QUI - Davide Sapienza

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Domenica 9 Febbraio 2014 Corriere della Sera
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SCHIERAMENTI E CARICHE DELLO STATO

Mi sveglio ogni mattina con
una grande montagna alta
2.500 metri davanti agli occhi. Ci frequentiamo nella complicità di un piccolo essere umano che sente di appartenere a ciò di cui lei è espressione. La
montagna mi suggerisce rotte possibili.
In questi tempi burrascosi non si vede
ancora il faro utile per doppiare il Capo
Horn della Storia, così spesso chiedo
come mai nessuna discussione politica
e culturale, quando ha il privilegio di arrivare alle masse, metta in cima all’agenda la conversazione con la Natura.
Eppure ne siamo parte integrante. Da
alcuni decenni la percezione che «la
Terra è malata», sposta l’attenzione dal
malato più grave: l’Uomo. Abbiamo rinunciato alla geografia intima, una forza concreta che ha sempre aiutato le civilità a progredire.
Serve dunque ricostruire con amore
quella relazione globale perché tutto
ciò che si fa a Gaia lo si fa a noi stessi.
Dimenticarlo si chiama rimozione ed è
principalmente una questione pratica
che mi pongo quando guardo mio figlio
e mi domando cosa sto facendo per lui
in quanto parte della Comunità Terra
(Cormac Cullinan, I diritti della natura.
Wild Law.)
La Natura ci ha dotato di inventiva e
capacità di rigenerazione. Noi siamo
creature di questa Terra, non suoi consumatori. Abbiamo così paura di riconoscerlo che viviamo nella convinzione
di essere noi l’ombelico dell’universo.
In cronaca rimbalzano le tragedie globali e quelle dei singoli umani. L’incidente fatale, in Val d’Aosta, a Simona
Hoscuet, che pure era una guida esperta, impone ripensamenti sul rapporto
con la Natura: anche queste sono spie di
qualcosa di profondo e di rivedibile.
Non siamo i dominatori delle vette e
non lo dobbiamo comprendere solo
quando una valanga spezza la vita di
una creatura della nostra comunità
umana.
Come scrisse Mario Rigoni Stern,
dobbiamo ritrovare «il desidero di uscire a camminare in libertà, perché la primavera non ha confini». Un po’ come
tornare a immaginare il futuro e a frequentare la Natura in armonia.
Davide Sapienza
[email protected]
© RIPRODUZIONE RISERVATA
TOLLERANZA E TENACIA DI UNA MADRE
I VALORI CHE UN FILM PUÒ INSEGNARE
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Talvolta i film trasmettono segnali nascosti, sintomi di valori
nascosti. Prendiamo Philomena di Stephen Frears, che a Venezia aveva ottenuto un buon consenso di pubblico e, in
parte, di critica. Ma la giuria della Mostra ha preferito dare il Leone d’Oro a un
misero documentario sulla vita notturna del raccordo anulare di Roma (Sacro
Gra) e il Leone d’Argento
a una specie di panegirico della pedofilia familiare, come Miss Violence di
Alexandros Avranas.
Philomena è la storia
di una ragazza che resta
incinta nell’Irlanda di inizio secolo e viene segregata in un convento di
suore dove il piccolo viene al mondo. Come previsto dall’atroce organizzazione di allora, il bimbo viene poi affidato (o venduto?) a una coppia di americani e la mamma ne perde le tracce. Il suo sogno, circa
cinquant’anni dopo, è di rintracciarlo,
ma il convento si trincera dietro l’anonimato dell’affidamento. Lo fa allora con
l’aiuto di un giornalista, all’inizio un po’
scettico, poi sempre più incuriosito e attratto dallo scoop: non è facile però tro-
vare qualcuno di cui non si sa neppure il
cognome. I due individuano l’identità
del figlio da quella dei genitori adottivi,
rintracciati fra i passeggeri di un piroscafo, e scoprono che ha fatto carriera, è
diventato portavoce del presidente degli Stati Uniti, ma è morto di Aids a 51
anni. Philomena vorrebbe conoscere
qualcosa di lui: viene a sapere che era
gay e va in cerca del suo
compagno, all’inizio riluttante a parlarne, poi
convinto dalla gentilezza
e dalla tenacia della donna. E lei scopre, ad esempio, che il figlio era andato in Irlanda alla ricerca
della madre, ma scoraggiato anche lui dal convento. Il valore straordinario del film sta nell’estrema delicatezza con cui la madre
tratta, a posteriori, l’omosessualità del
figlio, che non viene mai sovrapposta al
suo successo professionale e nemmeno
interferisce nei rapporti col compagno.
Eppure questo straordinario merito del
film non è stato colto né apprezzato. Ne
valeva invece la pena.
Franco Morganti
© RIPRODUZIONE RISERVATA
LONDRA E PARIGI VOLANO DA SOLE
RESTA UNA CHIMERA LA DIFESA EUROPEA
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Il 31 gennaio il premier inglese
David Cameron e il presidente
francese François Hollande hanno siglato un nuovo accordo nel quadro dell’alleanza strategico-militare stipulata
nel 2010. Smentendo quanti sostenevano che Londra e Parigi erano ormai avviate alla separazione, anche a causa
della mancanza di sintonia politica fra i
rispettivi governi, è stato deciso, fra il
resto, di finanziare con 240 milioni di
euro in due anni il proseguimento di
uno studio di fattibilità per un velivolo
da combattimento senza pilota.
I due maggiori Paesi europei hanno
così dimostrato di voler guardare avanti
invece che perdere tempo a ridiscutere i
programmi aeronautici in corso. Questa scelta darà loro un forte vantaggio
tecnologico nel momento in cui si dovrà avviare un programma europeo per
un velivolo non pilotato, la nuova frontiera che rappresenta il futuro del settore aeronautico militare.
L’aspetto negativo per l’Europa è che
continuano a procedere da soli, nonostante gli impegni sulla difesa «comune» che anche a fine dicembre sono sta-
ti ribaditi al Consiglio europeo dei capi
di Stato e di governo.
Nel frattempo, l’attenzione dell’opinione pubblica italiana viene concentrata nuovamente sul velivolo F-35. Sono passati solo pochi mesi dall’ultimo
dibattito e già si ricomincia, ricreando
un clima di incertezza e inaffidabilità
sulle scelte compiute. Invece di guardare avanti — e in particolare, a quale strategia adottare nel campo dei velivoli
non pilotati — si guarda indietro. Senza
tener neppure conto di quanto emerso
dalle indagine conoscitive delle Commissioni difesa di Camera e Senato: la
via maestra per decidere quale strumento militare vogliamo e di quali
equipaggiamenti dotarlo è quella di
preparare un Libro bianco, come fanno
tutti i maggiori Paesi. Continuare a parlare di singoli programmi senza questo
quadro di riferimento è inutile e dannoso, perché distrae l’attenzione dal problema di fondo: quale sistema di sicurezza e difesa vogliamo costruire per gli
anni che verranno.
Michele Nones
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Istituzioni di garanzia sotto tiro
Gli effetti dell’era tripolare
di MICHELE AINIS
C
hi la vuole cotta, chi la vuole
cruda; e nel dopocena finisce
arrosto il cuoco. È il destino (culinario) dei garanti nell’era tripolare. O meglio dei garanti
politici delle nostre istituzioni, che a loro
volta sono tre, come i partiti premiati alle
ultime elezioni. È il caso di Laura Boldrini, presidente della Camera: aggredita dal
Movimento 5 Stelle per aver usato la ghigliottina parlamentare durante la conversione del decreto Imu-Banca d’Italia. È il
caso di Pietro Grasso, presidente del Senato: crocifisso da Forza Italia quando ha
deciso la costituzione di parte civile nel
processo contro Silvio Berlusconi. È il
caso, infine, di Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica: per lui addirittura l’impeachment, manco fosse Mata Hari, una spia al soldo del nemico.
Perché tanto accanimento? Semplice:
perché ci sono troppe squadre in campo.
Se arbitri una gara fra maggioranza e
opposizione, t’accadrà di fischiare una
volta contro l’una, una volta contro l’altra.
Tutti scontenti a turno, e perciò tutti
contenti. Ma se le opposizioni sono due,
se poi anche il partito di maggioranza è
all’opposizione di se stesso, per l’arbitro
non c’è via di scampo. Le sue decisioni
potranno compiacere questo o quel
giocatore, tuttavia gli scontenti
prevarranno sempre sui contenti. È la
logica dei numeri, ed è anche il frutto
avvelenato dello spezzatino che ci
somministra per la prima volta la
politica.
Sì, la prima volta. C’erano due poli negli
anni ruggenti della Seconda Repubblica,
e a ogni elezione si scambiavano lo
scettro del comando. Ma c’erano altresì
due grandi partiti (la Dc e il Pci) durante
il mezzo secolo in cui si è consumata la
traiettoria della Prima Repubblica,
benché soltanto il primo sedesse nella
stanza dei bottoni. Non a caso si parlò a
quel tempo di «bipartitismo imperfetto»,
per definire il sistema politico italiano. E
d’altronde il principale outsider (il Psi di
Craxi) non arrivò mai a pesare, nemmeno
nelle sue stagioni migliori, la metà dei
voti del Pci.
È un caso che per la prima volta finiscono
al contempo sotto tiro tutte le istituzioni
di garanzia politica? No, non può essere
BEPPE GIACOBBE
SE È UNA VALANGA CHE SPEZZA UNA VITA
A RICORDARCI LE ROTTE DELLA NATURA
un caso. In passato capitò talvolta al
Quirinale (per esempio a Cossiga),
talvolta a un presidente d’assemblea
parlamentare (per esempio a Fini). Ma
tutti e tre contemporaneamente, questo

Mai visti fin qui attacchi
in contemporanea ai «tre
arbitri»: i presidenti
della Repubblica, del
Senato e della Camera

Non è un caso: è il frutto
del tripartitismo. Ma la
macchina si è rotta e la
politica, divorando tutto,
divorerà pure se stessa
mai. E con quale acrimonia, con quale
veemenza nei gesti e nel linguaggio!
Dev’essere saltata una molla, un
ingranaggio del sistema. La macchina si è
rotta, e si è rotta perché non regge la
spinta di tre partiti con le mani sul
volante.
«Il triangolo no», cantava Renato Zero
nel 1978. Ma quella stessa musichetta la
intonò, nel 1948, la Costituzione italiana.
C’è infatti un non detto, una regola
invisibile, nella meccanica delle nostre
istituzioni. Possono girare su due ruote,
non su tre. Non senza un’unica
maggioranza, non senza un’unica
opposizione. E c’è anche, al loro interno,
una separazione dei garanti, oltre che
una separazione dei poteri. Garanti
politici, garanti giuridici. Se scomunichi i
primi, s’udrà solo la voce dei secondi —
quella dei giudici, quella della Consulta o
del Consiglio di Stato. Sicché in
conclusione la politica, divorando tutto,
divorerà pure se stessa, come l’Uroboro. I
politici che hanno il bipolarismo in gran
dispetto dovrebbero rifletterci, prima
d’addentare il loro pasto.
[email protected]
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MINISTERO DELLO SVILUPPO
Zanonato taglia, le poltrone rimangono
di EDOARDO SEGANTINI
U
no dei segnali di cambiamento
più attesi, dai cittadini come dalle aziende, è la semplificazione
della burocrazia: una riforma
promessa da sempre che non arriva mai. L’ultimo episodio riguarda il ministero dello Sviluppo economico (Mise),
che annuncia un riassetto organizzativo in
vigore da domani.
L’annuncio fa sperare bene. Al Mise si
cambia, si legge nel sito del ministero: «Diminuisce il personale, diminuiscono i dirigenti, s’insedia il segretario generale». I tagli operati alla dirigenza «riguardano sei
posizioni di dirigente generale (da venticinque a diciannove) e cinquantacinque di
dirigenti di seconda fascia (da centottantacinque a centotrenta)».
Si sottolinea la novità dell’istituzione del
segretario generale, il cui incarico viene affidato ad Antonio Lirosi, su proposta del
ministro Flavio Zanonato. La riorganizzazione, si precisa, «risponde anche alle misure della spending review, che hanno disposto la riduzione del 20% dei dirigenti e
del 10% del restante personale».
Più in là di questo, però, la semplificazione non va. Tant’è vero che non vengono toccate, accorpate o ridotte le quindici direzioni generali, il cui lavoro dovrà essere coordinato da Antonio Lirosi.
Non è una svista, come potrebbe sembrare: sono proprio quindici. Eccole: 1) Politica industriale, competitività e piccole e
medie imprese; 2) Lotta alla contraffazio-
ne, Ufficio italiano brevetti e marchi; 3)
Mercato, concorrenza, consumatore, vigilanza e normativa tecnica; 4) Politica commerciale internazionale; 5) Politiche di internazionalizzazione e promozione degli
scambi; 6) Risorse minerarie ed energetiche; 7) Sicurezza dell’approvvigionamento
e per le infrastrutture energetiche; 8) Mercato elettrico, rinnovabili ed efficienza
energetica, nucleare; 9) Pianificazione e
gestione dello spettro radioelettrico; 10)
Servizi di comunicazione elettronica, di radiodiffusione e postale; 11) Istituto superiore delle comunicazioni e delle tecnologie
dell’informazione; 12) Attività territoriali;
13) Incentivi alle imprese; 14) Vigilanza su
enti, sistema cooperativo e gestioni commissariali; 15) Risorse, organizzazione e bilancio.
Ora: non c’è bisogno di essere un alto
consulente della McKinsey o del Boston
Consulting Group, basta avere un minimo
di esperienza d’azienda o semplicemente

Altisonante annuncio di
riassetto. La
semplificazione non
tocca però il Moloch delle
15 direzioni generali
di buon senso per capire come un Moloch
tanto imponente e smisurato, figlio di accorpamenti di ministeri precedenti, non
possa che generare doppioni, conflitti di
competenza, farraginosità. E tutto questo
proprio nel campo d’azione e di governo
che richiederebbe il massimo di linearità,
concordia, rapidità. È il ministero a cui si
chiede un «cambio di passo» nella politica
industriale: basta pensare alle crisi aziendali in atto e, sul versante propositivo, all’esigenza di un rilancio dell’innovazione
nell’economia e nella società, a cominciare
dai programmi dell’Agenda digitale europea, in cui l’Italia è in drammatico ritardo.
Certo, se la montagna del ministero, con
un ministro, due viceministri e due sottosegretari, riesce a partorire solo questo topolino, malgrado le critiche piovute addosso allo stesso Zanonato — al centro del progetto di rimpasto — questo è il segno della
gigantesca difficoltà di ammodernare la
pubblica amministrazione, soprattutto
quando si toccano i posti di potere.
Questa stessa riorganizzazione, che a noi
sembra modesta, all’interno è stata infatti
contrastata dai conservatori per la ragione
opposta. Ciò non toglie però che serva una
semplificazione molto, ma molto, più incisiva.
Edoardo Segantini
@SegantiniE
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