pagina 2 /////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////// Approfondimenti critici da Santarcangelo •14 - Festival Internazionale Del Teatro In Piazza /////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////// Relazioni polifoniche tra teatri e città [segue dalla prima] inchiesta a cura di Margherita Gallo e Alex Giuzio Siamo partiti da due domande: «Un festival può creare percorsi condivisi con la città e con le diverse persone che la abitano? Le comunità di quartiere o cittadine sembrano, in larga parte, parlare linguaggi estremamente diversi. Quali possono essere allora, nel teatro del futuro, le relazioni fra teatro, teatri e città?» Ecco che cosa ci hanno risposto i nostri intervistati. Guy Gypens / Kaaitheater, Bruxelles L’arte del futuro dovrà rivalutare il suo contributo alla politicizzazione di ogni cittadino. Oggi, nella maggior parte delle città, vivere insieme non si basa più sull’essere simili (com’era ambizione dei tradizionali stati nazionali), ma sulla differenza. Ciò che abbiamo in comune nelle nostre comunità è spesso messo in ombra da ciò che sembra differenziarci. Come esseri umani dobbiamo anche riconsiderare il nostro rapporto con l’ambiente e con il cosiddetto mondo oggettivo che ci circonda, visto che la dura realtà del cambiamento climatico sta dimostrando poca clemenza. Queste crescenti complessità delle nostre vite stanno a significare che le nostre individuali capacità politiche devono essere (ri)sviluppate. Vent’anni di consumo frivolo dovranno essere seguiti da un periodo di profondo sviluppo della cittadinanza culturale-ecologica-globale. L’arte riguarda la resistenza, la discontinuità e la consapevolezza delle nostre possibilità. Arte è non smettere mai di pensare insieme. Kris Nelson / Dublin Fringe Festival Il teatro del futuro, in particolare quando ne facciamo esperienza durante i festival, può creare e dare forma a ciò che noi pensiamo delle nostre città e di noi stessi in quanto cittadini. I festival accrescono il nostro grado di consapevolezza artistica e potenziano le nostre possibilità; risvegliano la nostra innata connessione con la selvaticità e la libertà. Matthieu Goeury / Vooruit, Bruxelles Per essere molto onesto, non sono sicuro che il teatro oggi sia un linguaggio autonomo. E ancora meno lo sarà nel futuro. Ma credo fermamente nel potere delle Guy Gutman e la Nomadic School di Francesco Brusa e Margherita Gallo SharedSpace è un progetto artistico internazionale di ricerca scenografica sui temi della musica, del tempo e della politica, teso ad aprire uno spazio di esplorazione, ridefinizione e creazione di ambienti performativi che si sviluppa nel corso di tre anni coinvolgendo dodici istituzioni europee. Guy Gutman, artista, dirige la School of Visual Theatre di Gerusalemme e a Santarcangelo cura, con Silvia Bottiroli, il progetto Nomadic School: the Host and the Cloud. Che cos’è la Nomadic School? È un vero e proprio processo di ricerca che riflette sulla relazione tra performance e apprendimento, portato avanti nell’ambito del progetto Shared Space. Abbiamo pensato questa scuola come un organismo che entra a far parte di un meccanismo più complesso: il festival. Quali sono le specificità del Festival di Santarcangelo rispetto ad altri? Di base è un festival in senso classico: ne varchiamo le porte per vedere degli spettacoli, ma in un contesto che rende evidente come gli artisti e le loro opere siano qui i generatori originari di una dimensione sociale o collettiva. Inoltre, tutti si pongono in una posizione estremamente critica, nel senso che non c’è una celebrazione aprioristica degli artisti o della cultura in generale ma ci si domanda in continuazione se non sia possibile far di meglio. C’è dunque una consapevolezza profonda dei propri limiti, che ha a che fare con un forte senso della comunità. Come è avvenuta la scelta di The Host and the Cloud in quanto punto di partenza del progetto? È un suggerimento diretto di Silvia e rispecchia molto la visione dell’arte che hanno lei, Daniel Blanga Gubbay e Livia Piazza, la quale consiste nell’offrire le condizioni affinché si crei uno spazio di discussione e confronto. Il titolo stesso è stato come un detonatore per noi: abbiamo iniziato a porci domande di senso, ipotizzando di volta in volta chi potesse essere l’ospite e chi la nuvola. Tutto ciò ci ha fornito un vasto materiale di discussione, in particolare riguardo allo stare insieme e alle responsabilità individuali che ne derivano. Qual è il rapporto fra pedagogia e performance? Faccio una premessa: a grandi linee esistono due opposte concezioni della pedagogia. In un caso, si tratta di lasciare lo studen- te in una situazione di autonomia, cosicché impari da solo. Nell’altro, si tratta di imporre una certa ideologia alla quale più o meno tutti devono conformarsi. Ecco, unire performance e pedagogia significa non tanto collocarsi in mezzo a questi due estremi, quanto spostare le domande di cui queste due concezioni pretendono di essere le risposte. Il punto è riuscire a creare uno spazio in cui emergano contraddizioni e paradossi, senza che si instauri una dinamica classica di docente-discente. C’è una domanda calzante che spesso mi pongo: cosa ci accade quando leggiamo un testo filosofico? Possiamo dire di aver imparato Platone dopo averlo letto o accade qualcos’altro? Quando leggiamo la filosofia ne siamo assorbiti, ci perdiamo, quindi forse il termine “sperimentare” è più appropriato di “imparare”. Ecco, questo è la Nomadic school: porre le basi affinché sia possibile una trasformazione. Una frase del vostro progetto che ci ha molto colpito è: «Indagare il teatro come ultimo luogo umano» Possiamo dire che la performance e il teatro sono l’ultimo luogo per il presente, prendendo spunto dall’opera di Marina Abramovich The Artist is Present. Penso che il teatro sia uno spazio in cui la nostra umanità è in discussione o in negoziazione, o in realizzazione attraverso il presente. Mi piace molto in questo caso la parola “ultimo” perché comunica pienamente un senso di urgenza, quello stato di emergenza con cui entriamo in sala. Ho imparato che il teatro è un luogo che le persone varcano con necessità specifiche, siano essi attori o spettatori. Se non avessimo queste urgenze non ci sarebbe alcun senso nel dispositivo teatrale, sarebbe solo un’esperienza imbarazzante. A volte mi è capitato di annoiarmi in sala e ogni volta mi sono chiesto: cosa succederebbe se adesso urlassi qualcosa, ad esempio: «Stop!» Non sarebbe fantastico? Tutto si fermerebbe. Tempo fa lavoravamo in un festival per bambini che fu cancellato perché nei giorni precedenti erano esplose alcune bombe. Decidemmo comunque di farlo per conto nostro. Durante uno spettacolo, molto semplice, con attori travestiti da animali, all’improvviso entrò una donna che urlò: «Sta per esplodere! Tutti fuori!» Andammo nel panico, comprese le finte zebre, le giraffe e i coccodrilli, che cominciarono a saltare e scappare. Fortunatamente era un errore e dopo un momento lo spettacolo riprese e tutti ritornarono a credere a quello che stavano guardando o interpretando. arti performative (siano esse basate su un background teatrale o meno) nel connettere le persone, qualunque sia la loro comunità o la loro posizione geografica. Forse è arrivato il momento di eliminare la parola “teatro” e parlare di “comunità d’arti” o simili. Come sappiamo, esistono già molti progetti artistici che sono connessi alle città. Nella maggior parte dei casi questo tipo di avventure artistiche è legato a comunità specifiche o temporanee. E alcune di queste sono davvero fantastiche e hanno un effettivo impatto locale, come Zimmerfrei e Mutonia a Santarcangelo. I festival riguardano proprio questo: creare gruppi sociali temporanei e non omogenei. Non posso predire il futuro, ma mi auguro si possa trovare speranza in questi raggruppamenti, nei festival e negli altri eventi d’arte contemporanea. Come semi per un possibile futuro. Christophe Slagmuylder / Kunstenfestival des arts, Bruxelles In futuro il teatro dovrà curarsi di sviluppare un linguaggio più differente possibile da quelli usati fuori dagli spazi artistici. Questo è l’unico modo per mantenere il collegamento necessario tra teatro e città. Cristina Grande / Serralves museu de arte contemporânea, Porto Il teatro può aprire la curiosità di conoscere l’altro e rafforzare la condivisione di identità. Credo nel teatro come possibilità per approcciarsi all’audience e ridefinirne l’affettività, e contribuire a creare spazi per stare insieme. Stare insieme è il segreto, ma anche la più difficile dimensione da realizzare come organizzatori, artisti e pubblico. Ma non dovremmo mai smettere di tentare di farlo. Judith Blankenberg / Festival de Keuze, Rotterdam Oggi è fondamentale parlare di “teatro del futuro”: non del teatro che conosciamo già, ma di quello che possiamo ancora inventare, produrre e avere come scopo. Ciò che è fantastico nel teatro è che attori e spettatori stanno assieme nello stesso luogo, ed è proprio sull’audience che vorrei accendere i riflettori. Ad Amsterdam abbiamo visto che, per continuare a portare artisti e pubblico a teatro, è diventato vitale non solo spiegare cosa facciamo, ma soprattutto come lo facciamo. Creiamo workshop, spesso riguardanti la parte tecnica, per insegnare tutto ciò che circonda l’evento teatrale. Atleti della Scena / Silvia Calderoni ****************** Silvia Calderoni, Ritratto di Ilaria Scarpa C’è una pianta selvatica nella scena italiana, un alberello cresciuto in una crepa dell’asfalto. Perfomer, mannequin, animale da scena, bussola randagia, sono alcuni degli spigoli picassiani che Silvia Calderoni offre al concetto di attrice. Efebica, conturbante, si nutre dello sguardo di chi segue il suo richiamo e a sua volta cattura prede eterodosse col proprio occhio mai pago. È un essere che permane negli spazi del passaggio, nelle soglie tra gli stati e gli stadi. Lì, in quella condizione di ragazza-ragazzo, infante secolare, felino-cane, calce viva-clorofilla, capta e elabora l’umano restituendone le più remote dimensioni. Come presenza muta, sorale, si è fatta poesia fisica nell’universo scenico del Teatro Valdoca, assorbendo e riflettendo la tenerezza sorgiva del verso di Mariangela Gualtieri e l’energia fluviale di Cesare Ronconi. Nel mondo Motus conduce con Enrico Casagrande e Daniela Nicolò esplorazioni verso il centro della terra, alla ricerca dei ceppi rivoluzionari, degli archetipi della rivolta, per soffiarvi sopra un alito che li riattizzi ancora, per riallacciare un cordone ombelicale teatro-mondo che rischia di atrofizzarsi. Col suo corpo giacomettiano parla di una sottigliezza insvelabile e ci istruisce nel sillabarla come tale, nel contemplarne la rifrazione aspra, nel sentirne la vulnerabilità e farne la nostra dolcezza. Credo Silvia, come il leggendario Kaspar che la abita, provenga da un pianeta sconosciuto, da uno scoglio dimenticato e da un tempo rotondo. La sua scuola è un caos di idee chiare: un ascolto irriducibile di sé e dell’altro, col quale misura l’aria, e che le dice come stare nelle cose; una prontezza di riflessi in termini amorosi; uno stare che risuona, insieme, come solo e come coro, disobbediente soprattutto alla proibizione di contraddirsi. Ora Silvia e Motus ci conducono - con il giovane filosofo, poeta e attivista magrebino Mohamed Ali Ltaief detto Dalì - in una tenda da campo, o forse è la stiva di una nave, oppure è una trincea. Sullo sfondo è evocata la primavera araba, la sua proiezione, il suo fallimento. In Caliban Cannibal ci si sente sopra un confine, tra il fuori e il dentro, tra l’oggi e il domani, tra l’agire e il contemplare. È la costruzione di uno spazio poetico nel quale scrutarsi interiormente, nei moti di fuga e nella fame di tregua; lì viene accolta la nostra domanda di asilo, la parola si fa impropria e sospesa, e si prepara uno stare pienamente in ogni attimo, in ogni margine. Mentre l’Ariel shakespeariano, nella vana attesa di libertà, cerca la propria umanità nelle tempeste del Mediterraneo. Cristina Ventrucci operatrice teatrale
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