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David M. Turoldo
SANTA MARIA
frate dell’Ordine dei Servi di Maria e sacerdote
dal 1940, era nato in Friuli nel 1916. La sua
vita e la geniale attività di predicatore e di
scrittore è stata prevalentemente legata all’ambiente milanese: prima, negli anni cruciali
della Resistenza e della ricostruzione materiale e civile del dopo-guerra; poi negli anni
attesi della grande innovazione conciliare. Il
suo nome, insieme a quello del confratello e
amico Camillo de Piaz, è legato soprattutto
alla fucina culturale che fu la Corsia dei Servi
presso il convento di San Carlo al Corso in
Milano. Dal 1964 la sua dimora abituale fu
al Priorato di S. Egidio a Fontanella di Sotto
il Monte-BG. Innumerevoli sono i saggi, di
contenuto religioso e civile, da lui prodotti,
insieme a opere di prosa, di teatro e soprattutto di poesia.
Morì a Milano il 6 febbraio 1992 ed è sepolto nel piccolo cimitero di Fontanella.
I testi, gli inni e le poesie, inseriti nella
presente raccolta in omaggio a santa Maria,
sono tratti, oltre che dai volumi citati, da:
Mie notti con Qohelet, Garzanti 1992; La
nostra preghiera, Servitium 19963; Ave Maria, GEI 1984; Come i primi trovadori, CENS
1988.
«Quale omaggio alla Madre in occasione della presente raccolta,
vorrei rifarmi, a modo di prefazione, al brano di un documento
pontificio dove Paolo VI ci rimanda alla Vergine non solo come
via veritatis, ma anche come via pulchritudinis: via da seguire
se si vuole raggiungere la beatitudine promessa. Una beatitudine
che non può essere tale se, appunto, è solo verità. La verità da
sola può fare anche male. La verità la possiedono anche i dannati.
Ma la bellezza!... Infatti Dostoevskij dice che sarà la bellezza a salvare il mondo. E io, senza sconvolgere nessun ordine, ma solo
per dire quanto più mi preme, precisamente vorrei qui proclamare, avanti a ogni altra urgenza, la via della bellezza.»
David M. Turoldo Giovanni M. Vannucci
DAVID MARIA TUROLDO
ISBN 978-88-8166-377-4
9 7 8 8 8 8 1 6 6 3 77 4
sdt 26
GIOVANNI MARIA VANNUCCI
David M. Turoldo
Giovanni M. Vannucci
SANTA MARIA
nato a Pistoia il 26 dicembre 1913, fu monaco
nell’ordine dei Servi di Maria. Inserito nella
ricca fioritura culturale, religiosa e civile di
Firenze fin dal 1952, insieme a David M. Turoldo ha rappresentato una delle voci profetiche di quel periodo. Nel 1967 diede corso
a una nuova forma di vita monastica nell’eremo di San Pietro alle Stinche presso Panzano in Chianti-FI con il semplice intento di
«offrire un luogo di silenzio fattivo a chiunque
ne ha nostalgia».
Uomo di cultura vastissima, unendo le
tradizioni spirituali dell’oriente e dell’occidente in una profonda saggezza di lettura, ha
tracciato piste affascinanti per una ricerca
religiosa autenticamente universale e per una
esperienza credente che dalla conoscenza
pura della verità porti alla libertà dello spirito.
Si è spento il 18 giugno 1984 ed è stato sepolto nel grazioso prato cimiteriale di San
Martino presso il primitivo eremo dei Servi a
Monte Senario.
I testi qui raccolti provengono, in particolare,
dalle riviste: Marianum, Roma; Rocca, Assisi;
Servitium, Sotto il Monte; e da alcuni dattiloscritti di conferenze o lezioni.
David Maria Turoldo
Giovanni Maria Vannucci
Santa Maria
Servitium
Testi scelti e organizzati da
Priorato di S. Egidio in Fontanella
via Fontanella, 14
24039 Sotto il Monte BG
tel. 035-791227 fax 035 4398011
[email protected]
www.priorato-santegidio.it
Immagini tratte dall’archivio fotografico dei Servi di Maria
per gentile concessione di
fra Fiorenzo M. Gobbo
Reggio Emilia
(che si ringrazia)
© copyright 2013 - 2 edizione riveduta
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Progetto grafico: Arianna Zanatta
PREFAZIONI
David M. Turoldo:
il canto dentro il silenzio
Bernardo M. Antonini *
«Fedele e libero», scriveva di padre Turoldo il gesuita Ferdinando Castelli: così anche la sua poesia e quindi inevitabilmente una poesia animata è a volte “compromessa” da una conflittualità non di rado drammatica. Se poi aggiungiamo che nella poesia di padre Turoldo la parola
è sempre – volutamente e accuratamente – alle prese con lo spessore del
mistero di Dio e dell’uomo, non è difficile prevedere quale sarà l’esperienza di chi volesse seguire l’avventura del suo cantare. Anche Maria di
Nazaret, la Madre di Gesù, è dentro questa sfida che dilata i limiti della parola e della poesia, fino a ferirla talvolta:
Eri tu il mistero, la radiosa Notte
che racchiudeva il Giorno,
che avrebbe rivestito di carne la Luce
e dato un suono al Silenzio1.
La Vergine è forte dello scandalo di Dio, come Gesù e in definitiva
ogni creatura umana, tanto che Turoldo dice anche di sé quello che dice
di Maria. «Io sono [...] / il canto dentro il silenzio».
Padre David, quasi destinato dal suo nome a fronteggiare il gigante,
si troverà sempre – in qualche modo partecipe dell’impotenza di Dio –
* Docente emerito presso la Pontificia facoltà teologica “Marianum” in Roma.
1 D.M. Turoldo, «Preghiera alla Vergine», in O sensi miei..., Rizzoli, Milano 1990,
p. 168.
BERNARDO M. ANTONINI
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ad affrontare dimensioni di splendore o di miseria, non rassegnato mai
che l’attesa non coincida “subito” con la pienezza.
Atteggiamento dichiarato e diffuso nella poesia di padre David è
quello della “compassione”: la fatica del mondo e dell’uomo, anche nelle sue manifestazioni più tragiche, non è mai estranea alla sua parola
(che è il segno più forte della sua vita); anzi è in questa com-partecipazione che la parola si fa audace e non cede mai, a costo di rischi altissimi, anche dal punto di vista estetico: «Nulla che non fosse male/ mi rimase estraneo». In Maria di Nazaret poi si fa esplicita «una certezza assoluta, che trascende perfino l’angoscia e la cecità». Di fronte a lei padre David canta lo stupore e la gioia della creatura “salvata” definitivamente e insieme vive l’agonia che spetta ad ogni creatura. La Mater dolorosa (chissà quanto c’è, nei versi di padre Turoldo su Maria, anche
l’ombra e la luce del rapporto con la madre, pur esso presente in modo
così pregnante nella sua poesia) è tale anche per il rapporto pieno di
contraddizioni con quel Figlio “scandaloso”. Simile questo dolore a
quello di ogni uomo crocifisso fra il desiderio di felicità e l’esperienza del
dolore, simile anche al dolore di un Dio che si fa uomo, anzi uomo dei
dolori. Forse anche per questa duplicità drammatica padre Turoldo vede in Maria la via pulchritudinis; non l’affermazione statica della bellezza (e quindi della verità), ma il cammino verso una bellezza in cui si incontrano l’oscurità del Servo sofferente di Isaia e lo splendore del Signore risorto, figlio di Maria di Nazaret. Padre David, di fronte a questa
donna che chiama anima mundi, sente che l’esperienza e la fede si possono consumare solo nel canto, che rende possibile alla parola il miracolo della libertà dalla logica e dalla teologia. «Come possiamo cantarti,
o madre?» sembra chiedere Turoldo, e tuttavia sente che oltre il canto
«non abbiamo altre speranze»2, perché «da lui [Gesù] e da te [Madre]
ogni cosa trae la sua gioia di esistere, e tutta la storia del mondo [...] trova la sua ultima [...] significazione».
Non si può “parlare” diversamente del mistero e quindi di Maria, la
cui vicenda è indistinguibile dal mistero. Il Magnificat, dove trovano eco
2
Cf. D.M. Turoldo, «Dio non fa più paura», in Laudario alla Vergine, EDB, Bologna 1980, p. 21.
DAVID M. TUROLDO: IL CANTO DENTRO IL SILENZIO
9
anche le parole dell’annunciazione, non è solo il canto (cantico) di Maria di Nazaret, ma è anche il cantico dei nostri canti; la sua voce è la voce di ogni donna e ogni uomo sulla terra. Solo il canto può dire l’impossibile (lei come noi, dice Turoldo) e quindi solo il canto può “accompagnare” la vita. E qui c’è dentro il credere e la speranza, oltre ogni paradosso: in Maria di Nazaret accade l’impossibile e da allora (e anche prima) l’impossibile diventa il destino dell’uomo e del mondo. Il mistero
che riguarda la Vergine è che anche in lei “tutto (si) è compiuto”, anche
l’impossibile. Quale “luogo” fisico e teologico di abitazione del Verbo,
che fatto carne diventa salvezza, Maria diventa, a sua volta, memoria e
promessa del nostro “futuro”. Inoltre in questa donna ebrea (in ogni
donna) nel momento stesso in cui la vita, con dolore, nasce, essa è donata al mondo, agli altri, “fino-alla-fine”. Forse non c’è “altra” vita che
questa: donare-donarsi fino a rendere significante perfino la morte, e così anche il dolore collegato alla morte, anzi proprio per questo, è collegato alla vita, alle radici insondabili della vita: «E star con te sotto il legno in silenzio: / sola risposta al mistero del mondo». Per padre Turoldo “cantare” vuol dire credere, anche perché nel canto acquistano verità la pienezza del vivere e il rischio del suo annientarsi:
«Mi baci con i baci della sua bocca»:
così esplode il Cantico, o Qohelet:
attesa vendetta al tuo libro del Nulla?3
A questa “impossibile” armonia, costruita nel linguaggio con parole
che denunciano quasi una esplosione del mistero, sembra arrivare il
canto di padre David. Un percorso accidentato che lascia a volte la sensazione del “non risolto”, e forse così deve essere quando questo percorso tenta di oltrepassare ogni limite. Resta, nell’insieme della poesia
di padre Turoldo, la compresenza di due aspetti fondanti la figura della Madre: la “natura intatta” («sei la nostra natura innocente»; «sei la
sola terra intatta»; «forse nulla ti apparteneva di noi») e il totale coinvolgimento nell’umanità, la condivisione della “nostra” precarietà
(«vorrei ti sentissi meno sola»; «e sentirti piangere con tutte le madri»;
3 D.M. Turoldo, «La sublime allegoria», in Mie notti con Qohelet, Garzanti, Milano 1992, p. 47.
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BERNARDO M. ANTONINI
«e siamo ancora come te / quando paura ti fermava»; «e noi non sappiamo / come tu non sapevi»).
In questa “doppiezza” però mi sembra che l’appartenenza “pura e
semplice” alla condizione umana, i gemiti della creaturalità, l’aspetto della condivisione senza differenze o privilegi sia più cercato e desiderato
che non vissuto e ri-creato dalla parola: forse per un inconscio freno teologico o una tacita censura culturale. Nei testi prevale sicuramente l’aspetto della “distanza”.
E qui sarebbe necessario un momento di riflessione sulla presenza
della donna nella vita e nella poesia di padre David, ma per ora basti osservare che è probabilmente una presenza contaminata dal dovere della
sublimazione. Prevale dunque l’aspetto della distanza, forse proprio perché in questa distanza si può cogliere una drammatizzazione della promessa del regno. La nostra speranza che si è fatta storia nei gesti e nelle
parole di Maria, perché la speranza diventi per sempre la condizione della nostra storia.
Dove sicuramente la poesia di padre David è molto efficace è nel
“dare corpo” ai desideri che noi “vogliamo” e vediamo realizzati nella
persona di Maria, divenuta figura teologica della nostra speranza. Non
si può dire che manchi di “corporeità”, ma certo il verso acquista “carne” soprattutto se le parole pesano di simboli e memoria biblica. Il cantare di padre David risulta meno incisivo, anche perché a tratti eccessivamente enfatico, se tenta di “abbassare” il livello del dire ad una voluta prosaicità.
Da ultimo, una parola su padre David frate. Certo il suo cantare Maria di Nazaret è legato anche alla sua appartenenza all’Ordine dei Servi
di santa Maria. Egli stesso dice nella presentazione del suo Laudario alla Vergine:
Anche questa fatica, amata e dolce, la devo ai miei fratelli, Servi di santa
Maria [...]. Questi miei frati, chiamati servi della loro gentile e silenziosa
sovrana, come gli antichi cavalieri si “nomavano” schiavi delle loro altere
regine. È però, per noi, certissimo segno di libertà: poiché servi di un unico Signore, vittorioso anche della morte e servi della sua madre, segno di
grazia e di bellezza.
DAVID M. TUROLDO: IL CANTO DENTRO IL SILENZIO
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Anche qui un paradosso: servi perché liberi e liberi perché servi. Alla fine quindi restano con padre David i Servi ancora a dire e a cantare
la presenza di lei, e con lei delle donne, come bisogno del mondo, perché
Madre, se tu non riappari,
anche Dio sarà triste.
La visione mariana di
Giovanni M. Vannucci
Aristide M. Serra *
Per introdurci alla comprensione di queste pagine di Vannucci teniamo
presente almeno un fatto. Negli anni della sua formazione romana, egli
conseguì la licenza in scienze bibliche presso il Pontificio istituto biblico (1943) e la licenza in teologia all’Angelicum (1948). Contestualmente insegnava, fino al 1950, lingua ebraica e sacra scrittura nell’ateneo del
Collegio internazionale Sant’Alessio Falconieri (Roma), elevato poi al
grado di Pontificia facoltà teologica Marianum. Padre Giovanni aveva
quindi tutte le carte in regola per essere un “accademico”. Ma tale non
fu la sua carriera.
Mentre infatti i biblisti di professione si torturavano nei virtuosismi
del metodo storico-critico per salvare la storicità della Bibbia, Giovanni
salpava solitario verso altri lidi. Quali? Ce lo confida lui stesso con un trinomio che scandisce di continuo i suoi scritti: la “coscienza religiosa dell’umanità”.
Persuaso anzitempo che chi sposa una sola scuola o un solo tempo rimane presto vedovo, egli si liberava dalle strettoie di schemi occidentali
troppo angusti, per «intraprendere coraggiosamente il cammino dell’incontro di tutte le esperienze profonde dell’uomo».
Eccolo, pertanto, chino sui libri sacri delle religioni mondiali (da lui
poi insegnante al Marianum), attento a persone e correnti, «anche se non
di stretta osservanza ufficiale cattolica». Eccolo in ascolto del gemito che
* Esegeta, docente emerito di mariologia presso la Pontificia facoltà teologica
“Marianum” in Roma.
14
ARISTIDE M. SERRA
palpita in ogni essere vivente, dalla dualità uomo-donna fino al più minuto degli insetti o dei fiori che ornano il creato. Eccolo fremere di passione per il linguaggio dei simboli disseminati nel cosmo (questo primo
libro di Dio!), per la psicologia del profondo, per la qabbalah... Eccolo
affondare il vomere nei solchi profondi della Grande madre-Terra ed
estasiarsi al tempo stesso della volta celeste, affascinato dalla corsa del
sole, dai ritmi lunari, dai segni dello zodiaco («Guardate il cielo stellato,
non la televisione» diceva). Padre Giovanni, insomma, era cosciente di
coltivare «un filone del pensiero moderno, che ancora si muove alla periferia della cultura ufficiale». Lo sorreggeva, in questa avventura, la ferma convinzione che in ogni essere è latente una scintilla divina, una perla preziosa da scoprire. Nell’uomo, in particolare, si nasconde «la presenza viva, operosa di una particella divina che, depositata nella materia
densa, ne costituisce l’unica ragione di vita». Tutto e tutti siamo “teofania” dell’unico Creatore che ci ha plasmati. Dall’Uno discende la molteplicità degli archetipi. La cosiddetta “caduta originale” è sì causa della
penosa scissione o schizofrenia tra il divino e l’umano, tra materia e spirito, tra il visibile e l’invisibile. Persevera tuttavia in ciascuno l’aspirazione insopprimibile a riunificarsi alla propria Origine trascendente e immanente, a trasfigurare la nostra immagine appesantita dagli egoismi per
ritrovare l’armonia dell’Eden.
Perseguendo così gli itinerari religiosi dell’umanità, padre Giovanni
si scopre compagno di viaggio di una teoria innumerevole di viandanti,
che egli chiama «pellegrini dell’Assoluto». E l’Assoluto, per lui, è Cristo, Verbo divino, luce di ogni uomo che viene a questo mondo (Gv 1,
9), vera scala di Giacobbe che congiunge cielo e terra nella sua corporeità celeste, fiorita nel seno della vergine Madre, la terra purissima «totalmente devoluta alle energie dello Spirito».
***
Su questo entroterra cosmico Giovanni proietta e radica la sua contemplazione mariana. Egli non ci offre un trattato sistematico, bensì intuizioni e squarci folgoranti. I contenuti dottrinali del suo discorso sono informati all’ortodossia più garantita, quella (intendo dire) testimoniata dalle sacre scritture viventi nella grande chiesa. Nuovo è il timbro,
pressoché inedite le risonanze. La confessione di fede che scorre placida da secoli nell’alveo della comunità ecclesiale è annunciata da Gio-
LA VISIONE MARIANA DI GIOVANNI M. VANNUCCI
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vanni in stile (dire) pentecostale, nel senso che è comprensibile nella
lingua propria di tutti i cercatori di Dio.
È avvincente, per esempio, il contrappunto da lui elaborato tra il
tempo solare delle stagioni e il tempo liturgico delle feste di Maria, madre del Sole eterno. E altrettanto si dica della Vergine, quale sintesi
compiuta e specchio perfettivo delle nostre attese, vera «anima del
mondo», poiché – afferma Giovanni – «tutte le figure della femminilità
espresse dalla religiosità umana confluiscono in quella di Maria, vergine e madre».
Al suo sguardo di monaco innamorato delle profondità di Dio, l’Immacolata rifulge come «l’idea incontaminata che sospinge la materia
verso l’incandescente fuoco delle origini». Il fiat, il sì dell’Annunziata
rende l’umanità capace di donarsi totalmente alle energie dell’Altissimo
per estinguere le forze distruttive e disumanizzanti che la profanano». L’unione sponsale di Maria con Giuseppe converte i due sposi in «trepidi e
verginali custodi del nuovo ordine che doveva instaurarsi nel mondo [...].
La loro vera vita non è nella carne e nel sangue, ma nello Spirito divino che
li anima e li aggemella [...]. In nessun tempio Iddio fu adorato davvero in
spirito e verità come nella casetta di Nazaret.
La Madre del Signore che stringe il Bimbo al seno è la rifrazione incarnata della tenerezza misericordiosa di Dio riversata sul mondo. Ed è
Madre addolorata
[...] perché pienamente consapevole delle deformazioni che nella materia
subisce l’immagine divina dell’uomo, l’Uomo eterno, e vi partecipa lottando per abolirle, o almeno per vederle meno ripugnanti.
E come non sentire ancora l’ardore estatico col quale Giovanni celebra l’Assunta?
Maria santissima è quella particella dell’universo creato che si è staccata,
per la perfetta manifestazione in lei dello Spirito santo, dal tessuto ordinario dell’umanità per ricomporre la materia con lo Spirito.
Ed era ovvio che la contemplazione della donna ideale Maria inducesse poi questo solitario di Dio a un’affezione gentile e amicale per le
donne concrete dei nostri giorni, da lui salutate come «[...] frammenti,
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ARISTIDE M. SERRA
atomi di Maria sparsi nel mondo». L’eventuale rinascita del sacerdozio
femminile, che egli auspica, dovrebbe far riemergere gli aspetti femminili del sacerdozio di Cristo:
L’amore misericordioso per la pecorella smarrita, per gli emarginati, il dono della propria vita per gli altri, la lavanda dei piedi, la proibizione del giudicare, l’accoglienza della parola come germe fecondatore [...].
Queste e numerose altre gemme troveremo dischiuse nelle aiuole di
quel giardino mariano che era il cuore e la mente di padre Giovanni. Ricordiamolo; egli era frate Servo di Maria, membro cioè di una “famiglia” religiosa ove la Madonna è di casa. Gli stessi Fondatori che dettero inizio a quest’Ordine nel 1233 – sette mercanti fiorentini, discepoli
spirituali di san Francesco e san Domenico – si dice che fossero “Laudesi”, ossia «cantori di nostra Donna». L’arte di cantare Maria fa parte
del patrimonio genetico dei Servi. Giovanni (anima gemella di padre
David Turoldo e suo compartecipe di coraggiose iniziative) raccoglie
questa eredità domestica e l’arricchisce col suo carisma di pensatore robusto, venato di lirismo poetico.
Nel 1983, appena un anno prima del suo congedo, consegnava alla
rivista Servitium una decina di cartelle («I Servi e la vergine Madre»),
ove egli stesso condensava i punti nodali del suo viaggio intorno a Maria: microcosmo della storia salvifica, dall’Immacolata all’Assunta.
Noi, Servi e Serve di santa Maria, stimiamo sia quello il suo testamento spirituale. E ci sembra anche il nucleo aggregante, quasi la guida
di lettura dell’antologia mariana qui edita. Volentieri partecipiamo tanto dono a quanti hanno conosciuto e amato padre Giovanni. A somiglianza del Battista, «egli era una lampada che arde e splende [...]»
(Giovanni 5, 36). E noi continueremo a rallegrarci alla sua luce.
Preliminare
del curatore
Di tre parti è composto il libro, numero che rimanda a perfezione, donde può giungere a chi lo prende tra le mani un’indicazione, una sollecitazione che fa dello scorrete le pagine qualcosa di più di un’erudizione:
l’attingimento di un’ispirazione esistenziale che ha convinto a mettere
mano a questa impresa editoriale per spartire la gioia di un dono offerto da non comuni sensibilità e capacità.
Le tre parti sono dedicate:
al discorso dialogico: parola che svela, approfondisce, illumina, porta
le diversità a un punto d’incontro;
al linguaggio della poesia: parola densa e vera, attinta al cuore stesso
del mistero; essa compone in melodia le necessarie contraddizioni della materia e dell’animo, concilia la ragione alle domande del cuore, accosta l’orecchio all’inudibile;
all’immagine, parola-icona della contemplazione: colori, segni, simboli che portano la mente a “vedere” realtà, oltre le illusioni, gli spazi
angusti delle definizioni e le certezze della teoria, bellezza che avvicina
ai sensi i non-orizzonti dell’infinito.
È nostro desiderio che tu sia non solo lettore attento, ma insieme
“uditore e veggente”, oltre il libro, che è “servo” comunque, modesto e
“inutile”, di altro che viene dall’alto o dal profondo a fecondare l’insostituibile intelligenza e coscienza d’ognuno.
David M. Turoldo
INVITO AL CANTO
Via pulchritudinis
Donna, forma estrema del Sogno,
anima del mondo,
tu sei il grido della creazione.
D. M. Turoldo, Canti ultimi, Milano 1991, p. 198.
Quale omaggio nuovo alla madre in occasione della presente raccolta,
vorrei rifarmi, a modo di prefazione, al brano di un documento pontificio dove Paolo VI ci rimanda alla Vergine non solo come via veritatis,
ma anche come via pulchritudinis: via da seguire se si vuole raggiungere la beatitudine promessa. Una beatitudine che non può essere tale se,
appunto, è solo verità. La verità da sola può fare anche male. La verità
la possiedono anche i dannati. Ma la bellezza!... Infatti Dostoevskij dice che sarà la bellezza a salvare il mondo. E io, senza sconvolgere nessun ordine, ma solo per dire quanto più mi preme, precisamente vorrei
qui proclamare, avanti a ogni altra urgenza, la via della bellezza. Poiché
senza bellezza non c’è neppure verità: Dio è la stessa infinita pienezza
del bello, altrimenti non è neanche vero e neanche buono. La cattiveria,
prima che abbrutimento, è imbruttimento. «Vedo Lucifero cadere come meteora spenta». Impossibile essere buoni in mezzo a brutte cose.
Le nostre città sono imbruttite, perciò sono serbatoi di abbrutimento.
A presiedere al mondo è la bellezza. Avanti la stessa metafisica, avanti l’etica, c’è il primato della bellezza. Davanti alla scoperta di una verità,
come davanti a un atto d’amore, diciamo tutti: «Che bello!». Così davanti a un tramonto come davanti a una teofania, diciamo: «Che bello!».
Così per un gesto di perdono.
Il mistero della bellezza! Finché la verità e il bene non sono divenuti bellezza, la verità e il bene sembrano rimanere in qualche modo estranei all’uomo,
s’impongono a lui dall’esterno; egli vi aderisce ma non li possiede; esigono da
22
DAVID. M. TUROLDO
lui un’obbedienza che in qualche modo lo mortifica. Quando veramente
abbia conseguito in un possesso pacifico e pieno la verità e il bene, allora
ogni mortificazione vien meno, ogni sforzo; allora tutto l’essere suo, tutta la
sua vita non sono che una testimonianza, una rivelazione, della perfezione
raggiunta. Questa testimonianza, questa rivelazione è precisamente la bellezza. Certo, finché viviamo (mi permetto di anticipare le cose), la verità e
il bene non saranno mai nella loro pienezza per l’uomo un possesso pacifico: egli tenderà sempre in avanti perché la verità e il bene rimarranno per
lui una norma, che esigerà una continua obbedienza, saranno per lui una
meta che esigerà un cammino continuo. Di qui, nell’ordine attuale il primato della morale e della ricerca filosofica sull’arte. Questo primato tuttavia è proprio della condizione presente dell’uomo viatore. Il primato ultimo e definitivo rimane quello della bellezza.
Siccome la cultura è l’espressione stessa di uno sviluppo spirituale, di una
certa perfezione raggiunta, ne viene che la cultura massimamente sembra
esprimersi anche oggi nella bellezza: nella nobiltà della vita, nella purezza
del dettato, nell’espressione dell’arte. In questa bellezza l’uomo non rende
soltanto la pura testimonianza di una perfezione personale che egli ha raggiunto, ma naturalmente si ordina agli altri e insieme li attira, perché la bellezza è condizione di amore: così per la bellezza tutto tende all’unità mediante l’amore.
Il vero e il bene non sono sufficienti a creare una cultura, perché non sembrano sufficienti da soli a creare una comunione, una unità di vita fra gli
uomini.
(D. Barsotti, «Cultura e grazia», in Ragguaglio, 1960)
E dunque: Dio è la stessa bellezza. Non solo, ma non esiste nulla di
bello che non venga da Dio e non sia divino. «Suvvia: divenga ciascuno
deiforme e bello, se intende contemplare Dio e il bello» (basterebbe
questo pensiero per comprendere tutta la vita della Vergine: come abbia trovato la grazia presso Iddio).
A staccare la realtà del buono dalla realtà del bello si hanno inevitabilmente due mondi: uno che finisce nell’“etico”, in attesa di degenerare nel “moralismo”; l’altro che si accontenta del “letterario” o del “formalistico”, per finire poi quasi sempre nell’affascinatio nugacitatis, nell’incantesimo del nulla. Da qui i due crinali l’uno all’altro opposti: il
“religioso” opposto al “laicista”. Quando invece, secondo le scritture,
anche le opere buone si chiamano kalà érga. Ogni creatura di Dio è
kalón (cf. 1Timoteo 4, 4).
VIA PULCHRITUDINIS
23
Per natura il kalón è appetibile anche dagli animali irragionevoli.
Kalós è colui che è bello di aspetto, di forma, e quindi di essenza
(donde l’identità tra forma e contenuto: così, ad esempio, se noi facciamo un discorso brutto su Dio, noi non diciamo il vero di lui; così, se
cantiamo male, non gli diamo nessuna lode; e quando facciamo una
chiesa brutta, noi facciamo una falsa chiesa: una chiesa disgustosa).
Secondo la Vulgata – che è la traduzione biblica più carica di “santa
unzione”, che vuol dire santità e verità insieme, e perciò traduzione cosparsa di bellezza –, gli uomini gloriosi, gli antenati da celebrare con degne lodi erano coloro che «coltivavano lo studio della bellezza e vivevano in pace nelle loro dimore». Del Principe divino un Salmo dice:
Sei il più bello tra i figli dell’uomo,
sulle tue labbra fiorisce la grazia:
ti ha benedetto Iddio in eterno (Salmo 45, 3).
Dove si può sostenere che il segno della benedizione è precisamente
la bellezza. Per cui è ancora più grave quanto è detto in riferimento a
Cristo, secondo il “cantico del servo di Jahwèh”, che «a guardarlo non
aveva né bellezza né decoro»: perciò si comprende meglio l’orrore
quando anche Cristo è chiamato il “maledetto”.
Da aggiungere che l’estetica per sé indica la stessa esperienza del
bello. Dice ordine alla sensibilità: ciò fa pensare finalmente a un Dio
“sperimentabile”. Che poi è l’unica conoscenza di Dio: come avere il
senso di Dio. Cosa che è vera anche di rimando, da parte di Dio in direzione della creatura. Donde si possono pensare “gli amorosi sensi”,
l’admirabile commercium tra Dio e la sua creatura: tra Dio e la figlia di
Sion, tra Dio e la Vergine. Donde nasce il mistero della vita interiore, la
bellezza degli intimi rapporti. La vita spirituale non è se non un poema
di bellezza da vivere con Dio. Io non conosco la teologia della bellezza
di von Balthasar, ma credo che questo dovrebbe costituire uno dei più
delicati e misteriosi capitoli dell’esistenza di una creatura in stato di grazia: in stato, appunto, di bellezza.
Grazia, uguale a compiacenza: Dio che pone il suo sguardo sulla
creatura; Dio che contempla e si contempla nel suo creato. È la creatura che ha trovato grazia presso di lui: Dio che continua a bearsi. Perciò
ti elegge come madre, per rendersi visibile all’universo: lui in persona.
24
DAVID. M. TUROLDO
La tua bellezza incanta il re:
egli è il tuo Signore, l’Amato,
a lui ti prostri con gioia profonda.
Tutta fulgore è la figlia del re,
di oro e perle riluce il suo manto,
non han confronto i preziosi ricami (Salmo 45, 12. 14-15).
Così canta il Salmo che la pietà liturgica applica in modo particolare
alla Vergine: per indicare precisamente la sua vita interiore, i suoi intimi rapporti con Dio. Cose da Cantico dei cantici ! «Tota pulchra es, Maria». Già realtà della “sposa bella”, la sposa pronta per le nozze; già immagine della chiesa che scende dai cieli: «senza macchia, né ruga, né altro di simile». Creazione da cieli nuovi e terre nuove. Annuncio del
tempo di Cristo, del figlio della Bellissima. «Guardate i gigli dei campi:
neppure Salomone rifulse mai di un simile splendore».
Niente di più evidente: una creatura si ama prima di tutto perché è
bella. Impossibile non amare il bello. Se uno ama il brutto, vuol dire che
lo ama solo perché lo pensa bello. L’amore e il bello sono inscindibili.
«Il bello è amato», il bello è amico. Il bello è sano, vigoroso, eccellente,
splendido di vita. Uomo forte. Buono. Prezioso. Le perle preziose sono
margarítai kalói. Unica cosa che ha valore. Il bello: conviene e sta bene.
È ciò che è in ordine; piacevole e affascinante. Il bello è la proporzione
in ogni cosa. «Proprio di una mente divina è agitare sempre (dialogizzare) qualche cosa di bello».
Per Platone, il bello è l’idea centrale del mondo e della vita; idea che
è tutt’uno con il divino. Non è solo una emanazione del bene, ma è l’altra faccia del bene: «Ogni bene è bellezza». Forza motrice dello spirito
greco. Sotto questo aspetto nessuno potrebbe comprendere meglio di
un greco la “vergine-madre”. Per il greco il fondamento della paideía
sta nella «fame dell’anima per la bellezza». Il bello rappresenta sempre
“l’idea esemplare”. «Concedetemi di diventare bello nell’intimo» (Socrate).
È ancora il bello la forma del bene nel mondo del divenire: un mondo che deve “farsi” secondo l’idea eterna del kalón: perciò forma in
continuo divenire dell’essere eterno. Creazione come continua espressione dell’infinita bellezza di Dio. Infatti, è questa la prima verità con-
VIA PULCHRITUDINIS
25
clamata dalla rivelazione: «E Dio vide che tutto era bello» (Genesi 1,
31).
È vero: i testi portano il termine “buono”: «Dio vide che tutto era
buono». Si può spiegare lo slittamento sul bene, per paura dell’idolatria
da parte dell’israelita sempre in lotta per il suo monoteismo: appunto,
per non adorare le creature invece del suo creatore. Perché è impossibile non adorare il bello, o almeno non correre il rischio di adorarlo. Ma
il termine originale era kalón, perciò «Dio vide che tutte le cose eran
belle».
Ora si capisce ancora di più come la Vergine possa rappresentare veramente la via della bellezza, la via più sicura per giungere a Dio e al mistero delle cose: lei madre della bellezza. La Vergine come la più grande
manifestazione – nel creato – dell’azione di Dio: in ordine al Cristo che
sarà lo stesso “splendore della luce eterna”, il “candore senza macchia”,
“l’immagine sostanziale dell’invisibile Iddio”. Come dire: il mare della
stessa bellezza.
La Vergine madre, sintesi della creazione, segno della pienezza di
grazia; sintesi della storia d’Israele: la vera “figlia di Sion”; figura e consumazione del nuovo Israele, la chiesa. Bellezza che si traduce in ricerca e disposizione di grazia, attraverso la vita di preghiera e di invocazione; vita che si fa culto, atto d’amore. Una vita che la Scrittura così
riassume:
L’occhio tuo fondo gli hai posto nel cuore
perché egli scopra le tue meraviglie
e sempre celebri il santo tuo nome
la tua bellezza narrando nel canto1.
Così, per dare voce alle
armonie che riempion la terra
sonanti fino ai confini del mondo (Salmo 19, 5).
1 D.M. Turoldo, «Inno di ringraziamento», in La nostra preghiera, liturgia dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 19963, pp. 30-31. [ndc]
DAVID. M. TUROLDO
26
Basti pensare cos’è l’uomo secondo il piano di Dio: coscienza della
terra, voce del creato, creazione che canta e adora, oppure che bestemmia. San Francesco riprende la stessa essenza dell’uomo quando compone il Cantico delle creature; il quale è cantico delle creature non perché sono in esso tutte evocate, ma perché Francesco si fa voce di tutte
le creature.
Da ricordare ancora il Cantico dei cantici, quale profezia di più alto
e divino amore. Nel quale Cantico possiamo dire di essere tutti celebrati, in quanto si canta il profondo mistero di ogni vita. Naturalmente nel
rispetto della diversità delle missioni e dei livelli. Così nella vita dei santi, nella vita della chiesa, della Vergine, del Cristo; e infine, di Dio e della creazione.
Fine della creazione e di ogni esistenza e di ogni fede è scoprire, partecipare, rivelare, cantare la bellezza. Così per l’uomo in genere, in ordine naturale; così nella completezza della rivelazione. Da qui nasce un
ordine di cose che è poi l’ordine della perfezione, del “compiuto”: a fine raggiunto.
Così siamo ritornati al punto di partenza, alla beatitudine agognata:
tutti in attesa della visione ultima della bellezza; di quella visione che
sarà lo scoprimento della verità totale: così com’è, e noi come saremo.
Unica visione che ci renderà felici per sempre: beati di ciò che alla vista
piacerà per sempre.
La stessa poesia del «dolce naufragio nel mare dell’infinito» non è
che un preconio. Sia che lo canti il poeta disperato (ma la disperazione
non è che il desiderio non attuato dell’Assoluto), sia che lo canti il poeta credente:
O Luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!2
E cioè si tratta sempre dello stesso “naufragare”. Così come quando la
Vergine intona il suo Magnificat, e si fa voce di tutta la creazione e di tutta la storia, e si mette a danzare di gioia «in Dio, mio salvatore».
2
D. Alighieri, La divina commedia, «Paradiso», XXXIII, 124-126.
VIA PULCHRITUDINIS
27
Per riprendere il discorso sulla Vergine è giusto anche pensarla come creazione finalmente riuscita, e quindi come manifestazione ultima,
la più alta, della bellezza dello stesso Creatore. Perché tutto era bello,
eccetto l’uomo. Di lui il testo dice che non era bello: perché non era
perfetto, non era completo. Dunque, lo stesso creato, questo immenso
fiorire di bellezza, non era completo senza la donna. Pertanto è la donna la perfezione dell’uomo e del mondo, la creatura che ne segna il
compimento e l’ultima rivelazione. La donna come immagine e realizzazione della bellezza. Dopo la donna Dio non crea più nulla; dopo la
donna Dio si riposa. Da qui comincia la nostra storia.
Chiaro che a questo punto per noi il passaggio è immediato: di fronte
alla creazione che non ha retto, che non ha resistito al carico di tanto destino, ecco la “ri-creazione”: il mondo che riprende da capo, il mondo in
attesa della Vergine e del Cristo.
Con Eva abbiamo il peccato, cioè il “brutto”: la scoperta di essere nudi. Avevamo perduto il manto divino della bellezza, persa l’innocenza, la
santità. Si nascondono e tornano nella notte. Ma perciò è annunciata la
nuova creazione: l’Immacolata concezione, la santità della terra che ritorna. «Tota pulchra [...] et macula originalis non est in te». È l’aurora che annuncia il nuovo giorno: Cristo in cui abita ogni pienezza. Così Dio ritornerà a “passeggiare” nel suo creato. Perciò io canto alla Vergine così:
Se tu non riappari,
anche Dio sarà triste3...
Come conclusione penso cosa onesta riportare ora il testo pontificio,
da cui ho tratto ispirazione. E, dopo quanto ho detto sul primato della
bellezza, non ha più importanza l’ordine delle due vie indicato dal documento. Così dice Paolo VI nella locuzione al pontificio ateneo di
sant’Antonio in occasione del VII congresso mariologico celebrato in
Roma il 16 maggio 1975:
Ci viene aperta una duplice via: la via della verità, cioè dell’investigazione biblica, storica e teologica, che riguarda la collocazione giusta di Maria nel mistero di Cristo e della chiesa. Una via da seguire, perché è la via dei dottori,
utilissima a promuovere lo studio della mariologia.
3
D.M. Turoldo, «Anche Dio sarà triste», in O sensi miei, cit., pp. 253-256.
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DAVID. M. TUROLDO
Ma c’è un’altra via, a tutti più accessibile, aperta perfino agli uomini di più
umile condizione: la definiamo la via della bellezza. A questa via conduce finalmente la stessa misteriosa, mirabile e bellissima dottrina che riguarda Maria e lo Spirito santo; nello studio della quale deve impegnarsi il congresso mariano. Maria è veramente [...] il supremo e assoluto esemplare di perfezione:
in ogni tempo gli artisti si sono sforzati di rappresentare la sua immagine nelle opere d’arte; questa «donna rivestita di sole» (Apocalisse 12, 1) nella quale
confluiscono i raggi purissimi della bellezza umana e quelli della bellezza celeste, i quali sono di un livello superiore e tuttavia possono essere percepiti.
Perché tutte queste cose? Perché Maria è la “piena di grazia”, cioè – possiamo dire – è piena di Spirito santo; del quale il lume soprannaturale brilla in
lei con splendore incomparabile. Certamente, è necessario che noi contempliamo Maria e rivolgiamo il nostro sguardo alla sua immacolata bellezza, la
quale spesso irrita e quasi offusca le fallaci immagini della bellezza di questo
mondo. Al contrario, la contemplazione dell’eccelsa bellezza di Maria genera grandi sentimenti d’animo, propositi generosi di purezza, invita ad abbracciare la misura della pietà e rinnova veramente gli spiriti!
Mentre nel nostro tempo le donne conquistano una debita promozione sociale, niente è più utile, niente conquista gli animi quanto il proporre in
esempio questa immagine della Vergine madre, la quale irradia la luce dello Spirito santo, e con la sua bellezza assomma ed esprime comunque tutti
i veri beni dell’animo umano.
In quanto allo Spirito santo nella creazione e in ogni vicenda di grazia, basti ricordare ciò che dice la Scrittura: «È lo Spirito che orna i cieli». Come basta ricordare, quale premessa a uno specifico discorso in
proposito, quanto dice riguardo alla Vergine sant’Amedeo vescovo:
Lo Spirito santo scenderà su di te: scenderà fecondo, abbondante e in pienezza di vita. Dopo averti colmata, sarà ancora su di te aleggiando sulle tue
acque; farà di te una creazione nuova e più mirabile di quella operata all’inizio dallo Spirito che, librandosi sulle acque, trasformò la materia nelle
sue forme differenziate.
Anima mundi
E cercare di essere cantori sempre nuovi, sempre poeti nuovi del mistero di Dio. Più che orgoglio, questa è una necessità. Cantare te, o Madre,
è la più grande lode che possiamo rendere allo stesso creatore: nulla di
simile a te egli ha mai pensato. Nulla di più alto di te, di più sublime può
mai attendersi la terra intera. Perciò il canto che a te si ispira partecipa
della medesima necessità della divina lode, e della ragion d’essere di tutte le creature.
È una questione di vita, una questione di comprensione del mistero
dello stesso Dio, poiché il figlio tuo, il frutto del tuo grembo, segna la
pienezza della creazione, e insieme la pienezza di tutta la rivelazione. E
se egli, il tuo figlio, è posto come traguardo ultimo della natura, l’entelechía del mondo dove pare esaurirsi la stessa divinità, nel mentre che il
mondo si indìa per mezzo di lui, ecco che tu sei il «termine fisso di eterno consiglio», poiché tutto, nel tempo, da te ha inizio e in te si compie,
e tu sei la creazione obbediente, la terra «che ama e adora», la vera “figlia di Sion”, tu realtà e figura della nuova umanità, segno di cieli nuovi e terre nuove.
Perciò da lui e da te ogni cosa trae la sua gioia di esistere, e tutta la
storia del mondo, anche quella del male, trova la sua ultima estrema significazione.
Questo io voglio cantare nel tuo nome, o Madre. Dio incombe; la vita è sempre da vivere; il mistero è sempre da conoscere. E come la vita
la si conosce nell’atto in cui la si vive, così Dio è sempre da vivere e da
scoprire. Egli è sempre nuovo, è la stessa novità della vita. La natura, il
30
DAVID. M. TUROLDO
tempo sono una profezia sempre in atto, continua proiezione dell’eterno nel presente e continua proiezione del presente nell’eterno. Cosicché il tuo essere è il suo rivelarsi quotidiano. Così è il mistero di Dio: luce che si apre ogni giorno sul mondo. Nuovo è il sole, nuovi i colori,
nuovi i pensieri. Ciascun giorno è un giorno mai vissuto sulla terra.
Camminiamo dunque “in novità di vita”.
A queste profondità nulla vi è di antico, nulla di evocato: e meno ancora di decaduto, di non attuale nel mistero. Tutto è contemporaneo,
tutto accade nell’attuosità del creato, nel divenire della natura, dentro
lo spirare inesausto dello Spirito.
Non è vero che Dio “creò” il cielo e la terra; è vero che Dio “crea”,
crea ora e da sempre. «Il Padre mio è sempre all’opera» (Giovanni 5,
17). «In principio è la Parola» (Giovanni 1, 1). Questo principio è l’eterno nel tempo, lo stesso essere di Dio sempre presente attraverso il
suo pensare perennemente creatore.
Io sono in ogni momento una creatura del suo amore; in ogni momento egli mi alita il suo alito, e mi sostiene, e mi chiama per nome: per
cui sono io, io e non un altro; io che continuo a nascere, a crescere, ad
apparire e a sparire...
In questo eterno sognare di Dio ci sono degli archetipi cui si riferiscono tutte le cose, «quelle di lassù, nei cieli, e quelle di quaggiù, sulla
terra» (Colossesi 1, 16; Efesini 1, 10); archetipi che interagiscono a modo di finalità intermedie, insite nello stesso dinamismo delle cose; secondo un ordine di fini che ordina e coinvolge tutta l’opera di Dio, in
adempimento di ogni attesa delle singole cose e del tutto, insieme.
L’archetipo primo e ultimo, principio del creato, è lo stesso Verbo di
Dio «per cui sono fatte tutte le cose» (Giovanni 1, 3); quel Verbo che in
te si fa carne, o Madre; da te assumerà le sembianze dell’uomo, e sarà
uomo vero, umanità perfetta: appunto realizzazione del sogno divino.
Tutto in Dio è ordinato all’uomo, finalizzato all’uomo. Senza l’uomo, senza questa realtà coscienziale, neppure Dio avrebbe senso. Perciò Gesù Cristo è venuto e viene e verrà; Gesù Cristo, stella radiosa del
mattino, alfa e omega dell’intera creazione; egli, il primogenito di ogni
creatura, il risorto, il vivente. Colui che deve continuamente avverarsi,
incarnarsi, venire e tornare; colui che è atteso e cercato da tutti, se ne
abbia o no coscienza. Egli è il «desiderio dei colli eterni» (Genesi 49,
26); sintesi di passato e presente e futuro di ogni tempo; creazione e in-
ANIMA MUNDI
31
carnazione e parusía sempre in atto. Per cui sono vere tutte le implicazioni cosmiche: di «riconciliare in lui tutte le cose» (Colossesi 1, 20); di
«crescere in nome di tutte le cose in lui che è il capo del tutto» (Efesini
4, 15); della «natura che continua a gemere come una partoriente in attesa di essere liberata dalla vanità della morte» (cf. Romani 8, 19ss). In
lui possono finalmente dirsi realizzate le tre dimensioni dell’uomo: quella cosmica per cui tutte le cose in lui trovano la loro pace; quella comunitaria, poiché in lui si consuma la comunione di tutta l’umanità; e quella
divina, perché in lui noi finalmente «vediamo la sua gloria, pieno di grazia e di verità» (Giovanni 1, 14). Egli finalmente è la quiete e la pace di
tutti gli elementi.
E nell’attesa di tutta la terra –
tutta la terra saliva, cresceva,
e piante e rettili e alati e fiere
come in sogno la terra attendeva – ...1
È così: “in Dio”; “nel principio”. O, meglio, “nella mente di Dio”,
cioè nella progettualità divina prima, nella realizzazione della storia poi.
E tu, Madre, quale manifestazione visibile e tangibile della divina sapienza; maternità accanto alla divina paternità; anima mundi ossia potenza mediatrice tra il primo principio e la creazione: a significare la
plasticità pura della materia, la terra non inquinata da forze germinatrici non divine; grembo aperto solo ai divini germi, grembo di preservazione dalla caduta nella pura materialità; e “porta del cielo”: a indicare
la possibilità di uscita della divinità dalla sua solitudine e la discesa divina nel mondo, e a indicare insieme la possibilità di ascesa della creazione caduta che torna al suo principio.
Anima mundi tra il punto sorgivo della creazione, cioè tra la fons et
origo di tutte le cose e il creato, la terra, gli esseri creati, noi, ciascuno di
noi; tu, realtà che ordina armoniosamente il pensiero e la volontà creatrice: perciò sei la necessaria allegoria, presenza femminile che appari in
tutte le religioni accanto alla suprema divinità. Tu, a quelle altezze,
1
D.M. Turoldo, «E nell’attesa», in La nostra preghiera, cit., p. 166. [ndc]
32
DAVID. M. TUROLDO
non pura deità e non pura creaturalità, ma mediazione tra le due polarità
del cielo e della terra; presenza femminile che sta accanto all’Increato-creatore e la creatura. Nella nostra fede: Spirito santo-Vergine madre; nuovo
Adamo-nuova Eva; Verbo creatore-Sostanza plastica universale; Spirito-acqua, nella Genesi (Giovanni Vannucci).
È così: principio creatore-materia prima, che accoglie l’azione fecondatrice e le offre la possibilità di concretarsi. Potenza attiva e potenza recettiva che permette la creazione.
È così: mentre lo Spirito continua a librarsi sugli abissi del mondo
come sugli abissi del cuore, ecco che tu, Fanciulla, sali dal mare come
luce ad illuminare l’universo: Vergine che vieni dal fondo del tempo e ti
formi nei secoli, attraverso tutta la storia e le culture, prefigurata dalle
mitologie, alla fine apparsa quale cattedrale nel centro del mondo.
Madre che concepisci la Parola in forma e sostanza di vero uomo, in
forma e sostanza di nuova creazione: pacificazione dei mondi.
Sacerdotessa che offri l’Agnello sull’altare.
Tu immagine della pietà: Madre che dalla croce riprendi il figlio in
seno, quasi a concepirlo ancora, in attesa che risorga.
Così dunque, o alma Mater, tu sei la congiunzione tra la visibilità e
l’invisibilità, tra luce e tenebra, tra rivelazione e nuova velazione.
Così come è l’alba tra il giorno e la notte; o l’aurora che rivela l’infinita gamma dei colori, lo sfolgorio prodigioso del sole, quando il sole ha
ancora da sorgere, quando ancora non si vede.
Tu, la madre-terra, la madre-natura; umanità madre; la madre-chiesa; coscienza quale grembo dell’Idea! Spazio concreto del concepimento della Parola; immagine vivente del regno: “nuvola che porta la pioggia sull’arida terra”; piccola fiammella di luce, virgula fumi, luce che si
condensa sulla linea di fuoco del mondo: così fin dall’origine.
Maria! Sì, perché tu sei la piccola fanciulla di Nazaret, precisamente
figlia di una comune famiglia umana, ragazza di un piccolo paese del
mondo. Anche se il tuo essere è solo in quanto destinato ad essere madre
dell’uomo-Dio: perciò ultima immagine del creato; la donna con cui ha
veramente fine la creazione e tutta la natura trova il suo ultimo senso.
Vera Beatrice
Ormai dunque, anche tu eri, all’apparenza, una ragazza come tutte. Solo persone più attente avevano avvertito che qualcosa di strano c’era nell’aria: almeno nei tuoi occhi così sereni, nonostante quello che sentivi
per il male. E sentivano che quelle tue mani, specialmente quando pregavi, diventavano esse stesse una catena d’oro. Ma bisognava pensare ad
altro.
Tempo era che gli stessi genitori provvedessero, come allora usava,
che uno fra quanti giovani si fermavano lungo la strada nel vederti passare: uno sommamente raro se non unico – così pensava chi ti era più
amico – fosse il più adatto a impalmarti. Tanto più che solo la verga di
costui sarebbe fiorita in segno di consenso sia del cielo che della terra.
È quanto una famosa tradizione ci narra circa una appassionata e innocente gara di pretendenti. Notizia che ha infiammato artisti di ogni
tempo a ritrarre, per le tue nozze, il tuo bel giovane, appunto Giuseppe,
con la sua bellissima verga fiorita in mano. Invece era che la tua bellezza
splendeva così soavemente da non suscitare turbamento alcuno, e solo
apriva ai gaudi della contemplazione. Una bellezza che spegneva i fuochi
e rasserenava.
Vera Beatrice tu sei, o Maria: colei che deve tutti condurci al vero paradiso. E Giuseppe, il tuo fidanzato, era più di tutti aperto al mistero: un
giusto, armonioso pure lui, un giovane che già viveva di fede. Così avete
potuto acconsentire ambedue, senza che sapeste allora cosa poteva nascondere il cielo dietro il vostro amore.
34
DAVID. M. TUROLDO
Da quali sentimenti eri animata, quale amore ti possedeva, quali pensieri ti
agitavano mentre avvenivano in te queste cose ...? Dov’era l’anima tua, dove
il tuo cuore, la tua mente, i sentimenti, dove la ragione?
Tu ardevi senza consumarti, come il roveto un giorno visto da Mosè...
Il fuoco ha prodotto una rugiada luminosa, e la rugiada un olio di elezione.
Ma tu, fanciulla, narraci con ordine come sono andate le cose. Ora
camminiamo più speditamente sul rivelato, sul palese. Da dove gli artisti hanno mille provocazioni. Testi diligenti e attentissimi, per quanto
sempre incapaci di esaurire i misteri.
Oh, le infinite annunciazioni!
Chi ti coglie nella sera, in quella mistica luce quando le cose non sono più cose; chi nel centro della terra. E altri alla soglia di una reggia,
quasi a dire che tu eri il palazzo preferito di Dio, e che sarai tu il suo
tempio vero. Tu l’alma-mater, la terra che lo porta in seno, e che poi lo
offrirà sul monte. Tu, profezia della chiesa.
Altri ti colgono sull’alba, quando sta per sorgere la luce e inondare il
creato in estasi. Artisti, a migliaia, hanno tentato di narrarti; ma appena
con colori che sempre hanno pensato ineguali; senza essere mai convinti di aver afferrato il mistero della luce dei tuoi occhi, e della luce delle
cose; e il mistero del silenzio.
Una luce mai vista da nessuno, così segreta e nascosta. Anche gli artisti, o soprattutto essi, a narrarti in silenzio. Essi, insieme ai santi, i più
devoti cultori della contemplazione. Perciò provocati dalla stessa fantasia di Dio.
Ricordo una cappella antichissima. Un arco si apriva sopra l’altare:
tutto oro e mosaici. Gli apostoli formavano attorno al Cristo solenne testimonianza al mistero, rappresentanti della chiesa che incarna il medesimo Cristo nei secoli. Ma sul frontale stavano i personaggi dell’annunciazione: ai due estremi tu e l’angelo, l’una e l’altro in ginocchio; al sommo il Padre portato dal carro dei serafini. Sul tuo capo, Maria, volteggiava ad ali spiegate la sacra Colomba. Solo che dalla bocca del Padre in
direzione tua, lungo un unico raggio che finiva a piombo sul tuo orecchio, scendeva a tuffo un piccolo bambino dalla carne già sanguinante...
Per dire come hai concepito con la mente prima che col ventre: ascol-
VERA BEATRICE
35
tando e credendo; appunto per dire quanto il mistero è più grande di
ogni forma. Perciò sono da ricordare tutte le annunciazioni del mondo:
mai esaurita teologia in colori e pietra...
Giovanni M. Vannucci
LA DONNA ETERNA
La divina Sophía
«Viviamo in un mondo senz’anima»: è un’espressione tanto frequente da
essere ormai un luogo banale; essa presuppone l’abbandono di uno stato
di coscienza nel quale l’anima del mondo era sentita come elemento costitutivo della realtà umana. Vale la pena di tentare di capirne il significato filosofico che, oltre ad aiutarci a riconquistare una visione perduta, ci
sarà di ausilio a liberare l’immagine della vergine Maria da molti indurimenti idolatrici.
La teologia razionale, “katafatica” (affermativa), non può essere legittimata e salvaguardata se non è preceduta da una rigorosa teologia
“apofatica” (negativa). L’articolazione tra la teologia negativa e quella
positiva non è possibile che per una mediazione; servendoci delle sue
sole categorie, del Creatore e della creatura, non supereremo mai il loro dualismo. Il senso della dottrina dell’anima del mondo, o della sophía, è quello di introdurre un termine medio tra il Creatore e la creatura. Essa conduce a comprendere il mistero della creazione come una
tragedia divina e umana insieme, un processo teogonico e cosmogonico
insieme. Il mistero dell’atto creatore si estende in quello della presenza
divina in questo mondo. L’idea di questa presenza è l’immagine
dell’“anima del mondo”, della sophía divina; senza di essa, Dio si ritira
definitivamente dal mondo. L’assenza dell’anima del mondo termina in
un teismo dualista, senz’anima. Da qui l’interrogativo: in che misura
questo teismo unidimensionale è responsabile del “venerdì santo speculativo”, in cui fu annunciata come definitiva la morte di Dio? Il rifiu-
40
GIOVANNI M. VANNUCCI
to dell’“anima del mondo” è legato al dualismo anima-corpo, materiaspirito, ecc., ed è l’incapacità di comprendere la necessità di una realtà
mediatrice, corporea e spirituale insieme, di un’anima che sia tra l’Inconoscibile e la creatura come luogo ideale di una incarnazione spirituale, come “corporeità celeste” (J. Böhme).
Se la perdita della sofiologia porta con sé l’allontanamento definitivo di Dio dal mondo, simmetricamente fissa definitivamente l’uomo in
questo mondo, abbandonato senza difesa a tutte le istanze agnostiche,
sociologiche, psicanalitiche... Morte di Dio e morte dell’uomo sono
concomitanti di un mondo che ha perduto la sua anima.
Nel Timeo (17-39) di Platone l’anima del mondo è descritta come anteriore all’apparizione del corpo del mondo. Il corpo del mondo è interiore all’anima del mondo; questa è estesa a tutto il corpo del mondo e lo
sorpassa. L’anima del mondo comanda al corpo del mondo e questo le
deve obbedienza. La genesi dell’anima del mondo è così descritta da
Platone: «Il creatore mescolò l’io e l’altro, miscela che in seguito divise
secondo armoniose proporzioni improntate alle gamme pitagoriche». Si
ebbe in tal maniera il corpo del mondo dipendente da un’anima che lo
trascende totalmente. Trascendenza che salva il corpo dalla caduta in se
stesso, aprendo una dimensione di origine e di finalità che risveglia nell’uomo il desiderio di riunirsi al suo principio mediante un movimento
ascensionale che lo conduce alla contemplazione, ad un’estasi intellettuale (theoría) e insieme ad una separazione da se stesso. Il pensiero di
Platone sulla theoría trova il suo vertice nell’esperienza di Plotino. Di lui
Porfirio racconta come, seguendo la via prescritta da Platone nel Simposio, vide Dio, che non ha né forma né essenza, situato al di là dell’intelligenza e degli intellegibili: «Io, Porfirio, non ho avvicinato Dio che una
sola volta nel mio sessantottesimo anno, Plotino invece lo raggiunse quattro volte in virtù di un atto ineffabile e non solamente come possibilità».
L’esperienza greca segna l’inizio di un’esperienza religiosa singolare: l’iniziato vede e conosce, il mistero occidentale segue una via eroica e gnostica, a differenza di altre vie tellurico-mistiche. La prima, solare, tende a
realizzare l’uomo in sé, a raggiungere l’Essere in sé, Dio stesso attraverso
il rischio, l’ascesi della conoscenza deificatrice, la libertà creatrice per trasformare e salvare il mondo. La seconda, lunare, cerca la felicità individuale, la sicurezza, la quietudine dell’estasi. La prima aspira ad uscire dal
seno della madre, ad affermarsi fuori di esso, la seconda aspira a rientrar-
LA DIVINA SOPHÍA
41
vi e a dimorarvi. Nella prima è insito il rischio di affermare il valore assoluto della conoscenza, di voler ottenere la salvezza attraverso la via
della conoscenza razionale.
Questo rischio, che nella mentalità occidentale è prevalso, può spingere l’uomo a credersi capace di dominare l’anima del mondo, aprendogli la via dell’attività, della prassi per racchiudere l’anima del mondo entro i limiti del mondo.
Kant ha cercato di innalzare una diga a questo rischio stabilendo i limiti della ragione, che per lui è un’isola, non un piano che si estende all’infinito. L’isola della ragione è attorniata da un mare.
Noi siamo capaci di una saggezza negativa che riconosce i limiti imposti all’investigazione propria di quegli oggetti che sono al di sopra della nostra
portata.
Questi limiti furono abbattuti dai post-kantiani; la saggezza negativa
fu trasformata in saggezza positiva. L’anima non trascende il mondo; il
mondo è autodeterminato; l’anima gli è coestensiva: essa si chiama Weltgeist, spirito del mondo; la sua autogenesi manifesta è la storia.
Gli ultimi passi furono compiuti da Hegel:
Lo spirito del mondo prende su di sé il prodigioso lavoro della storia del
mondo, elaborando in ciascuna forma il suo intero contenuto, nella misura
della capacità di questa forma.
Nasce in tal modo quello che può venir chiamato “auto-anima”: essa
conduce ad un’auto-redenzione per la forza dialettica del superamento
storico. La storia diventa iniziatica ed estatica. Non siamo più di fronte a
una genesi dalla quale sarebbe sorto un mondo collegato a una trascendenza e che celebra la gloria di Dio, ma ad una genesi spontanea del mondo, a un mondo che si auto-trascende nel suo divenire. Così nell’occidente è apparsa un’anti-kénosis. Nella kénosis Dio si è spogliato della sua
divinità per rivestirne i suoi servi; nell’anti-kénosis il mondo si è spogliato
della sua anima per essere il proprio spirito, il proprio Signore. L’uovo del
mondo si deposita da se stesso, cova se stesso per generare delle generazioni spontanee.
42
GIOVANNI M. VANNUCCI
L’anti-kénosis produce questi effetti:
1. L’angelificazione della violenza. Hegel ha molto insistito sull’idea
che la vita nasce dalla morte: perché sorga una nuova civiltà è necessario distruggere quella vecchia. Bakunin afferma che la gioia della distruzione va di pari passo con la gioia della creazione. Da questo il culto dedicato all’odio creatore, agli eroi tenebrosi, alla santificazione delle guerre rivoluzionarie. Il mondo in cammino non può esser giudicato,
il suo spirito gli è coestensivo, il mondo non è più inserito in un’anima
che lo trascende.
2. L’abolizione della dialettica tra l’io e l’altro: essa, in Platone, garantiva l’unità del molteplice e della varietà polifonica in un’armonia unitaria; adesso l’io e l’altro non sono che uno, il dogmatismo dell’io ha istituito la tirannia dei concetti; lo stato soffoca gli individui: essi vengono
etichettati, le loro differenze ridotte a categorie, generi o classi.
Osservando la nostra civiltà, vediamo che nell’industria trionfa il
modello, a partire dal quale viene sviluppata la produzione in serie. L’io
affascina a tal punto che ciascuno cerca di darsi un’etichetta: in genere,
l’individuo è considerato un’astrazione, la sede di tutte le alienazioni.
Questa repressione sviluppa la vertigine dell’altro, la ricerca del nuovo
a tutti i costi, il folle inseguimento dell’altro nell’altro e oltre l’altro. Segno di questa visione è lo spreco caratteristico dei popoli soprasviluppati: rasoi da gettare, penne da gettare; libri, riviste da gettare; la pratica del tossing nella vita sessuale: dopo il breve rapporto sessuale i due si
separano, “si gettano”. In un mondo senz’anima tutto è divenuto rifiuto, deiezione; e la solitudine è assoluta, errabonda e muta. L’anti-kénosis ha provocato la nascita di una filosofia schizoide: il soggetto si pone
opponendosi. Così vengono costruiti degli universi puramente verbali,
di cui i filosofi son fieri di possederne le chiavi. Follie di recitazione, li
chiama Kierkegaard, che si duplicano volentieri in terrorismi intellettuali.
La falsariga teologica e filosofica odierna è l’apertura al mondo. Non
c’è da aprirsi al mondo, ma da aprire il mondo a ciò che ignora. L’uomo
è nella storia o la storia è nell’uomo? Questa è la domanda essenziale del
nostro tempo. La storia è nella spaventosa successione delle sue guerre,
oppure in quel numero di emarginati che hanno rifiutato l’integrazione
LA DIVINA SOPHÍA
43
nella storia? Lutero, nel terzo corso sulla Lettera ai romani, riflettendo
sulle parole: «Rendimi libero nella tua giustizia», scopre l’atteggiamento
fondamentale della coscienza religiosa: gli uomini sono resi giusti dalla
giustizia di Dio, santi dalla santità di Dio. In altre parole, il senso, i significati non sono il prodotto di un contesto sociale, essi sono accolti dall’uomo ma l’uomo non ne è l’artefice.
L’anima del mondo è quella realtà dell’altro che può dare al mondo la
possibilità di essere diverso dal mostruoso caos in cui viviamo.
I simboli religiosi della femminilità
Simboli preistorici
Il termine “preistorico” è un puro riferimento tempo-spaziale, non include il concetto di passato irreversibile, ma piuttosto quello di passatopresente-futuro, di qualcosa che si è compiuto e si compie sempre nella
coscienza umana, come struttura di conoscenza e di comportamento di
fronte all’universo creato. Avremmo potuto usare l’espressione di simboli eterni della femminilità, nel senso che precedono e si inseriscono in
ogni tradizione religiosa storica, animandola e trascendendola.
La madre-materia
In tutte le cosmogonie religiose troviamo due princìpi: uno attivo e
l’altro passivo, uno creatore e l’altro materia che si offre alla plasmazione.
Dualità originaria espressa nell’ebraismo dall’immaginazione dello Spirito divino che feconda le acque del caos: Spirito e acqua, creatore e materia prima, attività pura e oblatività pura. Simboli che non potranno mai
essere traslati in linguaggio razionale, ma vanno lasciati nella loro indeterminazione: è necessario porli, perché le origini non siano un semplice
nulla; ma devono essere immediatamente ritirati, perché siano origine e
sorgente e non un termine esplicativo delle origini.
I simboli del padre e della madre divina, del principio attivo e di quello passivo alle origini del creato, esprimono un’esperienza profonda della
GIOVANNI M. VANNUCCI
46
coscienza religiosa che scopre nel divino le opposizioni dell’esistenza: attività e passività, mascolinità e femminilità, composte in un’unità superiore
ed esprimibile solo per simboli.
Le immagini, che hanno espresso l’intuizione della bi-unità dell’essere divino, variano secondo la cultura, le preoccupazioni mitiche o metafisiche di coloro che le hanno formulate, ma tutte trasmettono il concetto religioso della conciliatio oppositorum nell’essenza divina e che ha
reso possibile il mistero della manifestazione di Dio nell’universo creato 1.
Nel corso della storia l’umanità ha posto l’accento ora sul termine
spirito-padre, ora sull’altro, materia-madre. Questo fatto ha dato origine ad opposte figure religiose e, in conseguenza, a differenti culture: patriarcali o matriarcali, oppure miste, con la prevalenza dell’uno o dell’altro principio. Ciò è dovuto non tanto alla libera scelta dell’uomo,
quanto all’influsso, nel succedersi dei tempi, di una o di un’altra struttura simbolica che guida il creato verso la sua trasfigurazione nell’unità
delle origini.
L’albero e la roccia
Nel principio l’universo era soltanto il sé (virai ), sotto la forma di purusìa
(uomo cosmico), aveva l’ampiezza di un uomo e una donna abbracciati. Il
sé divise questo corpo in due, apparvero lo sposo e la sposa. Per questo, come dice Yaµjñavalkya, il corpo, prima che uno prenda moglie, è la metà di
se stesso, come la metà di un pisello spaccato. La parte mancante è colmata dalla moglie. Lo sposo si unì alla sposa e nacquero gli esseri umani.
La sposa pensò: «Come ha potuto lo sposo, dopo avermi generata, unirsi a
me? Voglio nascondermi». Si trasformò in una vacca, lui si mutò in toro:
nacquero i bovidi. Lei si trasformò in giumenta, lui in stallone; lei in asina,
lui in asino: nacquero gli equini. Lei si trasformò in capra, lui in caprone;
lei si fece pecora, lui montone: nacquero gli ovini. In tal maniera il sé produsse ogni essere che esista in coppia, fino alle formiche2.
1 F. Ranzato,
La dimensione perduta, Roma 1976, p. 42.
Br.hada¯ran.yaka-upanis. ad, London 1963, 190-191. Trad. it.: Upanis. ad antiche e medie, vol. II, Torino 1961.
2
I SIMBOLI RELIGIOSI DELLA FEMMINILITÀ
47
Questa visione della Madre primordiale di tutti i viventi è analoga al
mito di Gilgamesh e Ishtar 3, e ha le sue analogie con quello di Circe che
trasforma i suoi amanti in leoni, lupi, ecc. 4.
Le tradizioni e i simboli contenuti in questo mito possono costituire
la sopravvivenza di un mito più antico: la coppia divina, padre e madre
primordiali, ha preso successivamente le varie forme degli animali terrestri per generare le diverse specie. In esse la madre divina ha i seguenti aspetti: è la passività che accoglie le energie del principio attivo,
e crea, generando, le numerose specie viventi.
Tenendo conto che la mentalità primitiva ignora la funzione del maschio nella generazione 5, e che ignora le figure distinte esprimenti le divinità maschili e femminili, possiamo avanzare l’ipotesi che l’immagine
della madre primordiale significasse la fecondità della terra, in un’epoca caratterizzata dalla raccolta dei frutti spontanei, dalla caccia e dalla
pesca. Il primo simbolo della fecondità materna della terra fu l’albero,
o la sua riduzione stilizzata nel tronco privo di rami 6. Esiodo e Pausania, parlando delle leggende “fuori del ricordo umano”, dicono che la
quercia fu la prima divinità dei popoli 7. Demeter abita nella grande
quercia che Erisichton abbatte sacrilegamente 8. Dal sangue sgorgato
dalla mutilazione di Urano germogliarono i frassini, gli alberi-ninfe 9.
Callimaco parla delle Ninfe che gioiscono quando la pioggia fa crescere le querce e piangono quando il loro fogliame appassisce 10. Virgilio
parla di una razza umana nata dal duro tronco delle querce 11. Nelle leggende nordiche l’albero yggdrasil, la quercia, è descritto nella saga Voluspa come anteriore agli dèi e allo stesso dio supremo Odin. La vipera
Nidhogg, nascosta sotto una roccia, può pungere le divinità solari e dar
3
G. Furlani, Miti babilonesi e assiri, Firenze 1958.
Odissea, XII.
5 M.E. Jones, «Matriarcato e ignoranza dei selvaggi», in Saggi di psicanalisi, vol. II,
Firenze 1971, p. 154.
6 I. Boulnois, Le caducée et la symbolique de l’arbre, de la pierre, du serpent et de la
déesse-mère, Paris 1939, pp. 5-20; 60-82.
7 Teogonia, Arcadia 23.
8 Ovidio, Metamorfosi, VIII.
9 S. Mayassis, Architecture Religion Symbolisme, Athens I, p. 183.
10 Inno a Delos, 78-85.
11 Eneide, VIII, 314-315.
4
GIOVANNI M. VANNUCCI
48
loro una morte apparente, mentre la quercia, anteriore a loro, sopravviverà 12.
Accanto al simbolo dell’albero come figura della “grande madre”
troviamo quello della “roccia”, della “pietra”. Mitra nasce da una roccia, lungo le rive di un fiume, sotto l’ombra di un albero sacro. I pastori l’avevano visto mentre si liberava dalla massa pietrosa con il capo coperto dal berretto frigio, ed erano accorsi a lui per venerarlo e portargli
le primizie del loro raccolto 13. Niobe, dopo l’uccisione dei suoi figli, si
rifugiò sul monte Sipyle in Asia Minore, ove fu trasformata in una roccia, le sue lacrime continue diedero origine a una sorgente 14.
Gli hurriti ritengono feconde le rocce, kumarbi: il Chronos hurrita
fecondò un’enorme roccia dalla quale nacque un uomo 15. Questa credenza è riferita in Isaia: «Considerate la roccia dalla quale foste tagliati» 16. La grande madre di Cnosso era la cima di rocce elevate; la madre
montana, Cibele, è la regina delle rocce 17. Le pietre, in virtù della loro
origine e della loro forma, possono render feconde le donne sterili 18.
La pratica di mettersi in contatto con la pietra per guarire dalla sterilità,
si trova in tutte le aree culturali 19. Presso le tribù dell’Australia centrale, una grande roccia, Erathipa, è considerata il rifugio delle anime dei
nascituri. Le donne sterili passano attraverso un’apertura della roccia e
le anime dei fanciulli scendono nel loro grembo 20.
Questa pratica ci richiama l’usanza toscana di mettere sotto la “pietra del focolare” il cordone ombelicale dei maschi, perché crescessero
buoni, forti e legati alla casa 21. L’immagine della roccia è quasi sempre
collegata con quella dell’albero; in Omero, Penelope domanda ad Ulis12
G. Cox, The Mythology of the Arians Nations, N.Y. 1887, pp. 187-195.
S. Mayassis, op. cit., vol. II, p. 39.
14 Ovidio, Metamorfosi, VI, 310.
15 F. Vian, Le mythe de typhée, Paris 1960, pp. 31-34.
16 Isaia 51, 1.
17 S. Mayassis, op. cit., vol. II, p. 35.
18 M. Revon, Rev. Mist. Rel. 51 (1905), p. 379.
19 M. Eliade, Traité d’histoire des religions, Paris 1949, pp. 194-197.
20 Ibid.
21 G. Salvagnini, «Casa rurale toscana», in Granducato 1976, n. 4, p. 133.
13
I SIMBOLI RELIGIOSI DELLA FEMMINILITÀ
49
se: «Da dove vieni? Tu non sei nato da una quercia o da una roccia, come dicono le antiche leggende» 22.
Geremia rimprovera ai suoi coetanei di avere abbandonato Jahwèh
e di riconoscere il loro creatore negli alberi e nelle pietre sacre: «Dicono all’albero: Tu sei mio padre!, e alla pietra: Tu mi hai generato!» 23.
Giosuè innalzò una grossa pietra sotto la quercia sacra che era nel santuario di Jahwèh 24.
In questi testi, come in molti altri che per brevità non cito, l’ordine
è identico: l’albero viene nominato prima, quindi la roccia o la pietra.
Potremmo concludere che la prima figura della divinità sia stata quella
dell’albero, la seconda la roccia o la pietra. Queste immagini – albero,
roccia – esprimono alcune idee fondamentali per la definizione della
femminilità: l’albero evoca la perennità della vita, la sorgente prima dell’alimentazione, il primo riparo dell’uomo; la roccia richiama la stabilità, la sicurezza, la protezione, il luogo sicuro ove si costruisce la dimora, l’abitacolo che preserva la vita, la materia da cui si estraggono gli
strumenti per il lavoro 25.
La vergine con la spiga, la caverna
Le prime tracce storiche del culto del principio femminile, sotto l’immagine della “vergine” con la spiga, risalgono al terzo millennio avanti la
nostra era. Sono state scoperte a Byblos, ove era venerata col nome di
Baalat. Gli egiziani l’identificarono con Isis, i cartaginesi con il nome di
Astart, i greci con quello di Astrea. Le decorazioni, scoperte a Creta e risalenti al periodo pre-ellenico (3000-1600 a.C.), mostrano l’immagine di
una misteriosa divinità femminile, raffigurata o con la doppia ascia o avvolta da due serpenti. Si pensa che le divinità femminili venerate nell’isola fossero Dictyma, la madre, e Britomartis, la vergine.
Si può congetturare che il culto della vergine risalga all’epoca dell’ultima glaciazione (13000-8000 a.C.). Al sopraggiungere del ghiaccio gli
Odissea, XIX, 162.
Geremia 2, 27.
24 Giosuè 24, 26.
25 E. Harding, I misteri della donna, Roma 1973, pp. 50-64.
22
23
GIOVANNI M. VANNUCCI
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uomini furono costretti a rifugiarsi nelle grotte delle montagne, ad ammassarvi le riserve per sopravvivere. Nelle grotte la vita fu affidata alla
donna, alla custode, alla previdente, che vigila sull’economia e la distribuzione dei viveri. Le guide virili non erano capaci di tale compito. La
donna, per amore della vita, impose delle gravi limitazioni: economia dei
viveri, continenza sessuale (non era possibile superare il numero indispensabile alla sopravvivenza della razza); la legge dell’alveare e del termitaio era la via per la continuità della vita.
Il principio femminile assunse l’aspetto della vergine-madre che preserva e distribuisce la vita, gli alimenti, il fuoco; che anima la volontà di
vivere; che organizza i rifugi e le riserve; che istituisce delle severe sanzioni per la sopravvivenza. Il ricordo della vergine “prigioniera della
sua casa” forse ha dato origine al simbolo della tartaruga, conosciuto in
Grecia, in India, in Cina come immagine della stabilità, della rigenerazione, della costante protezione, delle virtù domestiche 26, della contemplazione 27.
Allo stesso ordine di ricordo mitico sono da ricollegarsi le “grotte”,
ove venivano compiuti i misteri di Cibele e di Isis, e quelle ove l’atteso
salvatore doveva nascere 28.
La grande madre
Un poema mesopotamico narra la discesa della grande madre, Ishtar, negli inferi. La dea decide un giorno di andare nel mondo sotterraneo, ove i morti conducono una vita grama. Alla porta dell’inferno il
guardiano non vuole aprire. La dea minaccia di abbattere la porta e di
ricondurre i morti sulla terra per sterminare i viventi. La grande madre
è padrona della vita e della morte. Due realtà collegate, essendo il numero dei vivi dipendente dalla quantità di cibo disponibile. La vita è
condizionata dalla morte; perché la generatrice possa partorire i figli è
necessario che sulla terra vi sia del posto.
La dea degli inferi acconsente a far entrare la grande madre nel suo
regno, a patto che si tolga un indumento davanti a ciascuna delle sette
26
L. Sechan, Les grandes divinités de la Grèce, Paris 1966, p. 375.
Bhagavad-gı¯ta 2, 58.
28 I. Bayard, La symbolique du mond souterrain, Paris 1973.
27
I SIMBOLI RELIGIOSI DELLA FEMMINILITÀ
51
porte che dovrà attraversare. Mano a mano che Ishtar si toglie le vesti,
le forze l’abbandonano; nel mezzo del soggiorno tenebroso è del tutto
impotente, disarmata e prigioniera dei morti. Nel frattempo sulla terra
tutto va deperendo: le piante languono, gli animali e gli uomini non si
moltiplicano più, gli dei sono privi di sacrifici. Ea, il dio della sapienza,
decide di richiamare Ishtar sulla terra. Al suo ritorno la vita torna a fiorire, la catastrofe è scongiurata 29.
Questo poema traduce, in episodi drammatici, le vicissitudini del
grano nel corso delle stagioni: il grano e le altre piante non perenni
scompaiono durante l’inverno, poi il seme deposto nel solco riprende la
vita nella primavera. A questo mito si ricollegano i miti di Astarte e
Adonis 30, di Isis e Osiride 31, di Demeter e Core in Grecia, di Cerere e
Proserpina nel ciclo italico, di Anat e Baal in quello ugaritico.
Nel mito di Ishtar è la stessa divinità che discende negli inferi e risorge. Negli altri miti è il figlio, o la figlia, o l’amante della dea che muore e risorge. La magna mater, durante la discesa del figlio o della figlia
negli inferi, assume la figura della mater dolorosa 32. Per gli antichi la
madre non era soltanto colei che li aveva generati, era la manifestazione
visibile di un mistero cosmico. La madre esprimeva la vita a tutti i livelli: biologico e psicologico. La madre era, psicologicamente, l’immenso
oceano dell’inconscio sulla cui superficie l’autocoscienza personale, l’elemento maschile nell’esperienza soggettiva, si adagiava cristallizzata.
Più evidentemente la madre è la sorgente della vita fisica, il principio
della fecondità e insieme quello della mortalità. Colei che dona la vita è
anche la donatrice della morte. La morte è l’inevitabile conseguenza
della vita. Ovunque la grande madre è stata venerata nei due aspetti di
creatrice e distruttrice 33.
La grande madre, venerata dalle popolazioni sedentarie e agricole,
costituiva la figura della fecondità, fertilità, provvidenza, con cui la madre Terra sostenta le sue creature.
29
G. Furlani, Miti babilonesi e assiri, Firenze 1958.
C. Virolleaud, Anas-Astarte, Eranos Jahrbuch 1938.
31 A. Erman, La religion des égyptiens, Paris 1952.
32 E.D. Iames, Le culte de la déesse-mère, Paris 1960, p. 148.
33 A. Huxley, Adonis and the Alphabet, London 1956, p. 170.
30
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52
Con l’avvento delle orde dei nomadi guerrieri – i semiti che invasero l’Egitto, la Siria, la Mesopotamia, l’Africa del nord e gli ariani che dilagarono nell’India e nell’Europa – la grande madre fu vinta, la terra fu
conquistata, posseduta, violata.
I vincitori, orde ad egemonia maschile, introdussero una visione cosmifuga del mondo. La madre Terra divenne la dura terra; alla morale
di partecipazione amorosa e appassionata alla vita e alle sue fasi fu sostituita la morale della verticalità eroica e impietosa; la parola ascesi prese il significato di dura disciplina militare per la formazione dell’eroe
guerriero. Forse alle origini della civiltà occidentale piuttosto che l’assassinio del padre dell’orda primitiva (Freud) c’è l’assassinio della madre. La grande madre fu trasformata in orca, in strega feroce, senza bellezza e amore. Il maschio che si sentiva colpevole proiettò i demoni della
sua ombra sulla femminilità, che venne immaginata senza grazia e bellezza, ma fatale come la fascinazione di un abisso oscuro e divoratore.
Il conflitto tra la grande madre e il grande padre non fu risolto con la
prepotenza maschile; esso si agita con alterne vicende nel profondo delle
coscienze umane. I nostri tempi sembrano maturi per una soluzione di
equilibrio fecondo tra le due forme di coscienza che permeano tutto il cosmo: la femminilità e la mascolinità. Equilibrio non raggiungibile attraverso concessioni sentimentali, ma solo mediante una chiara presa di coscienza del valore metafisico della mascolinità e della femminilità, anche
se gli ultimi ritrovati della mente virile aborrono dal vocabolo metafisica 34.
La nostalgia della grande madre
L’immagine della grande madre sopravvive stimolante e attiva nella
nostalgia delle origini: questa va intesa non nel senso riduttivo della psicanalisi, come regresso ad uterum, ma nel suo vasto significato metafisico di ritorno alla terra pura ove l’uomo può ritrovare la sua verità. L’immagine della madre col figlio è strettamente connessa con il ciclo annuale della vita, vegetale e animale. Essa ormai non dice quasi più niente al cittadino, informato del passaggio delle stagioni solo dalla necessità di mettersi abiti più pesanti o meno: egli è gentile con le donne, ma
34
Per questo problema cf. R. Graves, The White Goddes, London 1960, pp. 480-482.
I SIMBOLI RELIGIOSI DELLA FEMMINILITÀ
53
pensa solo con linguaggio metonimico; l’unica religione accettabile è
quella che può venire espressa con logicità, rigidezza etica, terminologia astratta, che fa appello al suo orgoglio intellettuale e al suo senso di
distacco dalla natura selvatica. La grande madre non è donna di città, è
la “signora” delle creature naturali, abita sulle cime boscose. Per questo
l’uomo porta dentro di sé il sogno di una vita semplice e vera in mezzo
alle cose, non inquinate dai ritrovati della mente maschile. La “dama della sapienza” dei Trovatori, Beatrice che guida Dante, Tristano e Isotta,
la donna gentile, la donna unica, non sono una lontana eco della grande madre? In India, museo vivente di tutti gli dei e di tutti i culti, la figura della grande madre è sentita come essenziale per il passaggio dall’assoluto al relativo, è la sua mediazione che ha reso possibile ai maestri indiani il rapporto tra l’invisibile e il visibile.
Il filosofo-mistico S´rı¯ Aurobindo parla, in un suo libro, della “madre” come mediatrice tra il mondo divino e quello terreno 35. Nel suo
pensiero gli attributi della madre sono: sapienza, energia, armonia, perfezione.
La sapienza è l’attributo che rivela la sua bontà e conoscenza suprema.
Paziente e inalterabile, agisce in conformità della natura degli uomini, secondo la forza e la natura insite nelle cose. Dona saggezza più grande e luminosa al saggio; all’ostile impone le conseguenze della sua ostilità; conduce l’ignorante e il superficiale nella misura del loro accecamento. Ai
suoi occhi tutti sono suoi figli e parti dell’Unico, anche le forze ostili del
mondo mentale, vitale e fisico. Le sue ripulse sono dei semplici differimenti, le sue punizioni una grazia 36. Energia è l’attributo che rivela la forza suprema della madre. Non tollera l’indifferenza, la negligenza, la pigrizia nel lavoro divino. La sua collera è terribile per chi è ostile, penosa
per il debole e il timoroso, amata da chi è forte e nobile. Dona potenza
conquistatrice alla conoscenza, movimento elevato e ascensionale alla
bellezza, impulso al lento e difficile travaglio verso la perfezione. È la forza vittoriosa del divino. L’armonia è attributo che rivela la bellezza e la
bontà suprema della madre. Esige la bellezza armoniosa nei pensieri e nei
sentimenti, la bellezza della vita e di ciò che l’attornia. La madre non si ri35
36
S´rı¯ Aurobindo, La madre, Pondicherry 1971.
Ibid., pp. 32-33.
GIOVANNI M. VANNUCCI
54
vela dove non esistono l’amore e la grazia. Non gradisce la severità ascetica, la soppressione delle più profonde emozioni del cuore, la repressione rigida della vaghezza dell’anima e della vita 37. La perfezione è l’attributo della madre nel suo aspetto di abilità, di sapienza suprema nelle opere. Ha in orrore l’indifferenza, la negligenza e la pigrizia, il lavoro fatto in
fretta, il “press’a poco”, il pessimo uso delle facoltà e degli strumenti 38.
La madre nel suo primo aspetto è l’amore. L’amore descritto da Diotima nel Simposio di Platone: «Il desiderio d’immortalità si manifesta nel
corpo con la generazione, nell’anima con l’opera dei poeti». Amore
sensuale, sentimentale, intellettuale, mistico, che obbedisce a un desiderio d’immortalità attraverso il dono di se stessi. Sul piano fisico s’appoggia sulla pulsione sessuale; sul piano spirituale è il tesoro più prezioso della società: dona gli eroi della carità, i martiri, i geni.
Nel secondo aspetto la madre indirizza gli istinti aggressivi verso le
creazioni di civiltà.
Nel terzo aspetto, affettivo ed estatico, risveglia i poeti, gli artisti, i
mistici di tipo francescano.
Nel suo ultimo aspetto, quello cognitivo, risveglia il pensiero e la
saggezza. La madre è la saggezza che era prima del tempo, avanti che
sorgessero le montagne e la sua gioia è di essere con i figli dell’uomo 39.
Conclusioni
Dai simboli, rapidamente esposti nelle pagine precedenti, e da quelli che i limiti della presente trattazione non mi hanno permesso di trattare, si possono ricavare i lineamenti dell’eterna femminilità come sono
stati vissuti nell’esperienza religiosa dell’umanità. Esperienza che, essendo la più profonda, è anche la più vicina alla verità.
Penso che su questi lineamenti dovrebbe soffermarsi l’attenzione di
chiunque voglia avere delle idee chiare sul dibattuto problema moderno
del sacerdozio femminile. Il sacerdozio cristiano, come appare nelle indicazioni di Cristo, ha una figura androgina; anzi, se in Cristo c’è una sottolineazione degli aspetti nuovi del sacerdozio cristiano, essa contrassegna gli aspetti femminili: l’amore misericordioso per la pecorella smarri35
Aurobindo, La madre, cit., pp. 36-37.
38
Ibid., pp. 40-43.
39
Prov 8, 32.
I SIMBOLI RELIGIOSI DELLA FEMMINILITÀ
55
ta, per gli emarginati, il dono della propria vita per gli altri, la lavanda dei
piedi, la proibizione del giudicare, l’accoglienza della parola come germe
fecondatore, l’annuncio che nasce da una esperienza concreta: la Maddalena che vede il risorto e lo proclama semplicemente, ecc.
Lungo il corso della storia, nella figura del sacerdozio cristiano si sono inseriti e hanno prevalso dei lineamenti virili. All’ultimo-primo della
comunità, per una traslazione d’impero, si è sostituita la figura del sacerdos princeps et magister omnium; all’incarnazione della Parola è subentrata la speculazione astratta della parola; il perdono incessante e instancabile è stato organizzato nei vari sacri tribunali, ecc.
Se il sacerdozio femminile dovrà rinascere nella chiesa, esso dovrà
essere riscoperto dalla donna, consapevole delle pulsioni profonde della sua natura e di quanto la tradizione perenne potrà comunicarle sul
servizio sacerdotale femminile. La femminilità appare nella storia delle
religioni come figura divina le cui caratteristiche sono: generatrice della
vita in tutte le sue manifestazioni: fisiche, psichiche, mentali; protettrice
delle creature che ha generato; previdente per la sua particolare struttura mentale intuitiva e orientata verso il futuro; custode di un ordine
strettamente aderente alla vita concreta.
L’attività della donna si è svolta più liberamente in epoche matriarcali; ma, per quanto coartata nelle ere patriarcali, ha sempre potuto manifestarsi nelle più svariate forme. Ne indico alcune.
La donna è medico e indovina, è assistente ai parti. Le fate del nostro
folklore hanno la bacchetta magica 40. È maestra di danza e di canto 41. È
veggente e profetessa: Pizia delfica, le Sibille 42. Svolge funzioni sacerdotali: in Egitto le sacerdotesse di Nut e Hator fino al periodo ellenistico; in
Grecia il sacerdozio femminile era molto diffuso, così presso i celti. È custode e promotrice della forza vitale e della fecondità. Questa funzione
era svolta dalle ierodule sacre e dalle vergini. Le prime, con l’offerta della
verginità, nella prostituzione sacra, rappresentavano la grande madre generatrice. Erano considerate le spose della divinità. La prostituta sacra
non era disprezzata, godeva talvolta di una maggiore stima della donna
40
H. Mead Campbell, «A History of Women», in Medicine, 1938.
S. Drinker, Music and Power, N.Y. 1948.
42 Th. Zielinski, La Sybille, Paris 1924.
41
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56
sposata. La sua professione era considerata un servizio divino, in quanto
era reputata intermediaria tra la divinità e l’uomo 43.
Le seconde promuovevano la forza vitale mediante la verginità. Sacerdotesse vergini custodivano il fuoco della dea celtica Brigit; le Vestali erano le custodi del fuoco sacro 44.
I simboli della femminilità nell’ebraismo
Una delle correnti di pensiero più importanti del nostro tempo è la
ricerca dei significati. Essa sta risvegliando le coscienze di quelli che,
credendo ancora alla santità delle parole scritte nella Bibbia, sentono il
vuoto delle spiegazioni dotte. Essi, dopo aver seguito per più di un secolo quei dotti esegeti chiamati dalla tradizione “gli ascoltatori dell’esteriorità”, ed essersi avventurati nel labirinto dei vari codici, la cui
compilazione avrebbe dato origine al Pentateuco, ora si domandono:
Come mai queste narrazioni prima separate, poi mescolate e rimescolate,
infine concordanti e di nuovo discordanti, come mai sono un libro, un solo libro che ci riempie di spavento e di gioia, un libro santo? Voi dite: elohista, jahvista [...], ma io ho un volume ed è misterioso, ed è questo mistero
che voglio conoscere45.
E allora si sono indirizzati a coloro che hanno la saggezza del cuore,
hakey-libbah. E hanno appreso ciò che i lettori della Bibbia hanno saputo fin dagli inizi dell’era razionalista:
Quando la Torah, Bibbia, vuole per la prima volta svelarsi all’uomo, gli fa
un fugace segno. Se l’uomo comprende va tutto bene; se non comprende,
lo tratta da sciocco e gli manda un messaggero a dirgli: “Sciocco, vieni alla
mia tenda, voglio parlarti”. Se va alla tenda, essa gli rivolge, da dentro ai ve-
43
A. Horneffer, Der Priester, I, 25; F. Heiler, Erscheinungformen und Wesen der
Religion, Stuttgart 1961, pp. 411-418.
44 G. Giannelli, Il sacerdozio delle Vestali romane, Firenze 1933. Per tutti i problemi di questa prima parte cf. M. Bacchiega, Dio padre o Dea madre?, Firenze 1976.
45 C. Suarès, Les clès du sacré, Génève 1971, p. 35.
I SIMBOLI RELIGIOSI DELLA FEMMINILITÀ
57
lami, delle parole che parlano alla sua intelligenza, perché si accosti e cerchi di guardare più da vicino. Ciò è chiamato derashah, interpretazione letterale. In seguito, attraverso il velo trasparente delle parole allegoriche,
haggadah, si rivela in maniera più palese. Quando ha raggiunto la familiarità col libro sacro, si svela a lui faccia a faccia, e gli parla di tutti i segreti
nascosti e di tutte le vie nascoste. Allora lo studioso diventa “sposo della
Torah”46.
In questa ricerca del significato dei simboli seguo il sistema di
Abraham Abulafiah 47 che è insieme scienza e disciplina delle combinazioni delle lettere sacre.
Sistema riproposto con grande passione e intelligenza da Carlo
Suarès 48. Per inciso, mi permetto di dire che sarebbe auspicabile che nel
silenzio dei monasteri tale sistema di lettura sacra venisse nuovamente
praticato: sono sicuro che nel vuoto della cultura occidentale verrebbe
reintrodotta una corrente di pensiero feconda di conoscenze e di bellezza 49.
Tale sistema è fondato sulle caratteristiche dell’alfabeto ebraico che
sono due:
a) ogni lettera è la stilizzazione di un ideogramma;
b) ogni lettera corrisponde a un numero.
Per esempio: la prima lettera, alef , è la swastika, simbolo dell’energia creatrice che porta avanti la creazione, e corrisponde al numero
uno. La seconda lettera, bet, è la stilizzazione della casa, di una struttura compiuta e insieme il segno del numero due. Le lettere, geroglifici e
numeri insieme, trasmettono, in maniera simbolica, la conoscenza degli
elementi che costituiscono la coscienza, permettendole di iniziare un
dialogo con l’universo creato e di partecipare attivamente alla sua trasfigurazione.
Per noi, abituati a pensare in maniera empirico-sensoriale, non è facile comprendere questo modo di linguaggio differente. I nostri voca46
Testo manoscritto.
Qabbalista del sec. XIII.
48 C. Suarès, La Kabbale des kabbales, Paris 1962; Id., Les spectogrammes de l’alphabet hébraique, Genève 1973.
49 Per rendersene conto gli scettici possono leggere gli scritti di Devoucoux sull’architettura sacra, in Études traditionnels 1947; 1952-1957.
47
GIOVANNI M. VANNUCCI
58
boli escludono ciò che non designano direttamente. Per esempio, nel
nostro linguaggio, il vocabolo “dio” esclude tutto ciò che non è Dio; il
nome divino, in ebraico JHWH, può essere scomposto nelle sue quattro
consonanti con i seguenti significati: J = esistenza; H = una vita; W = fecondazione; H = una vita. I due segni della vita H indicano che ogni uomo ha due possibilità di vita: la prima JH = la vita di una struttura che
evolve conformemente alla sua funzione; la seconda WH = la vita del
germe interiore che evolve secondo il grado di coscienza che sviluppa.
Il nome divino in ebraico indica l’immanenza divina e vitale, contenuta
virtualmente nell’uomo, e che l’uomo può far vivere o morire. In Giovanni 1 è detto che il Verbo è la luce che illumina ogni uomo. In questa
frase è ripreso lo schema del nome divino JHWH: ogni uomo nella sua
struttura è tenebra, prima vita; possiede un germe, la luce del Verbo che
illumina la tenebra, seconda vita. JHWH è un nome, un suono secondariamente; realmente è la presenza divina che rende vivente della vera vita l’uomo. Il nostro linguaggio, empirico e sensoriale, provoca una dicotomia in ciò che concerne il sacro, determinando una dualità insolubile che stabilisce dei rapporti di soggetto-oggetto con il divino. Il nostro è un linguaggio esclusivo, mentre quello ebraico è inclusivo.
Questo sistema di lettura della Bibbia impedisce ai testi sacri di esser
sacrificati al socializzato e al sociale, mantenendo la loro verità che è
sempre contro il tempo, immune da ogni degradazione storicista 50.
Gli archetipi Adamo-Eva
In Genesi 1 la creazione è presentata come la dualizzazione dell’uno
originario: inizia infatti con la lettera B = 2. Le creature si succedono a
coppie: cielo-terra; luce-tenebre; acque superiori-acque inferiori; terramare; erbe-alberi; sole-luna; uccelli-animali terrestri; animali terrestriuomo; uomo maschile-uomo femminile. Maschio = zakar, femmina = neqibah.
L’uomo non ancora diviso è adam. A=alef =l è il principio impensabile di tutto ciò che è e di tutto ciò che non è, il mistero dell’unità pri-
50
Per queste correnti nel cristianesimo cf. H. Corbin, Herméneutique spirituelle
comparée, Eranos Jahrbuch XXXIII (1965), pp. 71-76; Adumbratio Kabbalae christianae, Milano 1975.
I SIMBOLI RELIGIOSI DELLA FEMMINILITÀ
59
mordiale presente nella sua creazione come immanenza creatrice, inafferrabile e atemporale, sempre fresca e nuova, pulsazione di vita-morte,
vita-resurrezione.
Dam = sangue: adam è il luogo ove il divino assume il sangue degli
esseri viventi; da questa abitazione del divino nella dimora umana, sorge una nuova creatura che sovverte il meccanismo ripetitivo dei regni
che l’hanno preceduta.
Nell’uomo sono latenti tutte le possibilità: la M finale indica che la
creatura umana può divenire cosmicamente feconda, la vocazione dell’uomo è la trasfigurazione del cosmo.
ZAKAR = maschio. Il maschio è: Z = apertura a tutto ciò che può modificare un ordine stabilito, negazione di ogni fissità; K = strutturazione
delle possibilità di esistenza; R = descrive il contenitore cosmico di tutto ciò che ha esistenza.
La maschilità è una perenne tensione di rottura di equilibrio, mossa
dall’energia raffigurata dalla lettera Z e insieme orientata verso la dimensione cosmica rappresentata dalla lettera R . È il guerriero, il conquistatore, l’avventuriero in lotta con le strutture immediate, rappresentate dalla lettera K , e con quelle più vaste dell’universo, descritte
dalla lettera R.
NEQIBAH – La lettera N = vita individuale, esistenza concreta, forma
determinata, attraversata dalla lettera Q = energia creatrice estesa a tutto il cosmo, riconduce questa energia informale nella sua casa, lettera B ,
vivificandola nella propria vita, lettera H. La femminilità riporta nella
sua dimora l’energia mossa dalla maschilità, dandole una forma conforme alla vita. L’energia creatrice e strutturante è nella femminilità, mentre la maschilità non ha il potere di accordare la sua energia dirompente con la vita. Nelle nozze di Cana è Maria che dirige la potenza del Figlio sull’acqua per trasformarla in vino.
Il giardino dell’Eden
Nel primo capitolo della Genesi Adam è descritto alla sommità della
scala evolutiva; nel capitolo 2 è creato prima degli animali. Il capitolo 2
presenta la visione interiore di ciò che il primo ha esposto considerandolo dall’esteriore. Nel capitolo 2 JHWH è la presenza creatrice, immersa nell’intimo dell’esistente, mediante la sua manifestazione vivente, spa-
GIOVANNI M. VANNUCCI
60
ziale e temporale, l’uomo. Questa presenza pone in movimento il destino umano: l’uomo, adam, è il germe che non deve attardarsi su nessuna
tappa dell’evoluzione.
Come germe è anteriore a tutte le sue ramificazioni laterali. In questo senso Adam è il primogenito, ma non gli è concesso di nascere nel
senso di una fissazione di prototipo di una determinata specie, come avviene alle altre specie viventi. Adam è il germe in divenire, sempre allo
stato embrionale fino alla pienezza dei tempi 51.
Il significato del giardino dell’Eden è contenuto nelle lettere: Gan –
giardino – eden : esse esprimono le energie che distruggono le strutture
superate.
Il germe-adam, essenza dell’essere umano, è collocato in una tormenta
di intensa creatività che non gli permette di fossilizzarsi. È un dinamismo
proiettato in avanti: il giardino è situato a miqedem che designa non l’oriente, ma “in avanti”. Adam deve continuamente avanzare: «Il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
La sostanza del Giardino, adamah, produce alberi di ogni specie belli e buoni per il nutrimento; nel suo centro c’è l’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male. L’albero della vita è lo stato nel
quale può prodursi la piena pulsione della vita: solo quando adam avrà
raggiunta la sua maturità.
L’albero della conoscenza del bene e del male richiede una spiegazione delle lettere che lo designano: thwb, bene, e r’a, male. Thwb è la perfezione della forma, della struttura armoniosa e fissa nella sua completezza. Nel capitolo 1 tutte le creature, eccetto l’uomo, sono designate con
il vocabolo thwb. R’a, male, è l’essenza vitale che distrugge la perfezione
di thwb, l’energia che sconvolge l’esistenza statica.
L’albero della conoscenza del bene e del male è la condizione di adam,
mossa da una ininterrotta successione di fissazioni-distruzioni. Adam nel
suo stato embrionale non può cogliere il frutto dell’albero della vita che
presuppone la maturità del germe, e neppure quello dell’albero della conoscenza, perché nel suo stato embrionale, privo della componente femminile, avrebbe messo in movimento il meccanismo delle demolizioni e
sarebbe morto di una morte senza risurrezione. La proibizione riguarda
51
Ibn ‘Arabî, La sagesse des prophètes, Paris 1974, p. 167.
I SIMBOLI RELIGIOSI DELLA FEMMINILITÀ
61
adam nel suo stato embrionale, privo cioè della sua parte complementare.
Fino a Genesi 2, 18-24 adam è presentato come maschio, la femminilità
è rappresentata da adamah, la terra donde fu plasmato.
Adam è solo, ha bisogno di un aiuto che gli si ponga di fronte, gli stia
contro, lo stimoli: kenegdô = come suo opposto, non, come spesso si
traduce, «aiuto degno di lui».
Adam viene posto alla prova: gli vengono fatti sfilare davanti tutti gli
animali, li nomina tutti. Se può nominarli è perché li riconosce come rami laterali di un albero di cui egli, Adam, è il tronco. Vedendo le diverse
specie, vede il suo passato embrionale e dichiara: «Non vedo alcuno che
sia come io sono». Non si identifica con alcuna fase animale; vince la
prova: è pronto per la nuova nascita. Adam viene immerso allora nel tardamah = sonno, che non ha niente a che fare col sonno delle traduzioni
letterali. È il sonno del neonato umano, uno stato di non-sapere, di distacco da quel sapere che accompagna i piccoli delle altre specie.
Questi sono dotati di conoscenze accumulate, l’essere umano nasce
per imparare e il suo non-sapere segna il distacco dal mondo animale
che l’ha preceduto, e genera in lui la più grande intensità di vita. Nella
nuova creatura uomo viene collocata una duplice vita: della terra da cui
proviene per generazione e quella dell’infinito cui è chiamato per trasfigurazione. Questa seconda vita è espressa nel v. 21: dall’adam, indifferenziato e ignaro nel sonno della non-conoscenza, viene estratta una tsalah, che non ha nulla a che fare con la “costola”; nel suo significato di vocabolo-cifrato è l’“apertura” operata in adam verso tutti i possibili.
Nel v. 22 è descritta l’incarnazione dello slancio vitale, presentata
con il simbolo del fuoco esh. La donna è yshah, l’uomo ysh, la donna è
preesistente in ysh in quanto sposa del fuoco e ne costituisce la parte
più dinamica. Yshah è il supporto, il simbolo della vita assoluta che ne
media il rapporto con la vita relativa. La vita assoluta, trasmessa ad
adam, lo sprona a distruggere le solidificazioni e l’orienta verso strutture nuove, più conformi al fuoco divino. Nei vv. 22-25 l’uomo è chiamato adam, non più ysh; la donna invece è sempre yshah: l’elemento fuoco – esh – viene risvegliato in adam dalla sposa del fuoco divino.
Questa prospettiva archetipica può essere verificata in quelle società
umane nate da ideologie virili: esse sono funzionali, non aperte all’infinito, regimi autoritari temporali e spirituali che vengono distrutti dalla
62
GIOVANNI M. VANNUCCI
donna trasfigurata. Nei nostri giorni il risveglio femminile propone un
progetto etico, vitale, di fronte ai progetti politico-economici della maschilità.
Nel v. 23 Adam riconosce Yshah come la sua vera sposa, la realtà vivente che lo compie; con questo riconoscimento si colloca nella sua trascendenza, ysh, ciò che rivela che yshah è stata estratta dal fuoco divino
che era in adam e non da adam.
Al v. 24, Adam e Yshah s’incamminano verso una nuova vita, associati in una comune azione per realizzare una realtà una fisiologicamente e psicologicamente, che esprima il movimento vitale dell’universo e
la feconda resistenza a questo movimento.
Il v. 25 contiene il termine-cifrato arum, nudo. Adam e Yshah sono
incorporati nella lettera-cifra ‘ayin, la cifra di tutti i possibili personali e
cosmici.
Il serpente
Nel capitolo 3 il serpente, «il più nudo degli animali», suggerisce ad
Yshah di cogliere il frutto della conoscenza del bene e del male; essa
stacca il frutto, lo mangia e lo offre ad Adam. Il gesto porta alla nascita
dell’uomo, l’espulsione dall’Eden, e Yshah diventa Hawah, la madre dei
viventi. Il serpente, nahash, svolge un ruolo importante in molte cosmogonie: in alcune raffigurazioni cosmologiche è rappresentato come avvolgente la terra. È simbolo della grande madre, di cui è il figlio.
Adam e Yshah, nel momento dell’incontro col serpente, sono due esseri nuovi, neonati, ignari. Ad Yshah, sposa del fuoco divino, si presenta
il serpente, ricettacolo di tutte le memorie del tempo, di tutta la sapienza
ancestrale e tellurica. Il suo compito è quello di provocare l’incontro del
fuoco terrestre, di cui è il portatore, col fuoco celeste di cui Yshah è la
portatrice. Yshah e Adam mangiano il frutto e diventano consapevoli di
essere nudi, di essere cioè distinti dal mondo della ripetitività proprio degli animali, e destinati a orientare l’esistente verso la trascendenza, verso
la realizzazione di tutti i possibili. Consumando il frutto raggiungono la
consapevolezza, per partecipazione, che la vita è un continuo succedersi
di vita-morte-vita verso un’infinita possibilità.
In questa conoscenza è la novità della coppia umana. Yshah, consumando il frutto, comprende e integra il processo di vita promosso dalla
Presenza immanente divina.
I SIMBOLI RELIGIOSI DELLA FEMMINILITÀ
63
La risposta che Yshah dà a Jahwèh-elohim è significativa dal punto
di vista simbolico: «Il serpente ha animato col suo fuoco terrestre il fuoco celeste che è in me», e non come le traduzioni: «Il serpente mi ha sedotta!».
Una nuova sensibilità nasce in Yshah; vede che l’albero è bello e dilettevole: sensibilità estetica introdotta direttamente in lei come un risveglio, senza alcun legame con le fasi dell’evoluzione, rappresentate dal serpente. Yshah e il serpente si oppongono e si avvicinano per tutti i simboli che li costituiscono: lei abitata dal fuoco celeste, lui da quello terrestre;
lei ignara e nuova, lui invecchiato per accumulazione di sapienza; lei creatrice incondizionata di nascite virtuali, lui erede di tutti i condizionamenti. In questo scontro di contraddizioni Yshah si libera dal ritmo animale;
ed è yshah, non adam, che diventa la punta avanzata verso l’umano.
Queste opposizioni costituiscono la danza sacra tra yshah e il serpente: lei cerca di tallonare il capo del serpente, lui di pungerla al calcagno. La sposa del fuoco celeste danza senza posa nel suo ritmo ascendente, finché lui col capo schiacciato non rientrerà in seno alla grande
madre, la terra.
I dolori del parto si riferiscono al tema dominante del mito: la donna
trasfigurata concepirà e partorirà l’immanenza creatrice, e il cammino
tra yshah e la donna perfetta sarà lungo e doloroso. Nel corso dello sviluppo storico la donna desidererà l’uomo che saprà dominarla; questi
suoi desideri andranno contro il suo compito di trasfiguratrice (Genesi
3, 16). Adam espulso dal giardino si riconosce nato, uscito dalla matrice.
Il testo ci dice che solo Adam fu espulso, non Yshah; lei, sposa del fuoco cosmico, rimane nell’Eden, immagine della donna eterna in attesa
della trasformazione di quella terrena, hawah, che accompagna adam nel
suo pellegrinaggio terreno; yshah è in attesa nell’Eden, la sua fiamma
inestinguibile è sempre vivente. L’uomo storico deve continuamente riconsiderare la nozione che ha dell’umano; la donna storica è perennemente chiamata a prender coscienza di se stessa, poiché hawah, Eva, la
donna vivente, in questo momento e in questo spazio, è sempre virtuale;
è la fiamma di yshah in esistenza, colei che porta l’archetipo della sposa
del fuoco divino in una manifestazione tuttora incompiuta.
Questi archetipi – adam statico, yshah dinamica – esistono in ogni umano individuo. Nella nostra esistenza quotidiana siamo di rado coscienti di
essere il punto d’incontro di queste energie complementari. Esse si rivelano quando i nostri occhi sono bene aperti.
64
GIOVANNI M. VANNUCCI
Il mondo attuale è pericolosamente squilibrato e riflette il nostro interiore squilibrio. È necessario che la psiche di ognuno si raddrizzi, se
non vogliamo lasciarci portare alla deriva verso delle acque stagnanti o
verso qualcosa di peggio. È necessario riaccogliere con umiltà i compiti
specifici dell’uomo e della donna, per viverli senza debolezze o soprusi,
in una perfetta e armoniosa collaborazione. È la rispettosa collaborazione con l’altro o con l’altra che opererà la trasfigurazione dell’universo. La
donna è chiamata a ritrovare la consapevolezza della sua missione di
“sposa del fuoco divino”: questa consapevolezza la deve scoprire da sé,
non andarla a mendicare da autorità maschili. Balzac, nella Phisiologie
du mariage, dice: «La donna è uno schiavo che bisogna mettere sul trono». Gli psicanalisti chiamerebbero questa posizione “una proiezione”,
cioè l’uomo ha paura di assumersi o di meritare quella superiorità che si
attribuisce!
Quando Maria, la sposa riuscita del fuoco celeste, disse di sì all’angelo che le annunziava cose impossibili ed assurde al pensiero umano,
non andò ad interpellare il capo religioso della sua città. Quando si accorse che mancava il vino alle nozze di Cana, non si consigliò né con
Pietro, né con Giovanni; disse e fece ciò che doveva dire e fare e avvenne il miracolo.
Eva e Dio
Il rapporto tra la maternità e il mistero divino è spesso ricordato nel
VT : esso rivela il costante convincimento che la donna è in un più intimo
contatto con le energie divine che non l’uomo. «Adam conobbe la sua
donna, Hawah, concepì e partorì Cain, e disse: Ho acquistato un uomo,
Jahwèh!» (Genesi 4, 1).
E di nuovo conobbe Adam la sua donna, partorì un figlio e lo chiamò Shet,
perché Elohim ha sostituito il figlio ucciso con questa nuova discendenza»
(Genesi 4, 25).
La nascita di Isacco è prodigio di Dio (Genesi 21; cf. 30, 1-22; 1Samuele 1, 19-21). Leggendo questi testi osserviamo che i figli del miracolo son tutti uomini predestinati ad un particolare compito religioso:
Cain, Shet, Isacco, Giuseppe, ecc. Come gli eroi, i santi fuori della tradizione ebraica.
I SIMBOLI RELIGIOSI DELLA FEMMINILITÀ
65
Nella Genesi la donna compie la sua opera di servizio alla vita in
ogni momento critico della rivelazione: è la donna che offre il frutto
della duplicità della vita ad Adam, perché si avventuri nel compimento
del suo destino. Sono tre le donne che salvano il predestinato Mosè
(Esodo 2, 1-10); è la moglie di Mosè che lo salva dall’aggressione di
Jahwèh (Esodo 4, 24-26). Altri episodi simili indicano la trasfigurazione
della donna (Genesi 12, 10-20). Il faraone rapisce e restituisce Sarah ad
Abramo, il quale l’aveva presentata come “sorella”’ (Genesi 20, 1-8);
Abramo dice ad Abimelek che Sarah è sua “sorella” (Genesi 26, 1-11);
Isacco presenta Rebecca ad Abimelek come “sorella”.
Prescindendo dal valore storico o meno, simbolico o no di queste
narrazioni, per il nostro studio è importante il vocabolo “sorella” usato
per indicare la moglie. La vocazione della donna, secondo la corrente
più religiosa dell’ebraismo, è quella di diventare “la sorella”, la compagna dell’uomo.
La donna non è soltanto la femmina dell’uomo, è sua moglie, ma non ancora sua sorella, la sua eguale52.
Concludendo, la coppia maschile-femminile è il riflesso nel creato
dell’unità divina, ove non esiste né maschio né femmina, ed è il fondamento della creazione. La ritroviamo a tutti i livelli: unione di Dio e
Israele, di Israele e del mondo; l’alleanza è il matrimonio tra Jahwèh e
Israele.
Questo simbolismo non è stato soltanto pensato dai profeti, è stato vissuto da
loro. L’unione felice di Isaia con sua moglie, il compimento del loro amore
nei figli è segno dell’amore fecondo tra Dio e Israele. L’unione infelice di
Osea, l’indegnità della sua moglie, la nascita dei figli illegittimi sono segno
della decadenza dell’amore. Il celibato di Geremia è segno della rottura dell’amore. La morte della moglie di Ezechiele segno della continuità dell’amore nella sofferenza e nella separazione. Il compito più essenziale affidato ai
profeti è quello di essere il segno dell’amore coniugale di Dio e di Israele53.
52
53
E.A. Lévy-Valensi, La racine et la source, Paris 1968, p. 208.
A. Neher, Essence du prophétisme, Paris, p. 349.
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GIOVANNI M. VANNUCCI
Nella femminilità del VT, come nelle altre civiltà mediterranee e occidentali, s’intersecano due correnti: una collegata al culto della grande
madre; un’altra, patriarcale, introdotta dalle popolazioni nomadi e
guerriere. I testi dell’Ecclesiaste 7, 28: «Ho trovato un uomo tra mille,
ma non una donna tra tutte le donne», come l’elogio della donna al “servizio del marito” in Proverbi 31, riflettono la concezione paternalistica. I
tabù sessuali del Levitico sono l’eco di una dura lotta sostenuta dai capi
religiosi d’Israele contro la religione della grande madre, per far trionfare quella del padre. Nonostante il patriarcato trionfante, la sua affermazione in una moralità rigida, la Bibbia ci ha trasmesso la visione mistica ed essenziale della femminilità: è la donna nella sua perenne lotta
con le forze telluriche della grande madre che supererà il suo simbolo: il
serpente; lo supererà nella trasfigurazione del suo essere da femmina a
sposa e compagna illuminata e indispensabile dell’uomo, nel compito
della creazione assegnato alla coscienza umana.
Conclusioni
Zakar-ysh: l’uomo è portato ad impiegare la sua libido più nelle azioni che nell’amore. Infatti la vita sentimentale del maschio è secondaria, ritenuta meno virile della funzione guerriera. Questa tendenza guerriera
fa considerare la donna come oggetto di preda: prova ne sono gli istinti
scatenati durante la guerra, la violenza maschile sempre pronta ad assalire la donna indifesa.
Neqibah-yshah: la libido femminile è amore oggettivo e dominante:
da femmina diviene sposa, madre, sorella, educatrice. Diffonde e difende la vita. Riconduce nella sua casa vivente le energie scatenate dall’uomo. La donna è immersa in una sfera metafisica e concreta; i valori che
incarna sono più reali delle ideologie maschili: essa considera queste ultime distrattamente, come puerili giochi dell’uomo. In essa l’amore ha
il primato, amore-partecipazione, per il quale interiorizza il dolore che
non è suo. La natura ha spaccato in due il suo egoismo: la madre ama il
figlio come se stessa, egoisticamente.
L’esclamazione di Hawah dopo la nascita di Qain: «Ho acquistato
un uomo Jahwèh» (Gn 4, 1) esprime la consapevolezza di essere la collaboratrice della divinità creatrice, attraverso la generazione dei figli, e
insieme della dilatazione del suo io in un altro io. Dilatazione nell’altro
che è il principio di ogni evoluzione morale che sopprimerà l’egoismo.
I SIMBOLI RELIGIOSI DELLA FEMMINILITÀ
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L’istinto materno è il fondamento dell’etica. Mentre il maschio è sempre tentato, come le scimmie superiori, a trattare i deboli come prede sessuali 54, la donna è portata a considerare tutte le creature inermi come
partecipi della fragilità del suo piccolo e quindi oggetto del suo amore. Essa pone d’istinto il valore morale, rifiutandosi di ratificare ciò che è stato
stabilito dai forti, dalla divinità, dai vincitori, dai realisti; la sua carità magica tenta di rendere accettabile la sventura. La donna, veramente tale, vive in una sfera del tutto diversa da quella degli uomini: in lei i valori procedono dal cuore, dall’eterno, e si pongono contro il dato, il ratificato, della vita55.
I simboli della femminilità nel mistero cristiano
La novità di una rivelazione non appare improvvisamente, ma viene
preannunciata da mutamenti di coscienza, di comportamento, di forme
associate di vita, quasi per preparare l’umanità ad accogliere la nuova
parola. La novità della visione cristiana della donna è preceduta da segni che costituiscono un cambiamento nei confronti delle istituzioni sociali loro contemporanee, ed insieme un’indicazione di quei mutamenti
che diverranno normativi dopo la manifestazione della nuova parola.
La parola cristiana concernente la donna è espressa nella sua essenzialità da Paolo: «Non c’è più né uomo né donna, tutti siete una realtà
vivente in Cristo Gesù» (Galati 3, 28). Nel cristianesimo la donna dovrebbe ritrovare la sua dignità di compagna dell’uomo nel compimento
del destino dell’umanità.
Alcuni secoli avanti Cristo possiamo rilevare degli indizi, nella religiosità umana, di un’apertura verso la legge dell’amore. Così, per esempio, una parola attribuita a Buddha: «Se uno t’ingiuria, riconosci la sua
54
55
S. Zuckerman, La vie sexuelle et sociale des signes, Paris, p. 187.
Per i problemi di questa seconda parte indichiamo la seguente bibliografia:
G.G. Scholem, La Kabbale et sa symbolique, Paris 1966; C. Suarès, La Kabbale des
kabbales, Paris 1962; La Bible restituée, Génève 1967; Le Sepher Yetsira, Génève 1968;
M. Choisy, Moïse, Génève 1966; E.A. Lévy-Valensi, La racine et la source, Paris 1968;
AA.VV., L’autre dans la conscience juive, Paris 1973.
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GIOVANNI M. VANNUCCI
bontà perché non ti percuote; se ti percuote, ringrazialo che non ti abbia
ucciso; se ti uccide, glorificalo davanti all’Eterno, poiché ti ha aperto la
strada della liberazione»56.
Il maestro Mô, verso il 380 a.C., diceva: «Amatevi, tutto cambierà di
aspetto».
Cristo ricolloca i rapporti della coppia nell’amore-libertà dell’“In
principio”: nella coppia le convenzioni sociali vanno superate, abbandono del padre, della madre, ecc. e i due s’incontrano nella libertà della
scelta di amore.
Nell’economia del VT è il patriarca che sceglie la compagna del figlio:
Genesi 24, 28, ecc. Alcuni secoli avanti Cristo, appaiono delle coppie
che non sono più legate al clan patriarcale, ma sono l’espressione umana e commovente dell’amore umano: Orfeo ed Euridice, Filomene e
Bauci, Enea e Didone, Antonio e Cleopatra prefigurano delle luminose
coppie apparse nel cristianesimo: Benedetto e Scolastica, Francesco e
Chiara, Francesco di Sales e Giovanna di Chantal, ecc.
L’accesso della donna alle scuole di filosofia, 306 a.C., la sua lenta
emancipazione nella Roma imperiale, il riconoscimento del divorzio,
danno alla coppia una libertà impensata: lo sposo non è più il capo e il
giudice, ma, secondo il mito platonico, la metà di quel frutto che la
donna completava.
La novità cristiana
Il VT si apre con l’immagine di Adamo padre ed Eva figlia, generata da
Adamo che dona la sua carne per la formazione di Eva.
Il NT inizia con un’immagine differente: Maria dona allo Spirito la
sua carne perché da essa sia formato il Figlio.
Come ci fu una femminilità evocata all’esistenza da una maschilità
senza la mediazione di una madre: Eva creata da Adamo e in condizione
passiva nei confronti di Adamo, si è avuto una maschilità partorita da una
femminilità senza la mediazione di un padre: Gesù nato da Maria.
Nella persona di Maria la femminilità è rivestita di una funzione attiva creatrice, ad immagine della “sophía divina”. Il rapporto tra Maria
56 R.
Grousset, Les civilations d’orient, Crès 1929.
I SIMBOLI RELIGIOSI DELLA FEMMINILITÀ
69
e Gesù è l’antitipo di quello tra Adamo ed Eva: Maria e Adamo sono i
genitori, Eva e Gesù i figli.
La sostituzione della figura di Maria a quella di Eva è imposta dalla
rivelazione della femminilità-creatrice; Maria nell’economia della novità cristiana è la portatrice della compassione divina. L’episodio delle
nozze di Cana, ove Maria stimola l’intervento del Figlio, è rivelatore di
questo nuovo aspetto, attivo e compassionevole, che la femminilità
avrebbe dovuto svolgere nell’esperienza cristiana: muovere la maschilità dalla sua non partecipazione attenta alle vicende concrete dell’esistenza, e indirizzarla verso un’operosità di compassione attiva di fronte
alle deficienze insite nell’esistenza57.
La contrapposizione delle due immagini iniziali Adamo-Eva, MariaGesù manifesta il ruolo della femminilità nell’era cristiana: non è più
passività, ma attività creatrice, attività non ad imitazione di quella virile, ma conforme alle sue qualità essenziali: genitrice della vita, portatrice della compassione divina.
Maria è quindi l’archetipo della missione della femminilità non solo
nel cristianesimo, ma della femminilità in sé, nella sua essenza e missione specifica. Nella sua missione sofianica, Maria, e con lei la femminilità, è chiamata a incarnare i pensieri divini e a dar loro una figura umana, ad umanizzare Jahwèh, che perde la sua immagine tremenda e assume il volto compassionevole e misericordioso. Maria è l’organo della
sophía e, sul piano della manifestazione, rivela un cambiamento del volto divino. Maria è la donna che incarna la sapienza divina, per questo le
donne sono risvegliate ad assumere il loro compito religioso: attuare tra
gli uomini dei legami sociali che non siano rapporti di violenza, di dominio, di insensibilità di fronte alla vita concreta, di giuridicismo, ma di
compassione, di amore, di dedizione intrepida ai carismi che solo essa
ha ricevuto, e alla loro realizzazione.
La figura di Maria, donna perfetta, segna la fine del monoteismo virile di Jahwèh e di conseguenza dell’assolutismo del patriarcato. L’Uni-
57 Sulla femminilità creatrice cf. H. Corbin, L’imagination créatrice dans le soufisme
d’Ibn‘Arabi, Paris 1958, pp. 119-132; P. Alphandery, «Le gnosticisme dans les sectes mediévales latines», in Congrès d’Histoire du Christianisme, Paris 1928, vol. III, pp. 55-56.
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co in Maria si rivela come Figlio, amore, e come Spirito santo, libertà. La
Vergine che concepisce il Verbo eterno, rivela la natura della femminilità:
è il seno delle energie creatrici, dona la sua carne ove si posano il contenuto, la parola, la potenza, l’atto, essa non è il Verbo, ma l’esse.
La mascolinità, a motivo della sua struttura mentale, formula concetti
astratti, si irrigidisce negli schematismi e, nel suo cammino astratto, si ribella alla materia, alla carne, disprezza il creato, costruisce delle forme di ascetismo disumano. La femminilità, invece, ha una mentalità concretizzante, riconduce alla vita le astrazioni maschili; non si ribella alla materia, alla creazione, alla carne, le rende feconde accogliendo e nutrendo il Verbo.
La religione della pietà
Dall’archetipo madre-figlio è nata la religione della pietà, il cristianesimo. Essa ha queste due caratteristiche:
a) concreta aderenza alla vita;
b) pietà attiva nei confronti di tutte le sofferenze.
Abolisce ogni meta astratta dell’operare religioso e addita l’incontro
dell’uomo con il mistero divino nell’amore umile e dimentico di sé per gli
altri. L’amore materno che dà la sua vita per gli altri.
Nelle parole del Figlio non troviamo alcuna astrazione, schematizzazione, giuridicismo. Non parla di povertà, ma di poveri; non di pacifismo,
ma di portatori della pace; non di elaborate teologie per contemplare il
volto di Dio, ma di freschezza e purezza di cuore; non di giustizia, ma di
affamati e assetati di giustizia. Non stabilisce una gerarchia di tecnici del
mistero divino o di primati di autorità: ciò che è nascosto ai sapienti e agli
abili è rivelato ai fanciulli (Matteo 11, 25): «Tra di voi chiunque vuole essere il primo sia il vostro schiavo; il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita come prezzo di riscatto per
molti» (Matteo 20, 27-28).
Le parole del primato di Pietro: «Tu sei Pietro e su questa pietra io edificherò la mia chiesa» (Matteo 16, 18) sono da intendersi nel significato
simbolico della “pietra”, simbolo della grande madre. Cioè l’ecclesia mater, la sponsa Christi, accoglie i figli e li alimenta e li protegge con la stessa
delicatezza e duttilità dell’utero materno 58.
58
Aa.Vv., Legge e vangelo, Padova 1972, pp. 135-146.
I SIMBOLI RELIGIOSI DELLA FEMMINILITÀ
71
Esaminando le parole e le gesta di Gesù, il maestro unico della nuova era, riscontriamo un’apertura di amore-materno, unica nella storia
dei grandi geni religiosi. Egli è venuto a salvare ciò che era perduto (Matteo 18, 11), accoglie i fanciulli e li addita come modelli a chi cerca il regno dei cieli (Matteo 18, 1-5); è il “pastore” che dà la vita per le pecorelle (Giovanni 10); lava i piedi ai discepoli (Giovanni 13, 4-10), ecc.
La morale del cuore e la morale del rigore geometrico
Con il cristianesimo viene posta in evidenza, vissuta e annunciata
un’altra morale, non codificata ma vivente nel profondo della coscienza
umana: la morale femminile del cuore, come completamento fecondo e
rivoluzionario della morale rigorosamente geometrica della maschilità.
La morale femminile è nutrita dai miti del cuore, opposti a quelli del
calcolo, dell’egoismo, della violenza e dello sfruttamento. Morale, radicata nell’amore e nella difesa di tutte le vite, che non può venir espressa in termini filosofici o giuridici essendo, per le esigenze di un amore
aderente alla vita, mutevole.
Le morali virili dei princìpi assoluti e categorici, formulate in una
terminologia astratta e assolutizzante, dividono inevitabilmente gli uomini in giusti, conformi ai postulati, e in non giusti, difformi dai postulati; provocando degli atteggiamenti di durezza nei confronti di chi non
vuole o non può uniformarsi agli imperativi categorici.
La morale del cuore, concreta e aderente all’esistenza dolorosa degli
uomini, che, attraverso le più difformi esperienze, sono in cammino verso il raggiungimento della verità dell’essere, ama i peccatori e le peccatrici, trepida per la pecorella smarrita e, non giudicando, tiene la coscienza
umana immune dall’identificarsi con una qualsiasi sistemazione di princìpi immutabili, mantenendola in uno stato di umile amore alla vita e di
ogni sua manifestazione.
La morale del cuore è la morale femminile che, trasmessa dalla paziente fedeltà di innumerevoli generazioni di madri e di amanti, ha umanizzato il cuore dell’uomo e ha trovato la sua perfetta espressione nella
parola di Cristo. È questa morale che rivela l’opera civilizzatrice della
femminilità, che infrange gli ordini instaurati e difesi dalla maschilità:
l’abolizione dei sacrifici umani, della schiavitù, dello sfruttamento, l’affermazione del rispetto della vita (cf. il mito di Antigone).
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GIOVANNI M. VANNUCCI
Tale irradiazione silenziosa ha determinato, in una crescente porzione di uomini, l’impossibilità morale di compiere azioni criminali contro
la vita. Irradiazione che conferma quanto dicevamo sulla natura della
mente femminile, che evita le astrazioni e concretizza il Verbo nella vita. La donna non discute sul libero arbitrio, pazientemente crea una seconda natura che determina l’impossibilità di compiere azioni contro la
vita o la verità dell’essere. Non si perde in disquisizioni sulla libertas minor, passa decisamente all’attuazione di quella libertas maior nella quale la natura umana ha orrore di quanto lede la vita. Si potrebbe dire che
la morale del rigore geometrico elabora complicati sistemi di leggi, la
morale del cuore li smaglia in vista della superiore ed unica legge dell’amore della vita.
Simbolicamente, l’operosità della morale del cuore è stata raffigurata dalla Vergine che addomestica gli animali selvaggi – La Vergine e il
liocorno, Minerva e il Centauro di Botticelli – o dal folklore da fiaba sul
tipo della Bella e il Mostro. In questi simboli è espressa l’opposizione
chiaramente avvertita dalla coscienza tra la magia vitale della donna e
gli istinti di morte del maschio. La morale del cuore è sempre dalla parte degli oppressi, dei vinti, degli uccisi. Essa si pone come l’estensione
della funzione materna del cuore femminile e come esigenza di universale simpatia.
Questa morale impedisce di deformare le singole persone in nome
di interessi reputati universali (la ragione di stato, di chiesa, di ideologia
politica), in difesa di ortodossie religiose o politiche, poiché tiene ben
presente che la vita associata è composta di individui di fronte ai quali
ognuno ha dei doveri immediati e umani. Essa afferma che i legami tra
gli uomini, sul piano di reciproci rapporti, passano prima attraverso
l’assoluto dell’amore : amate, quindi, attraverso l’umanità concreta:
amate i vostri nemici; in ultimo posto attraverso il sociale: la vostra giustizia sia superiore a quella dei teorici e dei politici.
Il comandamento di Cristo: «Amatevi gli uni gli altri» non è differente da quello effettivo, che nella donna è una legge di natura, nel cuore degli amanti la percezione cosciente della vita universale. Le parole
di Cristo alla peccatrice: «Ha amato molto, molto le è perdonato» indicano che il corpo, anche nei suoi smarrimenti, è riscattato dall’amore. È
l’amore che impone alla madre di soffrire delle sofferenze del figlio, in-
I SIMBOLI RELIGIOSI DELLA FEMMINILITÀ
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dipendentemente dalla condotta morale o ideologica di questo ultimo;
al mistico di portare nella carne le stigmate del Maestro divino: tutto
questo al di là delle ideologie religiose o politiche, in un’unione soggettiva delle libertà dei singoli.
Il principio dell’amore, subentrato al rigore del mosaismo, si è manifestato
soprattutto nel cristianesimo. È necessario ripeterlo senza mezzi termini: anche se i suoi effetti non sono sempre evidenti, il cristianesimo, per l’emancipazione della donna che ha provocato, per il numero considerevole di donne che, dagli inizi fino ad oggi, l’hanno accettato, per la prodigiosa animazione dell’uomo che ha suscitato e, indirettamente, per gli attacchi cui è
sottoposto da parte del terrorismo maschile, Dio è essenzialmente femminile59.
Basta ricordare, per convincersene, che il Dio annunciato dalla rivelazione cristiana rappresenta l’umano totale, l’Essere che porta la salvezza agli uomini e alle donne, ma più particolarmente alle donne, perché è l’animico femminile che è venuto a redimere e a glorificare nell’umanità; ed è l’animico femminile la punta più avanzata nella via dell’umanizzazione dell’uomo.
59
R. Nelli, L’amour et les mythes du coeur, Paris 1975, p. 158.
Maria e lo Spirito santo
1. Il mistero divino: padre e madre
I contemplativi di tutte le religioni, quando hanno cercato di definire l’ultimo mistero, lo hanno descritto con dei termini che ne sottolineavano l’indefinibilità: gli indiani, il supremo Brahman; gli egiziani,
Tem, colui che è senza forma; i qabbalisti, En sof ; Dionigi l’Aeropagita,
«luminosa tenebra del silenzio»; Jacob Böhme, Urgrund ; i buddhisti
l’invocano: «O senza nomi»!
L’Assoluto non è posto come enigma concettuale od ontologico, ma
come realtà vivente e presente in ogni istante della creazione, vivente e vissuta come atto volontario di espressione esteriore di se stessa nella manifestazione. Nell’Assoluto possiamo, umanamente, concepire una pienezza in cui tutto è uno e perfettamente conchiuso in se stesso, e insieme una
ispirazione all’espansione, alla manifestazione. Gli antichi dicevano: bonum est diffusivum sui, il bene supremo ha la tendenza ad andare oltre ciò
che lo delimita, a traboccare dalla pienezza del suo calice colmo.
Applicando questi concetti a dei vocaboli che ci sono più familiari
(padre – madre), possiamo dire che il “padre” è la pienezza dell’essere,
in sé perfettissimo e completo; la “madre” è la diffusione dell’uno e del
molteplice creato, l’espansione della pienezza della vita nel non ancora
esistente, nel nulla.
Nel principio Dio chiamò all’esistenza cielo e terra. La terra era priva di forma, essendo l’infinita distesa di tutte le possibili forme; era pri-
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GIOVANNI M. VANNUCCI
va di ordine, contenendo in sé tutte le possibili forme dell’ordine. Lo
Spirito di Dio era la potenza fondatrice divina sulla superfice delle acque, dell’indistinto proteso verso la distinzione dell’informe possibile
di forma (cf. Genesi 1).
In tal maniera, un’immagine meno limitata e limitante del mistero
primo, dell’Assoluto, è quella di “padre-madre”, di perfezione totale
dell’uno e della necessità di espansione dell’uno nella manifestazione.
Usando, arditamente, il limitante linguaggio umano, la duplice
struttura della divinità ha un duplice aspetto: infinito assoluto e possibilità universale; esso viene a riflettersi su tutti i livelli dell’esistenza universale che è, per usare la terminologia umana, la “teofania”, la manifestazione esteriore della divinità.
Le tradizioni religiose, in terminologie differenti, hanno sempre insegnato che la manifestazione universale, o creazione, procede da un
doppio principio: purus. a e prakr.ti in India; yang e yin in Cina; Osiris e
Iside in Egitto; Jahwèh nell’ebraismo, dove jh è il pronome femminile e
wh il pronome maschile; il Verbo creatore e la sapienza divina, la Vergine, nel cristianesimo; Adamo ed Eva nella Genesi.
È necessario riaccogliere questa visione della divinità, anche se differisce da quella della scolastica medievale, se vogliamo giungere a una intelligenza profonda del mistero della Vergine e a delle implicazioni spirituali meno basate sul sentimento.
Il mistero divino, l’infinito divino esclude ogni limite e determinazione. Meister Eckhart afferma che l’anima, per giungere alle radici della
divinità, deve mettere da parte tutti i santi e liberarsi della stessa nozione di Dio; egli distingue Dio, Gott, dalla deità, Gottheit. La deità è estramondana, mentre Dio è nel mondo. La deità, l’infinito, al di là di ogni limite, nome, definizione, si identifica necessariamente alla possibilità
universale, vale a dire a tutte le possibilità, sia manifestate che non manifestate, concepite in modo di princìpi o archetipi. Ne viene di conseguenza che ogni essere apparso all’esistenza è la manifestazione esteriore della sua possibilità originale, del suo archetipo eterno in Dio. L’uomo, ad esempio, è la manifestazione dell’archetipo dell’uomo esistente
nel pensiero divino; così dicasi di tutti gli esseri creati.
L’insieme degli archetipi, la cui totalità costituisce la “possibilità universale”, rappresenta nella mente della deità, dell’assoluto, una concezione non manifestata e indifferenziata, una “concezione” della divina
MARIA E LO SPIRITO SANTO
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essenza, che è il mistero della “immacolata concezione”, nel suo più elevato significato. In questa prospettiva, il peccato originale, il peccato
che è alle radici dell’essere creato, consiste nella “separazione della
creatura dal suo archetipo eterno”, considerandosi come autonoma,
ponendo un illusorio limite all’infinito divino. La Vergine che si identifica con la “possibilità universale”, nella sua immacolata concezione, è
esente dal peccato originale.
Realizzare in sé il mistero della Vergine vuol dire ritrovare il proprio
archetipo eterno, la propria realtà in divinis. L’essenza della “possibilità
universale”, in quanto “concezione” della divinità, è la sua privazione
di ogni resistenza od opposizione a tutti i livelli dell’esistenza.
A livello del cosmo, la coppia purus. a-prakr. ti la ritroviamo nello
«Spirito di Dio che fecondava le acque» (Genesi 1, 2); le acque con la
loro plasticità perfetta sono il segno della perfetta sottomissione della
“possibilità-universale”, prakr. ti, yin, la vergine al purus. a, allo yang, al
Verbo creatore, alla Sapienza increata. A livello dell’essere umano troviamo la coppia Adamo-Eva: ed è a questo livello che si situa il peccato
originale, la separazione dal mondo divino, dell’uomo e della donna.
Nel processo inverso, del ritorno del manifestato al non-manifestato, della “rigenerazione spirituale”, troviamo la coppia Spirito santovergine Maria, Cristo-chiesa, nuovo Adamo-nuova Eva. In questo cammino di ritorno troviamo costantemente il segno dell’acqua: acqua del
battesimo che si identifica alle acque della Genesi, sulle quali si muoveva lo Spirito santo; la Vergine dell’annunciazione che lo Spirito santo ricopre con la sua ombra.
La Vergine, in questa teofania, costituisce un’equazione, un’identità
ontologica con il simbolismo dell’acqua: Maria è la sostanza plastica universale, la materia prima, la Mater, l’acqua uscita dal fianco del Crocifisso, la chiesa-madre, luogo della rigenerazione, la nuova Eva, la sposa
uscita dal costato di Cristo. Le parole di Cristo a Nicodemo, in questa
luce, acquistano tutto il loro significato: «Chi non nasce dall’acqua e dallo Spirito non può entrare nel regno dei cieli» (Giovanni 3, 5).
Precisati alcuni segni – acqua, plasticità universale senza resistenza
ed opposizione, generatrice di tutti i germi che il sole vi deposita; possibilità-universale che accoglie e genera le forme che il principio attivo
vi genera; purezza, bellezza, bontà, povertà che sono le qualità basilari
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GIOVANNI M. VANNUCCI
della Vergine nella sua immacolata concezione –, bisogna ora considerare il lato soggettivo, interiore, per comprenderne il significato in
quanto principio della rigenerazione spirituale dell’anima.
L’anima individuale, separata per il peccato originale, dovrà essere
trasformata per ritornare nello stato di non-separazione originale, per
riarmonizzarsi con il mistero divino tornando ad essere sostanza plastica
universale. Lo Spirito santo, come nell’incarnazione, non può agire che
in quelle anime che partecipano alle qualità della possibilità-universale
divina: purezza, umiltà, bellezza, povertà, qualità che possono venir designate con una sola parola, la “plasticità”, analoga alla sottomissione, alla mobilità delle acque che sposano la forma del vaso che le contengono.
Qualità che designano uno stato, da realizzare ontologicamente, esistenzialmente, e che sorpassa, pur includendolo, il punto di vista morale.
Non si tratta di compiere degli atti di carità, di umiltà, di bellezza, ma di
essere la purezza, l’umiltà, la bellezza, la povertà. La neve è bianca, non
compie delle azioni di bianchezza.
Questa trasformazione spirituale, che è la realizzazione delle virtù
spirituali, delle virtù mariali: purezza, umiltà, bellezza, bontà, povertà,
richiede tre condizioni:
1. la trasmissione delle energie dello Spirito santo attraverso dei riti
appropriati, sacramenti, chiesa;
2. la conoscenza dello scopo da raggiungere;
3. il metodo contemplativo, che crea nell’anima uno stato di totale
sottomissione, di plasticità ontologica. Metodo contemplativo che costituisce una vibrazione che armonizza l’anima alle qualità della Vergine.
2. L’anima del mondo
La possibilità-universale, potremmo anche dire l’aspetto femminile
del mistero divino, l’aspetto dell’infinito con il segno - (meno), la plasticità pura, pronta ad accogliere i germi divini di vita, di bellezza, di
bontà, media il mondo divino con il mondo creato. Essa nel mondo greco-romano aveva un nome: anima mundi, psyché toû kósmou nel Timeo
di Platone e in Plotino. Il corpo del mondo, le realtà che cadono sotto i
sensi, è animato da questa anima che gli è immanente e insieme lo trascende da tutte le parti. Questa trascendenza dell’anima nel confronto
MARIA E LO SPIRITO SANTO
79
del corpo del mondo preserva quest’ultimo dalla caduta in se stesso e gli
apre la dimensione delle origini e quella della finalità del creato, che accendono nell’uomo il desiderio di riunificarsi con il suo “principio infinito”.
Movimento di ascesa che condurrà l’anima alla contemplazione, ad una specie di estasi intellettuale e alla separazione dagli angusti limiti di se stessa.
Per un lungo processo storico, la ricerca delle vie del ritorno è stata, in
occidente, circoscritta alla sola conoscenza intellettuale. Conoscenza che
ha aperto la via dell’attività, della prassi; l’anima del mondo ha perduto le
sue qualità di trascendenza, e l’uomo occidentale ha pensato di racchiudere l’anima del mondo nei limiti del mondo.
Prendiamo un termine molto di moda nel nostro tempo: “animazione”.
“Animare” per gli antichi voleva indicare la ricerca dell’anima, del mistero
divino, della perla preziosa nascosta nel cuore di tutte le creature, la ricerca della luce del Verbo eterno che illumina ogni essere che viene all’esistenza. Per i moderni “animare” è mettere in movimento le cose. Si parla di
“animazione liturgica, vocazionale, comunitaria, pedagogica”, ecc.
Così è apparsa un’ “anti-kénosis”. La kénosis è l’annullamento, l’annichilazione, il sacrificio di Dio perché il mondo, la storia ritrovino la loro
anima. L’anti-kénosis identifica lo spirito con il mondo; il divenire del mondo, la storia è la manifestazione dello spirito. Nella kénosis: Dio si è spogliato della sua divinità per rivestirne i suoi figli. Nell’anti-kénosis: il mondo si è spogliato della sua anima per essere il proprio spirito e il proprio signore.
3. La Vergine e l’anima del mondo
Questi accenni al mondo moderno ci permettono di costatare che,
nella mentalità dialettica, caratteristica del mondo moderno, esiste un
abisso tra l’immanenza e la trascendenza, tra l’essere e il non-essere, tra
i fenomeni e il loro mistero.
Il pensiero antico, invece, era certo che tra il trascendente e l’immanente, il creato, esistesse un rapporto di segnalazione, di disvelamento.
Esemplare fra tutti il testo di Isaia, profeta che allo smarrimento storico del suo tempo non addita delle soluzioni politico-economiche, ma il
disvelamento di un segno trascendente, un’apertura del cielo:
La vergine concepirà e partorirà un figlio, e sarà chiamato Dio-con-noi-
uomini (Isaia 7, 14).
80
GIOVANNI M. VANNUCCI
A questo modo di sentire l’ordine cosmico, i cui estremi, Creatore e
creatura, sono collegati dal mondo dell’anima mundi, fa riscontro la
quarta Egloga di Virgilio:
Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna;
iam nova progenies coelo demittitur alto.
Tu modo nascenti puero, [...]
casta, fave, Lucina (6-10).
La realtà mediatrice, l’anima mundi, fonda un mondo di conoscenza
che sfugge al passo di danza dialettico tra l’immanente e il trascendente, tra il creato e il Creatore, tra il vero e il falso: una conoscenza che
può essere definita col termine medioevale: cognitio matutina.
Nel primo versetto della Genesi è detto:
Nel principio Dio creò il cielo e la terra; la terra – l’immanenza – era priva di
forma e di figura; lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque.
L’ordinamento del creato non è un’attività dell’immanente, ma opera del trascendente. Lo Spirito di Dio trasferisce nell’acqua primordiale la volontà del Padre, gli archetipi del Figlio, dando origine all’armonia delle forme create.
Nell’episodio dell’annunciazione troviamo gli stessi princìpi: la potenza dell’Altissimo, il Verbo che discende nella materia purissima della Vergine, che “non conosce uomo”, e lo Spirito santo che compie l’opera di fecondazione, di ricollegamento con il cielo e la terra. La Vergine e la terra
fioriscono, riprendendo il corso della vita.
Nella tradizione cristiana, l’anima mundi è la Vergine madre: essa è
la porta attraverso la quale il cielo può scendere sulla terra, ed è questa
sua realtà che la rende indispensabile collaboratrice dell’opera di trasfigurazione del caos che lo Spirito santo compie.
Nelle invocazioni mariane la Vergine è glorificata come «porta del
cielo» (janua coeli, pervia porta coeli ): questo appellativo non è un’iperbole devozionale, ma la descrizione dell’esperienza religiosa che l’uomo
nel suo divenire spirituale fa, quando vive il mistero, dell’eterno femminile in quanto donatore di qualità e di significati. L’anima che diven-
MARIA E LO SPIRITO SANTO
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ta terra pura, priva di forze germinative umane, sperimenta la presenza
operosa dello Spirito santo, che la rende feconda di frutti di vita divina.
Maria, comunicando all’anima la perfetta capacità di offerta alle energie divine, diventa la porta che introduce la terra nello spazio divino, diventa la madre di Dio per ogni vero credente. Nella figura di “porta del
cielo” la Vergine è un segno: attraverso di lei il Verbo si rende presente
e immanente nella terra.
Seguendo le festività liturgiche di Maria, e tenendo conto delle qualità indicate dai vari segni zodiacali che le incorniciano, possiamo avere
delle indicazioni, dei segni, per il cammino di trasfigurazione della terra, esemplificato nella successione delle ricorrenze mariane. La Vergine
è legata all’elemento “terra”: le sue memorie liturgiche sono collegate a
dei segni attinenti alla terra.
L’annunciazione, il 25 marzo, è sotto il segno dei Gemelli e fa cuspide con il segno del Toro, segno della creatività e legato alla terra. La natività del Verbo, 25 dicembre, avviene sotto il segno del Capricorno, legato all’elemento “terra”. L’assunzione, 15 agosto, segno del Leone, avviene poco avanti la cuspide del mese della Vergine, legata all’elemento
“terra”.
Si ottiene questo percorso: sotto il segno del Toro lo Spirito santo
rende la Vergine, la terra pura, portatrice del Verbo eterno; sotto il segno del Capricorno il Verbo nasce dalla “Terra verginale”; sotto il segno della Vergine il “Corpo verginale” è assunto. La lenta elaborazione
del corpo di risurrezione sulla terra è inclusa nelle celebrazioni mariane
dall’incarnazione fino all’assunzione. È l’opera fecondatrice e creatrice
dello Spirito santo, che rende fertile la terra pura: Maria e i credenti che
ritrovano in se stessi la purità originale; il Verbo concepito da Maria viene concepito dall’anima che, come Maria, può dire: «Non conosco uomo». Il Verbo nasce nel più profondo silenzio della notte della terra pura. La terra pura viene assunta nel cielo, trasfigurata e risantificata.
Questo legame tra la Vergine e la terra, la natura, lo troviamo sottolineato in molte espressioni della devozione mariana: «I fiori sono apparsi sulla nostra terra» (Cantico 2, 12); «cedro del Libano, cipresso di
Sion, vite» (cf. Siracide 24, 11-31); la «rosa mistica» di Dante, la «Vergine con i fiori», la «spiga», le “rose selvatiche” di Lourdes, ecc. Questi
simboli rientrano nella struttura dell’“anima del mondo” per segnalare
nella bellezza la presenza del bene supremo.
82
GIOVANNI M. VANNUCCI
La Vergine è stata per molti secoli il canone della bellezza in occidente: Virgo pulcherrima, super omnes speciosa.
Un altro aspetto dell’“anima del mondo”, della Vergine-madre, è la
sua costituzionale pluralità: essa è l’essenza della mediazione tra l’immanenza e la trascendenza. Questo aspetto ci indica chiaramente che la
comprensione del mistero della storia è possibile solo in una sintesi che
non trascuri né la terra né il cielo. Questo aspetto pluralistico, non catalogabile in nessuna definizione razionale, trova la sua espressione nelle numerose immagini che della Vergine ci ha dato la pietà popolare,
ciascuna delle quali corrisponde e al grado di sviluppo della coscienza
dei devoti e alla loro situazione concreta.
Così vediamo la figura della Vergine posta al centro di tutte le manifestazioni terrene: è la “madre” del Creatore, la madre delle creature, la
“regina” degli angeli e degli uomini, il “porto” ove approdano le anime
dei santi e il “rifugio” dei peccatori. Immagini che esprimono la fede
semplice e pura che, attorno alla figura della Vergine-madre, tutte le
esperienze della coscienza umana trovano il punto che le ricollega e le
trasferisce nel mondo divino della trasfigurazione e dell’amore.
In lei il mondo ritrova il significato della “sapienza” eterna, da cui
promana; in lei, “specchio della giustizia”, “sede della sapienza”, “tabernacolo del Verbo”, l’umanità potrà ritrovare il senso della vita, che in se
stessa, privata della porta che l’introduce nel mondo divino, non ha alcun
significato e rischia di apparire assurda.
Da parte nostra è richiesto, per poter rivivere il mistero della Vergine,
il raggiungimento della purezza, della bellezza, della bontà, della povertà:
qualità originali della Vergine nella sua “concezione immacolata”.
Termino con un’invocazione al mistero della “donna gentile”, nata
nel mio convento di S. Pietro alle Stinche:
A tutti i frammenti,
agli atomi di Maria sparsi nel mondo
che hanno nome Donna,
rivolgiamo oggi la salutazione angelica:
Ave, o Donna!
Che tu sia piena di grazia,
che teco sia l’assistenza dello Spirito santo,
MARIA E LO SPIRITO SANTO
che sia benedetto e benefico agli uomini
il frutto del tuo seno!
Che tu possa pacificare la terra,
riconciliare i fratelli nemici,
cancellare Caino, far risorgere Abele,
ricondurre tutta la terra al Padre celeste
nell’amore del Figlio,
nella grazia dello Spirito santo!
83
Maria figura del ritorno all’unità
Alcune osservazioni sul linguaggio
L’apprensione del reale si compie in due modi, che è necessario aver ben
chiari al fine di evitare qualunque confusione che risulterebbe dannosa
per la conoscenza religiosa. Un modo è quello mediato dai sensi, la cui
direzione va dall’esterno all’interno; l’altro, invece, nasce dall’immediata partecipazione della coscienza al reale nella sua essenza.
L’apprensione del primo modo si ha quando una reazione, provocata da un oggetto nei sensi, viene trasmessa dai canali nervosi del cervello. L’oggetto percepito a sua volta viene trasformato dalla mente in un
universale, in un’idea astratta, e al termine del processo è designato con
dei vocaboli. I sensi percepiscono un albero, ne trasmettono l’informazione al cervello; questo, a sua volta, isola l’informazione sensibile dalle
sue note individuali riducendola al concetto universale di albero. L’idea
astratta viene poi espressa dal linguaggio col vocabolo “albero” che viene esteso metonimicamente a casi similari: il pino è un albero, il cipresso è un albero, l’albero della nave, l’albero genealogico...
Questo linguaggio coinvolge la ragione categoriale; e il suo uso non
implica nessun problema esistenziale, all’infuori di una conoscenza
chiara in cui l’idea sia perfettamente espressa dal linguaggio.
La realtà sensibile è il punto di partenza di questo modo d’apprensione: esso fornisce i concetti generali alla ragione che li ordina in strutture logiche del reale. Esse in sé non sono la realtà, bensì le immagini intellettive, species secondo la scolastica, di essa.
86
GIOVANNI M. VANNUCCI
Il secondo modo nasce da una conoscenza immediata di contatto e
di partecipazione al reale: essa è la risposta, non filtrata attraverso i sensi, della mente agli stimoli della realtà totale, di cui ogni uomo è particella coestensiva.
La forma di conoscenza che ne deriva è intraducibile nei termini dell’ordinario linguaggio; essendo una conoscenza vitale, rimane al di là della ragione categoriale e non può essere incanalata nelle vie dell’astrazione. È piuttosto un processo di concretizzazione che trasforma il supporto espressivo – vocaboli, segni, gesti, simboli, persone, eventi, ecc. – in un
punto di irradiamento della conoscenza che viene da essi rivelata. La conoscenza comunicata mediante questo processo coinvolge tutta la mente:
conoscenza estetica, teorica e pratica, soggettiva e oggettiva, e più che un
conoscere fornisce un “sentire”, un “sapere” nel senso di gustare.
Questa conoscenza è la sorgente dei significati, dei contenuti, delle
norme, dei princìpi, delle strutture, e impegna tutto l’essere umano.
Sull’oggetto-soggetto di questa forma di conoscenza, dovendo in questo scritto soffermarmi su alcune immagini religiose, è necessario fare una
distinzione. Mediante questo modo conoscitivo, la mente entra in un rapporto immediato con il noúmenon degli stimoli che risvegliano la sua attività: alcuni di questi sono il mistero, l’anima – gli antichi dicevano: il nome o l’angelo delle cose create –; altri invece vengono dal mistero divino
che si rivela mediante essi. I primi, che sono la sorgente delle metafore, di
tutta la manifestazione di nobile bellezza, non rientrano nell’ambito della mia ricerca; i secondi invece la riguardano direttamente 1.
1 L’affermazione di Kant: «L’Assoluto non può essere conosciuto dalla coscienza
umana che è relativa; se ciò fosse possibile, l’Assoluto diverrebbe relativo» è un semplice paralogismo. Tutta la tradizione che ha sempre affermato l’incommensurabilità
dell’Assoluto con il relativo dell’umana mente, insieme ha sempre asserito che l’Assoluto per adeguarsi all’uomo si relativizza, si rivela senza cessare di essere Assoluto. Mediante la rivelazione il massimo si contrae nel minimo e questi ne avverte la presenza,
non per ragione ma per contemplazione di fede. Cf. S. Panunzio, Contemplazione e
simbolo, Roma 1975, pp. 46-48.
MARIA FIGURA DEL RITORNO ALL’UNITÀ
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Il linguaggio religioso
Il fatto religioso è l’incontro del divino con l’umano, incontro di due
mondi viventi; il suo svolgimento viene a situarsi in un livello differente
da quello specifico della ragione categoriale. Questa, come dicevamo,
sintetizza e universalizza il dato sensibile; l’incontro del divino invece
comunica non delle idee, ma delle figure, delle visioni che vengono a
svolgere un’incidenza creatrice nella vita. Le figure della fede – che si
chiamano Abramo, Mosè, Elia, Maria, Giovanni, Pietro, Gesù ecc.; e figure sono anche le loro stesse gesta e parole, gli eventi salienti della loro
esistenza – hanno prodotto e producono tali mutazioni nella coscienza
umana da modificare in profondità il corso della storia. Esse non comunicano delle idee astratte ma una vis, una dyvnamis, che trasforma la coscienza di chi l’accoglie.
Le figure della fede sono un ponte gettato tra il temporale e l’intemporale, l’invisibile e il visibile per ricomporre nell’unità il mondo divino
e quello umano. Per questo vivono in uno spazio ove Spirito e corpo sono una sola realtà, spazio ove lo Spirito assume il corpo come caro spiritualis 2.
Data questa loro natura caratteristica, le figure religiose non possono
essere avvicinate con un metodo razionale-scientifico, che le oggettiverebbe e storicizzerebbe accogliendole o respingendole secondo i suoi
parametri che sono differenti dall’essenza delle figure; ma sono accostabili con i mezzi propri di una struttura psico-spirituale differente dalla
ragione; più che oggetti di indagine scientifica, sono germi di contemplazione e di ascesa spirituale.
Le figure religiose sono strutturate nel modo seguente: la loro forma
esteriore è un’immagine percepibile dai sensi, spesso una realtà che ha
avuto una precisa fisionomia e vicenda storica; il loro contenuto è oltre
la forma e discende dalle sfere del divino: in esso la coscienza umana riconosce la grandezza cui è chiamata da Dio e riceve le forze necessarie
per giungere a vivere nella verità divina.
Le immagini religiose sono sperimentate non come oggetti su cui
svolgere un’attività di pensiero, ma come presenze personali. Su di es2
H. Corbin, Terre céleste et corps de résurrection, Correa 1960, p. 14.
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GIOVANNI M. VANNUCCI
se, più che domandarci: «Cosa sono?», dobbiamo chiederci: «Chi sono?». Non cosa è Gesù Cristo, ma chi è Gesù Cristo; non cosa è l’Immacolata, ma chi è l’Immacolata, ecc. 3.
L’accoglienza della rivelazione, trasmessa mediante le figure della fede, richiede il coraggio di saltare il rude fossato che separa il visibile
dall’invisibile, l’atto di fede che è oltre la paura e le chiarezze geometriche della ragione categoriale. Se questo coraggio manca, il loro linguaggio viene necessariamente soppiantato da quello della ragione categoriale e l’immenso oceano della verità divina si trasforma in duri dogmatismi, in gesti privi di poesia, in un arido flusso di parole insignificanti.
L’uomo diventa tiepido, indifferente, superstizioso e arido.
Chi è Maria?
La fede cristiana è fondata sulla verità di una deviazione originale e
sulla restaurazione operata da Cristo. Le conseguenze del peccato d’origine sono state la separazione, l’opposizione tra la terra e il cielo, il
suolo coltivabile e l’uomo, l’uomo e la donna, la vita e la morte, la donna che da generatrice diventa madre di morituri.
La restaurazione abolisce ogni divisione e separazione: l’uomo non è
più in doloroso antagonismo con la donna: «I due sono una sola realtà
vivente» (Matteo 19, 5), la morte è abolita dalla risurrezione, il peccato
dal perdono.
Con la redenzione l’uomo ritrova l’armonia, la pace, l’equilibrio delle origini, cessa di essere un frammento: quanto fu dal peccato originale infranto si ricompone nell’unità degli inizi.
Il postulato fondamentale della vita cristiana è la ricerca di superare
la frammentarietà dell’esistenza nella vitale unità del tralcio con la vite
(Giovanni 15, 1), di demolire le strutture dell’egoismo che tendono a
separare, a dividere, a moltiplicare.
3 Nel Vangelo di Tommaso, scritto protocristiano ritrovato nel 1945 in Egitto,
un detto di Gesù indica questo particolare modo di conoscenza religiosa: «Le immagini si rivelano all’uomo e anche la luce in esse velata. Nell’immagine della luce del Padre, essa si svelerà e la sua figura verrà velata dalla sua luce». Cioè le immagini della fede rivelano la luce del Padre, quando l’uomo diventa “l’occhio” col quale il Padre
contempla se stesso (Ph. de Suarez, L’Évangile selon Thomas, Marsanne 1974, p. 75).
MARIA FIGURA DEL RITORNO ALL’UNITÀ
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Nel cristiano redento non esiste alcuna soluzione di continuità:
Siano una sola cosa come tu, o Padre, sei in me e io in te, siano uniti in noi
(Giovanni 17, 21).
Il cristiano unito a Cristo abolisce ogni forma di separazione con
l’invisibile e con il visibile.
E ora possiamo capire chi è Maria. È il contrapposto di Eva: principio della molteplicità separante. Maria esinanita nell’unità vitale dello
Spirito è la figura perfetta dell’unità incontaminata della creazione nei
suoi inizi, e rivela che la separazione, di cui il creato soffre, non è nell’essenza, ma nella sua manifestazione alterata e indica le vie aperte dal
suo Figlio per il raggiungimento dell’unità del Tutto.
Le varie figure, che nella fede cristiana esprimono il mistero di Maria nei suoi differenti aspetti, nella loro diversità ne manifestano l’essenza: la Terra pura ove l’uomo può ritrovare l’unità dell’Essere.
Giovanni M. Vannucci
IL GRANDE SEGNO
Maria
Le figure di quelli che per primi, secondo il Vangelo, accolsero la parola vanno considerate con pensiero contemplante, immerse nel più totale silenzio. In esse si compiono dei tempi, e se ne dischiudono altri di
più perfetta rivelazione divina. Se rompiamo questo silenzio con i concetti di una teologia cerebrale, o con problematiche storiche o esegetiche, rischiamo di non comprendere nulla di quanto questi segni viventi, immersi nel divenire della rivelazione, sono destinati a comunicarci.
Due parole ci additano il significato di Maria, madre di Cristo: quella detta in risposta all’annuncio dell’angelo: «Sia fatto di me secondo la
tua parola» (Lc 1, 38) e l’altra rivolta al Figlio alle nozze di Cana: «Non
hanno più vino» (Giovanni 2, 3).
Eva accolse la parola del serpente, il principio separativo, dualizzatore; Maria, accogliendo con tutto il suo essere la Parola eterna, divina,
abolisce la separazione tra cielo e terra, tra uomo e Dio, tra materia e
spirito, e apre i tempi della pienezza della vita. Nel suo grembo il creato e il Creatore ritrovano il loro antico e perduto amore.
La capacità di offerta, di totale abbandono all’immensa vita che
compenetra ogni cosa, espressa nelle parole umane di Maria: «Sia fatto
di me secondo la tua parola», rendono feconda la Vergine e ne rivelano
il mistero. Ella è insieme creatura umana ed espressione personale simbolica della matrice ricettiva dell’universo; del nulla che contiene tutti i
possibili e che, rispondendo alla Parola creatrice, si adorna delle infini-
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GIOVANNI M. VANNUCCI
te forme che appaiono nella festa della vita; dell’abisso sul quale alita lo
Spirito divino; dell’utero ove la Parola divina diventa carne. La Vergine-madre è il “nulla” che, offrendosi senza opposizione alla potenza
germinale divina, rende possibile l’apparizione delle cose, dalla più infima alla più eccelsa: Gesù, Figlio di Dio e dell’uomo.
La chiesa orante ben a ragione riferisce le parole della Sapienza a
Maria:
Prima che i monti si ergessero con la loro mole, prima che l’onda erompesse dalle sorgenti, ero con il Creatore, componendo con lui le armoniose forme dell’universo.
Con lui ero da tutta l’eternità, posseduta da lui, partecipando alla formazione del creato. La mia gioia è di essere sulla terra, mia delizia dimorare tra
i figli dell’uomo.
Chi scopre me trova la vita, il mio pane viene mangiato e il mio vino bevuto da chi ha raggiunto la semplicità (Proverbi 8, 22-31).
Il significato della figura della Vergine-madre è nella sua qualità di
“essere nulla”, terra totalmente devoluta alle energie dello Spirito santo. Il suo “io” non è separato, la sua azione non è affermazione di sé nella conquista, ma offerta e abbandono di sé al volere divino.
Enodio, in un suo inno cristiano, dice di Maria:
Gioisci, o Vergine, madre di Dio,
tu concepisti la Parola
attraverso l’orecchio.
L’orecchio era per gli antichi il simbolo della recettività: la sua capacità uditiva, essendo proporzionata alla sua passività, è simbolo della
materia passiva che non si oppone alla parola; come il suono è il principio attivo dell’udito, così la Parola eterna è il principio attivo che rende
vivente la materia, e, nell’incarnazione, trasforma la vergine in madre
del Verbo.
Mediante il simbolo vivente di Maria ci viene rivelato che prima del
peccato originale esiste la santità e l’unità dell’origine, l’immacolata
concezione.
MARIA
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La Parola prese in lei la carne umana, e con la Parola in lei si rese attiva l’essenza di ogni vita, e tutti gli esseri viventi, nell’attimo dell’incarnazione, divennero suoi figli. In lei l’intera umanità e l’intero creato
vennero ad assommarsi, perché in lei si adempì il mandato di Eva, la
madre dei viventi. Così quel sentimento dell’unità di tutti gli esseri nel
divino, un tempo intuito e vissuto da alcune menti illuminate, attraverso il “sì” di Maria è divenuto un diritto di nascita per tutti. Ogni nato di
donna, morendo al proprio io individuale, ha il potere di vivere nell’immensità della coscienza divina dei figli di Dio.
L’altra parola di Maria, che ne rivela l’intima essenza, è quella che rivolse al Figlio alle nozze di Cana: «Non hanno più vino».
Fermiamoci sui punti base dell’episodio. Le nozze, la Madre e Gesù
presenti, il vino mancante, l’acqua nelle anfore. Le parole di Maria:
«Non hanno più vino», la risposta del Figlio: «Niente c’è tra me e te, o
donna! Non è ancora arrivata la mia ora!». Infine la trasformazione dell’acqua nel vino migliore.
La Vergine-madre – nei momenti cruciali dell’ascesa della coscienza
umana – indica che il contenuto delle forme è svanito, che la festa della
vita, le nozze, sta trasformandosi in tristezza per deficienza di elementi
che diano gioia, fiducia, canto: «Non hanno più vino; nelle anfore c’è
solo dell’acqua!». La Vergine-madre non può che segnalare la deficienza, non può introdurvi i germi di una vita più intensa. Addita l’attesa di
una nuova ebbrezza da parte delle forme esauste; solo la Parola divina
che s’incarna può compiere quest’opera. «Niente c’è tra me e te, o donna. Tu sei la matrice che attende la fecondazione, tu sei la misericordia
che trepida e si dona quando la vita vien meno. Io sono la vita fecondante, tu attendi e accogli: dal nostro incontro nasce una più ardente vita».
Nella liturgia orientale la terra è spesso il simbolo della Madre di Dio.
Maria, come la terra, è degna di generare la vita per il dono totale di se
stessa alla Parola-germe. L’azione generatrice della terra, la maternità
che permette l’ininterrotta catena delle nascite nel mondo vivente, in
Maria diviene maternità divina.
In questo senso Maria è al vertice del mondo creato, il compimento di tutto il suo destino, la realizzazione di tutta la sua speranza. La terra non è soltanto chiamata a generare le creature, è chiamata a generare Dio portando
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GIOVANNI M. VANNUCCI
in se stessa la possibilità dell’incarnazione divina. Così può venir compresa
la santità della terra e per questo può essere un oggetto d’amore e si può
commettere peccato contro di essa e si può domandarle perdono. (L.A.
Zander, Dostoevskij, Paris 1946, 69-70).
Magnificat
Accostandoci alla meditazione delle “cose supreme” ci è necessaria una
coraggiosa purificazione mentale, il far passare il fuoco dello spirito su
tutte le costruzioni mentali innalzate per definire, descrivere, delineare
le “cose supreme”.
Meister Eckhart descrive questa necessaria operazione con un termine intraducibile nella nostra lingua, ma che cercheremo di capire.
Egli dice che la mente, passando il limite che separa il mondo profano
dal mondo sacro, deve ent-werden: werden è il divenire e, con il prefisso ent, può tradursi “contro-divenire”, “dis-divenire”. Un’immagine ci
può aiutare a comprendere. Il tessitore porta avanti la sua tela: questa
azione espressa in tedesco è werden, la tela sta divenendo; ad un certo
punto del lavoro, l’artigiano si accorge di un errore commesso nel disegno della trama: ferma il telaio e comincia a disfare il lavoro fino a riportarlo al punto iniziale. Questa operazione a rovescio è detta in tedesco entwerden, dis-fare il già fatto.
I grandi geni religiosi, che hanno vissuto, non soltanto pensato, il
mistero divino, pongono come primo passo del cammino religioso questo “tornare indietro”, questo ripercorrere il cammino compiuto per ritrovare la purezza delle origini.
Questo è il compito che si trova davanti chi cerca di comprendere,
al di là di tutte le razionalizzazioni, le retoriche e le emotive interpretazioni della prima parola del Magnificat: «Magnifica l’anima mia il Signore, ed il mio spirito tripudia nell’Iddio mio salvatore». È un grido di stu-
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GIOVANNI M. VANNUCCI
pore per la gratuita e grandiosa bontà divina, oppure è un canto di giubilo della natura, che in Maria è giunta al vertice del proprio divenire e
ammira il suo splendore?
La promessa della redenzione, contenuta nelle parole dette al serpente dopo la caduta dei progenitori: «La donna ti schiaccerà il capo»,
fu incorporata nella “donna celeste”, nella “vergine-sapienza divina”, in
colei che è l’“anima del mondo”, la “madre di tutta l’umanità”. In lei,
donna eterna, la parola della promessa fu custodita e, nel succedersi delle generazioni, perpetuata dall’attesa, dalla speranza che hanno sempre
illuminato il cuore degli uomini, fino alla maturazione dei tempi, quando il germe atteso rende fecondo il seno della Vergine terrena, Maria.
L’intonazione del Magnificat, «l’anima mia magnifica il Signore», è il
grido della rosa sbocciata che scopre e ammira la bellezza nella quale il
sole e la terra hanno unito il loro amore.
Non è un cantico di esultante ringraziamento, ma di gioia per il potente splendore di cui è stata rivestita, nel tempo e prima del tempo.
Ora rifacciamo il cammino a ritroso del divenire, dall’esultanza del
Magnificat al pensiero eterno di Dio che ne è la scaturigine. È necessario, in questo cammino a ritroso, lo smagliamento di tutte quelle concezioni e raffigurazioni della divinità che continuano nella nostra visione
teologica, delle figure legate a culture tramontate, altrimenti non potremo arrivare ad una intelligenza profonda del mistero della Vergine e
della sua fecondità nell’esperienza spirituale dell’uomo.
Il mistero divino è infinito, in sé esclude ogni limite e determinazione. L’infinito, libero da limiti e determinazioni, viene necessariamente a
identificarsi con la “possibilità universale”, vale a dire all’insieme di tutte le possibilità, tanto manifestate che non manifestate, concepite come
possibili nel principio originale. Se una possibilità particolare, un essere, non rientrasse nella possibilità universale, costituirebbe per l’essenza divina una specie di limite situato fuori di lei: e questo è impossibile.
Così la divinità viene ad avere un doppio aspetto d’infinito e di possibilità universale, aspetto che viene a riflettersi a tutti i livelli della creazione. Così le creature, l’uomo per esempio è la manifestazione esteriore
del suo archetipo eterno in Dio. La totalità degli archetipi costituisce la
possibilità universale, che, al livello del non-manifestato, del non-ancora-creato, è una concezione della mente divina, concezione puramente
MAGNIFICAT
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iniziale, non manifestata e indifferenziata che costituisce il mistero dell’immacolata concezione nel suo più elevato significato.
Nella nostra tradizione abbiamo altri termini per designare questo
mistero: la sapienza divina, l’“anima del mondo” che segnano il luminoso punto di passaggio tra l’invisibile e il visibile, l’immanifestato e la
manifestazione.
È questa intuizione profonda e intensa che presiede alle numerose e
svariate invocazioni con le quali esprimiamo la nostra devozione alla Vergine madre, alla manifestazione visibile nelle creature che corporificano
il loro luminoso archetipo eterno. Invocazioni che troviamo in tutte le religioni che venerano il mistero della femminilità eterna, della “vergine celeste”. Così noi chiamiamo Maria: regina delle entità spirituali, delle stelle, dell’oro, delle acque, delle piante, dei fiori, degli animali, degli uomini, per indicare che lei è il punto sorgivo che media il passaggio dell’Assoluto unico nella molteplicità svariata delle creature, nelle quali è presente come centro verginale e fecondo.
La Sapienza divina nella sua ideazione dell’universo era consapevole del
rischio di un’antinomia insita nel fatto creativo: la creazione, dotata di libertà fin dagli inizi, avrebbe potuto esprimersi come polarità separata e opposta. Stabilendo una discordia tra la mente creatrice e l’essere creato, l’idea stessa della creazione sarebbe stata contaminata all’origine e quindi irrimediabilmente perduta. Occorreva perciò che l’ideazione di tutto il creato fosse fuori dell’eternità e prima di ogni tempo, ed esprimesse il primo
moto di amore della Trinità fuori di sé medesima. Fu il Verbo, la Parola
eterna, ad esprimerla da se stesso, materiandola della stessa sua sostanza,
chiamandola “luce increata”, “immacolata concezione”, “anima” e “sapienza” che sorreggono il mondo delle cose create. Prima di ogni creatura,
avanti le stesse leggi della creazione, fu costituita l’incontaminata visione
dell’universo creato: in essa si riversò ogni grazia, per essa lo Spirito di Dio
ebbe espressione di sé.
Immacolata ed immacolabile fu, tra l’eternità e il tempo, come la massima misura, l’essere perfetto e imperfezionabile, subito dopo Dio; lo
specchio in cui Dio poteva contemplare se stesso, essa, vero asse del carro, fu immota nella motilità, perno di ogni legge, avulsa da ogni altra legge che non fosse quella dell’amore perfetto. Regina degli angeli, nati dopo di lei, Madre degli uomini ancora nella mente di Dio ma già pensati e
amati, fonte d’amore nella sua essenza, prima che Eva fosse, era, prima
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GIOVANNI M. VANNUCCI
che Adamo fosse, come Cristo era. Candida figlia della mente di Dio, è la
purissima madre della mente dell’uomo.
Essa è la Sapienza, la celeste Sophía, che nutre di sé le anime create,
la madre dei tempi fuori del tempo, la medicina preparata prima che la
malattia fosse:
Eva ne sarà l’immagine di creta,
essa ne è il prototipo di luce.
Eva sarà la madre mortale di figli mortali,
lei genitrice dei figli di Dio;
Eva l’impaziente, lei pazientissima;
Eva la curiosa, lei l’eterna conoscitrice;
Eva cercherà la conoscenza senza sforzo,
lei misurerà in continuo travaglio di amore;
Eva vorrà il piacere senza peso,
lei assumerà il peso di tutti i dolori;
Eva si lusingherà di divenire uguale a Dio,
lei si sprofonderà in Dio come un pezzo d’oro;
Eva chiacchererà, lei sarà la silenziosa;
Eva partorirà la morte,
lei genererà la vita che distrugge la morte.
Mentre Eva esiste, lei è, ed è causa di tutte le cose;
principiata non finita, rifinisce le cose create
portandole ad ogni possibile perfezione;
generata dalla Trinità è triplice nella sua manifestazione:
come immacolata è vergine,
come provvidenza è madre,
come conoscenza è misericordia.
Nell’incontro con Elisabetta, la madre anziana, l’umanità anteriore a
Cristo, che aveva portato nel suo seno l’insonne speranza del redentore, Maria vede e rivela tutta la magnificienza che Dio ha depositato in
lei. La rosa è fiorita, la sua bellezza, i suoi colori, il suo profumo gridano la grandezza divina che in lei si è espressa. Nessun essere creato potrebbe sostenerne lo splendore, se non velato da mille veli; nessun angelo, nessun uomo, solo la Trinità può mirarla ed essere mirata, per il
mutuo amore fra l’unico creatore e la prima creatura.
Come Cristo, Verbo eterno, è il primogenito dei nati, il primogenito
dei morti, così l’Immacolata è la prima madre di ogni creata cosa; è l’i-
MAGNIFICAT
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dea incontaminata che spinge la materia verso l’incandescente fuoco
delle origini; è colei che, non solo è senza peccato, ma addirittura impossibilitata a comprenderlo, se non come ferita o come dolore.
Misericordia e non giustizia sarà perennemente suo gemito, la sua
invocazione, l’invocazione di lei che è costituita al di sopra della giustizia.
Arthur Koestler, in un suo libro, Janus, in cui esamina i due volti
contrastanti dell’uomo, quello distruttivo e quello costruttivo, quello
razionale e quello poetico, scrive:
L’uomo sapiens è praticamente il solo animale privo di controlli inibitori
contro l’uccisione dei suoi simili. L’uomo è il solo animale a praticare l’uccisione entro l’ambito della sua specie, su scala individuale e collettiva, in
maniera spontanea od organizzata, per dei motivi che vanno dalla gelosia
sessuale alle querelles su dei punti di dottrina metafisica. La guerra entro i
confini della propria specie è una caratteristica permanente e cruciale della condizione umana. Essa è abbellita con la somministrazione della tortura, sotto le sue molteplici forme, dalla crocifissione alla sedia elettrica.
Questi fatti rivelano
un sintomo patologico di rottura cronica, quasi schizofrenica tra la
ragione e l’affettività, tra le facoltà razionali dell’uomo e le sue credenze
emotive irrazionali.
L’uomo è scisso tra la ragione e l’affettività, tra l’intelletto e l’amore,
tra la giustizia e la misericordia; e ha proiettato questa sua angosciosa
scissione esistenziale nelle immagini con le quali ha espresso il mistero
divino, nella ricerca di una sintesi che riunisse ciò che in lui è dolorosamente separato. Così, in tutte le religioni storiche, accanto all’immagine virile, paterna della divinità è sempre collocata quella femminile, materna.
Anche nella tradizione rigidamente virile dell’ebraismo, l’immagine
maschile del Padre è completata, nella religiosità qabbalista, mistica, da
quella della sekinah, la madre, la regina, la sposa, la matrona. Nell’albero delle sefirot ogni attributo maschile di Dio padre è accompagnato da
un attributo femminile: all’intelletto corrisponde la sapienza, al rigore la
misericordia, alla maestà la potenza generatrice; al centro degli attributi,
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GIOVANNI M. VANNUCCI
come loro perfetta sintesi, c’è la bellezza. Quindi l’espressione del Magnificat che stiamo meditando: «La sua misericordia passa attraverso le
generazioni umane» non allude a un sentimento, ma alla figura della
“femminilità eterna”, della maternità divina, che ha sempre completato
l’immagine divina del “padre” nell’esperienza profonda della coscienza
umana.
L’esperienza religiosa vissuta non esclude mai l’affettività, la misericordia, come elementi costitutivi del mistero divino.
La logica della profonda coscienza religiosa dell’uomo affiora continuamente nella pietas vissuta; alle definizioni razionali di Dio, colorate
di maschilità, di rigore, di maestosità tremenda e insindacabile, contrappone la misericordia, la maternità protettrice e accorata, l’amore e
la bontà che abbraccia e protegge tutto il cosmo, che va alla ricerca dei
suoi figli deturpati dall’esistenza e rivolge loro le bellissime parole che
Isis ripete su Osiris assassinato:
Torna nella tua dimora,
torna da colei che ti ama,
io sono la tua sorella e la tua madre,
tu non devi esser lontano da me!
L’eterna misericordia
Per raggiungere il significato della misericordia, vocabolo astratto
designante una qualità ugualmente astratta, dovremmo usare un termine più concreto, quello della “madre misericordiosa”. Allora reintrodurremo la cosa nella parola e parleremo di un “padre eterno” e di una
“madre eterna”. Se Dio nella nostra concezione è l’eterno Padre, l’esplicazione della sua mente non potrà che essere la madre eterna, la madre di cui nessuno potrà fare a meno, neppure il guerriero che nel nome di Maria finisce (D. Alighieri, La divina commedia, «Purgatorio» V);
la madre che è come acqua perennemente zampillante dal profondo di
se stessa. La religione è scaturita dal cuore degli uomini come l’acqua
sorgiva sgorga dalla roccia; l’uomo più che abile, sapiente, è religioso.
Religioso per natura, vocazione, istinto e azione. L’istinto che fa risalire i salmoni dal mare ai monti, attraverso vie perigliose, per ritrovare la sorgente della loro origine, è lo stesso istinto che opera nell’uomo,
MAGNIFICAT
103
proiettandolo verso Dio, sua ultima origine. Prima del rifugio nasce l’altare; prima della capanna, il cerchio delle pietre magiche; prima delle
armi, gli umili ornamenti rituali. Il fuoco è un dio, arde per onorare Dio
prima di venir usato per la cottura dei cibi, anzi il cibo cotto diventa
materia sacrificale e sacramentale. L’uomo guarda il cielo dal quale,
oscuramente, sa di essere venuto, come oscuramente sa di essere stato
generato dal grande patriarca della tribù; ma il cielo è lontano, chiuso,
muto; le stelle stanno impassibili a guardare la dolorosa vita dell’uomo.
Cosa può aspettarsi l’uomo? Se il cielo, il padre assoluto, è lontano,
la terra, la madre provvida, è vicina. Ed ecco nascere i culti paralleli del
grande Dio e della grande madre. La terra, come madre degli uomini, è
considerata “sposa” del cielo che ne è la madre. Verso la madre invitta e
invincibile si levarono le voci degli uomini. La misericordiosa fu sentita
vicino al rigoroso Padre, la compassionevole vicino alla durezza del sommo legislatore. La pietosa accanto al tremendo giudice. L’uomo può
smarrirsi, scendere negli abissi dell’inferno, ma il suo precipitare in basso è vigilato con amore e dolore dalla misericordiosa, il cui amore è più
forte della morte e dell’inferno, e, nella sua estrinsecazione materna,
avrebbe preparato la redenzione dell’uomo attraverso il latte divenuto
sangue per divenire vino di salvezza per tutti.
Nel divenire della coscienza religiosa, nello sforzo dell’uomo per
identificare il suo principio divino fuori dalle ferree leggi dell’evoluzione materiale, la religione dei deserti scopre un Dio patriarca, sovrano
legislatore, vindice, geloso, un Dio molto simile all’uomo sbocciato dalla belva, legato alla crudeltà dell’esistere. Col tempo la stessa coscienza
religiosa cercherà un più vero concetto del divino, e Dio diverrà padre,
centro di una famiglia umana di figli; padre che accoglie attorno a sé i
suoi nati, come la chioccia i suoi pulcini; padre che istruisce i suoi nati,
li educa, facendo vedere il loro destino di figli e a questo destino forgia
le menti e piega i costumi. In questa conversione della figura dell’assoluto sovrano patriarca, è evidente l’unione, la partecipazione attiva della madre misericordiosa. La paternità divina si piega con tenerezza sulle anime e sui corpi e vuole che il figlio somigli al padre nelle sue qualità materne: «Siate comprensivi verso la vita come il Padre vostro che è
nei cieli. Egli misericordiosamente fa cadere la sua pioggia e splendere
il suo sole sui campi lavorati dall’uomo, indipendentemente dalla giustizia o dalla ingiustizia dei lavoratori. Eravate servi, vi ho chiamato ad
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GIOVANNI M. VANNUCCI
essere figli, a dividere la mia eredità; eravate miserabili, vi ho fatti figli
del re».
L’uomo, nella sua ascesa spirituale, sempre più si riveste di misericordia, di dolcezza, di pietà comprensiva; non può più concepire un Dio
crudele, un padre vendicativo. L’uomo cerca la sua pienezza nel divino e
lo sente scaturire dal suo interiore come onda di sorgente eterna. Quando scopre la giustizia al posto della vendetta, il perdono al posto della
legge del taglione, viene animato da un soffio nuovo dello Spirito; dal
profondo del suo interiore sente il mistero divino come amore, misericordia, provvidenza. Il “padre divino” diventa la “madre divina”, l’aspetto femminile di Dio gli viene rivelato in un bagliore di fiamma spirituale; la misericordiosa sorride e dice alle torme di figli erranti: «Dio in
me vi ha concepiti, per mezzo mio vi ha creati; io vi ho fatti della mia
stessa sostanza e perennemente vi partorisco alla vita eterna».
L’apparizione della misericordiosa separa decisamente la religione
del figlio da quella del padre; libera l’uomo dall’ossessione del “re di
tremenda maestà”, del giudice insindacabile, del padre-padrone della
vita e della morte dei suoi figli. Lento è il cammino dell’uomo dal peso
di sentirsi e reputarsi peccatore, polvere e cenere davanti all’Eterno, al
libero respiro di scoprirsi figlio e non schiavo, libero non servo. Purtroppo l’uomo, anche l’uomo cristiano, si ricorda più di Eva, la portatrice del peccato e della morte, che della “donna vestita di sole, coronata di stelle, che schiaccia il capo all’antico serpente”.
Giovanni, nell’Apocalisse, rivela visioni di vita, indicando il mistero
di grazia apparso con la misericordiosa, in opposizione ad un mistero di
colpa. La misericordiosa è la regina dei tempi nuovi: è lei che è rivestita della luce del sole, perché è l’origine della luce; lei che è coronata di
stelle sbocciate dal suo amore creante; lei che calpesta il dragone e domina la luna, simboli del tempo e dello spazio, perché solo da lei hanno
origine.
L’ansiosa ricerca umana della misericordiosa, per averne comprensione, difesa, educazione, in lei si origina e in lei si placa. In Maria, la misericordiosa ha un volto, un nome, una forma e passa di generazione in
generazione diffondendo amore, tolleranza, fiducia. Dio si rivela attraverso la misericordiosa come amore dolce e provvidente, come bontà
inesauribile, misericordia infinita.
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La misericordiosa, l’eterno femminile, inizia nel mondo il suo dominio di grazia; nel soffio potente di una profonda trasformazione del
creato, la misericordiosa esige il suo diritto di cittadinanza negli ambiti della civiltà umana.
Al di là delle immagini e delle forme, oltre le teorie e le idee, la tenerezza di Dio invade il mondo; Dio padre e madre, sposo e sposa,
Dio, l’amore che non è amato, amando il quale ogni essere vivente
realizza se stesso. Verso questo amore, che è l’unica ragione di essere,
che è l’essere, verso questa verità, l’unica che l’uomo possa accogliere, la misericordiosa ci conduce di generazione in generazione. Di generazione in generazione la misericordiosa passa, passa su tutto lo
sterminato numero di uomini fatti di carne e di sangue, di anima dolorante, come sorella del nostro dolore, madre della nostra speranza.
Il soffio della pentecoste è sull’umanità: e ancora dalla misericordiosa si irradia e si rivela, ancora lei lo porge agli umani col gesto immortale della nutrice che offre il seno all’affamato!
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia: la misericordiosa li
sazierà!
E ritorniamo a vivere il dolcissimo e creativo mistero della misericordiosa, a viverlo, perché innestato come ramo sano nell’albero della coscienza umana, non a parlarne.
La misericordiosa è la vela e il vaglio di ogni nobile anelito, di ogni
alta ispirazione, di ogni ideale purissimo, di ogni dolore profondo, di
ogni volontà di pace, di ogni volontà d’azione.
Essa è ovunque l’uomo sia: nelle case dei ricchi, in quelle dei poveri, nei templi e nelle spelonche, nelle carceri e negli ospedali, nei
conventi e nei lupanari; e ovunque accoglie lacrime e ovunque suscita
sorrisi luminosi di speranza.
La Madre di Dio, la madre di ogni aspetto materno della vita, la
Sapienza che la mente divina ha originato da sé come prima manifestazione immacolata ed essenziale, ci nutra della sua misericordia, ci
dia la conoscenza di noi stessi, la forza dell’armonia intelligente, ci
conduca all’amore che è vita, all’amore che è fine e meta di ogni strada terrena!
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GIOVANNI M. VANNUCCI
Ha deposto i potenti
Gli umili, i poveri, gli emarginati, eccetera, sono voci entrate nei
tempi recenti ad arricchire il nostro esausto vocabolario religioso, dando origine a delle appassionate crociate.
Tenterò, in particolare, di dire due cose: chi è l’umile, il povero, l’emarginato; quindi, se ci sia una strada che porti all’umiltà, alla povertà,
all’emarginazione.
Nel linguaggio religioso non esiste separazione tra il vocabolo e la
cosa; la cosa precede, informa, fa lievitare la parola: se questo non avviene, si cade in una logorrea senza fine. Solo chi è umile può dirci cosa sia l’umiltà, come il povero e l’emarginato possono parlare della povertà e dell’emarginazione.
Umile e umiltà vengono dalla parola latina humus, terra fertile. L’umiltà è la qualità nobile di chi accetta di essere figlio della terra fertile,
terra che fa crescere la vita, e di null’altro si preoccupa che di rivestirsi di vita. L’umile è colui che adempie il mandato che ogni figlio della
terra ha ricevuto: essere il germe che, attraverso la frantumazione di
tutti i gusci, fa crescere la vita. La vita semplice: quella del chicco di
grano che matura nella spiga; quella del chicco d’uva che in autunno
bolle di ebbrezza gioiosa nei tini. Il chicco di grano, come quello dell’uva, hanno una sola ambizione: adempiere il loro compito vitale. Un
giorno una parola scenderà su di loro e saranno la carne e il sangue del
Signore: questo avverrà naturalmente come profondo processo di vita,
ma essi non si propongono questa finalità trasfiguratrice.
L’umile ignora la terra dei “potenti”, di coloro che hanno dei ben
definiti programmi di dominio, di riforme, di liberazione per gli altri.
L’umile vive intento a salvare l’essenziale della verità umana, conoscendo quanta esasperazione passionale viene promossa dai potenti,
siano essi progressisti o conservatori; va avanti attento a mantener viva
la sua fiammella in mezzo alle tempeste.
L’umile cerca il potere giusto dei figli di Dio, che, sorpassando le
polarità ideologiche, cercano di creare, attraverso un cambiamento di
coscienza, dei legami tra i loro interessi personali e quelli della comunità.
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L’umile procede di sconfitta in sconfitta alla vittoria finale. Non va
dietro ai potenti del mondo, sapendo che, quando l’Eterno ha stabilito
di abbattere un trono, vi pone i più capaci a distruggerlo. Avanza sereno con le parole della Vergine nel cuore. E ride degli inutili affanni dei
potenti per mantenere in piedi i loro seggi. Cerca di imparare dai veri
“potenti” della terra: i gigli dei campi, gli uccelli che volano, il seme che
muore nella vita, il grappolo che matura per donare ebbrezza.
La parola sui gigli del campo mi fa ricordare un episodio della vita
del Buddha, del quale mi servirò per definire meglio la figura dell’umile.
Un giorno i monaci chiesero al maestro di riassumere l’essenza del
suo insegnamento. Per tutta risposta, il Buddha colse un fiore e lo contemplò silenziosamente: il fiore aveva in sé il significato dell’essenziale.
La pianta esiste per la generazione del seme che serve alla sua riproduzione. Il seme viene generato dentro il fiore. Il fiore precede il seme e ne
rivela la qualità avanti la formazione del germe e del frutto: è la corolla
che sceglie la luce e l’irradiazione convenienti alla germinazione del seme, prepara la quintessenza che alimenterà il seme. Quando questo è
formato, il fiore scompare; il suo compito non è terrestre, non si preoccupa della continuazione fisica. Così è l’umile: dona il suo canto alle
creature e va oltre, ma l’opera che compie è in perfetta armonia con l’azione divina che anima la vita.
In questo suo lavoro essenziale, l’umile non può che essere povero;
il termine del suo cammino è la potenza di Dio, non quella degli uomini, legati al successo, al possesso, alle cose.
L’umile vive quella povertà che avranno i corpi quando verranno riposti nel grembo della madre terra. Per questa sua essenzialità di vita,
non può che essere un emarginato.
Le “beatitudini” evangeliche, leggendole, come penso si debba, a scala ascendente – mettendo l’ultima come primo gradino per terminare
con la prima, che è il punto di arrivo del cammino terreno, prima del balzo nell’infinito mare della divinità – iniziano con l’annuncio: «Beati voi,
quando sarete perseguitati, calunniati, coperti di disprezzo», in una parola, quando sarete emarginati. L’emarginazione è il primo passo; la povertà nello spirito, o la raggiunta nudità dello spirito, è l’ultimo e definiti-
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vo. Allora, emarginati, saremo vicini agli emarginati; poveri, cammineremo insieme ai poveri; umili, riposeremo nell’infinita potenza di Dio.
La povertà nello spirito è raggiunta quando la coscienza diventa libera, attraverso un ininterrotto superamento di tutto ciò che nasce dalla carne e dal sangue, di quanto in essi è opaco schermo alla luce pura
della divinità. Allora, luminosa scintilla, s’immergerà nell’incandescente braciere del fuoco divino da cui proviene. Rivestiti di vesti di materia, siamo in cammino per indossare di nuovo la veste di luce che avevamo prima del peccato antico. Spero di riuscire ad indicare qualcuna
delle vesti che dobbiamo deporre, se vogliamo rivestirci delle vesti di
luce che costituiscono il fascinoso destino di chi vuol vivere l’innalzamento degli umili.
Cerchiamo di capire: l’uomo è stato creato ad immagine di Dio; immagine che non riguarda la sua forma fisica, determinata e limitata dall’ambiente terreno, sottoposta ad una lenta e ineluttabile mutazione, e
quindi non riferibile all’esemplare divino. L’immagine riguarda, perciò,
l’essenza spirituale, morale della mente umana, riflesso di quella divina.
Infatti l’uomo ha il potere di creare delle idee, delle idee-forma che assumono una realtà nella sua mente. Esse vanno dall’amore adorante del figlio verso il Padre, alle più basse vibrazioni della cupidigia. Attorno al luminoso centro divino di ogni essere umano si formano queste idee-forma,
che ne costituiscono una specie di ispessimento, di densificazione.
L’essenza divina è irripetibile in ogni creatura umana: scendendo in
un particolare punto dello spazio, si riveste di quelle forme che lo caratterizzano. Se il centro della manifestazione di una di queste scintille
divine è l’India, assume le forme che sono proprie dell’umanità di quella terra; se invece discende in una terra diversa, le vesti che indosserà saranno differenti. Oltre alle forme proprie di una razza, prenderà quelle
della famiglia a cui appartiene, della cultura, religione, ideazioni che sono le forme che animano un preciso tessuto culturale. Inoltre, venendosi a trovare immersa in particolari correnti umane, reagirà ad esse o
assimilandole o respingendole.
Nel Vangelo di Giovanni, nel primo capitolo dove si parla della generazione dei figli di Dio, vien fatta una chiara distinzione tra ciò che è
effimero e ciò che è eterno nell’uomo: l’effimero, il transitorio, le vesti
non essenziali vengono dal sangue, dalla carne, dalla volontà dell’uomo;
l’eterno, il permanente, il non alienabile vengono da Dio. Ciò che ho
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chiamato divina scintilla, nel testo di Giovanni è designato con l’espressione di figli di Dio, che nascono indipendentemente dalle vesti
che assumono nell’incarnazione provenendo direttamente da Dio.
In ogni uomo coesistono perciò due elementi: uno derivante dalle
creature e uno che scende dal pensiero, dall’amore, dalla volontà divina. L’essere umano è figlio della terra e del cielo stellato. Il pellegrinaggio terreno dell’uomo, lungo il migrare dei giorni, ha una sola meta: il
centro divino del suo essere, verso il quale deve convogliare le forme
della carne e del sangue, perché ritrovino la loro veste di luce. L’umiltà
è la prima accettazione di questa realtà umana; la povertà non consiste
nel rifiuto delle forme legate alla decadenza e alla transitorietà, ma nel
trasfigurarle nella luce del punto luminoso esistente in ognuno; l’emarginazione è la conseguenza inevitabile di chi sceglie lo Spirito per rendere la carne trasfigurata nello Spirito.
Il primo miracolo che si compie in ogni essere umano che viene all’esistenza è lo Spirito che diventa carne; il miracolo più grande si ha quando la carne umana ascende nello Spirito per illuminarsi di lui. Le consuete idee-forma che abbiamo, nella nostra tradizione ascetica sull’umiltà,
concepita come una continua abdicazione della volontà nelle mani dei
potenti; sulla povertà come distacco dai beni materiali; sull’emarginazione, sentita come incomprensione e violenza da parte dei potenti, vengono trasformate. L’umiltà diventa la piena accettazione della polarità carne-spirito che caratterizza la nostra natura umana e nel situarla in una
dialettica di trasfigurazione della carne nello spirito; la povertà, più che
nel rifiuto dei beni, diviene austero abbandono di quanto in noi è impermanente e nell’ardente ed esclusiva accettazione dell’eternità che è in noi
quale stimolo di trascendenza; l’emarginazione viene vissuta serenamente
come condizione inevitabile del pellegrino dello Spirito. Le idee-forma di
razza, famiglia, patria, religione, benessere cessano di avere un significato
per chi ascende nei gradi superiori della coscienza: per i rapiti nello Spirito esse non meritano alcuna considerazione.
L’umile, il povero, l’emarginato, vivendo nella concezione unitaria,
nella prima vibrazione che li guida verso l’adorazione di Dio “in Spirito e verità”, sono oltre le idee di razza, di patria, di religione, di partito:
queste appartengono a inferiori stadi della coscienza, transitori e perciò
sorpassabili. Queste idee-forma furono create da uomini potenti, da
dittatori, da riformatori che ne furono le prime vittime, e che hanno
continuato ad esistere per quella forza d’inerzia che caratterizza l’uomo
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GIOVANNI M. VANNUCCI
che non ama pensare responsabilmente e con le proprie forze di pensiero e si adagia quietamente sulle abitudini razziali, nazionali, tribali,
ideologiche. Si nasce carnivori, vegetariani, fumatori, consumatori di
droga, a seconda dei paesi in cui nasciamo. Così i latini sono caratterizzati da tendenze giuridiche: i codici di leggi, la visione religiosa che termina in un giudizio universale sono le idee-forma che nascono nelle terre latine; mentre i nordici sono caratterizzati dall’introspezione, dalla
ricerca del significato metafisico del mistero dell’esistenza.
Le abitudini e le idee-forma razziali, nazionali, sociali, i princìpi e i rigidi dogmatismi sono le uniformi che rivestono l’essenza di ognuno. Tendendo verso la nudità dello Spirito, l’anima depone le uniformi, finché,
nuda e pura, incontrerà se stessa nella sua luce divina, nella sua perla preziosa, nel suo punto esoterico di inversione. Punto, perla, verbo sono nomi differenti del tesoro divino affidato ad ogni uomo che viene all’esistenza, e che appare quando uno si libera dalle fantasmagorie delle ideeforma.
Compreso una volta il gioco mutevole delle idee-forma, più nulla potrà affliggere l’anima. Miseria o ricchezza, salute o malattia, salvazione o
dannazione non potranno più impressionare l’anima che, interamente
affinata nello Spirito, vedrà l’esistenza fisica e animica come un mutevole mare: tutto un gioco di luci e di ombre, ma tutto irreale; un attimo o
mille anni avranno lo stesso valore. Tempo, spazio, vuoto, nulla!; irrealtà
spirituale della realtà formale, il relativo innanzi l’assoluto, l’autentico
crepuscolo degli dei!
Allora la fatica dell’umile, del povero, dell’emarginato troverà i suoi
frutti; e la fatica dei potenti, che cavalcano i destrieri dell’illusione, troverà solo delle rovine e non troni.
L’umile, il povero, l’emarginato, spogli di tutte le illusioni, delle passioni, della personalità che sogna il permanente nell’impermanenza, incontreranno lo spirito laddove ogni ciclo svanisce e solo Iddio è. Riconoscendo il segno divino della vita sanno che essa ha una sola finalità: seguire la successione delle tappe che la liberano dal perituro. Le cose non
muoiono che per il corpo; ma l’anima, che è il Verbo divino, ritorna alla
sua sorgente, non muore.
Alcuni segni della Natività
Gli eventi commemorati nelle solennità dell’anno liturgico vanno meditati con una mente sorretta e dalla fede e dall’attenzione a quei significati che la chiesa orante vi ha scoperto o inserito, non per obbedire a
una curiosità fantastica, ma per fissare l’insieme di evocazioni che il fatto commemorato ha suscitato nell’anima dei fedeli. Gli eventi che costellano l’anno liturgico – natività, epifania, risurrezione – sono dei fatti che si sono compiuti in un determinato luogo e in un particolare tempo, come momenti salienti della rivelazione, che stabiliscono un legame
tra l’umano e il divino, tra il mondo della storia e quello del mistero, e
non possono essere avvicinati se non da una mente contemplativa che
tenga conto della loro realtà storica e sopra-storica, terrena e celeste, legata al tempo e allo spazio e insieme trascendente queste due dimensioni.
La narrazione della natività, che forma il canovaccio delle ulteriori
aggiunte, è quella dell’evangelista Luca, al capitolo se-condo del suo
Vangelo. Maria e Giuseppe furono convocati dall’amministrazione romana a Betlem, per il censimento. Maria, al termine della gestazione,
non avendo trovato posto nella locanda della cittadina, diede alla luce il
figlio e lo depose, avvolto nelle fasce, nella mangiatoia. Un angelo, attorniato da altri spiriti che cantano, annuncia la prodigiosa nascita a dei
pastori e li invita ad andare a venerare il nato Salvatore, adagiato in una
mangiatoia. I pastori si recarono solleciti sul posto e trovarono Maria,
Giuseppe e il neonato posto nella mangiatoia.
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GIOVANNI M. VANNUCCI
L’immagine consueta del presepio contiene dei particolari che in Luca
non sono menzionati: la grotta, il bue e l’asino. Essi sicuramente sono racchiusi nell’immagine evocata dal vocabolo “mangiatoia”, favtnh (phátne)
in greco: essa designa un bacino, una cavità ricavata dalla parete della
grotta, per deporvi non solo il mangime del bestiame, ma anche il cibo
degli operai e dei pastori che vi mettevano il loro pranzo da consumare
poi insieme.
In un testo della Misnah, che risolve alcuni problemi di casistica alimentare, si parla di un sito ove venivano appoggiate le cibarie degli operai e dei pastori: esso è chiamato ebus, mangiatoia, stalla, truogolo. In
questa prospettiva, le parole dell’angelo ai pastori: «Questo sarà il segno», il “segno” rivelatore del mistero del Fanciullo – un neonato è deposto nella mangiatoia, nell’incavo ove siete soliti appoggiare le vostre
vivande durante il lavoro –, acquistano un più pertinente significato: il
Fanciullo nella mangiatoia è «il pane disceso dal cielo. Chi mangia della
mia carne, avrà la vita» (Giovanni 6, 51.54).
La grotta è un simbolo universale, il cui significato fondamentale è
quello di costituire il punto di passaggio delle forze che dal cielo scendono sulla terra e dalla terra ascendono, rinnovate e redente, verso il
cielo. È il simbolo delle origini e della rinascita; della nascita e dell’iniziazione; del centro ove le forze discese dal cielo invertono la rotta per
ritornare alle origini. Gesù è nato in una grotta, e in una grotta fu sepolto, da dove è risorto nella pienezza della vita.
Il simbolo precede e segue il rivelatore. Come se esso ne fosse parte
integrante e come se, senza di esso, l’azione del rivelatore rimanesse incompleta, senza dare la pienezza della sua ragione alle coscienze in attesa. Il simbolo forma nel pensiero un aspetto della rivelazione, altrimenti incomprensibile e inesprimibile.
Da millenni l’uomo, abituato a pensare per immagini, porta con sé
l’immagine della grotta, del rifugio scavato nella roccia, del tepore della tana nascosta, donde emerse lo splendore della sua mente spirituale.
La grotta, nella lingua franca della simbologia, segna l’aprirsi di nuovi
cicli di umanità.
Così Gesù Cristo nasce durante il solstizio invernale, in cui veniva
celebrata la nascita del Sole invitto, e nasce in una grotta che è sentita
dall’uomo come il centro della rivelazione della luce spirituale, della nascita della coscienza responsabile.
ALCUNI SEGNI DELLA NATIVITÀ
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In ogni uomo è la caverna oscura dell’inconscio, la spelonca ove tutti gli atavismi, gli istinti, le forze oscure si danno convegno nella tenebra
propizia della volontaria ignoranza dell’io cosciente e responsabile. In
questa caverna nasce il Redentore, Gesù Cristo, la luce e la vera coscienza dell’umanità.
Il mistero della notte santa si ripete continuamente per ogni uomo;
ogni grotta ha il suo fanciullo che vi nasce e la vergine che lo depone,
come cibo di vita vera, sulla mensa riservata al pane. Nella grotta umana non esistono solo pulsioni di morte e di distruzione, ma anche l’attesa che qualcuno la scelga a rifugio per una nascita. L’istinto di Dio, più
forte dello stesso istinto di conservazione, superiore alla stessa sessualità, spinge l’uomo a rinnegare se stesso, a rinunciare alla carne, affinché
in lui Cristo nasca e si faccia carne, e nella caverna umana nasca l’uomo
che sente in Cristo il suo stesso principio e il suo più alto fine.
In questa visuale acquistano il loro pieno significato le parole di Angelo Silesio: «Seppure Cristo nasca mille volte a Betlem, ma non in te,
tu resti perduto per l’eternità».
Il nuovo volto di Dio
Le parole contenute nel testo del libro dei Numeri (6, 22-27) adombrano il volto che l’Eterno manifesta nella pienezza del tempo della rivelazione, quando appariranno, in tutto lo splendore, la benignità e l’amore di Dio. Il volto dell’Eterno è un volto luminoso che benedice, protegge e ricolma di pace.
L’aspetto del rex tremendae maiestatis è abolito nella coincidentia oppositorum che si è attuata nel Fanciullo di Betlem: l’ombra e la luce, il
peccato e la grazia, la giustizia e la misericordia, la materia e la parola eterna, la carne e lo spirito si sono incontrati nel cuore dell’uomo, permettendogli la reintegrazione del suo essere. L’esperienza della riconciliazione degli opposti, della misericordia con il rigore della giustizia, della compassione con l’intransigenza della condanna, cambia in profondità la psicologia umana. La coscienza umana non si rivolge più al mistero divino
con timore e tremore, ma nella piena e amorosa fiducia del figlio verso il
padre. Una nuova e calda corrente di vita la pervade: lo Spirito santo, che
la fa sentire figlia, erede dei beni divini e la rende ardita sì da gridare al
mistero infinito: Padre! La legge viene fecondata dalla grazia, il timore
abolito dall’amore, la percezione angosciante dell’assolutamente altro
dalla certezza della vicinanza amorosa del Padre.
Dire queste cose è poco e forse inutile, se non assecondiamo lo Spirito di Dio che ci sprona a vivere la nuova rivelazione di Dio e a superare i dolorosi dualismi che accompagnano, dilacerandoci, il nostro
cammino religioso.
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Con l’incontro dell’infinito e del finito nel Fanciullo di Betlem è avvenuto un capovolgimento di alcune immagini religiose anteriori. L’immagine della natività è centrata nella figura del Fanciullo, oggetto di venerazione e di gioia, e in quella della Vergine-madre che accoglie e custodisce le parole e i fatti del memorabile evento.
L’Antico Testamento si apre con un’altra immagine: la carne dell’uomo, Adamo, genera una donna, Eva. Il Nuovo Testamento invece comincia con un’opposta immagine: Maria è la madre dell’uomo nuovo,
Gesù Cristo. Nell’Antico Testamento la donna nasce dall’uomo senza la
mediazione di una madre, nel nuovo testamento l’uomo nasce dalla
donna senza la mediazione di un padre. Eva è in condizione di passività
nei confronti di Adamo; in Maria la femminilità si riveste di una funzione attiva, creatrice, a immagine della sapienza divina.
Il rapporto tra Maria e Gesù è l’antitipo di quello tra Adamo ed Eva.
Maria e Adamo sono i genitori, Eva e Gesù sono i figli. Maria è colei che
accoglie la Parola eterna e la custodisce in sé, proteggendola e facendola
fiorire. Nella sua missione Maria, e con lei la femminilità della nuova era
che si apre all’incarnazione, ha il compito di accogliere, custodire, incarnare i pensieri divini e dar loro una figura vivente: missione che, considerata dal punto di vista dei mutamenti psicologici e mentali indotti nell’umana coscienza, cancella l’immagine severa del Dio giudice sostituendola con quella del volto compassionevole e misericordioso del Padre.
L’immagine Maria-Figlio segna la fine del monoteismo virile del vecchio testamento, e di conseguenza del dispotismo del patriarcato. L’Unico in lei si è rivelato come figlio, amore, come Spirito santo che rende
feconde le matrici interne, perché generino i figli di Dio nel pieno diritto di gridare: Padre!
Maria, e con lei la femminilità redenta, conserva e custodisce le parole e gli eventi dell’incarnazione eterna per consegnarli ai cuori semplici,
che si accostano con gioia, come i pastori, al suo mistero.
Una nuova nascita
Maria e Giuseppe apparivano come una normale coppia di giovani sposi; in realtà costituivano un unico essere completo, perfetto, che aveva
in due corpi le necessarie complementarità, così che Maria compiva
Giuseppe e Giuseppe Maria. Non erano il maschio e la femmina, l’uomo e la donna: erano la coppia, il nuovo Adamo e la nuova Eva che non
avevano disobbedito.
Giuseppe e Maria costituiscono la coppia che contrassegna uno degli aspetti della novità cristiana: essa non appartiene più al clan patriarcale, ma è l’espressione umana e commovente dell’amore. Lo sposo non
è più il capo, il giudice, il patriarca, ma la metà di un frutto, per riprendere la metafora platonica, che la donna completa. Non si poteva parlare di sottomissione da parte di Maria a Giuseppe; per Maria Giuseppe era il sostegno, per Giuseppe Maria era il cuore. In mezzo a loro Gesù era semplicemente la vita, l’accordo perfetto risultato dalla loro armonia.
Il Figlio di questa singolare coppia ebbe la nostra stessa carne, la nostra capacità di soffrire, la nostra sensibilità. La sua nascita avvenne come la nascita di tutti, così la sua morte. Solo una cosa non volle avere in
comune con noi: l’ereditarietà all’errore. Per ottenere questo, spinse alla sublimazione spirituale i due esseri umani deputati a costruirgli la sua
forma terrena. Questi due esseri si sublimarono e santificarono nella
virtù per loro proprio merito, per loro personale sforzo.
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Come Maria, come Giuseppe, qualunque coppia di sposi terreni
può generare nello Spirito, anche unendosi nella carne; può evitare di
trasmettere il carico di tutta un’ereditarietà pesante al proprio discendente. Non è presunzione il credere che, unendosi in Dio, fuori dalla
bramosia della carne, due sposi possano oggi generare un essere più puro di loro, che abbia solo gli aspetti positivi di entrambi e rigetti il carico dell’eredità cromosomica degli antenati. Basta generare come uomini, non come bruti, mutando il talamo in altare, la casa in tempio.
Cristo per la sua natura umana, tranne che nell’ereditarietà dell’errore, è nostro fratello; se si è sottratto al peso dell’ereditarietà, non è stato per evitare qualche sofferenza, bensì per sviluppare al massimo le facoltà proprie dell’uomo, di dominare, soprattutto, la natura. Se la sua
carne non fosse stata pura, senza inclinazioni a tendenze ereditarie, egli
fatalmente sarebbe stato trascinato dal genio della specie e non avrebbe
potuto attuare il suo mandato universale.
La sua opera redentrice si attua non con la morte, ma con la nascita.
Egli insegna a nascere, dopo insegnerà a morire per risorgere; per nascere egli insegna, attraverso Maria e Giuseppe, una preparazione che i
genitori devono compiere per noi. Il matrimonio, pur essendo anche
unione carnale, è essenzialmente un atto di unione spirituale. La redenzione dalla carne e dal sangue prende le sue mosse proprio dal vero
amore dei futuri genitori.
Maria e Giuseppe
Penso che il testo di Matteo 1, 18-24 debba essere letto soltanto nell’ottica della fede concreta e vissuta dalla chiesa orante, altrimenti non si
spiegherebbe l’importanza che hanno tuttora Giuseppe e Maria nell’esperienza cristiana.
Un filone del pensiero moderno, che ancora si muove alla periferia
della cultura ufficiale, nutrito della storia delle religioni, del linguaggio
dei simboli, delle conoscenze della psicologia del profondo, ci fornisce
un’immagine che può aiutarci ad avvicinare meno irrispettosamente il
misterioso rapporto fra Maria e Giuseppe. L’immagine è quella della
complementarietà del femminile e del maschile fin dall’inizio, del principio mascolino che cerca il suo vero femminino e del principio femminino che cerca il suo vero mascolino. Gli eventi storici del Vangelo si
muovono nel tempo sottile della rivelazione; se li si riduce esclusivamente alla storicità, perdono la loro verità e diventano degli inspiegabili calembours!
Cerchiamo di avvicinarci al senso di questo episodio tenendo conto
dell’immagine archetipale della femminilità e della mascolinità quale
principio metafisico, ultrasensibile, che soggiace a tutta la manifestazione e a tutta la rivelazione. Negli uomini e nelle donne comuni non esiste, come ci mostra la scienza attuale, che una mescolanza di princìpi
maschili e femminili; ma, nella loro espressione superficiale, in un maschio vi sarà qualcosa di femminile, ma non la femminilità; in una donna vi sarà qualcosa di maschile, ma non la mascolinità. Questi due
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princìpi vengono espressi dagli esseri umani solo nella materialità concreta; nel piano più sottile dell’anima questi princìpi sono a sé stanti, e l’amore vero nasce solo quando ogni maschio trova la sua “donna eterna”,
la donna che fu tratta da lui, che partecipa di lui, che è una sola realtà con
lui. Maria era la “donna eterna” di Giuseppe; l’unione perfetta dei due
princìpi era quindi per avvenire e avvenne. La parte spirituale di Giuseppe si esteriorizzò, si materializzò presso Maria che, a sua volta, aveva esteriorizzato lo stesso principio.
Matteo, nella sua genealogia di Gesù, afferma che Gesù è figlio legittimo di Giuseppe: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria,
dalla quale è nato Gesù, detto Cristo» (Matteo 1, 16). Nessun figlio dell’uomo fu mai figlio di suo padre come Gesù lo fu di Giuseppe. Mentre
ogni nato di donna, più che figlio del padre, è figlio degli avi, che nel genitore vivono nella potenza cromosomica, Gesù è generato fuori di ogni
cromosomo, privo di ogni segno di ereditarietà, perché Maria e Giuseppe lo generarono fuori della forma, nell’energia primigenia che originò il creato. Ecco perché egli stesso, più tardi, si indicherà come “Figlio dell’uomo”! Il concepimento in Maria è immacolato; una nuova
terra e un nuovo cielo presiedono all’incarnazione del Verbo; la carne,
il corpo fisico di Maria e di Giuseppe, non sono che veri pretesti formali: la loro vera vita non è nella carne e nel sangue, ma nello Spirito divino che li anima e li aggemella.
La pronta obbedienza di Giuseppe alle parole dell’angelo testimonia del come abbia capito le cose e come si sia piegato al volere divino,
che li aveva scelti per venire in mezzo agli uomini per patire, morire, risorgere, per condurli a un nuovo stato di coscienza. Maria tace: accanto al suo silenzio vi è quello di Giuseppe, suo sposo, trepidi e verginali
custodi del nuovo ordine che doveva instaurarsi nel mondo. Essi si
amarono di un casto e illuminato amore: in nessun tempio Iddio fu adorato davvero in spirito e verità come nella casetta di Nazareth. Per nove mesi nel grembo verginale di Maria crebbe la forma purissima, alimentata dalla vocazione sacerdotale di Maria e di Giuseppe. Nel nascondimento di un lavoro artigianale, la nuova coppia umana custodiva
la luce che avrebbe illuminato gli uomini.
In questo stato di ascesa mistica è logico pensare che i rapporti sessuali siano stati del tutto trascesi. Gesù fu l’unigenito di Maria e di Giu-
MARIA E GIUSEPPE
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seppe; il miracolo di questa fusione di princìpi non si può ripetere nel
tempo: chi questa fusione una volta ha compiuto, ha con essa bruciato
ogni possibilità di operare nella carne e nel sangue. Strana è l’incomprensione di tanti del concepimento verginale di Maria; e strane sono le
spiegazioni assurde e fantastiche che ne sono state date. Come dalla
mente di Dio fu generato il primo Adamo, così fu generato il secondo
dopo millenni dalla caduta del primo. L’azione di Dio è semplice, perciò
è sublime. Cristo stesso ci dirà che l’opera generativa del Padre non si
compie nella carne e nel sangue, ma nello spirito e nella verità.
L’unione celeste di Maria e di Giuseppe, nel seno stesso dell’essenza
spirituale, è un atto che ne impedisce ogni altro: non vi è più causalità
per chi ha attuato la causa; non vi è più desiderio per chi ha consumato
la brama del possesso indicibile; non vi sono fuochi nel fuoco!
Così Gesù rimane l’unigenito di Maria e di Giuseppe e non avrà altri fratelli e altre sorelle che non siano gli uomini e le donne che ascolteranno la sua parola e la metteranno in pratica.
L’acqua e il vino
1
L’episodio delle nozze di Cana, narrato nel brano evangelico di Giovanni 2, 1-12, è scandito in una successione di figure e di gesti: la Madre e
Gesù invitati alle nozze nel terzo giorno; la mancanza del vino notata
dalla Madre e additata al Figlio perché vi ponga rimedio; la risposta del
Figlio: «Donna, compi quello che spetta a te, quindi io farò ciò che spetta a me» (cf. Giovanni 2, 4); le parole della Madre ai servitori: «Fate quello che egli vi dirà» (Giovanni 2, 5); l’ordine di riempire le sei giare di acqua; la trasformazione dell’acqua in vino; lo stupore del maggiordomo
per la bontà del vino; la conclusione dell’evangelista: «Questo fu il primo segno della manifestazione di Gesù» (Giovanni 2, 11).
Le figure di questo episodio, prese in se stesse, non ci dicono molto,
ma risvegliano la nostra attenzione per spingerci a scoprirne il significato che, in tal maniera, appartiene a un livello differente da quello letterale. Cercheremo pazientemente di lasciare la lettera per arrivare allo
spirito.
L’episodio è introdotto con l’indicazione della data: «Nel terzo giorno». Nel linguaggio biblico, questa espressione implica il compimento
di qualcosa in via di sviluppo e l’inizio di un nuovo stato o una nuova
condizione dell’essere. Giona dimorò tre giorni nel ventre del pesce; le
porte della città santa ricostruita saranno tre per ogni punto cardinale,
124
GIOVANNI M. VANNUCCI
altrettante saranno le porte della Gerusalemme celeste descritta dall’Apocalisse; Cristo risorge dagli inferi dopo tre giorni; Pietro rinnega Cristo tre volte e Cristo gli domanda tre volte se lo ama; l’albero del fico
che per tre anni non darà frutto verrà tagliato...
Le nozze di Cana, prefigurazione della novità portata da Cristo, della pienezza della rivelazione, avvengono il terzo giorno. Il giorno delle
nozze di Cana fu un giorno carico di mistero e di rivelazione: gli avvenimenti che vi furono compiuti sarebbero rimasti un segno per chiunque, nel corso dei secoli, avesse voluto comprendere e vivere l’annuncio
cristiano.
Nell’episodio le figure dominanti sono la Madre, il Figlio, i servitori
che obbediscono, l’acqua e il vino, e il silenzio che accompagna lo svolgimento delle azioni.
La madre è Maria, la vergine-madre: la Vergine che, nell’integrale abbandono a Dio, nell’abnegazione di tutti i limiti individuali, compie la volontà dell’Altissimo e genera nel mondo sensibile il Verbo, suo stesso
creatore. La Vergine-madre che, nei momenti cruciali dell’esistenza, indica che il contenuto delle forme è svanito, che la festa della vita, le nozze,
sta divenendo triste.
La Vergine-madre segnala la deficienza alla Parola divina, perché ricolmi l’attesa delle forme esauste con nuova ebbrezza. Il compito della
Vergine-madre è quello di rivelare le deficienze vitali del momento e di
preparare l’atmosfera che permetta l’intervento di una nuova onda di
vita. «Donna, compi quello che spetta a te» le dice il Figlio; «Tu sei la
matrice che attende la fecondazione, tu sei la misericordia che trepida e
si dona quando la vita vien meno. Io sono la vita fecondatrice, tu attendi e prepari: dal nostro incontro nasce una più ardente vita».
La Madre interviene dicendo ai servitori di fare quanto il Figlio
avrebbe comandato; e l’ordine fu di riempire d’acqua le sei idrie di pietra e di attingervi il vino del miracolo. Le idrie nell’episodio sono numerate e descritte con cura: sono sei, di pietra, e servivano per le abluzioni rituali degli ebrei.
Il numero sei è quello della creazione e precede il giorno del riposo
sabatico di Dio e delle creature; esso indica il tempo necessario alla preparazione del compimento di un evento significativo per la sua santità.
L’ACQUA E IL VINO
125
Il sabato è preceduto da sei giorni di lavoro; lo schiavo ebreo doveva essere tenuto per sei anni in servitù e il settimo liberato; le vigne venivano
lavorate e sfruttate per sei anni, i campi lavorati e seminati per sei anni;
il settimo anno era il sabato del solenne riposo della terra.
Le sei idrie indicano, nella mentalità simbolica dell’evangelista, il periodo di preparazione lungo il quale la verità era stata accolta e custodita, come acqua, nella mente degli ebrei e aveva ricevuto la forma corrispondente alla loro fede, nell’attesa della sua trasformazione per opera di
Cristo. La pietra raffigura la lettera della verità; l’acqua, l’autorità esterna
che trasmette la verità; il vino, la conquista personale e interiore della verità. Il vino, in questo suo significato, è la novità del nuovo tempo inaugurato da Cristo alle nozze di Cana.
Tutta l’azione si svolge tra la Madre e il Figlio, tra la Vergine e Gesù, e
tutto viene compiuto nel più armonioso silenzio.
La Madre conosce che l’ora è venuta: il suo amore e il suo sapiente
intuito hanno compreso che il momento della trasformazione è scoccato; la compassione mette in movimento le sue energie silenziose e potenti.
Il Figlio comprende che l’amore della Madre ha individuato l’istante
giusto e compie il miracolo della mutazione dell’acqua in vino, della verità che ormai non sarà più contenuta dalla lettera di pietra, né più custodita da una tradizione autoritaria, ma verrà vissuta dagli uomini interiormente e personalmente.
Nel nostro tempo di estrema penuria di vino, mentre i moderni faraoni sognano di trasformare il mondo in un vasto stato-termitaio, i
frammenti e gli atomi della Madre-vergine, sparsi nel mondo e che hanno nome “donna”, sono chiamati a ritrovare la loro anima, la loro divinità, il loro senso della spiritualità, la loro naturale risposta alla bellezza, la loro femminilità espressa perfettamente nell’incondizionato amore materno. Perché possano di nuovo pacificare la terra, riconciliare i
fratelli nemici, cancellare Caino, far risorgere Abele, ricondurre tutta la
terra al Padre, predisporre il cuore umano ad accogliere e vivere la verità.
126
GIOVANNI M. VANNUCCI
2
La Vergine eterna, vigile compagna dell’umanità, addita la penuria
della vita, la dominante tristezza; ne rende consapevoli le coscienze umane, le esorta a fare tutto ciò che il Figlio dirà; nella sua onnipotenza supplice presenta la condizione umana all’eterno Creatore e ricongiungendo gli opposti, acqua inerte e Verbo creatore, fa tornare il vino migliore
a cantare nel cuore dell’uomo!
L’evento delle nozze di Cana è un accadimento eterno, continuo, immanente nel nostro essere uomini, anfore del vino nuovo portato da
Cristo con la mediazione della Vergine madre.
Il vino esistente in ogni uomo è la presenza viva, operosa di una particella divina che, depositata nella materia densa, ne costituisce l’unica
ragione di vita. Quando l’uomo ne dimentica la presenza, tutto in lui si
trova spogliato di significato e la sua ricerca di dare un senso alla vita,
alla morte, all’amore, al dolore sfocia in paradisi artificiali ed esteriori
che lo colmano solo di frustrazioni e di angoscia. Il vino è divenuto acqua inutile.
Quando invece l’uomo, sazio di illusioni, stanco della sua inenarrabile tristezza, ascolta la parola della Vergine eterna che è in lui e che gli
dice: «Tu non hai più vino. Per averlo compi quanto mio Figlio ti
dirà!», scende nel suo abisso interiore e scopre in sé la latente scintilla
divina, allora in lui rinasce il senso gioioso della vita e la sua nuova e insostituibile gioia sgorga dalla sua ferma volontà di liberare l’eterna prigioniera che è in lui, perché la vita dello Spirito, il vino migliore, irraggi la sua luce per la gioia di tutti.
Scoperta la particella di luce divina, si sentirà ripetere la parola antica: «Tu non avrai altro Dio fuori di me». Accettare l’unico Dio in noi,
nel contesto del brano evangelico «fate ciò che mio Figlio vi dirà», significa servire la più vera parte di noi stessi, far sgorgare nelle nostre
anfore il vino nuovo, riconquistare la nostra vera libertà. In questa libertà che nasce in noi, eseguendo la parola creatrice del Verbo eterno,
è la ragione della segreta e sostanziale gioia.
Fino a che l’uomo vive nell’inerzia dell’acqua, il Dio vivente in lui è
sentito come peso mortale, come rimorso inespresso; ma appena l’onda
del vino nuovo irrompe, l’acqua inerte cede il posto al vino migliore e
L’ACQUA E IL VINO
127
inizia l’ascesa per la liberazione. Lasciarsi inondare dal vino migliore è
il compito dell’uomo singolo, è il servizio che dona la gioia e il canto.
La gioia è il frutto che matura nell’anima consapevole della propria
ascesa verso la pienezza della vita divina di cui sa di essere parte.
Il vino migliore mette in fuga quello spirito legalistico che imprigiona abitualmente l’uomo, dissolve la rigidezza della pietra trasformandola in pietra vivente, cambia l’acqua in vino, abolisce la tristezza e l’inclinazione alla malinconia. E il vino migliore, che le anfore umane sono
chiamate a portare per la gioia di tutti nel banchetto della vita, è la piena coscienza della propria grandezza di figli di Dio, di coeredi del regno, di cooperatori di Cristo. Chi sente in sé vivere e muoversi questo
vino migliore sa, per certezza di intelletto, più che di fede, di essere in
ogni cosa guidato e sorretto dalla nuova onda di vita divina che è in lui,
come in ogni uomo fratello. In questa certezza, in questa sicurezza, chi
si adopera a far ascendere in se stesso e negli altri il vino migliore non
può che vivere nella perfetta gioia. Dov’è il vino migliore, ivi è gioia; dove non è, ivi è tristezza.
Ma dopo la venuta del signore Gesù, l’Emmanuele, il Dio-in-noi,
dove non è il vino migliore? Tutta la creazione ne è pervasa: l’uomo è
chiamato ad esserne il naturale assertore. Il vino migliore non è nel tumulto delle passioni, nelle durezze dell’orgoglio, nell’ostinazione della
personalità egoista, nelle rigidezze legalistiche e moralistiche innalzate
dalla nostra paura della vita: in esse non c’è gioia e canto, tripudio di vita.
Il vino migliore ci inizia a quella gioia, a quella fiducia nel divino
presente in ognuno, che furono il carattere spirituale dei primi cristiani
e che si perse mano a mano che la parola evangelica si induriva in contenitori di pietra, in dogmi e in prescrizioni giuridiche.
La lettera trasforma il vino in acqua, l’acqua stagnante diventa malefica. Per questo oggi, fra noi cristiani, la gioia è quasi universalmente
ignorata; ma ad essa dobbiamo tornare trasformando i nostri cuori di
pietra in cuori di carne vivente.
La Vergine eterna in noi oggi più che mai ripete al Figlio: «Non hanno più vino! I cuori sono di pietra: ripeti il tuo miracolo, trasforma tutto l’uomo in Figlio di Dio». In questo lugubre crepuscolo di civiltà, l’im-
128
GIOVANNI M. VANNUCCI
plorazione della Vergine: «Non hanno più vino!» è l’implorazione di
tutti i cuori coscienti e consapevoli.
Essa esprime il sogno di nuovi rapporti tra uomo e uomo, tra l’uomo
e le creature; il sogno di una nuova e sostanziale bellezza; il sogno di un
ardore intenso che, bruciando tutto quanto nell’uomo è duro e pietrigno, faccia sgorgare un canto nuovo, che tutto vivifichi e tutto illumini.
È un sogno utopico?
San Giovanni della Croce ci dice: «La passione prima dell’anima e
della volontà è la gioia». Ritroviamola, a condizione di ricominciare tutto da capo.
In altro modo.
La “strada del sole”
Il primo giorno dell’anno civile è consacrato alla solennità della Madre
di Dio.
L’intenzione è sufficientemente palese: consacrare l’inizio dell’anno
ordinario con la memoria della Madre di Dio, in modo che i fedeli ne
sentano e ne sperimentino la vigilante presenza materna lungo i giorni
del nuovo anno. In realtà, la tradizione ha posto la festa odierna nell’ottava di natale e solo ultimamente se ne è notata la coincidenza con
l’inizio dell’anno civile. Questa prospettiva è piuttosto extravagante, ed
è forse il segno di una secolarizzazione che confonde i piani dell’esperienza ordinaria, empirica, con quelli dell’esperienza religiosa che è soprastorica, qualitativa, che ricollega la coscienza umana alle tappe della
rivelazione e al grande tempo cosmico.
L’esperienza umana dei credenti si svolge lungo due tempi differenti: il tempo quantitativo empirico, datato con criteri razionali utilitaristici, il saeculum, e il tempo qualitativo, sottile, il saeculum saeculorum,
il saeculum intelligibile, lungo il quale il mistero del Dio rivelatore e, nel
caso delle feste mariane, l’archetipo della Vergine-madre sono invocati,
sollecitati, prefigurati da tutta la realtà della natura, macrocosmo e microcosmo, prima di essere stabiliti e precisati dalla verità della fede. Così l’anno liturgico si muove indipendentemente da quello civile, e costituisce un pellegrinaggio attraverso le stationes della rivelazione, saldando le tappe proprie dell’immaginario profano delle stagioni, delle notti
e dei giorni del calendario liturgico con quelle proprie del mundus ima-
130
GIOVANNI M. VANNUCCI
ginalis delle visioni rivelate. Queste conferiscono il senso metastorico, archetipico alle prime.
Questo contenuto costituisce l’approfondimento ermeneutico delle
ricorrenze festive e contrassegna, con un significato di eternità e di universalità, il pellegrinaggio liturgico della coscienza umana.
In altre parole, è il ciclo liturgico che innesta lo svolgersi dei giorni
profani in una metastoria archetipica, alla quale appartiene la chiave delle stagioni e dei giorni, il possesso di un tempo sottile che sfida l’usura entropica e la morte.
Jacopo da Varagine ha espresso lucidamente l’integrazione del tempo
sottile con quello empirico del calendario, distinguendo le qualità delle
stagioni liturgiche in quattro momenti: il loro inizio si colloca nel tempo
dell’avvento, il “tempo del rinnovamento”, cui succede, con la settuagesima e la quaresima, il “tempo della deviazione”; a questo fa seguito, da
pasqua a pentecoste, il “tempo della riconciliazione”, cui tiene dietro il
“tempo del pellegrinaggio” dalla pentecoste al natale.
Il tempo liturgico si snoda su due direttrici: la prima continua il calendario lunare ebraico e abbraccia le feste “mobili”, come la pasqua, la
pentecoste; la seconda perpetua il calendario solare, romano, e contiene
le feste non mobili, centrate sul dies natalis solis invicti, collocato dopo il
solstizio invernale, il 25 dicembre.
Le solennità della Vergine-madre sono distribuite lungo la successione delle varie tappe della crescita e decrescita della luce solare. L’intuizione di questa collocazione è evidente: Maria è la madre del Sole eterno,
e i misteri della sua vicenda visibile e storica si svolgono intimamente correlati con le manifestazioni della luce eterna, e costituiscono delle immagini conduttrici per il pellegrinaggio dei fedeli verso la vera vita.
Ricollocata in questa pista dell’anno dell’anima, la solennità della maternità divina di Maria si presenta come il compimento di tutte le precedenti commemorazioni mariane; e il suo legame con il primo giorno dell’anno civile appare artificioso e non interessante per il pellegrinaggio
dell’anima. Va considerata perciò come la figura che esprime e compendia tutte le precedenti celebrazioni mariane. Come tale, penso che debba
essere valutata e meditata.
La direttrice solare del calendario liturgico inizia con il solstizio invernale, il 21 dicembre, quando la luce solare principia ad aumentare;
LA “STRADA DEL SOLE”
131
raggiunge la sua massima intensificazione con l’equinozio primaverile, il
21 marzo; comincia a diminuire nel solstizio estivo, il 21 giugno; e arriva al
massimo del suo oscuramento nell’equinozio autunnale, il 23 settembre.
Il 25 marzo, dopo l’equinozio primaverile, viene celebrata la festa
dell’annunciazione. Mentre sulla terra la vita erompe tumultuosa, facendo dischiudere gli innumerevoli germi in essa sepolti, la Vergine annunziata ci propone l’immagine della “terra pura” che non conosce forze
germinatrici umane, ed è totalmente recettiva delle energie dello Spirito
santo, atta ad accogliere, per esserne fecondata, la Parola eterna di Dio e
a iniziare un nuovo processo storico, le cui origini non sono nella carne
e nel sangue, ma in Dio. Processo storico nuovo, immune da ogni passivo quietismo e libero da ogni prometeismo conquistatore e orgoglioso;
caratterizzato piuttosto dall’atteggiamento della Vergine, il cui seno attende la discesa della Parola eterna, perché il Padre non ha altra volontà
che quella di generare nella coscienza umana il suo unico Figlio, mediante lo Spirito santo.
Ciclo storico nuovo formato da cuori che, per l’accoglienza totale della Parola eterna, diventano figli di Dio, animati dalla vita stessa di Gesù
Cristo.
All’annunciazione seguono le celebrazioni pasquali, gli eventi drammatici della passione; quelli della risurrezione sono accompagnati dalla
silenziosa e partecipe presenza della Vergine-madre.
Sotto il segno zodiacale del Leone, nel mese di agosto, quando il sole raggiunge la massima potenza, è collocata la solennità dell’assunzione: la fanciulla dell’annunciazione, totalmente devoluta allo Spirito, ci
viene rivelata donna matura, trasfigurata dal Sole eterno, che con la violenza del suo fuoco trasforma in luce la Madre che l’aveva generato e la
ripone, spiga ormai matura, nei granai della vita eterna.
Nel mese di settembre, sotto il segno zodiacale della Vergine, è celebrata la natività di Maria. Il segno zodiacale della Vergine, collocato
nella posizione più bassa dell’anno zodiacale, è il punto terminale della
discesa nella materia dell’essere in via di manifestazione e del suo passaggio dalla curva discendente a quella ascendente, dallo stato di separazione a quello del ritorno all’unità nel mistero divino. Il segno zodiacale della Vergine sintetizza ed enuncia nella sua figura tutte quelle immagini che hanno espresso, nelle numerose esperienze religiose, l’archetipo della “donna eterna”.
132
GIOVANNI M. VANNUCCI
La celebrazione della nascita di Maria, situata in questo periodo, ci
lascia intravedere il complesso di attese, di speranze e di esperienze
umane racchiuso nell’apparizione di questa fanciulla, predestinata ad
essere il punto puro dell’universo da dove lo Spirito santo avrebbe ripreso la sua opera di illuminazione della materia. Nel periodo astronomico di accelerazione della diminuzione della luce solare, la nascita di
Maria viene a ricordarci le qualità che l’umanità ha sempre presentito
nella figura della Vergine: l’amore altruista, l’azione dimentica del proprio egoismo, l’intelligenza del cuore, la perfetta dedizione all’ideale, la
parola che armoniosamente crea, la sottomissione totale alle forze che
discendono dallo Spirito.
Sempre sotto lo stesso segno è commemorata, il 15 settembre, la Vergine-madre ai piedi della croce, l’Addolorata: Maria, la matrice dell’incarnazione di Dio, l’ascesa sacrificale della carne pura per raggiungere la
coscienza universale dei figli di Dio.
Il 23 settembre, all’equinozio autunnale, il sole sembra vinto, le tenebre si prolungano e aumentano fino al 21 dicembre, quando il sole riprende il suo corso trionfale.
In questo periodo viene celebrata la festa dell’Immacolata concezione. Essa ci ricorda che, al di là dello spessore della materia, delle tenebrose e confuse energie che l’intessono, preesiste una “concezione” luminosa e intatta che, pur densificandosi nella materia, rimane pura e intatta nel suo principio e nel suo termine, e che, nel tempo e nello spazio, ha avuto la sua manifestazione nella figura della Madre di Dio, prescelta a generare il Sole eterno. In essa la creazione, infranta dalla ribellione umana, è stata riplasmata, ricostruita, ripartorita: la natura umana
ha ripreso il suo destino divino e gli uomini ritrovano il “potere di essere figli di Dio”.
Questa rapida scorsa sulle solennità mariane lungo il sentiero delle
ricorrenze liturgiche collegate con la linea solare, ci rivela che la Vergine-madre è l’archetipo umano per eccellenza, come Cristo, il Sole eterno, è l’archetipo cosmico.
Lungo l’anno liturgico vediamo che le solennità concernenti il mistero trinitario sono intersecate da quelle che celebrano la Vergine-madre: questo fatto ci rivela che la pietà cristiana, in cui la creazione e la
natura si accordano con i misteri della fede, è radicata sulla “quaternità” ridiscoperta dalla psicologia moderna del profondo, ove le tre lu-
LA “STRADA DEL SOLE”
133
ci coscienti della Trinità sono completate dal volto velato dell’incosciente che è l’umbra solis.
Le celebrazioni liturgiche costituiscono una rottura del tempo storico, un inserimento del tempo sottile di Dio nella banalità dell’esperienza quotidiana, per rendere possibile la rigenerazione della coscienza
umana, che, mediante il rito, viene a trovarsi in un contatto immediato
con quelle realtà che sono nel profondo della storia e ne costituiscono
la risoluzione redentiva.
I testi biblici, annunciati durante la celebrazione, perdono il loro
contorno temporale e storico per rivelare ciò che è stato compiuto e sta
compiendosi nel profondo dell’umana coscienza, nel suo drammatico e
luminoso rapporto con la rivelazione del Dio vivente. La lettura filologica e storica dei testi scelti nella celebrazione liturgica diventa meno
importante, mentre acquista valore la lettura fatta con la consapevolezza che essi portano all’assemblea orante la Parola rivelata e rivelatrice,
efficace qui ed ora. Non sono due letture in contrasto, ma complementari: la lettura filologica impedisce a quella liturgica gli sconfinamenti in
possibili fideismi fanatici; quella dell’immediatezza dell’annuncio salva
la lettura filologica da eventuali inaridimenti dogmatico-razionali o
dogmatico-moralisti.
L’annuncio liturgico compie l’incantesimo della abolizione del tempo storico e quello dell’irruzione del momemo eterno rivelatore nel
quale la Parola rivelatrice risuona nel presente, per stimolare la nascita
eterna dei figli di Dio.
È con questa prospettiva che tenterò di leggere i testi biblici della liturgia: Dio ha parlato nel passato e la sua parola è conservata e trasmessa nei libri sacri; Dio parla alla coscienza dei fedeli qui e ora, durante il rito liturgico che abolisce il tempo storico per rendere possibile
l’accesso nel tempo di Dio. Terminata la celebrazione liturgica, l’uomo
tornerà nel tempo profano, nella dimensione storica fecondato da conoscenze nuove, che l’aiuteranno a capire da un’angolatura divina
quanto avviene attorno a lui e quanto deve compiere perché la sua presenza sia presenza di verità nell’esistenza.
L’Immacolata concezione
Il 23 settembre, all’equinozio autunnale, il sole sembra vinto, le tenebre
si prolungano; la diminuzione della luce durerà tre mesi zodiacali, fino
al 21 dicembre, il solstizio invernale, quando la luce solare riprende il
suo corso.
In questo periodo la chiesa ha collocato la festa dei morti e l’8 dicembre, tredici giorni prima della rigenerazione della luce, la solennità
dell’Immacolata concezione. Mentre la terra sembra venir sommersa
nelle tenebre e nel gelo del primo caos, la solennità dell’Immacolata viene a ricordarci che, al di là dello spessore della materia, delle tenebrose
e confuse energie che l’intessono, c’è una luminosa e intatta concezione
che, muovendosi dalla mente divina, si è densificata nella materia e ha
avuto la sua perfetta manifestazione nella figura umana della Vergine,
prescelta a generare il Sole eterno.
Non è facile per noi, abituati a esprimere i grandi misteri della rivelazione con l’ordinario linguaggio della ragione – operazione, questa, assimilabile al gioco del fanciullo che tenta, sulla spiaggia, di introdurre l’acqua del mare nella buca che ha scavato –, afferrare il contenuto delle figure portatrici della rivelazione. Ma, ponendoci davanti alla “Donna rivestita di sole”, qualcosa riusciremo a intravedere del suo mistero servendoci di una tradizionale metafora, conosciuta dai pensatori religiosi
di altri tempi.
Essa raffigurava la creazione come il risultato di quattro tappe successive: partendo dall’ultima, il mondo sensibile, e risalendo attraverso
la penultima, il mondo della formazione; la seconda, il mondo dell’i-
136
GIOVANNI M. VANNUCCI
deazione e, la prima, il mondo degli archetipi o finalità ultime. Prendo
un esempio: ho nelle mani un orologio: esso è un meccanismo visibile,
palpabile, il mondo sensibile; questo meccanismo è stato formato dal lavoro dell’uomo, il mondo della formazione; il lavoro è stato diretto da
precisi concetti meccanici e matematici, il mondo dell’ideazione. Questi
tre mondi sono sintetizzati nell’archetipo mentale dell’orologiaio, che ha
pensato di costruire uno strumento per la misurazione del tempo quantitativo.
Viviamo in un mondo fatto di materia palpabile, controllabile, misurabile, definibile; questa materia viene intessuta da un infinito numero di
energie, energie che hanno delle precise leggi concettuali, leggi che sono
state pensate nell’infinita mente di Dio e amate e volute da un amore e
una volontà ugualmente infiniti.
Nel primo stadio la concezione del divenire della creazione è immacolata, intatta. Questo primo istante è la mente di Dio, la sapienza divina, ed è il principio archetipico di tutto ciò che è manifesto; è anche l’idea di questo principio, la prima speculazione della prima Mente; vi è il
Padre e vi è la creazione nel tumultuoso divenire, e nella creazione vi è
la luce. Questa luce è l’immacolata concezione, che in sé compendia
quanto di vero, di bello e di buono è nel divino sogno creatore, e anche
quanto di vero, di bello e di buono verrà attuato nella creazione.
La chiesa nella liturgia, per esprimere l’istante che precede la creazione, si serve delle parole del libro dei Proverbi:
Prima che si ergessero con la loro mole i monti, prima che erompesse l’onda dalle sorgenti, io ero con il Creatore. Con lui ero da tutta l’eternità, posseduta da lui, partecipando alla formazione del creato.
La mia gioia è di essere sulla terra, mia delizia dimorare tra i figli dell’uomo.
Chi scopre me trova la vita; il mio pane viene mangiato, il mio vino viene
bevuto da chi ha raggiunto la semplicità (8, 22-31).
E attribuisce queste parole a Maria.
La creazione nella coscienza umana è stata infranta, l’uomo si è separato dal mondo archetipale divino e ha voluto usare del creato come se
avesse in se stesso, immanente, la propria ragione d’essere. Ma la ribellio-
L’IMMACOLATA CONCEZIONE
137
ne non ha infranto il profondo tessuto delle cose. Il principio archetipico
di tutto ciò che è manifesto, l’incontaminato piano della prima Mente, la
sapienza divina ha continuato a emanare la sua luce: questa luce è l’immacolata concezione.
Cercate di vedere il nulla assoluto, e in questo nulla la Trinità santa,
imprincipiata e dalla quale tutto principia, che pensa ciò che esteriorizzerà, ciò che manifestetà, ciò che creerà. La visione della creazione prima
del suo inizio è l’immacolata concezione.
Nel tempo della più densa tenebra dell’anno qualitativo, l’anno liturgico, quando tutto sembra ritornare tenebra nel caos primordiale, viene
celebrata la solennità della luce incontaminata, dell’ideazione incorrotta
del creato, della concezione immacolata.
La manifestazione dell’incorrotta luce è la Vergine-madre che, il 25
dicembre, contempleremo immersa nella luce e nel canto degli angeli
dopo aver dato alla luce il Salvatore.
Nella teofania dell’immacolata concezione la creazione è stata riplasmata, ricostruita, ripartorita. Nel suo seno la natura umana ha ripreso
il suo destino divino e agli uomini è stata restituita la facoltà di divenire
“figli di Dio”.
L’“immacolata” è un concetto che prelude a un altro, quello dell’“assunta”. L’“immacolata” e l’“assunta” non costituiscono soltanto la
gloria di Maria madre di Gesù, ma anche la gloria dell’umanità esprimente Gesù, riassunta e riespressa in Cristo.
Maria è la prima creatura che ha realizzato il suo corpo immacolato
e glorioso, ma essa non è che una caparra, una promessa, un invito. Tutti ritroveremo l’immacolata concezione e tutti saremo assunti.
Maria è l’atomo infranto attraverso il quale la creazione passerà.
Maria è l’archetipo umano per eccellenza, come Cristo è l’archetipo
cosmico per eccellenza: misteri che il linguaggio umano può sfiorare,
ma non spiegare.
La natività di Maria
La festa della nascita di Maria, 8 settembre, è collocata verso la metà del
segno zodiacale della Vergine. Segno che raccoglie e sintetizza nell’immagine della Vergine tutte le figure con le quali l’umanità ha espresso
l’archetipo dell’eterno femminile, della terra pura, della terra madre,
della fedeltà, della pietà operosa, dell’amore materno che cura misericordioso le sofferenze della creazione legata alla lacerazione e ai patimenti.
Si potrebbe dire che tutte le figure della femminilità espresse dalla religiosità umana confluiscono in quella di Maria, vergine e madre.
Non è un’affermazione avventata la mia; si potrebbe scrivere un’antologia che, andando dai primi ricordi storici dell’umanità fino ai nostri
giorni, ci mostrerebbe che nel cuore dell’umanità l’archetipo della vergine è stato una luce che ha sostenuto il doloroso cammino dell’uomo verso il raggiungimento della sua maturità.
Una preghiera di un mistico arabo del XIII secolo dice:
O mio Dio! Onora e saluta, proteggi e benedici la Donna gloriosa, la bella,
la purissima, la perseguitata, la generosa, la nobile, che tanto soffrì nella sua
breve vita, la regina delle donne, quella dai grandi occhi neri, la Vergine immacolata, la piissima; o Fatima splendente, o nostra donna e nostra sovrana, intercedi per noi davanti a Dio.
Non è una preghiera cattolica?
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GIOVANNI M. VANNUCCI
Il segno della Vergine, collocato nel punto più basso dell’anello zodiacale, rappresenta il punto terminale dell’involuzione, nella materia,
dell’essere in via di manifestazione e il suo passaggio dalla curva discendente a quella ascendente, dallo stato di separatività a quello del ritorno all’unità nel mistero divino.
L’archetipo della vergine abbraccia la terra, la fecondità in senso generale, accoglie i germi, li nutre, li trasforma e genera i frutti. È l’energia che
discerne le proprietà degli esseri, le assorbe e le fa fruttificare. Ed è anche
l’energia orientata verso lo Spirito che, liberando la coscienza dai germi
del basso, vi attira la sua fecondazione.
Nel silenzio della sua donazione alle energie dell’Altissimo concepisce il Lógos, l’Intelligenza divina, donandolo alla terra come principio
di illuminazione e di ascesa.
Ricollocando la festa della nascita di Maria nel vasto universo delle figure che hanno espresso l’archetipo della vergine, possiamo comprendere o intravedere l’immenso mistero racchiuso nell’apparizione all’esistenza terrena di questa fanciulla predestinata ad essere la terra immacolata,
la portatrice della Parola eterna, il punto puro dell’universo da dove lo
Spirito santo riprenderà la sua opera di illuminazione della materia.
Questo fatto ha un’importanza unica per la coscienza umana. Se la
nascita di Maria costituisce il momento della polarizzazione di tutta la
terra verso l’infinito, il compito umano, che dovrebbe essere la continuazione di tale momento, è quello di orientare la terra, l’intelligenza,
lo spirito, il lavoro, lo studio, la religiosità verso l’armonizzazione dei
due poli dell’essere: il visibile e l’invisibile; il creato e il creatore. Dissolvendo quegli stati di coscienza ancora troppo materiali e fecondandoli con stati di coscienza superiori e più veri.
Il periodo attuale dell’umanità è caratterizzato da tendenze di volontà dominatrice, egocentrica, utilitarista e sensuale; dovrebbe, almeno in noi che ci riconosciamo nel segno della Vergine, aprirsi ai valori
universali, ai valori spirituali che, abbattendo le divisioni, informeranno
i rapporti umani in quello spirito di collaborazione che nasce quando
diventiamo persuasi che tutti siamo pellegrini dell’Assoluto.
Continueremo a porre le energie e l’intelligenza al servizio distruttore del nostro io egoista, oppure orienteremo le nostre facoltà al servizio
dell’Altissimo, servendo in tal modo l’umanità intera?
LA NATIVITÀ DI MARIA
141
L’umanità seguirà le vergini folli e imprudenti, oppure si incamminerà sulle tracce della Vergine fecondata dallo Spirito e recante la salvezza del mondo?
Dalla via scelta dipenderà la soluzione dell’attuale crisi dell’uomo. La
Vergine ci rivela queste qualità per l’ascesa umana: amore altruista, attività
dimentica del proprio egoismo, intelligenza del cuore, servizio dell’ideale,
parola creatrice di armonia, umiltà.
L’annunciazione
«Sia fatto di me secondo la tua parola» (Luca 1, 38).
Il momento storico del ritorno alla sorgente pura delle origini, si
apre con un evento che è figura della fede, denso di significato; al sacerdote del tempio viene tolta la parola per non aver creduto all’angelo, e la Parola eterna discende nel grembo di una Fanciulla che ha fede.
La parola tolta a Zaccaria è il segno della fine della vecchia economia
della legge e dell’inizio della nuova legge.
Da tempo nel popolo ebreo era tramontato il potere regale, la parola profetica non risuonava; il vecchio testamento aveva raggiunto l’ora
del tramonto e, come appare dalla narrazione dell’evangelista Luca, anche il potere dell’uomo. Inutili erano ormai le vie escogitate dall’uomo
per raggiungere l’unità pura delle origini: il culto del tempio, i sacrifici
cruenti, le dotte interpretazioni della parola profetica.
La Parola salvatrice viene comunicata, in maniera inconcepibile e
stupefacente, a una Fanciulla che dimorava nel disprezzato villaggio di
Nazareth.
La Fanciulla, riassumendo in sé la realtà metafisica dell’eterno femminile, accolse la Parola divina e pronunciò la parola liberatrice: «Ecco
l’ancella del Signore, sia fatto di me secondo la tua parola».
È questa la parola più significativa che mai sia stata pronunciata da
labbra umane: essa rese possibile l’incarnazione del Verbo, rivelando,
contemporaneamente, la vera essenza dell’uomo e quella di tutta la
creazione.
144
GIOVANNI M. VANNUCCI
Con il fiat di Maria il mistero della donna viene elevato a principio
religioso della natura umana: è la donna che riceve la promessa del Salvatore; alla donna viene rivolto il saluto dell’angelo; è la donna che diventa la bocca dell’umanità il cui umile fiat risponde a quello del Creatore; è alla donna che il Risorto si manifesta; è la donna che appare rivestita di sole, figura della nuova umanità (Apocalisse 12, 1).
Ed è l’offerta di tutta se stessa, attuata nel fiat dalla Vergine, che rende l’umanità capace di donarsi totalmente alle energie dell’Altissimo per
estinguere le forze distruttive e disumanizzanti che la profanano.
***
Dio si è unito all’umana natura,
la parte si annienta nel tutto,
il finito nell’infinito, il tempo nell’eternità.
La Parola si è fatta carne,
viva è la carne per l’abbraccio dello Spirito:
la terra ritrova il suo perduto ritmo.
Nell’unità è abolita la separazione,
alba è la Vergine del tuo eterno giorno, o Signore,
per l’umanità infranta nella notte dei tempi.
Il peccato antico, densità della forza separatrice,
è abolito dal “sì” della Vergine,
al folgorante bacio dello Spirito.
Eva è tornata nel fianco di Adamo,
gli opposti princìpi riuniti nell’unum:
il serpente separatore ha perso il veleno.
L’inquieta ricerca è placata, un canto nuovo intonano i cieli,
la Parola vive nella carne, la carne nella Parola.
L’uomo non è più figlio solitario della carne,
figli non genera più il sangue,
erompe la vita nell’estasi dell’ unum.
La tua discesa nella carne, o Parola eterna,
rivela la purità dell’amore immanente nel creato,
la verità di ogni sogno di vita,
il compimento di tutte le attese.
La Vergine ai piedi della croce
Presso la croce di Gesù stava sua Madre [...]. Gesù, vedendo sua madre e
con lei il discepolo amato, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio», al discepolo disse: «Ecco tua madre» (Giovanni 19, 25-27).
Maria, madre di Gesù, era giunta ai piedi della croce: chiusa nella
santità del suo dolore come in un manto di potenza, la “Silenziosa” aveva visto arretrare davanti a sé la folla che le straziava il figlio.
Davanti a Maria anche l’odio aveva taciuto. Ora era ai piedi della
croce, dritta, senza lacrime, senza gemiti. Accanto a lei stava Giovanni,
il discepolo che alla cena aveva appoggiato il capo sul petto del maestro. Madre e figlio si guardarono con un lungo sguardo doloroso, che
era al di là di tutto il bene e di tutto il male. Il silenzio gravò in un infinito, fuori del tempo e dello spazio. Gesù parlò: «Donna ecco tuo figlio» e a Giovanni disse: «Ecco tua madre». Seguì uno stupefatto silenzio; Gesù cedeva dolcemente alla misericordiosa mano della morte,
aveva adempiuto al mandato. L’iniziazione ultima dell’umanità era
compiuta.
Perché la scena della crocifissione, con Maria ai suoi piedi, e le parole rivolte alla Madre e a Giovanni ci riempiono di stupore e risuonano in noi, come nelle precedenti generazioni cristiane, così piene di fascino? È soltanto l’evento narrato, una madre ai piedi del patibolo del
figlio, che ci colpisce, oppure vi è in esso qualcosa di più sconfinato che
ci coinvolge?
146
GIOVANNI M. VANNUCCI
Tenendo presente il mistero di Maria, riusciremo a spiegarci, in
qualche maniera, il fascino della figura di Maria ai piedi della croce,
non come derivante da una emozione, ma come segno di un evento
compiutosi nel profondo del nostro essere, e di cui è necessario prendere coscienza, se vogliamo vivere nella verità che Cristo ci ha portato.
Maria, la madre che è ai piedi della croce, è l’immacolata concezione: la luce incontaminata che ha presieduto all’ideazione incorrotta del
creato.
Le parole di Cristo agonizzante: «Donna, ecco tuo figlio» e quelle rivolte al discepolo: «Ecco tua madre» sono le parole rivelatrici della redenzione compiuta e che in quel momento, in quel luogo, inizia il suo
cammino di espansione. L’uomo, in Giovanni, ritrova la purezza originaria del suo essere decaduto, l’uomo peccatore ridiscopre in Maria,
l’immacolata, la luce delle origini e nuovamente può riappellarsi “figlio
della luce”. La dolorosa separazione è abolita, l’umanità ritrova l’unità
infranta.
L’immagine di Maria ai piedi della croce rimane come segno di una
vittoria raggiunta, ma anche di un cammino che ogni uomo, desideroso
di ritrovare l’unità delle origini, è chiamato a compiere.
L’egoismo e la volontà, posti a servizio dell’io, vengono a trovarsi frustrati; il desiderio di possesso e di godimento non rimangono soddisfatti dalle conquiste materiali, e l’uomo comincia ad aspirare ad altre cose.
Seguendo la via della ricerca dell’Assoluto, dovrà, l’uomo, inginocchiarsi “ai piedi della croce”, spazio, tempo, materia, e comprendere il senso
dell’incarnazione.
La Vergine è posta alla base del braccio verticale della croce, figura
dell’albero della vita, su cui pende il frutto, il “figlio della vergine”, la cui
figura umana sconfina nell’assoluto e nell’infinito. Il braccio verticale della croce simbolizza il tempo, e la Vergine vi è vicina per indicare che nel
tempo, lungo il tempo, la coscienza umana è destinata a vivere le qualità
della vergine, se vuole ascendere alla realtà umano-divina di Cristo. Qualità che aprono la coscienza al superamento del proprio individualismo –
«il grano deve morire per portare frutto» –, all’ascesa sacrificale nell’umiltà per raggiungere la coscienza universale del Figlio di Dio.
LA VERGINE AI PIEDI DELLA CROCE
147
La solennità dell’Addolorata, alle porte dell’autunno, ci pone davanti una scena drammatica: la croce, albero della vita; il Crocifisso, il
Verbo incarnato in Maria, che pende come frutto maturo per saziare
tutte le fami dell’uomo; la Vergine, che indica la necessità dell’ascesa
verso l’infinito lungo il tempo; Giovanni, il discepolo che con intelletto
d’amore ha seguito il Maestro fino all’immolazione.
Scena drammatica, che rivela lo stato costante dell’umanità nel tempo: dalla croce del Golgota fino a noi uno sterminato campo di croci e
di crocifissi, la terra profanata, l’umanità profanata: e la Vergine intrepida, che continua ad additarci l’ascesa verso l’Assoluto come unica via
per vivere il mistero della discesa dello Spirito nella croce.
Assunzione della Vergine
1
Cosa significa l’assunzione di Maria con la sua carne e il suo spirito nella infinita luce di Dio?
“Assunzione” è quando qualcosa viene interiorizzato, assorbito dall’infinita coscienza di Dio. Ora, l’infinita coscienza di Dio non è soltanto nel cielo dei cieli, ma anche sulla terra e nella nostra coscienza. Guardando alla figura di Maria che è la “donna eterna”, la “donna gentile”,
la manifestazione della femminilità, e osservando lo sviluppo della coscienza moderna, vedrete che la figura della femminilità sta ritornando.
Come in tutte le epoche contrassegnate da un eccesso di virilità, nasce il
sogno di un ritorno della vergine. Ricordate l’Egloga di Virgilio (IV, v. 6):
«Iam redit (et) Virgo», ritorna la vergine.
Noi siamo troppo abituati al pensiero dualista; pensiamo che la Madonna sia una realtà esistita singolarmente e separatamente da tutte le
altre realtà, così come noi sentiamo la nostra vita: io sono qui, voi siete
davanti a me, ciascuno di voi ha una dimensione ben precisa. Ma questa visione ci viene data dai sensi, la realtà è altra. C’è una storia superficiale che è quella degli eventi che conosciamo del nostro tempo, di altri tempi e anche del futuro. Ma c’è un’altra storia più sottile, più
profonda che è quella che ci interessa, e quella che dobbiamo vivere
profondamente: non c’è separazione, ma c’è comunicazione profonda;
e anche le grandi figure religiose sono storiche fino ad un certo punto,
150
GIOVANNI M. VANNUCCI
sono sopra-storiche, vivono nel tempo sottile di Dio. Ogni figura storica
segna sempre una maturazione della nostra coscienza, la quale, sognando,
raffigura lo sviluppo che misteriosamente avviene in lei di determinate immagini. Se osservate, la storia religiosa dell’umanità ha sempre avuto una
figura femminile. Il nostro tempo è un tempo fortunato, perché è segnato
da una grande interiorizzazione: sentiamo che le grandi figure religiose
della nostra esperienza non possono essere rappresentate sempre come
qualcosa di storico, di oggettivo, di legato al tempo e allo spazio, ma sono
eterne. Cristo è eterno, la Vergine è eterna.
Gli arabi, nonostante le manifestazioni che di loro conosciamo, per lo
più imperfettamente (purtroppo conosciamo sempre le manifestazioni
più scadenti di un popolo...), quando parlano dell’uomo e della donna, dicono: «L’uomo è l’esteriorità, la donna è l’interiorità».
Il nostro tempo, con questo riaffiorare della figura della femminilità, è
in cammino verso una interiorizzazione di tutti i contenuti religiosi; e c’è
già tutto un filone di pensiero, di pensiero contemplativo, che vede nella
successione di tutte le immagini religiose, che ogni popolo ha sempre avuto, una peregrinazione di immagini che infine raggiungono la loro espressione perfetta in Maria santissima. Quando diciamo che Maria santissima
è assunta, vuol dire che sta entrando nella nostra coscienza per liberarla da
tutte le durezze, da tutte le violenze, da tutte le profanazioni provocate da
una visione differente di vita, nella quale la figura della madre, della vergine e della donna è messa da parte.
La figura della Vergine sta ritornando nella nostra coscienza, e noi dobbiamo vivere questo approfondimento e questa interiorizzazione come
qualcosa che ci riguarda.
Cosa ci porta la Donna? La misericordia, l’amore alla vita, la difesa della vita. Quindi le nostre anime, per vivere l’assunzione di Maria, bisogna
che si approprino di queste grandi qualità.
Stiamo distruggendo la terra: la figura della Vergine ci dice che la terra
dev’essere intatta e pura.
Stiamo diventando crudeli, abbiamo scritto delle pagine di storia crudelissima: la Vergine cancella tutti i conquistatori, la figura della Donna
cancella tutti gli uomini che hanno prodotto delle stragi, delle guerre, delle distruzioni e ci fa guardare a tanti umili che hanno sofferto per queste
ASSUNZIONE DELLA VERGINE
151
guerre, e che pure hanno continuato a portare avanti la speranza più
profonda dell’umanità, che è quella di veder nascere finalmente l’Uomo.
Allora, non perdiamoci dietro a domande, a interrogazioni che vengono dalla nostra ragione, ma ascoltiamo la nostra ragione poetica, quando
contempliamo il mistero di Maria.
E avviamoci ad amare la vita, a proteggere, a difendere la vita, a lasciare a chi ci seguirà una terra viva, e non una terra devastata. Apriamo il nostro cuore alla misericordia e allora, in questa interiorizzazione, comprenderemo tante affermazioni anche della nostra fede che rimangono dure e
paradossali.
Noi affermiamo che Maria è la Madre di Dio. Con l’intelletto maschile
non potremo mai provare questo; ma, quando il nostro cuore si apre alla
misericordia, allora comprendiamo che questa elevazione del nostro cuore ad una vita più piena, più appassionata, più partecipe a tutte le esistenze ci viene dalla Madre di Dio.
Maria è quindi la figura che genera in noi Dio, il Cristo, il Figlio di Dio,
e in noi è Madre di Dio.
Dicevo che il nostro tempo è contrassegnato da questa interiorizzazione. Infatti, nell’esperienza profonda, non ci sono più i confini geografici
della divinità (sì, sul piano della teoria, della discussione, ci sono ancora tali confini...): il fatto religioso sta diventando un fatto di interiorità, e le
grandi figure religiose che hanno costellato tutti i Pantheon dell’umanità
trovano la loro confluenza nelle figure religiose che portiamo nel cuore,
che ci sono più sacre e che diventano universali.
In questo cammino di interiorizzazione, noi viviamo il mistero dell’assunzione di Maria: è la coscienza umana che in questo tempo ha cominciato ad assumere, ad assimilare, a vivere interiormente l’immenso mistero della femminilità eterna.
Sarà questo mistero a trasformare l’umanità e i rapporti dell’uomo con
tutte le altre creature e con tutta la terra vivente.
2
L’assunzione identifica la Vergine con la saggezza del pensiero divino.
Essa è la rivelazione della donna e dell’eterno: non l’eterno femminino
152
GIOVANNI M. VANNUCCI
dei romantici, ma l’eterno, verginale e materno insieme, come ci viene rivelato dalla Bibbia.
L’assunzione è il compimento visibile dell’archetipo femminile: la
«donna vestita di sole, che sta partorendo un figlio maschio» (Apocalisse
12, 5).
Per comprendere il mistero dell’assunzione bisogna decifrare il linguaggio degli archetipi. Nel nostro caso, il testo citato ci introduce negli ultimi avvenimenti: non si tratta della nascita storica di Cristo, ma
della nascita dell’uomo posto sotto il suo segno. L’umanità maschile è
spesso tentata di un ritorno al seno materno, verso lo stato precosciente; ma la vera nascita si attua verso il sole della coscienza illuminata dallo Spirito.
Se la senilità segna l’eclissi della coscienza, il ritorno alla infantilità,
la vera nascita, introduce nella luce senza tramonto.
Il figlio maschio del brano dell’Apocalisse è alzato verso Dio, mentre
la donna rimane nel posto preparatole da Dio; è come un’immagine che
riproduce il destino storico: l’uomo generato dalla saggezza-Maria-chiesa
raggiunge il divino, sua vera patria. Ed è restituito al suo vero destino, alla sua propria verità: Cristo è formato in lui, è “violento”, s’impadronisce
del regno di Dio, facendo convergere tutto il piano terrestre verso quello
celeste.
La chiesa rimane in un luogo custodito: le porte dell’inferno non
prevarranno (Matteo 16, 18). Rivestita di sole, essa è il concepimento, la
nascita posta nel cuore del mondo per manifestare senza sosta la protezione materna, per generare nel cielo e guidare l’uomo verso la sua patria celeste. Non è più l’evocazione della Saggezza, ma la sua manifestazione gioiosa.
Il «figlio maschio» (Apocalisse 12, 5) è nato dalla maturità dell’età
dell’uomo: «Se non diverrete come fanciulli, non entrerete nel regno
dei cieli» (Matteo 18, 3). Il “fanciullo” è l’uomo degli ultimi tempi, è l’uomo del regno.
Sul piano degli archetipi, alla prostituta di Babilonia, amazzone mascolinizzata, s’oppone la figura luminosa della donna solare, l’archetipo
della “donna-vergine-madre”; all’anticristo, maschio tenebroso, si oppone
l’archetipo dell’uomo-fanciullo, filius sapientiae: Elia, Giovanni Battista,
l’ultimo testimone dell’Apocalisse.
ASSUNZIONE DELLA VERGINE
153
Nelle parole: «Non c’è niente di nascosto che non debba esser messo in evidenza» (Matteo 10, 26) – «chi ha orecchie per capire capisca»
(Marco 4, 22) –, si presenta la grandiosa fioritura delle ultime realtà. È
la fine dei frazionamenti, il tempo delle proiezioni archetipiche nei loro
compimenti storici. L’umanità femminile, in gestazione e in parturizione, giunge alla maturità della donna che genera l’umanità maschile
escatologica: Uomo-figlio dell’integrazione ultima. Il maschile e il femminile entrano nell’ultima fase, quella che precede la coincidenza degli
opposti nel regno.
La verità dell’assunzione di Maria santissima in cielo, nella sua realtà
umana totale di corpo e anima, costituisce una di quelle certezze mistiche che aiutano l’uomo a non errare nel suo giudizio sulla creazione e
nel suo comportamento di fronte alla verità del suo destino e di quello
di tutto l’universo.
Essa infatti raccoglie ed esprime una speranza e una profonda conoscenza. Conoscenza che, data la labilità dell’umana ragione, nel linguaggio profano e sacro riveste spesso la forma di una speranza. Speranza che, a osservatori superficiali o condizionati da visioni razionali,
può apparire come un’evasione dai duri cimenti del vivere o come un’istintiva ricerca di un benessere definitivo che plachi tutte le dolorose
frustrazioni e incompletezze terrene. Quasi che il sogno dell’assunzione
della carne nel regno dell’immortalità dicesse all’uomo, illudendolo:
“Quaggiù hai una vita povera e sofferente, lassù, nei cieli, avrai una vita perfetta e immune dal male e dal patire”.
La verità dell’assunzione dice, invece, all’uomo: “La tua carne è santa: essa non è retta dall’istinto, ma dalla mente; in essa è insita una natura spirituale che la rende diversa dalla carne degli animali e, per questo, meritevole di quel rispetto e di quella venerazione che è richiesta
dai templi sacri”. Non evasione, quindi, ma vigile impegno nel presente per tutto ciò che costituisce l’uomo: carne e sangue, anima e spirito.
Nella verità dell’assunzione di Maria santissima, la voce della tradizione grida all’uomo: «Pellegrino della terra, il Dio che vive in te santifica anche la tua forma di creta; tu non puoi profanare il tuo corpo, non
puoi disprezzarlo perché è il tempio di Dio, e avrà parte alla tua gloria
come ha avuto parte al tuo martirio».
154
GIOVANNI M. VANNUCCI
Maria santissima è quella particella dell’universo creato che, per la
perfetta manifestazione in lei dello Spirito santo, si è staccata dal tessuto ordinario dell’umanità per attuare la ricomposizione della materia e
dello spirito, venendo così a costituire quella maglia strappata nella rete, per la quale tutta l’umana manifestazione verrà a passare. L’assunzione di Maria è una promessa, una caparra, ma anche un fatto: è l’assunzione nell’anima e nel corpo, è l’ultimo destino dell’umanità.
Maria apre la strada e, dietro a lei, passeremo tutti con la nostra materia glorificata, con quell’universo degli universi che è il corpo dell’uomo; corpo che è il nostro compagno, il nostro complice, il nostro accusatore e spesso la nostra vittima. Noi, infatti, facciamo peccare il nostro
corpo assai più di quanto esso ci faccia peccare; imputiamo alla materia, che è innocente, tutte le aberrazioni delle passioni, figlie della mente; continuiamo a ripetere la scena dell’Eden: «E Adamo accusò la donna e la donna accusò il serpente». Ed ecco il serpente, simbolo del tempo-spazio, divenire la spirale che proietta verso il cielo la nuova Eva,
Maria, e costringe Adamo a guardare verso il cielo, che anche fisicamente diventa la sua naturale meta.
Colei che nella sua purità sublime non ha ignorato né dolore, né
amore, ma ha allontanato dalla sua vita la colpa e la degradazione, è assunta dagli angeli, mentre Cristo sale per virtù propria, ascende al suo
regno per il potere della sua divinità. Ordina alle leggi non di sovvertirsi, ma di compiersi, e addita alle schiere angeliche Maria come loro regina; e fa cenno che a lei sommessamente servano.
E così Maria è assunta. Maria però è la prima perla della celeste collana, le altre seguiranno attratte da lei, assunte da lei.
La nostra essenza pensante e amante non sarà dispersa; in essa troveremo il nostro compimento; la morte e la dissoluzione riguardano solo l’apparenza; ciò che vive in ognuno di noi trasmuterà ognuno di noi;
in questa prospettiva i valori mutano profondamente. Non senza motivo abbiamo ricevuto un corpo di carne: quando la nostra maturazione
sarà compiuta, la terrestre carne sarà trasmutata in celeste, risorgeremo
da tutte le morti e, compiuti e riconfermati, saremo raccolti dal luminoso seno del cielo dei cieli.
In questa visione troviamo le ragioni della nostra pace, conosciamo
il nostro splendido destino: verso di esso orientiamo ogni nostro anelito; veneriamo il nostro corpo, cercando, se non di renderlo puro, di
ASSUNZIONE DELLA VERGINE
155
non macularlo più oltre. La vita che vibra in noi vibra anche in lui; riguardiamo i corpi che racchiudono lo Spirito santo come ampolle di un
profumo prezioso, che lo contengono come lampade la luce raggiante.
Verità abbagliante e consolatrice, ci vieta il peccato, e le scuse allo
stesso, ci nega i vicoli ciechi, i raggiri e gli inganni. Ci compie, ci lava, ci
fa assurgere verso la meta, che sentiamo in noi più profonda e più vera
d’ogni istinto di vita, d’ogni istinto di morte.
I Servi e la Vergine-madre
Gli ordini religiosi nella chiesa possono essere classificati secondo lo
spirito che li informa in queste tre grandi classi o vie spirituali: gli ordini consacrati alla ricerca della conoscenza, di quella conoscenza che è
oltre le scienze, come i Domenicani, i Benedettini, eccetera; quelli consacrati a un’attuazione della pietà, della misericordia verso tutto ciò che
vive; quelli consacrati all’azione immediata: apostolato, scuole, opere
caritative.
L’ordine dei Servi di Maria appartiene alla seconda via: la via della
partecipazione misericordiosa alla vita, intesa come raggiungimento
personale della pietà verso tutti gli esseri e come costante e inflessibile
irraggiamento di misericordia.
La Vergine-madre è la manifestazione dell’infinita misericordia divina nel creato; l’essere Servi di Maria vuol dire continuare nella vita, personale e comunitaria, la missione, la forza fecondatrice, la luce di Maria
santissima.
La costante meditazione dei Servi di Maria è centrata sui momenti
salienti del mistero di Maria: l’immacolata concezione, l’annunciazione,
la natività del Figlio, la maternità divina, la sua partecipazione silenziosa al supremo patire del Figlio, la sua assunzione nei cieli.
Meditazione compiuta non a scopo di precisare concettualmente i
contenuti del mistero di Maria e delle sue varie figure, ma con la finalità
di tradurre i concetti, le conoscenze nel vissuto, in modo che il mistero
di Maria appaia e si riveli nella vivente personalità dei suoi Servi, che in
158
GIOVANNI M. VANNUCCI
tal modo ne diventano delle viventi icone, immagini non dipinte ma
vive.
La vita del Servo di Maria è un continuo confronto tra la sua concretezza umana e l’archetipo della Madre di Dio che vuole esser reso vivente ed evidente in mezzo agli esseri creati.
Come raffigurarci l’archetipo della Madre divina degli esseri? Proviamo con questa immagine: tra il mistero del primo Principio, il punto
unico sorgivo da cui sgorgano tutte le creature, tra Dio creatore e gli esseri concreti, noi, ogni creatura dalla più sconosciuta alla più elevata,
tra il lombrico che silenziosamente svolge il suo compito vitale nel terreno e il più luminoso serafino dei cieli, esiste una realtà mediatrice che
filtra, distribuisce armoniosamente il pensiero e la volontà del primo
Principio.
L’immagine della “medaglia miracolosa” può aiutarci a comprendere quanto dico: su un lato vediamo la Vergine con le braccia pietosamente aperte volte verso la terra, mentre dalle sue dita escono dei raggi, lunghi e corti; nell’altro lato ci sono dodici stelle e la dicitura: «Maria concepita senza peccato, pregate per noi che ricorriamo a voi!».
Immagine che riscontriamo in altre esperienze religiose, anche se di
non stretta osservanza ufficiale cattolica; l’alchimia, per esempio, raffigura in modo rigorosamente simile l’Anima mundi! È la stessa intuizione:
il mistero creatore si irradia nelle creature attraverso una presenza femminile, che scende in ritmi di bellezza, di armonia, di rigorosi movimenti geometrici dall’Uno creatore al molteplice creato. Ciò significa che dietro e dentro ogni manifestazione dell’esistenza creata c’è un pensiero divino, un preciso atto di amore e di misericordia divina. La no-stra personale realtà umana viene secondariamente attraverso la mediazione della
carne e del sangue, principalmente da un pensiero e da un amore divini.
Ciò costituisce il mistero di ogni essere creato. Prima delle particelle del
mondo subatomico, prima di ogni esistente creatura, dalle galassie al granello di sabbia, esistono un pensiero e un amore infiniti.
Quando questo pensiero diventa vivente nella coscienza umana, essa viene liberata dall’ignoranza che la rende indifferente, violenta, aggressiva, e viene dischiusa a un’attenzione commossa e partecipe verso
ogni entità creata. Le qualità della Misericordiosa scendono in noi, dandoci dei nuovi ritmi, delle nuove visioni del mistero dell’esistenza e degli esistenti.
I SERVI E LA VERGINE MADRE
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Così comprendiamo l’antichissima invocazione alla Madre divina: janua coeli, porta del cielo, la porta attraverso la quale il cielo discende sulla terra e la terra è assunta nel cielo. La Madre divina è l’insostituibile
mediatrice della trasfigurazione del caos.
L’immacolata concezione
Nella meditazione delle “cose supreme” è richiesto, come preliminare indispensabile, il ricondurre il tema in oggetto al suo punto di partenza, alla prima battuta. Quando il tessitore che porta avanti la tela si
accorge di aver commesso un errore, di non aver capito bene l’andamento della trama, ferma il telaio e comincia a disfare il lavoro fino a riportarlo al punto iniziale. Così, nella meditazione del mistero di Maria,
il primo passo è lo smagliamento di tutte quelle sedimentazioni culturali che vi sono state depositate, nel corso dei secoli, per necessità di comunicazione, ma che inevitabilmente sono limitanti. Così, in questo
cammino a ritroso ci è richiesta la disarticolazione di quelle raffigurazioni del mistero divino che perpetuano nel nostro linguaggio teologico
delle forme culturali tramontate; altrimenti non ci sarà possibile un’intellezione più adeguata del mistero di Maria e della sua fecondità nell’esperienza spirituale dell’uomo di oggi.
La meditazione dell’immacolata concezione, dell’ideazione pura, incontaminata della creazione, trasforma il rapporto del Servo di Maria
con tutti gli esseri creati: in ciascuno cerca di vedere il mistero divino velato nella carne, la perla preziosa che, pur rivestita di materia, e negli uomini spesso ricoperta di fango, continua a essere e ad attendere di venire trovata per poter dare la sua lucentezza alla gloria del creato.
La prima riflessione la rivolge a se stesso, non per vedere i propri difetti, le cattive tendenze della sua natura, ma per scoprire in sé l’idea e
l’amore divini racchiusi nella sua essenza e, scoprendoli, portarli alla
piena luce, perché come fuoco brucino le densità opache della sua
realtà terrestre. In questo ritrovamento la sua gratitudine eromperà
gioiosa verso la Mediatrice, che dal Cuore divino ha comunicato al suo
cuore un singolare e irripetibile nome.
Il suo rapporto con gli altri sarà sostenuto dalla certezza che in
ognuno è sepolto un nome eterno e insostituibile, e dall’insonne ricerca
di scorgerlo oltre tutte le pesantezze della carne.
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GIOVANNI M. VANNUCCI
Allora inizierà a vivere i misteri della vita terrena della Donna celeste.
L’annunciazione
È l’immagine prima dell’esperienza religiosa dei Servi, l’immagine
conduttrice della loro vita consacrata.
Nell’annunciazione Maria è la terra pura che non conosce uomo, e
insieme la terra pura totalmente devoluta alle forze fecondatrici dello
Spirito perché in lei nasca il fiore più bello che mai sulla terra sia fiorito, l’Emmanuele, colui che nella sua natura umana porta il mistero del
Figlio di Dio.
«Non conosco uomo; si compia in tutto il mio essere quello che Dio
vorrà»: due parole che danno sostanza e significato all’impegno religioso dei Servi di Maria.
«Non conosco uomo» è la consegna per una via di ascesi totale e assoluta, di liberazione da tutte le possibili identificazioni in cui noi uomini possiamo cadere: identificazioni col corpo fisico, con l’emotività,
con le forze mentali, con quelle intellettuali, con le costruzioni immaginifiche della felicità terrena e ultra-terrena.
«Non conosco uomo» è la perfetta nudità raggiunta, l’abbraccio dello spirito umano libero da tutte le maschere con la totale trasparenza e
luminosità dello Spirito divino. È il discernimento del carattere illusorio di tutte le costruzioni dell’uomo, il raggiungimento della perfetta disponibilità della natura umana alle forze dello Spirito, la perfetta sottomissione di Maria al Verbo divino, la conquista della verginità dell’anima sulla quale il Verbo si posa come fiore sulla superficie pura dell’acqua. Ripulito lo specchio dell’anima da tutte le incrostazioni prodotte
dalle parole umane, su di esso si riflette il volto perfetto del Figlio di
Dio, e nell’uomo nasce, con la morte del vecchio Adamo, il nuovo Adamo, l’Iddio con noi.
Nell’anima della Vergine annunziata, dopo la dipartita dell’angelo e
la discesa in lei del Verbo eterno, dovette rimanere un’immensa dolcezza e un’infinita pietà per tutti gli esseri che, nell’attimo dell’incarnazione, divenivano automaticamente suoi figli, poiché l’essenza di ogni vita
si era resa attiva in lei. Per questo Maria, madre del Verbo, diviene la
madre ideale di ogni nato di donna.
I SERVI E LA VERGINE MADRE
161
In Maria l’intera umanità viene ad assommarsi, perché in lei si adempie il mandato di Eva: madre dei viventi.
«Non conosco uomo» significa gettarsi nell’abisso dell’amore divino, abdicando a tutto, anche alla propria natura, alla propria personalità: amare perdutamente solo per amore.
Questa consegna, attraverso le vie misteriose in cui gli archetipi di
un movimento si affermano, è stata vissuta dai Servi di Maria in maniera curiosa e degna di riflessione.
L’ordine dei Servi di Maria non ha una direttiva né di pensiero teologico né ascetico né mistico. Nelle discipline teologiche la ricerca dei
Servi di Maria varia tra agostinismo, tomismo, scotismo, neotomismo,
eccetera; nell’impostazione ascetica prevale il programma dell’«ecco la
serva del Signore»: apertura a tutte le ricerche di ascesi e di mistica, non
privilegiandone alcuna, per rimanere disponibili allo Spirito, che soffia
ove vuole, e per essere sempre attenti alla considerazione dei segni dei
tempi.
La nascita del Figlio di Dio
Anche il mistero della nascita del Figlio di Dio nella notte santa di
Betlem contiene delle precise indicazioni per il Servo di Maria. Gesù
nasce fuori delle città costruite dalla mano dell’uomo, nel silenzio
profondo di una grotta, da una Vergine purissima; è venerato da umili
pastori, attorniato da luci e canti non terreni. La sua manifestazione si
compie unicamente nel mistero divino e nel silenzio dei grandi eventi
divini.
La nascita eterna del Verbo, nell’anima del Servo di Maria, si compirà
nella lontananza dalle opere e dalle agitazioni degli abitanti delle città dell’uomo, nella terra verginale del suo essere purificato, nel silenzio profondo di una notte che ha spento le luci terrene, per accogliere le luci che
brillano nel cielo. Solo in questo spazio egli potrà portare agli uomini la
luce della redenzione.
Il servizio della Madre di Dio
Nell’episodio delle nozze di Cana la Vergine madre, colei che vivendo nel silenzio ascolta e risponde per prima, indica l’esaurimento di tutte le forme, addita che nella festa della vita, le nozze, tutto sta diventan-
162
GIOVANNI M. VANNUCCI
do triste, per la mancanza del vino, dell’ardore, dell’entusiasmo. E si rivolge al Figlio, perché ricolmi le forme esauste di nuova ebbrezza. La risposta che l’indicazione scarna ed essenziale della Vergine: «Non hanno più vino» riceve è rivelatrice della funzione della Vergine madre, e in
conseguenza di quella dei Servi, nell’economia della redenzione: né a
me né a te sola è affidato il compito di ridare la gioia nella festa della vita: tu sei la matrice che attende la fecondazione, tu sei la misericordia
trepida che avverte quando la vita vien meno. Io sono la vita fecondatrice, tu invece ascolti e prepari: dal nostro incontro nasce una più ardente vita.
Il Servo di Maria, nella sua silenziosa meditazione, avverte l’irrigidimento della lettera e l’esaurimento dello spirito nelle lettere pietrificate; accoglie la tristezza degli uomini che anelano a conoscenze più vere
e perfette, a un amore meno limitato, a una libertà più aderente alla natura dei figli; avverte e fa presente l’indigenza al Salvatore e prepara il
miracolo della trasformazione dell’acqua in vino. Pur sapendo che l’ora
del Figlio ancora non è venuta, ma che scoccherà quando la verità cristiana non sarà più contenuta nelle lettere di pietra, e sarà vissuta interiormente e personalmente da ogni umana coscienza, accelera in sé e attorno a sé l’avvento dell’ora del miracolo supremo della trasformazione
dell’uomo in figlio di Dio.
Maria ai piedi della croce
Maria è la mediatrice tra il mondo delle forme concrete e il Creatore.
In essa, specchio senza macchia, Dio specchiandosi vede la sua immagine riflessa senza alterazioni. Quindi Maria è la prima e unica creatura
che può comprendere Dio fuori di Dio e insieme può comprendere l’immagine divina dentro le profondità dell’uomo manifesto, dell’uomo che
vive nella storia. L’immagine pura dell’uomo come esiste nella mente divina, riflettendosi nell’umanità, incontra uno specchio maculato e viene
deformata; questa deformazione è la spada che trafigge la Mater doloris,
la Vergine addolorata.
Maria è madre addolorata perché pienamente consapevole delle
deformazioni che nella materia subisce l’immagine divina dell’uomo,
l’Uomo eterno, e vi partecipa lottando per abolirle, o almeno per vederle meno ripugnanti.
I SERVI E LA VERGINE MADRE
163
Maria, la prima creatura purissima, è per sua natura il dolore cosmico; ella sa, sa da prima, sa da sempre. Il suo è il gemito originale; insieme alla macchia originale vi è un lavacro originale che non conosce sosta né limite né fine. È il gemito della creazione che attende l’apparizione dei Figli di Dio (Romani 8). Chi è nato dallo Spirito affoga nella carne, chi doveva volare striscia, chi doveva dare un ordine al caos lo rende più vorticoso e viscido, chi doveva insegnare ha dimenticato se stesso. Tutto il dolore del mondo passa attraverso la Mater doloris come attraverso un filtro divino. Ella conosce le ferree leggi dell’ascesa della coscienza e si adopera perché siano rispettate. Essa sa che tutto il dolore
del mondo non è dovuto alle leggi evolutive; che molto di esso è imputabile al peccato, alla malafede, alla cattiva volontà; di questo ella soffre,
perché il male prodotto dal peccato non è espiabile se non attraverso un
più lungo dolore evolutivo: ogni colpa trascina con sé una pena.
La Mater doloris incessantemente fa opera di impetrazione, di intercessione, di correzione. Creata dall’Amore primo unicamente per amare, ama i peccatori di un forte e coraggioso amore.
Ama la creazione e ne tollera le storture adoperandosi a porvi rimedio; attraverso di lei le Erinni, le punitrici, diventano Eumenidi, le consolatrici. Nelle storture della creazione ella non celerà né scuserà il peccato, ma ne porrà in rilievo la causa e mostrerà come, a tutti gli effetti,
questa causa di male, inclusa nella natura peribile, può divenire ragione
di trionfo e gloria per la stessa Trinità.
A tutte le deviazioni di pensiero, di azione, di orgoglio, di ignoranza, contrappone la sapienza, la giustizia, la verità, l’amore: Sedes sapientiae, Speculum justitiae, Mater amoris, Mater misericordiae.
Il Servo di Maria vive il dolore della Vergine madre ritrovando in se
stesso l’immagine intatta dell’Uomo eterno, andando incontro in un senso
risolutivo alle deformazioni del suo tempo: cultura senza un centro, arte
che ha perduto i suoi contenuti eterni, deformazioni dell’uomo: droga,
violenza, smarrimenti di ogni sorta.
164
GIOVANNI M. VANNUCCI
L’assunzione
Il fatto dell’assunzione di Maria santissima nei cieli dice al Servo di
Maria: la tua carne è santa, essa deve esser guidata non dall’istinto ma
dalla mente, in essa è insita una natura spirituale per questo meritevole
di quella venerazione e rispetto richiesti dalle cose sacre; essa avrà parte alla tua gloria come ha avuto parte al tuo martirio.
Maria santissima è quella particella dell’universo creato che si è staccata, per la perfetta manifestazione in lei dello Spirito santo, dal tessuto
ordinario dell’umanità per ricomporre la materia con lo Spirito.
La nostra essenza pensante e amante non sarà dispersa: quando la
nostra ascesa sarà compiuta, il corpo terreno sarà trasformato in corpo
celeste, e allora risorgeremo da tutte le morti, e, compiuti e riconfermati, saremo accolti nel luminoso seno del cielo dei cieli. In questa visione
il Servo di Maria trova la sua pace, conosce il suo splendido destino verso il quale orienta ogni anelito, venera il suo corpo, cercando, se non di
renderlo puro, di non macchiarlo ulteriormente, e lo riguarda come
ampolla di un profumo prezioso che contiene lo Spirito santo, come
lampada raggiante.
Indicazioni per l’oggi
Terminata questa esposizione della via spirituale dei Servi di Maria,
ci domandiamo: quali indicazioni ci rivolge la Madre di Dio per una più
aderente impostazione del suo servizio nei nostri tempi? A mio parere
esse sono contenute in due parole della Silenziosa: «Tutte le genti mi
chiameranno beata!», e «Non hanno più vino!».
La prima invita i Servi a intraprendere coraggiosamente il cammino
dell’incontro di tutte le esperienze profonde dell’uomo.
«Tutte le genti mi chiameranno beata!» non è un’ingenua iperbole
di compiacenza per le grandezze in lei compiute dall’Altissimo, ma l’affermazione dell’immensa coscienza della prima Creatura, della Mediatrice di tutti i doni che ricongiungono la terra al cielo.
Percorrendo i libri sacri delle religioni umane, in quasi tutti troviamo la figura della Madre divina.
I SERVI E LA VERGINE MADRE
165
Nell’India essa è celebrata così:
Tu sei la luce splendida, tu sei la sovrana, il pudore, la sapienza!
Il tuo manto è la vigilanza, i tuoi nomi sono umiltà,
fecondità, gioia, pace!
Nella dimora dei giusti tu sei la signora,
l’intelligenza nei sapienti, la fede nel cuore dei santi,
la modestia nel cuore dei forti.
A te ci prostriamo, possa tu proteggere il mondo!
(Devı¯-Ma¯ ha¯ ma¯ ya)
Tu d’ogni grazia ricolma,
tu ornata di gioielli, tu che sola piaci al Signore,
ricordati di noi [...].
Del tuo sorriso perenne si allieta la terra,
tu che sei come noi, non essendo noi,
non sostare nelle gioie dei cieli poiché noi siamo sulla terra,
qui t’invochiamo in mezzo ai nostri dolori.
Tu che eterni lo spirito e la materia distruggi,
ricordati che di te ci hai generato.
(R
. gveda)
Nell’islam:
Fontana d’acqua fresca per chi muore di sete, mostrami la bellezza dei tuoi
occhi notturni; come sei bella, o dolcissima, il tuo collo di colomba ha tutti gli arcobaleni dei cieli lontani, la tua voce colma la mia notte!
Svelami i misteri che tu sola puoi dire, insegnami a camminare nelle vie della Sapienza.
Ch’io veda i tuoi occhi notturni prima di morire, ed Eblis, nella sua ira, non
potrà più nuocermi in eterno!
(Ismail Mulay Bey)
Non si tratta di fare dei facili e confusionari sincretismi, ma di sostare attenti e in silenzio di fronte a queste manifestazioni della coscienza
religiosa, di penetrarne l’essenza per comprendere con stupore e gratitudine che la Vergine-madre, la “Donna gentile” ed eterna è un incancellabile archetipo della coscienza umana, e in esso, pur nella molteplicità delle espressioni, possiamo riconoscerci come figli di un infinito
amore misericordioso che ci trascende e ci unifica in colei che da tutti è
166
GIOVANNI M. VANNUCCI
sentita «umile ed alta più che creatura, termine fisso d’eterno consiglio»!
Nel mio ordine, non come frutto culturale, ma come urgenza dei
tempi ormai maturi, l’istanza ecumenica è vissuta, nel silenzio e nella
speranza, da alcune piccole comunità religiose.
«Non hanno più vino!» ci dice la Vergine madre oggi, indicando le
innumerevoli schiere di uomini e di donne che si dibattono nella ricerca di dare un senso alla vita.
Questa esigenza è vissuta in alcune nostre comunità che aprono con
semplicità le loro porte e i loro cuori ai disperati, ai drogati, ai dimenticati.
Concludendo, la figura di Maria dall’ordine dei Servi non è considerata come oggetto sacro di devozione, ma come sorgente di acqua viva
che, attraverso il nostro servizio, attraverso la trasformazione dei religiosi nelle sue qualità, vuole essere comunicata a chiunque ha sete di
parole di vita eterna, di un amore dolce e provvido, di una bontà comprensiva, di una misericordia infinita.
Una miniatura iniziatica
della Congregazione dell’Osservanza
Nella pagina seguente:
Bulla confirmationis [...]. Roma, Eredi di Antonio Blado, 1567. Incisione f. 1v.: stemma
della Congregazione dell’Osservanza. Roma, Archivio generale O.S.M.
L’emblema riprodotto è una miniatura del secolo XV che apre le regole
della Congregazione dell’Osservanza dei Servi di Maria, ripresa in seguito
in alcune opere a stampa della stessa congregazione. Mi interesserò in questa nota solo del suo aspetto simbolico, rimandando agli studi storici su di
esso chi volesse saperne di più 1.
L’emblema rivela, fin dal primo colpo d’occhio, l’intenzione del suo
autore di comporre un’immagine che sintetizzasse l’essenza del cammino religioso ascetico della Congregazione dell’Osservanza; un’impresa che
nelle sue componenti figurative indicasse le finalità e le vie dell’ideale
specifico del gruppo.
Contiene diverse figure: due draghi eretti, collegati, alla base, dalle
code che si intrecciano e, al vertice, dalle lingue che si uniscono lambendo l’asta che parte dal nodo delle code e termina nel giglio che conclude nell’alto tutto l’emblema; sul collo di ambedue i draghi è posta
una colomba bianca. Dal nodo della base si erge un’asta che attraversa
una grande “S”, creando una spirale che forma due curve. In quella inferiore sono raffigurati i due san Giovanni: il Battista, con la veste gialla, la croce nella mano sinistra, l’indice della destra puntato verso l’alto;
l’Evangelista con il manto rosso e in mano il calice. Nella curva superiore
1
A.M. Vicentini, I Servi di Maria nei documenti e codici veneziani, Treviglio 1922,
I, pp. 345-347; D.M. Montagna, «Studi e scrittori nell’Osservanza dei Servi», in Bibliografia dei Servi, Bologna, II, 1972, pp. 295-313.
GIOVANNI M. VANNUCCI
170
è dipinta la figura del Crocifisso con il fianco aperto. Dai piedi del Crocifisso si innalzano due gigli con cinque petali. Le lingue rosse dei draghi si incontrano nell’asta che si allarga in una corona con tre gemme e
termina nella fioritura di altri tre gigli.
Per entrare nel significato dell’insieme emblematico, ci è necessario l’esame di ciascuna figura ricollegandola al più vasto linguaggio del
simbolismo religioso.
Il simbolo del drago
Il drago rientra nella categoria dell’immaginario zoomorfo dei mostri, la cui figura risulta dalla composizione di varie parti di animali, come il grifone, il cerbero, eccetera. Il mostro, la cui etimologia risale a
monstro – indico, rivelo – e a moneo – avverto, ammonisco –, è il segno
della trasgressione di un dato ordine costituito, sia in senso positivo – un
mostro d’ingegno –, sia in senso negativo – un mostro di crudeltà –. Il
suo significato rimanda a una realtà differente da quella ordinaria 2.
Il drago, il cui etimo sembra essere il sanscrito drk (occhio, sguardo),
è una composizione di elementi tratti da vari animali aggressivi e pericolosi: serpenti, coccodrilli, leoni, aquile, forse anche animali preistorici, con zampe, da due a sei, di leone o di aquila. Nel medioevo la forma
più frequente del drago ha il collo d’aquila, il corpo di un grande serpente, di sauro preistorico, le zampe di leone o d’aquila; le ali, a partire
dal XIII secolo, sono di pipistrello come il Lucifero dantesco 3. La coda
termina con una freccia ripiegata su se stessa. Nel nostro emblema la
freccia è stata sviluppata in due foglie di vite: forse uno sviluppo ornamentale oppure un richiamo alle parole di Cristo: « Io sono la vite vera», la vite che dà il vino e il sangue.
Nell’immaginario il drago ha un’esistenza reale, popola i miti, i testi
sacri, i sogni ove convoglia le forze e gli orrori della vita istintiva, inconscia, gestatrice e feconda. Dimora nelle grotte, nei crepacci, luoghi
oracolari e iniziatici, nei fiumi e nei mari; in Grecia traina il carro di Po2
3
M. Izzi, I mostri dell’immaginario, Roma 1982, p. 17.
J. Baltrausatis, Il medio evo fantastico, Milano 1973, pp. 159-176.
UNA MINIATURA INIZIATICA
171
seidon nell’aria 4. Il dominio del drago sono le profondità della terra, il
mare, i fiumi, le sorgenti, infine l’aria. I primi tre elementi lo ricollegano
alla femminilità gestatrice e feconda, il quarto all’ascesa nello spazio solare, apollineo. La figura del drago è ambivalente, costruttiva e distruttiva,
positiva e negativa. È l’oculato custode dei tesori; custodisce le mele d’oro
nel giardino delle Esperidi e la caverna dove Cadmo, per un oracolo di
Delfi, doveva costruire una città; Perseo combatte con il mostro che teneva prigioniera Andromeda; il drago custodisce il vello d’oro nel mito degli
Argonauti; san Giorgio libera la fanciulla dal drago 5.
Nelle fiabe popolari il drago è il guardiano d’un palazzo incantato o
d’una caverna ove sono ammassati dei tesori o nel cui fondo scorre
un’acqua miracolosa. Nella sua mansione di guardiano ha l’aspetto negativo, distruttivo di fronte all’incauto che l’avvicina impreparato; ma
quando l’assalitore, come Perseo, san Giorgio, eccetera, ha in sé le qualità dell’eroe, la sua sconfitta è rivelatrice della grandezza di chi lo uccide. L’uomo che osa attaccare il drago è l’eroe, che vince con le armi che
gli sono date dalla divinità e che hanno la loro efficacia per una chiaroveggenza spirituale nei confronti dei moventi che spingono all’azione e
per la purezza dell’azione. Così l’eroe mitico è l’esemplare della pulsione evolutiva: eroe che è tale per la comprensione ideale che ha della vita e per la sua realizzazione ideale, la sua sublimazione 6. L’eroe solo
può conquistare i tesori custoditi dal drago.
Nell’agiografia cristiana, oltre a san Michele Arcangelo e a san Giorgio, numerosi santi hanno vinto o domato i draghi: sant’Ammone pose
due draghi alla porta del suo romitorio 7; san Simeone lo Stilita convertì
un drago che si mise al suo servizio 8; san Bertrando de Comminge am4
«Un serpente d’acqua, il chuei yen, quando vuol divenire drago si copre di scaglie nel corso di cinquecento anni, diventa drago dopo mille anni, dopo altri millecinquecento anni gli spuntano le ali», Chu Yi Ki, in J.P. Clebert, Symbolisme animal, Paris 1971, p. 157.
5 Su san Michele e san Giorgio che uccidono il drago cf. la bella monografia di
Ch. Morazé, La logique de l’histoire, Paris 1969.
6 P. Diel, Le symbolisme dans la mythologie grecque, Paris 1966.
7 PL XXI, 420-21.
8 PL LXXIII, 330.
GIOVANNI M. VANNUCCI
172
mansì un feroce coccodrillo 9; santa Marta catturò il mostro per liberare dalla sua ferocia gli abitanti di Tarascona 10.
La sacra scrittura sottolinea l’aspetto negativo del drago o del serpente: è il tentatore che fa cadere Adamo ed Eva (Genesi 3; cf. Isaia 29,
3; 32, 2), è colui che consegna il potere alle due bestie dell’Apocalisse
(13,1-11).
La faccia tenebrosa del drago non è l’unica: accanto ad essa c’è quella opposta, datrice di vita non di morte. Nel libro dei Numeri (21, 4-9)
è riportato un episodio interessante: il popolo, in seguito a una delle sue
frequenti ribellioni nel deserto, fu punito con un’invasione di serpenti
velenosi; fu possibile scongiurare il flagello cambiando la posizione del
serpente: da orizzontale il serpente, nella raffigurazione fatta da Mosè,
divenne verticale, eretto, e fu strumento di guarigione. A questo episodio vanno accostate le parole di Cristo:
Come Mosè eresse il serpente nel deserto, così il Figlio dell’uomo dovrà essere innalzato perché chi crede in lui abbia la vita eterna (Giovanni 3, 14).
Il drago, o il serpente che striscia sul suo corpo, è la figura della pulsione che vuol ricondurre la creazione nel caos; nella misura in cui si erge, e fa ascendere la linfa dalle radici alla corona del fogliame, è principio di vita e di trasformazione.
Qual è il significato del drago? Il Piobb ne spiega la figura composita come la fusione e l’unione delle componenti dell’uomo: l’aquila indica le potenzialità di ascesa e di sublimazione; il serpente le potenzialità
che nascono dai recessi più segreti della psiche; le ali il potere di elevazione intellettuale; la coda, per la sua terminazione a freccia che richiama quella del segno zodiacale del leone, indica la sottomissione delle
forze istintive alla ragione 11.
Nel pensiero tradizionale il serpente e il drago raffigurano due pulsioni: una, la pulsione fusionale, la tendenza a rimanere fissi nell’indistinto, nella non responsabilità, a riportare il cosmo al caos: e quest’a9
J. Soulerat, St. Bertrand, Albi 1957.
Leggenda Aurea, Firenze 1952, pp. 438-442.
11 P.V. Piobb, Clef universelle des sciences secrètes, Paris 1950.
10
UNA MINIATURA INIZIATICA
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spetto negativo del serpente e del drago richiede il combattimento dell’eroe che, vittorioso, può rapire i tesori, la fanciulla, custoditi dal drago; l’altra, la pulsione ascensionale, evolutiva, manifesta il secondo
aspetto del serpente e del drago: l’aspetto vivificante, ispiratore, attraverso il quale tutta la linfa sale alla chioma dell’albero, vi viene integrata e glorificata. La prima pulsione, fusionale, porta alla destrutturazione psichica, la seconda, evolutiva, porta alla strutturazione della psiche
attraverso l’orientamento verticale, l’integrazione di quelle forze che,
non controllate, riporterebbero l’uomo al caos.
Le interpretazioni che del drago danno gli psicanalisti sono riduttive. Così M. Bonaparte:
Il tema del drago che viene ucciso per impossessarsi di una fanciulla o di un
tesoro è vecchio come il mondo. È un tema edipico per eccellenza: il drago, simbolo del padre, è ucciso; la madre liberata è la preda del figlio vincitore. Tale è il tema della leggenda di Perseo e di Andromeda, di Sigfrido
e di Brunilde 12.
Karl Gustav Jung riconosce nel drago la “madre terribile”, il cui
amore è abusivo e distruttore; è anche la legge draconiana secondo un
facile e significativo gioco di parole. Il drago da vincere è la resistenza
contro l’incesto. Il drago e il serpente, con la loro accumulazione di attributi angosciosi, simboleggiano l’ansia che nasce dall’inibizione del
desiderio incestuoso 13.
Il simbolo del drago, polivalente come tutti i simboli, non può esser limitato a un solo significato, ed è più nel giusto il poeta che scrive:
Tutti i draghi della nostra vita sono, forse, delle principesse che attendono
di vederci belli e coraggiosi. Tutte le cose terrificanti non sono, forse, che
delle cose senza soccorso che attendono che noi le soccorriamo 14.
In questa prospettiva l’interpretazione dello Jung è più ricca di quella surriferita dello stesso autore:
12
M. Bonaparte, Edgar Poe, Paris 1958, 2.311.
K.G. Jung, La libido, Torino 1965, p. 258.
14 R.M. Rilke, Lettere a un giovane poeta, Urbino 1952.
13
GIOVANNI M. VANNUCCI
174
Il tesoro che l’eroe trae fuori dall’antro oscuro è la vita, è lui stesso rinato
dall’oscuro antro del grembo materno dell’inconscio, nel quale era stato
trasportato a opera dell’introversione o della regressione. Considerato come colui che resta stretto alla madre, l’eroe è il drago; considerato come colui che rinasce dalla madre, è il vincitore del drago 15.
I draghi dell’emblema
Cerchiamo ora di comprendere il significato dei due draghi dell’emblema.
Il drago risulta in uno stretto contatto col mondo dell’aldilà. E questo non
può non farci ritornare a un tema iniziatico. Ci conferma in questa ipotesi il
fatto che la capanna dove vengono isolati, in moltissime culture, i giovani
iniziandi ha spesso la forma della gola aperta di un mostro. L’ingresso della
capanna, sostitutivo dell’inghiottimento di un mostro, ha il valore di un
simbolico regressus ad uterum che prepara una seconda nascita 16.
I due draghi che incorniciano l’emblema indicano chiaramente che
la Congregazione dell’Osservanza sente se stessa come un gruppo iniziatico; la natura dell’iniziazione impartita verrà specificata dalle immagini della colonna centrale.
Perché due draghi? L’immagine dei due draghi o serpenti è antichissima e corrisponde a quel processo immaginario di contrapporre a un
aspetto negativo un altro positivo che esorcizza il primo. Così accanto
al cavallo ctonio troviamo il cavallo solare; accanto al sole nero il sole
diurno; accanto ad Eva, la portatrice del male, l’Eva futura che gestirà
la salvezza 17.
Nello Zohar è scritto:
Il serpente malefico, volendo giungere al suo scopo e inquinare la santità
dell’alto cominciando a inquinare l’uomo che vive nel basso [...], ha intro15
K.G. Jung, op. cit., p. 365.
M. Izzi, op. cit., p. 122.
17 G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Bari 1972, pp. 61-81.
16
UNA MINIATURA INIZIATICA
175
dotto la morte nel mondo. Egli emana dal lato sinistro [...]. Ma c’è un altro
serpente che emana dal lato destro. I due serpenti accompagnano l’uomo
durante la sua vita18.
La von Heuer commenta questo testo:
Esistono due serpenti: il serpente o il drago, che Giovanni di Patmos chiama Satana, controlla i bassifondi dell’umanità e domina la sfera passionale
delle masse; e il serpente verde o serpente di Iside che integra andando
avanti il primo serpente. Satana indica la resistenza, resiste allo spirito, ciò
che lo rende sorgente del male. La pigrizia spirituale è la tentazione suprema. Satana ci tiene schiavi mediante gli arcani della natura elementare – il
petrolio, l’uranium sono il suo dominio. È lui che agisce attraverso i nostri
istinti, in noi egli è l’accusatore e il persecutore. Se uno non ha incontrato
Satana, non conosce a fondo l’animale uomo.
Il nome di Iside evoca il trono di Dio, la natura. È la forza evolutiva che indica all’uomo il cammino verso l’origine, nel cuore del tutto. È la guida lungo il cammino della conoscenza, Iside rigeneratrice e mediatrice spirituale
(il serpente verde placa la follia di Satana e pone un termine al suo livore).
Essa affronta tutti i mali, perché i combattimenti e le lotte sostenuti dagli
esseri umani con coraggio non si dileguino nel silenzio e nell’oblio. Il significato di Iside non diventa chiaro finché non avremo compreso che essa è il
coraggio e la misericordia.
Il primo serpente ha proclamato l’unità di ciò che è nel basso e la diversità
di ciò che è nell’alto; ha invertito e contraffatto le cose, confuso l’alto col
basso. Nell’anima esiste un elemento maschile, un fuoco che brucia nell’ininterrotto ricordo della luce di cui tutto è tessuto. Nello spirito esiste un
elemento femminile che collega l’anima allo spirito. Lo spirito in sé è ciò
che ha coscienza di tutto in ogni luogo. L’anima è ciò che introduce questi
elementi nella cornice spazio-temporale. Per lo spirito l’uomo è figlio di
Dio, per l’anima è figlio dell’uomo. L’anima ci dà un posto tra le strutture;
lo spirito invece è all’inizio e al termine della struttura, all’inizio dell’involuzione e al termine dell’evoluzione 19.
18
Lo Zohar è il testo fondamentale della qabbala, redatto in Spagna alla fine del medioevo sulla base di tradizioni molto anteriori. È formato da una serie di commentari al
Pentateuco e al Cantico. In esso si gettano le basi di un sistema metafisico-gnostico di inestimabile valore, destinato a influenzare in modo determinante il successivo pensiero
esoterico e teosofico dell’occidente. Le livre du Zohar, Paris 1925, 1, 52.
19 A. von Heuer, Le huitième jour, Genève 1980, pp. 55-57.
GIOVANNI M. VANNUCCI
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Nell’antichità cristiana, accanto al drago maledetto e malefico, esiste
l’agatho-dáimon, il demone buono di cui parla Svetonio, il buon drago
considerato come immagine di Cristo. Il simbolo Cristo-drago sembra
sia stato provocato dal singolare comportamento dell’idra del Nilo che,
ricoprendosi di fango, si fa ingoiare dal mostro per rosicchiargli gli organi interni 20. Nel caduceo di Hermes troviamo i due serpenti, con due
ali attorcigliate attorno a un’asta.
Il simbolo è antichissimo: lo troviamo in un vaso sacro del re Gudea
di Lagash (2600 a.C.), forse simbolo della divinità che cura ogni genere
di malattia, significato che attraverso la cultura greca è giunto fino ai
nostri emblemi delle farmacie. Per i romani era il simbolo dell’equilibrio e del giusto comportamento. L’asta centrale raffigura l’autorità, il
potere; i due serpenti la sapienza; le ali l’impegno. Significa anche l’integrazione dei quattro elementi: l’asta centrale corrisponde alla terra, le
ali all’aria; i serpenti corrispondono al fuoco e all’acqua, in analogia al
movimento ondulatorio della fiamma e dell’acqua.
Fino a oggi il caduceo ha costituito l’insegna dei vescovi cattolici
dell’Ucraina. In generale è il simbolo di un equilibrio attivo di forze opposte e sottolinea il perfetto stato di forza, di autocontrollo e di salute
che si attua sul piano degli istinti, i due serpenti, e sul piano dello spirito, raffigurato dalle ali 21.
Concludendo, i due draghi del nostro emblema indicano la natura
iniziatica del gruppo religioso che l’ha composto. L’iniziazione proposta
vuole abbracciare tutto l’uomo, le sue parti istintiva, emotiva, mentale,
spirituale, ricomposte nell’unità dell’ascesa e della trasfigurazione, lo
spirito che diventa carne, la carne che diventa spirito, perché tutto l’uomo sia reintegrato nella luce solare dell’eroe che vince il mostro.
Se l’uomo esperisce solo la sua parte superiore, l’Io e la coscienza, come
umana, e la sua parte mitica e inferiore come un mostro ostile, viene indotto a un’autointerpretazione, per cui si ritiene decaduto e prigioniero di un
peccato originale; l’uomo poi spiega se stesso e insieme, spesso, anche il
processo storico come caduta di una parte luminosa spiritualmente supe-
20
21
J.P. Clebert, op. cit., p. 161.
J. Boulnois, Le caducée, Paris 1939.
UNA MINIATURA INIZIATICA
177
riore, in un contro-mondo inferiore, concepito nell’immagine del mostro.
Non ci può essere autorealizzazione se non s’intraprende la via misteriosa
verso il santuario interiore e nascosto, in cui risiede l’unità perduta dell’essere 22.
Karlfried Graf Durckheim racconta un suo incontro con un eremita:
Molto tempo fa, nei dintorni di Parigi, incontrai un uomo straordinario, il
padre Gregorio, un eremita che dipingeva delle icone. Tra esse quella di
Cristo che s’inchina pieno d’amore verso Adamo, nell’Inferno. Gli chiesi:
«Cosa rappresenta per te questa icona»? Rispose: «Se l’uomo, incontrando se stesso nel più profondo di quanto in lui c’è di basso e di malvagio, è
capace di abbracciare questo drago e di unirsi a lui, allora in lui esplode il
divino ed è la risurrezione! Quando l’uomo ha toccato il bianco assoluto e
il nero assoluto nel mondo e in se stesso, allora può incontrare la Realtà:
quella che è oltre gli opposti. Non esistono soltanto gli opposti sul piano
dell’esistenza, ma anche quelli che l’uomo incontra su quello della trascendenza. Non c’è soltanto il drago nero, ma anche quello bianco. Chi
vuole sviluppare la coscienza che trascende quella del bianco deve integrare il drago nero 23.
I due Giovanni e il crocifisso
Ora intraprendiamo la via del santuario interiore descritta dalle immagini contenute nel riquadro centrale dell’emblema.
San Giovanni Battista e san Giovanni evangelista sono le prime figure che l’aspirante adepto incontra nel suo pellegrinaggio di trasfigurazione.
San Giovanni Battista, la cui commemorazione nell’anno liturgico cade tre giorni dopo il solstizio estivo, quando la luce solare decresce, ricorda all’iniziando la necessità della mutazione di mente, l’immersione
nell’acqua che, abolendo il passato, lo purifica, l’inizio del cammino che
lo condurrà al battesimo di fuoco e di sangue. Cambiate mente, incon-
22
D.V. Caggia, L’eroe, il drago e l’anima, Roma 1980, p. 84.
Cit. in A. de Souzenelle, L’arbre de vie, Dangles, 1977, pp. 176-177. [Cf. anche
Id, Il simbolismo del corpo umano, Servitium, 1999, p. 265.]
23
178
GIOVANNI M. VANNUCCI
trerete colui che vi immergerà nello spirito; fatevi decapitare perché il
vostro compito alla soglia del santuario è di diminuire perché la luce divina cresca in voi: sono le austere consegne del Battista rivolte a chi è deciso a intraprendere la ricerca della trasfigurazione.
Egli è vestito di pelli d’animale, mangia dei cibi selvatici: è l’uomo che,
separandosi dalle culture costituite, ritorna allo stato anteriore al costituirsi delle civiltà. La sua tunica è gialla, il colore delle spighe mature e anche quello della terra quando è spoglia del suo verde manto. Colore che
annuncia il declino cui deve succedere un rinnovamento. Colore divino
per il suo splendore, colore terreno in quanto evoca l’effimericità delle
cose: è il colore dell’intelligenza razionale che, quando è sviluppata debitamente, aderisce a ciò che ha pensato prima della formulazione del pensiero. È anche il colore dei conduttori delle anime dei defunti verso la vita eterna. I cani infernali hanno gli occhi gialli, per meglio vedere il segreto delle tenebre e le orecchie tinte di giallo e bianco. In Cina le sorgenti gialle conducono al soggiorno dei morti.
Il Battista ha in mano il bastone che termina con la croce e l’indice della mano destra puntato verso l’alto. Il bastone è nella tradizione iconografica un supporto magico: il bastone del pellegrino, il vincastro del pastore, il pastorale dei vescovi, senza dimenticare la bacchetta magica delle fate, raffigurano la conoscenza delle leggi che presiedono alla formazione del cosmo. L’indice diretto verso l’alto è il segno dell’intelligenza e
della direzione che le energie devono prendere nell’iniziazione: l’alto.
L’evangelista ha una veste azzurra coperta da un manto rosso e tiene
nelle mani il vaso sacro. L’azzurro è il simbolo della materia vergine, il
soffio primordiale, il grande mare etereo. Colore della verità, del cielo
diurno, delle acque calme che riflettono il cielo, simboleggia le manifestazioni più specificamente femminili, come la compassione, la maestà
sovrana, la grazia seducente e la capacità di penetrare i misteri. Il rosso, il
colore del fuoco e del sangue, è l’immagine dell’energia vitale, del suo dinamismo, della sua forza, associato alla pietra filosofale, la pietra che porta il segno del sole, del fuoco e dello spirito. Per non debordare in istinto
di potenza, il rosso deve esser dominato dall’aspirazione spirituale nata
da un alto livello di coscienza: il colore azzurro.
La coppa che l’Evangelista tiene nelle mani è il Graal, il calice che
raccolse il sangue di Cristo crocifisso; è l’omologo del cuore che deve
UNA MINIATURA INIZIATICA
179
raggiungere l’immortalità e la conoscenza acquisite attraverso la morte
e la rinascita iniziatica.
L’uomo vecchio, rivestito di pelli d’animale, è privo del suo polo di
luce, cammina verso la morte. Quando l’umano diminuisce e il divino
cresce, l’uomo s’incammina verso le vesti di luce ed entra nel suo vero
essere, la pienezza della vita.
Le feste dei due santi, nell’anno liturgico, cadono il 24 giugno quella del Battista, il 27 dicembre quella dell’evangelista: ambedue dopo i
due solstizi annuali. Date che assumono quelle di celebrazioni precristiane, le feste delle due porte zodiacali: la porta degli uomini, solstizio
estivo: il sole rientra nella caverna cosmica, discesa agli inferi, giudizio
sulle troppe ingiustizie umane; la porta degli dei, solstizio invernale: il
sole riprende la sua ascesa, la vita rifiorisce, la morte è vinta.
L’accostamento dei due Giovanni, nell’anno liturgico e nell’emblema, ricorda l’immagine di Giano bifronte: un volto verso il passato, l’altro verso l’avvenire; al centro il volto non espresso: l’istante inafferrabile che unisce il tempo e l’eternità. Nell’emblema il volto centrale è
espresso, Cristo crocifisso: egli è l’istante eterno, colui che era, che sarà
e che è. In lui l’ineffabile si rivela, l’inafferrabile si lascia afferrare, l’immortale abbraccia la vita e la morte e le trasferisce in un superiore piano di realtà.
L’occhio sinistro si spenge, l’occhio destro si spenge; l’occhio frontale
si apre e vede in Cristo il vero Lucifero; l’uomo vecchio muore e rinasce in
colui che non morirà, perché aperto alla luce.
Non più luna, occhio sinistro e passato; non più sole, occhio destro e futuro, ma l’operatio solis, sole e luna insieme nel “terzo occhio”, nel presente
eterno del volto invisibile di Giano, nella dimensione metastorica e transpersonale del Graal 24!
24
G. Di Bartolo, «Il Capricorno», in Il Minotauro, Roma 1981, pp. 45-50.
180
GIOVANNI M. VANNUCCI
Le colombe
La storia della colomba comincia dall’arca di Noè, quando il bianco
volatile torna con un ramo di ulivo nel becco, annunciando la fine dell’opera al nero del diluvio e l’inizio di quella al bianco. Nel linguaggio alchemico è il segno della trasmutazione avvenuta. È l’anima segreta e candida delle cose, la sua estrazione va compiuta con grande dolcezza e sapienza; è la pulsione segreta della materia verso la luce, il “corpo minerale”: l’uomo inferiore non deve essere danneggiato da un troppo violento processo di purificazione e neppure l’anima può essere aggredita
da un amore violento. La trasfigurazione si compie mediante l’assimilazione e la crescita del dolcissimo fuoco dell’amore di Cristo. Amore di
consumazione perché i draghi della natura, umana e cosmica, vengano
ammansiti e diano la loro opera per la trasfigurazione.
La colomba era ritenuta sine felle, senza l’amarezza del fiele: l’amarezza nasce dalla violenza; l’ascesa è il risveglio delle tendenze nobili di
un essere e va compiuta non con l’aggressività, ma con una praeparatio
delicata, come dice l’alchimista Senior. È un’opera di maieutica: la materia va assistita con la delicatezza e la sapienza di una levatrice. Sulla
porta Ermetica di Roma è scritto: «Quando in tua domo nigri corvi parturiunt albas columbas tu vocaberis Sapiens»25.
Il simbolo delle colombe, l’essenza della luce che va estratta con
amorosa cura materna dalla materia ove è sepolta, mi sembra costituisca un monito per il gruppo iniziatico degli Osservanti, in un tempo in
cui i draghi stavano riconquistando la loro violenza bruta: è il periodo
del concilio di Trento, in cui nascevano le teocrazie cristiane, distruttrici delle scienze divine e si creavano le nuove inquisizioni dei re cattolicissimi e cattolici, degli imperatori asiatici. Le due colombe indicano la
via dell’umile amore per tutte le cose.
Il problema era sentito da altri. L’alchimista Nuysement lo considera con più freddezza e forse la sua maggior conoscenza dei ritmi e dei
25 Quando neri corvi nella tua casa partoriscono bianche colombe sarai chiamato
sapiente.
UNA MINIATURA INIZIATICA
181
simboli cosmici gli apre la visione di una ripresa, dopo le devastazioni,
dell’immortale spirito dell’uomo.
Le colombe sono morte: le vidi trasformarsi in due candide colombe, quindi trasformarsi in Fenice che, simile al sole, spiegò le sue luminose ali, libere dalle Parche, e ascese nel luminoso cielo 26.
I gigli
Nella profezia di Gioacchino da Fiore, i gigli sono il fiore della terza
età dello Spirito: «La fioritura dell’era del Padre furono le ortiche, quella
dell’era del Figlio le rose, la terza porterà i gigli».
Il giglio, nell’esperienza alchemica, è l’immagine della sostanza bianca femminile e dell’argento; essa svolge un importante ruolo nella trasfigurazione della materia 27.
I cinque gigli: il numero cinque è il segno dell’unione del primo numero pari e del primo dispari: 2 + 3. È il numero della quintessenza,
dell’armonia e dell’equilibrio. I pitagorici lo chiamano il numero nuziale, delle nozze del principio celeste e di quello terrestre.
La corona
La corona è il coronamento dell’opera iniziatica: se l’uomo non è
stato divorato da alcun dragone, supera tutte le contraddizioni, si unisce col mistero dell’unità divina e può pronunciare le parole estreme di
Gesù: «Dio mio, Dio mio, come mi hai incoronato!».
Conclusione
Riprendendo il nostro emblema, vi distinguiamo tre piani.
Il primo in basso contiene la fusione caotica nel nodo delle code dei
draghi e insieme le guide del passaggio agli stadi superiori: i due Giovanni, il decapitato e il portatore della coppa redentrice.
26
J.Ch. Pichon, Le jeu de la réalité, Strasbourg 1982, pp. 104-105.
Il giglio, per gli alchimisti medievali, è l’elemento femminile nell’uomo, l’anima
femminile che eleva l’uomo verso l’alto.
27
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GIOVANNI M. VANNUCCI
Nel secondo piano, quello centrale, la via per giungere alla riunificazione: la vita e la morte, il figlio dell’uomo e di Dio, integrati dalla croce.
Nel terzo spazio i segni della trasformazione compiuta: le colombe,
i cinque gigli, la corona. Via nuziale costellata da continue morti e resurrezioni, via di un movimento di ritorno dello spirito, perché la materia diventi pura e splendida nella sua glorificazione.
Forse l’autore dell’emblema si ricordava di quelle parole che Seneca
scrisse:
Luminosa è la virtù alla quale noi aspiriamo: non le basta renderci felici per
l’assenza del male, ma, liberando lo spirito, lo rende capace di conoscere le
realtà celesti e degno di partecipare alla vita di Dio.
Spero che queste brevi note abbiano aiutato il lettore, come hanno
aiutato me, a uscire per un istante dal mondo banale in cui viviamo, e
sognare un mitissimo sogno di ascesa.
David M. Turoldo
INNI E POESIE
INNI E POESIE
Dio non fa più paura
Come possiamo cantarti, o Madre,
senza turbare la tua santità?
senza offendere il tuo silenzio?
Non abbiamo altre speranze,
non fiducia nelle nostre preghiere,
ma tu hai trovato grazia presso Dio.
Sei la nostra natura innocente,
la nostra voce avanti la colpa,
il solo tempio degno di lui.
Per questo è venuto sulla terra,
uomo in tutto simile a noi:
ora Iddio non fa più paura...
185
186
DAVID M. TUROLDO
Anche Dio sarà triste
Antifona
Vergine o natura sacra,
piena di bellezza
tu sei l’isola della speranza.
Rorate coeli
Vergine Madre della grazia
stendi ancora il tuo velo
ai campi devastati;
sola terra intatta,
ritorna a partorire subito
e sempre, in mezzo al grano
al limite dissacrato delle selve.
Vergine, o festa di nozze,
grembo carico del Dio
gridato dalle pietre e pianto
dalla fonte al costato della montagna
sotto la violata luna,
vieni e partorisci lì nella tana
del serpe dal ventre gonfio.
Vergine, che fasci il globo
con bende di luce, nuvola
di fuoco nel cielo diaccio
o di ristoro e profumo all’arsura
gialla dell’estate, ritorna
e partorisci subito e ovunque
il Signore della vita.
INNI E POESIE
Ingemiscit natura
Piangono le vigne ai piedi degli olmi
in un groviglio di edera e sterpi,
i meli incurvano sotto favi di vermi
il fico matura bacche di veleno
l’ulivo è irto di spini acutissimi,
il platano è cadavere sulla ghiaia
che pare una dentiera al torrente
senza speranza di acque;
e gli agnelli, tutto un belato
per i prati a succhiare invano
le mammelle aride alle madri.
Vergine, se tu riappari
i fiumi rispargeranno letizia
da mare a mare e le stagioni
riprenderanno il corso
e più non romperà le dighe il mare.
I fanciulli sorrideranno ancora
e noi, inevitabilmente colpevoli,
non piangeremo d’esser nati.
Tempo dei sette sigilli
Il pane si è fatto di sasso
mentre lo portavamo alla bocca;
e le case divenute prigioni
e la ragione un lucido delirio.
Vergine, fanciulla giovane
madre, se tu non riappari
anche Dio sarà triste
e non avrà più delizie
a stare coi figli degli uomini,
né s’aprirà uno spiraglio all’arca
dopo questi ininterrotti diluvii.
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DAVID M. TUROLDO
Per sette e sette anni ha rovesciato
il cielo cateratte
d’acque e grandine e fuoco;
per sette e sette anni
una furia sola di gelo e sassi.
Oh, quanti son morti, quanti
cadevano schiacciati per le strade
e nessuno poteva ritornare indietro
a prendersi un mantello,
a salutare sua madre.
E dopo, ancora sette e sette
anni d’arsura succedevano
lentamente e senza pietà.
Le città non davano più ombra
gli alberi eran schiomati e calvi,
non avevano più ombra;
nessun riparo nelle braccia delle madri!
Non facevano più ombra
neppure i veli degli altari.
Il sole ci pendeva con infinite spade
a strapiombo sul capo
giorno e notte, e tutte le case
erano di viva calce bianca.
Vergine, radice e pianta sempre verde,
colomba dello spirito nuovo,
trasvola ancora sulle acque
in cerca di un nido fra le rocce:
e cesseranno le acque di devastare la terra.
Stendi le tue ali al sole:
e cesserà la bufera del sole
a disseccarci ragione e sensi.
Arca vera dell’alleanza
tra uomo e natura, ritorna!
Caravella che porti il Signore
INNI E POESIE
189
sotto la vela bianca,
regina e amante e madre,
Egli torni
fanciullo
a giocare...
Andrai – così ti preghiamo –
per l’Europa e l’Asia a deporre
– avanti che la paura nuovamente
distrugga le capitali maledette –
il tuo frutto dietro le alte mura.
Volerai tra guglia e guglia
intorno alle cupole,
entrerai dalle ogive delle chiese
e dietro le selve dei grattacieli, nel cuore della reggia e in mezzo alla steppa:
emigrerai pellegrina e subito
e ovunque partorirai tuo figlio
gioia e unità delle cose,
o eterna Madre.
190
DAVID M. TUROLDO
Magnificat
Era bellissima e luminosa come l’alba,
per la grazia che aveva nel cuore,
per l’amore che sentiva per Iddio
e per tutte le creature:
un amore che l’aveva spinta fin dall’infanzia
a offrirsi tutta al Signore,
affinché venisse finalmente al mondo
colui che doveva salvare l’umanità da ogni cattiveria,
colui che liberasse il mondo dal vero grande peccato.
Il vero peccato è non amarsi, non volersi bene,
non perdonarsi l’un l’altro,
non aiutarsi come fratelli:
perché noi siamo tutte creature di Dio.
E dunque questa fanciulla,
benedetta fra le donne,...
accudiva a tutte le faccende domestiche
con molta diligenza;
teneva la casa pulita e in ordine,
andava alla fontana, ma non si fermava
a chiacchierare sulla piazza.
Era gentilissima con tutti, sempre serena,
ma molto riservata; per la strada
salutava tutti appena con un sorriso.
A sera cuciva, lavorava con gioia;
spesso cantava dei salmi, che erano
le preghiere del popolo ebraico
tante volte salvato da Dio.
Così cantava:
INNI E POESIE
L’anima mia glorifica il Signore,
lo spirito mio esulta di gioia
in Dio mio salvatore.
Egli ha guardato all’umile sua ancella:
da ora tutte le generazioni
mi diranno beata.
Ha fatto in me cose meravigliose
colui che solo è l’onnipotente;
santo è il suo nome:
misericordia e amore senza fine
egli effonde su ogni progenie
dell’uomo che lo teme;
ha scatenato la forza del suo braccio
e ha sconvolto i pensieri nascosti
nel cuore dei superbi;
ha rovesciato dai loro alti troni
quanti fidavano nel solo potere
e gli umili ha esaltato;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato con le mani vuote
i sazi di ricchezza.
Egli ha soccorso Israele suo servo
nella memoria perenne e fedele
del suo grande amore:
come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e a tutti i suoi discendenti
nei secoli per sempre.
(Luca 1, 46-55)
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DAVID M. TUROLDO
Preghiera alla Vergine
Vergine, come si inarcavano sul tuo capo
i cieli e si posava sopra le tue mani
l’ombra degli uccelli quando
Tu stavi alla fontana? Come
ti attraversavano le primavere e gli autunni?
O, forse, nulla ti apparteneva di noi
di questa sorda delusione
che è nostro pane di maledetti,
sostanza di giorni sempre affamati.
Forse Tu non attendevi alcuno,
Tu non avevi cercato
mai nulla alla terra;
non sapevi il nostro desiderio
e così hai potuto generare, intatta,
Chi già ti riempiva
come un lago colmo.
E non eri Tu a guardare la pianura
e le vigne; esse, incantate
fiorivano ai tuoi piedi.
E il giorno per te non aveva
la figura di una prora oscura
sul ciglio dell’abisso,
confine a un domani senza volto,
a un giorno che potrebbe non sorgere.
Il tuo era una fiaba, la strofa
di un racconto in cui Tu eri Regina;
una ad una le ore scendevano
dalla torre dell’Eterno
in un sussurro che Tu neppure avvertivi.
INNI E POESIE
Per noi invece la sorpresa
dei rintocchi lugubri; per noi
la paura che non passino e la paura
che passino. E la tua notte
non era notte: non era
finestra aperta su alcun mistero,
e nemmeno presagio di quiete.
Eri Tu il mistero, la radiosa Notte
che racchiudeva il Giorno,
che avrebbe rivestito di carne la Luce
e dato un suono al Silenzio.
Tu non guardavi mai fuori.
Di fuori per te la pietra
era pietra, l’albero albero
e la voce dell’usignolo era
come acqua chiara. Ma dentro Tu eri
una riviera spalancata sull’oceano.
O Vergine, integra essenza della nostra
turbata immagine, segnale d’approdo agli evi,
alle strade di tutta la terra; Madre,
pietà per la torbida gioia mia
di sentirmi diverso, per la condizione
non voluta d’esserti sfondo,
muraglia d’ombra al tuo chiarore
e al sole di tuo Figlio.
Perdona il disperato amore
che mi spinge di notte in notte,
onde, pur senza abbandoni,
io amo creature: e a vicenda
ci conclamiamo immortali
con la morte sulle braccia,
con musiche senza eco in cuore.
Perdona questi giri violenti
del sangue e l’arsura dei fiumi
nell’alta estate; a noi
che sappiamo dapprima il frutto
delle nostre mietiture.
193
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DAVID M. TUROLDO
Ecco, Vergine, Tu non avevi
la nostra meraviglia, lo scompiglio
dei fili che si rompono, quando da noi
e non d’alcun angelo, scopriamo
la parola cercata, il segno
preciso al miracolo.
L’averti Egli abitata
ti ha dato una sola direzione;
mentre se il nostro sangue
è capace d’imboccare la strada
di una casta concupiscenza,
pure allora, forse, tutto
può essere perduto.
Vergine, o armonia libera,
semplicità agognata e impossibile.
INNI E POESIE
Si è aperto il Cielo
(Luca 1, 26-27)
Com’era l’angelo, o dolce fanciulla?
Come parlava: da dentro il tuo cuore?
Era la voce di tutti i profeti
che risuonava dal libro più antico.
Certo tu eri la figlia fedele,
figlia di Sion, la terra in attesa,
isola intatta che l’albero porti
della speranza per tutto il creato.
S’è aperto il cielo sul nostro destino
per abbassarsi e calarsi su noi:
perché da un angelo udissimo quanto
la nostra storia coinvolge l’eterno!
Ora saremo i congiunti di Dio,
sarà la terra per sempre il paese
delle sue nozze, la stanza o riviera
ove si abbracciano l’uomo e il suo Dio.
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DAVID M. TUROLDO
Sei la terra obbediente
(Luca 1, 38)
«Eccomi, sono l’ancella di Dio,
secondo quanto hai detto si compia».
Tu sei la terra obbediente, Maria,
la creazione che ama e adora.
Tu sei la figlia fedele di Sion,
radice santa che genera il fiore
da tutti atteso invocato sperato,
fiore di luce nel nostro deserto.
Così la chiesa ogni giorno ripeta
queste parole dell’umile serva,
e tornerà tutto come all’origine
quando Iddio camminava nell’Eden.
Sia gloria al Padre al Figlio allo Spirito,
che dal principio han rifatto le cose:
ci hanno dato una Vergine madre,
bellezza intatta di tutto il creato.
INNI E POESIE
Come gazzella
(Luca 1, 39-46)
Che cosa, o Donna, ti spinse al viaggio
con dentro il cuore l’annuncio divino?
Come gazzella sui monti correvi
e al tuo passaggio esultava il creato.
Fontane in festa e uccelli cantavano,
anche le fronde parevan chinarsi:
o fiumi e selve, battete le mani
a lui che passa pur chiuso nell’arca.
Sopra il trono più eccelso passava,
ma ora solo le cose intuivano
e nel silenzio facevano ala
a questa aurora dell’ultimo giorno.
Agile e sola sui monti di Giuda
così già madre l’offriva alla terra:
la pentecoste si è aperta sul mondo,
profeteranno per prime le madri!
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DAVID M. TUROLDO
Anima mia
(Luca 1, 46)
Allora disse Maria, già madre
(racchiuso il seme nel grembo, portava
la primavera sui colli di Giuda,
il tempo nuovo atteso dal mondo):
«L’anima mia dà gloria al Signore,
di gioia esulta lo spirito mio».
Questa è vita, non altra, o Madre,
aprici il cuore al tuo segreto:
come il colloquio col cielo inebri
e rinverdire ci faccia di grazia,
come i più umili possan cantare
e riempire la lor solitudine!
Sia gloria al Padre al Figlio allo Spirito,
fonte di gioia alla vita del cuore:
vita che inonda la Vergine madre,
pure a lei gloria perché prega e canta.
INNI E POESIE
[La sublime allegoria]
«Mi baci con i baci della sua bocca»:
così esplode il Cantico, o Qohelet:
attesa vendetta al tuo libro del Nulla?
Tu sai, o Donna, che alla tua voce
verdeggiano i deserti:
di valle in valle il vento la propaga
e anche dalle tombe la eco risponde.
Ma se il bacio è segno dell’unica Fame,
che lo stesso Amato incendia,
allora scampo non v’è per nessuno.
Voluttà di distruzione è il bacio,
desiderio di essere consumato
senza che nulla avanzi:
e dal fondo del gioco,
il Nulla riappare.
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DAVID M. TUROLDO
Fede e silenzio
(Luca 2, 1)
Ora che il Figlio il grembo le inarca
come d’un tempio l’avvolge il silenzio:
più che la terra rapita all’origine
quando attendeva il giorno dell’uomo.
Fede e silenzio davanti allo sposo,
e lei e lo sposo ancora in silenzio:
dentro la casa e davanti al paese
i loro cuori eran sempre più gonfi.
Vela che scivoli adagio sul mare
porti il destino del mondo, lo sai?
Ora riprendi il cammino per Betlem
per lui ormai anche Roma si muove!
Ma è segreta ai potenti la trama:
per lui è chiusa ogni casa dell’uomo;
sarà la notte ad aprirgli le porte
in solitudine e alto silenzio.
INNI E POESIE
Come dentro un’arnia
(Luca 2, 15)
Gli angeli erano ormai lontani
appena macchie di luce nei cieli:
non osi alcuno mai dire di Dio
dei modi suoi di svelarsi, infiniti!
Ora i pastori dicevano, soli:
«Andiamo fino a Betlemme, vediamo...».
È sempre un rischio rispondere al cielo,
sapere dove il cammino ti porta!
Senza indugio si mossero dunque:
c’era Maria, la madre, in silenzio.
C’era Giuseppe in disparte, in silenzio,
e nella greppia il bambino piangeva.
Eran le cose che avevano visto,
nulla di altro: è questo il mistero.
Solo i pastori parlavan con gioia:
sono i poveri, Cristo, a svelarti!
Già lo stupore riempiva il paese:
tutti tornavan lodando Iddio
mentre Maria come dentro un’arnia
serbava in cuore ogni loro parola.
201
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DAVID M. TUROLDO
Madre dell’uomo
Madre di ogni nostra pena,
con te ha inizio e fine
la possibilità di credere?
Io vorrei dirti le parole più degne,
vorrei ti sentissi meno sola
tu così in alto!
A noi paura impedisce
perfino di guardarci in volto,
di vederci dentro;
e ancor più ci impaurano
i fanciulli se ci guardano.
Madre, vorrei che tu fossi
come uno di noi
quando lo attendevi in silenzio
ed egli ti premeva dentro
e tu nulla sapevi di lui
e cercavi i suoi occhi.
Noi vorremmo che tu lo stringessi
ancora, con paura, al seno,
sulla strada dell’esilio,
e stringessi ognuno di noi.
E sentirti piangere con tutte le madri
cui è stato strappato un figlio:
qualcuno è stato ucciso
a ogni madre, o dovuto fuggire
dalla sua casa e dal suo paese.
E nessuno sa la ragione,
come tu non sapevi.
INNI E POESIE
E siamo ancora come te
quando paura ti fermava
sulla strada del ritorno:
qualcuno v’è sempre
che vuole uccidere
(nulla è mutato!)
qualcuno sul trono
che parla di pace e uccide.
Noi siamo i pochi
sopravvissuti per prodigio ai lager,
noi generazione del genocidio
i testimoni dei cinquanta
milioni di uccisi.
Come ora sono i dodici
mila segnati, i milioni
di fanciulli dell’Asia,
concime ai grandi bacini
che alimenteranno fra anni
energia ai nostri motori
in viaggio verso la luna.
Ti sentiamo come noi, o madre,
quando cercavi affannosa tuo figlio
nei vichi della capitale;
anche noi soli, tutti
e ognuno: non più figli
non più madri!
E tu non sapevi
e noi non sappiamo.
E quando se n’è andato per le strade
tu sei rimasta sulla porta
a vederlo come
s’allontanava.
203
204
DAVID M. TUROLDO
E attendevi la sera
che il vento ti portasse
un segno di lui.
E pur alle nozze di Cana
tu eri dalla nostra parte:
qui ti vogliamo ancora
perché non abbiamo più gioia.
Qui ti vogliamo
alle nostre squallide mense
senza vino buono all’inizio
e senza alla fine.
E poi nessuno che ci assista
su queste allucinate
autostrade: nessuno
che ci accompagni
verso i nostri campi
di concentramento.
Nessuno che stia in silenzio
sotto il legno della nostra agonia
e ci accolga fra le sue braccia
e poi ci accompagni al sepolcro:
fra poco
non ci saranno
neppure sepolcri.
Allora, anche la sua morte
è come ogni nostra morte?
E noi non sappiamo
come tu non sapevi;
solamente credevi:
per questo ora sei
così lontana!
INNI E POESIE
Ora la Scrittura
(Luca 2, 25-26; Matteo 2, 16)
Neppur tu forse puoi dirci, o madre,
dirci chi mai sia questo tuo figlio?
Ma perché Dio si muove a quel modo?
O si rivela sol quando è nascosto?
Nemmeno tu puoi svelare, Maria,
cosa portavi nel puro tuo grembo:
or la Scrittura comincia a compirsi
e a prender forma la storia del mondo.
E tu andrai dal profeta nel tempio
e sentirai parole inaudite:
ma già la croce appare sul mondo
e a te una spada ora sanguina in cuore.
Nato appena dilaga la strage,
sono innocenti che cadon per lui,
e lui, col nome che porta, in fuga
verso il paese del primo esilio.
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DAVID M. TUROLDO
A cosa pensavi, Maria?
(Luca 2, 22-40)
«Venuto il tempo secondo la legge...»,
o pellegrini di Dio, che fate?
Purificarti di cosa, Maria?
E con quel figlio salire al tempio!...
Certo le porte al vostro incedere
si sono aperte vibrando da sole
e strana luce si accese negli archi:
il tempio stesso pareva più grande!
Quando si mise a cantare il vegliardo,
a salutare felice la vita
la lunga vita che ardeva in attesa,
e altra serva più annosa cantava!
Erano l’anima stessa di Sion
del giusto Israele mai stanco d’attendere:
ora beato che ha visto la luce,
se pure in lotta già contro la tenebra.
Oh, le parole che ti disse, o madre:
solo a te il profeta le disse!
Così ti chiese il cielo impaziente
pure la gioia di essergli madre.
«Quando ebbero tutto compiuto»,
tornati a casa il bimbo cresceva...
Ma tu a cosa pensavi, Maria?
Come vedevi quel viso e le mani?
INNI E POESIE
[La sublime allegoria]
Spento finalmente ogni altro fuoco,
nel Tempio, fattosi ora silente,
si adunino le gloriose Immagini.
E l’arida steppa intorno
riprenda a fiorire
mentre tu guidi la danza.
Non chiedo di assidermi al vostro banchetto, non
è per me – ho cantato – un’avventura sì grande,
sapermi una voce del Coro è già dono
che placa tutte le attese:
ciò che più chiedo è una mente
luminosa e serena.
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208
DAVID M. TUROLDO
Come credevi?
(Luca 2, 51-52)
Neppure loro compresero dunque!
Ed egli scese con essi a Nazaret
e come tutti egli era in paese:
ma tu serbavi ogni cosa nel cuore.
Come credevi, Maria? Com’erano
i giorni tuoi accanto a quel figlio
mentre cresceva in grazia e sapienza?
Come passavano gli anni in silenzio?
Cosa dev’essere per noi questa fede,
e come senza di lui non possiamo
sapere e dare un senso alla vita,
sapere quale è il disegno del Padre!
Sia gloria a Dio perché nel suo Figlio
rivela il nostro destino di eletti,
e nello Spirito guida la chiesa
a riscoprire il suo Cristo ogni giorno.
INNI E POESIE
Silenzio di millenni
(Luca 2, 51)
Colui che i cieli non posson racchiudere
dentro la terra or dunque è racchiuso:
prima nel grembo poi dentro una casa,
dentro un silenzio di anni e millenni.
Per anni e anni in silenzio, Maria,
tu sei vissuta con lui nella casa:
mai una voce che fosse un grido,
anche i salmi cantati in silenzio!
Parlar di cosa con lui la sera?
Di quali dubbi o certezze o attese?
Vederlo crescer per anni in silenzio,
con quelle mani piallare il legno!
E non potere dir nulla ad alcuno;
anche lo sposo pur mite taceva:
solo al lavoro dicevan qualcosa;
e come tutti passava in paese.
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DAVID M. TUROLDO
[La sublime allegoria]
Nel mentre mi inebriano
i racconti dei vostri amori,
un’ombra ancora mi fascia il cuore
come una sindone.
Nessuno aggiunga parole
a quanto tu hai cantato;
anche tu non dirmi altro
delle vostre ebbrezze infinite.
Non dirmi delle tue tenerezze,
non dirmi dei suoi occhi come colombe
lungo ruscelli di acque;
delle sue labbra voraci,
dei suoi denti bagnati nel latte;
e le sue gambe colonne d’alabastro
su piedestalli d’oro, non dirmi
non dirmi del suo corpo divino...
Parlami invece dei tuoi assolati meriggi
quando Lui non c’era, né sapevi
dove andava a pascere il gregge.
Parlami delle tue arsure e come
anche tu te ne andavi randagia
quando non si faceva trovare:
INNI E POESIE
anche a pieno giorno, a sole alto,
non vedevi dove tenesse il suo pascolo
e andavi dietro le greggi di tutti.
Parlami delle tue notti desolate,
delle buie notti, quando dal letto
lo chiamavi invano, o andavi
per tutta la città, e cercavi,
cercavi senza trovarlo:
oh, questo infinito e furioso
cercare...!
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DAVID M. TUROLDO
È scritto, Madre
(Matteo 3, 13)
Già dal deserto veniva la voce,
come un vento si alzava sul mondo:
«Ora la scure è calata sull’albero,
ormai il regno di Dio è alle porte!».
Ed egli subito disse appena:
«È scritto, madre: bisogna che vada!».
Tu rimanesti sull’uscio a vederlo
andare dietro il giro del sole.
Poi la notte calò sulla casa,
ma tu socchiusa tenesti la porta:
e lui un figlio ormai di nessuno
ora in cammino per tutte le strade!
E quando udisti quell’altra parola:
«Ecco l’Agnello di Dio che viene»,
certo tu, sola in casa, vedesti
gocce di sangue macchiare la tua mensa.
INNI E POESIE
Non abbiamo più vino
(Giovanni 2, 3)
Or ci fiorisca dal cuore un canto
come un dono da offrirti, o madre:
tu hai persuaso tuo figlio a compiere
il primo segno alle nozze di Cana.
Dicesti attenta: «Non hanno più vino».
Da allora l’occhio tuo vede per primo
sparir la gioia dai nostri conviti,
ma ora tu sai e puoi comandare.
Sì, non abbiamo più vino, o madre!
Gioia non hanno i nostri amori,
è senza grazia la nostra fortuna,
pure le feste non hanno più fede!
Per la sua fede nell’ora di Cristo
noi a te, Padre, rendiamo la gloria:
tu d’altro vino del Figlio ci sazi,
vino che è Spirito, nostra ebbrezza.
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DAVID M. TUROLDO
Così il miracolo
(Giovanni 2, 5)
Allora disse ai servi la madre:
«Fate ogni cosa che egli dirà».
Sono le ultime tue parole,
non udiremo mai più la tua voce.
Inizierà ora il figlio a parlare:
state in ascolto di quanto egli dice!
È il cielo, è Dio che parla, o uomini,
e solo quanto egli dice voi fate!
Così il miracolo ancora si compie,
risuona ancora la voce del Padre
come al battesimo presso il Giordano:
«Egli è il Figlio diletto: ascoltatelo!».
O Trinità venerabile e santa!
Creazione intera, cantiamo
alla sua fede, al suo silenzio:
per l’abbondanza del vino cantiamo.
INNI E POESIE
Chiesa che ascolta e cammina
(Luca 8, 21)
«Beato il grembo che ti ha generato!»,
così una donna gridò tra la folla,
rapita al suono di quella sua voce:
mentre tu sola sapevi ogni cosa!
Egli diceva del segno di Giona,
di questa stirpe malvagia, infedele,
e della sorte di chi l’ascoltava,
ma tu dovunque vedevi la croce.
Non dirci cosa provasti, Maria,
quando a Nazaret lesse nel libro:
«Sopra di me è disceso lo spirito,
parola – disse – che oggi si compie!».
Lo seguiremo con te pure noi
di strada in strada cantando al Padre,
per te che fosti la prima fedele
e noi sua chiesa che ascolta e cammina.
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DAVID M. TUROLDO
[La sublime allegoria]
A volte in piena notte veniva
a bussare alla porta:
ti chiedeva, con quella sua voce, di aprirgli,
e tu, già levata la tunica,
andavi ad aprire:
le tue dita grondavano mirra
sulla maniglia del chiavistello:
ma Lui,
Lui era già
svanito nella Notte.
INNI E POESIE
Dalet
Ora la terra è imporporata di sangue,
una sposa vestita a nozze:
il sole si è levato sulla casa di tutti
da quando Giobbe ha finito di piangere
e mai Gesù finisce di morire per noi.
Ora nessuna nascita è più senza musica,
nessuna tomba senza lucerna
da quando tu, o Giobbe, dicesti:
«Io lo vedrò, io stesso: questi
occhi lo vedranno e non altri:
ultimo si ergerà dalla polvere».
Allora rinverdirà ogni carne umiliata
e gli andremo incontro con rami nuovi:
una selva sola, la terra, di mani.
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DAVID M. TUROLDO
Figlia di Sion
(Isaia 6, 13)
Stavano presso la croce sua madre,
Maria di Cleofe e Maria di Magdala...
Piccolo resto di tutte le folle,
il vero resto del grande Israele?
La Donna attesa dall’alba del mondo
e una parente e l’amica del pianto...
Così finiva sul monte la storia
di grazia e colpe di tutto Israele?
Sei tu, o madre, l’anello che lega
secoli e tempi antichi e futuri:
figlia di Sion, la pianta che porti
la linfa viva del popolo eletto.
Anche il creato in dolori di parto
dal monte attende di nascere ancora:
nell’obbedienza del nuovo Adamo
e per te, Donna, che vivi di fede.
INNI E POESIE
Appena credere
(Giovanni 19, 25)
Ritta, discosta appena dal legno,
stava la madre assorta in silenzio,
pareva un’ombra vestita di nero,
neppure un gesto nel vento immobile.
Lo sguardo aveva sperduto, lontano:
cosa vedevi dall’alta collina?
Forse una sola foresta di croci?
O anche tu non vedevi più nulla?
Madre, tu sei ogni donna che ama,
madre, tu sei ogni madre che piange
un figlio ucciso, un figlio tradito:
madri a migliaia, voi madri in gramaglie!
E figli mai finiti di uccidere;
figli venduti e traditi a miriadi,
i torturati appesi ai patiboli,
empi vessilli dell’empio potere.
Dalla città già salivan le tenebre,
e ancor più impallidiva il suo volto,
e lui era tutto una crosta di sangue,
perfino il cielo era nero di sangue.
Nero lenzuolo di sangue pareva
steso ad avvolger la grande Assenza
che infittiva lo stesso silenzio
e si addensava e spandeva nell’aria.
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DAVID M. TUROLDO
O madre, nulla pur noi ti chiediamo:
quanto è possibile appena di credere,
e star con te sotto il legno in silenzio:
sola risposta al mistero del mondo.
INNI E POESIE
Madre, son molti gli anni
I
Madre, son molti gli anni d’allora:
i molti passati in tumulto
come di fiume impetuoso e precipite!
E i pochi, a tratti almeno,
calmi, uguali
a sognati ritorni
tra una guerra e l’altra,
appena solstizi
del monaco nella battaglia.
Ricordo quel giorno d’agosto
a guerra aperta:
io all’altare, in globo d’oro
e paramenti che davano
un tremito a tutte le membra
– il corpo come un’asta
issata sul colle vibrava da quell’altezza –,
ricordo la distanza impostami
come di Cristo dalla Madre.
II
Così dunque «si deve»:
è destino essere soli
pur nel caso estremo,
pure in tempo di vertigine, o prete.
E invece nessuno
ha necessità quanto te
almeno di una madre:
dal Colle può essere assente Iddio
non la madre.
221
222
DAVID M. TUROLDO
Lasciate, lasciate, Tiranni
dell’universo, libero
il passo alle madri
a salire i patiboli!
Sono le madri le grandi Offerenti
che consumano, come
da altare piu vero,
nel cuore l’olocausto.
Nel segno della Vergine-Madre
più non subisca
discriminazioni
il grande unico Sacramento.
III
Tu con me d’allora, o madre,
non cessasti dentro
di piangere, la fronte
madida di sudore:
mentre dalla Vetta io ti vedevo
chiazza nera nella folla
e il volto pallido e vergognoso
dentro il velo nero: – come
ora forse sei tu
a guardarmi
dal tuo paradiso.
E continui misteriosamente
a piangere.
IV
Troppi sono gli anni passati d’allora,
tanti che nemmeno posso narrarti
la frana di cose accadute:
INNI E POESIE
una valle di ricordi in frantumi
come ossa di morti:
strade lunghe, segnate
di fango e polvere;
e strade contorte, a labirinto,
dentro città e metropoli;
e gente,
infinita gente
a battere alla tua porta:
tutti bisognosi mendicanti,
anche quanti erano detti i ricchi.
E poi la fatica, madre, a capire...
Poi le notti:
sempre, e
solo, sulla torre...
V
Ma ora sereno guardo la pianura,
pur dentro uno sfacelo
di speranze.
E guardo – senza
impazienza – il tempo che m’avanza:
saprò attendere, madre!
È nel proposito: di andarle
incontro
e di stringerle la mano.
223
224
DAVID M. TUROLDO
Ma tu Ccredevi
Ecco il silenzio riempire il cielo
da quando il sangue cessò di fluire:
ora anche il figlio, pur vivo, taceva,
la madre invece da sempre taceva.
Nessuno ha nulla da dire, nessuno?
Almeno i giusti si facciano avanti!
Perché non parli tu, madre del giusto?
Così consuma il mistero del mondo.
Quando su tutto si infranse il suo urlo,
ecco si infranse il velo del tempio
da cima a fondo, la terra fu scossa:
mai si è udito un simile urlo.
Rocce e sepolcri insieme franarono,
e per le strade correvano i morti:
fu la città maledetta invasa
da corpi santi, da bianchi fantasmi.
E tutto dentro la notte avveniva,
la grande notte discesa nel giorno:
è sempre notte l’assenza di Dio,
la nostra notte che ancora ci avvolge!
Finita, Madre, anche tu nella notte?
Ma tu credevi per tutti da sola:
invece noi non abbiamo mai scampo,
sempre a scegliere o fede o paura.
Ti giunga almeno fra tanta rovina
il grido raro di quanti confessano
che il vero figlio di Dio era lui,
e che ogni vittima è sempre tuo figlio.
INNI E POESIE
Chissà le volte
Erano rare parole sommesse,
e senza voce, sospiri appena
di lui, parola vivente del Padre,
Verbo che aveva creato i mondi.
Ma in lei avevano una eco funerea
come caduta di pietre su tomba,
mentre vedeva lo stagno di sangue
che s’aggrumava ai piedi dell’albero.
Allora certo hai pensato all’evento:
quando sarà consumata ogni cosa
ecco che tu lo rimetti nel grembo
per partorirlo ancora, Maria.
Chissà le volte che date, o donne,
ai vostri figli da sole la vita
come se foste la vergine-madre:
così la causa dell’uomo continua.
Così sarai la vera immagine
di questa chiesa chiamata per sempre
perenne madre a dargli la vita
nella pietà che conforta la terra.
225
226
DAVID M. TUROLDO
Cattedrale del silenzio
Sei la palma di Cades,
orto sigillato per la santa dimora.
Sei la terra che trasvola
carica di luce
nella nostra notte.
Vergine, cattedrale del Silenzio,
anello d’oro
del tempo e dell’eterno:
tu porti la nostra carne in paradiso
e Dio nella carne.
Vieni e vai per gli spazi
a noi invalicabili.
Sei lo splendore dei campi,
roveto e chiesa bianca
sulla montagna...
Non manchi più vino alle nostre mense,
o vigna dentro nubi di profumi.
Vengano a te le fanciulle
ad attingere la bevanda sacra,
le donne concepiscano ancora
e ti offrano i loro figli
come tu offristi il tuo frutto a noi.
Amorosa attendi che si avveri
la nostra favolosa vicenda,
creazione finalmente libera.
L’Iddio morente sulla collina chiese
una seconda volta il tuo possesso
INNI E POESIE
quando partecipava perfino alle tombe
la nostra ultima nascita.
Noi ti abbiamo ucciso il Figlio,
ma ora sei nostra madre,
viviamo insieme la resurrezione.
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228
DAVID M. TUROLDO
[Per il mattino di Pasqua]
Io vorrei donare una cosa al Signore,
ma non so che cosa.
Tutto è suo dono
eccetto il nostro peccato.
Ecco, gli darò un’icona
dove lui – bambino – guarda
agli occhi di sua madre:
così dimenticherà ogni cosa.
Gli raccoglierò dal prato
una goccia di rugiada
– è già primavera
ancora primavera
una cosa insperata
non meritata
una cosa che non ha parole –;
e poi gli dirò d’indovinare
se sia una lacrima
o una perla di sole
o una goccia di rugiada.
E dirò alla gente:
avete visto il Signore?
Ma lo dirò in silenzio
e solo con un sorriso.
INNI E POESIE
Lo stesso vento
(Gioele 3, 29)
L’ordine era d’attender lo Spirito:
così vegliavano assidui e unanimi.
Eri tu forse a guidar la preghiera,
come lui fece nell’ultima cena?
Certo il profeta ti vide all’origine
quando lo Spirito ornava il creato,
quando la lotta iniziò col serpente...
e poi nel lungo cammino dell’arca.
Certo tu eri la terra promessa
l’isola intatta del santo approdo,
ove lo Spirito scese già prima
a fecondarti del germe divino.
Con noi assisti all’ultimo tempo:
lo stesso vento ora scuote la casa,
lo stesso fuoco dell’Oreb divampa
e apre la via nel nuovo deserto!
229
230
DAVID M. TUROLDO
Un altro avvento
La città nuova già si alza sul monte,
risplenderà un gran sole quel giorno:
verrà il Signore con tutti i suoi santi,
non regnerà più la notte oscura.
Un altro avvento si apra sul mondo,
torniamo tutti a sperare ancora:
accendi il rogo del santo tuo Spirito,
ancora torna a salvarci, Signore.
Come la Madre viviamo l’annuncio;
aprite i cuori: egli sta per venire:
tutta la chiesa si muti in giardino:
qui Dio e l’uomo camminino a sera.
INNI E POESIE
Con Ali d’aquila
(Apocalisse 12, 10)
«Un segno grande apparve nel cielo:
era la Donna vestita di sole,
sotto i piedi teneva la luna
e una corona di stelle sul capo.
Ancora porta nel grembo suo figlio
e grida e soffre le doglie del parto!
Poi un terribile mostro è apparso
con sette teste dai sette diademi:
con la sua coda spazzava il gran cielo,
e un terzo di astri cadevano al suolo;
e stava il drago davanti alla donna
pronto a sbranare il frutto del ventre...
Con ali d’aquila ora la donna
verso il deserto da Dio è rapita»:
a partorirlo tu, madre, ritorna,
torni la terra a sperare ancora!
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232
DAVID M. TUROLDO
La pentecoste perenne
(Atti 1, 14)
La camera alta è tutta splendore:
la sua pietà ci raduni ancora,
in unità qui convengano i popoli:
Madre, rivelaci il grande principio
poiché d’allora già eri evocata
quando le cose nel Verbo creava.
Madre, disponi pur noi ad accoglierlo,
a rivestirlo di splendida carne,
resi fecondi con te dallo Spirito.
O Madre, fa’ che la chiesa continui
la sua preghiera concorde, unanime,
perché continui lo Spirito a scendere.
Madre, nel nuovo principio assistici,
e il mondo intero intenda le voci
e gioia torni a riempire la terra.
O Madre, sia pentecoste perenne,
e il santo fuoco consumi ogni male,
sia come il vento una libera chiesa.
Tu del creato la santa bellezza,
tu della fine dei tempi figura,
tu l’arca viva dell’unico uomo.
INNI E POESIE
Non chiedete segni
La tua prima parola, Maria,
ti chiediamo d’accogliere in cuore:
come sia possibile ancora
concepire pur noi il suo Verbo.
«Non chiedete mai segni o ragioni,
solamente credete e amate:
il suo Spirito scenda su voi
e sarete voi stessi sua carne.»
Te beata perché hai creduto,
così in te ha potuto inverarsi
la parola vivente del Padre,
benedetta dimora di Dio.
A te Padre a te Figlio a te Spirito
grazie e gloria d’avere donato
questa madre alla terra intera,
la speranza di tutti i viventi.
233
ICONE MARIANE
DEI SERVI
237
Nel segno della santità e della bellezza
David M. Turoldo
Dico subito che sono due argomenti che, per il caso dei nostri santi si
risolvono, nella loro ultima e piena espressione, in una sola realtà. Dio
infatti, che è santità e fonte di ogni santità, è anche primato dell’assoluta bellezza. E per questo è stato scritto che ogni arte, quando è vera arte, è sempre un evento religioso, un atto di culto. Sono due aspetti che
trovano la loro definitiva simbiosi nella pienezza di Dio. Direi che sono
per noi due aspetti di una sola realizzazione sempre in atto, sempre in
divenire; nel bramoso inverarsi di un solo ideale, che poi è lo stesso uomo nella sua completezza. E l’inverarsi del sogno di Dio, e il suo traguardo è appunto pienezza di bellezza e santità.
È questa l’umanità che Dio sogna e che noi siamo chiamati a realizzare. «Facciamo l’uomo»1! Secondo quali modelli, con quali ultimi elementi espressivi se non di santità e bellezza?
Santità e bellezza: due aspetti di una sola realtà. Che poi è il tema di
Dio quale santità e bellezza insieme. È la bellezza la sintesi di ogni
espressione, il suo esaurirsi, apice dello stesso linguaggio. È facile notare come davanti a qualunque evento propizio, davanti a un fatto morale quale – ad esempio – il fatto di due fratelli che fanno pace, ecco che
voi dite: «Che bello!», e non dite altro; così davanti a qualunque altro
fatto gioioso e buono, anche di carattere esistenziale; ad esempio, davanti all’incontro di un amico dopo anni di lontananza, ecco, voi dite:
«Che bello!». Così come davanti a un tramonto, oppure davanti a un’opera d’arte: «Che bello!». Bellezza come culmine del linguaggio. È il
tòn kalón della Genesi, per cui si dovrebbe dire: «E Dio vide che tutte
1
Cf. Genesi 1, 26.
DAVID M. TUROLDO
238
le cose erano belle!»2. E mi dico tentato di pensare che si traduce “erano buone” per salvarci dall’idolatria, in quanto la bellezza è immediatamente adorabile. Pur convinto che il buono e il bello e il vero sono tra
loro convertibili.
È a questo livello alto che si capisce quanto conti l’unità dell’ideale;
che poi è la perfezione vera, non il perfezionismo. Perfezione che segna
la pienezza del mondo spirituale. Da dove ci viene la grazia per salvarci
da ogni manierismo estetico, riguardo alla bellezza; e da ogni contraffazione moralistica e grottesca, riguardo alla santità. L’azione dello Spirito è santità e bellezza; ed è la Spirito che «orna i cieli»3.
Lo Spirito è la fantasia di Dio all’opera. È lui che compie il primo
esodo dal caos verso le forme. E le forme sono sempre segno dell’armonia e dell’ordine, il traguardo ultimo del cosmo, armonia della creazione.
Voglio dire che, sia la bellezza sia la santità, chiedono di raggiungere la loro pienezza nella pienezza dell’essere divino: tutti e due valori
che attendono che si compia la loro realizzazione pratica; e questa in actu exercito si esprime, una nell’opera d’arte, e l’altra nella vita di grazia.
Arte e grazia che sono sempre dei sacramenti, cioè segni visibili della
realtà invisibile di Dio.
Il massimo della perfezione sarebbe che la santità non fosse mai disgiunta dalla bellezza, come la bellezza mai disgiunta dalla santità: al di là di ogni
prevaricazione e di ogni corruzione, santità e bellezza non dovrebbero mai
separarsi, e tanto meno contrapporsi.
Qui c’è tutta una missione da compiere, da vivere; una missione che
sento peculiare ai Servi di santa Maria. È una delle ragioni per cui io mi
trovo nel mio elemento: a pieno agio, nel mio ordine. È da quest’ordine, dalla vita dei miei santi che ho imparato queste cose, come cercherò
subito di dire.
Intanto insisto su santità e bellezza che non devono contrapporsi,
perché l’unità del mondo è teologale, come dice Paolo: «Uno è il corpo,
uno è l’uomo, uno è il mondo, una è la fede, uno è lo spirito, uno è Dio,
il Padre di tutti, che opera in tutti, ed è sopra tutto»4, senza mai esau2
Genesi 1, 31.
Cf. Giobbe 26, 13.
4 Cf. Efesini 4, 4-6.
3
NEL SEGNO DELLA SANTITÀ E DELLA BELLEZZA
239
rirsi. E così, come la bellezza staccata dalla santità è un errore, un’appropriazione indebita – e quindi in una deviazione –, così la santità senza bellezza potrebbe tradursi in patologia, in casi grotteschi se non perfino sacrileghi.
Il brutto, la categoria del brutto, non può appartenere al divino: sia
sul piano della santità come su quello che riguarda la bellezza. Perciò io
oggi ho molti sospetti, e paure, che non siamo sulla via giusta, perché
oggi predomina il brutto. Siamo in tempi brutti, abitiamo in città brutte, frequentiamo chiese ancora più brutte. E questo deve farci paura:
l’imbruttimento di solito è principio di abbrutimento. Mentre la santità
dice ordine alla bellezza; e la vera bellezza segna il culmine della santità.
«Che bello!»
Il massimo del servizio dell’arte è la celebrazione estetica del mistero, come il massimo della santità è la realizzazione esistenziale dello
stesso mistero. A rigore, la santità non può coesistere con il brutto, come l’arte non dovrebbe mai coincidere con l’immorale: se è vera arte!
Vorrei quasi dire che il luogo più propizio, il luogo privilegiato per eccellenza dell’arte, anzi, i luoghi più splendidi e splendenti dell’arte, dovrebbero essere precisamente le chiese. Pertanto è necessario riaprire le
porte delle chiese alla grande arte, come hanno fatto appunto i nostri
padri.
La vita di un santo diventa momento di grande arte.
A guidarmi a questi pensieri sono state le parole che la liturgia riporta nella festa dei nostri Fondatori. Uso la traduzione della Vulgata,
convinto che anche quella – se non soprattutto quella, più di ogni altra
nostra traduzione! – è piena di unzione santa. Così dicevano quelle parole: che essi, i Padri, erano «pulchritudinis studium habentes et pacificantes in domibus suis»: coloro che avevano il culto della bellezza e portavano pace nelle loro case5. È la sintesi della nostra missione. Come loro dunque continuiamo il prodigio, e cioè continuiamo lo studio della
bellezza, con tutto ciò che comporta in azione pacificatrice e armoniosa di santità nell’unità della vita. Fatti tutti cultori di arte e di grazia. È,
5
Siracide 44, 6.
DAVID M. TUROLDO
240
appunto, l’unificazione esistenziale dei due aspetti dell’unica realtà, che
è Dio stesso.
A questo punto voglio osare un’altra confidenza ancora più intima; e
cioè, che io non sarò mai abbastanza grato di appartenere a quest’ordine,
dato che una vocazione la dovevo avere; mai grato abbastanza di essere
frate tra i Servi di santa Maria: sono essi – senza offendere nessuno e ancor meno altri ordini – che mi hanno dato la possibilità di coltivare questo culto del bello e del santo insieme. Credo che la nostra esperienza sia
segnata da questa grande eredità: chiese belle, chiostri belli, liturgie belle, belle musiche, bei cori... Un patrimonio che arricchisce già nella sua
evocazione, una condizione che certo dobbiamo riprendere. Farci di
nuovo amici di artisti; e che i conventi ritornino centri di cultura, luoghi
di riferimento per cantori e trovadori; e le nostre chiese siano ancora
chiese belle: templi di fede e di arte. Non può essere che così, se vogliamo vivere davvero la nostra vocazione. Cristo è il figlio della Bellissima:
Sei il più bello fra i figli dell’uomo,
sulle tue labbra fiorisce la grazia:
ti ha benedetto Iddio in eterno.
E di lei si canta:
La tua bellezza incanta il re:
egli è il tuo Signore, l’Amato,
a lui ti prostri con gioia profonda.
Tutta fulgore è la figlia del re,
di oro e perle riluce il suo manto,
non han confronto i preziosi ricami6.
Così: ritornare alla bellezza di pregare, alla bellezza di servire, alla bellezza dell’essere insieme. Fraternità vive, aperte. Santità che si apre, come
dicevo, sulla strada. Una santità che sia insieme bellezza: è quanto di cui
il mondo ha bisogno. Chiese brutte e città brutte sono una rovina. È vero quanto dice Dostoevskij: «Sarà la bellezza a salvare il mondo».
6
Salmo 45, 3.12.14-5 (nella versione metrica di D.M. Turoldo, in La nostra preghiera, Servitium, Sotto il Monte 19963, p. 221).
Immagini
245
1
Scuola senese (1271),
miniatura su iniziale “V” (Vidi speciosam),
Assunzione della b. v. Maria.
Siena, S. Maria dei Servi, Antiphonarium de Sanctis, cod. E, f. 138.
La nuova
Creazione
Così mi ha dipinta un frate il cui nome ha voluto che fosse scritto solo
sul libro della Vita. E lui tutta la vita intento a trascrivere canti e preghiere.
Eccomi anch’io – donna del popolo –, rapita più di lui, a contemplare e a pregare in silenzio: offerta come creazione intatta, e con il
grembo già segnato dalla maternità.
Così mi dipinse come sopra uno stendardo portato dai Serafini: dove lo Spirito, che si librava sulle prime acque, ormai guarda a me, segno
della nuova creazione che appare sulle acque seconde, le quali inonderanno il tempio e purificheranno la terra.
(D.M. Turoldo)
247
2
Battista da Vicenza (1375-1438?),
Madonna del Magnificat.
Vicenza, Basilica di S. Maria di Monte Berico.
Il canto e la danza
Allora Maria disse: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito
esulta».
Ti sei messa a cantare. Ora siamo noi che dovremmo fare silenzio.
Qui le parole sono un rischio ancora più grande. Pietà e trepidazione,
nell’udirti, fanno nodo sul cuore. E non sei che una fanciulla: una ragazza-madre. Qui dobbiamo metterci in ginocchio e ascoltare solo, allo
stesso modo di quando tu ascoltavi le parole del cielo. Saper ascoltare è
già un grande dono. Il silenzio è la condizione assoluta per venire introdotti al mistero. Ora l’estasi ti avvolge e ti solleva come una nuvola in
cima alla collina. Mentre ancora qualcuno pareva toccasse una tastiera
invisibile.
«Magnifica l’anima mia il Signore.»
Un verbo grande, preciso, all’indicativo presente. Una parola maturata in altissima solitudine e ora finalmente esplosa in un gettito di luce e
musica. Una parola attiva e creatrice. «Magnifica», che vuol dire: la mia
vita, ecco, è una celebrazione divina. Comincia il racconto, nel tempo,
delle sue grandezze. E nel racconto tutto mi assorbo e consumo, sì da
emergere solo Lui, grande e sovrano. La mia vita non fa che narrarlo.
Sono solo voce di Colui che mi ha riempita come gemma a primavera.
(D.M. Turoldo)
249
3
Lorenzo da Viterbo (II metà del sec. XV),
Madonna in adorazione del Bambino.
Viterbo, S. Maria della Verità. Presepe (part.).
Via di bellezza
In silenzio continuiamo a guardarci. Ora più che mai mi sento sperduta
nella grandezza del mistero di cui sono fatta protagonista e partecipe. Pur
reale e concreta, e maestosa la mia maternità, eccomi assente, quasi rapita. Come è scritto nel Vangelo: “Intenta a ruminare in cuore ogni parola
detta su di Lui”. E il Figlio che cerca i miei occhi...
Sì, la mangiatoia mi fa pensare ad altro; anche le bende mi fanno
pensare ad una Sindone..., quasi invisibile nel buio del cielo, è l’immagine che già mi porto nel cuore.
E i santi, poi, davanti alle icone prostrati nella notte a contemplare
in silenzio; e ad ascendere per la via della bellezza: la via più segreta
per raggiungere Dio. Poiché Lui, Lui è la bellezza; e solo chi lo
possiede è a sua volta bellezza.
Sarà la bellezza infatti a salvare il creato. Uomini, amate la bellezza:
non fate brutte le vostre città. Quanto è brutto scatena rovine e offende Dio nel suo essere più profondo.
(rapsodia contemplativa da testi di D.M. Turoldo)
251
4
Lippo Memmi (noto 1317-1356),
Madonna con Bambino.
Siena, Chiesa di S. Maria dei Servi in San Clemente.
Madri, siete voi il trono dei figli
Ecco, io vorrei solo una cosa: essere il vero trono di mio Figlio sul
mondo. È lui che io voglio mostrare ai piccoli e ai grandi: un Dio fatto
bambino; un Dio con mani e voci di un bimbo: un Dio fragile come un
bimbo, affidato alle braccia sicure della madre. Ma sempre un bimbo
che è un mistero: ora con un rotolo in pugno, poiché tutto è scritto.
Così è di tutte le madri: tutte chiamate a offrire al mondo i loro figli; a nutrirli perché tutti seguano il loro destino.
Mani che sorreggono la loro dignità di uomini liberi; e ognuno di
essi chiamato a vivere la propria missione.
Non altro il destino delle madri. Tutte a dire: «Ecco le serve dei loro figli, si faccia di noi secondo la vocazione di ciascuno». Perché “i
vostri figli non sono vostri figli, essi non vengono da voi ma attraverso
di voi”; essi chiamati ad andare lontano.
Vite che sono imprevedibili. Pur rimanendo voi la loro segreta forza, e l’inevitabile riparo per il giorno della tribolazione.
(D.M. Turoldo)
253
5
Vitale da Bologna (1309?-prima del 1361),
Madonna in attesa del parto.
Bologna, Chiesa di S. Maria dei Servi.
In attesa
E ora guardatemi in silenzio, come io mi guardo. Sì, sono la creazione
nuova, l’alma Madre. Sono la terra che non conosce uomo: la terra intatta, la santità delle fonti; sono la Vergine, dove è racchiusa la forza
di Dio; e insieme sono tutta la natura che si abbandona all’eterna fecondazione. Sono la creazione che lievita e si inarca come una vela al
vento.
Guardatemi come io mi guardo, e siate puri. Così come puro era il
devoto artista che mi ha dipinta: devoto e tremante, quando con mano
leggera mi segnava il crescere della curva; e sotto sentiva come io sentivo –, il pulsare della nuova misteriosa vita. Sì, sono ogni madre della
terra. Così guardate a ogni donna in attesa.
E adorate in silenzio.
(D.M. Turoldo)
255
6
Scuola Bolognese (1320-1330),
miniatura su iniziale “D” (Dum sponsus Joseph),
Sogno di san Giuseppe
e la vergine Maria sulla porta di casa.
Bologna, Chiesa di S. Maria dei Servi,
Antiphonarium de Sanctis, cod. G, f. 119v.
Giuseppe e Maria
Giuseppe, figlio di David, che pensi?
E tu perché, o Fanciulla, non parli?
Già la promessa sua sposa attendeva,
già veleggiava la vita nell’arca.
E lei aveva il candore di un giglio!
Certo né l’una né l’altro sapeva
cosa fioriva dal ceppo antico,
solo il silenzio infinito li univa.
E non un’ombra di un solo sospetto
attraversava il tuo cuore, Giuseppe:
l’occhio del giusto non vede che bene,
e finalmente, così, dopo tanto...
Quando nel sogno Qualcuno gli apparve:
perché non prima? Perché dentro un sogno?
Imprevedibile sempre e sol quando
tu da te credi di avere risolto!
(D.M. Turoldo)
257
7
Alessio Baldovinetti (1425-1499),
Nozze di Cana.
Firenze, Museo di San Marco, già alla Ss.ma Annunziata dei Servi.
«Non hanno più vino»
Tu sei andata a una festa di nozze,
insieme al Figlio a nozze, o madre:
ma egli sognava un altro convito
e già vedeva il monte del sangue.
Or manifesti pur qui la sua gloria
perché i discepoli credano in lui:
ma sanno cosa sarà la sua gloria
e quale è l’«ora» che deve venire?
Eppur bisogna cantare, o madre,
tutto è figura di altra alleanza:
oggi tu stessa hai svelato l’Agnello,
né più verrà a mancarci il suo vino.
Sia gloria al Padre che il nuovo amore
ormai ci dona da allora per sempre:
amor che solo il Figlio rivela
e nello Spirito è dato a chi ama.
(D.M. Turoldo)
259
8
Beato Angelico, fra Giovanni da Fiesole (ca. 1400-1455),
Ascensione.
Firenze, Museo di San Marco, già alla Ss.ma Annunziata dei Servi.
Perché guardate su nel cielo?
Perché, uomini, guardate
con tristezza su nel cielo?
Alla terra ritornate!
Questa è l’ora della fede!
Sua promessa è di tornare
come ascese nella gloria.
Ora ovunque voi potete
ritrovare lui nell’uomo,
nelle cose e negli eventi.
Il suo cielo è dove è amore,
la sua casa è il cuor del povero,
il suo regno è un mondo nuovo.
(D.M. Turoldo)
261
9
Giuliano di Jacopo di Bandino Panciatichi (1425-1499),
L’Immacolata (1523).
Pistoia, Chiesa della Ss.ma Annunziata dei Servi.
L’Altissimo di sua ombra la copre
Benedizione a te, figlia di Sion,
tutto il favore dal nostro Iddio:
ti custodisce da sempre il Signore,
o creazione ripiena di grazia.
Su di te brilla il santo suo volto,
sempre su di te il Signore ha rivolto
lo sguardo suo propizio e sereno,
per sua dimora ti ha scelta la pace.
Benedizione a te dall’Israele
che porta il nuovo suo nome, Maria:
Gerusalemme era appena un’immagine
di cui tu eri la splendida aurora.
(D.M. Turoldo)
263
10
Scuola Bolognese (fine sec. XIII),
miniatura su iniziale “H” (Hodie nata est beata Virgo),
Natività della b.v. Maria.
Bologna, S. Maria dei Servi, Antiphonarium de Sanctis,
cod. C-bis, f. 82v.
Come vestivi bene
Pare, ma è solo la tradizione a dirlo – una tradizione certo ispirata alle
Scritture – che anche tu, Maria, più che un frutto – per quanto desideratissimo – di tuo padre e di tua madre, venisti al mondo quale un dono del cielo, essendo già i tuoi genitori avanti negli anni.
Così gli artisti hanno sempre celebrato la tua nascita: tu che compari a pieno stupore dei tuoi, davanti a tutta la terra incantata.
Ancora la tradizione narra come alla tua apparizione fiori e fontane,
e animali e uomini abbiano emesso un inconscio sussulto di gioia; e si
dice che una corona di stelle si sia accesa nel cielo, a forma di una nuova costellazione. Qualcuno ha scritto che l’acqua delle fonti era più
limpida quell’anno, e che la palma di Cades si mise a emanare un profumo acutissimo.
Per la coincidenza dei tempi in cui sei apparsa, forse anche i tuoi
avrebbero preferito un bambino: erano tempi che bruciavano nell’attesa di Colui che doveva venire «a liberare gli schiavi», a fare giustizia
specialmente per i poveri. Ma i tuoi genitori non sapevano. Nessuno
sapeva nulla. Anche tu, nemmeno più tardi, da fanciulla, sapevi...
(D.M. Turoldo)
265
11
Anonimo toscano (sec. XIII),
Santa Maria annunziata.
Pistoia, Chiesa della Ss.ma Annunziata dei Servi (part.).
Come fare
E l’angelo entrato da lei disse: «Ave, o piena di grazia: il Signore è con
te».
Immacolata concezione, già esistente con la genesi del mondo; natura preservata da sempre intatta, perché ordinata a questo incontro, a
questo dialogo, per riprendere i colloqui interrotti dell’Eden.
Fanciulla ormai, offerta da te stessa: Vergine, giunta alla più alta e
dolcissima, divina solitudine.
Fidanzata. E il tuo bel giovane si chiamava Giuseppe. Della stirpe
di David; ora però carpentiere, operaio. E insieme vi preparavate una
casetta umile, ma ricolma di pace come nessun’altra. Due giovani normalissimi eravate. Eppure ora qualcosa di sconvolgente attraverserà le
vostre vite, e tutti i piani saranno interrotti. Da questo punto sarà interrotta anche la storia del mondo. E cambierà ogni cosa. Come se fosse pronunciata un’altra volta la parola che ha creato i mondi: «Si faccia
la nuova luce, si chiami il nuovo giorno fra sera e mattina...».
Un colloquio il tuo che terminerà con un nuovo «Fiat»; e sarà il tuo
fiat. Al suono di esso verrà concepito l’Inconcepibile, prenderà carne e
sangue lo stesso Figlio di Dio. Se il primo fiat è quello della creazione,
il secondo sarà il tuo, o Madre; sarà il fiat dell’incarnazione di un Dio
che si fa totalmente uomo.
(D.M. Turoldo)
267
12
Scuola lucchese (II metà del sec. XII),
Maria e Giovanni sotto la croce.
Lucca, Museo naz. di Villa Guinigi, Crocifisso (part.),
già in S. Maria dei Servi, Lucca.
Ritta, discosta appena dal legno,
stava la Madre assorta in silenzio,
pareva un’ombra vestita di nero,
neppure un gesto nel vento immobile.
Lo sguardo aveva perduto, lontano:
cosa vedevi dall’alta collina?
Forse una sola foresta di croci?
O anche tu non vedevi più nulla?
Dalla città già salivan le tenebre,
e ancor più impallidiva il suo volto,
e lui era tutto una crosta di sangue,
perfino il cielo era nero di sangue.
Nero lenzuolo di sangue pareva
steso ad avvolger la grande Assenza
che infittiva lo stesso silenzio
e si addensava e spandeva nell’aria.
O Madre, nulla pur noi ti chiediamo:
quanto è possibile appena di credere,
e star con te sotto il legno in silenzio:
sola risposta al mistero del mondo.
(D.M. Turoldo)
269
13
Scuola Bolognese (fine sec. XIII),
miniatura su iniziale “V” (Vidi speciosam),
Assunzione della b.v. Maria.
Bologna, S. Maria dei Servi, Antiphonarium de Sanctis,
cod. C-bis, f. 56.
«E il mio spirito esulta...»
Dalle pagine rivelate sappiamo che esultare significa gioia che
diventa gesto, azione sacra. Composizione a ritmo dello Spirito;
cosicché i sensi e le membra cominciano a emanare il gaudio intimo della divina unione o del pio colloquio.
Allora contemplazione e amore si danno la mano, s’intrecciano, e tutto il corpo apprende a muoversi sulla misura dei sospiri
e delle opere: sguardi, parole e abbracci di Dio, loro Salvatore.
Così per Francesco, sulle colline dell’Umbria; oppure per Teresa, che suonava il flauto per le consorelle tristi; così per Maria
Maddalena de’ Pazzi, quando correva per il convento e suonava
le campane perché l'aiutassero tutte le suore a cantare.
Per tutti, grande maestro, il divino poeta David, che precedeva l'arca davanti al popolo e danzava...
(D.M. Turoldo)
271
14
Giovanni di Paolo (1403-1482),
Madonna del manto.
Siena, Chiesa di S. Maria dei Servi in S. Clemente.
Sub tuum praesidium
Sotto la tua protezione
Un piccolo poema di bellezza, più ancora di quanto non siano
molti canti pure essi solitamente anonimi, sgorgati ora da cuori
gonfi di dolore e solitudine, ora invece traboccanti di gioia perché finalmente l’Amata ha risposto all’amore.
Così la nostra umile opera d’arte. Questa preghiera semplice
e spontanea che pare un grido di fanciulli in pericolo: invocazione di figli sicuri di essere esauditi.
Una preghiera che riassume paure e trepidazioni di tutti e di
sempre; ove perfino la più nera disperazione può mutarsi in speranza.
Una preghiera che è un’anfora di lode e di sospiri. O anche somiglia a un mazzo di fiori offerto alla Madre, alla Donna che ha
partorito il Figlio di Dio e figlio dell’uomo; così che per via di lei
ora Dio non fa più paura.
Fede e tenerezza si sono messe a cantare. E l’amore è tutto
contenuto nell’abbandono del credente, quale di un bimbo in
braccio alla madre.
(D.M. Turoldo)
273
15
Anonimo senese,
San Filippo Benizi da Firenze,
servo della Vergine e mediatore di salvezza, affresco (part.).
Todi, Monastero di S. Francesco, già di S. Marco dei Servi.
Nel segno della santità e della bellezza
Così: ritornare alla bellezza di pregare, alla bellezza di servire,
alla bellezza dell’essere insieme. Fraternità vive, aperte. Santità
che si apre, come dicevo, sulla strada. Una santità che sia insieme bellezza: è quanto di cui il mondo ha bisogno. Chiese brutte
e città brutte sono una rovina. È vero quanto dice Dostoevskij:
«Sarà la bellezza a salvare il mondo».
E ora la parola di san Paolo: una vera parola per sperare contro speranza! Una parola d'incoraggiamento come poche altre.
Così dice Paolo nella Seconda lettera ai corinzi al capitolo sei:
Siamo messi a morte, ma non vinti; siamo afflitti ma
sempre lieti; siamo moribondi, ed ecco che viviamo.
Siano esse il segno che veramente si può ricominciare
daccapo.
Siamo poveri, ma facciamo ricchi molti, gente che non
ha nulla, e invece possediamo ogni cosa (vv. 9-10).
Così, per aiutarci a sperare.
(D.M. Turoldo)
275
16
Anonimo (metà del sec. XV),
Madonna della misericordia, affresco.
Firenze, Convento della Ss.ma Annunziata.
Grappolo di santi
È importante che i fratelli vivano insieme in grande carità. Sia
che preghino, sia che leggano la Scrittura, sia che si occupino di
qualche lavoro, essi debbono avere come fondamento l’amore
fraterno. In questo modo sarà possibile assaporare la gioia della
partecipazione a queste diverse occupazioni: e a tutti coloro che
pregano, a tutti coloro che leggono, a tutti coloro che lavorano,
sarà dato di edificarsi reciprocamente nella trasparenza dell’anima e nella semplicità.
Così una grande concordia e una serena armonia formeranno
il vincolo della pace (Efesini 4, 3), che li unirà tra loro e li farà vivere con carità e semplicità sotto lo sguardo compiaciuto di Dio.
Quel che conta veramente è perseverare nella preghiera. Del
resto, è necessaria un’unica cosa: ciascuno deve possedere nel
suo cuore questo tesoro che è la presenza viva e spirituale del Signore. Sia che lavori, sia che preghi o legga, ciascuno deve cercare il possesso di quel bene imperituro che è lo Spirito santo.
(Anonimo del IV sec.: Omelia III, PG 34, 467-470)
277
Epilogo
Perseguendo, nella nostra vita, l’ideale di giungere alla perfetta statura di Cristo, avremo verso le creature solo rapporti di pace, di misericordia, di giustizia e di amore costruttivo.
In questo impegno di servizio, la figura di Maria ai piedi della Croce sia la nostra immagine conduttrice. Poiché il Figlio dell’uomo è ancora crocifisso nei suoi fratelli, noi, Servi della Madre, vogliamo essere
con lei ai piedi delle infinite croci, per recarvi conforto e cooperazione
redentrice.
Nella nostra dedizione a un amore sempre più grande, prenderemo
ogni giorno la nostra croce e, ricordando che saremo giudicati sulle
parole: «Ero affamato e mi avete nutrito [...], ero nudo e mi avete vestito [...]» , vogliamo rinunciare ai nostri interessi per seguire Gesù nella sua opera di salvezza dell’uomo.
La creazione è ancora nel dolore e nel travaglio . Ma la consapevolezza di essere portatori di quelle energie che la libereranno dalla
schiavitù della corruzione per introdurla nella libertà dei figli di Dio ,
ci dia la gioia promessa da Cristo, che nessuno ci potrà mai togliere.
(Costituzioni dell’Ordine dei frati Servi di Maria, Roma 1987, n. 319)
indice
pagina
Prefazioni
5
D.M. Turoldo: il canto dentro il silenzio
(B.M. Antonini)
7
La visione mariana di Giovanni M. Vannucci
(A.M. Serra)
Preliminare del curatore
David M. Turoldo
Invito al canto
Via pulchritudinis
Anima mundi
Vera Beatrice
Giovanni M. Vannucci
La donna eterna
La divina Sophía
I simboli religiosi della femminilità
Maria e lo Spirito santo
Maria figura del ritorno all’unità
Il grande segno
Maria
Magnificat
Alcuni segni della Natività
Il nuovo volto di Dio
Una nuova nascita
Maria e Giuseppe
L’acqua e il vino
La “strada del sole”
13
17
19
21
29
33
37
39
45
75
85
91
93
97
111
115
117
119
123
129
L’Immacolata concezione
La natività di Maria
L’annunciazione
La Vergine ai piedi della croce
Assunzione della Vergine
I Servi e la Vergine-madre
Una miniatura iniziatica della Congregazione
dell’Osservanza
135
139
143
145
149
157
167
David M. Turoldo
Inni e poesie
183
Icone Mariane dei Servi
Nel segno della santità e della bellezza
235
237
Immagini
Epilogo
243
277
David M. Turoldo
SANTA MARIA
frate dell’Ordine dei Servi di Maria e sacerdote
dal 1940, era nato in Friuli nel 1916. La sua
vita e la geniale attività di predicatore e di
scrittore è stata prevalentemente legata all’ambiente milanese: prima, negli anni cruciali
della Resistenza e della ricostruzione materiale e civile del dopo-guerra; poi negli anni
attesi della grande innovazione conciliare. Il
suo nome, insieme a quello del confratello e
amico Camillo de Piaz, è legato soprattutto
alla fucina culturale che fu la Corsia dei Servi
presso il convento di San Carlo al Corso in
Milano. Dal 1964 la sua dimora abituale fu
al Priorato di S. Egidio a Fontanella di Sotto
il Monte-BG. Innumerevoli sono i saggi, di
contenuto religioso e civile, da lui prodotti,
insieme a opere di prosa, di teatro e soprattutto di poesia.
Morì a Milano il 6 febbraio 1992 ed è sepolto nel piccolo cimitero di Fontanella.
I testi, gli inni e le poesie, inseriti nella
presente raccolta in omaggio a santa Maria,
sono tratti, oltre che dai volumi citati, da:
Mie notti con Qohelet, Garzanti 1992; La
nostra preghiera, Servitium 19963; Ave Maria, GEI 1984; Come i primi trovadori, CENS
1988.
«Quale omaggio alla Madre in occasione della presente raccolta,
vorrei rifarmi, a modo di prefazione, al brano di un documento
pontificio dove Paolo VI ci rimanda alla Vergine non solo come
via veritatis, ma anche come via pulchritudinis: via da seguire
se si vuole raggiungere la beatitudine promessa. Una beatitudine
che non può essere tale se, appunto, è solo verità. La verità da
sola può fare anche male. La verità la possiedono anche i dannati.
Ma la bellezza!... Infatti Dostoevskij dice che sarà la bellezza a salvare il mondo. E io, senza sconvolgere nessun ordine, ma solo
per dire quanto più mi preme, precisamente vorrei qui proclamare, avanti a ogni altra urgenza, la via della bellezza.»
David M. Turoldo Giovanni M. Vannucci
DAVID MARIA TUROLDO
ISBN 978-88-8166-377-4
9 7 8 8 8 8 1 6 6 3 77 4
sdt 26
GIOVANNI MARIA VANNUCCI
David M. Turoldo
Giovanni M. Vannucci
SANTA MARIA
nato a Pistoia il 26 dicembre 1913, fu monaco
nell’ordine dei Servi di Maria. Inserito nella
ricca fioritura culturale, religiosa e civile di
Firenze fin dal 1952, insieme a David M. Turoldo ha rappresentato una delle voci profetiche di quel periodo. Nel 1967 diede corso
a una nuova forma di vita monastica nell’eremo di San Pietro alle Stinche presso Panzano in Chianti-FI con il semplice intento di
«offrire un luogo di silenzio fattivo a chiunque
ne ha nostalgia».
Uomo di cultura vastissima, unendo le
tradizioni spirituali dell’oriente e dell’occidente in una profonda saggezza di lettura, ha
tracciato piste affascinanti per una ricerca
religiosa autenticamente universale e per una
esperienza credente che dalla conoscenza
pura della verità porti alla libertà dello spirito.
Si è spento il 18 giugno 1984 ed è stato sepolto nel grazioso prato cimiteriale di San
Martino presso il primitivo eremo dei Servi a
Monte Senario.
I testi qui raccolti provengono, in particolare,
dalle riviste: Marianum, Roma; Rocca, Assisi;
Servitium, Sotto il Monte; e da alcuni dattiloscritti di conferenze o lezioni.