CIMABUE Cenni di Pepo, detto Cimabue, è un artista sul quale cui ancora oggi le conoscenze sono limitate. Pochissime sono le sue opere giunte fino a noi e spesso molto rovinate, non soltanto dal tempo ma anche da eventi naturali come l’alluvione di Firenze del 1966 o il terremoto di Assisi. Anche le testimonianze storiche scarseggiano poiché anticamente alla sua fama si è sovrapposta quella di Giotto. Della sua produzione rimangono pochi grandi capolavori che mostrano una straordinaria evoluzione artistica e una grande spinta innovativa. Già per gli studiosi dei decenni passati Cimabue è stato considerato soprattutto il capostipite della pittura fiorentina e il maestro di Giotto. Sebbene ancora per molti versi oscura, la personalità artistica di Cimabue è andata meglio definendosi nel corso degli studi più recenti, concentrati sulla pittura del duecento. La ricostruzione cronologica della vita e delle opere di Cimabue è ancora uno dei più difficili problemi della storia dell'arte. Secondo gli studiosi, e ricollegandosi alle Vite del Vasari, Cimabue dovrebbe essere nato intorno al 1240-45. La sua bottega, molto probabilmente, era a Firenze e doveva svolgere un’attività molto intensa, poiché in alcune testimonianze risulta che il maestro aveva parecchi allievi. Unico esempio della produzione giovanile di Cimabue è il Crocifisso di San Domenico ad Arezzo, opera di altissima qualità risalente al 1270 ca. Indiscutibile è la derivazione dalle croci di Giunta Pisano che ha già definito la nuova impostazione compositiva del Christus pathiens, cioè una visione drammatica del Cristo agonizzante, che sostituisce l’iconografia precedente del Christus triumphans. Cimabue parte dall’esempio di Giunta e imposta un’immagine analoga, ma aumentando l’espressione drammatica. Le linee di contorno sottolineano la tensione muscolare e le linee del viso che sono esasperate nella smorfia di dolore. Sullo schema ancora astratto, bizantineggiante (occhi a esse, ventre tripartito, lumeggiature del perizoma), Cimabue introduce un accenno di volume con un chiaroscuro più deciso e disegna le linee dei panneggi del perizoma in modo da accompagnare le forme del corpo. Alle estremità della croce, i '”dolenti'” (la Madonna e San Giovanni) piegano la testa, l’appoggiano alla mano con atteggiamento patetico e guardano lo spettatore che viene coinvolto nel dramma. Esiste documentazione della presenza di Cimabue a Roma nel 1272, presenza che rientra in un importante fenomeno culturale. Durante il Duecento, Roma era una tappa frequente per i più noti artisti toscani. I soggiorni di pittori forestieri a Roma ha determinato un intreccio di influenze stilistiche particolarmente stimolante. Gli artisti stranieri ricevono l’influsso dell'arte classica e paleocristiana, portandola poi fuori di Roma, ma loro stessi, lavorando nella città, lasciavano fondamentali insegnamenti sugli artisti romani o altri attivi nella stessa città. Non sappiamo se Cimabue in quegli anni si trovasse a Roma anche per qualche lavoro, ma sicuramente da quell’esperienza lo stile di Cimabue ricevette una forte impronta classicheggiante, come è evidente nel celebre Crocifisso di Santa Croce a Firenze. Il Crocifisso di Santa Croce a Firenze prima dell’alluvione Alto quasi quattro metri, si presenta dall’apparenza simile al Crocifisso aretino, ma a un’analisi attenta lo stile pittorico è molto cambiato. È un crocifisso grandioso, con la posa del Cristo ancora più sinuosa, ma è soprattutto la resa pittorica delicatamente sfumata a rappresentare una rivoluzione, con un naturalismo commovente e privo di quelle dure pennellate grafiche che si riscontrano nel crocifisso di Arezzo. La luce adesso è calcolata e modella con il chiaroscuro un volume realistico: i chiari colori dell'addome, girato verso l’ipotetica fonte di luce, non sono gli stessi del costato e delle spalle, sapientemente rappresentati come illuminati con un angolo di luce diverso. Le ombre, appena accennate su pieghe profonde come quelle dei gomiti, sono più scure nei solchi tra la testa e la spalla, sul fianco, tra le gambe. Un vero esempio di virtuosismo è poi la resa del morbido panneggio, delicatamente trasparente. Dopo secoli di aspri colori pastosi Cimabue fu quindi il primo a stendere morbide sfumature. Questo Crocifisso rimase irrimediabilmente compromesso dall’alluvione del 4 novembre 1966 di Firenze, tanto da divenire il simbolo delle ferite inferte dall’Arno al patrimonio artistico fiorentino. L’opera, solo parzialmente visibile a causa degli ampi spazi danneggiati, riesce a comunicare ugualmente la natura sofferente, ma sovrumana, del Cristo. Il Crocifisso di Santa Croce a Firenze dopo l’alluvione Tra il 1277 e il 1280, secondo gli studiosi, deve essersi svolto il lavoro di Cimabue ad Assisi dove esegue gli affreschi delle vele sopra il presbiterio e quelli delle pareti del transetto. Questa Crocifissione si trova sul transetto sinistro (un’altra Crocifissione si trova sul transetto destro) ed è uno dei maggiori capolavori di Cimabue. Purtroppo i colori hanno subito un’inversione cromatica per l’ossidazione del bianco di piombo usato dal maestro, ma rimane la composizione e il disegno. Ma proprio attraverso la composizione, Cimabue realizza un’immagine molto intensa, tragica e solenne. È piena di contrappunti: c'è un contrasto tra cielo (dove volano gli angeli, tutti sparpagliati) e terra (dove stanno raggruppate e compatte le figure umane) e tra destra (dove sono i Filistei che gridano contro Cristo) e sinistra (dove sono i dolenti che piangono). Da notare il gesto disperato della Maddalena, con le braccia tese come se volesse raggiungere Cristo, bilanciato dalla parte opposta dai gesti di minaccia dei Filistei. È una scena che è tutta uno scontro: di masse, di forme, di linee, che corrisponde a uno scontro di sentimenti: odio e dolore. I due gruppi si accalcano, mormorano, gridano, si agitano, c'è un gran senso di confusione. Eppure la composizione segue un ordine molto razionale. È divisa in 5 parti: al centro la croce, che taglia e definisce lo spazio; in alto ai 2 lati i gruppi degli angeli. In basso la stessa quantità di spazio è occupata dai 2 gruppi di folla. Il personaggio inginocchiato ai piedi della croce è san Francesco, che fa da intermediario tra Cristo e gli uomini proprio nel momento in cui questi si dividono e si scontrano. Si è pensato che si tratti di un rinvio allo scisma interno dei francescani. L'ordine, infatti, si divide: da una parte i cosiddetti ''fraticelli'' e gli ''Spirituali'' che seguono la regola originaria di povertà assoluta; dall’altra l'ordine ''maggiore'' che ha l’appoggio della Chiesa (che perseguita gli altri) e avvia l'ordine verso la ricchezza e la potenza. Nella Chiesa di Santa Trinita a Firenze era conservata un'altra Maestà di Cimabue, ora conservata agli Uffizi, della quale non si conosce la data, ma che viene attribuita a un momento più tardo, tra il 1290 e il 1300. La principale novità di questa pala è il maggior senso tridimensionale del trono di Maria, che crea un vero e proprio palcoscenico al di sotto del quale si apre un loggiato che per un effetto illusionistico appare al centro come un'esedra: qui trovano posto i busti di Geremia, Abramo, Davide e Isaia che sembrano affacciarsi in uno spazio realisticamente definito. Più tendenti alla disposizione in profondità sono anche le figure degli angeli ai lati del trono. Il trono appare come una struttura lignea intarsiata con piccoli tasselli geometrici e policromi e molto articolata in colonne e arcate. Il gruppo della Vergine col Figlio ha un atteggiamento regale e maestoso, tuttavia la Madre, con la lieve e dolce inclinazione del capo, mostra già un moto affettuoso e umano nei confronti del Gesù Bambino, e indica che ci stiamo ormai avvicinando a grandi passi alla rivoluzione pittorica di Giotto in senso umanistico. Cimabue, Maestà, Tempera su tavola cm. 385 x 223, Firenze, Galleria degli Uffizi In un documento della Società dei piovuti di Firenze del marzo 1302 si nominano gli eredi di Cimabue (Cienni pictoris), di qui si desume che la morte del pittore sia avvenuta tra il novembre del 1301 e il marzo del 1302.
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