GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFi RASSEGNA STAMPA Anno 7o- n.11, Novembre 2014 Sommario: Wenders incontra Salgado: Il sale della terra.……………………………………………………pag. 2 Dov'è il dolore di ieri .….………………………………………………………………………………………pag. 4 Walter Bonatti - Fotografia dei grandi spazi ………………………………………………………pag. 6 Swen Marquardt. Dal Berghain a Berlino e Torino.……………………………………………pag. 7 La storia della prima immagine digitale………………………………………………………………pag. 9 Carta cambia. Un'isola fra immagini e parole.……………………………………………………pag. 12 A Sara Munari l'11° Premio Nazionale Fantini.……………………………………………………pag. 14 Mostra fotografica di Walter Rosenblum:"The fight with cameras"……………………pag. 15 La trappola della guerra guardata.………………………………………………………………………pag. 16 Paul Strand in mostra a Philadelphia……………………………………………………………………pag. 20 La denuncia sociale in bianco e nero. Walker Evans a Berlino……………………………pag. 21 Progetto, ma di che cosa....…………………………………………………………………………………pag. 23 Il genio di Picasso dietro a una Leica.…………………………………………………………………pag. 25 Visioni del mondo di Daido Moriyama…………………………………………………………………pag. 28 R.Mapperthorpe, le 10 fotografie più celebri dell'interprete del corpo umano.…pag. 29 Tutta l'arte di Henri Cartier-Bresson dal disegno alla pellicola e ritorno……………pag. 31 Una storia che si allunga………………………………………………………………………………………pag. 33 L'Europa di Josef Koudelka: Jofef Koudelka: nationality doubtful………………………pag. 35 Electric Monna Lisa.………………………………………………………………………………………………pag. 36 La La fotografia raccontata da Geoff Dyer.…………………………………………………………pag. 38 Le montagne sanno il perché.………………………………………………………………………………pag. 43 Daido Moriyama: visioni del mondo, graffiate, sfocate e viscerali………………………pag. 46 Elliott e Gianni, il mestiere dell'anima...………………………………………………………………pag. 48 I diritti in fotografia e il diritto del fotografo…………………………………………………………pag. 52 C.Baudelaire contro O.Wendell Holmes. Duello a distanza sulla fotografia.………pag. 54 Il fotografo biellese Vittorio Sella che per primo trovò…la luna sopra i monti… .pag. 56 Se l'arte è mobile qual foto al vento.……………………………………………………………………pag. 58 Letizia Battaglia: "La fotografia l'ho vissuta come salvezza e verità"…………………pag. 62 Franco Fontana………………………………………………………………………………………………………pag. 63 Mappatella Beach e la sua tribù: gli scatti napoletani di Martin Parr.…………………pag. 66 L'insolita banalità del mondo…………………………………………………………………………………pag. 67 Stefano Robino…..…………………………………………………………………………………………………pag. 70 Ugo Mulas.………………….…………………………………………………………………………………………pag. 73 Immaginare i colori di Bob..…………………………………………………………………………………pag. 76 1 Wenders incontra Salgado. Il sale della terra: Il docufilm di Wenders pecca di celebrazione di Maurio G. De Bonis da http://www.puntodisvista.net/ Wim Wenders e Sebastiao Salgado nel film Il sale della terra diretto da Wim Wenders Il sale della terra è stato presentato nel maggio 2014 nella sezione Un certain regard del Festival di Cannes. Ora, giunti a ottobre 2014, il film è stato prima proiettato al MAXXI di Roma nell’ambito del Festival Internazionale del Film e poi distribuito nelle sale cinematografiche. Autori dell’opera Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado. Riguardo il primo non ci sono bisogno di presentazioni. Il secondo, invece, è il figlio del celebre fotografo brasiliano Sebastião Salgado. Proprio a quest’ultimo è dedicato questo documentario, di cui Wenders è anche produttore esecutivo. L’interesse del grande regista e fotografo tedesco per un personaggio come Salgado era prevedibile, vista la vicinanza al mondo della fotografia dell’autore di Palermo Shooting. Ma la questione più significativa da comprendere riguardo questo film concerne il modo con il quale Wenders si è rapportato a una figura così, apparentemente, centrale del mondo della fotografia. Il nodo fondamentale di tale aspetto concerne il fatto che appare evidente come ci si trovi a che fare non con un documentario approfondito, di studio e di analisi del lavoro del celebre fotografo brasiliano ma con un’autentica agiografia acritica. Non discuto in assoluto la figura di Salgado, il quale è certamente un fotografo importante e un uomo di grande sensibilità, affermo solo che l’impostazione del film è puramente celebrativa e ciò nuoce anche alla qualità cinematografica dell’opera. Wenders non aveva certamente fatto ciò con il grande cineasta giapponese Ozu in Tokio-Ga, documentario che, di fatto, è situato agli antipodi rispetto a Il sale della terra. Poi c’è la questione del punto di vista della fruizione. Chi si rapporta a questo documentario provenendo dal cinema e conoscendo poco la fotografia (e dunque anche Salgado) non avrà metri di giudizio adeguati per poter collocare con cognizione di causa Sebastião Salgado nella storia della disciplina fotografica, così come chi si approccia al film dal punto di vista dell’ambiente fotografico, purtroppo, non riuscirà a percepire a pieno l’autentico livello di questa operazione cinematografica. E ciò avviene, non perché il pubblico non sia in grado di interpretare un film su un fotografo, ma proprio perché si tratta di un’agiografia priva di analisi e di approfondimento che, dunque, pone lo spettatore di fronte a un soggetto praticamente intoccabile. 2 Sebastiao Salgado nel film Il sale della terra diretto da Wim Wenders Così, ne Il sale della terra le sublimi e atroci immagini delle miniere d’oro in Brasile (Serra Pelada) finiscono incredibilmente per avere lo stesso valore degli inutili e banali scatti dei leoni marini o della coda di una balena, così come alcune straordinarie immagini del lavoro ‘Sahel’ assumono la stessa identica qualità di quella dei pinguini che entrano in acqua (scatto che fa parte del gigantesco lavoro Genesi). In tal senso, Il sale della terra non va preso come un documento che cerca di analizzare oggettivamente il percorso autoriale di Salgado quanto piuttosto come un sentito omaggio soggettivo di Wenders (e del figlio dello stesso Salgado) a questa figura. Sull’effettiva collocazione di Salgado nel panorama della fotografia internazionale ci sarebbe molto da discutere, a cominciare dal fatto che ciò che emerge dal documentario in questione è una sorta di santificazione dello stile Salgado. L’autore brasiliano, oltretutto, è esponente solo di un settore limitato della disciplina fotografica, quello circoscritto allo sguardo di tipo antropologico e sociale. E anche se dovessimo considerarlo (come molti credono legittimamente) come un autentico maestro di questa tipologia di fotografia (e non ci sono dubbi che sia così) non potremmo fare a meno di evidenziare, per onestà intellettuale, la sua tendenza (in diversi scatti) a cadere in una pesante concezione estetizzante delle immagini. Il suo linguaggio, oltretutto, è stato anche generatore di mode che hanno attraversato in lungo e in largo la fotografia di reportage e sociale, dagli anni ottanta in poi: grandi contrasti iper-drammatizzanti e forte sgranatura dell’immagine, soprattutto. Ebbene, tali aspetti non possono essere trattati con leggerezza in un documentario che racconta l’opera di questo autore; invece praticamente non se ne parla, così come paradossalmente non si parla di fotografia (in generale) in un film dedicato a un fotografo.Tutto è un raccontare di storie e vicende umane (alcune molto significative, toccanti e strazianti, a dire il vero). La fotografia, però, è relegata in un angolo e quando ne parla lo stesso Salgado vengono fuori solo dichiarazioni scontate e semplicistiche, come quelle comunicate agli spettatori dell’autore brasiliano sulla questione del ritratto. Ecco a quali asserzioni mi riferisco: “La forza di un ritratto è che in quella frazione di secondo si coglie un po’ la vita della persona che si fotografa. Gli occhi raccontano molto, l’espressione del viso…” 3 Ed ancora: “Quando fai un ritratto non sei solo tu che fai la foto, la persona ti offre la foto.” A ognuno di voi spetta un giudizio soggettivo su queste affermazioni. A me sembrano veramente troppo ovvie e limitate per un autore di questa portata. © Punto di Svista – Huffington Post Dov’è il dolore di ieri di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it W.W. Hooper, Vittime della carestia in India, 1876-1877 In una fotografia, il passato non passa mai. Bussa alla porta, ci perseguita. Ho scritto, e ne resto convinto, che anche fra cent’anni chi guarderà la troppo famosa e fatale fotografia di Kevin Carter in Sudan, quella dell’esserino rannicchiato su se stesso di cui un avvoltoio sembra pazientemente aspettare la fine, si chiederà che cosa ne è stato, di lui, e cosa è successo dopo. (Qualcuno non ha smesso di chiederselo, anche dopo decenni, e ha provato a cercare una risposta. Alberto Rojas, fotografo spagnolo, un anno fa andò a cercare le tracce di quel bambino ad Ayod, e fu sicuro di aver trovato i suoi genitori e ricostruito la sua storia: il bimbo era sopravvissuto, ma per morire una decina di anni dopo di un’altra delle piaghe d’Africa). Se lo chiederanno, i nostri pronipoti, fremendo come se quel che vedono nella fotografia sia appena accaduto; anzi no, come se accadesse sotto i loro occhi, ma dietro un vetro spesso e insuperabile. Quel vetro ipotetico è il luogo della collisione, che solo la fotografia è capace di produrre, fra due distanze, quella fisica (vediamo cose lontane nello spazio) e quella cronologica (vediamo cose lontane nel tempo). Due distanze che si traformano in una presenza, che ci chiama in causa. La foto del dolore estremo vorrebbe dirci: ora hai visto, ora lo sai (è un concetto caro a James Nachtwey), non puoi più dire di non sapere, devi fare, o vergognarti di non fare, perché ora hai visto. (Non è così vero, in realtà: quando guardi una fotografia non sai. Ma forse ti domandi ecerchi di sapere. E allora funziona lo stesso, anzi forse funziona meglio, ma non divaghiamo.) 4 Quei quei pronipoti lontani sapranno bene di non poter più fare nulla, per quel bambino che non esiste più. Un’immagine di dolore estremo assalirà le loro coscienze in una morsa di impotenza retroattiva. Oppure no? Non avvertiranno più nessun disagio? E io mi sbaglio? È dunque il caso di chiedersi cosa sarà, fra cent’anni, una fotografia come questa, o come il bambino albino di McCullin, o come l’uomo scheletrito di Nachtwey. Chiediamocelo senza dare per scontato nulla. Cosa accade alle testimonianze visuali forti come queste, quando il contesto a cui si riferiscono non è più quello presente? Quando ogni possibilità di agire su quel che vediamo è definitivamente tramontata? Quando la Storia ha chiuso le porte ed eseguito la sentenza? Forse ho torto, dicevo. Magari non ci sarà alcuna reazione, perché fra cent’anni il linguaggio delle nostre fotografie di oggi, che ora ci pare trasparente, apparirà scaduto, retorico, artificiale, poco diretto, proprio come “una vecchia foto”, e non come “una finestra sulla realtà”. L’impatto emotivo sarà stato sterilizzato dall’invecchiamento dello stile, del linguaggio? Possiamo fare un esperimento, su questo. La storia della fotografia, per quanto giovane, ormai ce lo consente. Cosa succede nella nostra coscienza quando guardiamo una fotografia come quella che pubblico qui sopra, che ha quasi un secolo e mezzo, appunto. Che cosa vediamo di questa fotografia? L’immagine di un esseri umani che hanno vissuto realmente e hanno sofferto realmente, come il bimbo di Carter? Ci identifichiamo ancora nella loro sofferenza? Oppure prima vediamo la fotografia in sé, come immagine, la riconosciamo come vecchio oggetto-immagine, notiamo il suo stile fine Ottocento, la sua grana d’epoca, la composizione tremendamente accurata e pittorica del gruppo? E questi segni di vetustà stilistica respingono all’indietro il dramma, gettando strati di patina storica sulla “traccia del reale” e sterilizzandone il potenziale di coinvolgimento emotivo? Insomma riusciamo ancora a com-patire questa immagine del dolore di ieri come faremmo di fronte a una fotografia del dolore di oggi, oppure lo specchio della realtà, col tempo, si è appannato, scolorito, sbiadito? L’immagine si è chiusa per sempre nelle sue due dimensioni, dentro la conice del suo bordo? Cosa diventano, allora, le fotografie del dolore di ieri? Possono ancora scuotere qualche coscienza, magari solo per una specie di monito indiretto, come una metonimia etica (“guardate, quel che vedete succedeva tanto tempo fa, ma qualcosa di analogo accade anche oggi”…)? Oppure diventano puri e semplici documenti della storia, dati antropologici precisi e freddi, fonti iconografiche utili per la ricostruzione del contesto di un’epoca? In fondo questo mi pare il più onesto dei destini possibili. Ecco, così si moriva di fame nell’India di fine Ottocento – o meglio: così lo sguardo occidentale rappresentava la morte per fame nell’India di fine Ottocento… Perché l’altro destino possibile è lo scivolare delle immagini di un dolore specifico in simboli di un dolore universale (“Ecco, questo è il volto eterno della fame e della disperazione”…).Vorrebbe dire negare quella sofferenza individuale, toglierla dalla storia e della realtà, farne una specie di dipinto allegorico. Ma sarebbe giusto? La deriva iconica in ogni caso non funziona con tutte le fotografie: solo con quelle che hanno certe caratteristiche formali molto particolari (semplicità, scarsità di riferimenti storici e dettagli, somiglianza ad altre icone…). Quella 5 che vedete qui sopra, ad esempio, non mi pare abbia i requisiti per diventare “icona eterna della carestia”. E allora, che ne sarebbe? Forse le toccherebbe il destino peggiore. Finire in un museo, e non dico in una mostra di tipo storico-documentario, dove con adeguato contorno e contesto ci può stare; dico proprio in un museo d’arte, risemantizzata come oggetto estetico (di un’estetica del dolore, ovviamente), etichettata e messa in catalogo come nuova incarnazione di Laocoonte, nuova Crocifissione, non più differente in nulla da una “Strage degli innocenti” barocca, ecco, guardate, ammirate l’equilibrio della composizione, il sapiente gioco delle luci, la disposizione delle linee… Smetterebbe di essere la condivisione fra esseri umani di uno sguardo che uno di loro ha gettato sulla realtà, per farla vedere adi suoi simili. E per me, scusate, sarebbe questa la vera morte della fotografia. Tag: Alberto Rojas, dolore estremo, fotografia, James Nachtwey, Kevin Carter Scritto in Senza categoria | Commenti » Walter Bonatti - Fotografie dai grandi spazi di Redazione /Photographers) da http://www.lastampa.it Dal 13 novembre 2014 all’8 marzo 2015, Palazzo della Ragione Fotografia di Milano presenta la prima mostra, mai dedicata, a Walter Bonatti, uno dei più grandi fotografi italiani. Promossa e prodotta dal Comune di Milano - Cultura, Palazzo della Ragione, Civita, Contrasto e GAmm Giunti, a cura di Alessandra Mauro e Angelo Ponta ed in collaborazione con l’archivio Bonatti. L’esposizione dal titolo Walter Bonatti. Fotografie dai grandi spazi, con l’ausilio di video, di documenti inediti e di un allestimento particolarmente coinvolgente, ripercorre il racconto visivo, le vicende esistenziali e le avventure dell’alpinista ed esploratore italiano. Le immagini in mostra testimoniano oltre 30 anni di viaggi alla scoperta dei luoghi meno conosciuti e più impervi della Terra e raccontano una passione travolgente per l’avventura insieme alla straordinaria professionalità di un grande reporter. È difficile separare il ricordo di Walter Bonatti da quello delle sue fotografie. Ed è sorprendente scoprire quanto la sua figura e le sue imprese siano radicate nella memoria di un pubblico tanto differenziato per età e interessi. La persistente popolarità di Bonatti ha più di una spiegazione. Imparò a fotografare e a scrivere le proprie avventure con la stessa dedizione con cui si impadronì dei segreti della montagna: alpinista estremo, spesso solitario, ha conquistato l’ammirazione degli uomini e il cuore delle donne, affascinando nello stesso tempo l’immaginario dei più giovani. Il mestiere di fotografo per grandi riviste italiane, soprattutto per Epoca, lo portò a cercare di trasmettere la conoscenza di luoghi estremi del nostro pianeta. Al tempo stesso, non smise mai di battersi con forza per tramandare la vera 6 storia, troppe volte nascosta, della conquista del K2 e del tradimento dei compagni di spedizione. Molte tra le sue folgoranti immagini sono grandiosi “autoritratti ambientati” e i paesaggi in cui si muove sono insieme luoghi di contemplazione di scoperta. Bonatti si pone davanti e dietro l’obiettivo: in un modo del tutto originale è in grado di rappresentare la sua fatica e la gioia per una scoperta, ma al tempo stesso sa cogliere le geometrie e le vastità degli orizzonti che va esplorando. Il talento per la narrazione, l’amore per le sfide estreme, l’interesse per la fotografia come possibilità di scoprire e testimoniare per sé e per gli altri. Una passione, e probabilmente anche un’esigenza, nata già negli anni dell'alpinismo (con i trionfi e le amarezze che li segnarono), con le foto scattate sulle pareti più difficili, e poi consolidata nel tempo, con i racconti d’imprese affascinanti e impossibili. A partire dagli anni ‘60 ha pubblicato numerosi libri che narrano le sue imprese alpinistiche. Muore a Roma il 13 settembre 2011, all’età di 81 anni. dal 13 novembre 2014 all'8 marzo 2015 - Palazzo della Ragione, Piazza dei Mercanti 1, Milano Sven Marquardt. Dal Berghain di Berlino a Torino GÖTTERDÄMMERUNG - IL CREPUSCOLO DEGLI DEI da Artribune segnala Götterdämmerung – Il Crepuscolo degli Dei presenta, per la prima volta in assoluto in maniera così ampia, il lavoro di Sven Marquardt (Berlino Est, 1962), un tempo fotografo “clandestino”, oggi protagonista indiscusso della scena artistica underground nella capitale riunificata e front-man del Berghain, leggendario club berlinese riconosciuto per la sua unicità in tutto il mondo. Una selezione di oltre 60 fotografie racconta, attraverso lo stile inconfondibile di Marquardt, sospeso tra intimità e voyeurismo, l’evoluzione e le trasformazioni socioculturali di Berlino, dagli anni rabbiosi della Guerra Fredda all’edonismo di oggi. La mostra si inserisce all’interno del programma culturale che nel 2015 unirà Torino alla capitale tedesca. Articolata su due sedi espositive: l’Appartamento Padronale di Palazzo Saluzzo Paesana e le cripte dell’Ex Cimitero di San Pietro in Vincoli, inaugura il 9 novembre 2014, venticinquesimo anniversario della caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989). “Il Crepuscolo degli Dei”, in tedesco Götterdämmerung, è un’espressione impropria ma usuale nella mitologia nordica, utilizzata per indicare la fine del mondo, il giorno fatale della grande catastrofe, la battaglia finale degli Dei contro oscure potenze avversarie che li annientano. Alla fine del XIX secolo Richard Wagner rielabora questa saga nel testo del suo dramma musicale Die Götterdämmerung, la quarta parte della celebre tetralogia de l'Anello del Nibelungo, che rappresenta la summa della concezione estetica del grande compositore, 7 evocatrice di drammi umani e mitici, di amori sublimati, di ritorno a un leggendario passato eroico. In un contesto completamente diverso, Luchino Visconti recupera l’impeto wagneriano ne La Caduta degli dei (1969), film in cui innesta, sullo sfondo delle tragiche vicende di una famiglia di industriali, gli Essenbeck, la storia dei due anni tedeschi del destino: il 1933-1934, che vedono la fine di un mondo e l’inesorabile ascesa di Hitler al potere. “Sven Marquardt, come Wagner”, commenta Eugenio Viola, “non concepisce il mito come passato inverato dalla storia, ma come presente che si presta a spiegare il passato, infondendo nei suoi personaggi malinconici, antieroi silenti di un Olimpo ormai dissoltosi per sempre, uno spirito universale in cui l'angoscia degli antichi Dei si identifica con le nostre angosce, le nostre passioni, i nostri stessi ideali. I suoi ritratti, caratterizzati da un’acuta introspezione psicologica, giocano su un’idea d’impermanenza e sembrano suggerire significati ulteriori, al di là della patina rassicurante delle composizioni ben calibrate, caratterizzate da un uso sapiente del bianco e nero, fortemente chiaroscurato”. “Il doppio percorso espositivo è concepito per creare un itinerario carico di suggestioni, interagendo con le particolarità strutturali delle due sedi individuate, convenientemente ubicate a 800 metri di distanza l’una dall’altra”, continua Enrico Debandi. “Nell’Appartamento Padronale di Palazzo Saluzzo Paesana trovano spazio opere di grande formato, sontuose e dal contenuto edonistico, allestite seguendo un criterio di quadreria barocca, mentre nell’ex Cimitero di San Pietro in Vincoli, e in particolare nelle sue cripte – aperte al pubblico per la prima volta in questa occasione – sono presentate le fotografie che raccontano la Berlino underground e oscura, cara alla poetica dell’artista”. L’accoglienza dei visitatori presso le due sedi espositive, realizzata in partnership con l’Istituto Europeo di Design, offrirà agli studenti del Corso di Diploma Accademico in Fotografia la possibilità di confrontarsi con il lavoro dell’artista e con la sua fruizione da parte del pubblico. La mostra è accompagnata da un catalogo monografico trilingue italiano, tedesco, inglese - edito da Skira, ad oggi il più completo sul lavoro di Sven Marquardt. Nel corso dell'evento inaugurale a San Pietro in Vincoli, il quintetto ARCHITORTI (Efix Puleo e Federica Biribicchi | Violino, Marco Gentile | Viola, Marco Robino | Violoncello, Saverio Miele | Contrabbasso) si esibirà in un concerto breve in omaggio all'artista, con brani tratti dall'album PLAYPUNK, esperimento musicale che reinterpreta in chiave armonica e melodica un genere musicale nato protestatario ed anarcoide. Sven Marquardt (Berlino Est, 1962) vive e lavora a Berlino. Si forma come aiuto operatore alla DEFA (gli studi cinematografici di proprietà pubblica della RDT) dove, collaborando con il fotografo Rudolf Schäfer, figura iconica della Germania Est, inizia nei primi anni Ottanta la sua carriera, pubblicando le sue prime fotografie sui periodici “Der Sonntag” 8 e “Das Magazin”. Parallelamente al lavoro di fotografo di moda, Marquardt inizia a documentare la scena underground di Berlino Est. Dopo la caduta del muro, Marquardt si immerge nella club-culture magmatica della capitale riunificata e smette per alcuni anni di fotografare. Successivamente ricomincia a lavorare con la fotografia, sia proseguendo la sua ricerca personale sia nel mondo della moda - sue le campagne fotografiche per Levi’s (2011) e per Hugo Boss (2014). Dal 2007 Sven Marquardt contribuisce in maniera significativa alla definizione dell'immagine dell’etichetta discografica “Ostgut Ton” del Berghain. Le sue fotografie sono state esposte in numerose mostre personali e collettive in Germania e all’estero. “GÖTTERDÄMMERUNG - Il Crepuscolo degli Dei” è realizzata grazie al sostegno della Fondazione per la Cultura Torino, con il patrocinio della Regione Piemonte, della Città di Torino e del Goethe-Institut Turin, in collaborazione con Banca Mediolanum, con il supporto tecnico di Allegro Hotels, Esterna Srl, IED, ToBike, LesMoustaches, LAB Perm, ACTI Teatri Indipendenti, Il Mutamento Zona Castalia _________________________________________ a cura di Enrico DEBANDI, Eugenio VIOLA 10 novembre 2014 - 12 gennaio 2015, dal martedì alla domenica dalle ore 15,00 alle ore 19.00 o su appuntamento telefonando al seguente numero: 347 0103021. Per organizzare eventi e visite esclusive oltre il normale orario di mostra, consultare il sito www.goetterdaemmerung.it Appartamento Padronale di Palazzo Saluzzo Paesana Cripte dell’ex Cimitero di San Pietro in Vincoli - Via della Consolata, 1bis | Via S. Pietro in Vincoli, 28 - Torino. Modalità di ingresso:Biglietto per sede singola: 5 Eur - Biglietto cumulativo intero per entrambe le sedi: 8 Euro - Biglietto cumulativo ridotto per entrambe le sedi (giovani e studenti fino ai 25 anni/over 65/Tessera Musei/Tessera ToBike/Touring Club): 5 Euro Info: [email protected] – 347 0103021– facebook.com/palazzosaluzzopaesana - Ufficio stampa: Giulia Gaiato – [email protected] – +39 346 5606493 La storia della prima immagine digitale Nel 1957 un informatico che lavorava per il governo degli Stati Uniti prese una foto di famiglia e ne fece una scansione con il primo rudimentale scanner esistente. Negli anni Cinquanta Russell Kirsch, un ingegnere informatico statunitense, lavorava al National Bureau of Standards, un’agenzia governativa che si occupa dello sviluppo e della gestione delle tecnologie (esiste ancora oggi, con il nome di National Institute of Standards and Technology, NIST). Nel 1957, in pratica, Kirsch era una delle poche persone negli Stati Uniti a poter lavorare con l’unico computer programmabile esistente, e in primavera fu il primo a 9 digitalizzare una fotografia con uno scanner: prese una foto di sé stesso mentre reggeva in braccio suo figlio di tre mesi, Walden, e la ritagliò in modo da tenere soltanto il volto del figlio. Il magazine statunitense Atlantic ha raccolto alcuni pezzi della storia di quella immagine in bianco e nero, che – per l’importanza che poi ebbe negli sviluppi della fotografia digitale – nel 2003 fu anche inserita dal magazine Life nella lista delle “100 fotografie che hanno cambiato il mondo”. Walden Kirsch nella prima fotografia digitale acquisita tramite scanner nel 1957. 10 All’epoca in cui la foto fu scattata e poi digitalizzata, Kirsch e i suoi colleghi avevano sviluppato solo da qualche anno il primo computer, lo Standards Eastern Automatic Computer (SEAC). In un’intervista del 2007, Kirsch spiegò che il computer serviva per operazioni molto più importanti e complesse, come quelle relative ai calcoli riguardo le armi termonucleari, e in genere per calcoli numerici, algebrici e geometrici. Disse anche che la storia dei computer è piena di persone che, avendo accesso alle macchine, a volte le utilizzavano per interessanti esperimenti che delle organizzazioni non avrebbero probabilmente approvato, poiché consapevoli dei costi. Per acquisire l’immagine di suo figlio Walden, Kirsch utilizzò un primo rudimentale scanner a tamburo, che scomponeva idealmente l’immagine in piccoli quadrati e trasmetteva e traduceva in forma binaria – 1 o 0 – l’informazione contenuta in ciascuno di quei piccoli quadrati (pixel). (Un ingrandimento della foto di Walden Kirsch) L’immagine digitale di Walden Kirsch aveva una dimensione di 176 pixel per lato. La dimensione della fotografia acquisita era di cinque centimetri per cinque. La profondità era di un solo bit per pixel, e la foto era stata acquisita in bianco e nero, senza scala di grigi. Kirsch ha 85 anni e vive in Oregon. Lavora ancora con il computer, insieme alla moglie, prevalentemente per analizzare dipinti e cercare di definire i processi artistici tramite cui vengono creati. Suo figlio Walden lavora nelle comunicazioni per l’azienda Intel dopo una carriera da giornalista televisivo. 11 Il ricercatore R.B. Thomas, del National Bureau of Standards (NBS), con il SEAC scanner usato per la prima scansione digitale nel 1957. TAG: FOTOGRAFIA DIGITALE, NATIONAL BUREAU OF STANDARDS, NATIONAL INSTITUTE OF STANDARDS AND TECHNOLOGY,RUSSELL KIRSCH, SCANNER, SEAC SCANNER Carta cambia. Un’isola fra immagini e parole di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Foto © Calogero Cammalleri 2013, g.c. Il perché del titolo, lo capirete solo alla fine dell’articolo. Abbiate pazienza. 12 Ora vi parlo di un’isola. Che per gli umani migratori si chiama LampaLampa. Luce in fondo a un tunnel di mare e di cielo, che spesso si chiude sulle loro teste, come accadde un anno fa, il 3 ottobre 2013: 368 morti poco al largo dell’insenatura di Tabaccara. Lampedusa, scoglio d’Italia alle soglie dell’Africa, è solo un nome sui tavoli troppo insensibili della politica, ma è un luogo vero nello spazio del Mediterraneo. Un porto da raggiungere pagando dieci volte il prezzo di quel biglietto d’aereo che le leggi ti vietano di acquistare. Pagando a volte un supplemento estemporaneo che si chiama: la tua vita. Un luogo dove si può sbarcare, se si è molto fortunati. O tornare, come Calogero Cammalleri, siciliano di nascita e tedesco d’adozione, emigrato in Germania quando aveva tre anni e ritornato a venti con una macchina fotografica al collo, un accento siculo incerto nella voce e il desiderio di capire la storia dei migranti nello specchio della propria, di espatriato che torna indietro nel tempo e nello spazio. Lipadusa è un libro, è anche un filmato, è il racconto di un’esperienza accolta, incoraggiata e pubblicata da Fabrica, il laboratorio creativo diretto da Enrico Bossan e promosso dal gruppo Benetton a Treviso. LIPADUSA / Photobook by Fabrica from Fabrica on Vimeo. Ed è la seconda puntata di un progetto di slow journalism chiamato Sciabica (parola siculo-araba, sta per rete da pesca) iniziato con la raccolta (a cura di Michela A.G. Iaccarino) delle testimonianze, delle storie, dei ritratti dei superstiti del naufragio di un anno fa, e dei lampedusani che vi assistettero (ora consultabile online). Il racconto fotografico in bianco e nero sgranato di Cammalleri, invece, non è una memoria né una cronaca, se non delle impressioni di una lunga, lenta, affaticante convivenza di nove mesi, da settembre 2013 a luglio 2014, nell’isola e con i suoi abitanti vecchi e nuovi, che gli ha consentito di abbassare lentamente le barriere di diffidenza ed esasperazione di un’isola troppe volte, e inutilmente, sotto i riflettori dei media. Lipadusa ha ottenuto il patrocinio dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. S’intende che sia, ed è, non uno sfizio artistoide ma un intervento nel mondo e sul mondo. Ora (ecco, ci siamo), tu sfogli il volume che s’intitola Lipadusa, un bel volume di grande formato, con la copertina telata e raffinato design, e ti imbatti, infilato e cucito fra le prime pagine, in un sedicesimo stampato su carta da giornale, di formato diverso da libro, impaginato come fosse un quotidiano, colonne di piombo senza foto. Foto © Calogero Cammalleri 2013, g.c. 13 Contiene, scritte dalla giornalista Silvia Giralucci, le parole necessarie per comprendere il libro, o almeno la realtà di cui le fotografie del libro raccontano. Giocare con i formati, con le carte, con gli inserti, è una pratica abituale per Colors, il magazine di Fabrica, ed è sempre una scelta non neutra, ma significante. In questo caso, cosa significa? La mia impressione di lettore: qualcuno mi sta dicendo che le fotografie stampate su carta di qualità, liscia e piacevole al tatto, stanno in un’altra dimensione rispetto alle parole stampate su carta porosa, povera, ruvida. L’opposizione liscio/ruvido, ce lo insegna Roland Barthes (come Claude Lévi-Strauss quella tra crudo e cotto) richiama antitesi profonde della nostra antropologia culturale. Dunque immagini e parole che raccontano lo stesso dramma politico, umano, economico, sono messe in antitesi. Per denunciare il mancato incontro fra emozione e ragione? È una critica ai media che mostrano senza dimostrare? È una sfida al lettore, che sia lui a ricomporre la frattura? Non saprei. In ogni caso, mi sembra la visualizzazione di uno scarto, quello fra immagine e parola, che la nostra cultura non riesce ancora a metabolizzare. [Una versione di questo articolo è apparsa su Il Venerdì di Repubblica il 17 ottobre 2014] Tag: Calogero Cammalleri, Claude Lévi-Strauss, Enrico Bossan, Fabrica, Lampedusa, Lipadusa, Michela A.G. Iaccarino, Roland Barthes, Sciabica, Silvia Giralucci Scritto in Autori, Bianco e nero, fotografia e società, Testo e immagine | Commenti » A Sara Munari l’11° Premio Nazionale Fantini da http://specchiosesto.wordpress.com/ Il Premio Fantini, istituito per ricordare uno dei più illustri fotografi sestesi, Pino Fantini, è da anni uno dei fiori all’occhiello della Proloco e della Fototeca di Sesto San Giovanni.Ogni edizione svoltasi nel passato ha avuto il suo fulcro nella presentazione di opere di artisti di notevole spessore artistico. Luigi Vegini è stato protagonista nella passata edizione. Quest’anno, per l’undicesima edizione del Premio, la scelta è ricaduta su Sara Munari. Nata a Milano nel 1972, vive e lavora a Lecco. Ha studiato fotografia all’Isfav di Padova dove si è diplomata come fotografa professionista. E’ docente di Storia della fotografia e di Comunicazione Visiva presso Istituto Italiano di Fotografia di Milano e di Reportage presso Obiettivo Reporter a Milano. Collabora con l’Università Cattolica di Milano per alcune pubblicazioni e ha inoltre ottenuto riconoscimenti e premi in vari concorsi fotografici nazionali tra cui nel 2010 il Premio Roberto del Carlo, Luccadigitalphotofest. Il progetto “I delfini dormono con gli occhi aperti” è stato selezionato come Miglior portfolio al Festival di Fotografia Europea 2013 e a Reggio Emilia è entrata nella shortlist della Magnum Fundation per fotografi emergenti. Le sue opere, raccolte nella personale “Place|Planner|Project”, saranno esposte in Fototeca fino a sabato 29 novembre e verranno presentate al pubblico alla 14 presenza dell’autrice sabato 8 novembre alle ore 17.00 alla Fototeca Civica Tranquillo Casiraghi in Villa Visconti d’Aragona (via Dante 6). Seguirà un Coffè & Tea offerto da Bar Bis e alle 18 l’inaugurazione ufficiale. Sotto le fotografie esposte il visitatore non troverà didascalie: una scelta voluta e legata al fatto – spiega Munari – che la mia percezione degli spazi vitali, fosse uguale su tutto il territorio. Le immagini sono state scattata nel 2013, camminando nelle diverse città e nei paesi in Israele e Palestina. “Potete entrare in universi completamente diversi tra loro a distanza di pochi passi – spiega la fotografa -. In nessun altro posto al mondo ho visto una popolazione tanto variegata e messaggera delle proprie tradizioni, nell’arco di così poco spazio. Ognuno di questi microcosmi culturali costituisce un’esperienza di vita completamente diversa”. Orari apertura mostra fotografica: martedì/venerdì 10.30 – 18.00; sabato 10.30 – 17.45; chiuso lunedì e festivi Mostra fotografica di Walter Rosenblum: 'They fight with cameras' da http://www.uniroma3.it/ WALTER ROSENBLUM in WORLD WAR II FROM D-DAY TO DACHAU, a cura di Manuela Fugenzi Inaugurazione: venerdì 21 Novembre, ore 19.30 La mostra resterà aperta dal 22 Novembre 2014 – 19 dicembre 2014 ingresso libero Dopo il successo dell’anteprima presso l’Amerika Haus della US Embassy di Vienna, inaugurata nel giorno del 70esimo anniversario dello sbarco in Normandia, 10b Photography, in collaborazione con Daedalus Productions Inc., è lieta di presentare una mostra dedicata al grande fotografo americano Walter Rosenblum, a cura di Manuela Fugenzi. L’esposizione sarà allestita per la prima volta in Italia presso 10b 15 Photography a Roma, dove verrà inaugurata venerdì 21 novembre 2014 alle 19,30. They Fight with Cameras è il titolo originale della fotografia che ritrae Walter Rosenblum e gli altri membri del Detachment 'P' 163rd Signal Photographic Company dell’esercito statunitense tre settimane dopo lo sbarco in Normandia. La frase è nel titolo di questa mostra perché l'esperienza di Walter Rosenblum, uno dei più decorati fotografi della Seconda Guerra Mondiale e importante riferimento della fotografia del XX secolo, ci permette di riconoscere e ricordare il suo lavoro e quello di tutti quei fotografi che durante il conflitto scelsero di combattere con la macchina fotografica (to fight with cameras). La mostra propone fotografie (alcune inedite) scattate da Rosenblum sul fronte europeo, dallo sbarco in Normandia alla liberazione di Dachau, compresa la celebre icona del D-Day, un breve filmato, accanto a memorabilia e documenti d’epoca provenienti dal Rosenblum Photography Archive. La mostra è accompagnata dal libro They Fight with Cameras. Walter Rosenblum in World War II from D-Day to Dachau edizioni Postcart, a cura di Manuela Fugenzi con un testo di Daniel Allentuck. Venerdì 21 novembre a 10b Photography ore 19.30 in occasione dell’inaugurazione saranno presenti Nina Rosenblum, figlia di Walter Rosenblum e accreditata regista e produttrice di documentari per il cinema e la televisione, con Daniel Allentuck, scrittore e sceneggiatore (fondatori della Daedalus Productions) e Francesco Zizola, fotogiornalista e titolare della galleria. La mostra è una co-produzione Daedalus Productions Inc. e Francesco Zizola – 10b Photography Gallery Ingresso libero. Per informazioni 10b Photography www.10bphotography.com [email protected] Tel: 06 7030 6913 Orari di apertura: Lun 9-13 | Mar 12-16 | Mer chiuso | Gio 12-16 | Ven 9-13 | Sab e Dom su appuntamento La trappola della guerra guardata di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Quel «terribile amore per la guerra» da cui ci mette in guardia il filosofo James Hillman, come tutte le umane pulsioni libidiche, è affamato di immagini, non ne ha mai a sufficienza, non ne rifiuta alcuna. I fotografi di guerra più consapevoli sentono la trappola sotto i piedi, capiscono quanto sia difficile, forse impossibile, produrre visioni della guerra che non siano perla guerra, figuriamoci contro la guerra. 16 Felice Beato, Interno del forte di Taku Nord dopo la sua cattura, 1860 Toccano con mano il conflitto straziante fra il dovere della testimonianza e il rischio della propaganda. La lotta dei fotografi con le insidie delle loro stesse immagini è una guerra dentro la guerra, che ciascuno vince o perde, che a volte travolge e uccide come la guerra vera. Ci sono epoche diverse, nella fotografia di guerra, ma ci sono soprattutto atteggiamenti; la fotografia di guerra non è un genere, non è una tecnica, non è neppure un vero e proprio mestiere. Sembra essere più una condizione esistenziale, quella del militare disarmato, che imbraccia un’arma che non “tira” ma “prende”. Il fotografo di guerra, ha detto qualcuno, è l’approssimazione ad un soldato più accettabile per un pacifista. Di loro, dei war reporter, si è detto di tutto. Testimoni senza emozioni, voyeur dell’orrore, missionari dell’umanità, propagandisti del potere: ciascuna sbagliata, tutte insieme forse no. Labile e scivoloso è il confine fra queste identità, perché la guerra va oltre le esperienze razionalizzabili della vita umana. Sui campi di battaglia di Gettysburg o di Antietam, gli operatori stipendiati da Matthew Brady per documentare la Guerra di Secessione americana si trovarono di fronte scenari che nessun pittore aveva mai dipinto, peggio che orripilanti: incomprensibili, irraccontabili. E il fotografo delle celebrità di Broadway rischiò la bancarotta, perché nessuno glieli comprò, quegli album, dopo la guerra. Ma quale autenticità: la fotografia in guerra ebbe il compito, all’inizio, di mascherare quel che non era il caso di rivelare: Roger Fenton fu spedito in Crimea nel 1855 dalla regina Vittoria per contrastare con la potenza delle “vere immagini” i cruenti racconti di William Russell che comparivano sul Times e indignavano l’opinione pubblica di Sua Maestà, e mandò indietro foto di ufficiali in posa, tranquilli come a una scampagnata. L’orrore era accettabile solo come lontano esotismo barbaro, nei reportage del nostro Felice Beato che, con quel suo nome angelico, spostava i cadaveri lasciati per terra dal Great Mutiny indiano per ottenere composizioni migliori. Erano nature morte di carne umana, e non potevano essere altrimenti fino a quando le fotocamere erano monumenti di legno col treppiede, lenti e pesanti. James Hare, forse il primo fotoreporter di guerra moderno, si trascinava sulle spalle decine di chili di attrezzatura inseguendo a Cuba l’evanescente conflitto ispano-americano, per scoprire a sua beffa che intanto la stampa 17 “gialla” di Joseph Pulitzer aveva già inondato l’America con immagini di guerra inventate dai suoi disegnatori. Due cose ci volevano per far nascere il fotogiornalismo moderno: fotocamere maneggevoli, e arrivò la Leica. Conflitti ideologici, dove fosse necessario schierarsi, e arrivò la guerra civile spagnola. Dove Bob Capa e gli altri non erano altro che brigatisti internazionali armati di lenti, schierati con la repubblica, consapevoli che le loro immagini sarebbero state politicamente usate, che dovevano essere usate per una causa. Prova generale della SecondaGuerra Mondiale, la vera guerra dei fotografi in divisa, armed with cameras, dove «essere abbastanza vicino», il motto di Capa, significava avvicinarsi all’azione, ma anche alla motivazione. In quella guerra, le immagini finirono per essere testimoni d’accusa (anche letteralmente: a Norimberga), prove schiaccianti e determinanti di una vera e propria pedagogia visuale, incaricate di tracciare il discrimine fra buoni e cattivi, fra chi combatteva dalla parte giusta e chi no. Fu l’ultima volta. Ma non fu l’ultima guerra, come aveva sperato George Rodger, che dopo aver fotografato pile di cadaveri a Bergen Belsen giurò a se stesso: mai più guerre, e mantenne. Non fu l’ultima neppure per Capa, che sperava di diventare «il più grande fotoreporter di guerra disoccupato» e invece tornò sui campi di battaglia in guerre che capiva sempre meno, fino a saltare su una mina in quella che capiva meno di tutte, in Indocina, alba dell’assurdo del Vietnam. E i fotografi in divisa cominciarono a dubitare. Lo sguardo perduto del capitano Francis Ike Fenton fotografato da David Douglas Duncan nel momento in cui gli dicono «siamo circondati e senza munizioni» è forse lo specchio dello sguardo del fotografo, del suo dubbio: che ci faccio io qui? A cosa servo? Il padre della fotografia umanista, Edward Steichen, ufficiale fotografo nel Pacifico, sosteneva che la guerra va mostrata per farla finire. Ma le guerre non finivano mai, s’inseguivano una dopo l’altra, Vietnam, Cipro, Libano, Ulster, India: alla fine di una carriera un fotografo di coscienza, Don McCullin, non riusciva a dormire, assediato da «sessantamila fantasmi», i suoi fotogrammi di morte. Si è detto che furono le fotografie dal Vietnam a far finire la guerra in Vietnam. Si è detto anche, più sensatamente, che fu la coscienza disgustata dell’America a cercare nelle fotografie de Vietnam le ragioni per alzare la voce contro la guerra. 18 I fotografi, comunque la pensassero, quelli ferocemente contro come Philip Jones Griffiths, quelli più distaccati come Eddie Adams (la sua foto del generale Loan che spara alla tempia di un Vietcong è considerata una foto pacifista: ma Adams è sempre stato dalla parte del generale…), portavano a casa un fardello indigeribile: non si bruciano i bambinicol Napalm, la foto di Nick Ut fu più forte di qualsiasi cosa lui pensasse privatamente della guerra nel suo paese. Eppure era ancora possibile trovare un senso, per i fotoreporter, al loro essere-lì. Un senso umano, una giustificazione, La “parte giusta” nella guerra era diventata via via la parte giusta contro la guerra. Ma anche questo era destinato a finire. Arrivarono le guerre non-guerre, le guerre dentro le nazioni, dentro i popoli. Dove capire era difficile e schierarsi impossibile. Nel vortice della rivoluzione khomeinista, Gilles Peress scelse di fotografare il proprio disorientamento, inventò un linguaggio dell’incertezza, di sfocati e mossi, che è ancora la lingua prevalente del mestiere. Senso della propria insufficienza. Paura della propria marginalità. Le New War dell’era Bush, padre e figlio, tentarono il colpo di grazia ai reporter della visione. Niente fotografi fra i piedi. La prima Guerra del Golfo fu un affare di schermi televisivi verdastri con il logo Cnn, percorsi da scie luminose, niente esseri umani, una guerra simbolica, quasi simulata, una guerra Nintendo. Non fu un buon affare: al Pentagono capirono che lasciare l’opinione pubblica senza immagini vuol dire affamarla di spiegazioni, e in guerra la ricerca di spiegazioni è pericolosa. Così, alla successiva, contrordine: da zero immagini a troppe immagini, censura per eccesso, un oceano, una valanga di immagini, benvenuti fotografi, embeddatevi al seguito delle nostre truppe, scattate pure, più che potete, quel che vi lasciamo fotografare, s’intende. Ma, nuova svolta, anche i poteri forti non sono più padroni assoluti dell’immagine della guerra. Del conflitto in Iraq, iconicamente controllatissimo, le foto simbolo furono quelle che nessuno immaginava: furono sotto-foto, le foto-ricordo degli allegri sadici torturatori di Abu Ghraib. E qui già s’annunciava la sfida ultima, forse letale, alla fotografia dei testimoni professionali. La guerra in autoscatto, che si fa il ritratto da sola, la guerra selfie. I marineche entrano a Fallujah già avevano una videocamera montata sul casco. L’era dei fotocellulari è anche quella delle guerre che scoppiano nelle piazze, Tahir, Taksim, Gezi, Maidan, dove ogni insorto è un fotografo. Hai voglia ad essere «molto vicino», c’è sempre qualcuno che è più vicino all’evento di te, professionista della visione. Spesso non è un testimone neutrale, ma fa parte del conflitto, sta da una parte del conflitto. Stremate dai costi monetari e umani di coprire fronti inaccessibili e rischiosissimi, le agenzie di stampa sempre più spesso scritturano fotografi “locali”, che però quasi sempre non sono altro che partecipanti al conflitto in possesso di fotocamere. Per quale immagine lavorano? A volte qualcuno di loro ci lascia la pelle, come il diciottenne Molhem Barakat, figlio e fratello di insorti, che lavorava per Reuters, ucciso in dicembre ad Aleppo. Che fare, per i professionisti della visione? Cambiare la Nikon con l’iPhone, per confondersi, mimetizzarsi. Oppure andare ancora più vicino, correre nel cerchio di fuoco, perché le foto non si fanno dall’albergo, in cerca dell’immagine che nessuno con lo smartphone saprà fare. Ma il fuoco brucia, e i fotoreporter muoiono sul campo. Sempre più giovani, sempre meno protetti, sempre più soli. Inviati da se stessi, come Andy Rocchelli falciato a fine maggio in Ucraina. Professionisti, spesso freelance, 19 diciamo meglio precari, di un mondo dell’informazione che sembra voler fare a meno di loro. Correre nel fuoco per strappare quell’immagine che nessuno ha. Che pochi vedranno, se non sarà premiata in qualche concorso fotografico per la catastrofe più fotogenica dell’anno. Ipocrita, la società civile li accuserà di “spettacolarizzare” l’orrore, confondendo il testimone com il delitto, rimproverandolo per aver fatto, a rischio della vita, precisamente quel che gli aveva chiesto di fare. [Una versione di questo articolo è apparsa come parte di una delle Inchieste di Repubblica, dal titolo "Con gli occhi del reporter", assieme ad altri articoli e interviste] Tag: Abu Ghraib, Andy Rocchelli, David Douglas Duncan, Don McCullin, Eddie Adams, Edward Steichen,Fallujah, Felice Beato, Francis Ike Fenton, George Bush, George Rodger, Gezi, Gilles Peress, guerra Nintendo, James Hillman, Jimmy Hare, Joseph Pulitzer, Leica, Maidan, Matthew Brady, Nguyễn Ngọc Loan, Nick Ut, Norimberga, Philip Jones Griffiths, regina Vittoria, Robert Capa, Roger Fenton, Tahir,Taksim, Vietnam, William Russell Scritto in fotogiornalismo, guerra | Commenti » Paul Strand in mostra a Philadelphia da http://arte.sky.it/ Paul Strand – Young Boy, Gondeville, Charente, France (1951); Philadelphia Museum of Art, dono del fondo Paul Strand © Estate of Paul Strand] Da New York alla Valle del Po: un viaggio per immagini che attarversa il Novecento quello compiuto da Paul Strand, tra i più grandi fotografi di sempre. In mostra al Phialdelphia Museum of Art Ha da poco messo le proprie mani su un fondo con tremila sue immagini, costituendo la più grande collezione al mondo di opere di Paul Strand, eccezionale cronista del Novecento. Un mondo narrato attraverso i suoi violenti contrasti, nell’incontro con comunità rurali sparse ovunque nel mondo e 20 nell’indagine sul sottoproletariato; e poi ancora, grazie ad uno sguardo che indugia sul miraggio di città frenetiche, nel sogno di un benessere veramente alla portata di tutti. Il Philadelphia Museum of Art, forte della recente acquisizione, offre al pubblico fino al prossimo gennaio la più grande retrospettiva mai organizzata in memoria del fotografo: viaggio imperdibile in un passato tanto recente quanto apparentemente – e dunque sorprendentemente – arcaico. Comincia a scattare un secolo fa, Strand, lavorando instancabilmente fino al momento della scomparsa, avvenuta nel 1976; senza mai smettere di sperimentare linguaggi narrativi che che non mancano di palesare accenti pittorici prima, cinematografici poi. In mostra i primi lavori, con la seduzione per il paesaggio che presto lascia spazio ad un’indagine sulla figura umana densa di significati sociali, affiancandosi ad avveniristiche visioni nel campo di un’astrazione che per certi aspetti sembra alludere all’esperienza delle avanguardie storiche. E poi via, attraverso la New York degli Anni Venti, fino alla scelta di muoversi come battitore libero ovunque nel mondo, dal Messico al Ghana. Fino in Italia. Esposti a Philadelphia anche i memorabili scatti del progetto che Strand compie, nel 1953, in quel di Luzzara. Siamo nella Valle del Po, con i ritratti della famiglia Luzzetti a diventare icona di un intero popolo, faccia sporca e smunta di una ricostruzione che presenta fortissime contraddizioni e tensioni sociali, ancora lontana dall’illusorio sfolgorio del Boom economico. Un neoralista a stelle e strisce, Strand: che dimostra con la propria duttilità di essere capace di entrare in perfetta armonia con quanto sceglie di raccontare attraverso l’immagine. tag > fotografia, Luzzara, mostra, Paul Strand, Philadelphia Art Museum La denuncia sociale in bianco e nero. Walker Evans a Berlino di Silvia Neri da http://www.artribune.com/ Walker Evans, Girl In French Quarter, New Orleans 1935 © Walker Evans Archive, The Metropolitan Museum of Art 21 Walker Evans (St. Louis, 1903 – New Haven, 1975), uno dei più grandi fotografi del XX secolo, è caratterizzato da uno stile documentaristico inconfondibile: è infatti conosciuto soprattutto per aver immortalato la crisi economica americana, dove il suo occhio colse aspetti intimi della società e li immortalò in scatti eterni. La sua attività di fotografo si dipana nell’arco di cinquant’anni; l’interesse per l’aspetto sociale della sua ricerca si trova in tutta la sua carriera, come nel reportage su Cuba (1933), in cui fotografa la rivolta popolare contro il direttore Machado, donando al mondo un unicumdi eccezionale importanza storica. L’artista accettò anche lavori commissionati dal Dipartimento degli Interni degli Stati Uniti. Oggetto del lavoro: ritrarre la Grande Depressione del 1935-36 e, nello specifico, una comunità di minatori disoccupati in West Virginia. Così lo sguardo attento di Evans si spostò su una realtà diversa da quella cittadina ed ebbe modo di comprendere più profondamente lo stato d’animo del suo Paese. Anche la collaborazione con James Agee ebbe risvolti sociali, infatti portò alla pubblicazione del libro fotografico Let us now praise famous men (1941), risultato di un viaggio nella remota povertà rurale del sud degli States. Ma la sensibilità di Evans non è solo mero reperimento storiografico di un Paese in crisi, la sua abilità di fotografo si trova nel cogliere dov’è quel sentimento di crisi. Questo lo si capisce in particolare guardando le sue fotografie di architettura, dove le linee delle case e dei fili dei piloni tendono a un infinito melanconico. La forza espressiva dei suoi scatti è tutta racchiusa in questa retrospettiva, dove sono esposti i lavori degli anni decisivi dell’America, anni in cui si cercava un avvenire mentre si era in divenire. Walker Evans, Façade of House with Large Numbers, Denver, Colorado, 1967.Clark and Joan Worswick © Walker Evans Archive, The Metropolitan Museum of Art Walker Evans fotografò soggetti differenti e lo dimostrano alcuni scatti presenti in mostra come quelli d’interesse botanico, o quelli riguardanti la scultura 22 africana e alcuni cicli pittorici di Tahiti. Il suo estro si rivela maggiormente nei temi sociali, quindi nei ritratti di famiglie contadine, case abbandonate e fabbriche, testimonianza ancora una volta di quel paese che amava e che vedeva sgretolarsi nella povertà e nella miseria. Per Evans ciò che conta nella fotografia è la condizione umana, l’architettura come metafora dell’altrove, ma soprattutto la quotidianità: questi sono i soggetti al centro della ricerca del fotografo nato a Saint Louis. A cavallo tra gli Anni Trenta e Quaranta, Walker Evans cominciò infatti a fotografare i passeggeri della metropolitana di New York. La ricerca della spontaneità del volto mirava a prendere i soggetti alla sprovvista in modo da catturare emozioni vere e autentiche. Allestita con un’elegante sobrietà, la ricca esposizione di Berlino esalta la fotografia che indaga sull’uomo della crisi per dimostrare che la vita continua anche nei momenti bui e difficili. Berlino, fino al 9.11.2014 - Walker Evans – A Life’s Work- MARTIN-GROPIUSBAU Niederkirchnerstrasse 7 - +49 (0)30 254860 - www.gropiusbau.de Progetto, ma di che cosa? di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Ora che mi accingo a scrivere un altro articoletto del blog, mi chiedo, starò mica lavorando a un verbo-progetto? E quando cucino il pollo garam masala per gli amici, starò mica elaborando un cibo-progetto (anzi, un food project)? Due anni fa ho rinnovato il bagno dei ragazzi che non ne poteva più. Avevo bisogno di un paio di mobiletti un po’ a misura. Li ho descritti al negoziante di mobili e quello, con un’aria di professionale rimprovero, mi ha interrotto: “Scusi, ma allora lei non cerca un mobile, lei sta facendo un progetto d’arredo!”. 23 Michele Smargiassi, Londra 2014, licenza Creative Commons Insomma, avete capito che non sopporto non tanto la parola “progetto” in sé, che temo di avere usato anch’io qualche volta (cercherò di non farlo più), ma la sua ormai irritante pervasività. Cioè questa nuova tendenza a battezzare “foto-progetto” ogni e qualsivoglia piccola o grande serie di fotografie che chiunque intenda mostrare a chiunque altro su qualsiasi medium: la mostra, il libro, l’album, il Web… Ritratti di migranti, foto ripescate dal cassetto della nonna, paesaggi dietro casa, deprimenti fotoscioppi, indagini sul territorio, macrofotografie di insetti… son tutti “progetti fotografici”. Purtroppo, editori, critici e noi giornalisti alimentiamo volentieri questa moda, anche se ci sentiremmo ridicoli a definire Le affinità elettive “progetto letterario” o Amarcord “progetto cinematografico”. Ma visto che non sopporto neanche le idiosincrasie immotivate, mi son messo a riflettere sulle ragioni della fortuna recente di questa parolina di successo. Quando una parola ha successo, c’è sempre qualcosa sotto. A volte (ma non suoni autogiustificazione) è solo l’impossibilità di trovare una definizione per fotografie che sembra davvero troppo definire opere d’arte, o fotogiornalismo, fotografie che nin si sa come diavolo prendere: be’, è un “progetto”… Ma credo soprattutto che, come l’esclamazione “bello!”, anche “progetto” sia una parola-schermo, una parola-ombrello, che protegge chi la dice, più che comunicare a chi la ascolta. Una parolina un po’ paracula, per dirla in inglese oxfordiano. Da cosa ci para, il “progetto”? Be’, ovvio: dal giudizio degli altri. Perché se dico “ecco, questo è il mio progetto” è come se tenessi la mano sulla maniglia antipanico dell’uscia di sicurezza, pronto a scapparne fuori in caso di pericolo. In quest’epoca di sovresposizione social , di ossessione per i like che diventano facilmente dislike, in quest’epoca di insicurezza e di terrore (non ingiustificato) per la ferocia dei superficiali giudizi altrui, uno scudo fa comodo. “Progetto” è quello scudo. Una parolina autosufficiente, a sé bastevole, autogiustificante: se è un “progetto”, non devo dimostrare nient’altro. 24 Se dico “progetto”, nessuno potrà criticarmi perché le mie foto non sono abbastanzabelle (“Non volevo mica fare arte, è un progetto!”). Se dico “progetto”, nessuno potrà criticarmi perché le mie foto non sono abbastanzabuone (“Non è un’opera compiuta, è un progetto!”). Se dico “progetto”, nessuno potrà criticarmi perché le mie foto non hanno uno scopochiaro, una destinazione precisa, e magari i mendicanti che la rivista impegnata non ha voluto, li appendo in una galleria dopo averli un po’ pasticciati e desaturati con Lightroom (“Non è un reportage, è un progetto!”). E soprattutto, se scrivo “progetto”, non dovrò sforzarmi di capire e di far capire al lettore/visitatore del mio giornale/blog/mostra che cosa diavolo siano queste fotografie che gli faccio vedere, a che cosa aspirino, che cosa mettano in gioco, quale scopo cerchino di ottenere, in che modalità della comunicazione e delle relazioni umane si iscrivano. Progetto è una parola vuota che esime dal dovere di riempire le nostre intenzioni di intenzioni chiare, di assumerci la responsabilità di fare qualcosa per qualcuno. Allora vi chiedo, amici foto-progettatori: progetto di cosa? Non si progetta un progetto, si progetta sempre qualcosa. Che prima ancora di assumere una forma e un contenuto specifici, in genere ha un’intenzione, uno scopo, dei destinatari. Non si parte con lo stesso passo, con gli stessi strumenti, per produrre un reportage da rivista di viaggio, un’inchiesta fotogiornalistica, un censimento visuale di certi luoghi, un servizio di moda, una galleria di ritratti, un’installazione artistica, una documentazione naturalistica… E nel momento stesso in cui definisco il carattere e la destinazione di quel che faccio, chiarisco a me stesso cosa sto facendo e come lo devo fare. I generi possono essere gabbie, l’ho detto tante volte. Vanno attraversati liberamente. Ma abbiamo bisogno di qualche categoria mentale per orientarci con il caos del mondo: magari proprio per trasgredirli, i generi. Di certo non potrei mai cominciare un “progetto” pittorico senza sapere se quel che voglio fare è un cameo erotico o un affresco da chiesa. Non voglio etichette. Non voglio scaffali. Vorrei però chiarezza sulle intenzioni. La corrispondenza o lo scarto fra le intenzioni e i risultati sono epr me gli unici criteri possibili per giudicare un “progetto”. Ma allora, quelle intenzioni devono essere chiare. Coprire con una parola passepartout un lavoro fotografico, significa fare diventare passepartout anche quel lavoro. E di fotografia fungibile, metamorfica e insipda ce n’è già tanta, in giro. Per favore, basta “progetti”. Datemi fotografie con il coraggio delle proprie azioni. Tag: fotografia, progetto, progetto fotografico Scritto in definizioni, fotografia e società | Commenti » Il genio di Picasso dietro a una Leica di Rodolfo Foglieni da http://www.gdp.ch/ Di Picasso pittore, scultore, disegnatore e litografo s’è detto, s’è scritto, s’è fatto a iosa, lui ancora vivente e dopo la sua scomparsa. Ma nulla mai s’è saputo di Picasso fotografo, e cineamatore, né mai s’è studiato il suo rapporto tra la fotografia ed il suo lavoro, tra la fotografia ed il suo essere uomo comune. 25 Fotografato lo è stato, e dai più celebri artisti dell’obiettivo di tutti i tempi. Il suo volto è divenuto un’icona, il suo profilo oramai una costante, nell’immaginario collettivo, forse l’uomo più ritratto nella storia del mondo. Ma di sue fotografie, di sue pellicole, non s’era mai visto niente, nessuno mai aveva nemmeno immaginato che esistessero. Materiale invero importante, per ricostruire appieno la sua vita, la sua umanità e le sue tecniche. John Richardson nella Gagosian Gallery, dove ha allestito la mostra di fotografie e di opere di Picasso (Foto da internet) A colmare la sotto certi aspetti inspiegabile lacuna ci ha pensato John Richardson, il suo biografo di sempre, l’amico degli anni francesi dell’artista, il conoscitore di ogni suo pregio e di ogni sua virtù, depositario di ritagli di vita agli altri sconosciuti, conoscitore dei suoi vezzi e delle sue manie. Le ha cercate, le ha trovate, ed ora ne ha esposte 225, alla Gagosian Gallery di Manhattan, in una mostra evento - Picasso & Camera - che ha aperto i battenti martedì 28 ottobre. Ci sono anche diversi filmati, che vengono proiettati a ciclo continuo. La maggior parte provengono dal tesoro ignorato posseduto dal nipote, Bernard Ruiz-Picasso. Ed accanto, 40 dipinti e 50 disegni, in parte prestati da membri della famiglia, da privati collezionisti e da istituzioni, come il MoMa, il Museo di Filadelfia, il Museo di Denver e il Moderna Museet di Stoccolma. Il tutto in una simbiosi particolare, che rappresenta l’opera dell’artista e l’artista com’era, nella vita privata. Foto del suo lavoro, del suo studio, delle sue due mogli e delle amanti, in una ricerca continua dell’affetto e dello stile. Ricorda il suo biografo che Picasso possedeva molte macchine fotografiche, per lo più Leica, ora tutte andate perdute, che lo accompagnavano nella vita di tutti i giorni, nei suoi viaggi e nei suoi momenti di preparazione del lavoro, così come negli spazi di vacanza, con la famiglia, o con gli amici. E la raccolta del materiale fotografico è risultata più complessa, affascinante e illuminante di quel che si sarebbe potuto pensare. 26 Ci sono in mostra anche suo ritratti fotografici eseguiti da Irving Penn, Cecil Beaton, Man Ray e Brassai, l’ungherese amico di tutta una vita dell’artista. Ma quel che interessa di più, sono le sue, di fotografie, i suoi, di filmati, che aiutano a capire come Picasso usasse la macchina fotografica, o da presa. Aiutano a scoprire quanto per lui la fotografia fosse importante, da utilizzare per innumerevoli scopi. Era un esercitare l’occhio, un mettere a fuoco inquadrature e prospettive, un lavorare l’immagine, trasfondendo nello scatto, nella posa, nella sequenza, la sua sensibilità artistica, il suo continuo bisogno di scomporre e ricomporre la figura, il paesaggio, lo spazio mobile ed immobile che lo circondava. E vi si trovano anche suoi autoscatti, laddove, per studio, o per gioco, cercava di assumere gli atteggiamenti più diversi, anche più bizzarri, il dandy, il bohemien, il tipo macho. Molte le foto anche della sua prima moglie, la ballerina russa Olga Khokhlova, che si infortunò ad una gamba poco prima del matrimonio, giocandosi la possibilità di ancora poter danzare. Una foto in particolare, la ritrae in costume da danzatrice, ed è, forse con un pizzico di cattiveria, posta accanto al suo ritratto, Le Repos, del 1932, dove nello stile astratto del contesto, assume fattezze addirittura orripilanti, con denti affilati, la bocca rossa, le gambe aperte – e qualcuno, forse un po’ pettegolo, osserva che in quel periodo Picasso era perduto dietro una delle sue tante amanti, Marie Therèse Walter, anch’essa dipinta in quadro dall’omonimo titolo, ma di tutt’altro assetto espressivo. Che Picasso utilizzasse la macchina fotografica come strumento di lavoro, lo documenta a varie riprese, la mostra. Vediamo la serie di fotografie scattate nel 1909 a Horta de Hebro, in Spagna. Il profilo frastagliato delle colline, i quadrati tetti piatti delle case. Ci vedi la visione cubista, che in quel periodo Picasso aveva fatta propria. Fotografie che costituirono l’ispirazione, si potrebbe dire la traduzione dell’immagine in quadro, del dipinto, pure esposto, per conferma del principio, Le Réservoir, Horta de Hebro. Altre fotografie riproducono invece le fasi del suo impegno di scultore. Voleva riprendere il motivo del Rumeno Costantin Brancusi, Il bacio, una realizzazione in pietra, in stile primitivo, di due figure avvinte. Picasso prova e riprova, scolpisce teste, cerca di unirle, le trasporta in giardino, per vederne l’effetto. Le atteggia sui loro piedestalli e le fotografa da diverse angolazioni, per studiare la riuscita dell’accostamento. Poi rinuncerà alla scultura, e le preferirà la pittura, dipingendo appunto il quadro dall’omonimo titolo pure ospitato nella Gagosian Gallery. Ma Richardson ha fatto anche un’altra intrigante scoperta. Ha trovato come Picasso abbia attinto all’antichità classica, per un certo tipo di sua ispirazione. E l’abbia fatto avvalendosi di un volume di fotografie di statue greche, intitolato “L’arte in Grecia” e pubblicizzato allora come necessario a comprendere l’arte contemporanea. Fu un’importante fonte, per l’artista, e la mostra ne riporta due sintomatici esempi, la fotografia di un busto del 1933, che richiama un bronzo di guerriero greco del quinto secolo A.C., e di una statua del 1943, L’homme au mouton, reinterpretazione personalissima, secondo i suoi canoni artistici, di un similare conservato al Museo Archeologico di Atene. Il connubio, pertanto, Picasso e pellicola, rivela interessanti risvolti della sua personalità, un mondo sino ad oggi segreto, che contribuisce a meglio intenderne e definirne la figura di artista e di uomo. 27 Visioni del mondo di Daido Moriyama di Guerrino Mattei da http://www.rinascita.eu/ Curata da Filippo Maggia e Italo Tomassoni, la mostra “Visioni del mondo” dedicata a Daido Moriyama, fotografo on the road, spirito libero e viaggiatore solitario tra i maggiori protagonisti della fotografia contemporanea giapponese, raccoglie una selezione di oltre 130 fotografie realizzate dagli anni Sessanta fino ad oggi, che ripercorrono l’intensa carriera dell’artista evidenziandone il personale approccio col mondo e offrendo al contempo una lucida visione sulle trasformazioni che hanno segnato la storia giapponese. Il CIAC (Centro Italiano Arte Contemporanea di Foligno) nuovamente in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e la sua Fondazione Fotografia la ospita nelle sue sale con un allestimento straordinario: verrà aperta al pubblico il prossimo 22 novembre per girare l’anno e restare in calendario fino al 25 gennaio 2015. Questa esposizione rappresenta un’occasione per scoprire un maestro della fotografia, le cui immagini rivelano una stilistica personalissima, di straordinaria modernità. Noi non crediamo troppo alla fotografia come arte espressiva scaturita dall’ingegno e dalla fantasia di un artista. Ciò che viene rappresentato è già ammannito in natura e quanto viene oggettisticamente realizzato è frutto di una organizzazione più o meno sensibile del fotografo che cerca l’immagine originale manipolando il mezzo meccanico, se il termine originale in questo caso ha un significato. Il resto, ciò che viene definito comunemente bello e scenograficamente entusiasmante lo fanno i filtri e gli accorgimenti che la tecnica ha apportato a questo mezzo che ha fatto della fotografia la decima musa. Sono nostre impressioni, ma ciò non toglie che le foto/opere di questo artista sono eccezionali, sprigionando nel riguardante un’emozione che va oltre l’immagine, appiccicandosi addosso come un francobollo ad una lettera. Come già scritto in catalogo è una ricerca quotidiana senza fine quella che spinge Moriyama a realizzare migliaia e migliaia di scatti, per anni, per una vita. Sono, si legge: “Immagini dai bianchi e neri contrastati, spesso sfocate, graffiate, sovraesposte o sgranate, che tracciano i contorni di un’esistenza priva di legami con un luogo d’origine o di vincoli dettati dalle convenzioni 28 sociali”. Per il nipponico ogni singola cosa che si offre al suo sguardo è degna di essere fotografata. Non è importante il soggetto, né chi sia l’autore, perché non c’è distinzione tra la realtà vissuta e la realtà nell’immagine: spesso fotografie di fotografie tratte da magazine, poster, pubblicità, televisione si mischiano a quelle scattate dal vivo. Ciò che conta è il frammento di esperienza, parziale e permanente, che la fotografia può trovare, quell’unica verità che esiste solo nel punto in cui il senso del tempo del fotografo e la natura frammentaria del mondo si incontrano. Parallelamente alla mostra, sarà inoltre allestita una selezione di opere video di artisti dell’Estremo Oriente dalla collezione di fotografia contemporanea della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena. Sotto il titolo “Asian Contemporary”, sono presentate le opere di Tabaimo, Yasumasa Morimura, Miwa Yanagi, Kimsooja e Yang Fudong. Una mostra sicuramente tutta da vivere e da meditare nei suoi passaggi eticosociali. Il catalogo della mostra edito da Skira contiene molte delle opere in mostra accompagnate da un’intervista a cura di Filippo Maggia, da un testo critico di Akira Hasegawa e da una biografia approfondita redatta da Francesca Lazzarini. Robert Mapplethorpe, le 10 fotografie celebri dell'interprete del corpo umano più da http://www.libreriamo.it/ Il grande fotografo statunitense, annoverato a pieno titolo tra i maestri della fotografia del XX secolo, fece del corpo umano il suo soggetto prediletto, protagonista di scatti dal sapore sensuale, incarnazione dell’ideale di bellezza classico. Oggi, in occasione del suo anniversario di nascita, abbiamo voluto riproporre alcuni dei suoi scatti più celebri MILANO – ''Io non faccio foto, faccio parte dell'evento, in questo senso non mi 29 considero un fotografo''. E’ in questo modo che il grande Robert Mapplethorpe amava definirsi: non un fotografo ma un artista, un vero e proprio reporter ed interprete del corpo umano. Si tratta infatti del suo soggetto preferito, non visto e trasposto in modo meccanico e sterile, bensì in modo sensuale e vitale. Nei suoi scatti il corpo umano torna ad incarnare la vera bellezza, quella propria delle sculture dei grandi artisti classici. LA VITA - Nato nel Queens il 4 novembre del 1946 da una famiglia cattolica osservante di origini irlandesi, terzo di sei fratelli, nel 1963 si iscrisse al corso per pubblicitario del Pratt Institute di Brooklin. Dopo poco tempo decise di sospendere gli studi. Nella primavera del 1967 conobbe Patti Smith, all'epoca giovane ragazza appena arrivata a New York, con la ferrea intenzione di diventare una poetessa. Mapplethorpe se ne innamorò ed andò a vivere con lei in un appartamento in Hall Street. In questo periodo decise di riprende gli studi e si iscrisse ad arti grafiche. Divenne l'amante di Sam Wagstaff e grazie a questa relazione ottenne l'accesso agli ambienti della buona società e una certa stabilità economica. Il rapporto con Wagstaff fu duraturo e i due rimasero insieme come amanti fino alla morte di Sam. GLI ESORDI - Il 1973 può essere definito come l’anno della consacrazione, poiché fu proprio in quella data che Mapplethorpe tenne la sua prima mostra personale, “Polaroids”, presso la Light Gallery di New York. In questa prima fase della sua carriera Robert si concentrò in modo totale sui corpi e li studiò nella loro fisicità e plasticità, proprio come facevano Michelangelo o Leonardo. Nel 1973 acquistò una Graflex 4x5 pollici con dorso Polaroid e nel 1975 gli venne regalata da Sam la prima Hasselblad. La nuova macchina consentì a Mapplethorpe il controllo della scena che stava cercando. Produsse centinaia di capolavori che lo resero famoso a livello mondiale, annoverandolo a pieno titolo tra i più grandi maestri della fotografia del XX secolo. IL CORPO UMANO, OGGETTO DI STUDIO E SOGGETTO PREDILETTO Mapplethorpe divenne famoso inizialmente per il controverso “The X portfolio”, una serie di fotografie sadomaso, ed in seguito per gli innumerevoli ritratti di personaggi famosi ed infine le nature morte. In queste immagini il fotografo oltrepassò deliberatamente il confine tra foto d'arte e foto destinata al mercato pornografico, adottando soggetti e temi tipici della "pornografia" nel contesto di immagini d'arte. Coppie autentiche della scena gay di New York vennero ritratte in pratiche erotiche decisamente estreme. I suoi scatti scrutavano alla ricerca di una connotazione nuova ed inaspettata, che consentisse di guardare oltre la provocazione dipendente dalle nostre convenzioni sociali. Lampanti sono le influenze di maestri come Man Ray e Von Gloeden. Nonostante questo lo stile di Mapplethorpe rimase sempre del tutto originale, capace di scavare con la luce, proprio come uno scultore con lo scalpello. Robert Mapplethorpe morì di complicazioni conseguenti all'AIDS nel 1989. LA POETICA DELL’ARTISTA - Il corpo umano costituisce il principale oggetto della fotografia di Mapplethorpe. Attraverso un’opera carica di tensione sensuale, vitale e violenta, il fotografo americano scandalizza ma al tempo stesso affascina mediante la rappresentazione di un ideale di bellezza dal sapore classico e un bianco e nero morbido e raffinato. 30 Tutta l'arte di Henri Cartier-Bresson dal disegno alla pellicola. E ritorno di Claudia Claudiano da http://www.ilgiornale.it/ In mostra all'Ara Pacis il percorso dell'Occhio del secolo che attraverso tutte le tecniche visive ha narrato il Novecento Prima di diventare «l'occhio del secolo» con una Leica, Henri Cartier-Bresson riempiva interi album di schizzi a matita e dipingeva. 31 Quando, dalla fine degli anni '20 decide per la fotografia, distrugge tutto o quasi, ma si porta dietro questa prima scelta nei suoi scatti, cercandone il contesto, lo sfondo, con quel gusto per la composizione geometrica che ha appreso all'accademia di André Lothe. È la regola dello «schermo» in cui si attende prendano il loro posto prede inconsapevoli, bambini, passanti, in una «coalizione istantanea». La fotografia per HCB è agguato al caso, scegliere con l'occhio un pezzo di realtà con il suo ritmo di linee e superfici e aspettare che qualcosa ci accada dentro. Ma la retrospettiva Henri Cartier-Bresson in corso al museo dell'Ara Pacis di Roma (fino al 25 gennaio) a dieci anni dalla scomparsa, realizzata dal Centre Pompidou in collaborazione con la Fondazione HCB e a cura dello storico della fotografia Clément Chéroux, si fa interessante, oltre che per la mole di materiale e lavoro ( circa 500 tra fotografie, documenti e filmati) come presa di posizione: basta con il Cartier-Bresson fotografo dell'«istante decisivo» in assoluto, se su quella definizione si è costruita la sua leggenda lui è stato molto altro. Del resto, un occhio che setaccia mezzo secolo di mondo non può avere dietro sempre lo stesso uomo. C'è l'HCB surrealista che guarda alle foto di Eugène Atget. C'è l'HGB dell'impegno militante che collabora con la stampa comunista e, a esempio, mandato a Londra da Ce soir per l'incoronazione di Giorgio VI, gli gira la schiena per fotografare il popolo che lo guarda: militante sì, ma surrealista. C'è il cofondatore della Magnum, l'agenzia per antonomasia del fotoreportage e l'aspirante cineasta che diventa la “domestica tuttofare” di Jean Renoir, comparsate comprese. Ma filma anche la guerra di Spagna, gli ultimi giorni del III Reich, il ritorno dei prigionieri. Fino al maggio del '68, attraverso decolonizzazione, boom del dopoguerra, la concupiscenza degli sguardi alle vetrine, da Houston a Leningrado, da Parigi a Pechino. Oggi che anche la fotografia è arte non c'è più bisogno di semplificarla intorno a un tema per farla entrare nei musei e partendo dall'artista che ancora si cerca (pezzi superstiti, paesaggi cezanniani, tele alla Lothe, un collage sulla scia di Max Ernst) se ne propone qui un ritratto sui generis che è un punto di vista sul '900. Un approccio storico che si porta dietro un'altra scelta stimolante, quella di circa 350 foto vintage intese come oggetti storici che evolvono in tonalità e dimensioni, più faticose e intriganti rispetto agli esemplari tirati in formato standard pochi mesi prima di una mostra. Negli anni '70, Henri Cartier-Bresson non ha più voglia di essere considerato un'istituzione, abbandona il fotoreportage, la Magnum che non gli corrisponde più e riprende la matita. Ha sempre la Leica a lato e la usa per fotografie intense e silenziose, una natura morta di fogli di giornale e lenzuoli spiegati, un autoritratto che è un'ombra stagliata in diagonale rispetto a quella degli alberi. È un HCB zen, che fa continui autoritratti su carta, lui che detestava farsi fotografare: chi commette fotografie come delitti in flagrante deve difendere il suo anonimato. Ma è l'idea di immagine che è di nuovo cambiata. Con la Leica blocchi l'istante decisivo, con la matita lo recuperi nella memoria e lo rielabori come forma di meditazione 32 Una storia che si allunga di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Joe Oppedisano, Extension Michele Smargiassi, 2014, © Joe Oppedisano, g.c. E sono cinque, che è già una bella cifra mezzo tonda. Cinque anni di, e con Fotocrazia. Merito tutto vostro, di voi che continuate a leggere questa rivistina personale e idiosincratica, che non fa recensioni di mostre, non fa presentazioni di libri, si occupa solo di quello che passa per la testa al Fotocrate, ma che il Fotocrate crede, spesso con grande presunzione, possa interessare a tutti coloro che amano la fotografia. Il clienti più affezionati di questo caffè con foto-chiacchiere avranno ormai capito quali sono i miei argomenti, o se volete le mie ossessioni: le 33 manipolazioni, la condivisione di massa, l’emergere della neo-fotografia, il rapporto fra autore e strumento, il rapporto fra immagine e parola… Non posso promettervi di cambiare radicalmente interessi, ma di ampliarli, questo sì: e accetto suggerimenti. In cinque anni avete depositato in questo salotto quasi ventimila commenti a quasi ottocento articoli, tutti ancora leggibili (usate il motore di ricerca del blog qui a destra, o pescate il vostro argomento nella tag cloud sempre qui a destra, oppure sfogliate magari a caso attraverso la cronologia…), quasi tutti ancora commentabili. Vorrei invitarvi semmai a visitare un po’ più spesso la sezione “Quali libri leggo”, e i suoi archivi, che sono lo “scaffale” di Fotocrazia, dove appoggio con qualche parolina di commento tutti i libri italiani che compro o ricevo, che leggo e che gradisco. Alcuni di questi diventano poi spunto per articoli più ampi, segnalati da un link. Nell’insieme, i cinque anni di quella sotto-rubrica credo rappresentino una bella antologia dell’editoria fotografica italiana… La novità che vi propongo per questo quinto compleanno è l’apertura di una pagina Facebook specificamente dedicata a Fotocrazia. Conterrà i rimandi agli articoli del blog, qualche osservazione in più e qualche commento più rapido ed estemporaneo, ma soprattutto comunicherà in tempo reale agli iscritti l’uscita dei nuovi articoli. Potrebbe anche essere lo spazio per i vostri commenti più rapidi e brevi, e vi consentirà i famigerati “like” che il blog non contempla, se non come condivisioni, che comunque spero vorrete continuare a utilizzare, come generosamente avete fatto finora. Io comunque continuerò a preferire i vostri commenti direttamente sul blog (bisogna solo avere un po’ di pazienza in più per vederli apparire: in genere si va da quache minuto a qualche ora) e mi impegnerò a privilegiare quelli, nelle mie risposte e per gli scambi di idee più meditati. Vorrei anche invitare, ma l’ho già fatto direttamente con molti di voi, i miei “amici” di Facebook interessati alla fotografia, quelli che ora sono fra i contatti del mio profilo personale, a iscriversi alla nuova pagina. Tendenzialmente mi piacerebbe distinguiere fra i contatti di tipo personale del profilo personale e quelli basati sulla comune passione per la fotografia, sulla nuova pagina. Se preferite, potrete anche cancellarvi dai contatti del mio profilo personale e seguire solo la pagina Facebook di Fotocrazia. Altrimenti, nulla di male: se rimarrete miei ospiti in entrambe le “case” Facebook avrete forse solo il disturbo, almeno in una fase iniziale, di vedervi apparire due notifiche per lo stesso link a Fotocrazia. Lasciatemi infine ringraziare di gran cuore l’amico e grande autore Joe Oppedisano, che ho incontrato di persona troppo poche volte ma ho seguito sempre da lontano, e che in una di quelle rare occasioni ha voluto catturarmi e includermi nella sua celebre galleria di ritratti Extensions; anche per avermi gentilmente dato il permesso di mostrarvi il risultato, qui sopra. Grazie Joe, alla prossima occasione. E grazie ancora a tutti voi cari fotocrati vicini e lontani. Ci rileggiamo prestissimo. Tag: Fotocrazia, Il Fotocrate, Joe Oppedisano, Michele Smargiassi Scritto in affari miei | Commenti » NOV 2014 17.5 2 34 L’Europa di Josef Koudelka : Josef Koudelka: nationality doubtful è la prima retrospettiva ospitata ne http://www.internazionale.it/gli Stati Uniti dedicata alla carriera del da www.internazionale.it: http://www.internazionale.it/ //www.internazionale Josef Koudelka: nationality doubtful è la prima retrospettiva ospitata negli Stati Uniti dedicata alla carriera del fotografo ceco, naturalizzato francese. Nato nel 1938, Koudelka ha studiato come ingegnere aeronautico e ha cominciato a scattare fotografie nel 1958, collaborando con numerose riviste e lavorando per due compagnie teatrali di Praga. È conosciuto soprattutto per le sue foto della primavera di Praga in cui ha ritratto le forze militari del Patto di Varsavia al momento della loro entrata nella capitale dell’ex Cecoslovacchia. Quei negativi arrivarono in maniera clandestina all’agenzia Magnum (di cui Koudelka fa parte dal 1971) e le immagini furono pubblicate sul Sunday Times in forma anonima, firmate solo con la sigla P.P. (photographer of Prague) per paura di possibili ripercussioni contro Koudelka e la sua famiglia. Dal 1961 è entrato in contatto con le comunità rom nell’Europa orientale e, grazie ai suoi frequenti viaggi tra il 1963 e il 1970, ha potuto immergersi sempre di più nella loro cultura, nelle loro tradizioni e nella loro vita quotidiana. Da quell’esperienza è nato il progetto Gypsies che ancora oggi offre la testimonianza più articolata della vita di queste comunità. Alla fine degli anni ottanta ha cominciato a documentare, attraverso una fotocamera panoramica, l’intervento dell’uomo sull’ambiente e i luoghi abbandonati e trasformati dopo i grandi conflitti internazionali. Negli ultimi anni lo stesso formato è stato usato dall’autore per raccontare le barriere di separazione tra Israele e la Palestina. 35 La mostra, che apre l’11 novembre 2014 al Getty Center di Los Angeles, durerà fino al 22 marzo 2015. Electric Monna Lisa di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Be’, secondo voi che colori ha la Gioconda? (Si usa sempre la Gioconda, come “dipintità” assoluta…). Nessuno lo può sapere, ormai. Neanche andando di persona al Louvre. E non solo perché i colori di Leonardo, ovviamente, nei secoli sono cambiati. Perché la storia dell’arte che conosciamo è da tempo ormai una storia a luce elettrica. Ma sì, ancora prima dell’elettronica, ancora prima della sopravvalutata “rivoluzione digitale”, è stata la scintilla di Edison ad avere cambiato, forse per sempre, la nostra percezione delle opere. Cito, se me lo permettete, da un bel libro di Marc Fumaroli: 36 Siamo così tanto condizionati da immagini prodotte e illuminate dalla luce elettrica che ormai preferiamo, nei musei e nelle mostre, oscurare le vetrate e chiudere le finestre davanti alla luce del giorno per illuminare violentemente i quadri antichi e moderni con proiettori elettrici. [...] Abbiamo ormai interiorizzato un “occhio elettrico” [...] Come gli scultori monumentali, che tenevano conto della prospettiva spesso estrema sotto la quale le loro statue sarebbero state viste, e ne deformavano di conseguenza le proporzioni, così i pittori hanno sempre organizzato la loro tavolozza in previsione delle condizioni di luce sotto le quali i loro quadri sarebbero stati esposti e visti. Gli affreschi parietali delle chiese gotiche “aspettano” la luce spesso colorata che piove dai grandi finestroni. Le pale d’altare barocche “sentono” il guizzare caldo dei candelabri. Vi stupiranno, spero presto, gli esiti di un esperimento che Nino Migliori sta conducendo da qualche anno sulle sculture romaniche, fotografate alla sola luce di una candela. Nei musei – e qui Fumaroli non dice nulla di strano - le opere sono immerse nella luce artificiale. Certo, i curatori hanno quasi sempre una cura particolare nell’utilizzare luci il più possibile “neutre” (ma esiste davvero questa neutralità?), o vicine alla temperatura della luce del sole… Ma chi ha detto, appunto, che Guercino e Picasso, Mondrian e Botticelli abbiano dipinto per quella luce? In realtà, il problema filologico è risolto in partenza. I musei non vogliono affatto farci vedere le opere “sotto la luce giusta” o “nella luce del loro tempo”, ovvero illuminate come i loro autori le prevedevano. No. A loro interessa farcele vedere come oggetti ri-formulati dalla nostra cultura, dalla cultura del museo. E qui entra in scena la fotografia (pensavate che questo blog fosse diventato Pittocrazia? Giammai…). I musei in realtà ci mostrano le opere in modo che somiglino il più possibile a come le abbiamo viste nei libri, ora magari sul sito Web del museo, e a come le vedremo nel catalogo della mostra e nel poster e nelle cartoline che compreremo al bookshop. I musei sanno che la nostra cultura visuale è fondata sulle copie (fotografiche), e non vogliono assolutamente che restiamo delusi dagli originali. Ora, come qualsiasi professionista dell’obiettivo sa bene, fotografare un quadro non ha nulla di naturale. Per essere fotografato, un quadro deve essere ben illuminato. Ma predisporre l’illuminazione di un’opera da riprodurre significa fare scelte che, per quanto guidate da cultura e saggezza, sono comunque arbitrarie. Mai neutrali. Così come è arbitraria la meticolosa correzione dei colori successiva allo scatto, nonché la divisione dei colori per la stampa quadricromica, nonché l’effettiva riuscita della stampa sui diversi tipi di carta, tutti esiti la cui resa cromatica assai di rado può essere confrontata direttamente con gli originali (e quand’anche, con gli originali illuminati da quale fonte luminosa?). E così ogni tipografia, ogni editore, ogni scansionatore per sito Web ha la sua tavolozza, e le Gioconde diventano migliaia, una per ogni grado di rotazione di qualche manopolina. Altro che fedeli riproduzioni come ci dicono le pubblicità delle collane a basso prezzo Sui “capolavori dell’arte”. I quadri che abbiamo in mente, i quadri che pensiamo di conoscere a memoria, sono complesse costruzioni artificiali, alle quali saranno gli originali a doversi sforzare di somigliare. Gli schermi autoilluminati di cui ci nutriamo oggi complicano la situazione. Sui displayda computer, sui brillanti schermi dei tablet, i dipinti 37 (le fotografie dei dipinti…) brillano come gioielli. Nitidi e stagliati, i colori sono vivi e straordinari, nei nostri specchi delle brame. Le opere originali sono sempre più in difficoltà a somigliare alle loro repliche immateriali. Infatti, molti musei e alcune esposizioni blockbuster si stanno adeguando, e creano illuminazioni “mirate” che simulano la luminescenza dei display e finiscono per farsomigliare ogni dipinto a una lightbox retroilluminata. Chi ci rimette di più, in questa elettrificazione del gusto cromatico? Ma loro, gli scopritori del colore della luce e dell’ombra, gli impressionisti. Si erano sforzati di farci capire che il colore non è una materia, non è neanche una proprietà degli oggetti, ma è l’eco che gli oggetti del mondo si rinviano tra loro, quando sono messi in risonanza dalla luce del sole. Respiravano quella luce con l’avidità di rondini a primavera. L’imperialismo elettrico li ha chiusi di nuovo in casa. Parlano della luce del sole, in ambienti con le finestre accuratamente chiuse. Poco male, ci sarà pure una lampada con filgro skylight per simularla. Tag: fotografia, Gioconda, Guercino, illuminazione, illuminazione elettrica, Leonardo da Vinci, Marc Fumaroli, musei, Nino Migliori, Pablo Picasso, Piet Mondrian, riproduzione d'arte, Sandro Botticelli Scritto in arte, Immagine e Internet | 13 Commenti » La fotografia raccontata da Geoff Dyer. L'infinito istante di Sabrina Tabarelli da http://lavocedeltrentino.it/ E' come se in un determinato luogo ci fosse un meraviglioso segreto e io fossi in grado di catturarlo, solo in quel momento e solo io, dichiarò Walker Evans.Esistono solo le coincidenze, sembra idealmente proseguire Cartier Bresson. Dyer incalza invece con una domanda che sembra tessere la tela di tutta la sua ricerca in questo libro: Quanto può protrarsi una coincidenza, prima che 38 cessi di essere tale? E ancora: La coincidenza dev'essere di un istante? E quanto dura quell'istante, l'infinito istante? Quello di Geoff Dyer non è un libro di critica fotografica, né un libro scritto da un fotografo intento in una dissertazione sulla fotografia con un linguaggio specialistico, degli “addetti ai lavori”. Dyer è uno scrittore inglese che, come confidenzialmente lui stesso dichiara, non solo non è un fotografo ma non possiede neanche una macchina fotografica. Il suo libro è scritto con l'acume degno di un intellettuale e la sensibilità di un artista che creativamente ha costruito attorno alla fotografia, soprattuttoamericana, un mondo fatto di fotografie e di vicende ad esse saldamente connesse, di intrecci di storie e di immagini che rendono il suo libro assimilabile più a un romanzo che a un saggio. Ed è proprio questa freschezza di scrittura a rendere la lettura accattivante e stimolante. La decisione stessa di Dyer sulla modalità di impostare la narrazione rende questo libro fruibile in maniera decisamente singolare. Si sfoglia un libro che scorre senza imporsi, che si fa amare non deprivandoci della libertà di vagabondare in esso secondo un ordine che non è stato affatto stabilito dall'autore in maniera assoluta. Pagina dopo pagina, l'Infinito istante aspira non a un resoconto lineare bensì a ricreare l'esperienza aleatoria di poter scorrere un mucchio di fotografie che egli, cogliendole una ad una ed associandole poi fra loro, ci invita ad osservare, a scrutarne i dettagli e le segrete interconnessioni. La narrazione procede seguendo fili plurimi, come un flusso di pensiero che non si cristallizza in un'unica sede, bensì si dipana muovendosi per associazioni d'idee e di immagini. Fotografie che, quasi secondo un arcano principio di similitudine, una sorta di sposalizio fatto di affinità elettive, giungono ad intersecarsi nonostante la loro appartenenza a fotografi spesso diversi per stile ed anche per epoca. Dyer ci porta con lui, al suo fianco in questo ideale viaggio americano sulle ali di un gigantesco album fotografico costellato da continui richiami capaci di creare inaspettati legami tra immagini diverse sia per autore che per stile. Attraverso gli occhi dello scrittore ripercorriamo la storia della fotografia fatta di fotografi che hanno dato le proprie versioni personalizzate di un repertorio di soggetti, scene, tropi capace di espandersi e di evolversi costantemente. Come un organismo in perenne mutazione. Fili invisibili, tessiture fatte di quasi fatalistiche coincidenze, uniscono cappelli, schiene, scale, porte aperte, cieli, nuvole, panchine gremite di persone e panchine vuote, mani e così via. Sono fotografie sì, ma in tale contesto sono molto di più. Sono nodi, luoghi dove i soggetti vengono liberati della propria solitudine per mescolarsi e convergere in una sorta di immaginario universo parallelo nel quale il tempo, lo spazio e la regia creativa sono le variabili. Immagini dunque lontane ma nel contempo assolutamente vicine. Solo qualche esempio, qualche flash. 39 Gente crollata sul marciapiede, con il cappello calcato in testa, persone che elemosinano con il cappello in mano. Nel destino di questo capo d'abbigliamento si riflette l'approccio documentario dei fotografi negli anni Trenta (la Grande Depressione) ma lo vedremo ricomparire in anni posteriori secondo logiche del tutto diverse. Ecco nomi quali Dorothea Lange, John Vachon, Edwin Rosskam per citare alcuni fotografi menzionati in questo libro. Scale consumate, decorate da intrichi di foglie, domestiche o gradinate monumentali che conducono verso l'alto o vertiginosamente verso il basso. Inquadrature di scale isolate o animate dalla presenza dell'uomo intento nella salita o nella discesa. Eugen Atget e il suo catalogo fotografico di Parigi, città vissuta attraverso l'obiettivo anche dal nottambulo Brassai che ci restituisce foto dalle forti valenze simboliche e psicanalitiche. E ancora l'ungherese André Kertész che sapeva tutto sulle scale in salita, mentre DeCarava, come Cartier Bresson, sceglieva luoghi che, entrando in interazione con le persone che vi transitavano, si manifestassero nella loro casualità. Miriadi di circostanze e di contingenze che rendono possibile tutte le coincidenze. Ma proseguiamo. Back, persone riprese di schiena, mani e cappelli, gente intravista per le strade immortalata dalla Lange, la commistione di intensità emotiva-sessuale e l'ossessiva precisione tecnica di Edward Weston, amante delle donne e della forma. Ho un tale controllo dei meccanismi della mia macchina che essa funziona rispondendo ai miei desideri, affermò Weston, realizzando fotografie capaci di incamerare l'unicità di quell'istante in cui si sprigiona la duratura magia che contraddistingue le sue opere. La ricerca di Dyer non si esaurisce soltanto in una disquisizione estetica ma percorre anche momenti salienti, dettagli delle biografie degli artisti capaci di toccare lati intimi e psicologici in quella commistione tra arte e vita particolarmente calzante per alcuni fotografi che incontriamo in questo saggio. 40 Lo è ad esempio, oltre che per Weston, per Alfred Stieglitz e Paul Strand uniti da uno stretto legame di amicizia, sostegno e rivalità, oltre che dal pregnante erotismo che caratterizza le loro fotografie. Stieglitz fotografò le mani, il corpo della pittrice (che diventò sua moglie) Georgia O'Keeffe sostenendo di usare la macchina come fosse una mano che si muoveva bramosa sulla modella. Veniamo poi catapultati in ambienti intimi, stanze che hanno per unici protagonisti letti sfatti, vuoti, deprivati della presenza umana quali ci vengono presentati da Jack Leigh che rivisita i luoghi tipici di un fotografo anni Trenta quale Walker Evans. Che ne siano consapevoli o meno, i fotografi si pongono in costante dialogo sia con i propri contemporanei che con i loro predecessori. Nelle fotografie, considerate a posteriori, convergono dunque un gran numero di tendenze e temi. Coincidenze. E' quanto troviamo in questo libro affascinante. E ancora, foto di drive-in, le pompe di benzina di William Eggleston(accostate con le rosse Mobil del pittore Hopper), le stazioni di servizio di Leigh testimoni di un America trasformata che, superato il periodo immortalato (anche e soprattutto) dalla Lange (la vita degli emigranti, dei vagabondi e dei mezzadri) giunge all'America che ci appare adesso, segnata da quella civilizzazione “istantanea” avente per icone i fast-food e i self-service. Ma andiamo avanti. Guidati da Dyer in questo immaginario album fotografico, sosteremo anche sulle malinconiche panchine di Kertész che, in contrappunto, sembrano dialogare con le panchine affollate diGarry Winogrand o con le panchine animate dalle persone negli intensi scatti di Diane Arbus. Fotografi dunque che in un certo senso si videro, si incontrarono nei loro scatti, nella condivisione di certi soggetti. C'è anche chi si mise a fotografare utilizzando soltanto un unico punto di vista rassicurante: la sua finestra. Kafka affermava che la vita dell'uomo solitario sia resa sopportabile da una finestra che guarda sulla strada.William Eugene Smith fece questo, compulsivamente, uno scatto dopo l'altro, rendendo la macchina fotografica la protagonista della sua esistenza. Mi mettevo la macchina attorno al collo anche se non la usavo e ringraziavo solo per il fatto di indossarla, disse la Arbus. E ancora. Foto votate all'istante, alla casualità e al brivido scattate da auto in corsa. Negli anni Trenta molti fotografi andarono in giro per l'America in auto 41 fermandosi ogni qual volta vi fosse qualcosa che attirasse la loro attenzione. Luci, dettagli, visioni in febbricitante movimento. Perché la fotografia è anche avventura. Amo guardare le cose più banali, cose che si muovono, disse Robert Frank. La carrellata di immagini in questo libro rivestono un ruolo fondamentale anche per quanto riguarda la nostra percezione della storia americana. Grazie ad esse la viviamo, la rincorriamo, la assorbiamo. E poi ci sono le porte, in primis The open door di William Fox Talbot, 1884, quella porta aperta che ritroviamo, reincarnata, in alcune foto di Strand nel 1946. E come non incantarsi innanzi alle porte vuote di Francesca Woodman, immerse in quell'atmosfera eterea ove i muri stessi diventano varchi, oltre i quali si accede in un altro mondo, in quella fantastica dimensione onirica che contraddistingue i suoi scatti. Questo e tanto altro in questo stimolante saggio. Miriadi di immagini dunque, foto che dialogano, per caso o di proposito, con altri fotografi. Accade spesso che le fotografie assomiglino ad altre fotografie. Accade spesso che ogni fotografo abbia fatto delle fotografie che sembrano scatti di altri fotografi. Sono soggetti condivisi e replicati da altri. Soggetti che compiono un viaggio capace di varcare lo spazio e il tempo, morire e rinascere reincarnati in altre nuove fotografie scattate per mano di qualcun altro. Reincarnazione dunque. Eterno ritorno. Dyer ci fa riflettere su questo, ce lo fa vivere. Ci dice che non esiste un frattempo in fotografia. Ci parla di una regola arcana che sta sotto la pelle di ogni fotografia e che consiste nell'impossibilità di vedere la fine di qualcuno o di qualcosa... Sì, le cose vivono per sempre, immortalate in quell'istante unico e irripetibile ma nel contempo muoiono nel congelamento di quell'attimo. Poi però accade qualcosa, dice Dyer. Le cose sono destinate a ricomparire. Come fantasmi si materializzano nuovamente per farsi carne e poi ancora nebbia. Ricompaiono trasformate, con in serbo altre storie da raccontare e da 42 farci vivere. Ricompaiono racchiuse nel mirino di un altro obiettivo e poi ancora un altro. E così via. Istanti e sempre istanti. Conturbanti ed infiniti. C'era solo quell'istante e adesso quest'altro istante e nel mezzo non c'è niente... -----------------------Titolo: L'infinito istante - Autore: Geoff Dyer - Editore: Einaudi - Anno di stampa: 2007 Pagine: 263 Le montagne sanno il perché di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Ecco, alla fine i prati sono tornati, proprio come immaginava il fantaccino dell’ultima scena del film di Ermanno Olmi. E sembra che non sia successo nulla? Forse. Quasi. Forse anzi no. Perché “sono immagini che possono fare anche male”, come scrive Anna Villari nel libro che le raccoglie, quelle che Luca Campigotto è andato a strappare alle alte quote delle Alpi, alle cime violate dalla Guerra che non fu Grande, ma solo gonfia, di morte e di sangue. Luca Campigotto, Marmolada, da “Teatri di guerra”, © 2014 Luca Campigotto, g.c. Ma per capire da dove venga quel male che ci tormenta gli occhi ci vuole un po’. Regnano un tale silenzio,una tale immobilità in queste fotografie più grandi della guerra che rievocano, che ci aspetteremmo evocassero sentimenti di serenità e pace . Invece in quegli interminati spazi e sovrumani silenzi e profondissima quiete, il cuore si spaura, direbbe quel ragazzo favoloso di Leopardi. 43 Campigotto, che è un fotografo colto, sa bene quale nome diedero i filosofi e i poeti a quel sentimento di sopraffazione della natura matrigna sull’animo umano: sublime. Che significa: il terrificante che ci affascina. Ma non è natura, si dirà, quella che Campigotto è andato a cercare sui crinali, vestito da alpino disarmato, lo zaino sull’omero, a tracolla il cavalletto come un moschetto. È la Storia, perdinci. Trincee, sentieri, casematte, rifugi, gallerie, perfino fili spinati non angora digeriti dalle intemperie: tutta l’archeologia della guerra quindicidiciotto, che come gli escursionisti sanno è lì ancora sotto i passi di un trekking, e restituisce ancora i suoi reperti arrugginiti. Luca Campigotto, Sass de Stria, da “Teatri di guerra”, © 2014 Luca Campigotto, g.c. Oh sì, è Storia, e con questo? Non basta mica dire Storia, per mettersi il cuore in pace. Sì, è Storia, la storia di un macello atroce e non riscattato dalla ragione. E in questi suoi Teatri di guerra, Campigotto è andato a leggere il copione insensato e demente della Storia com’è quando gli uomini pretendono di “farla”. Ma guardateli (nel libro, ora che la mostra è finita), questi sassi. Bellissimi, sublimi (cioè terrificanti). “E vanno gli uomini a contemplare le vette delle montagne, e non pensano a se stessi”, diceva Agostino d’Ippona. E infatti quegli uomini vi si persero, dimentichi per costrizione dell’umanità di qull’altro se-stesso nella trincea di fronte, fratello con la divisa d’un altro colore, a volte l’unica differenza, neanche la lingua. Mi ha sempre commosso una riga di lapide d’uno dei tanti monumenti ai caduti, sulla facciata della chiesa d’un paesino d’Appennino. Dice: “Combatterono morirono questi prodi compaesani / e forse non seppero il perché”. Morire “senza sapere il perché” è la condizione umana. Morire in guerra senza sapere il perché della guerra è una costrizione della storia, cioè del potere. La storia di chi subisce la storia, di chi la subisce da chi fa la storia. Qualcuno, il perché lo sapeva. E quel perché non era la gloria, non era l’eroismo, non era la Patria. Non era un metro di roccia, una “quota”. S’ammazzarono per ordine e disciplina (quelli che non si ribellarono, per essere ammazzati dai propri). 44 Forse non seppero il vero perché, tenuto nascosto nella Storia delle infami Ragioni della Storia. Ma che queste cime di dolomite e di calcare non fossero tesori, che non servissero a nulla (infatti eccole lì, ancora, maestosamente inutili) se non come trofei di una primazìa feroce fra potenti della terra, be’, questo io credo che lo sapessero, che lo intuissero, che lo sospettassero. Io sento questo sospetto “che fa male” nelle fotografie di Campigotto. Dove reticolati, fosse, muri di sassi sembrano lasciati lì da un momento all’altro, senza un rimpianto, come si lascia un lavoro incompiuto quando lo si scopre insensato. Luca Campigotto, Passo del Castellaccio, Presena, da “Teatri di guerra”, © 2014 Luca Campigotto, g.c. Aveva cominciato col bianco/nero questa sua ricerca. Ha continuato col colore, e ha fatto bene. Il bianco/nero, quando racconta le trincee, vira sul seppia del reducismo nostalgico mascherato da documentario storico. Giustifica. Archivia. Mi viene in mente, non per confronto sia chiaro, per accostamento di idee, un altro volume (catalogo di una mostra interessante) uscito da poco: Venezia si difende, fatto con le foto d’archivio di quel singolare patriottismo da soprintendenti alle belle arti (li guidava Ugo Ojetti) che giustamente si preoccuparono di mettere al sicuro come potevano, con corazze e sacchi di sabbia, i tesori secolari della Serenissima minacciati da quella nuova guerra verticale, senza fronte e senza frontiere, che era la “minaccia aerea”. (Curioso, ironico: quei difensori dell’arte dalla guerra obbedivano alla stessa bandiera di quei futuristi intrventisti che ripudiavano quella città “cloaca massima del passarismo” e si auguravano fosse presto disintegrata dalla Macchina e magari proprio dalla loro igiene dei popoli, la Guerra, appunto.) Ma non divaghiamo: ecco, queste fotografie d’archivio, in bianco e nero verdastro, sono la Storia che prende la parola, si schiarisce la voce, e bene o male prova a giustificarsi. La Storia è utile ma fa danni, sì, l’abbiamo letto Nietzsche. Ma le foto di Campigotto, dicevo, sfuggono al bianco/nero della Giustificazione Razionale e Storica. E però anche al colore della Riconquistata Pace: non sono i colori degli escursionisti, della montagna griffata, delle pedule firmate prese nelle boutique di abbigliamento “tecnico”. Campigotto ha risucchiato via il tono dal colore e ha fatto benissimo: guai a chi dice che Photoshop è un delitto in sé. Dipende da cosa ci fai. Desaturate e 45 illividite, volutamente, dichiaratamente: qui serviva proprio questo. Colori? E cosa ti aspettavi? Il rosso del sangue? Neanche il sague è rosso nel flm di Olmi, ma è fango, melma. Luca Campigotto, Cima Bocche, da “Teatri di guerra”, © 2014 Luca Campigotto, g.c. Colori soffocati. Per dire che le alte quote, i sassi che grattano il cielo, non sono indulgenti. Non hanno perdonato. Ricordano quel mondo terragno, di crosta e di coccio, il coccio di quel vaso fragile che è il corpo dell’uomo. Ricordano le loro ferite. Non dico gli sgretolamenti che limarono di qualche metro le cime più alte, né gli sventramenti della “guerra di mina”, quell’ennesima assurdità bellica fra le tante che consisteva, vista la tragica immobilità della guerra di trincea, nella follia di voler “passar sotto” le linee nemiche scavando come talpe o come tarli per portare un po’ di dinamite sotto il culo dei crucchi, e viceversa. No, le montagne sono grandi e non sincurno di quei graffi sulla pelle. Le cime non perdonano, invece, l’ubriacatura di presunzione dei generali che credettero di potersele fare complici in quella orgia di demenza sanguinaria del potere. Non perdona chi pensò di poterle considerare contemporaneamente – che contraddizione da deficienti – terra madre, e preda di saccheggio. Loro sono ancora lì, montagne antiche come le montagne. Il sangue slavato e colato, la brama di conqusta ridotta a una sassaia deserta che non fa più gola a nessun esercito, e che neppure le marmotte, scavatrici di trincee senza odio, considerano “patria”. Tag: Ermanno Olmi, fotografia storica, Friedrich Nietzsche, futuristi, Grande Guerra, Luca Campigotto,Prima guerra mondiale, Sant'Agostino, storia, Ugo Ojetti, Venezia Scritto in Bianco e nero, colore, storia | Un Commento » Daido Moriyama: Visioni del mondo, graffiate, sfocate e viscerali di Cut-tv's da www.clickblog.i Le visioni di mondo, graffiate, sfocate e viscerali di Daido Moriyama in mostra al Centro Italiano Arte Contemporanea. 46 Tra i maggiori protagonisti della fotografia contemporanea giapponese e la folla di obiettivi on the road puntati sulla strada, Daidō Moriyama continua a condividere le sue 'visioni di mondo', libere da limiti e convenzioni come il suo obiettivo, randagie come i cani di Misawa, aguzze come le contraddizioni umane e urbane. Visioni messa a fuoco in un particolare, sfocate in un altro, riflesse e sovraesposte, celate e moltiplicate, come gli scatti volutamente graffiati, sgranati, oscuri e viscerali, anche quando passano dal bianco e il nero al colore. Le visioni del mondo di uno spirito libero e viaggiatore solitario, di nuovo in mostra con oltre 130 fotografie realizzate dagli anni sessanta fino ad oggi, ospitate dal CIAC Centro Italiano Arte Contemporanea di Foligno, in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e la sua Fondazione Fotografia. Una mostra curata da Filippo Maggia e Italo Tomassoni, pronta ad avventurarsi lungo sentieri imprevedibili, dentro tunnel tenebrosi, intimità rubate e quotidianità sorprese, dal 22 novembre 2014 al 25 gennaio 2015. La mostra di scatti e frammenti di realtà, affiancata da una selezione di opere video di artisti dell’Estremo Oriente come Tabaimo, Yasumasa Morimura, Miwa Yanagi, Kimsooja e Yang Fudong, che arrivano dalla collezione di fotografia contemporanea della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena con Asian Contemporary. 47 Foto | Daido Moriyama © Visioni del mondo, Courtesy CIAC Centro Italiano Arte Contemporanea, Foligno PrevNext Il catalogo della mostra edito da Skira contiene molte delle opere in mostra accompagnate da un’intervista a cura di Filippo Maggia, da un testo critico di Akira Hasegawa e da una biografia approfondita redatta da Francesca Lazzarini. Daido Moriyama. Visioni del mondo - CIAC Centro Italiano Arte Contemporanea di Foligno, Via del Campanile, 13 - dal 22 novembre 2014 al 25 gennaio 2015 - Venerdì 16.00-19.00, Sabato e Domenica 10.00-13.00 – 15.30-19.00 - Biglietto: € 5,00; ridotto € 3,00. Ingresso gratuito per: ragazzi fino a 14 anni, scolaresche e portatori di handicap. Elliott e Gianni, il mestiere dell’anima di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it L’americano s’appoggia al suo famoso bastone da passeggio con trombetta «per far spostare la gente» (un designer italiano gliel’ha copiato). L’italiano arriva col suo celebre giubbotto di pelle. Elliott Erwitt e Gianni Berengo Gardin, entrambi ben oltre gli ottant’anni, ma solo due di differenza tra loro, due monumenti della fotografia umanista, due grandi occhi del Novecento e oltre. Si conoscono da decenni, ma solo oggi un volume double-face e una mostra a ROMA celebrano la loro Amicizia ai sali d’argento. Qualche giorno fa l’hanmno inaugurata assieme. Li abbiamo fatti incontrare qualche giorno prima.. Gianni Berengo Gardin. Elio, sei un amico, ma PRIMA un maestro. Una tua fotografia mi ha cambiato la vita. Quella meravigliosa con la moglie sul letto, gatto e bambino. La vidi sul catalogo di The of Man, ero un dilettante che faceva foto molto sceme. Dalla tua foto ho capito tutto. C’era anche un’altra tua foto, una donna incinta con un gatto, non so se lo stesso gatto… 48 Elliott Erwitt. Non so cosa sia successo coi gatti, sono più in confidenza coi cani. GBG. E quando poi ti ho conosciuto ero molto in soggezione perché per me eri un colosso, poi col tempo siamo diventati amici. EE. Sei è una persona affascinante, la tua personalità si adatta benissimo alle sua foto Non ti invidio una foto in particolare, ma il tuo atteggiamento quando fotografi. GBG. Fotografo quel che mi incuriosisce. Se lo pensassi come un lavoro avrei fatto altro nella vita… Trovo ancora stupefacente che mi paghino per fotografare. Elliott Erwitt, New York, 1953, © Elliott Erwitt / Magnum Photos / Contrasto, g.c . EE. Adesso… Ma all’inizio mica tanto… Io mi considero un “professionale”, ma le fotografie che amo sono quelle che faccio per HOBBY . Non mi ritengo neanche un giornalista. Mi sono trovato in situazioni in cui la notizia si imponeva, ad esempio quando a Mosca mi passò davanti una sfilata militare coi missili che nessuno in Occidente aveva ancora visto. Ma solo perché ero già lì. Fotografare è soprattutto essere lì. Non amo essere messo in una categoria. GBG. Be’ io forse sì. Ho sempre pensato che quello che faccio somiglia molto di più alla scrittura che alla pittura. Quindi fotogiornalista mi sta bene, a metà fra giornalista e fotografo. Non ho mai fatto la cronaca dura, racconto cose che vedo, ma non è questo è il fondamento del giornalismo? EE. Quel che conta nella buona fotografia è l’attenzione alla condizione umana. Ma un fotografo non è un giudice, né un riformatore sociale. Se una buona fotografia può migliorare il mondo non so, ma non mi riguarda. Non penso molto alle cose quando fotografo, forse dovrei pensarci un po’ di più… Diciamo che penso guardando. GBG. Iniziai a fotografare per sfida. Avevo quattordici anni e i tedeschi a Roma imponevano di consegnare non solo le armi ma anche le fotocamere, e io che non sapevo niente di buona fotografia ma ero un bastian contrario e pensai: se questa cosa dà così fastidio, mi piace. Ora però mi sono convinto che una fotografia modifica lo stato d’animo di chi la guarda, ma non abbastanza per cambiare le cose. Una buona buona fotografia non migliora il mondo, dice Ferdinando Scianna, ma una cattiva fotografia la peggiora… EE. Suona bene. Non so se sono d’accordo ma suona bene. Qualche volta ho preso delle buona fotografie che forse hanno cambiato qualcosa, ma forse erano semplicemente utili. Segregazione razziale, guerra fredda… Ma non l’ho fatto in modo premeditato. La fotografia è un dono che ricevi dal mondo e 49 passi a qualcun altro, non un progetto. Le buona fotografie non si preparano, si aspettano. Si ricevono. Devi solo dare loro il tempo di arrivare. GBG. Se poi c’è qualcuno che prende le tue fotografie e le usa per un’azione politica, allora sì. Il reportage che feci nei manicomi con Carla Cerati non avrebbe avuto quell’impatto se non c’era Franco Basaglia a usarle. Invece le foto che ho fatto alle gigantesche navi da crociera che incombono su Venezia sono terribili, hanno fatto impressione, ma poi? Chi ha il potere di decidere non si lascia spaventare da una foto. EE. Mi interessa fare una buona fotografia, non una dichiarazione. La foto che feci a Mosca, ad esempio, a Nixon che punta il dito sul petto di Kruscev… Io ero lì per fotografare frigoriferi a una fiera di prodotti americani, loro si misero a discutere davanti a me… Io mi preoccupavo solo di trovare una buona inquadratura. Poi Nixon la usò per una sua campagna elettorale, per fortuna quella volta non vinse. Ecco, quella foto ha mosso qualcosa, ma io non c’entro. E dunque, perché un fotografo fotografa? GBG. Io sono sempre stato molto timido, con grandi difficoltà a comunicare con gli altri e la fotografia è stato un modo di avere una relazione con gli altri e con il mondo. Gianni Berengo Gardin, Venezia, 1958 © Gianni Berengo Gardin / Courtesy Fondazione Forma per la FOTOGRAFIA , g.c. EE. Volevo fare qualcosa di indipendente nella vita, il mio unico lavoro fisso è stato il servizio militare. La macchina fotografica ti porta in situazioni dove non andresti mai. A pensarci, la fotografia è tutta qui: far vedere a un’altra persona quel che non può vedere perché è lontana, o distratta, mentre tu invece sei stato fortunato e hai visto. Il tuo compito è organizzare al meglio le cose che vedi, per renderle comunicabili agli altri. GBG. La fotografia è un modo aumentare la conoscenza diffusa delle cose, andandole a vedere e condividendo quel che hai visto con gli altri. Le fotografie si fanno coi piedi, dice Scianna. Devi andare, devi esserci. EE. Su questo però… In un’intervista, a Mosca, un giornalista mi chiese: ma lei, era lì quando ha scattato questa FOTO ? Be’, sembra ridicolo, ma continuo a ripensare a quella domanda. C’ero davvero? Mah… a volte un fotografo scatta automaticamente senza essere davvero lì… 50 GBG. Con Photoshop quella domanda non è più così assurda. La gente ha cominciato a farsi idee strane. Guarda questa foto che ho preso al caffè Florian, c’è una donna che si bacia con un uomo… Be’, senti un po’, una signora di Venezia mi ha fatto causa dicendo che lei non è mai stata in quel ristorante e dunque è un fotomontaggio… Ho risposto cara signora, io non l’ho mai vista prima d’ora, sarò anche un bravo fotografo, ma che riesca a fotografare una persona che non c’è… Erwitt, che cosa ha risposto al giornalista russo? EE. Gli ho detto: sì, probabilmente ero lì. Almeno, lo spero. Ma c’è ancora bisogno di qualcuno che “è lì”? GBG. Un giorno Libération è uscita con le cornici bianche, per far capire che quando la fotografia non c’è, ti manca. Non bastano le foto che fai tu col cellulare, perché tu scatti quello che vedi, mentre la buona fotografia è qualcosa che tu non hai visto e qualcuno ti mostra. EE. C’è bisogno di buone fotografie per bilanciare tanta spazzatura visiva in giro. La comunicazione oggi è molto veloce, lo sguardo non si ferma. C’è bisogno di qualcuno che arresta lo sguardo su qualcosa e ti dice “guarda questo”. GBG. Credo però ci sia un’inflazione su certi soggetti drammatici, lo scrisse Susan Sontag, alla fine l’eccesso di fotografie della violenza, magari fatte per denunciarla, ottiene lo scopo inverso. Elliott Erwitt, Parigi. 1989, © Elliott Erwitt / Magnum Photos / Contrasto, g.c. EE. Sì, di fotografie di eventi drammatici, anche straordinarie, ce ne sono a sufficienza, sono le fotografie tranquille che mancano. Quelle che muovono emozioni più lente. Di me dicono che sono un umorista: le mie foto dei cani che saltano quando gli abbaio, o suono la trombetta… La cosa più difficile e utile al mondo è far ridere la gente. Ancora più difficile farla ridere e piangere assieme, come Chaplin. GBG. Nei miei libri difficilmente c’è un “evento speciale”. La mia scelta è stata di fotografare persone che non vengono normalmente fotografate per i libri e per i giornali. Be’, ora tutti fotografano tutti. EE. Ma non sono fotografie. Sono immagini con una faccia sopra. Non sono foto cattive, anzi sono molto carine, simpatiche, ma le buone fotografie sono quelle che mostrano ciò che nessuno di solito vede o vuol vedere. Come tutti i regali, una buona fotografia non dev’essere né banale, né arrogante. Vi si rimprovera di non aver accettato la “rivoluzione digitale”… EE. Ma io uso ancora la pellicola perché non sono capace… 51 Gianni Berengo Gardin, Toscana, 1965, © Gianni Berengo Gardin / Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia, g.c. GBG. Io sono innamorato. In genere gli uomini anziani preferiscono le donne giovani, io invece resto fedele alla mia compagna di vita, il digitale ha dei vantaggi ma la pellicola non mi ha mai tradito, perché dovrei lasciarla? EE. Una rivista tedesca mi ha appena chiesto di fare un servizio con i Google Glass. Me ne hanno messo sul naso un paio e mi hanno portato in un parco. È incredibile, per scattare devi solo dare un colpetto qui sull’asticella, presto basterà solo un battito di ciglia. Fotografare diventa uguale a vedere, non hai cornice, inquadratura, nulla… GBG. E come sono venute le foto? EE. Be’, si vede qualcosa. Ma è terribile, non hai controllo sulla composizione, allora non è più fotografia, è una specie di pensiero, ma dice ancora qualcosa? Se arriva un quindicenne che vuol fare il fotografo, che gli dite? GBG. Apri una drogheria, poi la domenica vai a fotografare. EE. Fallo come se fosse un hobby. La fotografia è il lavoro dell’anima. TAG : Carla Cerati, Elliott Erwitt, Florian, fotografia umanista, Franco Basaglia, Gianni Berengo Gardin, Google Glass, Libération, Nikita Kruscev, Richard Nixon, Susan Sontag, The Family of Man Scritto in fotogiornalismo, Venerati maestri | Commenti » I diritti in fotografia e il diritto del fotografo di Nicola Ughi da http://www.huffingtonpost.it/ 52 Il giorno 11 novembre a Roma c'è stata una manifestazione, quella dell'associazione nazionale Tau Visual (alla quale anche io sono iscritto), che raggruppa una buona parte di fotografi professionisti italiani. La manifestazione, alla quale purtroppo non ho potuto partecipare in prima persona, ha avuto essenzialmente uno scopo: che anche nel nostro settore la legge sia uguale per tutti. La questione è semplice e non è relegata solo al nostro settore: il fotografo professionista ha una partita iva o un assetto societario e paga le tasse. Ci sono poi tanti foto-amatori che invece spesso prestano la loro opera per scopi commerciali, in maniera gratuita o qualche volta in cambio di qualche cosa; bypassando un sistema blando di regole che in Italia sono tanto odiate. Secondo me è necessario analizzare la questione a 'bocce ferme', sicuramente in qualche tavolo di trattativa se ci sarà, prendendo in considerazione veramente quelli che possono essere i veri diritti della nostra categoria. Per introdurre la questione mi viene in mente una frase felice del premier Matteo Renzi a riguardo dell'articolo 18: "è come il gettone nell'iPhone". Quello che intendo è semplice: ogni attività deve fare i conti con il periodo storico in cui si svolge. Qui in Toscana esiste un vecchio detto, dedicato a coloro i quali non hanno attitudine imprenditoriale, che in maniera piccante e graffiante dice: "se ti metti a produrre cappelli nasce la gente senza testa". Che praticamente è come dire che si va a vendere il ghiaccio al polo nord. Mi spiego meglio: ogni attività ha bisogno di adattarsi ai tempi, e la capacità di adattarla sta nell'iniziativa imprenditoriale di ognuno di noi. Chi sceglie di fare il fotografo di professione sa che deve per forza fare i conti con il mercato. In base poi alle proprie attitudini e alla proprie specializzazioni sceglie quale area di mercato aggredire e decide le proprie strategie per farsi spazio. È chiaro che quando si inizia con una qualsiasi attività è necessario partire da un BUSINESS PLAN , anche se lo si fa da soli. Una corretta analisi del mercato di riferimento non può fare a meno di prendere in considerazione la concorrenza e i rischi. Nel mercato dell'abbigliamento si combatte contro la contraffazione, nel nostro settore si combatte contro chi lavora gratis e toglie lavoro ai professionisti. Il problema è che la linea di confine è spesso molto labile, in quanto esistono tanti foto-amatori che sono spesso più bravi e preparati di alcuni professionisti, e che sono per questo molto richiesti. Basti pensare che l'International photography awardsamericano ha una sezione dedicata ai "non professional", e che lo scorso anno proprio una "non pro" italiana ha vinto un Lucie Award (Carlotta Cardana - discovery photographer of the year 2013). Basti pensare inoltre che il mercato apre veramente ai non pro, perché varie agenzie di stock e microstock non richiedono lo status di professionista per vendere le immagini sulle loro banche dati... ed è assolutamente lecito da parte di un amatore caricare le proprie immagini su questi siti. Che fare quindi? Come si combatte una situazione di mercato così divisa e diversa? Come dimostrare che un professionista fornisce servizi diversi e migliori? Secondo me non certo con il vittimismo. Il professionista è una figura che da sicurezza in quanto dedica il proprio tempo 24 ore su 24 alla fotografia; si presume quindi che si aggiorni e che soprattutto investa. L'attrezzatura è una questione fondamentale così come lo studio e il perfezionamento del proprio stile. Anche in questo caso, come nell'industria e nella professione, chi è più specializzato e chi riesce a farsi un nome per ciò che produce, si fa strada 53 meglio egli altri. È normale quindi che la mediocrità e il pressapochismo restino al palo, come in tutti i settori. Secondo me non riusciremo mai ad impedire ad un soggetto privato di fare economia attraverso la scelta di un soggetto che scatti delle buone immagini. Mettiamo che un azienda che investe in fiere e manifestazioni si trovi ad annoverare tra i propri dipendenti un amatore di comprovata validità e creatività... e che decida di investire essa stessa in attrezzatura. In questo modo non sarebbe fuori dalle regole, avrebbe un buon prodotto, in cambio di uno stipendio. E le regole sarebbero perfettamente rispettate. Conosco aziende che possiedono queste figure poliedriche interne a cui si affidano per le attività veloci e spicciole: eventi, still life, backstage. Decidono poi di investire qualche cosa di più chiamando qualche grande nome per fare una campagna o un editoriale... dove il fatto che quel determinato professionista abbia scattato per loro costituisce esso stesso un termine di visibilità (basti pensare alla firma di Mc Curry su una nota marca di jeans). Personalmente mi auguro da fotografo che le attività sindacali dell'associazione riescano a mettere ordine nel settore e a dare un po' più di regole, ma credo che non si possa prescindere dal mercato e dalla sua naturale evoluzione. Una volta tanti "barcaioli" persero il lavoro dove vennero costruiti ponti... è il prezzo del progresso. I barcaioli più creativi riuscirono a reinventarsi in anticipo un nuovo lavoro prevedendo e anticipando il mercato... quelli più diligenti e onesti vennero assunti in lavori alternativi e gli altri rimasero indietro. In fotografia è la stessa cosa... è la capacità del singolo a determinare il successo con un processo naturalmente meritocratico a cui le regole imposte difficilmente potranno sottrarsi. Charles Baudelaire contro Oliver Wendell Holmes. Duello a distanza sulla fotografia di Maurizio G. De Bonis da http://www.huffingtonpost.it/ Sappiamo molto bene cosa disse della fotografia il poeta francese Charles Baudelaire. Definì, ad esempio, la disciplina nata nel 1826-1827 (Nicéphore Niépce - Vista dalla finestra a Les Gras, considerata la prima fotografia esistente) una " grande follia industriale" e parlò addirittura di "idiozia della massa". Ce lo ricorda Giovanni Fiorentino nel suo libro intitolato Il flâneur e lo spettatore - La fotografia dallo stereoscopio all'immagine digitale (Franco Angeli Editore, 2014). Ma c'è di più, Baudelaire si lanciò in un'incredibile stigmatizzazione dell'americanizzazione dell'individuo medio nonché dei concetti di quantità e serialità artistica. La fotografia sembrava a Baudelaire nemica della capacità umana di immaginazione. Ebbene, tutto ciò è riportato con assoluta correttezza nel testo di Fiorentino che, oltre a scrivere un interessante saggio sull'evoluzione dell'immagine, a partire dallo stereoscopio (dispositivo ottico per la visione di immagini stereoscopiche presentato nel 1851 durante l'esposizione universale di Londra) fino al digitale, compie un'acuta operazione comparativa di carattere criticostoricistico. 54 Accanto alla potente invettiva di Baudelaire, intitolata Il pubblico moderno e la fotografia, colloca tre riflessioni molto ampie di Oliver Wendell Holmes. Quest'ultimo fu un importante medico e scrittore americano che si occupò di fotografia nello stesso periodo in cui Baudelaire scriveva le sue filippiche antifotografiche (i testi proposti sono stati scritti tra il 1959 e il 1863). L'approccio di Holmes fu molto diverso, come sostiene Fiorentino. Il medico statunitense considerava la fotografia "fonte artificiale del sapere" e gli "autoritratti della natura" (estremamente significativa e illuminante questa definizione) da affiancare a discipline come moda architettura e musica, intuendo in maniera precisa il potenziale sviluppo industriale e comprendendo come questo strumento tecnologico fosse in grado di produrre, allo stesso tempo, elementi culturali/creativi ma anche valori di tipo addirittura postindustriale. Come afferma Giovanni Fiorentino: "La steroscopia di Holmes... si fa espressione di bisogni di visibilità e comunicazione postindustriale, intravede un ambiente tecnologico e sociale più accogliente, sembra ragioni in sintonia con le "frontiere dell'immaginazione" disegnate da Vannevar Bush nel 1945, quando scrive visionariamente di biblioteche digitali. Offre diverse opportunità di rileggere il presente" In tal senso, Holmes appare moderno, con lo sguardo concentrato sul suo presente ma anche proiettato verso il futuro (cioè il nostro presente), e Baudelaire praticamente un antiprogressista (la fotografia, infatti, non dovrebbe sconfinare nell'immaginario, secondo il poeta francese); e ciò rende il confronto ancor più stimolante poiché le tesi di Baudelaire, seppur molto fastidiose e ruvide (e per molti versi insostenibili), contenevano anche alcuni elementi su cui riflettere (ancora oggi), come ad esempio la questione della presunta "esattezza" della fotografia (equivoco che tuttora persiste) e il ruolo (appropriato per Baudelaire) della fotografia in funzione della documentazione, della catalogazione, della memoria e del rapporto con la scienza. 55 Ciò che mette in evidenza Fiorentino in questa suo libro è che pur avendo approcci diversi, Baudelaire e Holmes si sono occupati sostanzialmente del medesimo argomento: cioè le implicazioni sociali dello strumento fotografico, la sua dimensione industriale e l'enorme potere delle immagini riproducibili. Questo duello a distanza non deve però servire al lettore per prendere una posizione netta, a parteggiare per l'uno o per l'altro, quanto piuttosto per rendersi conto della complessità culturale e sociologica del medium fotografico, ancor di più oggi nell'era del digitale e della fotografia alla portata di tutti. Immagini: Charles Baudelaire (fotografia di Etienne Carjat, c. 1863) e Oliver Wendell Holmes (c.1879) Il fotografo biellese Vittorio Sella, che per primo trovò… la luna sopra ai monti più inaccessibili d'Africa di Marco Conti da http://www.ilperiodicodibiella.com/ 56 Erano le montagne “di colui che fa la pioggia”. Sulle cime una coltre di nevi bianche e fitte sembrava riflettere l’ancora più densa coltre di nuvole. Al confine tra Uganda e Congo, all’altezza di 5.109 metri. Per Tolomeo quei picchi erano coperti di sale, per tutti erano le Montagne della Luna. Un posto così remoto, così impervio che era preferibile restarne distanti. Vette più alte, il Kilimangiaro e il Kenya, erano già state calpestate. Ma i monti delle divinità che facevano la pioggia rimanevano al di là di ogni desiderio. Gli indigeni le guardavano come si guardano i secoli passati o i corpi celesti. Quando nel 1888, dopo decenni di esplorazioni, Stanley intuì che dai ghiacciai del Ruwenzori doveva nascere il Nilo, il fiume sacro, anche l’aura misteriosa di queste montagne sembrò trovare una nuova conferma. Si dovevano lasciare i villaggi, entrare nella foresta, salire i fianchi di una catena lunga un centinaio di chilometri. Si doveva camminare, perlustrare e ancora salire. Peggio che davanti al miraggio di un’oasi. Nel 1906 ci provò il Duca degli Abruzzi con un seguito di geologi, naturalisti, botanici, portatori e con il SOLO fotografo che sembrava all’altezza della situazione. Vittorio Sella, figlio del fondatore del Club alpino italiano, aveva allora 47 anni ed era già stato il reporter di tre spedizioni nel Caucaso e in Alaska nel 1897 e naturalmente sulle Alpi. Buon per lui, perché il Ruwenzori gli avrebbe dato serie preoccupazioni. A cominciare dall’attrezzatura. Sella ci aveva pensato nelle esplorazioni precedenti. Per ottenere buoni risultati si dovevano portare lastre fotografiche alte 40 centimetri e per portare sulle montagne quelle lastre dovevano essere fatti degli zaini speciali in grado di essere fissati sulla sella di un mulo. Senza contare che le precedenti spedizioni si erano arenate. Sulle montagne del Ruwenzori pioveva sempre, la nebbia era costante. Erano state avviate esplorazioni in tutte le stagioni ma la cortina di nuvole rimaneva immobile come una roccia. Comunque fosse, nell’aprile del 1906, Vittorio Sella era pronto e con lui il suo assistente, Erminio Botto, che lo aveva già accompagnato nel Caucaso e nell’Himalaya. Partiti da Napoli, completarono i preparativi ad Entebbe e a Mombasa. I portatori furono 194 a cui si aggiunsero i capo-carovana e i servitori personali, i cosiddetti boys. Non solo: la lunga fila che si mosse PRIMA nella foresta equatoriale e poi sulle pendici del Ruwenzori contava decine di neri addetti ai cavalli, ai muli, ai buoi, alle capre, provviste vive per il lungo percorso. Il 14 maggio da Entebbe si mosse una carovana di 400 persone con strumenti di misurazione, tende, sedie, scatolame, armi. Quando il Duca, in testa alla spedizione, si voltò verso il corteo riuscì a malapena a indovinare la fine della colonna. Si lasciavano alle spalle un villaggio dove, tra gli alberi di banani, viveva un re tredicenne aiutato da un consiglio di capi e dove soltanto dal 1887 si era persa l’abitudine di uccidere ad ogni successione reale una decina di sudditi. Un tributo alle divinità. Tra Entebbe e Fort Portal, Vittorio Sella scattò un’immagine presa da una collina della piana sottostante: una radura sterminata, l’ultima che avrebbe visto prima della foresta. La documentazione racconta con centinaia di scatti ogni momento dell’esplorazione, che diventò un libro corposissimo, “Il Ruwenzori. Viaggio di esplorazione e PRIME ascensioni delle più alte vette nella catena nevosa situata tra i grandi laghi equatoriali dell’Africa centrale”. Di quell’avventura il biellese fu l’unico narratore diretto: il testo fu scritto da Filippo De Filippi su incarico del Duca in base alle numerose relazioni di viaggio degli esperti e dello stesso Savoia. Venne tradotto subito in quattro lingue. 57 Le prime pendici della catena montuosa, fitte di vegetazione, risultarono tra le più difficili. A quelle altezze, Sella, impressionò lastre memorabili. Si camminava pericolosamente sopra strati di tronchi caduti nell’intrico di una vegetazione fitta, in parte sconosciuta, che fu dantescamente definita come una “selva orrida e strana”. Lo scrittore parla di paesaggi di un’età remotissima, i viaggiatori sono impauriti dal silenzio profondo in cui sono immersi. Sono suggestionati dalla bellezza che si apre qualche volta improvvisamente in una valle meno fitta di vegetazione ma soggiogati dall’inquietudine. Reale e leggendario sembrano toccarsi; anche i viaggiatori occidentali, anche l’ormai esperto e smagato fotografo biellese, sembra avvertire la natura numinosa del luogo, quel brivido che trapela nello spazio dell’immagine, nell’estensione imprendibile del luogo, dall’immoto ciclo di rigenerazioni…Tra fango e seneci, tra lobelie ed eriche, giganti verdi e vapor acqueo che di volta in volta copre e svela il paesaggio. Ecco le immagini colte dall’alto, ecco una pianta carnosa mai vista e all’orizzonte un’altra montagna striata di neve. Molti portatori indigeni procedono di malavoglia. Hanno paura e lo dicono, sono persuasi di andare incontro alla morte. Quelle foreste erano in realtà il margine tra la storia e lo sconosciuto, per gli africani come per gli europei. “La marcia è faticosa – scrive De Filippi – i portatori, insospettiti dal paese ignoto dove s’è diretti, vanno avanti a malincuore”. Il paese della luna ha il suo prezzo da pagare. Tanto più che presto comincia a diradarsi la vegetazione, i ghiacciai si avvicinano e così le nuvole ferme in alto. Ma oltre quel margine arriveranno solo le guide alpine, gli esperti della missione scientifica e Vittorio Sella col suo aiutante. Gli scatti che restituì furono altrettanti spaesamenti, suggestioni che sembrano appartenere davvero ad un paese lunare. La vetta principale prese il nome di Cima Margherita in memoria della Regina che finanziò la spedizione. I geologi scrissero che “la limpidezza delle acque era forse dovuta all’immobilità dei ghiacciai” sopra rocce mai sgretolate. I portatori non avevano torto: quello era il “limes”, il confine estremo. Se l'arte è mobile qual foto al vento di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Qualcuno le chiama "fotografie algoritmiche", perché devono la loro esistenza, o per lo meno la loro apparenza, a sequenze di operazioni 58 programmate da software. Ma anche le fotografie di una Kodak Brownie uscivano da una sequenza di operazioni meccaniche programmate... After Our Conversation di Aylin Argun, Istanbul, Turchia (primo premio), g.c. C'è una gran voglia di rotture storiche, di inedito, di soluzioni di continuità nel mondo della fotografia con volontà d'arte. Il nuovo sembra essere diventato il principale requisito dell'interessante. Mi chiedevo, giorni fa, seduto su una panca del Mart di Rovereto, se quelle che mi sfilavano davanti su diversi schermi, alcune molto interessanti, fossero anche "nuove" fotografie. E in cosa consistesse la loro novità. Avrei già dovuto avere la risposta. Erano le fotografie, o forse è più prudente dire le immagini, partecipanti al concorso Mobile Art (tema: "Il conflitto") promosso dal festival Futuro Presente. Dunque la loro comune natura era di essere state scattate e poi lavorate dalle app di apparecchi portatili (smartphone, tablet). La Mobile Art mi incuriosisce. Sotto diversi nomi, è già da un po' che cerca di occupare la scena della fotografia d'arte: la chiamavano, all'inizio, iPhoneArt, e la sua data di nascita, spiega il semiologo del cinema Giancarlo Beltrame (tra i curatori dell'evento, assieme a Luca Chistè e Maria Teresa Ferrari), coincide appunto con l'apparizione degli iPhone con fotocamere avanzate e app di fotoritocco, a cavallo del 2009. Questa di Rovereto non è realmente la prima occasione italiana di mettere alla prova il nuovo genere: amici fotografi mi hanno ricordato l'esperienza di "Hipstamatic Sardinia" che è del 2011. Ma è forse la più ampia, e di respiro internazionale. La Mobile Art mi incuriosisce, dicevo, come tutti gli usi artistici di strumenti tecnologici nuovi per la produzione di immagini. Mi incuriosisce capire come il mezzo influenza l'opera, come l'artista lavora con, dentro e anche contro lo strumento che ha fra le mani. La Mobile Art mi incuriosisce come mi hanno incuriosito, per dirne una, le Polaroid di Andy Warhol o di Nino Migliori... Tuttavia, seduto su quella panca, guardando sfilare le immagini vincitrici, le partecipanti al concorso e quelle che continuavano ad affluire attraverso il Web, alcune davvero interessanti anche sul piano formale, questo lo voglio ripetere, bene, quell'interrogativo sulla relazione fra mezzo e opera nella mia testa rimaneva irrisolto. Difetto mio, probabilmente. Non ho cercato forse abbastanza le motivazioni che gli artisti avranno sicuramente espresso da qualche parte. Quando David Hockney parla delle suepitture su tablet, capisco benissimo... 59 Blind with Anger di Ade Santora, Bekasi, Indonesia (secondo premio), g.c. Ma la verità è che, se non avessi saputo come quelle immagini erano state realizzate, vedendole sfilare sullo schermo o - le vincitrici - appese al muro del Museo di Rovereto (curiosa questa cosa, che al momento della loro consacrazione le immagini mobili escano dal regno della mobilità e diventino immobili come una volta...), difficilmente sarei riuscito a trovare qualcosa in comune fra loro (come invece è possibile visitando una mostra di Polaroid Art). Il fotofonino non lascia la sua impronta sulla superficie dell'immagine che ha partorito. Produce anzi immagini che spesso imitano stili fotografici già esistenti. Il fotofonino è stilisticamente camaleontico. Anche lo stile che gli sembra appartenere di più, quello dei filtrini Instagram, non è che una versione digitale del cross-processing,delle diapositive vintage e delle imperfezioni Lomo. Molte delle immagini che ho visto, infatti, tendono asomigliare a generi fotografico-artistici recenti e del passato, addirittura dell'era analogica. Alcune non sembrano neppure di origine fotografica, si direbbero opere "materiali" successivamente fotografate (con uno smartphone?). E dunque, esiste davvero la Mobile Art? Oppure è soltanto un'etichetta stampata sul contenitore, sull'imballaggio della scatola, sulla confezione che serve per attirare l'attenzione dei clienti in negozio, ma poi si butta via subito? Io penso che il legame fra mezzo e opera dopo tutto esista, è inevitabile che esista in qualsiasi opera visuale. Ma si rischia spesso di scambiare una cosa per l'altra. Davvero la novità che definisce la mobile art è la sua mobilità, la sua genesi attraverso un dispositivo che ci portiamo dietro ogni giorno? La mobile photography in sé non è nulla di nuovo nella storia della fotografia, è solo una mutazione dell'hardware, non erano già mobili più o meno tutte le fotocamere senza cavalletto? Magari quel mobile non è la parte dell'espressione mobile phone o mobile device, che sta per "apparecchio portatile". Forse mobile si riferisce non alla macchina, ma al suo prodotto, ovvero vuol suggerire che la cosa che si muove, la cosa in movimento è l'immagine stessa... 60 Remembrance di Fiona Christian, Heathfield, Gran Bretagna (terzo premio), g.c. Quel che fa la differenza in effetti non è il fotofonino. Senza il Web, il fotofonino sarebbe solo una fotocamera incastonata in un telefono, come era quando apparve per la prima volta, nel 2001. Quel che fa la differenza è la possibilità di condividere immediatamente e ubiquitariamente, anche mentre siamo in movimento, le immagini prese col foto-cellulare, di disseminarle, non in un rapporto uno-a-uno (il mms, cugino fotogrsafico del sms, ebbe poca fortuna) ma uno-a-molti, potenzialmente unoa-tutti. Dunque, come sa chi legge da più tempo queste pagine, la fotografia mobile è in realtà la fotografia della condivisione, della disseminazione, dello scambio ubiquitario, orizzontale, frattale e rizomatico (uh! nientemeno!). Purtroppo, sono pochi al mondo capaci di farci capire cosa sta succedendo alla fotografia nell’era della condivisione, e quale autentica rivoluzione antropologica, non solo estetica, sta introducendo nelle relazioni sociali e umane. Concentrarsi sulle opportunità che gli strumenti offrono agli artisti è indispensabile, fa parte dell'autocoscienza critica dell'autore. Per questo, l'evento di Rovereto è stato più che utile: come una rete che pesca quel che è disperso nel mare, ci ha messo sotto gli occhi cosa fanno gli artisti con i fotofonini e i tablet. Benissimo. Ma se poi ogni singolo artista non si confronta a sua volta con la rivoluzione antropologico-visuale che lo circonda, non la co prende, non la analizza nel suo vero impatto, ma si limita a imitarne qualche spunto formale, qualche suggestione estetica, allora credo che avremo una scena dell'arte in arretrato sul proprio tempo. Francamente credo che, a differenza che in altre epoche, per esempio con la pop art, quando era agli artisti che ci si rivolgeva come a sentinelle delle evoluzioni del visuale nella società di massa, gli artisti contemporanei di oggi siano abbastanza in difficoltà a tenere il passo con l'evoluzione impetuosa della cultura visuale. Temo che riescano tuttalpiù a mettersi sulla scia dei cambiamenti, a mutuare modalità e forme, non ad anticiparle, né a criticarle, né tantomeno a influenzarle. 61 Insomma, chiedo scusa se faccio il bastian contrario, ma almeno finora non credo che la Mobile Art sia stata in grado di dirci molto su quanto e come il nostro ambiente visuale in questi ultimi anni è stato terremotato dall'irruzione della mobile photography. [Questo testo rielabora gli appunti per il mio contributo all'incontro "Mobile Art: nuova frontiera della fotografia o moda passeggera?", assieme a Gianluigi Colin e Giancalro Beltrame, nell'ambito di Futuro Presente, Mart di Rovereto, 16 novembre 2014] Tag: Andy Warhol, David Hockney, Futuro Presente, Giancarlo Beltrame, iPhoneography, Luca Chistè,Maria Teresa Ferrari, Mart, Mobile Art, Nino Migliori, Polaroid Scritto in after photography, Go Digital, Immagine e Internet | Commenti » Letizia Battaglia: "La fotografia l'ho vissuta come salvezza e verità" di Paola Scaramozzino da http://www.rainews.it/ Letizia Battaglia è la più famosa fotografa italiana, conosciuta in tutto il mondo. Scrive nella prefazione del suo libro “Diario” (Castelvecchi editore,50 euro): “La fotografia l’ho vissuta come documento, come interpretazione e tanto altro ancora. L’ho vissuta come acqua dentro la quale mi sono immersa, mi sono lavata e purificata. L’ho vissuta come salvezza e verità”. 62 E Letizia è proprio ciò che descrive. Una donna a tutto tondo la cui vita privata, l’impegno civile e il suo lavoro sono l’uno parte dell’altra. Nasce a Palermo 80 anni fa , si sposa per amore a 16 anni, ha tre figli. Ma il matrimonio le va stretto e nel 1971 lascia la sua città per Milano, e inizia a collaborare con dei giornali anticonformisti dell’epoca (ABC e Le ore”) sia scrivendo che fotografando. Il direttore dell’Ora di Palermo la vuole nel suo giornale e Letizia torna in Sicilia per raccontare , attraverso l’obiettivo, più che con le parole e sempre e rigorosamente in bianco e nero, la realtà, spesso drammatica, del nostro Paese. In “Diario”, la sua storia con gli scatti più belli e quelli che hanno segnato un’epoca: le sue bambine incontrate per le strade di Palermo che raccontano la loro condizione di vita e le loro speranze solo con lo sguardo, o i morti ammazzati di mafia, ritratti nella mattanza. Racconta, illustrando una delle foto più famose, la “Bambina con il pallone”: ”Passeggiavo per una strada della mia città quando ho visto questa ragazzina che giocava con il pallone. L’ho spinta contro questa porta di legno e fotografata così: pallone in una mano e le mille lire nell’altra. Sguardo grave, profondo, quello dei sogni delle bambine. L’ho cercata per anni per sapere quale è stata la sua vita, ma non l’ho più trovata”. Letizia è sempre presente sulle scene di delitti di Cosa nostra, ma non vuole che si parli di lei solo come fotografa di mafia. La sua Palermo così martoriata le provoca grande sofferenza. Per questo non ha voluto documentare le stragi di Falcone e Borsellino. Un rapporto di odio e di amore con la sua città dalla quale è fuggita per poi tornare e viverci per sempre. Un balconcino al secondo piano di una palazzina dove vive quasi tutta la sua famiglia. Un osservatorio privilegiato dal quale ancora ha voglia di fermare gli sguardi delle bambine e delle donne, i suoi principali obiettivi. Perché, sostiene: “ Le donne sono capaci di esprimere qualcosa che gli uomini non sono capaci di esprimere. Un altro modo di vivere, esistere , di amare, di procedere nel mondo. C’èe una diversità nel raccontare il mondo”. - See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Diario-di-LetiziaBattaglia-4b73780e-e095-4be1-862d-c3c9cca4b5b0.html Franco Fontana Comunicato stampa da http://undo.net/ Vita Nova. Il progetto indaga il rapporto tra Eros e Thanatos attraverso 40 fotografie in bianco e nero, realizzate nel cimitero di Staglieno ad altrettanti monumenti funebri di scultori ottocenteschi. Vita Nova è un progetto che Franco Fontana, artista ottantenne, celebre per i suoi ritratti di nudi femminili, realizza tra il 2010 e il 2013, fotografando nel cimitero di Staglieno un corpus di monumenti ottocenteschi degli scultori Monteverdi, Bistolfi, Benetti, Cevasco, Orengo, Rota e Villa. Un modo personale di affrontare il tema della morte, che lo conduce a indagare il delicato rapporto tra Eros e Thanatos, rendendo attraverso la fotofrafia, rigorosamente in bianco e nero, le statue funebri parte di una sensualità e di una estetica che l e rende vive e suadenti. Quaranta fotografie esposte in mostra sono 63 capaci di fondere la monumentalità del luogo con la fantasia di un colpo d’occhio unico. “Mi hanno chiesto di fotografare il cimitero monumentale di Genova. Ho accettato la sfida, ma mentre scattavo mi rendevo conto che non stavo concludendo il mio stile. Ad un certo punto vedo dei bassorilievi di un erotismo spaventoso, in cui c’era tutto tranne che la morte. O meglio, a metà tra amore e morte, Eros e Thanatos. Da qui l’idea di “Vita Nova”, una sorta di “Antologia di Spoon River” a Staglieno. Un po’ richiamano i miei nudi, tanto sembrano vivi, e tanto i miei nudi sono classici. L’effetto solarizzato, simile alle rayografie di Man Ray, è dovuto allo strato di polvere che ricopre le statue.” A cura di Sabrina Raffaghello. Biografia Nato nel 1933 a Modena, città dove si riscontra già dall’inizio del Novecento una tradizione fotografica radicata, Franco Fontana si avvicina alla fotografia nei primi anni Sessanta, secondo un percorso comune a molti della sua generazione, ossia attraverso il mondo degli amatori ma in una città che è culturalmente molto attiva, animata da un 64 gruppo di artisti di matrice concettuale, seppure ancora agli esordi, tra cui vi sono Franco Vaccari, Claudio Parmeggiani, Luigi Ghirri e Franco. Guerzoni. Il lavoro di Franco Fontana condivide con questa corrente il bisogno di rinnovamento e di messa in discussione dei codic i di rappresentazione ereditati, in campo fotografico, dal Neorealismo, ma pone particolare attenzione e cura anche agli esiti visivi e alla componente estetica della sua ricerca. Nel 1963 avviene il suo esordio internazionale, alla 3a Biennale Internazionale del Colore di Vienna. Nelle fotografie di questo primo periodo si vedono in nuce alcuni di quelli che diverranno i suoi tratti distintivi. Soprattutto, c’è una scelta di campo - per il colore - decisamente controcorrente rispetto alla maggioranza dei suoi colleghi. Nel 1970 Franco Fontana scatta un’immagine-simbolo del suo repertorio, a Baia delle Zagare, in Puglia: una composizione pulita, ritmata da fasce di colore, giocata su pochi toni cromatici, essenziale, sintetica, che sarà impiegata per una campagna del Ministero della Cultura Francese. Nel 1979 intraprende il primo di una lunga serie di viaggi negli Stati Uniti: Fontana non approda a nessuna rivelazione, bensì applica il suo codice linguistico, ormai consolidato, a un ambiente urbano altro, rispetto alla sua Modena, ma non per questo alieno o incomprensibile. Qualche anno dopo, nel 1984, inizia la serie Piscine: porzioni di sinuosi corpi di donna (e a volte d’uomo), esaltate da colori squillanti, in uno spazio conchiuso, sospeso, di cui spesso non vediamo i confini. Nel 2000 inizia la serie dei Paesaggi Immaginari, in cui l’invenzione sul reale arriva ai massimi livelli, rendendo chiaramente manifesto il sottile inganno teorico sotteso alla produzione precedente. In questo caso, il fotografo, ch e non disdegna la tecnologia digitale, riafferma la propria libertà interpretativa della realtà tramite l’immaginazione. La sua lunga carriera è costellata di riconoscimenti, premi e onorificenze in tutto il mondo, sono più di quattrocento le mostre in cui sono state esposte le sue fotografie e più di quaranta i volumi pubblicati. "Per me la fotografia non è né un mestiere né una professione, ma è la realtà della mia vita, dopo gli affetti della famiglia e dell’amicizia. È quella scelta che mi dona la qualità della vita, perché la vivo con entusiasmo e creatività, esprimendomi per quello che penso, testimoniando quello che vedo e che sono. Fotografare è un atto di conoscenza: è possedere. Quello che si fotografa non sono immagini ma è una riproduzione d i noi stessi. La creatività non illustra, non imita, ma interpreta diventando la ricerca della verità ideale. La fotografia creativa non deve riprodurre ma interpretare rendendo visibile l’invisibile. La forma è la chiave dell’esistenza, ed io cerco di esprimerla fotografando lo spazio, in correlazione con le cose coinvolte in esso. Lo spazio non è ciò che contiene la cosa ma ciò che emerge in relazione della cosa. Tutto ciò che ci circonda può venire ripreso per essere testimoniato con significato. Camilla Talfani Ufficio stampa Palazzo Ducale - Tel. 0108171612- Fax 0108171601 65 Fino al 6 Gennaio 2015 al Palazzo Ducale - piazza Matteotti, 9 - Genova Orario: mart – dom dalle 10 alle 18 - Ingresso libero Mappatella beach e la sua tribù: gli scatti napoletani di Martin Parr di Fuani Marino da http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/ Da Trisorio il lavoro del fotografo britannico NAPOLI - Luogo simbolo del degrado cittadino nella bella stagione — quest’estate tomba di un ragazzo tredicenne caduto dagli scogli, poi nel mirino di ambientalisti per lo sversamento di rifiuti provenienti dal porto e trasportati dalla corrente — Mappatella beach è ora protagonista di una mostra fotografica. Il lembo di spiaggia preso d’assalto da una certa classe di napoletani, e di cui buona parte della città non va certo fiera, è stato immortalato dall’artista britannico Martin Parr, insieme ad altri luoghi del turismo campano. Ci sono Amalfi, Sorrento, Capri e Pompei, mete vacanziere che per il fotografo diventano cartina da tornasole per evidenziare le differenze fra diverse classi sociali nel modo di comportarsi e di vivere una giornata di villeggiatura. Parr, che ama definirsi un «cronista del nostro tempo», ha realizzato fra la primavera del 2013 e l’estate appena trascorsa i circa venticinque scatti esposti allo Studio Trisorio della Riviera di Chiaia (inaugurazione domani alle 19). Ma se la mostra s’intitola «Amalfi Coast», diverse fotografie ritraggono il carnaio di Mappatella beach, e forse non c’è da stupirsi, dal momento che quest’ultima figura fra gli intrattenimenti cittadini e le cose da vedere consigliati da Trip Advisor, celebre sito dedicato al turismo, in cui gli utenti stessi possono postare la propria opinione su luoghi, hotel e ristoranti. Quella spiaggia rientra a pieno titolo fra i luoghi icona dell folklore napoletano che malgrado tutto continua ad attrarre, soprattutto artisti stranieri. Si pensi a John Turturro, che nel suo film «Passione» sulla musica partenopea, ha prediletto quartieri e volti della Napoli più popolare, regalando 66 un’immagine piuttosto stereotipata. Analogamente Parr, col suo sguardo ironico, racconta il lato più grottesco del turismo vacanziero, osservando persone in spiaggia o fra reperti archeologici. MARTIN Parr, scatti da «Amalfi Coast» Qual è l’intenzione della mostra, che sembra voler dissacrare mete turistiche come Capri, Sorrento, Amalfi e Pompei attraverso i personaggi che le popolano? «Non ho fatto un lavoro di propaganda o di promozione di quei luoghi. Posti come Capri e Sorrento hanno avuto un tale successo che per certi versi ne sono diventati vittime. Ma il mio intento non è dissacrare, ho semplicemente fatto vedere com’è la vita reale in quelle zone, catturandone tutti gli aspetti». Mappatella BEACH non rappresenta propriamente un bello spettacolo. Cosa l’ha colpita in particolare? «Ho semplicemente fotografato quello che c’era: ci sono spiagge con tutti i tipi di persone. Nel mio lavoro cerco di essere molto democratico, sono interessato a tutti i ceti sociali». Quali sono i comportanti che l’hanno ispirata e quali le principali differenze fra le classi sociali nel loro rapporto con la città? «Mi piace osservare le persone e quello che fanno. Gli italiani, e i napoletani in particolare, sono una “tribù” molto interessante da fotografare, hanno gran classe. Qualsiasi cosa fanno per me è interessante, e ogni ceto sociale ha abitudini diverse. Quello mi interessa è il comportamento umano, rappresenta un ottimo soggetto che non mi annoierà mai». © RIPRODUZIONE RISERVATA L'insolita banalità del mondo di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Succede una cosa strana, ultimamente, a Stephen Shore. Gli spettatori delle sue fotografie hanno reazioni diverse da prima. Stephen Shore, Puzzle a mosaico nella cabina n.8, Beach Motel, Ashland, Wisconsin, 9 luglio, 1973, ©Stephen Shore. Courtesy 303 Gallery, New York 67 Quando negli anni SettantaShore fotografava le main street desolanti delle cittadine americane di provincia, le insegne di drugstore, le auto parcheggiate, i distributori di benzina, le camere di motel, i visitatori delle sue mostre borbottavano: «Ma perché fotografa questa roba? È quel che vediamo tutti i giorni, che c’è di strano?». Bene, quarant’anni dopo i visitatori, magari gli stessi, frugano quelle foto, incantati da un paraurti cromato, un poster di cinema, i prezzi nelle vetrine. L’insignificante, riconfezionato dagli anni, diventa significativo. È l’abracadabra della fotografia, arte del tempo che cambia nel tempo. Ma questo non disturba affatto Shore, gran vedente del paesaggio americano, ma anche gran pensante dell’immagine. Lui lo sapeva da allora, che fotografando il banale si ottengono immagini sovra-banali, dove il senso aspetta il momento giusto per venire a galla. Teorico della snapshotness, lo stile dell’istantanea, nelle sue lezioni di fotografia insegna che le foto non mostrano oggetti, sono oggetti; non registrano eventi, sono eventi. Che l’immediatezza delle fotografie “spontanee”, anche quelle che prendiamo con i nostri telefonini, è una modalità estetica come le altre. Che premeditare fotografie “deliberatamente spontanee”, come le sue, è un modo per capire come funzionano le fotografie nelle nostre vite. Stephen Shore, American National Bank Building, 197, ©Stephen Shore. Courtesy 303 Gallery, New York Ora sappiamo come hanno funzionatonella sua. Una monografia “definitiva” sul lavoro di Stephen Shore esce in Italia da Contrasto con una lunga intervista all’autore. Americano di New York, generazionepostbellica, stampava le foto di papà in camera oscura prima di averne mai scattata una. Ma a quattordici anni si sentiva già così completo come fotografo da osare presentarsi spudoratamente davanti alla scrivania di Edward Steichen al MoMa, come dire davanti al papa in Vaticano, per mostrargli le sue stampe (e lui - che tempi erano quelli - gliene comprò tre). 68 A diciotto anni era il fotografo ufficiale(se qualcosa di ufficiale c’era lì dentro) della Factory di Andy Warhol. Respirava l’ariabeat, ma il suo mito era Walker Evans, il padre dello “stile documentario”, bell’ossimoro no?, e da quell’incrocio spericolato fra pop e freddezza analitica cominciò a fare il ritratto del paesaggio americano. Ogni sua foto tenta una soluzione del più clssico dilemma visuale: cosa voglio mostrare? E che strumenti formali ho a disposizione per farne un’immagine? Stephen Shore, U.S. 97, Sud delle Cascate Klamath, Oregon, 21 luglio, 1973, ©Stephen Shore. Courtesy 303 Gallery, New York Scelse il colore quand’era proscritto dai saloni e dai soloni della foto “importante”, lo usò come un guanto da boxe, saturo e invadente, aiutato dalle carrozzerie folli dei sixties, dalla luce del sud-ovest Usa, quei cieli azzurri che caricava fino al blu da cartolina (ne produsse anche, di finte-vere cartoline, e andò a distribuirle ai tabaccai). Usava macchinette da poco, talvolta una Mick-o-Matic, latoy camera con la faccia di Topolino. I suoi Uncommon Places, incroci, parcheggi, supermercati, sono i luoghi comuni dell’immaginario americano e, per estensione imperiale, del nostro: per questo li riconosciamo benissimo. Ma il suo sguardo era come quello che negli stessi anni un architetto senza pregiudizi come Robert Venturi (col quale finì per collaborare) gettava sulla stravagante architettura commerciale, invitando i colleghi a “imparare da Las Vegas”. Accomunato alla scuola dei “nuovi topografi”, Shore in realtà fece la sua strada. Imparò che la finta trasparenza delle sue immagini veniva equivocata, presa per vera, che i visitatori si fermavano lì, alla cartolina. Stephen Shore, New York City, 2000-02, ©Stephen Shore. Courtesy 303 Gallery, New York 69 Allora scartò di lato: cominciò a usare i medi e grandi formati. Lasciò il colore, ormai trionfante anche nelle gallerie di fotoarte, per tornare al bianco/nero, ritornato “straniante”. E quando fu l’ora del digitale,non esitò. E quando arrivò l’era della condivisione, neppure. La sua sfida più eccentrica: realizzare un libro in un giorno scelto dal caso (ovvero, ogni volta che il New York Times faceva un titolo di prima pagina a sei colonne), lavorando su quel che aveva intorno in quel momento, ovunque si trovasse. Ne usciva un libro stampabile on demand, per i primi cento o duecento fortunati. Ne ha fatti 83, così. La sua sfida più imprevedibile: raccontare gli ultimi superstiti dei Lager nazisti nei villaggi poveri dell’Ucraina. Consapevole che la fotografia è un foglio di carta con macchie di colore, ma può contenere sentimenti, e «le persone possono provare sentimenti anche per le stazioni di benzina, ma fotografare l’Olocausto è un’altra cosa». [Una versione di questo articolo è uscita su Il Venerdì di Repubblica il 7 novembre 2014] Tag: Alfred Stieglitz, Andy Warhol, Edward Steichen, Factory, istantanea, Las Vegas, new topographers,olocausto, paesaggio, Robert Venturi, snapshot, sovra-banale, Stephen Shore, Ucraina, Walker Evans Scritto in Autori, cartoline, colore, paesaggio | Commenti » Stefano Robino Comunicato stampa da http://undo.net Il fare, il limite, la bellezza. Alle origini di un'Italia industriale. L'esposizione presenta 45 fotografie, per lo piu' vintage prints, dagli esordi dell'autore su Life del 1951 a L'Europeo del 2012, oltre a documenti e riviste. Stefano Robino, Basse di Stura, 1969, cm 16,7 x 23,5 70 L’esposizione presenta 45 fotografie, per lo più vintage prints, dell’autore torinese, dagli esordi su LIFE del 1951 a L’Europeo del 2012, oltre a documenti, riviste e materiali pubblicitari originali. Dal 25 novembre 2014 all’8 febbraio 2015 al CMC - Centro Culturale di Milano (via Zebedia 2) si tiene la mostra Stefano Robino. Il fare, il limite, la bellezza. Alle origini di un’Italia industriale. L’esposizione, curata da Enrica Viganò e Camillo Fornasieri, col patrocinio della Regione Lombardia e del Comune di Milano, è la seconda tappa della trilogia “l’uomo e il fare”, sviluppata da CMC in collaborazione con Admira, che rappresenta un ideale approccio fotografico ai contesti di lavoro nelle nostre società. Stefano Robino lavorava nel cuore di quell’Italia industriale che nel dopoguerra stava ripartendo con tutta la fiducia in un futuro migliore dopo gli anni bui della guerra. Dal suo punto di vista privilegiato - responsabile fotografico e pubblicitario della FIAT Grandi Motori a Torino e Trieste - l’autore riuscì a cogliere la vita dei lavoratori e la potenza delle macchine in una interconnessione in cui l’orgoglio del fare si fonde con il vigore del costruire. Una rassegna inedita che raccoglie 45 fotografie, per lo più vintage prints, di Stefano Robino, dagli esordi su LIFE del 1951 a L’Europeo del 2012, presentate insieme a documenti, riviste e materiali pubblicitari originali di un’epoca che inizia a guardare alla fotografia come mezzo privilegiato della comunicazione. La vita e i motori dei poli industriali del Nord Italia, dove si intreccia la vicenda biografica di Robino, offrono all’autore l’occasione di sperimentare una nuova cifra nel linguaggio fotografico che non lascia spazio all’interpretazione melensa e punta invece sull’oggettività del racconto. Le opere di Robino, stimato autore fin dal suo esordio nel mondo della fotografia, rispecchiano la sua formazione come pittore nella Torino degli anni ’40 e segnano anche uno scarto e una novità rispetto al panorama dell’epoca dominato dai circoli fotografici amatoriali alla ricerca di una sintesi tra arte e documento. “Fotografo - dichiara Robino - con lo stesso spirito col quale si scolpisce un marmo. Cerco di scavare le mie luci ed ombre e ricavare, con cose vive, quelle forme che tanto mi appassionano”. La mostra propone fotografie in bianco e nero con tratti sperimentali e classici che si alternano a prova della grande maestria di Robino anche in camera oscura. Con Robino la fotografia fa il suo profetico ingresso all’interno di cantieri e delle Officine Grandi Motori in un confronto tra uomo e macchine grandi come nuove cattedrali. Una fotografia, a livello estetico e culturale, che sembra rieditare quei momenti e quella stagione del primo ‘900 mostrando invece tutta la nuova problematica di aspettative e clima umano, insieme alle mutazioni del nascente paesaggio industriale e delle periferie. Stefano Robino, famoso fin dalla pubblicazione su LIFE per i suoi ritratti e scorci con bambini, instaura un’analoga immedesimazione nel rapporto tra 71 l’uomo e la macchina, nell’industria come ‘luogo’ e come manufatto monumentale, cogliendo il limite e il fascino dei suoi nuovi ambienti. L’esposizione è uno degli appuntamenti della rassegna “Milano Cuore d’Europa” promossa dal Comune di Milano, configurandosi come una tappa di visione storica, educazione e rilettura della nostra cultura del fare, tipica della metropoli ambrosiana. Robino, come espresso da alcuni suoi critici, mette in luce tutto questo: “… con segni capaci di tramandare messaggi mai superficiali, intimi ma utili, sentiti, commossi ma sorvegliati, conferma nell’arco di oltre trent’anni intelligenza e non comune coerenza, profondo rigore e capacità creativa” (Dario Reteuna). Accompagna l’iniziativa un catalogo della collana I Quaderni del CMC, n.8, Admira Edizioni, con un saggio di Franco Loi. A corollario, saranno organizzate proposte educative e didattiche con visite guidate a tema dalla storia della fotografia, alla nascita di un’Italia industriale, al rapporto con la storia della società. Stefano Robino. Note biografiche Nasce nel 1922 a Torino, dove ancora risiede. Nel 1939 inizia la professione come disegnatore tecnico alla FIAT Grandi Motori. Comincia a fotografare nel 1940. Dopo la guerra, nel tempo libero, frequenta gli studi dei pittori Sartorio e Spazzapan. Si dedica all’attività di pittore esponendo in mostre personali e collettive. Aderisce alla Sezione fotografica del «Gruppo Sportivo Culturale FIAT», facendosi coinvolgere nella vita espositiva e culturale del gruppo stesso. Le sue immagini mediate attraverso mostre e una cospicua periodistica, nazionale e internazionale, gli varranno in tutto il mondo molti premi, consensi e notorietà. Arricchisce la sua visione all’interno degli oggetti di altre realtà facenti parte del suo vissuto, dei percorsi di vita collettivi e soprattutto guarda al mondo del lavoro e della vita sociale (brefotrofio, lavoro protetto), della periferia cittadina e del nuovo nascente paesaggio industriale. Nel 1965 diventa responsabile del laboratorio fotografico della FIAT Grandi Motori di Torino, e tra il 1971 e il 1974 è responsabile dell’Ufficio Pubblicità della Grandi Motori Trieste. Le sue fotografie sono state pubblicate da riviste di tutto il mondo, quali LIFE, US Camera, ModernPhotography, Popular Photography, LEICA Fotografie, La Stampa, Ferrania, L’Europeo, Rivista Italiana, Progresso Fotografico, e molte altre. Nel 2002 i nuovi uffici della Direzione, Organizzazione, Pianificazione, Sviluppo e Gestione delle Risorse Umane della Regione Piemonte, sono stati interamente arredati con 100 suoi grandi pannelli fotografici. Info, prenotazioni e visite guidate: +339 02 86455162, [email protected] Ufficio stampa CLP Relazioni Pubbliche Anna Defrancesco, tel. 02 36 755 700; [email protected] Centro Culturale di Milano - CMC - via Zebedia, 2 - Milano Lombardia Italia Orario: da lunedì a venerdì, 10-13 / 15-19 - sabato e domenica, 16-20 Ingresso gratuito, gradita offerta libera 72 Ugo Mulas Comunicato stampa da http://undo.net/it The Sensitive Surface. La mostra, visitabile sino al 16 febbraio 2015 a Milano alla Galleria Lia Rumma presenta i lavori fotografici sviluppati sul finire degli anni '60: nere foto , stampate direttamente dai negativi vuoti che sfidano il linguaggio e la temporalita' della sequenza fotografica. Sono inoltre proiettati due rari filmati. 73 La Galleria Lia Rumma è lieta di annunciare l’inizio della collaborazione con l’Archivio Ugo Mulas con una doppia personale di Ugo Mulas che si articolerà contemporaneamente nelle due sedi espositive della galleria, a Napoli in Via Vannella Gaetani 12 e a Milano in Via Stilicone 19. Curata dalla newyorkese Tina Kukielski, la mostra intende presentare al pubblico la variegata ricerca artistica di Mulas, una delle figure più importanti della fotografia internazionale del secondo dopoguerra. Al momento della sua prematura scomparsa nel 1973, Mulas è stato riconosciuto come uno dei maestri del ritratto, del reportage, della fotografia di moda e pubblicitaria, fotografando, durante uno dei periodi più dinamici della storia dell'arte, gli Anni ’60, artisti del calibro di Jasper Johns, Alexander Calder, Andy Warhol, Marcel Duchamp e innumerevoli esponenti dell’avanguardia italiana come Lucio Fontana. Le mostre presso la Galleria Lia Rumma vogliono invece porre l’attenzione sull’intenso periodo di sperimentazione compreso tra il 1969 e il 1973 e sulla personalissima ricerca dell’artista volta ad esplorare le potenzialità “concettuali” della fotografia sul finire degli Anni ’60. In riferimento a questo periodo sono stati selezionati per le due mostre alcuni lavori inediti dell’artista, tra cui anche alcune fotografie a colori oltre ai famosi provini a contatto. In galleria a Napoli saranno esposti alcuni provini a contatto, come le rare sequenze di Jasper Johns, Roy Lichtenstein, Pino Pascali e Andy Warhol, insieme a una selezione di fotografie tratte dalla serie Campo Urbano. Il provino è stato senza dubbio il ready-made costante di tutta la sua carriera, un soggetto ricorrente nel lavoro di Mulas, soprattutto dopo il fondamentale viaggio a New York City del 1964. Nel 1969, collaborando con Bruno Munari e Luciano Caramel, Ugo Mulas organizza Campo Urbano, una serie di interventi estetici, performances ed eventi che hanno avuto luogo per le strade di Como. Riconoscendo la fotografia come intrinsecamente “performativa”, Mulas r ealizza una sequenza di immagini dal taglio particolare giocando con l'imprevedibilità, la qualità effimera degli interventi. Le foto stampate dall’artista e gli ingrandimenti dei provini a contatto danno vita ad un diverso Campo Urbano che finisce per sovvertire la narrazione, l’inquadramento cronologico dell'evento, per diventare qualcosa di completamente diverso, un altro tipo di opere d'arte o di esperienza. A Milano invece saranno presentati i lavori fotografici precedenti alla serie più nota dell’artista, le Verifiche, esposta anche questa in mostra. Conosciute come le Prove delle Verifica, queste nere fotografie, stampate direttamente dai negativi vuoti, sfidano il linguaggio e la temporalità della sequenza fotografica, aprendo la fotografia a qual cosa di più della mera registrazione di un momento, di un tempo o di un luogo. Concentrandosi sulla struttura del fare fotografia, Mulas ci presenta un nuovo interessante lato dell'arte, ancora oggi attuale come lo era al momento della prima “esposizione”. 74 Nelle due sedi espositive saranno inoltre proiettati due rari filmati: a Napoli un VIDEO relativo al progetto Campo Urbano e a Milano un documentario girato da Nini Mulas presso gli studi di alcuni artisti newyorkesi con interviste di Rossana Rossanda. Ugo Mulas (Pozzolengo, 1928 - Milano, 1973) La sua formazione di autodidatta si compie a contatto con l’ambiente artistico e culturale milanese dei primi anni cinquanta. Dopo il debutto nel fotogiornalismo (1954) Mulas si impone rapidamente nei più diversi campi del professionismo italiano pubblicando in riviste come Settimo Giorno, Rivista Pirelli, Domus, Vogue e Du. In quegli anni il fotografo realizza una serie di reportage in Europa con Giorgio Zampa per L’Illustrazione Italiana e lavora con il Piccolo Teatro di Milano, sviluppando una collaborazione artistica con Giorgio Strehler che proseguirà negli anni. Ugo Mulas fotografa le edizioni della Biennale di Venezia dal 1954 al 1972 e intraprende un’intensa collaborazione con gli artisti. In quegli anni la rappresentazione del mondo dell’arte diventa il principale progetto personale del fotografo. Ricordiamo tra l’altro le celebri serie su Alberto Burri (1963) e Lucio Fontana (1965) e il reportage a Spoleto per la mostra “Sculture nella città” (1962), dove si lega agli artisti David Smith e Alexander Calder. Dopo la rivelazione della Pop Art alla Biennale del 1964 Mulas decide di partire per gli Stati Uniti (1964 -1967) dove realizza il suo più importante reportage con il libro New York arte e persone (1967). Gli incontri con Robert Rauschenberg, Andy Warhol e la scoperta della fotografia di Robert Frank e Lee Friedlander portano alle nuove ricerche della fine degli anni sessanta e al superamento del reportage tradizionale. I grandi formati, le proiezioni, le solarizzazioni, l’uso dell’iconografia del provino, sono elementi che Mulas recupera dalle sperimentazioni pop e new dada e dalla pratica quotidiana del fotografare. Alla fine degli anni sessanta partecipa al rinnovamento estetico e concettuale delle neoavanguardie collaborando a cataloghi e libri-documento. Di questo periodo il reportage sul decimo anniversario del Nouveau Réalisme (Milano, 1970), il progetto inedito su “Vitalità del negativo” (Roma, 1970) e almeno altri cinque libri: Alik Cavaliere (1967), Campo Urbano (1969), Calder (1971), Fausto Melotti: lo spazio inquieto (1971) e Fotografare l’arte (1973). La cri si del reportage, ormai superato dal mezzo televisivo, porta Mulas a uno straordinario lavoro di ripensamento della funzione storica della fotografia: una riflessione estetica e fenomenologica che conduce al portfolio Marcel Duchamp (1972) e al progetto Archivio per Milano (1969-72). Sono gli anni che vedono anche la nascita delle Verifiche (1968 -1972), una serie fotografica che sintetizza in dodici opere l’esperienza di Mulas e il suo dialogo continuo con il mondo dell’arte. Opera cardine della ricerca fotografica del periodo, le Verifiche, sono l’ultimo lavoro del fotografo prima della scomparsa, avvenuta il 2 marzo 1973. Immagine: Ugo Mulas: L'operazione fotografica. Autoritratto per Lee Friedlander, 1971. Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Photo Ugo Mulas © Ugo Mulas Heirs. All rights reserved. Courtesy Archivio Ugo Mulas, Milano - Lia Rumma Gallery, Milan/Naples 75 Galleria Lia Rumma - via Stilicone, 19 - Milano Lombardia Italia, orari: martedìsabato 11.00–13.30 e 14.30-19.00 - ingresso libero Immaginare i colori di Bob di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Ma quali sono i "veri" colori di Bob Capa? Be', oggi come oggi, in molti casi sono questi che vedete: rosa fangoso, rossiccio, bruno, magenta sbiadito. Certo, la riscoperta (ma non era un mistero: semplicemente un'amnesia o una trascuratezza degli storici) che "il più grande fotografo di guerra" scattasse anche e spesso a colori (Fotocrazia ne parlò a suo tempo) è apparsa "sorprendente e sbalorditiva" ai più, come ripete Cynthia Young nell'introduzione al volume Robert Capa Colore che le presenta al grande pubblico, edito ora anche in Italia. Ma i colori inaspettati del finora monocromatico Erodoto della lente non sono stati soloriscoperti: in diversi casi sono stati piuttosto ricostruiti. Se torno sull'argomento è perché una doverosa e onesta nota filologica che appare a pagina 15 del volume ha attirato la mia attenzione. Ha per titolo "La correzione del colore". Vale la pena leggerla con attenzione. 76 Robert Capa, Famiglia lappone, Norvegia, 1951, versione con colori modificati. In alto, l'Ektachrome originale nel telaio in cartoncino nero della Magnum. © International Center of Photography / Magnum Photos, g.c. Veniamo informati, per prima cosa, che le pellicole invertibili usate da Capa in diverse occasioni dal 1941 in poi erano di diverso tipo, e resistettero diversamente ai danni del tempo. Le Kodachrome, a quanto pare, erano più robuste, sono rimaste quasi come erano in origine. Le Ektachrome, invece, si sono degradate, a volte in modo disastroso. Probabilmente qualche sospetto sulla diversa stabilità delle emulsioni era già corrente all'epoca, ma l'Ektachrome aveva un vantaggio che la faceva preferire alla cugina: mentre la Kodachrome, pensata per il consumo familiare, aveva bisogno di uno sviluppo complesso, disponibile solo in laboratori industriali specializzati, la Ektachrome poteva essere processata anche in laboratori fotografici normali, reperibili sul posto, purché minimamente attrezzati: e questo era decisamente un vantaggio, per un reporter in viaggio. Ma un bel guaio per i posteri. Aprendo le buste dormienti da tempo negli archivi dell'Icp, scrutando nei telaietti neri, i ricercatori si sono trovati di fronte un certo numero di diapositive brumose e quasi monocrome. Che fare? Bene, è ovvio: sono stati ricostruiti i colori. "Riportati in vita", dicono i curatori. Un'operazione che solo vent'anni fa sarebbe stata quasi impossibile, ma che con i softwaredi elaborazione odierni è comunemente praticabile, come è noto a tutti. Bene, mentre per le Kodachrome, ci vien detto, sono state necessarie solo "correzioni minime" (ma quali? E quanto minime?), sulle altre i tecnici si sono messi al lavoro per "restituire alla pellicola colore sufficiente per renderla adeguata alla propria epoca". Quanti interrogativi si aprono in una sola frase. Restituire. Sufficiente. Adeguata. Sotto ciascuna di queste parole si spalanca un abisso di arbitrarietà. Che i restauratori, a loro merito, non negano affatto. Leggiamo: "Si è provveduto allora al bilanciamento dei colori noti (bianchi, neri, cielo e fogliame), cosicché molti altri colori si sono regolati di conseguenza. Nei casi più gravi, il colore si era deteriorato al punto che era impossibile capire quale fosse in origine. Alcune foto, o altre simili, erano state pubblicate nelle riviste, e il confronto ha permesso di ricavare importanti parametri di riferimento. 77 Tuttavia, in alcuni casi, le riviste erano intervenute a loro volta sul colore e non sempre le loro immagini corrispondevano esattamente all'originale". Insomma, è evidente e dichiarato che si è trattato non di un restauro, ma di un vero e proprio lavoro interpretativo, di un intervento di ricostruzione critica e quasi archeologica. Con enormi margini di soggettività nelle scelte, a dispetto di ogni benintenzionato tentativo di raggiungere una qualche oggettività. "Colori noti"? Ma noti a chi? Il "fogliame"? Ma come facciamo a sapere di quale verde fosse quel particolare albero o cespuglio quel giorno? E cosa ce ne importa di saperlo, visto che non è il colore reale di quel cespuglio che vogliamo ritrovare, ma la sua trasposizione nella pellicola come Capa lo vide e lo volle? Dicono più avanti i restauratori: "Naturalmente il cielo non poteva essere che blu".Naturalmente, ma che significa? Il cielo ha naturalmente sempre lo stesso blu? E il cielo fotografato su Ektachrome, che blu ha? Lo stesso del cielo Kodachrome? Certo, ci sono le fotografie a colori pubblicate nelle riviste: ma avere questo punto di riferimento complica le cose, non le semplifica. Basta vedere il confronto, nelle pagine del volume, fra le riproduzioni (attenzione: anche queste sono riproduzioni, di secondo grado...) delle diapositive originali ben conservate e le loro versioni pubblicate per comprendere che le immagini che i lettori vedevano erano ben diverse dalle rispettve matrici. E allora la domanda è: i "colori di Capa" che si è cercato di ricostruire quali sono, quelli delle pellicole che nessuno vide mai, se non i tenici di laboratorio e di tipografia, oppure quelli che tutti videro, stampati sui rotocalchi, che sono in realtà il vero "lavoro finito" di Capa? Quindi, al di là di tutte le enfasi sul miracoloro "ritrovamento" del Capa policromo, del Capa Maestro del Colore, la saggia realtà di un'operazione come questa (ripeto: niente affatto mascherata da chi l'ha fatta, e questo va a loro onore intellettuale) è quella di unareinvenzione del colore di Capa, sicuramente consapevole e giudiziosa, ma condotta secondo i criteri, i giudizi e i gusti della nostra epoca, non della sua. Con tutta l'attenzione filologica possibile, ma anche con l'onestà di ammettere che certi aspetti di quelle foto "sono andati perduti per sempre" e possono essere solo ricostruiti, cioè immaginati, come le parti mancanti di un vaso greco, "con discrezione" più che con fedeltà. Detto questo, non abbiamo qualcosa in meno. Direi che abbiamo qualcosa in più. Abbiamo un pezzo di storia del fotogiornalismo riportato allo spessore, alla complessità e alle contraddizioni di un linguaggio specifico e condizionato, oltre la finta "immediatezza" che il colore suggerirebbe. Ci facciamo poi un'idea di quel che fece Capa quando provò davvero a considerarsi "un fotografo di guerra disoccupato", quando accettò commissioni per riviste "leggere" di viaggi e di bel mondo, come Holiday, che gli chiedevano reportage interi tutti a colori (e non quasi solo per le copertine, come Life e gli altri "seri"), e gli offrivano pure spazio per esercitare la penna. Ecco, devo dire che una delle sorprese più divertenti di questo volume è la scoperta dello stile di Capa scrittore: quello stile ironico, quell'understatement sornione che già traspariva dalla sua autobiografia spericolata, in questi servizi lontani dalle notizie e dal clangore della storia si fa quasi maniera. Una specie di Hemingway senza fanfare, allusivo ed ammiccante, guascone ed elegante. Un piccolo esempio? Il racconto dell'incontro fra il fotografo amante del rischio, della vita mondana e delle belle donne, in una desolata Norvegia, con 78 una renna che diventa il suo malinconico alter-ego: "Era triste quanto lo ero io. Aveva un assoluto bisogno di ritrovare il sole di mezzanotte e l'erba fresca. Io almeno ho potuto fare la foto di una renna affamata. Lei non ha potuto fare niente". Pagine il cui colore non è stato necessario ricostruire. Vantaggio della parola scritta sull'immagine impressionata. O forse no, perché alla fin fine quel che conta è la risonanza che le parole come le immagini suscitano nella mente di ogni singolo lettore. Tag: Cynthia Young, Ektachrome, fotografia a colori, Holiday, Icp, Kodachrome, Life, Magnum, Robert Capa Scritto in colore, Venerati maestri | Commenti » Rassegna Stampa del Gruppo Fotografico Antenore www.fotoantenore.org [email protected] a cura di G.Millozzi www.gustavomillozzi.it [email protected] 79
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