Un artista alle origini del Made in Italy LA TUTA. DA ANTIMODA A HAUTE COUTURE Enrica Morini LA TUTA PRIMA DELLA TUTA Ormai presente in tutti i guardaroba, la tuta intera o in due pezzi dello stesso tessuto ha assunto una serie molteplice di finalità: asseconda i movimenti nelle attività fisiche, da quelle di modesto impegno fino alle vere e proprie competizioni sportive; attraverso vari accorgimenti protegge il corpo dagli sbalzi termici, dagli urti, dalle esposizioni a situazioni pericolose o da contatti ambientali indesiderati; favorisce la ricerca di comodità nel tempo libero e aggiunge fascino alle mises da sera. Dalla lettura di un libro sul divano di casa alla passeggiata sulla luna, dalla gara automobilistica o motociclistica alla rilevazione di tracce sulla scena di un delitto, la tuta è entrata a far parte del nostro panorama quotidiano per la sua duttilità e la sua comodità. Fin dal suo apparire nel sistema vestimentario occidentale, la proposta di un abito più o meno aderente in cui fossero combinati corpetto e pantaloni venne collegata a un modello di pensiero e di vita che privilegiava il concetto d’igiene e il suo scopo fu quello di seguire le forme del corpo senza comprimerlo, di assecondarne i movimenti, di appoggiare solo sulle spalle, di garantire una temperatura uniforme. Contrariamente a quanto sempre scritto e detto, però, non fu Thayaht a inventare l’indumento in un pezzo unico che egli ha chiamato tuta. Certamente ha concepito il nome che lo definisce in italiano e la sua elaborata etimologia1, anche se proprio questo è stato invece ampiamente misconosciuto2. Il prototipo della tuta moderna fu probabilmente un capo d’abbigliamento nato alla fine del Settecento e destinato ai bambini delle classi più elevate (forse il primo modello specificamente pensato per l’infanzia), che si trova documentato in alcuni dipinti3. Fu però nel corso dell’Ottocento che alcuni gruppi femministi, impegnati nel progetto di riformare l’abbigliamento delle donne, la utilizzarono per trasformare il sistema della biancheria intima. Nell’intento di eliminare la costrizione del busto, di ridurre gli strati che componevano il vestiario di sotto, di garantire una praticità maggiore e anche una più razionale protezione dal freddo, si cominciarono a proporre capi che riunivano in un unico pezzo la camicia e le mutande lunghe alla caviglia. Forse si trattò dell’evoluzione di un indumento già in uso per proteggersi dal freddo, ma dagli anni ’60 esso assunse nuove forme e nuovi significati. Intorno alla metà del decennio fece la sua comparsa fra la biancheria proposta da riviste femminili e nel 1868 venne brevettato negli Stati Uniti come Emancipation union under flannel. In America diversi Women’s Club concentrarono sulla cosiddetta combination le loro ricerche per migliorare e razionalizzare l’abbigliamento intimo delle donne, offrendo varie soluzioni da realizzare individualmente o, più spesso, prodotte da aziende che avevano colto il nuovo mercato4. I modelli di biancheria proposti furono sostanzialmente due: il primo, di jersey di lana o seta, da indossare a pelle e il secondo, di cotone o lino, che sostituiva camicia e mutandoni. Nati insieme, ebbero però storie e periodi di successo differenti. La combinazione di jersey di lana fu accolta nel sistema salutista del Dr. Jaeger e applicata anche alla biancheria infantile e maschile, tanto da diventare un normale oggetto di consumo attraverso la produzione della nascente industria di confezione, soprattutto americana. Quella di tessuto ebbe il proprio momento di gloria dopo la Prima guerra mondiale, quando il nuovo sistema vestimentario femminile cancellò dal guardaroba tutta la biancheria che aveva accompagnato le donne fino a quel momento. Già verso la fine del XIX secolo, però, il completo composto di brache e corpetto aveva trovato un altro campo di utilizzazione: l’abbigliamento da lavoro, la cui richiesta aveva dato vita a una vera e propria manifattura d’indumenti pronti e a un fiorente mercato. L’idea di utilizzare un tessuto povero e robusto come il denim e di rinforzare le cuciture con rivetti metallici, brevettata da Levi e Davis nel 1872, produsse una rivoluzione nei pantaloni destinati ai mestieri più pesanti. Nel 1873 furono confezionati i primi blue jeans e ben presto il modello base cominciò a prevedere variazioni rispondenti alle esigenze di diversi tipi di occupazione. Dapprima furono proposti overall muniti di pettorina e bretelle e poi di corpetto a forma di camicia con maniche lunghe, colletto e un’abbottonatura che percorreva l’intero davanti. In questa versione furono usati in lavori “sporchi” come quelli dei raccoglitori di cotone, dei minatori, degli addetti alla ferrovia, dei meccanici o nelle fabbriche che producevano fosforo, ma anche in molte di quelle occupazioni in cui furono impiegate le donne durante la Prima guerra mondiale. Nei primi decenni del Novecento questi capi comparivano normalmente nei cataloghi dei grandi magazzini e delle vendite per corrispondenza e venivano pubblicizzati attraverso inserzioni sulla stampa più o meno specializzata. Ma le sperimentazioni sulla duttilità di questo capo e sulle sue infinite potenzialità erano solo all’inizio. Nell’inverno fra il 1916 e il 1917 l’overall iniziò un fruttuoso rapporto con la ricerca tecnologica avanzata mettendosi al servizio dell’aviazione. Sidney Cotton, un pilota di bombardieri di origini australiane che prestava servizio nell’esercito britannico, si rese conto che si poteva fare qualcosa per proteggere dal freddo quelli che, come lui, durante le missioni di combattimento conducevano ad alte quote i piccoli aerei da guerra dall’abitacolo scoperto. Il risultato fu il progetto di un vero indumento tecnico, confezionato con cotone impermeabile, foderato di pelliccia sottile e imbottito con uno strato di seta. Anche i risvolti erano di pelliccia in modo da garantire la temperatura interna. Il Sidcot flying suit entrò a far parte dell’equipaggiamento standard dei Royal Flying Corps e del Royal Naval Air Service, fu adottato da piloti ed eserciti di altre nazioni e rimase in uso fino a che gli sviluppi dell’aeronautica lo resero obsoleto, ma solo dopo la Seconda guerra mondiale. Sia nella versione iniziale, sia nelle successive soluzioni che prevedevano altri materiali, tasche differenziate, allacciature più o meno complesse, l’overall inventato da Cotton divenne uno dei simboli dei pionieri dell’aviazione e, di conseguenza, una delle icone della modernità del Novecento. Alla fine degli anni Dieci, quindi, quella che in diverse lingue veniva definita una “combinazione” era stata sperimentata in diversi campi THAYAHT dell’abbigliamento come risposta innovativa a quella ricerca di funzionalità cui poco si adattavano i capi che componevano il sistema vestimentario tradizionale. Aveva dato inizio a un guardaroba specifico per l’infanzia, aveva sostituito capi di biancheria vecchi di secoli, aveva offerto ai lavoratori la possibilità di indossare abiti nuovi e non stracci di seconda mano, aveva fornito una risposta ai problemi posti dal progresso tecnologico. LA TUTA DI THAYAHT Quando nell’estate 1920 Thayaht propose la sua tuta attraverso le pagine de «La Nazione» tutto questo era già accaduto ed egli ne era certamente al corrente. Ernest Michahelles faceva parte di una ricca famiglia colta e decisamente cosmopolita che per una serie di motivi si era stabilita a Firenze5. Il bisnonno materno, Hiram Powers, era stato un famosissimo scultore americano e aveva influenzato con il proprio stile fra romantico e neoclassico il gusto estetico dell’estabishment statunitense della metà dell’Ottocento. La madre anglo americana e il padre svizzero di origini tedesche completavano la cornice culturale in cui egli si era formato, cui anche il particolare clima internazionale della Firenze di quegli anni dovette contribuire non poco. I viaggi e le frequentazioni di personalità dallo stile di vita e dal livello intellettuale non comuni concorsero a dare forma ad una creatività poliedrica, frutto anche di un’apertura mentale e una curiosità culturale priva di barriere o accademismi che guidarono la sua continua ricerca di sempre nuovi campi d’applicazione. Nell’autunno del 1919 aveva trascorso un lungo soggiorno a Parigi dove aveva visto le novità esposte nelle vetrine («I still find that the modern chic is not really new. I am still in time with my ideas»6), ma soprattutto aveva avuto una serie d’incontri importantissimi per la sua formazione artistica e per il suo futuro, forse facilitati dal nome dell’illustre bisnonno. Aveva conosciuto Leonce Rosemberg («who is connaisseur of modern pictures and cubist painting»7) che l’anno prima aveva aperto la galleria L’effort moderne; al Louvre era stato ricevuto da due dei curatori, Carle Dreyfus e Louis Metmann, il secondo dei quali si occupava del Musée des Arts Décoratifs e, dopo aver visto i suoi lavori, gli aveva dato preziosi consigli8. Per quanto riguarda la moda, aveva frequentato Umberto Brunelleschi9, una delle figure più significative di quella straordinaria stagione del disegno à 23 24 THAYAHT Un artista alle origini del Made in Italy pochoir che caratterizzò le più importanti riviste specializzate dell’epoca. In novembre aveva poi venduto oggetti e disegni a diverse maison de couture e in particolare due poster a Vionnet, da cui aveva anche avuto una commessa per specifici progetti10 cui si dedicò dopo il ritorno a Firenze. Sarebbe quantomeno sorprendente che un personaggio di questo tipo non conoscesse i nuovi abbigliamenti da lavoro di produzione americana e non avesse mai visto le fotografie degli assi dell’aviazione così frequentemente pubblicate sui giornali. La sua idea della tuta esplose nell’estate del 1920 motivata, come Thayaht stesso dichiarò in un’intervista pubblicata nel 1958, dal costo proibitivo dei tessuti che aveva provocato «l’assoluta impossibilità di cambiare i vecchi vestiti con qualcosa di nuovo e di fresco»11. Una notazione di Filippo De Pisis, scritta certamente poco tempo dopo la proposta della tuta, conferma «il prezzo esagerato dei vestiti» in quegli anni di dopoguerra12. La stagione estiva facilitò senza dubbio la realizzazione di Thayaht: come egli stesso raccontò a Raffaello Bertoli, «un giorno, passando per via Orsanmichele, vidi in una vetrina tessuti di cotone e di canapa a poco prezzo. Presi alcuni campioni e mi misi al lavoro. La confezione doveva essere di minima spesa e tale da potersi fare in casa, perchè il nuovo tipo d’abito fosse alla portata delle masse com’io avevo sognato. Diagrammi, prove, disegni e finalmente modelli, per i quali ebbi la collaborazione di mio fratello Ruggero, anch’egli pittore. Poi mobilitai alcune amiche, abili con la macchina da cucire13, e mi feci confezionare la prima ‘tuta’ bianca, da me stesso tagliata, che può considerarsi il prototipo di quelle perfezionate, venute in seguito»14. Fu quindi un’elaborazione graduale quella che portò a un disegno del 1920, perfezionata poi nel più professionale schema sartoriale pubblicato in «La Nazione» con il titolo Taglio della tuta. Modello Thayaht a linee rette 15 (cat. n. 000). Ma di cosa si trattava? In realtà di una combinazione che trovava la propria particolarità nella progettazione eseguita secondo uno schema geometrico semplice e molto rigoroso, che privilegiava la bidimensionalità del tessuto piuttosto che le forme del corpo da rivestire. La tecnica sartoriale che prevede di utilizzare per la confezione di un vestito la pezza di stoffa intera, invece di tagliarla in piccole porzioni adeguate e ricalcate sulla morfologia del corpo, appartiene al mondo antico e a una serie di culture extraeuropee. L’Occidente, che invece ha privilegiato la forma dell’abito tagliato e cu- La tuta. Da antimoda a haute couture cito fin dal Medioevo, l’ha utilizzata quasi solo nella realizzazione delle camicie di sotto. Ed è a questa tradizione che sembrano ispirarsi alcuni particolari della tuta di Thayath, come i tasselli sottoascella. Tutto ciò rappresentava, comunque, una novità per l’abbigliamento esterno. La promozione di Thayaht, però, faceva leva su altre novità. Da un lato, infatti, egli sosteneva la possibilità della tuta di diventare un «abito universale», un «vestito unico» in grado di sostituire l’intero guardaroba. Con una profetica intuizione scrisse: «La tuta è adatta per ogni occasione e tutte le stagioni. Per lo sport, per il lavoro, come abito da sera, per dormire, per la città, per la campagna, per la montagna, per la spiaggia, per l’automobile, per viaggiare, per cacciare, per i giorni di scuola e di vacanza, per la fattoria, la fabbrica, l’ospedale e il laboratorio ecc. ecc.»16. Dall’altro lato, enfatizzava la sua economicità, che ne faceva un potenziale prodotto di massa, alla portata di chi si poteva permettere solo le «trenta lire» necessarie per la sua confezione fino a «chi ha i milioni»17. La proposta s’inseriva in una sorta di movimento contro gli aumenti dei prezzi che si erano verificati in quel dopoguerra e che, secondo «La Nazione», ormai aveva fatto proseliti in tutto il mondo occidentale. In un articolo firmato con l’iniziale “m.”, pubblicato il 16 giugno 192018, il giornale fiorentino dava notizia del fatto che «alla sfrenata corsa all’aumento del costo della vita, i cittadini degli Stati Uniti hanno detto basta, ed è incominciato così lo sciopero dei consumatori, il più terribile degli scioperi, perchè insegna a noi tutti che, volendo, si può fare a meno della massima parte delle cose, che ci siamo abituati a pensare come necessarie». L’idea aveva «rapidamente varcato l’Oceano» dilagando «in Portogallo, in Francia, in Germania e in Inghilterra dove ha già dato risultati apprezzabili». In Italia erano stati i giornali a farsi promotori dell’iniziativa ed in particolare «La Nazione della Sera» aveva ottenuto qualche risultato in Toscana dove cominciava a farsi sentire «ancor timidamente ma sicuramente, la tendenza al ribasso dei prezzi». Fu all’interno di questa campagna che trovò spazio la tuta di Thayaht, che il quotidiano pubblicizzò come «proposta pratica, la quale, se accolta dal pubblico con quel favore che la sua bontà merita, può essere di grande giovamento al progresso della propaganda contro l’eccessivo costo della vita, almeno per un aspetto dei più importanti del problema». Il semplice fatto di «sostituire il tradizionale abito, del costo variabile fra le trecento e le ot- Modello n. 1662 Maison Vionnet, 1922 ca Trittico fotografico Les Arts Décoratifs, Musée de la Mode et du Textile, Paris, Archivio Vionnet, faldone 42/1, fas.1 tocento lire, a seconda della qualità della stoffa, l’eleganza del taglio e le pretese del sarto» con un «tipo dimesso di abito» confezionato con «canapa o altra materia vile ed ordinaria e del costo oscillante fra le trenta e le quarantacinque lire», che poteva tranquillamente essere «confezionata in casa», rappresentava infatti non solo un risparmio notevole, ma anche una presa di posizione contro il mercato e contro il modello sociale che la guerra aveva prodotto. L’affermare che il modo di vestire concepito da Thayaht fosse una «sana reazione alla mania del lusso e di sperpero che ha invaso dopo la guerra gli alti e i bassi strati sociali, un giusto correttivo alla fatua esteriorità dei costumi, prevalsa per la dittatura economica dei pescicani e degli arricchiti di guerra» e che «la tuta dovrebbe essere portata da tutti coloro che lavorano e vivono del loro modesto guadagno, come segno di distinzione per la nobiltà del lavoratore manuale ed intellettuale» aveva il sapore di una presa di posizione politica (seppur con forti venature aristocratiche) contro quella parte di mondo che dalla guerra aveva tratto vantaggio. THAYAHT In verità i disegni fatti da Ram per pubblicizzarla (cat. n. 000-000) e le foto in cui Ernest fa da indossatore del nuovo modello fanno pensare a un target più di dandy che di gente comune. A parte la cartolina dal titolo Tuttintuta in cui, citando il gruppo centrale del Quarto stato di Pellizza da Volpedo («la nobiltà del lavoratore manuale ed intellettuale»), il fratello dell’artista mette in scena un pittore, un letterato, uno spaccapietre, una contadina, una donna con un cesto e un bambino tutti allegramente vestiti in tuta, le altre immagini si riferiscono a un gruppo sociale molto raffinato: eleganti signori con cappello, bastone e camicia “Robespierre” che passeggiano, leggono il giornale, conversano accanto ad automobili lussuose. La raffinatezza dei particolari è ancor più leggibile nelle fotografie che Thayaht si fece scattare da Salvini: l’accurata stiratura che disegna una perfetta piega sui pantaloni, il bastone da passeggio, la cintura di pelle con la fibbia, il fazzoletto elegantemente piegato nel taschino, la camicia dall’ampio colletto candido, i calzini bianchi o l’assenza di calze, il nastro graziosamente anno- 25 26 THAYAHT Un artista alle origini del Made in Italy dato in vita19, i sandali da frate a strisce e quelli con «gli occhi» normalmente indossati dai bambini (e probabilmente anche da eccentrici in vacanza) ricordano quel vestire «con la cura di una artista» che Fosco Maraini aveva notato al primo incontro con il vicino di casa20. Ma da dove era scaturita l’idea di un abito universale dal taglio perfettamente geometrico e dal costo così contenuto? La storiografia più recente ha avvalorato, seppure con molti dubbi, l’ipotesi di un’influenza futurista21, già presente nell’articolo di Bertoli del 1958. Nei documenti del 1920, però, non compare nulla della veemente carica iconoclasta caratteristica di questo movimento d’avanguardia, che peraltro aveva già proposto un capo di abbigliamento analogo. Entrambi i manifesti di Balla, Le vêtement masculin futuriste e Il vestito antineutrale del 1914, portano infatti nell’ultima pagina il disegno di un “Costume en une seule pièce à mettre d’un seul coup”. Con Balla Thayaht condivideva il giudizio sul modo di vestire dei suoi contemporanei, ma lo espresse in tono più sobrio e per nulla militante. Negli Avvertimenti alle tutiste (cat. n. 000) del 2 luglio 1920 scriveva: «Negli ultimi vent’anni, il costume maschile è stato di una rigidità quasi inamidata e i tessuti che hanno servito a coprirci, sono stati preferibilmente di colore scuro e incerto, per non far vedere la polvere e le macchie. La maggior parte degli uomini portavano uno stesso abito per degli anni senza farlo lavare. La ‘Tuta’ è la naturale reazione a questo incredibile stato di cose. La linea morbida e libera, il tessuto lavabile, la semplicità della fattura, la varietà e la purezza dei colori, sono altrettanti attributi che fanno del nuovo indumento l’abito razionalmente moderno, che rompe definiti- La tuta. Da antimoda a haute couture vamente le stupide convenzioni del passato». Un linguaggio molto diverso e soprattutto un obiettivo decisamente meno impegnativo di quello perseguito dai due manifesti futuristi sull’abbigliamento maschile. Un’ipotesi molto più interessante dell’adesione alle idee futuriste è formulata da un autentico dandy come De Pisis nello scritto già citato. La nota, dal titolo Gli abiti di tela, le “combinaisons”, le tute, inizia con questa affermazione: «Adesso da Parigi, dove l’iniziatore del movimento è stato un arbitro dell’eleganza nell’anteguerra, Alessandro Duval, si è diffuso anche in Italia il tentativo di riscossa contro il prezzo esagerato dei vestiti. Il Duval consiglia la ruvida tela azzurra degli operai, che tagliata bene e accordata col resto, può riuscire molto elegante. Altrove, invece, sull’esempio dell’America, si è pensato a una combinaison pure in tela greggia, chiamata da noi tuta, ma questa non è affatto chic»22. L’osservazione del pittore ferrarese consente di spostare l’attenzione dalle teorie degli artisti di avanguardia (quelli che egli definisce «gli eccessi dell’abito futurista») all’eccentrico mondo degli eleganti parigini che Ernest poteva aver conosciuto o frequentato durante il suo lungo soggiorno dell’autunno del 1919. Forse, come ha scritto Fortunato Bellonzi nel 1982, «La moda era il mondo di Thayaht, la mondanità il suo regno»23. Questo giustificherebbe sia l’idea di creare un’antimoda non inventando qualcosa di totalmente inedito, ma piuttosto trasformando un indumento da lavoro in un abito elegante, sia la cura nella ricerca di un taglio perfetto (in cui è possibile leggere anche una citazione del kimono), sia l’aria un po’ ironica e snob che aleggia in quella sorta di giocosa campagna pubblicitaria orchestrata dai due Modello n. 2094a Maison Vionnet, 1922 ca Trittico fotografico Les Arts Décoratifs, Musée de la Mode et du Textile, Paris, Archivio Vionnet, s.d.n.2416-2099 Modello n. 1661 Maison Vionnet, 1922 ca Trittico fotografico Les Arts Décoratifs, Musée de la Mode et du Textile, Paris, Archivio Vionnet, faldone 42/1, fas.1 fratelli e da Yambo. D’altra parte, nonostante trionfalistiche affermazioni del tipo che «l’abito universale fu trovato così comodo e così economico, che in poche settimane centinaia di persone di ogni ceto l’avevano adottato entusiasticamente e la ‘moda’ si propagò in tutta la Toscana»24 tanto da provocare speculazioni sul prezzo della tela, probabilmente il successo fiorentino della tuta fu limitato alla cerchia di amici della buona società cosmopolita e al ballo che ebbe luogo a Palazzo Rucellai con i partecipanti in tuta personalizzata, raccontato molti anni dopo da Nannina Fossi Rucellai a Mauro Pratesi25. Già l’estate successiva il fuoco di paglia di questa moda era ormai spento, nonostante la proposta di una novità: la Bituta composta di casacca e pantaloni separati26 (cat. n. 000-000). Nel momento di massimo fervore progettuale, Thayaht aveva anche provato a collocare la sua invenzione nel business della confezione industriale americana attraverso un brevetto e un contratto di produzione con una grande manifattura. Su suggerimento del colonnello S.A. Moffat, il 25 giugno 1920 aveva infatti inviato il modello della tuta accompagnato da una serie di annotazioni a Sigmund Eisner la cui azienda di Redbank forniva uniformi all’esercito statunitense, ma anche a corpi speciali come la Guardia forestale o ad associazioni come i Boy Scout. Nonostante le propagandistiche affermazioni sul successo già ottenuto dall’indumento e l’accurata descrizione delle sue potenzialità, Eisner non dovette mai rispondere alla richiesta. La tuta rimase uno dei sogni nel cassetto del- THAYAHT l’artista fiorentino, pronta per essere riproposta alla minima occasione. La portò con sè in America l’anno successivo e l’indossò durante il viaggio di andata sull’Aquitania «to everybody amazement. I have had people quite interested. Some friends I have made on board took photos on the Boat Deck (Top Deck)»27, a Parigi, nel gennaio 1922, ne parlò con Jeanne Fernandez e Bernard Boutet de Monvel («both well known art critics and society stars») suscitando la loro approvazione, ma anche una reazione di sorpresa28. LA TUTA FEMMINILE Il successo del progetto doveva però arrivare da un’altra parte. Nel 1920, insieme alla versione maschile, Thayaht aveva progettato una tuta femminile con la gonna: si trattava di una sorta di camicia da uomo allungata, con una parziale abbottonatura sul davanti, da indossare con la cintura stretta in vita. Anche in questo caso il modello era costruito con maniacale cura geometrica: lo schema rettangolare di base era sagomato dalle ascelle ai fianchi con due tagli obliqui che permettevano di ricavare il tessuto per le brevi maniche (cat. n. 000). L’apparente scarsa ricercatezza di questo abito ha certamente contribuito a far sì che gli studi su Thayaht lo abbiano trascurato in favore della più “artistica” e documentata soluzione maschile. In realtà essa era perfettamente coerente con il cambiamento che le donne stavano imprimendo al proprio modo di vestire dagli anni della prima guerra mondiale. Lo stesso autore 27 28 THAYAHT Un artista alle origini del Made in Italy ne era consapevole quando scriveva: «il vestito femminile è stato negli ultimi dieci anni quasi sempre assai semplice e niente affatto rigido. Per la donna, dunque, la ‘tuta’ non rappresenta che una maggiore semplificazione e l’abolizione totale delle stoffe inutilmente costose». Nella sua ipotesi si trattava quindi di una soluzione più economica del tipo di abito che le donne avevano già adottato, ma non per questo meno raffinata, dal momento che «l’eleganza...non ha niente a che fare colla qualità della stoffa; e non vi è nulla di più ridicolo, di credere che una stoffa di prezzo possa conferire a chi l’indossa, un’apparenza di grazia o di distinzione»29. Furono, però, la coerenza con il gusto femminile più alla moda e la concezione del modello ad aprire sbocchi imprevisti a questo tipo di tuta, sia nella versione intera sia in quella in due pezzi (Bituta). Come già detto, nel 1919 Ernest Michahelles iniziò a collaborare con Madeleine Vionnet, prima in modo saltuario e poi, dagli inizi del 1922, in modo sempre più impegnativo e continuativo, tanto da giungere nell’autunno di quell’anno alla formalizzazione di un contratto che prevedeva l’esclusiva della Maison parigina sulle sue creazioni di couture, due mesi di permanenza a Parigi due volte l’anno per la preparazione delle collezioni, la realizzazione delle tavole pubblicitarie per «La Gazette du Bon Ton». La Maison Vionnet, come ha scritto Betty Kirke, era organizzata «like an industry»30 in cui Madame Madeleine aveva il ruolo principale per quanto riguardava la progettazione sartoriale dei modelli. Una serie di collaboratori si occupavano invece di proporre spunti e idee, di inventare motivi decorativi per tessuti e ricami, di progettare accessori e complementi, di preparare i disegni che le riviste specializzate avrebbero pubblicato. Thayaht si trovò inserito in questa fucina e il 30 gennaio 1922 scrisse alla nonna: «I am going discuss the Tuta with Vionnet this morning. We are already concorded a dress with maniche “a tuta”. It’s very neat. ‘Robe d’aviation’ they call it because the skirt is specially made to get into the ‘avion’, withaut showing legs»31. Madeleine Vionnet e Ernest Michahelles avevano in comune l’amore per la geometria, cui la conoscenza delle teorie sulla simmetria dinamica di un artista americano, Jay Hambidge, aveva offerto un impianto teorico di riferimento. Osservando i modelli della sarta francese e quelli della tuta si coglie un’assoluta consonanza: in entrambi i casi il tessuto viene tagliato seguendo schemi geometrici che assecondano La tuta. Da antimoda a haute couture i movimenti del corpo una volta che il vestito è indossato e consentono (nel caso di Vionnet) di creare effetti mai visti nella moda occidentale. Il momento storico era peraltro assolutamente perfetto per proporre al pubblico questo procedimento. La grande sfida lanciata dalle donne alla couture francese in quel dopoguerra imponeva di rivoluzionare il sistema sartoriale tradizionale per creare un modo di vestire del tutto diverso da quello dei secoli precedenti. Eliminati i busti, le gonne lunghe, i sostegni, gli strati di biancheria, le donne chiedevano abiti comodi per muoversi, lavorare, ballare, guidare l’automobile, fare sport. Dalla guerra erano uscite vestite con tailleur maschili o con tuniche diritte che si appoggiavano sulle spalle e non comprimevano il corpo. Compito dell’haute couture era ora creare su queste basi un nuovo linguaggio dell’eleganza e dell’esclusività. Vionnet propose l’abito confezionato con il tessuto in sbieco, in modo che si appoggiasse morbidamente al corpo. Agli inizi lavorò soprattutto sul quadrato utilizzato in diagonale così da ottenere pannelli geometrici che, ricadendo, formavano panneggi spesso asimmetrici, ma nei primi anni Venti cominciò a sperimentare la semplice forma rettangolare sia in tuniche diritte, sia in capi più complessi. La tuta di Thayaht rientrava perfettamente in questa ricerca, ma la Maison Vionnet si occupava di abbigliamento femminile e quindi fu la meno eclatante versione da donna a essere studiata, riprogettata e prodotta. Il 10 febbraio 1922 Ernest scriveva trionfante alla zia Alice Mildred Ibbotson: «here is news!! The TUTA is being patented by Vionnet & Co.» e sei giorni dopo informava la nonna, Louisa Powers Ibbotson, che «the Tuta is being “déposé” here as a model. Bituta also»32. La tuta era entrata nel mondo Vionnet: in conformità con la propria politica di difesa dalle contraffazioni, la Maison ne brevettò e depositò il modello. Il 2 marzo la nuova collezione della sarta parigina fu presentata con un tale successo di pubblico che «at three there were so many motors in front off 222 Rue de Rivoli this afternoon that there was special service of guards to regulate the traffic». Fra i circa 160 modelli che la componevano c’era anche la nuova versione della tuta e il risultato riempì Thayaht di orgoglio: «My new ideas have created quite a sensation and the TUTA will be worn by the smartest women all over the world»33. Il lavoro intorno alla tuta in preparazione della collezione deve aver impegnato Madeleine Vionnet insieme a Thayaht sia nella fase progettuale, come sembrano dimostrare i due Modello n. 1806 Maison Vionnet, 1922 ca Trittico fotografico Les Arts Décoratifs, Musée de la Mode et du Textile, Paris, Archivio Vionnet, faldone 42/1, fas.1 schizzi conservati nella collezione Toto con annotazioni che riguardano i materiali e il taglio in sbieco (cat. n. 000-000), sia per trovare al nuovo indumento una collocazione all’interno di un guardaroba femminile elegante ed esclusivo. Nella prima lettera Ernest parlò di una «Robe d’aviation», un modello destinato alle coraggiose che viaggiavano con il nuovissimo mezzo di trasporto, ma che nonostante questo non volevano mostrare le gambe; già il 10 febbraio diceva invece della possibilità di proporla come «tennis garment», ma contemporaneamente comunicava che la Maison stava confezionando giacche con il taglio a tuta. Nell’informare la zia del successo della sfilata, infine, scrisse di tute «en tailleur» dalla gonna separata e aperta con uno spacco sportivo e sottolineò orgogliosamente che la stessa Madame Vionnet ne possedeva una di cammello beige. Negli Albums de copyright della Maison, donati dalla stessa couturière all’Union Française des Arts du Costume di Parigi, sono probabilmente conservate le fotografie di tutti questi modelli accuratamente numerati e archiviati, ma sfortunatamente al momento questo materiale non è consultabile per problemi di conservazione. È invece a disposizione degli studiosi una parte, seppur minima, di tali documenti comprendente una miscellanea di fotografie non rilegate negli album e quindi con datazioni più incerte. Alcune di esse, comunque, rappresentano indubitabilmente la versione che Vionnet e Thayaht elaborarono come nuova versione della tuta34. In particolare il modello n.1662 (fig. 1), ripreso di fronte e di fianco, è una tunica che arriva alla THAYAHT caviglia, con le maniche lunghe leggermente allargate dal gomito al polso, con il colletto alto a listino, aperta fino in vita e allacciato con una cerniera il cui scorrevole è decorato con un pendente nello stesso tessuto dell’abito. Un effetto di vita bassa è dato da una semplice cintura a nastro di tessuto. Pressoché identico è il modello 2094A (fig. 2), che presenta piccole varianti nel colletto, la lunghezza della cerniera di allacciatura e la cintura. Le somiglianze con il modello originario del 1920 sono evidentemente molte, ma le diversità o i perfezionamenti sono altrettanti: la linea del fianco sembra diritta, mentre il taglio obliquo sembra essere stato spostato sulle maniche lunghe; la cintura è morbidamente appoggiata sui fianchi e non stretta in vita; le tasche sono scomparse, ma soprattutto l’abbottonatura è stata sostituita con una più “moderna” cerniera. Rinnovate sono pure le spalle che hanno una linea arrotondata e l’attaccatura delle maniche collocata nel punto naturale: un particolare cui Vionnet probabilmente lavorò insieme a Thayaht, anche se il risultato finale fu molto probabilmente opera della sarta francese. Gli altri esempi presentano variazioni ancora più evidenti e ricercate. Il n.1661 (fig. 3) arricchisce il modello base appena descritto con un pannello in sbieco, applicato alle spalle e in una parte dello scalfo maniche, che ricade come un manto lungo il dorso fino all’orlo del vestito. Il n.1806 (fig. 4) ha lo scollo a punta con un piccolo colletto sciallato, una cintura a nastro annodata sul fianco sinistro ed è accompagnato da una mantellina semicircolare dello stesso tessuto. 29 30 THAYAHT Un artista alle origini del Made in Italy Il n.1683 è molto più complesso, ma forse può dare un’idea di quello che intendeva Thayaht parlando di giacche con il taglio a tuta o di tute “en tailleur”. Il modello in due pezzi comprende, infatti, una tunica completamente abbottonata sul davanti, con lo scollo a punta e la cintura con fibbia, e una giacca a sacchetto molto morbida priva di allacciatura, con le maniche lunghe a campana. Il capo spalla è ottenuto montando due teli rettangolari che formano i davanti e s’incontrano semplicemente sovrapponendosi a pannello sul lato destro del dorso35. Anche l’ampio colletto a scialle, probabilmente ricavato da uno sviluppo modellistico dei due medesimi teli, riprende il motivo di sovrapposizione dietro la nuca. Con questi interventi, la tuta era davvero diventata, come scrisse Thayaht, «the “chickst” thing you ever saw», pronta a vestire le donne più eleganti del mondo. Al risultato, come egli stesso dovette constatare (magari con qualche stupore), contribuirono certamente anche i tessuti che Vionnet utilizzò: le «English Flannel, striped; cream white, brown, yellow; also blue grey, milk white and pale cobalt», e poi il mohair bianco che «looks like silk but is like soft alpaca» o il «beige camels’ hair wool» che Madame Madeleine aveva scelto per sé. Nelle sapienti mani dell’haute couture il progetto iniziale era quindi stato completamente trasformato: abbandonata l’idea di abito universale di massa caratterizzato dal prezzo modesto, dimenticato l’assunto un po’ snob che l’eleganza non avesse «niente a che fare colla qualità della stoffa», perse le velleità di antimoda, la tuta entrò dalla porta principale dell’ormai col- La tuta. Da antimoda a haute couture laudato sistema parigino. Anche in questo caso, come in molti altri analoghi, la moda mostrò la potenza della propria organizzazione professionale e mediatica. Quella che avrebbe rischiato di essere niente di più che la trovata estiva di un artista particolarmente creativo, con una circolazione limitata alla ristretta cerchia dei suoi amici, fu trasformata nella grande moda internazionale, indossata da poche fortunate e capace di influenzare il modo di vestire di tutte le altre. E come ogni moda, anche estremamente effimera: la tuta di Thayaht e Madeleine Vionnet visse l’intensa stagione della primavera del 1922 per essere poi sostituita da altre idee e altri modelli novità. Per alcune stagioni, però, la ricerca sulla forma rettangolo continuò traducendosi in abiti dalle forme semplici, ma dalla complessa decorazione geometrica, cui l’artista fiorentino contribuì con idee, schizzi e disegni. La tuta maschile, invece, non visse neppure questo momento di gloria, troppo simile com’era alle sempre più diffuse combinazioni destinate ai lavoratori o a quelle tecniche degli aviatori, che continuarono la loro esistenza trovando sempre nuovi campi di applicazione sia nell’abbigliamento funzionale sia nella moda. Lo stesso Thayaht nel 1937 ringraziò la sorella Tita «per il magnifico ‘overall’ bianco! Ideale per lavori in gesso» (cat. n. 000), tralasciando di ricordare la sua “invenzione”. E lo conservò sempre nel suo guardaroba, insieme a una tuta rigata di produzione americana probabilmente confezionata nello stesso periodo e personalizzata all’interno con un’iscrizione autografa (cat. n. 000). Cfr. Avvertenze in Thayaht, Taglio della tuta. Modello Thayaht a linee rette. Indicazioni per il taglio della “Tuta” con e senza goletto in «La Nazione», Firenze, 17 giugno 1920. 2 Nel 1936 Cesare Meano definiva così il termine tuta: «Gli scrittori contemporanei hanno accettato e divulgato questa parola (dal francese tout-de-même) per nominare la sopraveste composta di camiciotto e calzoni uniti, che è comune agli uomini e a molti sportivi, uomini e donne...Al suo primo apparire questo indumento fu chiamato alla francese salopette (sudicetta); poi, all’inglese, tony (pagliaccio); poi fu assimilato con l’indumento femminile che, sotto un certo aspetto, gli somiglia (vedi: Pagliaccetto), e prese anch’esso il brutto e volgare nome di combinazione. Nei primi anni del dopoguerra si tentò di diffondere la tuta come indumento maschile da passeggio: indumento, si diceva, razionale...; esperimento novecentesco,‘moderno’»; C. Meano 1936. Secondo Ornella Castellani Polidori la locuzione tout-de-même, registrata da Alfredo Panzini nel suo Dizionario moderno del 1905, venne accostata al neologismo tuta nell’edizione del 1923 della stessa opera, cui evidentemente Meano fece riferimento. Cfr. O.Castellani Polidori, Per l’etimologia di “TUTA”, in «Studi Linguistici Italiani» 1982, vol. VIII, fasc. I, pp. 41-52. 3 Cfr. ad esempio Adolf-Ulrich Wertmüller, Maria Antonietta con i figli, 1785-86, Stoccolma, NationalMuseum; Francisco de Goya, Don Manuel Osorio Manrique de Zuniga, 1790 ca, New York, The Metropolitan Museum of Art. 4 Cfr. P.A. Cunningham 2003. 5 Un quadro della famiglia Michahelles e un penetrante ritratto di Thayaht, nascosto sotto il soprannome di Ermete Trismegisto, sono tracciati da F. Maraini 2001. 6 E. Michahelles, corrispondenza n. 98, c. 1v. 7 E. Michahelles, corrispondenza n. 8, c. 2r. 8 E. Michahelles, corrispondenza n. 9. 9 E. Michahelles, corrispondenza n. 98. 10 E. Michahelles, corrispondenza n. 11. 11 R. Bertoli, Nacque a Firenze la ‘Tuta’ nello studio di un futurista, in «Nazione Sera», Firenze, 11 novembre 1958, p. 6. 12 F. De Pisis 2005, p. 26. Ringrazio Mauro Pratesi per la preziosa e generosa segnalazione di questo testo. 13 Probabilmente nell’iter progettuale e costruttivo della tuta fu coinvolta, più che la cerchia degli amici, l’intera fami1 THAYAHT glia dell’artista. Il contributo del fratello Roger fu richiesto per i disegni promozionali, mentre per il taglio del modello dovette essere utilizzato quello della nonna. Cfr. E. Michahelles, corrispondenza n. 14. 14 R. Bertoli, Nacque a Firenze la ‘Tuta’ nello studio di un futurista, in «Nazione Sera», Firenze, 11 novembre 1958, p. 6. 15 Thayaht, Taglio della tuta. Modello Thayaht a linee rette. Indicazioni per il taglio della “Tuta” con e senza goletto in «La Nazione», Firenze, 17 giugno 1920. 16 Una nota di avvertenza sulla tuta, allegato manoscritto alla lettera a Sigmund Eisner, 1920 giugno 25 in A. Scappini 2005, p. 180. 17 Tutti con la tuta, volantino, Firenze, Tip. Bernardi, 1920. 18 m., L’imperativo del momento: “non comprare!”. La “Tuta”: l’abito più pratico, più moderno e più economico in «La Nazione», 19 giugno 1920. 19 La stessa cintura è prevista nel progetto di tuta femminile. 20 F. Maraini 2001, p. 147. 21 Cfr. E. Crispolti 1986; C. Chiarelli 2003; D. Fonti 2005. 22 F. de Pisis 2005, p. 26. 23 F. Bellonzi, Ernesto Thayaht (1982) in D. Fonti 2005, p. 185. 24 Thayaht, La “Tuta” nel 1921, in «La Nazione della Sera», Firenze, 7 luglio 1921. 25 M. Pratesi, Tuttintuta in «M.C.M. La Storia delle Cose», Firenze, 4 aprile 1987, pp. 38-40. 26 «C’è poi la “Bituta”!... si può dire che è la novità di quest’anno. Nell’estate 1920 pochissimi portarono la “bituta”, perchè il modello fu ideato un po’ tardi nella stagione». Thayaht, La “Tuta” nel 1921, in «La Nazione della Sera», Firenze, 7 luglio 1921. 27 E. Michahelles, corrispondenza n. 75. 28 E. Michahelles, corrispondenza n. 18. 29 Thayaht, Tuta femminile. Avvertimenti alle “tutiste”, volantino, in «La Nazione», Firenze, 2 luglio 1920. 30 B. Kirke 1998, p. 114. 31 E. Michahelles, corrispondenza n. 18, c. 3v. 32 E. Michahelles, corrispondenza n. 19, c. 1v. 33 E. Michahelles, corrispondenza n. 137. 34 Les Arts Décoratifs, Musée de la Mode et du Textile, Paris, Archivio Vionnet, Scatola 42/1, fascicolo 2. 35 La concezione dei due teli e il loro montaggio sembra riprendere lo schema base della tuta maschile. 31
© Copyright 2024 Paperzz