schede di storia e tradizioni locali

anno II nr. 3 (Luglio 2014)
NOTE SUL
DIALETTO
BAGNAROTO
Tito Puntillo
SCHEDE DI STORIA E TRADIZIONI LOCALI
SCHEDA NR.. 7
IL DIALETTO BAGNAROTO
L
I
a giovane e coraggiosa Casa Editrice DISOBLIO1 ha presentata in questi giorni
una snella pubblicazione attraverso la quale ha inteso proporre ai lettori
appassionati (sempre più numerosi) di composizioni dialettali, una nuova serie di
poesie dell’ormai più che noto compositore Rocco Nassi.2
Si tratta di poesie che stavolta più che nelle precedenti pubblicazioni di Nassi, adottano
forme dialettali che s’avvicinano davvero alla genuina veracità del parlato bagnaroto
arcaico avendo peraltro recuperato una forma di rappresentarle per iscritto, che bene
aiuta a comprendere la corretta espressione da usarsi nel leggerle.
Chi ha avuto modo di sfogliare le precedenti
produzioni del compositore di Bagnara, noterà
come stia mutando il motivo portante che adesso
caratterizza quest’ultime poesie; più che prima, la
visione della Città amata e delle particolarità che la
caratterizzano per la natura benigna e la gente che
la vive, pur conservando l’invincibile aspirazione al
meglio-felice e l’orgoglio delle nobili origini da
riproporre come leva per il riscatto di una Città che
ha saputo combattere e vincere battaglie
memorabili, sostenute contro invasioni di eserciti
spesso brutali e senza Dio, e apocalittiche furie
naturali, è divenuta una visione velata di
malinconia, a volte aumentata da sentimenti di
rimpianto quasi a voler definire consapevolmente:
«da dove veniamo, come noi siamo oggi e come
potremmo essere se …».
Nassi adesso muove la sua vena poetica non più fra
paradisiache visioni di una Bagnara bella in
absoluto e comunque, costellata di incantevoli cose
e serene scene di vita quotidiana, magari da
scanzonettare come se si fosse in un clima di eterna primavera, ma fra i meandri di una
vita di comunità caratterizzata dalla precarietà del quotidiano, la debolezza delle
prospettive di miglioramento, il velo d’inquietudine che queste circostanze procurano nei
sentimenti dei nostri giovani, molti dei quali destinati a un’emigrazione “intelligente” e
“laboriosa” che, come tale, va ad arricchire in tutti i sensi l’industriosità settentrionale o
estera.
Disoblio Edizioni di Salvatore Bellantone, corso Vittorio Emanuele II, nr. 170 – 89011 Bagnara Calabra (RC)
– tel. 3498836161 - [email protected] – disoblioedizioni.blogspot.com
2
ROCCO NASSI, No’ esti na źannella. Rrimi pittati pe’ randi e figghioli, Disoblio ed., Bagnara (RC) 2014.
1
Questa rafforzata voglia di dialetto verace, arcaico, pare davvero un’impetuosa proposta
di riscatto, quasi a voler ribadire che “noi siamo già stati quel che oggi noi potremmo
essere se …” e dunque tutto passa dal recupero di un senso comune che ci aiuti a centrare
obiettivi di graduale risanamento sociale ed economico poiché continuano ed essere
disponibili e floridi i doni che la natura ha voluto elargire a Bagnara e alla sua gente.
Un impegno commovente, un utilizzare l’arte poetica con lo stesso metro della narrazione
della storia secondo il metodo salveminiano: la storia magister vitæ, esempio di come s’è
fatto ciò che si può e deve migliorare.
Resterà quella del Nassi, a Bagnara, l’ennesima voce nel deserto bagnaroto?
II
Precede questo bel lavoro del Nassi, una riflessione di Giuseppe A. Martino,
intitolata Il dialetto di Bagnara.3
Secondo lo studioso il dialetto bagnaroto è parte di un corpus definibile dialetti meridionali
estremi, un corpus che è nella sostanza una propaggine della Lingua (non dialetto, ma
Lingua, a mio avviso) Siciliana.
Va rammentato che la Lingua Siciliana che pure è caratterizzata da una struttura
portante omogenea, e da un’eccellente sintassi di matrice federiciana, è usata con
foneticità differente da zona a zona, con le maggiori evidenze nel Palermitano (che è
accentuatamente nasale), il Catanese (aperto e musicale), il messinese (con elevate
inflessioni) e così via per le sotto classificazioni, soprattutto siracusane e agrigentine, di
riconoscibile matrice greco-classica.
Ora: la “varietà di dialetti romanzi” che contraddistingue la nostra Regione, non appare
riconducibile a tre macro-aree sfalsate, quanto a una costruzione linguistica che vide il
Bruzio cosentino-catanzarese, assoggettato ai latini e poi ai longobardi (per citare solo i
poli estremi), diverso dalla Brettia (o pur anche Bruzio) reggina, di forte derivazione
magno-greca, ove magnificamente fiorì la grecità nei suoi aspetti poi confluiti nella
cultura e nell’idioma bizantine.
Qui i Normanni faticarono e alla fine non completamente riuscirono a latinizzare una
Provincia culturalmente e spiritualmente omogenea, circostanze possibili e concretizzate
in virtù della vivacità commerciale e comunicativa che caratterizzava le lunghe coste da
Tropea a Medma-Nicotera, Scilla, Reggio, Locri, Kaulonia, Giojosa e ancora ben oltre.
Ne è fulgida testimonianza, oggi, la Bovesia nel suo splendore di pura grecità in tutte le
manifestazioni del sociale e del culturale, oltre alla Locride e l’isola geracense.
Così per sommi capi, naturalmente, esistono trattazioni più che approfondite che hanno
affrontato e studiato questi affascinanti argomenti.
Martino ci tiene a mettere in evidenza che il Bagnaroto, pur facendo parte, come è
evidente, del gruppo dei dialetti meridionali estremi, presenta caratteristiche che, per certi
aspetti, lo differenziano dalle parlate dei paesi limitrofi, come il rotacismo fonetico …4 e offre
l’esempio della “d” che diviene “r”, la “tr” «retroflessa» e infine le parole di chiara
derivazione ora araba, ora latina, francese, spagnola ecc.
Nella conferenza di presentazione del libro poi, svoltasi la sera del 5 agosto u.s. a Bagnara,
lo stesso studioso ha voluto esortare a un deciso recupero del dialetto nella comunicativa
3
4
GIUSEPPE A. MARTINO, Il dialetto di Bagnara, in: ROCCO NASSI, No’ esti …, cit., pagg. 8-10
GIUSEPPE A. MARTINO, Il dialetto di Bagnara, cit., pag. 8
interpersonale, perché è esso depositario di cultura e tradizioni che, se davvero ravvivate,
formerebbero l’eccellente dominante di un nuovo modo d’intendere e vivere la società
nostra. Ed è operazione da svolgersi senza remore d’apparire “sottosviluppati” poiché
l’uso della comunicazione dialettale è – invece – tonico e fluente in tutta l’Italia
Settentrionale e Centrale.
Infine ha auspicato che il dialetto costituisca materia organica nell’insegnamento
scolastico primario (e il Sindaco ha plaudito rendendosi disponibile allo studio di un
progetto applicativo in tal senso).
È vero.
Ma è a mio avviso ben diversa la problematica che caratterizza l’’esistenza e l’uso del
nostro dialetto bagnaroto.
In premessa asserisco che prima di varare l’insegnamento del dialetto come materia
scolastica, sarebbe bene che maestre e maestri s’industriassero a fare conoscere agli alunni
quale debba essere il corretto uso della grammatica, dell’analisi logica e della sintassi
italiane.
Si è infatti pressoché totalmente perso:
- il corretto uso del congiuntivo e del condizionale in sintonia con il “che” e il “se”
(per esempio: e se vado io a portarlo? Sta per e se andassi io a portarlo? Oppure: può
darsi che non chiude perché… sta per può darsi che non chiuda perché… e lasciamo
perdere le altre combinazioni);
- il verbo “fare” ha preso definitivamente il posto dei verbi spiegativi consoni, per
cui, non so, adesso faccio un caffè è ora al posto di adesso preparo un caffè; fagli fare
una lettera sta per fagli scrivere una lettera e così via;
- l’avverbio di tempo non provoca più il susseguente verbo correttamente coniugato,
per cui ad es.: domani vado sta per domani andrò.
- Chi scrive, abbonda in maniera spropositata nell’uso delle virgole;
in una lingua italiana inquinata da vocaboli esteri in maniera oramai degenerativa.
Soprattutto nel linguaggio manageriale (ma il grave fenomeno si diffonde a macchia d’olio
fra tutte le realtà sociali italiane) il frammischiare vocaboli soprattutto britannici con
quelli italiani, è davvero divenuto un fenomeno preoccupante.
E per un semplice motivo: l’uso del termine straniero è consentito se nel vocabolario
italiano non esistesse un termine atto a indicare un oggetto o un’azione che interessa
evidenziare. Ove l’espressione “non esiste” sta per oggetto e azione non presenti nel
quotidiano (e quindi nella cultura) del nostro Paese.
In questo senso: un file è termine recente di fenomeno recente è acquisito come tale e lo
stesso vale per Internet, ma e-mail sta per messaggio di posta elettronica, sky-line sta per
orizzonte e gli esempî sarebbero davvero infiniti.
È ad esempio indisponente notare come il pilota di Formula 1 Ferrari, di chiare origini
italiane, sia divenuto per noi Ferrarì per la sola circostanza che ha vissuto
prevalentemente in Francia e così i francesi lo chiamano.
Personalmente rammento come si proponeva l’avvocato Gianni Agnelli ai suoi
interlocutori. L’avvocato si esprimeva in un italiano più che fluente ma era in grado di
interloquire a mezzo di un inglese identico a quello col quale s’esprime la Regina
Elisabetta: perfetto.
Ma sfido chiunque a dimostrare che l’Avvocato, nel suo discorrere in italiano, abbia mai
introdotto espressioni o anche solo vocaboli di matrice britannica.
Dopo le precisazioni necessarie per mettere in luce le difficoltà che s’incontrano nel
sentire gli interlocutori esprimersi in un corretto italiano, vorrei pregare il cortese lettore
di volersi soffermare sul concetto di dialetto perché a me pare che nella cennata
comunicazione del Martino, manchi la trattazione di un aspetto direi fondamentale.
Innanzitutto esiste una differenza sensibile fra il dialetto usato da uno studente, un
esponente della borghesia, un impiegato ecc., e quello usato da un popolano. Il primo è
fortemente condizionato da una sintassi di chiara matrice italiana e termini italiani o
italianizzanti sono usati a josa; il secondo è derivato dalla ripetitività tradizionale dei
termini, secondo il concetto «di padre in figlio».
In entrambi i casi tuttavia, sono oramai numerosi i vocaboli provenienti dall’italiano che
si sono dialettizzati, ed è questo un processo, favorito dall’impetuoso sviluppo dei media,
che perdura oramai da più di un secolo.
L’acquisizione nel patrimonio linguistico dialettale di questi termini è talmente radicata,
da fare ritenere corrette espressioni dialettiche che in realtà tali non sono, ma solo
dialettizzate.
Osserviamo qualche esempio bagnaroto:
- arancia ---> rangia (rammi nà rangia) ---> ma è rangiu (rammi nù rangiu), se
plurale purtuhalli;
- pera ---> pira, ma è piru.
Nel dialetto bagnaroto arcaico, molti termini (quasi tutti) indicanti la frutta, sono
maschili come il loro albero.
E poi attenzione:
nù rangiu --- tri rangia (con ammessa l’elisione dell’ultima vocale = tri rangi – ma è più
moderno)
nù piru --- tri pira
nù cripopu --- tri cripopa
nù prunu --- tri pruna
nù limuni --- tri limuna
e così via, per asserire che il frutto, definito al maschile, diviene femminile per indicarne la
quantità diversa dall’unità.
Altri termini che altro non sono se non vocaboli italiani dialettizzati, sono:
forchetta --- furchetta --- ma è broccia
fazzoletto --- fazzulettu --- ma è muccaturi (in qualche isoletta dialettale stujabuca –
attenzione: stujabuca non stujabuchi!)
maiale --- maiali, italianizzazione di porcu, ma in arcaico è niru.
… ma si potrebbe continuare così per lunga pezza, purtroppo!
Alcuni termini non dialettali sono talmente acquisiti che facilmente si combinano con i
loro eguali arcaici, senza che se dia obiezione, anzi! Se ne giustifica il doppio uso.
Il termine che bene sintetizza questo gruppo di particolarità è il presente del verbo essere,
esattamente la terza persona singolare: “è”.
Si asserisce che “è” convive con “esti” e il loro uso è determinato dai casi.
E se ne giustifica l’esattezza asserendo che i glottologi illustri non fanno menzione del
divieto di “è”.
Dissento da questa asserzione.
Il tempo presente del verbo essere bagnaroto è uno solo:
- jeu sugnu
- tu sii
-
iju esti <--nuji simu
vuji siti
ihji sunnu.
La stessa poesia di Rocco Nassi, che pure si nutre di dialetto arcaico, non sfugge ogni
tanto a questa trappola:
… U nostru dialettu
Chi nc’è nta sta terra,
è na cosa seria:
no’ esti na źannella5
ma dovrebbe essere:
… U nostru dialettu
Chi nc’esti nta sta terra,
esti na cosa seria:
no’ esti na źannella
Eppure le resistenze ad accettare questa osservazione sono notevoli, tale è oramai
l’acquisizione del termine italiano dialettizzato.
Che non vi sia accezione in Rohfls, è a mio avviso una sciocchezza.
Nei testi degli antichi compositori, ma soprattutto nel dialetto arcaico parlato, così come
ancora lo adoperano gli oramai novantenni popolani bagnaroti o come lo rammentano i
giovani che ancora il dialetto usano fluentemente (e senza inquinamenti) nel loro
quotidiano, “è” non esiste.
Per rafforzare il concetto della dialettizzazione di termini italiani, voglio cortesemente
sottoporre alla vostra attenzione uno degli episodi caratterizzanti una Società bagnarota
gaudente e felice, ove (là si!) l’italiano dilagava fluente, una Società tardo ottocentesca
ove la divisione fra classi non era costituita solo dalle differenze di reddito, ma anche e
soprattutto dalla diversa linea di «progresso». La Società redditualmente elevata, la
buona Borghesia bagnarese, stava al passo coi tempi dettati dalla Nazione e addirittura
faceva emergere qualche poeta, storico, romanziere, drammaturgo, giornalista,
parlamentare, mentre la classe popolare era rimasta ancorata a usi e tradizioni che i secoli
non avevano scalfito.
Ebbene: tutta la classe popolare bagnarota, composta da contadini, rasolari, zappatori
infeudati, ma anche qualche piccolo artigiano, oltre a non sapere leggere e scrivere (tranne
rare eccezioni), non conosceva la lingua italiana, nel senso non solo che non la sapeva
parlare, ma addirittura non la intendeva!
Rivolgersi in italiano a un terrazzano bagnaroto, equivaleva esprimersi in turco, tedesco o
cosa altro non saprei.
Avveniva che ogni tanto si dovesse celebrare un matrimonio civile fra terrazzani e quando
questo evento giungeva a scadenza e il Sindaco ne intuiva la possibilità di innescarvi
qualche divertimento, avvisava i suoi amici influenti. La compagnia si riuniva nella sala
del consiglio e si presentava ai timorosi neo sposi come: il ministro mandato dal Re per
5
ROCCO NASSI, No’ esti na źannella, in R.N., No’ esti …, cit., pag. 21
omaggiare quell’unione, l’onorevole ch’esti a Roma, un gruppo di testimoni straordinari e
altre sciocchezze goliardiche del genere.
Iniziava la cerimonia che seguiva la procedura di legge naturalmente, solo che, al
momento di dichiarare i consensi all’unione, il celebrante si rivolgeva ai neo sposi più o
meno così:
- vuoi tu Pascalinu Pizzichemi fu Carminu, prendere per tua diletta sposa la qui
convenuta obbrobriosa et lardosa Giuseppa Scammacchia, illustrissima et
celebratissima scorregiatrice, indecente troiona e munita di deficienza assoluta se ti ha
scelta come consorte?
(annoto in inciso che il termine bagnaroto “piritara” indicava una donna di malaffare,
una prostituta).
Il povero Pascalino ovviamente non aveva compreso una sola parola enunciata dal
celebrante, se non il nome della sua sposa e il suo, e quindi si rivolgeva al segretario che
annuiva sottovoce: riciti ka si! E il povero Pascalino, tutto contento, rispondeva
compunto: “si”!
Era quindi la volta della sposa, e allora:
-
vuoi tu Giuseppa Scammacchia, orrenda lardosa scorreggiatrice, prendere per tuo sposo
il qui convenuto Pascalinu Pizzichemi fu Carminu, patentata derivazione di meretrice
e grandissimo esponente primario in libagioni vergognose?
E si ripeteva la scena del segretario, mentre i convenuti se la godevano alla grande:
avrebbero poi commentato fra risa e sollazzi vari.
Scene come queste sono avvenute nella nostra Bagnara e con una frequenza sorprendente.
Gli anziani le raccontavano e ci dicevano che i “cappelli” avevano modi di divertirsi non
sempre ortodossi e rispettosi dell’altrui dignità (ho scritto di queste cose in diversi saggi su
Bagnara, tutti in ASFB).
Succedeva anche questo: ma in questa sede l’enfasi va posta sul concetto che interessa, e
cioè che il popolino non era in grado di comprendere la lingua italiana, altro che adoperare
“è”, al posto di “esti” o con esso confuso.
III
Un’ultima notazione concerne l’associazione fra il dialetto parlato e quello scritto e
l’efficacia dell’uso del dialetto rispetto all’uso dell’Italiano.
Sotto Facebook capita frequentemente d’imbattersi in dialoghi fra interlocutori che
adoperano il dialetto.
Ebbene: l’applicazione scritta del dialetto parlato, è quasi sempre un esperimento
fallimentare, se non disastroso!
Proprio per tale motivo, proporre brani poetici e narrativi, scritti in dialetto, può
agevolare un avvicinamento fra parlato e scritto e in tal senso, è meritoria l’azione di
compositori come il nostro Rocco Nassi.
E per agevolare il risultato positivo di questa impresa soprattutto per i fanciulli, non
sarebbe male la produzione di qualche storia a fumetti, tutta presentata in dialetto
bagnaroto (o Calabrese in generale).
Ma non è impresa semplice!
Per esempio: come si associa la frase scritta rispetto a quella parlata, nei casi ove è
previsto il raddoppio fonetico?
Porto un esempio bagnaroto:
… ma po’ l’à a sapiri
Ca na vota cogghjuta,
a fini chi ffai:
o rrustuta, o vogghjuta6 (meglio: “vugghjuta”)
In questa quartina c’è un rafforzativo che è rappresentato con elementi separati:
ma po’ l’à a sapiri è invece di ma po’ l’àssapiri (la “s” raddoppia), mentre è corretto l’altro
rafforzativo chi ffai, che però va unito: chiffai.
Sull’uso del raddoppio nel dialetto scritto in modo da renderlo più aderente a quello
parlato, la strada da percorrere è ancora lunga, ma sarebbe un errore non intraprendere
questo processo, una volta che addirittura si va recuperando l’uso delle desinenze per
meglio agevolare le enunciazioni in dialetto di ciò che in dialetto è scritto.
Infine: dialetto o italiano?
Ovviamente entrambi. Ma con una particolarità: i dialetti nacquero in un ambiente
popolare ove quel che contava nei rapporti interpersonali, per ragioni di scambio o di
mera comunicazione, era la sbrigatività e la concretezza. I salamelecchi c’erano, ma
riguardavano i componenti delle corti signorili o i magistrati di tribunale e i prelati di alta
condizione.
Oggi il dialetto conserva, rispetto all’italiano, alcune funzioni che sono vincenti:
… come se fosse possibile fare (una determinata cosa)
sta per
squasu
… non per criticare, ma per precisare senza però commiserare
sta per
foragabbu
… ma cosa vorresti dire con queste espressioni che non c’entrano nulla?
sta per
chi nik-nak
potrei anche in questo caso continuare con centinaia di casi.
È paradossale annotare che in effetti questo effetto di semplificazione nell’esprimersi in
italiano, s’è ottenuto, ma sostituendo a intere frasi, un vocabolo straniero. E anche in
questo caso, gli esempi sono numerosi.
Lo annoto con l’amaro in bocca: intere frasi, una volta esse si surrogavano con espressioni
latine, ma oggi, noi esterofili scatenati e privi di amor patrio, ci siamo venduti anche
questo nobilissimo aspetto, da nessun altro popolo posseduto.
Tito Puntillo
6
ROCCO NASSI, A castagna, in R.N., No’ esti …, cit., pag. 36
anno II nr. 2 (Gennaio2014)
Segnalo che altre considerazioni, soprattutto concernenti un aspetto trascurato nella
comunicazione di Giuseppe A. Martino, sono contenute in:
TITO PUNTILLO, U jornu ru cunnu, Schede di Storia, a. II, nr. 2 (2014)
E si riferiscono in particolare alla consistente differenza fra dialetto bagnaroto-marinoto e
dialetto bagnaroto corrente, soprattutto nell’uso della l-mouillé.
Per comodità del lettore, ne
riproduco
di sèguito il testo.
NOTE SUL
DIALETTO
BAGNAROT
O
Tito Puntillo
SCHEDE DI STORIA E TRADIZIONI LOCALI
SCHEDA NR.. 6
‘U JORNU RU CUNNU
Di questa espressione si sono ormai perse le tracce a Bagnara, ma fu d’uso comune ancora
per quasi tutti gli Anni Cinquanta del secolo passato, ancorché enunciata in forma generica,
quasi un’esclamazione simile a tante altre, tipo: “va pija Parmi ku jà bella villa!” o il termine
bellissimo “squasu”, utilizzato soprattutto da Porelli in su.
Ma nella frase che ora stiamo esaminando, si cela tutto un mondo particolare, è essa una
specie di sublime sintesi dell’aspetto dinamico della vecchissima società bagnarese,
governata da simboli, procedure derivate da tradizioni ataviche, rigoroso rispetto della forma
e, quel che più conta (e a me piace frequentemente ribadirlo) l’assoluto rispetto per il lavoro
degli altri.
Se così fu per le classi sociali subalterne, diverso fu il modo di fare dei “cappelli” che non
sono certamente da confondersi con gli “homini j berritta”, cioè i punti di riferimento, i leader
del popolo lavoratore e spesso identificati nei maggiori capi-famiglia della Città.
I “cappelli” identificavano la classe intermedia, in ascesa per censo e attività, oggi diremmo i
professionisti provenienti dalla piccola borghesia provincialotta, propensi alla trasgressione,
se necessaria per conseguire una posizione, una somma di denaro, un’ascesa di potere,
una migliore visibilità sociale.
Contro costoro, si scagliò il Popolo al tempo della rivolta di Masaniello, al tempo della
controrivoluzione Sanfedista del Cardinale don Fabrizio Ruffo-Bagnara e sempre contro di
loro, alleati con i Francesi scesi in Italia per “affratellare” le neo Repubbliche Giacobine alla
«Grande – Natione» francese, nacque e si sostenne il Brigantaggio.
Ma torniamo alla nostra espressione: U jornu ru cunnu.
Questa espressione è una derivazione della forma completa «vu-cuntu» utilizzata nelle
famiglie bagnarote per dare inizio alle quotidiane “riunioni” durante le quali marito e moglie si
ritrovavano per fare il punto sull’attività della giornata, le entrate e le uscite, la situazione dei
figli, i problemi della casa e le cose da fare per l’immediato prosieguo.
Nella Bagnara antica e moderna (non più in quella contemporanea) il lavoro si ripartiva fra
tutti i componenti familiari, come ampiamente descritto ne “La Bagnarota”, disponibile sul
web al sito Archivio Storico Fotografico Bagnarese, laddove si dimostra che a Bagnara non
vi fu Matriarcato.
Per comprendere meglio il problema, facciamo riferimento a una coppia standard della Città:
con una frequenza non maggioritaria nelle composizioni familiari (la maggioritaria fu fra
contadini), era costituita dal marito dedito alla pesca e la moglie alla commercializzazione
del pescato. Così avveniva che il marito raggiungeva ogni sera al tramonto la palamitara di
riferimento e s’aggregava all’equipaggio che varava per andare a gettare le reti al largo,
talvolta molto al largo e, all’epoca, si vogava spingendo con forza su remi che parevano
alberi di medio fusto.
Si stava a mare tutta la notte e si rientrava al primissimo chiarore che precede l’alba; a
Bagnara si definiva quel momento del ciclo giorno-notte “i matinati”.
Sulla spiaggia, ad attendere i mariti, c’erano già pronte colle ceste e i panari le Bagnarote.
Dopo le brevi negoziazioni fra i membri dell’equipaggio, ogni cesta si riempiva di pesce più
che fresco e le Bagnarote si avviavano al punto di riunione per quelle della Montagna, cioè
la Livara, o il Pizzolo per quelle della Marina. Le carovane che si formavano prendevano
così, mentre la sirena suonava le cinque del mattino, due direzioni: l’Altopiano della Corona
o la Fossa di San Giovanni (Villa S.G.).
I mariti rientravano a casa, recuperavano durante la mattinata il sonno notturno e passavano
il pomeriggio a riparare le reti, eseguire manutenzioni al natante, mettere a posto la casa e
quant’altro.
Alla sera le Bagnarote rientravano, in genere un paio d’ore prima che i mariti si avviassero
verso la spiaggia per il lavoro notturno e proprio quel minimo intervallo era concesso alla vita
di coppia. La moglie si sarebbe coricata presto per esser pronta prima dell’alba e il marito
stava per andare a lavorare.
Per inciso va precisato che “esser pronta per la sirena delle cinque”, significava alzarsi fra le
tre e le quattro, per predisporre la casa e mettere in condizione i figli di trovar pronto per far
colazione e vestirsi e quindi equipaggiarsi per il lavoro ambulante da svolgere in lunghissime
camminate.
Il momento di ricongiunzione della coppia, si definiva dunque “u jornu ru vucuntu” dove
“jornu” stava per “momento [del giorno]” secondo il modo antico bagnaroto di determinare e
definire le fasi della giornata.
Come cennato, in quel breve spazio di intimità familiare si esaminava lo status della famiglia,
si esaminava il lavoro svolto giudicandolo più o meno profittevole, si giudicava il procedere
educativo e la salute dei figli e si metteva a punto la strategia della giornata che iniziava.
Era anche il momento dell’approccio sessuale e in genere, esso veniva stimolato dalla
Bagnarota, all’epoca notissima come figura di ardente e passionale donna capace di
“resuscitare i morti”, come scherzosamente si diceva fra i paesi della Piana. La stagionata
storiografica bagnarota non ne fa cenno.
Non per niente la Bagnarota fu sempre “desiderata” da torme di uomini che ovunque la
corteggiavano, le indirizzavano invocazioni d’amore e inviti a squisiti banchetti in splendide
ville e giardini, le offrivano denaro e fiori. Ma si verificò raramente che qualche Bagnarota
prestasse il fianco a debolezze del genere. Nessuno poi, ha mai fatto cenno, disquisendo
sulla Bagnarota, dell’operosità e della rettitudine del Bagnaroto e tantomeno alla sua
indiscussa virilità.
Il Bagnaroto era, da questo punto di vista, il «potente» compagno della Bagnarota.
E la cennata, stagionata storiografia bagnarese, ha sempre definito la Bagnarota come
figura casta e gentile e grande lavoratrice quando in realtà la Bagnarota era un maresciallo
nel lavoro, capace di “vendersi San Pietro in cambio di patate” ma anche una gagliarda
amazzone
Quindi, terminato il resoconto della giornata, era frequentissimo che la Bagnarota si
rivolgesse al marito con, più o meno, questa espressione: «e uora? Vò [l’altro] cuntu»?
intendendo far comprendere che se lui se la sentiva, lei era prontissima a giacere con lui.
Nella terminologia corrente, come spesso accade, l’insieme di questa complessa scena
venne indicata tempo dopo tempo, come “u cunnu”, cioè l’insuperabile atto sessuale della
Bagnarota e “u jornu ru cunnu” la combinazione astratta del medesimo atto sessuale uomodonna. Un modo di dire per rimarcare un commento o un fatto, insomma.
Se la turnazione fra marito e moglie avveniva al tramonto anziché all’alba (come ad esempio
per il caso delle Bagnarote della Montagna, per lo più rasolari e contadini dell’Altopiano),
l’intero processo, eguale nella forma e nella sostanza, si spostava alla sera.
Il principio della elevata sessualità della Bagnarota, unito al principio della famiglia in un
unicum inscindibile, ebbe un significato estremo a Bagnara.
Frequentemente nei tempi andati, qualcuno osava canzonare il rapporto di coppia della
Bagnarota, spesso non conoscendo neanche il significato di ciò che andava a dire.
Qualcuno dei miei amici fra i più anziani, si ricorderà della seguente espressione: «Ah! A
Bagnarota! Acqua caja e sapuni moju»! E si ricorderà che quasi sempre la reazione delle
Bagnarote che ascoltavano quella frase, e soprattutto le più anziane, reagivano talvolta
violentemente tant’è che non erano rari i casi in cui il pronunciatore della frase era costretto
a levarsi di torno.
Ma perché quella reazione violenta? Cosa significa allora “acqua caja e sapuni moju”?
Innanzitutto definiamo che “caja” sta per “cadda” perché nella derivazione marinota dal
dialetto bagnaroto, la «l» preceduta dalla vocale «a», trasforma la pronuncia della «l» in
«ia». Quindi in questo caso, “acqua caida” invece di “acqua cadda”.
L’altra derivazione è invece generalizzata nel dialetto bagnaroto: “quello” nel calabrese
meridionale si traduce in “chiddhu” ma nel bagnaroto, la “e” seguita dalla “l” determina lo
«slittamento» della consonante, per cui non “chiddhu” ma “chiju”.
Vale egualmente per quasi tutte le combinazioni fra le vocali e la “l” per cui ad esempio,
mentre nel dialetto calabrese meridionale “molle” si traduce in “moddhu”, nel bagnaroto vale
“moju”.
E così “quelli” va per “chiddhi” ma in bagnaroto va per “chiji”, ma gli esempi sarebbero
infiniti.
Ma a noi interessa qui l’inflessione “caja”, cioè la differenza fra il bagnaroto del Borgo
“caddha” e il Marinoto, appunto “cajda”, nella successiva trasformazione in “caja”.
“Caja” per il Bagnaroto non ha significato, ma pronunziata da uno per esempio di Seminara,
vale come una canzonatura del dialetto bagnaroto di per sé, coniugata con la noméa che
sessualmente parlando, la vita di coppia è come l’acqua calda, cioè poco vigorosa e
significativa, e che in tale contesto decadente, l’accoppiamento risultava poco efficace,
attesa la scarsa turgidità dell’attributo maschile (sapuni «moju»).
Quindi per la Bagnarota, sentirsi definire “acqua caja e sapuni moju” valeva come un insulto
gravissimo, che colpiva direttamente l’onorabilità della sua famiglia.
Resta, dopo tale esame, fondamentale una circostanza:
che nessuno in Calabria, ma proprio nessuno, potrà mai vantare come fattore ereditario e
nobilitante del suo essere oggi calabrese, un retaggio come quello che si definisce nella
rivoluzionaria espressione: «u jornu ru cunnu».
Tito Puntillo.