anno II nr. 3 (Luglio 2014) NOTE SUL DIALETTO BAGNAROTO Tito Puntillo SCHEDE DI STORIA E TRADIZIONI LOCALI SCHEDA NR.. 7 IL DIALETTO BAGNAROTO L I a giovane e coraggiosa Casa Editrice DISOBLIO1 ha presentata in questi giorni una snella pubblicazione attraverso la quale ha inteso proporre ai lettori appassionati (sempre più numerosi) di composizioni dialettali, una nuova serie di poesie dell’ormai più che noto compositore Rocco Nassi.2 Si tratta di poesie che stavolta più che nelle precedenti pubblicazioni di Nassi, adottano forme dialettali che s’avvicinano davvero alla genuina veracità del parlato bagnaroto arcaico avendo peraltro recuperato una forma di rappresentarle per iscritto, che bene aiuta a comprendere la corretta espressione da usarsi nel leggerle. Chi ha avuto modo di sfogliare le precedenti produzioni del compositore di Bagnara, noterà come stia mutando il motivo portante che adesso caratterizza quest’ultime poesie; più che prima, la visione della Città amata e delle particolarità che la caratterizzano per la natura benigna e la gente che la vive, pur conservando l’invincibile aspirazione al meglio-felice e l’orgoglio delle nobili origini da riproporre come leva per il riscatto di una Città che ha saputo combattere e vincere battaglie memorabili, sostenute contro invasioni di eserciti spesso brutali e senza Dio, e apocalittiche furie naturali, è divenuta una visione velata di malinconia, a volte aumentata da sentimenti di rimpianto quasi a voler definire consapevolmente: «da dove veniamo, come noi siamo oggi e come potremmo essere se …». Nassi adesso muove la sua vena poetica non più fra paradisiache visioni di una Bagnara bella in absoluto e comunque, costellata di incantevoli cose e serene scene di vita quotidiana, magari da scanzonettare come se si fosse in un clima di eterna primavera, ma fra i meandri di una vita di comunità caratterizzata dalla precarietà del quotidiano, la debolezza delle prospettive di miglioramento, il velo d’inquietudine che queste circostanze procurano nei sentimenti dei nostri giovani, molti dei quali destinati a un’emigrazione “intelligente” e “laboriosa” che, come tale, va ad arricchire in tutti i sensi l’industriosità settentrionale o estera. Disoblio Edizioni di Salvatore Bellantone, corso Vittorio Emanuele II, nr. 170 – 89011 Bagnara Calabra (RC) – tel. 3498836161 - [email protected] – disoblioedizioni.blogspot.com 2 ROCCO NASSI, No’ esti na źannella. Rrimi pittati pe’ randi e figghioli, Disoblio ed., Bagnara (RC) 2014. 1 Questa rafforzata voglia di dialetto verace, arcaico, pare davvero un’impetuosa proposta di riscatto, quasi a voler ribadire che “noi siamo già stati quel che oggi noi potremmo essere se …” e dunque tutto passa dal recupero di un senso comune che ci aiuti a centrare obiettivi di graduale risanamento sociale ed economico poiché continuano ed essere disponibili e floridi i doni che la natura ha voluto elargire a Bagnara e alla sua gente. Un impegno commovente, un utilizzare l’arte poetica con lo stesso metro della narrazione della storia secondo il metodo salveminiano: la storia magister vitæ, esempio di come s’è fatto ciò che si può e deve migliorare. Resterà quella del Nassi, a Bagnara, l’ennesima voce nel deserto bagnaroto? II Precede questo bel lavoro del Nassi, una riflessione di Giuseppe A. Martino, intitolata Il dialetto di Bagnara.3 Secondo lo studioso il dialetto bagnaroto è parte di un corpus definibile dialetti meridionali estremi, un corpus che è nella sostanza una propaggine della Lingua (non dialetto, ma Lingua, a mio avviso) Siciliana. Va rammentato che la Lingua Siciliana che pure è caratterizzata da una struttura portante omogenea, e da un’eccellente sintassi di matrice federiciana, è usata con foneticità differente da zona a zona, con le maggiori evidenze nel Palermitano (che è accentuatamente nasale), il Catanese (aperto e musicale), il messinese (con elevate inflessioni) e così via per le sotto classificazioni, soprattutto siracusane e agrigentine, di riconoscibile matrice greco-classica. Ora: la “varietà di dialetti romanzi” che contraddistingue la nostra Regione, non appare riconducibile a tre macro-aree sfalsate, quanto a una costruzione linguistica che vide il Bruzio cosentino-catanzarese, assoggettato ai latini e poi ai longobardi (per citare solo i poli estremi), diverso dalla Brettia (o pur anche Bruzio) reggina, di forte derivazione magno-greca, ove magnificamente fiorì la grecità nei suoi aspetti poi confluiti nella cultura e nell’idioma bizantine. Qui i Normanni faticarono e alla fine non completamente riuscirono a latinizzare una Provincia culturalmente e spiritualmente omogenea, circostanze possibili e concretizzate in virtù della vivacità commerciale e comunicativa che caratterizzava le lunghe coste da Tropea a Medma-Nicotera, Scilla, Reggio, Locri, Kaulonia, Giojosa e ancora ben oltre. Ne è fulgida testimonianza, oggi, la Bovesia nel suo splendore di pura grecità in tutte le manifestazioni del sociale e del culturale, oltre alla Locride e l’isola geracense. Così per sommi capi, naturalmente, esistono trattazioni più che approfondite che hanno affrontato e studiato questi affascinanti argomenti. Martino ci tiene a mettere in evidenza che il Bagnaroto, pur facendo parte, come è evidente, del gruppo dei dialetti meridionali estremi, presenta caratteristiche che, per certi aspetti, lo differenziano dalle parlate dei paesi limitrofi, come il rotacismo fonetico …4 e offre l’esempio della “d” che diviene “r”, la “tr” «retroflessa» e infine le parole di chiara derivazione ora araba, ora latina, francese, spagnola ecc. Nella conferenza di presentazione del libro poi, svoltasi la sera del 5 agosto u.s. a Bagnara, lo stesso studioso ha voluto esortare a un deciso recupero del dialetto nella comunicativa 3 4 GIUSEPPE A. MARTINO, Il dialetto di Bagnara, in: ROCCO NASSI, No’ esti …, cit., pagg. 8-10 GIUSEPPE A. MARTINO, Il dialetto di Bagnara, cit., pag. 8 interpersonale, perché è esso depositario di cultura e tradizioni che, se davvero ravvivate, formerebbero l’eccellente dominante di un nuovo modo d’intendere e vivere la società nostra. Ed è operazione da svolgersi senza remore d’apparire “sottosviluppati” poiché l’uso della comunicazione dialettale è – invece – tonico e fluente in tutta l’Italia Settentrionale e Centrale. Infine ha auspicato che il dialetto costituisca materia organica nell’insegnamento scolastico primario (e il Sindaco ha plaudito rendendosi disponibile allo studio di un progetto applicativo in tal senso). È vero. Ma è a mio avviso ben diversa la problematica che caratterizza l’’esistenza e l’uso del nostro dialetto bagnaroto. In premessa asserisco che prima di varare l’insegnamento del dialetto come materia scolastica, sarebbe bene che maestre e maestri s’industriassero a fare conoscere agli alunni quale debba essere il corretto uso della grammatica, dell’analisi logica e della sintassi italiane. Si è infatti pressoché totalmente perso: - il corretto uso del congiuntivo e del condizionale in sintonia con il “che” e il “se” (per esempio: e se vado io a portarlo? Sta per e se andassi io a portarlo? Oppure: può darsi che non chiude perché… sta per può darsi che non chiuda perché… e lasciamo perdere le altre combinazioni); - il verbo “fare” ha preso definitivamente il posto dei verbi spiegativi consoni, per cui, non so, adesso faccio un caffè è ora al posto di adesso preparo un caffè; fagli fare una lettera sta per fagli scrivere una lettera e così via; - l’avverbio di tempo non provoca più il susseguente verbo correttamente coniugato, per cui ad es.: domani vado sta per domani andrò. - Chi scrive, abbonda in maniera spropositata nell’uso delle virgole; in una lingua italiana inquinata da vocaboli esteri in maniera oramai degenerativa. Soprattutto nel linguaggio manageriale (ma il grave fenomeno si diffonde a macchia d’olio fra tutte le realtà sociali italiane) il frammischiare vocaboli soprattutto britannici con quelli italiani, è davvero divenuto un fenomeno preoccupante. E per un semplice motivo: l’uso del termine straniero è consentito se nel vocabolario italiano non esistesse un termine atto a indicare un oggetto o un’azione che interessa evidenziare. Ove l’espressione “non esiste” sta per oggetto e azione non presenti nel quotidiano (e quindi nella cultura) del nostro Paese. In questo senso: un file è termine recente di fenomeno recente è acquisito come tale e lo stesso vale per Internet, ma e-mail sta per messaggio di posta elettronica, sky-line sta per orizzonte e gli esempî sarebbero davvero infiniti. È ad esempio indisponente notare come il pilota di Formula 1 Ferrari, di chiare origini italiane, sia divenuto per noi Ferrarì per la sola circostanza che ha vissuto prevalentemente in Francia e così i francesi lo chiamano. Personalmente rammento come si proponeva l’avvocato Gianni Agnelli ai suoi interlocutori. L’avvocato si esprimeva in un italiano più che fluente ma era in grado di interloquire a mezzo di un inglese identico a quello col quale s’esprime la Regina Elisabetta: perfetto. Ma sfido chiunque a dimostrare che l’Avvocato, nel suo discorrere in italiano, abbia mai introdotto espressioni o anche solo vocaboli di matrice britannica. Dopo le precisazioni necessarie per mettere in luce le difficoltà che s’incontrano nel sentire gli interlocutori esprimersi in un corretto italiano, vorrei pregare il cortese lettore di volersi soffermare sul concetto di dialetto perché a me pare che nella cennata comunicazione del Martino, manchi la trattazione di un aspetto direi fondamentale. Innanzitutto esiste una differenza sensibile fra il dialetto usato da uno studente, un esponente della borghesia, un impiegato ecc., e quello usato da un popolano. Il primo è fortemente condizionato da una sintassi di chiara matrice italiana e termini italiani o italianizzanti sono usati a josa; il secondo è derivato dalla ripetitività tradizionale dei termini, secondo il concetto «di padre in figlio». In entrambi i casi tuttavia, sono oramai numerosi i vocaboli provenienti dall’italiano che si sono dialettizzati, ed è questo un processo, favorito dall’impetuoso sviluppo dei media, che perdura oramai da più di un secolo. L’acquisizione nel patrimonio linguistico dialettale di questi termini è talmente radicata, da fare ritenere corrette espressioni dialettiche che in realtà tali non sono, ma solo dialettizzate. Osserviamo qualche esempio bagnaroto: - arancia ---> rangia (rammi nà rangia) ---> ma è rangiu (rammi nù rangiu), se plurale purtuhalli; - pera ---> pira, ma è piru. Nel dialetto bagnaroto arcaico, molti termini (quasi tutti) indicanti la frutta, sono maschili come il loro albero. E poi attenzione: nù rangiu --- tri rangia (con ammessa l’elisione dell’ultima vocale = tri rangi – ma è più moderno) nù piru --- tri pira nù cripopu --- tri cripopa nù prunu --- tri pruna nù limuni --- tri limuna e così via, per asserire che il frutto, definito al maschile, diviene femminile per indicarne la quantità diversa dall’unità. Altri termini che altro non sono se non vocaboli italiani dialettizzati, sono: forchetta --- furchetta --- ma è broccia fazzoletto --- fazzulettu --- ma è muccaturi (in qualche isoletta dialettale stujabuca – attenzione: stujabuca non stujabuchi!) maiale --- maiali, italianizzazione di porcu, ma in arcaico è niru. … ma si potrebbe continuare così per lunga pezza, purtroppo! Alcuni termini non dialettali sono talmente acquisiti che facilmente si combinano con i loro eguali arcaici, senza che se dia obiezione, anzi! Se ne giustifica il doppio uso. Il termine che bene sintetizza questo gruppo di particolarità è il presente del verbo essere, esattamente la terza persona singolare: “è”. Si asserisce che “è” convive con “esti” e il loro uso è determinato dai casi. E se ne giustifica l’esattezza asserendo che i glottologi illustri non fanno menzione del divieto di “è”. Dissento da questa asserzione. Il tempo presente del verbo essere bagnaroto è uno solo: - jeu sugnu - tu sii - iju esti <--nuji simu vuji siti ihji sunnu. La stessa poesia di Rocco Nassi, che pure si nutre di dialetto arcaico, non sfugge ogni tanto a questa trappola: … U nostru dialettu Chi nc’è nta sta terra, è na cosa seria: no’ esti na źannella5 ma dovrebbe essere: … U nostru dialettu Chi nc’esti nta sta terra, esti na cosa seria: no’ esti na źannella Eppure le resistenze ad accettare questa osservazione sono notevoli, tale è oramai l’acquisizione del termine italiano dialettizzato. Che non vi sia accezione in Rohfls, è a mio avviso una sciocchezza. Nei testi degli antichi compositori, ma soprattutto nel dialetto arcaico parlato, così come ancora lo adoperano gli oramai novantenni popolani bagnaroti o come lo rammentano i giovani che ancora il dialetto usano fluentemente (e senza inquinamenti) nel loro quotidiano, “è” non esiste. Per rafforzare il concetto della dialettizzazione di termini italiani, voglio cortesemente sottoporre alla vostra attenzione uno degli episodi caratterizzanti una Società bagnarota gaudente e felice, ove (là si!) l’italiano dilagava fluente, una Società tardo ottocentesca ove la divisione fra classi non era costituita solo dalle differenze di reddito, ma anche e soprattutto dalla diversa linea di «progresso». La Società redditualmente elevata, la buona Borghesia bagnarese, stava al passo coi tempi dettati dalla Nazione e addirittura faceva emergere qualche poeta, storico, romanziere, drammaturgo, giornalista, parlamentare, mentre la classe popolare era rimasta ancorata a usi e tradizioni che i secoli non avevano scalfito. Ebbene: tutta la classe popolare bagnarota, composta da contadini, rasolari, zappatori infeudati, ma anche qualche piccolo artigiano, oltre a non sapere leggere e scrivere (tranne rare eccezioni), non conosceva la lingua italiana, nel senso non solo che non la sapeva parlare, ma addirittura non la intendeva! Rivolgersi in italiano a un terrazzano bagnaroto, equivaleva esprimersi in turco, tedesco o cosa altro non saprei. Avveniva che ogni tanto si dovesse celebrare un matrimonio civile fra terrazzani e quando questo evento giungeva a scadenza e il Sindaco ne intuiva la possibilità di innescarvi qualche divertimento, avvisava i suoi amici influenti. La compagnia si riuniva nella sala del consiglio e si presentava ai timorosi neo sposi come: il ministro mandato dal Re per 5 ROCCO NASSI, No’ esti na źannella, in R.N., No’ esti …, cit., pag. 21 omaggiare quell’unione, l’onorevole ch’esti a Roma, un gruppo di testimoni straordinari e altre sciocchezze goliardiche del genere. Iniziava la cerimonia che seguiva la procedura di legge naturalmente, solo che, al momento di dichiarare i consensi all’unione, il celebrante si rivolgeva ai neo sposi più o meno così: - vuoi tu Pascalinu Pizzichemi fu Carminu, prendere per tua diletta sposa la qui convenuta obbrobriosa et lardosa Giuseppa Scammacchia, illustrissima et celebratissima scorregiatrice, indecente troiona e munita di deficienza assoluta se ti ha scelta come consorte? (annoto in inciso che il termine bagnaroto “piritara” indicava una donna di malaffare, una prostituta). Il povero Pascalino ovviamente non aveva compreso una sola parola enunciata dal celebrante, se non il nome della sua sposa e il suo, e quindi si rivolgeva al segretario che annuiva sottovoce: riciti ka si! E il povero Pascalino, tutto contento, rispondeva compunto: “si”! Era quindi la volta della sposa, e allora: - vuoi tu Giuseppa Scammacchia, orrenda lardosa scorreggiatrice, prendere per tuo sposo il qui convenuto Pascalinu Pizzichemi fu Carminu, patentata derivazione di meretrice e grandissimo esponente primario in libagioni vergognose? E si ripeteva la scena del segretario, mentre i convenuti se la godevano alla grande: avrebbero poi commentato fra risa e sollazzi vari. Scene come queste sono avvenute nella nostra Bagnara e con una frequenza sorprendente. Gli anziani le raccontavano e ci dicevano che i “cappelli” avevano modi di divertirsi non sempre ortodossi e rispettosi dell’altrui dignità (ho scritto di queste cose in diversi saggi su Bagnara, tutti in ASFB). Succedeva anche questo: ma in questa sede l’enfasi va posta sul concetto che interessa, e cioè che il popolino non era in grado di comprendere la lingua italiana, altro che adoperare “è”, al posto di “esti” o con esso confuso. III Un’ultima notazione concerne l’associazione fra il dialetto parlato e quello scritto e l’efficacia dell’uso del dialetto rispetto all’uso dell’Italiano. Sotto Facebook capita frequentemente d’imbattersi in dialoghi fra interlocutori che adoperano il dialetto. Ebbene: l’applicazione scritta del dialetto parlato, è quasi sempre un esperimento fallimentare, se non disastroso! Proprio per tale motivo, proporre brani poetici e narrativi, scritti in dialetto, può agevolare un avvicinamento fra parlato e scritto e in tal senso, è meritoria l’azione di compositori come il nostro Rocco Nassi. E per agevolare il risultato positivo di questa impresa soprattutto per i fanciulli, non sarebbe male la produzione di qualche storia a fumetti, tutta presentata in dialetto bagnaroto (o Calabrese in generale). Ma non è impresa semplice! Per esempio: come si associa la frase scritta rispetto a quella parlata, nei casi ove è previsto il raddoppio fonetico? Porto un esempio bagnaroto: … ma po’ l’à a sapiri Ca na vota cogghjuta, a fini chi ffai: o rrustuta, o vogghjuta6 (meglio: “vugghjuta”) In questa quartina c’è un rafforzativo che è rappresentato con elementi separati: ma po’ l’à a sapiri è invece di ma po’ l’àssapiri (la “s” raddoppia), mentre è corretto l’altro rafforzativo chi ffai, che però va unito: chiffai. Sull’uso del raddoppio nel dialetto scritto in modo da renderlo più aderente a quello parlato, la strada da percorrere è ancora lunga, ma sarebbe un errore non intraprendere questo processo, una volta che addirittura si va recuperando l’uso delle desinenze per meglio agevolare le enunciazioni in dialetto di ciò che in dialetto è scritto. Infine: dialetto o italiano? Ovviamente entrambi. Ma con una particolarità: i dialetti nacquero in un ambiente popolare ove quel che contava nei rapporti interpersonali, per ragioni di scambio o di mera comunicazione, era la sbrigatività e la concretezza. I salamelecchi c’erano, ma riguardavano i componenti delle corti signorili o i magistrati di tribunale e i prelati di alta condizione. Oggi il dialetto conserva, rispetto all’italiano, alcune funzioni che sono vincenti: … come se fosse possibile fare (una determinata cosa) sta per squasu … non per criticare, ma per precisare senza però commiserare sta per foragabbu … ma cosa vorresti dire con queste espressioni che non c’entrano nulla? sta per chi nik-nak potrei anche in questo caso continuare con centinaia di casi. È paradossale annotare che in effetti questo effetto di semplificazione nell’esprimersi in italiano, s’è ottenuto, ma sostituendo a intere frasi, un vocabolo straniero. E anche in questo caso, gli esempi sono numerosi. Lo annoto con l’amaro in bocca: intere frasi, una volta esse si surrogavano con espressioni latine, ma oggi, noi esterofili scatenati e privi di amor patrio, ci siamo venduti anche questo nobilissimo aspetto, da nessun altro popolo posseduto. Tito Puntillo 6 ROCCO NASSI, A castagna, in R.N., No’ esti …, cit., pag. 36 anno II nr. 2 (Gennaio2014) Segnalo che altre considerazioni, soprattutto concernenti un aspetto trascurato nella comunicazione di Giuseppe A. Martino, sono contenute in: TITO PUNTILLO, U jornu ru cunnu, Schede di Storia, a. II, nr. 2 (2014) E si riferiscono in particolare alla consistente differenza fra dialetto bagnaroto-marinoto e dialetto bagnaroto corrente, soprattutto nell’uso della l-mouillé. Per comodità del lettore, ne riproduco di sèguito il testo. NOTE SUL DIALETTO BAGNAROT O Tito Puntillo SCHEDE DI STORIA E TRADIZIONI LOCALI SCHEDA NR.. 6 ‘U JORNU RU CUNNU Di questa espressione si sono ormai perse le tracce a Bagnara, ma fu d’uso comune ancora per quasi tutti gli Anni Cinquanta del secolo passato, ancorché enunciata in forma generica, quasi un’esclamazione simile a tante altre, tipo: “va pija Parmi ku jà bella villa!” o il termine bellissimo “squasu”, utilizzato soprattutto da Porelli in su. Ma nella frase che ora stiamo esaminando, si cela tutto un mondo particolare, è essa una specie di sublime sintesi dell’aspetto dinamico della vecchissima società bagnarese, governata da simboli, procedure derivate da tradizioni ataviche, rigoroso rispetto della forma e, quel che più conta (e a me piace frequentemente ribadirlo) l’assoluto rispetto per il lavoro degli altri. Se così fu per le classi sociali subalterne, diverso fu il modo di fare dei “cappelli” che non sono certamente da confondersi con gli “homini j berritta”, cioè i punti di riferimento, i leader del popolo lavoratore e spesso identificati nei maggiori capi-famiglia della Città. I “cappelli” identificavano la classe intermedia, in ascesa per censo e attività, oggi diremmo i professionisti provenienti dalla piccola borghesia provincialotta, propensi alla trasgressione, se necessaria per conseguire una posizione, una somma di denaro, un’ascesa di potere, una migliore visibilità sociale. Contro costoro, si scagliò il Popolo al tempo della rivolta di Masaniello, al tempo della controrivoluzione Sanfedista del Cardinale don Fabrizio Ruffo-Bagnara e sempre contro di loro, alleati con i Francesi scesi in Italia per “affratellare” le neo Repubbliche Giacobine alla «Grande – Natione» francese, nacque e si sostenne il Brigantaggio. Ma torniamo alla nostra espressione: U jornu ru cunnu. Questa espressione è una derivazione della forma completa «vu-cuntu» utilizzata nelle famiglie bagnarote per dare inizio alle quotidiane “riunioni” durante le quali marito e moglie si ritrovavano per fare il punto sull’attività della giornata, le entrate e le uscite, la situazione dei figli, i problemi della casa e le cose da fare per l’immediato prosieguo. Nella Bagnara antica e moderna (non più in quella contemporanea) il lavoro si ripartiva fra tutti i componenti familiari, come ampiamente descritto ne “La Bagnarota”, disponibile sul web al sito Archivio Storico Fotografico Bagnarese, laddove si dimostra che a Bagnara non vi fu Matriarcato. Per comprendere meglio il problema, facciamo riferimento a una coppia standard della Città: con una frequenza non maggioritaria nelle composizioni familiari (la maggioritaria fu fra contadini), era costituita dal marito dedito alla pesca e la moglie alla commercializzazione del pescato. Così avveniva che il marito raggiungeva ogni sera al tramonto la palamitara di riferimento e s’aggregava all’equipaggio che varava per andare a gettare le reti al largo, talvolta molto al largo e, all’epoca, si vogava spingendo con forza su remi che parevano alberi di medio fusto. Si stava a mare tutta la notte e si rientrava al primissimo chiarore che precede l’alba; a Bagnara si definiva quel momento del ciclo giorno-notte “i matinati”. Sulla spiaggia, ad attendere i mariti, c’erano già pronte colle ceste e i panari le Bagnarote. Dopo le brevi negoziazioni fra i membri dell’equipaggio, ogni cesta si riempiva di pesce più che fresco e le Bagnarote si avviavano al punto di riunione per quelle della Montagna, cioè la Livara, o il Pizzolo per quelle della Marina. Le carovane che si formavano prendevano così, mentre la sirena suonava le cinque del mattino, due direzioni: l’Altopiano della Corona o la Fossa di San Giovanni (Villa S.G.). I mariti rientravano a casa, recuperavano durante la mattinata il sonno notturno e passavano il pomeriggio a riparare le reti, eseguire manutenzioni al natante, mettere a posto la casa e quant’altro. Alla sera le Bagnarote rientravano, in genere un paio d’ore prima che i mariti si avviassero verso la spiaggia per il lavoro notturno e proprio quel minimo intervallo era concesso alla vita di coppia. La moglie si sarebbe coricata presto per esser pronta prima dell’alba e il marito stava per andare a lavorare. Per inciso va precisato che “esser pronta per la sirena delle cinque”, significava alzarsi fra le tre e le quattro, per predisporre la casa e mettere in condizione i figli di trovar pronto per far colazione e vestirsi e quindi equipaggiarsi per il lavoro ambulante da svolgere in lunghissime camminate. Il momento di ricongiunzione della coppia, si definiva dunque “u jornu ru vucuntu” dove “jornu” stava per “momento [del giorno]” secondo il modo antico bagnaroto di determinare e definire le fasi della giornata. Come cennato, in quel breve spazio di intimità familiare si esaminava lo status della famiglia, si esaminava il lavoro svolto giudicandolo più o meno profittevole, si giudicava il procedere educativo e la salute dei figli e si metteva a punto la strategia della giornata che iniziava. Era anche il momento dell’approccio sessuale e in genere, esso veniva stimolato dalla Bagnarota, all’epoca notissima come figura di ardente e passionale donna capace di “resuscitare i morti”, come scherzosamente si diceva fra i paesi della Piana. La stagionata storiografica bagnarota non ne fa cenno. Non per niente la Bagnarota fu sempre “desiderata” da torme di uomini che ovunque la corteggiavano, le indirizzavano invocazioni d’amore e inviti a squisiti banchetti in splendide ville e giardini, le offrivano denaro e fiori. Ma si verificò raramente che qualche Bagnarota prestasse il fianco a debolezze del genere. Nessuno poi, ha mai fatto cenno, disquisendo sulla Bagnarota, dell’operosità e della rettitudine del Bagnaroto e tantomeno alla sua indiscussa virilità. Il Bagnaroto era, da questo punto di vista, il «potente» compagno della Bagnarota. E la cennata, stagionata storiografia bagnarese, ha sempre definito la Bagnarota come figura casta e gentile e grande lavoratrice quando in realtà la Bagnarota era un maresciallo nel lavoro, capace di “vendersi San Pietro in cambio di patate” ma anche una gagliarda amazzone Quindi, terminato il resoconto della giornata, era frequentissimo che la Bagnarota si rivolgesse al marito con, più o meno, questa espressione: «e uora? Vò [l’altro] cuntu»? intendendo far comprendere che se lui se la sentiva, lei era prontissima a giacere con lui. Nella terminologia corrente, come spesso accade, l’insieme di questa complessa scena venne indicata tempo dopo tempo, come “u cunnu”, cioè l’insuperabile atto sessuale della Bagnarota e “u jornu ru cunnu” la combinazione astratta del medesimo atto sessuale uomodonna. Un modo di dire per rimarcare un commento o un fatto, insomma. Se la turnazione fra marito e moglie avveniva al tramonto anziché all’alba (come ad esempio per il caso delle Bagnarote della Montagna, per lo più rasolari e contadini dell’Altopiano), l’intero processo, eguale nella forma e nella sostanza, si spostava alla sera. Il principio della elevata sessualità della Bagnarota, unito al principio della famiglia in un unicum inscindibile, ebbe un significato estremo a Bagnara. Frequentemente nei tempi andati, qualcuno osava canzonare il rapporto di coppia della Bagnarota, spesso non conoscendo neanche il significato di ciò che andava a dire. Qualcuno dei miei amici fra i più anziani, si ricorderà della seguente espressione: «Ah! A Bagnarota! Acqua caja e sapuni moju»! E si ricorderà che quasi sempre la reazione delle Bagnarote che ascoltavano quella frase, e soprattutto le più anziane, reagivano talvolta violentemente tant’è che non erano rari i casi in cui il pronunciatore della frase era costretto a levarsi di torno. Ma perché quella reazione violenta? Cosa significa allora “acqua caja e sapuni moju”? Innanzitutto definiamo che “caja” sta per “cadda” perché nella derivazione marinota dal dialetto bagnaroto, la «l» preceduta dalla vocale «a», trasforma la pronuncia della «l» in «ia». Quindi in questo caso, “acqua caida” invece di “acqua cadda”. L’altra derivazione è invece generalizzata nel dialetto bagnaroto: “quello” nel calabrese meridionale si traduce in “chiddhu” ma nel bagnaroto, la “e” seguita dalla “l” determina lo «slittamento» della consonante, per cui non “chiddhu” ma “chiju”. Vale egualmente per quasi tutte le combinazioni fra le vocali e la “l” per cui ad esempio, mentre nel dialetto calabrese meridionale “molle” si traduce in “moddhu”, nel bagnaroto vale “moju”. E così “quelli” va per “chiddhi” ma in bagnaroto va per “chiji”, ma gli esempi sarebbero infiniti. Ma a noi interessa qui l’inflessione “caja”, cioè la differenza fra il bagnaroto del Borgo “caddha” e il Marinoto, appunto “cajda”, nella successiva trasformazione in “caja”. “Caja” per il Bagnaroto non ha significato, ma pronunziata da uno per esempio di Seminara, vale come una canzonatura del dialetto bagnaroto di per sé, coniugata con la noméa che sessualmente parlando, la vita di coppia è come l’acqua calda, cioè poco vigorosa e significativa, e che in tale contesto decadente, l’accoppiamento risultava poco efficace, attesa la scarsa turgidità dell’attributo maschile (sapuni «moju»). Quindi per la Bagnarota, sentirsi definire “acqua caja e sapuni moju” valeva come un insulto gravissimo, che colpiva direttamente l’onorabilità della sua famiglia. Resta, dopo tale esame, fondamentale una circostanza: che nessuno in Calabria, ma proprio nessuno, potrà mai vantare come fattore ereditario e nobilitante del suo essere oggi calabrese, un retaggio come quello che si definisce nella rivoluzionaria espressione: «u jornu ru cunnu». Tito Puntillo.
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