Carlos Fuentes Vlad Traduzione di Ximena Rodriguez Bradford www.ilsaggiatore. com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore © il Saggiatore S.p.A., Milano 2012 Copyright © 2004, 2012 by Carlos Fuentes. By arrangement with the author. All rights reserved. Per la traduzione di Ximena Rodriguez © 2011 Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A., Roma Titolo originale: Vlad VLAD L’OPERA – Nell’anno del 1448 Vlad Tepes sale al trono della Valacchia. Il suo regno resiste immutato allo scorrere del tempo. Nel corso dei secoli dà alle fiamme castelli e villaggi, prende in ostaggio popoli interi e fa impalare donne e bambini. Interra uomini, li fa decapitare, li arrostisce come maiali o li sgozza come agnelli. Quando una delle sue amanti si dichiara gravida per trattenerlo a sé, Vlad le squarcia il ventre. Il suo regno è eterno. Il suo regno è oggi. Nella babelica Città del Messico la vita di Yves Navarro scorre placida: è un uomo felice, con un buon lavoro e una splendida famiglia. Un giorno, di colpo, il destino lo trascina su lidi mai immaginati: di fronte all’uomo che regna non solo sul tempo, ma sull’eternità tutta. Opera poliedrica, Vlad gioca con i tòpoi del romanzo gotico e intesse una fitta rete di richiami ai classici del genere, da Bram Stoker a Sheridan Le Fanu, e a film come Nosferatu di Murnau e Dracula di Tod Browning. Affresco di Città del Messico e delle sue contraddizioni, scavo nella vita sentimentale di una coppia borghese, meditazione sulla perdita, il romanzo stupisce per le invenzioni stilistiche di Fuentes, capace di eccessi granguignoleschi come di slanci lirici, e arricchisce il mito del vampiro con un Dracula personalissimo, simbolo della paura della morte e dell’aspirazione dell’uomo all’eternità. 9 L’AUTORE – Carlos Fuentes è uno dei grandi maestri della letteratura messicana e uno dei più importanti autori contemporanei. Ha ricevuto tutti i riconoscimenti più significativi per un autore di lingua spagnola, fra cui il Premio Miguel de Cervantes, il Premio Príncipe de Asturias de las Letras, il Premio Internacional don Quijote de La Mancha e la Gran Cruz de la Orden de Isabel la Católica, oltre al Grinzane Cavour e il Premio letterario Giuseppe Acerbi in Italia. Romanziere, critico letterario, sceneggiato re cinematografico, giornalista, membro del Colegio Nacional, è stato ambasciatore del Messico in Francia; per il Saggiatore sono usciti i romanzi La morte di Artemio Cruz, Aura, L’ombelico della luna, Gli anni con Laura Díaz, L’istinto di Inez, Le relazioni lontane, Il trono dell’aquila; le raccolte di racconti Storie per vergini, L’albero delle arance e Tutte le famiglie felici; i saggi Tutti i soli del Messico, Geografia del romanzo e Contro Bush, oltre all’autobiografia letteraria In questo io credo. 10 A Cecilia, Rodrigo e Gonzalo, piccoli mostrologi di Sarriá. Dormi mia bambina che arriva il coyote con un gran bastone e le fauci vuote… Canzone infantile messicana Uno «Non la disturberei, Navarro, se Dávila e Uriarte fossero a portata di mano. Non li definirei suoi inferiori – o meglio, suoi subalterni – ma affermerei senz’altro che lei è il primus inter pares o, per dirla in termini anglofoni, senior partner, socio anziano o principale di questo studio, e se le affido questo incarico è, soprattutto, per l’importanza che attribuisco alla questione…» Settimane dopo, quando l’orribile avventura finì, ricordai che sul momento avevo letto come una pura fatalità che Dávila fosse in Europa in luna di miele e Uriarte alle prese con una grana giudiziaria qualunque. Quanto a me, era certo che non sarei andato in viaggio di nozze, né avrei accettato i lavori degni di un praticante che il nostro capo assegnava all’operoso Uriarte. Rispettai – e fui grato per quell’implicita attestazione di fiducia – la decisione del mio anziano titolare. Era sempre stato un uomo dalle decisioni inappellabili. Non era abituato a chiedere consigli. Lui ordinava, sebbene avesse la delicatezza di ascoltare educatamente le ragioni dei suoi collaboratori. Eppure, malgrado tutto ciò, non potevo certo ignorare che la sua fortuna – così recente in termini relativi, ma lunga come i suoi ottantanove anni e 15 così legata alla storia di un secolo ormai sepolto – si doveva all’ossequiosità politica (o alla flessibilità morale) con cui aveva servito – ascendendo di grado – i governi della sua lunga stagione messicana. Era, in altre parole, uno «influente». Ammetto di non averlo mai visto in atteggiamenti servili di fronte a nessuno, sebbene riuscissi a indovinare le inevitabili concessioni che il suo sguardo altero e le sue spalle ormai curve dovevano aver fatto a funzionari la cui esistenza non si spingeva oltre i consueti sessenni presidenziali. Lui sapeva perfettamente che il potere politico è perituro; loro no. Si pavoneggiavano ogni sei anni, quando venivano nominati ministri, prima di essere dimenticati per il resto delle loro vite. La cosa ammirevole del signor avvocato don Eloy Zurinaga è che per sessant’anni riuscì a destreggiarsi da un periodo presidenziale all’altro restando sempre in piedi. La sua strategia era molto semplice. Non fu mai costretto a rompere con qualcuno del passato perché a nessuno lasciò mai intravedere un avvenire insignificante dietro quella passeggera grandezza politica. Il sorriso ironico di Eloy Zurinaga non fu mai adeguatamente inteso al di là di una superficiale cortesia e di un plauso in realtà inesistente. Da parte mia, capii presto che se non era tenuto a dar prova di nuove fedeltà era perché non aveva mai manifestato affetti duraturi. Le sue relazioni ufficiali, in altre parole, erano quelle di un professionista probo e capace. Se la probità fosse solo apparente e la capacità sostanziale – ed entrambe una facciata per sopravvivere nel pantano della corruzione politica e giudiziaria – è materia di congettura. Credo che l’avvocato Zurinaga non si scontrò mai con un funzionario pubblico perché non ne ebbe mai a cuore nessuno. Ma lui questo non aveva bisogno 16 di dirlo. La sua vita, la sua carriera, perfino il suo contegno non facevano che confermarlo… L’avvocato Zurinaga, il mio capo, aveva smesso di uscire di casa da un anno. Nessuno in studio si azzardò a pensare che l’assenza fisica del personaggio potesse autorizzare mollezze, baldorie o ritardi. Tutt’altro. Assente, Zurinaga sembrava più presente che mai. Era come se avesse minacciato: «Attenti. Potrei piombare qui da un momento all’altro e cogliervi in fallo. State in guardia». Più di una volta annunciò per telefono che sarebbe tornato in ufficio, e anche se non lo fece mai, un sacrosanto terrore mise l’intero personale in riga e in stato di allerta permanente. Una mattina capitò perfino che entrasse e mezz’ora dopo uscisse dall’ufficio una figura identica al capo. Venimmo a sapere che non era lui perché in quella mezz’ora il capo telefonò un paio di volte per darci istruzioni. Parlò in modo risoluto, quasi dittatoriale, senza ammettere risposte o commenti, poi riattaccò velocemente. La voce si sparse, ma vista di spalle la figura che uscì era identica a quella dell’assente avvocato: alto, curvo, con un vecchio cappotto dai baveri alzati fino alle orecchie e un cappello di feltro marrone dall’ampio nastro nero decisamente passato di moda, dal quale erompevano, come ali d’uccello, due bianchi ciuffi svolazzanti. L’andatura, la tosse, i vestiti erano i suoi, ma quel visitatore che con tanta naturalezza, senza che nessuno si opponesse, entrò nel sancta sanctorum dello studio non era Eloy Zurinaga. Lo scherzo – se di scherzo si trattava – non fu preso sul ridere. Tutt’altro. L’apparizione di quel doppio, sosia o spettro che fosse, ispirò solo terrore e inquietudine… Per le ragioni che ho detto, i miei incontri di lavo17 ro con l’avvocato Eloy Zurinaga avvengono nella sua residenza. È una delle ultime magioni porfiriane, vaga memoria dei trent’anni di dittatura del generale Porfirio Díaz tra il 1884 e il 1910 – la nostra fantasiosa belle époque –, che siano rimaste in piedi nella Colonia Roma di Città del Messico. A nessuno è ancora venuto in mente di raderla al suolo, come hanno fatto con l’intero quartiere, per costruirvi uffici, negozi o condomini. Basta entrare in quella vecchia dimora a due piani coronata da una fila di mansarde francesi e da uno scantinato di natura indecifrabile per capire che l’attaccamento dell’avvocato alla sua casa non è una questione di volontà, ma di gravità. Zurinaga vi ha accumulato una tale quantità di carte, libri, pratiche, mobili, ninnoli, porcellane, quadri, tappeti, arazzi e paraventi, ma soprattutto di ricordi, che cambiare luogo vorrebbe dire, per lui, cambiare vita e rassegnarsi a una morte a stento rinviata. Abbattere la casa sarebbe come abbattere la sua intera esistenza… Le sue oscure origini (o la sua algida ragione poco disposta a concessioni sentimentali) avevano escluso dalla casona di pietra grigia, separata dalla strada da un brevissimo, sgraziato giardino culminante in una scalinata altrettanto breve, qualsiasi riferimento familiare. Invano si sarebbero cercate fotografie di donne, genitori, figli o amici. In compenso, la casa traboccava di oggetti d’arredamento fuori moda che le conferivano un’aria da negozio di antiquario. Vasi di Sèvres, statuine di Meissen, nudi in bronzo e busti di marmo, sedie rachitiche dalle spalliere dorate, tavolini in stile Biedermeier, un’intrusione qua e là di lampade art nouveau, pesanti poltrone di cuoio lucidato… Una casa, in altre parole, senza un solo accenno di gusto femminile. 18 Sulle pareti foderate di velluto rosso si trovavano invece tesori artistici che, visti da vicino, lasciavano apprezzare una comune impronta macabra. Angosciose incisioni del messicano Julio Ruelas: teste trapanate da insetti mostruosi. Quadri fantasmagorici dello svizzero Henry Füssli, specialista in distorsioni, descrizioni di incubi e nell’inquietante connubio fra il sesso e l’orrore, la donna e la paura… «Pensi» mi sorrise l’avvocato Zurinaga. «Füssli era un chierico che si inimicò un giudice che a sua volta finì per espellerlo dal sacerdozio e consacrarlo all’arte…» Zurinaga incrociò le dita sotto il mento. «A me a volte sarebbe piaciuto essere un giudice che si espelle dalla giudicatura e viene condannato all’arte…» Sospirò. «Troppo tardi. La vita per me è diventata un lungo corteo di cadaveri… L’unica cosa che mi consola è contare quelli che ancora non se ne vanno, quelli che invecchiano insieme a me…» Sprofondato nella poltrona di cuoio logorata dagli anni e dall’uso, Zurinaga accarezzò i braccioli del mobile come altri carezzerebbero le braccia di una donna. In quelle dita bianche e affusolate vi era un piacere più duraturo, quasi l’avvocato dicesse: «La carne è peritura, il mobile perdura. Scelga lei fra una pelle e l’altra…». Il mio titolare sedeva accanto a un camino acceso giorno e notte, anche quando faceva caldo, come se il freddo derivasse da uno stato d’animo o fosse qualcosa che si annidava nell’anima di Zurinaga come la sua temperatura spirituale. Il volto bianco lasciava scorgere una rete di vene blu, che gli conferiva un aspetto diafano ma salutare nonostante la minuziosa ragnatela di rughe che si diramavano dal cranio deserto al mento ben rasato, for19 mando piccoli mulinelli di carne vecchia attorno alle labbra e spessi sipari attorno a uno sguardo malgrado tutto vigile e profondo – o forse proprio per via di quella pelle sconfitta che gli affondava nel cranio gli occhi nerissimi. «Le piace la mia casa, avvocato?» «Naturalmente, don Eloy.» «A dreary mansion, large beyond all need…» disse con insolita trasognatezza l’anziano avvocato. Rara avis, pensai, un avvocato messicano che citava poesia inglese… Il vecchio tornò a sorridere. «Vede, mio caro Yves Navarro, il vantaggio di vivere molto è che si impara più di quanto la situazione non conceda.» «La situazione?» chiesi in buona fede, senza capire cosa volesse dirmi Zurinaga. «Certo» unì le lunghe dita pallide. «Lei discende da una grande famiglia, io ascendo da un’ignota tribù. Lei ha dimenticato ciò che sapevano i suoi antenati. Io ho deciso di imparare ciò che ignoravano i miei.» Allungò la mano e accarezzò il cuoio logoro e per questo bello della comoda poltrona. Io risi. «Non creda. Essere dei ricchi possidenti nel XIX secolo non significava per forza avere una mente coltivata. Tutt’altro! Una hacienda di pulque a Querétaro non garantiva la raffinatezza intellettuale dei suoi padroni, ne stia pur certo.» Le luci dei ceppi ardenti giocavano sui nostri volti come plumbei riverberi. «Ai miei antenati non interessava sapere» conclusi. «Loro volevano soltanto avere.» «Si è mai chiesto, avvocato Navarro, perché in Messico le “classi alte” durino così poco?» 20 «È un segno di salute, don Eloy. Significa che c’è mobilità sociale. Ricambi, ascese, permeabilità. Noi che abbiamo perso tutto con la Rivoluzione – e avevamo parecchio – non ci siamo solo adattati. Abbiamo plaudito all’evento.» Eloy Zurinaga poggiò il mento sulle mani intrecciate e mi osservò con sagacia. «Il fatto è che in America siamo tutti coloni. Gli unici aristocratici sono gli indios. Gli europei, i conquistatori, i colonizzatori, erano gente becera, plebaglia, ex galeotti… Le linee di sangue del Vecchio Mondo invece continuano a perpetuarsi, non solo perché datano da secoli, ma perché non dipendono, come da noi, da migrazioni. Pensi alla Germania. Non c’è un Hohenstaufen che abbia dovuto attraversare l’Atlantico per fare fortuna. Pensi ai Balcani, all’Europa centrale… Gli Arpad ungheresi risalgono all’886, per tutti i santi! Il gran župan Vlastimir unì le tribù serbe nel IX secolo, e la dinastia dei Nemanja dal 1196 regnò dallo stato di Zeta alla regione della Macedonia. Nessuno di loro ebbe bisogno di fare l’America…» Le conversazioni con don Eloy Zurinaga erano sempre interessanti. L’esperienza mi diceva pure che l’avvocato non parlava mai senza un altro intento, preciso, filtrato da ogni genere di riferimenti. L’ho già detto: non è brutale con nessuno, né con gli inferiori né con i superiori, sebbene, essendo lui stesso così superiore, Zurinaga non ammetta nessuno al di sopra di lui. E a quelli al di sotto, ho già detto anche questo, presta cortese attenzione. Non mi sorprese, dunque, che dopo questo amabile preambolo il mio capo andasse al sodo. «Navarro, ho una richiesta speciale da farle.» Assentii con un cenno del capo. 21 «Parlavamo dell’Europa centrale, dei Balcani.» Ripetei il cenno. «Un mio vecchio amico, sfollato da guerre e rivoluzioni, ha perso le sue proprietà sul confine ungaro-romeno. Terre vastissime, dotate di fortezze in rovina. In realtà» disse Zurinaga con una certa tristezza «la guerra non ha fatto che annientare ciò che era già morto…» Adesso lo guardai con aria inquisitoria. «Sì, anche lei sa che non è la stessa cosa essere padroni della propria morte o essere vittime di una forza aliena… diciamo che il mio caro amico era padrone della sua decadenza nobiliare e che adesso, tra fascisti e comunisti, lo hanno spogliato delle sue terre, dei suoi castelli, dei suoi…» Per la prima volta nella nostra relazione sentii che don Eloy Zurinaga titubava. Scorsi perfino un nervo d’emozione sulla sua tempia. «Mi perdoni, Navarro. Sono i ricordi di un vecchio. Il mio amico e io abbiamo la stessa età. Pensi, abbiamo studiato insieme alla Sorbona, quando il diritto e le buone maniere si imparavano in francese. Prima che la lingua inglese corrompesse ogni cosa» concluse con tono amaro. Fissò il fuoco nel camino come per temprare il suo sguardo, poi proseguì con la voce di sempre, una voce di fiume e sassi strascicati. «Si dà il caso che il mio vecchio amico abbia deciso di trasferirsi in Messico. Vede come crollano in fretta le generalizzazioni? La casa padronale del mio amico risale al Medioevo, eppure eccolo qui, in cerca di un tetto a Città del Messico.» «In cosa posso esserle utile, don Eloy?» mi affrettai a dire. 22 Il vecchio scrutò le sue mani tremule accostate al fuoco. Scoppiò in una risata. «Guardi cos’è la vita. Normalmente di tali faccende si occupa Dávila, che in questo momento, come sappiamo, è impegnato in doveri ben più piacevoli. Quanto a Uriarte, francamente, ne s’y connaît pas trop… Ebbene, sta di fatto che devo chiedere a lei di rimediare un tetto al mio errabondo amico…» «Volentieri, ma io…» «Niente ma. Quello che le chiedo va al di là di un semplice favore. Considero anche che lei è di madre francese, parla la lingua e conosce la cultura dell’Esagono. Sembra fatto apposta per capirsi col mio amico.» Fece una pausa e mi guardò cordialmente. «Si rende conto, abbiamo studiato insieme alla Sorbona. Insomma, abbiamo la stessa età. Lui viene da una vecchia famiglia mitteleuropea. Grandi proprietari terrieri nei Balcani, fra il Danubio e Bistriţa, prima che le guerre devastassero ogni cosa…» Per la prima volta, con uno sguardo alquanto trasognato, Zurinaga si ripeteva. Mi aveva appena detto la stessa cosa. Decisi di sorvolare. Un segno inequivocabile di vecchiaia. Comprensibile. Perdonabile. «Ho sempre seguito le sue istruzioni, signor avvocato» mi affrettai a dire. Mi accarezzò la mano. La sua, nonostante il fuoco, era gelida. «No, non è un ordine» sorrise. «È una felice coincidenza. Come sta Asunción?» Ancora una volta, Zurinaga mi sconcertava. Come stava mia moglie? «Bene, avvocato.» 23 «Che felice coincidenza» ripeté il vecchio. «Lei è un avvocato del mio studio. Sua moglie ha un’agenzia immobiliare. Come si diceva un tempo, una vera manna. Con voi due la questione abitativa del mio amico è risolta.»
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