza di quanto abbiamo, e la fede che ci accompagna.
La caratteristica di questa organizzazione è la sua grande capacità di leggere ed interpretare tempestivamente i segnali di un contesto sociale e politico in
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continua trasformazione: con umiltà, ma senza mai rinunciare alle nostre premesse di valore!
Spero di essere stato, in questi anni all’altezza di queste caratteristiche:
questo noi vogliamo continuare ad essere!
Non spetta certamente a me elencare le cose fatte in questi anni: la crescita
del nostro movimento (in Italia e all’estero) è sotto gli occhi di tutti. Mi interessa invece, molto,l’autonomia e l’unità del Movimento per le quali tanto mi
sono “speso” in questi anni.
Sul tema dell’autonomia possiamo dare lezioni a tanti a destra ed a sinistra e
(lo dico senza presunzione alcuna) anche….all’interno del “mondo cattolico”.
L’autonomia e l’unità del Movimento sono un bene insuperabile e condizione indispensabile per andare avanti: è una eredità, che lascio ai giovani, di cui
andare fieri.
Abbiamo innescato tante speranze, attese, disponibilità. In questi anni tanto
è profondamente cambiato, questo mondo in cui viviamo si rivela così profondamente complesso: e per questo mi preme sottolineare l’importanza del nostro Congresso.
Non si tratta di pensare a questo dibattito come al termine di una pur necessaria definizione programmatica: ma come un nuovo inizio. Inteso non come rassegnazione per ciò che accade ma con ottimismo, speranza e passione.
Con la coscienza di aver portato il nostro mattone. Il rischio che ogni tanto
avverto, che stiamo un po’ correndo, ed è la ragione prima del nostro dover riformarci, è quello di ridurre la nostra organizzazione “al solo fare”, ad una
buona prassi, senza pensiero fondativo ed orientativo.
Perché il fare, ed il fare bene, ci vuole sicuramente, anche nelle condizioni
nuove che sono date.
Ma non basta da solo a rilanciare, rimotivare le persone, i lavoratori, né richiamare all’impegno nelle nostre file i tanti giovani.
Questo è il momento in cui iniziare a verificare, con convinzione, a progettare, a delineare, nuovi percorsi capaci di rilanciare il significato ideale ed il valore, nient’affatto strumentale, delle nostre presenze e del nostro agire.
Convinti che solo le forze che affondano memorie, radici e percorsi sui “valori forti” possano, attraverso gli strumenti dell’associazionismo, della cooperazione e anche dell’amicizia, pensare di contribuire alla costruzione di un mondo più umano e più aperto, meno soggetto all’economia, all’interesse particolare, alla tecnica, al potere……. .
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Tutto questo può essere giudicato un’utopia? Ma non ci dispiace!Per noi la
questione è agire come se fosse possibile. Noi non possiamo arrenderci all’idea dei tanti (l’ho detto tante volte) che ripetono “che il mondo è sempre andato così”.
E così dicendo non fanno niente per non farlo più andare così…. . E non
dobbiamo sentirci smarriti di fronte ai cambiamenti, perché dentro di noi ci sono le condizioni per affrontarli, e per uscirne migliori. Valori fondanti della Dottrina Sociale della Chiesa e radicamento sociale ci permettono di non sottrarci
alle sfide del cambiamento, di riprogettare e costruire un ruolo del Movimento
dei lavoratori in grado di vivere questa sfida tenendo insieme: sviluppo, giustizia e libertà: al servizio dell’uomo.
Con questo spirito e con queste motivazioni ringrazio tutta la Presidenza nazionale per il lavoro che ha fatto, per l’aiuto, per il sostegno che mi ha dato, poi
il Comitato Esecutivo Nazionale, il Consiglio Nazionale, i dipendenti ed i collaboratori di tutti i Servizi, gli iscritti al Movimento.
E un pensiero particolare al nostro Don Checco: senza di lui tantissime cose
non le avremmo fatte!
Cari amici, in questi anni di grande crescita è stato un lavoro faticoso, ma,
ammetto volentieri, molto bello……e, come per i festeggiamenti per i nostri 40
anni, anche molto entusiasmante.
Carlo Costalli
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