Documento PDF - Università IUAV di Venezia

Re-It
05
isbn
05
RE-CYCLE
OP_POSITIONS I
978-88-548-7239-4
Aracne
euro 30,00
Re-cycle Op_positions I
Re-cycle Op_positions I e II raccolgono gli atti dell’omonimo convegno che si è tenuto il 4 aprile 2014 presso l’Università Iuav di
Venezia a cura di Renato Bocchi e del Laboratorio Re-cycle. Oltre agli atti sono presenti alcune riflessioni che hanno preceduto
e seguito l'incontro veneziano.
I due volumi riguardano rispettivamente il primo le due sessioni etico/estetico, ecologico/economico, il secondo le altre due
sessioni noto/innovativo, autoriale/politico. Le coppie oppositive
(op_positions) hanno avuto lo scopo di generare un dibattito e
una presa di posizione (positions) più chiara e incisiva possibile
sui modi di interpretare il tema del riciclo negli ambiti disciplinari dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio. Alcuni
contributi sono in forma di manifesto, altri di saggio: i primi
sono il risultato di una call interna alla rete di ricerca, i secondi corrispondono sostanzialmente alle relazioni presentate al
convegno. Il filosofo Rocco Ronchi, l’economista Ezio Micelli, il
critico d’arte Marco Senaldi e il sociologo Federico Boni sono
stati chiamati a partecipare in qualità di testimoni di angolazioni
disciplinari differenti rispetto a quelle presenti nel progetto di
ricerca Re-cycle Italy.
1
RE-CYCLE
OP_POSITIONS I
A CURA DI
SARA MARINI
SISSI CESIRA ROSELLI
2
Progetto grafico di Sara Marini e Sissi Cesira Roselli
Copyright © MMXIV
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133/A–B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN 978-88-548-7239-4
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi
mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il
permesso scritto dell’Editore.
I edizione: giugno 2014
3
PRIN 2013/2016
Progetti di Ricerca
di Interesse Nazionale
Area Scientifico-disciplinare
08: Ingegneria civile
ed Architettura 100%
Unità di Ricerca
Università Iuav di Venezia
Università degli Studi di Trento
Politecnico di Milano
Politecnico di Torino
Università degli Studi di Genova
Università degli Studi di Roma
"La Sapienza"
Università degli Studi di Napoli
"Federico II"
Università degli Studi di Palermo
Università degli Studi
"Mediterranea" di Reggio Calabria
Università degli Studi
"G. d’Annunzio" Chieti-Pescara
Università degli Studi di Camerino
4
Re-cycle Op_positions I e II raccolgono gli atti dell'omonimo convegno che si è tenuto il 4
aprile 2014 presso l'Università Iuav di Venezia a cura di Renato Bocchi e del Laboratorio Recycle. Oltre agli atti sono presenti alcune riflessioni che hanno preceduto e seguito l'incontro
veneziano. Il Laboratorio Re-cycle è un tavolo che vede lavorare assieme i responsabili degli
undici laboratori presenti nei diversi Atenei coinvolti nella ricerca: Sara Marini e Stefano
Munarin per l'Università Iuav di Venezia, Chiara Rizzi per l'Università di Trento, Andrea Gritti
per il Politecnico di Milano, Mauro Berta per il Politecnico di Torino, Raffaella Fagnoni e
Alberto Bertagna per l'Università di Genova, Francesca Romana Castelli per L'Università
di Roma "La Sapienza", Fabrizia Ippolito per l'Università "Federico II" di Napoli, Daniele
Ronsivalle per l'Università di Palermo, Consuelo Nava per l'Università "Mediterranea"
di Reggio Calabria, Francesca Pignatelli per l'Università "Gabriele d'Annunzio" di Chieti
Pescara, Giulia Menzietti per l'Università di Camerino. Hanno lavorato alla segreteria del
convegno Sissi Cesira Roselli e Vincenza Santangelo dell'Università Iuav di Venezia.
5
Indice
re-cycle
Re-cycled Paper
Renato Bocchi
13
Il territorio reale e il territorio dell'architettura
Sara Marini
22
OP_POSITIONS
(Ri)costruire il senso. Verso un marchio di qualità Re-cycle Italy
Raffaella Fagnoni
33
Alcune questioni... per una teoria del re-cycle
Giulia Menzietti
38
Il carattere sovversivo del riciclo
Chiara Rizzi
44
L'assedio, ovvero per una tattica di uscita dai confini del riciclo
Daniele Ronsivalle
49
etico/estetico
Il bello e il buono di Re-cycle
Andrea Gritti
57
6
Il filosofo e i resti
Rocco Ronchi
65
Frammenti e dintorni. Divagazioni etiche e derive estetiche
Matteo Aimini
73
La metafora del Riciclo
Sara Favargiotti
83
Objet trouvé o ready-made?
Enrico Formato
90
I'm so vain. Just, don't waste me away
Maria Clara Ghia
96
Que lo hermoso sea poderoso. Una conversazione virtuale
con Ramon Folch
Stefania Staniscia
103
Il progetto di riciclo potrà incidere sul nostro spazio di vita se saprà
costruire i termini semplici di un nuovo codice urbano e paesistico
Federico Zanfi
107
Il processo come estetica del riciclo
Guya Bertelli, Juan Carlos Dall'Asta, Paola Bracchi,
Giuliana Bonifati
114
Il paesaggio imperfetto
Gianni Celestini
116
Il progetto dell'emergenza. Etica = Estetica condivisa:
"La bellezza salverà il mondo"
Barbara Coppetti, Andrea Di Franco, Mauro Marinelli,
Alisia Tognon
118
Re-cycle [è] può essere etico/estetico. Derive e potenzialità di un paradigma
ancora da scrivere
Carlo Deregibus
120
7
Re-cycle. Visione e pensiero
Giovanni Hänninen
122
Discarica paesaggio
Venera Leto
124
Recycle (Upcycle) urbano è... e perchè.
Strategia per la rete del verde locale a favore di un ritorno dell'etica
disciplinare nel progetto della città
Lucia Nucci
126
La bellezza del giusto
Adriano Paolella
128
Riciclo [compimento] estetico [est]etico del margin[al]e
Luca Zecchin
130
ECONOMICO/ECOLOGICO
Total Recycle Design/Total Recycle Process
Consuelo Nava
135
Il recycle come opzione e come necessità. Le condizioni economiche del
riuso tra stagnazione e ripresa
Ezio Micelli
142
Cycle vs Re-cycle
Marco Bovati, Cassandra Cozza
152
Sguardi rovesci, strabici
Emanuel Lancerini
159
Oltre le retoriche del green e dello smart ci sono un’economia e
un’urbanistica fatte di manutenzione innovativa e trasformatrice
Arturo Lanzani
165
Progetti e rifiuti
Rosario Pavia, Matteo di Venosa
173
8
Il paesaggio che resiste: Re-cycle come attitudine
Cristina Sciarrone
179
Blue (+) Green settlements. Towards a new land/water network of
drosscapes
Sabrina Sposito
186
Rurbanscapes: oltre il paesaggio
Ignazio Vinci
193
Nuove ecologie/economie latenti
Libera Amenta, Susanna Castiello, Cecilia Di Marco
198
Ri-ciclo fondato sul progetto
Claudia Battaino
200
Paradigmi per il re-cycle di infrastrutture in territori fragili
Emilia Corradi, Raffaella Massacesi
202
Dall'obsolescenza programmata al riciclo ecologicamente orientato
Emanuela De Marco
204
Eco-stormwater re-cycle. New landscapes-new life. Il progetto di riciclo e
riuso delle acque meteoriche per l'adattamento climatico e la creazione di
nuovi paesaggi
Emanuela Genovese
206
208
Orditure del terzo spazio. Fabbricare l'agricoltura
Paola Misino
Riconessioni agrourbane
Elisabetta Nucera
210
Economia/Ecologia
Michelangelo Russo, Danilo Capasso
212
9
10
RECYC
CLE
11
Sissi Cesira Roselli, Resident, Londra 2013
12
13
RE-CYCLED
PAPER
Renato Bocchi
>IUAV
Nei quattro quaderni che raccolgono le prime elaborazioni teoriche svolte
dal nostro vasto gruppo di ricerca lo scorso anno, si possono rintracciare
varie linee di pensiero, distinte o fra esse intrecciate, circa il tema del riciclo architettonico, urbano e del paesaggio.
Questo secondo convegno – a distanza di un anno – intende identificare le
"tesi" che fondano quelle differenti linee di pensiero e confrontarle apertamente in una dialettica che mi auguro costruttiva, in quanto chiarificante
delle rispettive posizioni.
Abbiamo proposto – attraverso un intenso lavoro svolto dagli undici responsabili di sede del Laboratorio Re-cycle – di fare il punto sulla questione, partendo dalla discussione di quattro coppie oppositive secondo
le quali il concetto di riciclo può essere declinato e definito. Le coppie
oppositive prescelte – cui sono dedicate le quattro sessioni del convegno –
sono: etico/estetico, economico/ecologico, noto/innovativo, politico/autoriale.
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Provo qui a sintetizzare le linee di pensiero che mi paiono emergere dai
quattro quaderni fin qui pubblicati.
LINEA 1/a – L’infrastruttura ambientale come matrice del riciclo territoriale
Una prima linea di pensiero accomuna vari contributi, soprattutto torinesi,
veneziani e romani, e ha a che fare sia con le coppie economico/ecologico
e noto/innovativo (privilegiando – mi pare – gli aspetti ecologici e del già
noto) sia con la coppia politico-autoriale (con propensione – mi pare – per
la dimensione politica). La possiamo riassumere con gli slogan proposti
da Antonio De Rossi e Mauro Berta: «Una "ritirata strategica" dall’urbanizzato (intesa come opportunità per ripensare le modalità di progettare e
costruire il territorio e per ricalibrare e riorientare i modelli di sviluppo) e
una "geografia della restituzione" (intesa come opera di rinforzo tramite
una rinaturalizzazione dei territori resi più fragili dallo sviluppo).»
Si tratta dunque di un riciclo che gioca a favore della riscoperta di valori perduti e obliterati, nascosti nelle pieghe dell’infrastrutturazione più
ancestrale dei territori – soprattutto nell’armatura geografica: riguarda i
grandi telai infrastrutturali, ritenuti fondamentali per una strategia di "riciclo territoriale" in funzione di un modello di fruizione "lento" – contrastante le logiche dello sviluppo capitalistico imperante – in cui per esempio i
paesaggi fluviali possano tornare ad essere – come dicono Carlo Magnani
e Emanuel Lancerini – infrastruttura del paesaggio, in quanto contribuiscono ad aumentare la qualità della vita. La rete ambientale – come proposto anche dagli studi dei colleghi di Roma sulla "coda della cometa"
– vuol tornare così ad essere fondante dell’armatura territoriale.
LINEA 1/b – I telai infrastrutturali nei territori fragili
Un corollario di questa linea di ricerca è presente soprattutto nell’elaborazione del gruppo pescarese, quando indaga non più sul «"troppo pieno"
delle conurbazioni più dense e più efficienti, ma soprattutto sul "troppo
vuoto" dei territori fragili dell’entroterra abruzzese e lavora sul possibile
riciclo delle infrastrutture deboli – come per esempio le ferrovie minori
in via di dismissione – capaci di stabilire reti di prossimità» (Carmen Andriani). Questo ragionamento può accostarsi alle ricerche sui territori dei
grandi conflitti bellici condotte dal gruppo veneziano Ferlenga-De Maio,
in cui «il reimpiego fisico dei resti di un ciclo esaurito si accompagna a
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quello immateriale di tradizioni, riti, leggende e in cui la topografia transtemporale delle guerre sembra aver trasformato e rappresentato il paesaggio più di ogni altro evento. Si mantiene così il valore di un modo di
interpretare l’infrastruttura-paesaggio, tale da proporsi come il supporto
logistico al sistema stesso degli attuali usi turistici.»
LINEA 2/a – Nuovi paradigmi.
Per una strategia etico-politica del riciclo urbano-territoriale
Una seconda linea di pensiero e d’azione disegna invece una strategia
etico-politica del riciclo urbano-territoriale lavorando sulla ricerca di nuovi paradigmi. Non si lavora in tal caso sul riciclo di valori positivi consegnati
dall’eredità storico-geografica e sostanzialmente obliterati dai processi di
trasformazione, quanto piuttosto sul riciclo di disvalori (di scarti), tuttavia
in funzione positiva, cioè per la costruzione di nuovi modelli insediativi che
riescano a metamorfizzare quegli stessi scarti.
Scrive Mosè Ricci: «Riciclare vuol dire creare nuovo valore e nuovo senso.
Il concetto del riciclo implica una nuova storia e un nuovo corso. Coinvolge la narrazione più che la misura. Il suo campo di riferimento è il paesaggio, non il territorio. Il "recycle footprint" è l’impronta che precedenti
cicli di vita di parti urbane dismesse o abbandonate lasciano sulla città;
rappresenta la geografia dei luoghi urbani abbandonati o sottoutilizzati e
ne descrive il valore potenziale: è il patrimonio reale che la città che non
consuma suolo può spendere sul progetto del proprio futuro.»
Fondamentale è tuttavia il ripensamento dei nuovi principi insediativi stessi con cui reintegrare e manipolare i "resti", fondato su una rinnovata volontà di integrazione con i caratteri salienti del paesaggio. Il nuovo ciclo di
vita ripensa totalmente il materiale del preesistente. È un processo di vero
e proprio ri-germoglio, come lo chiama Maurizio Carta.
LINEA 2/b – Per un'ecologia artificiale
Un corollario di questa linea di pensiero – che potrei definire Per un’ecologia artificiale, rubando a Consuelo Nava una citazione da Stan Allen – propone di accogliere la propensione popolare al riciclo (Vincenzo Gioffrè) per
estenderla agli scarti del paesaggio. È una linea che, attraverso il concetto
di riciclo, cerca esplicitamente di sposare ecologia e paesaggio.
«Occorre recuperare» – dicono i colleghi reggini richiamandosi agli ultimi
scritti di Kevin Lynch – «l’enorme quantità di suoli abbandonati […] verso
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un concetto più sostenibile di rigenerazione della "terra esaurita", quale
terra abbandonata proprio per i cambiamenti di mercato.»
E cercano di individuare modalità attraverso le quali questo capitale di
"energia grigia" investita, che ha prodotto enormi danni ambientali, possa
ritornare ad essere un bene comune, istituendo uno stretto rapporto con
attività di partecipazione comunitaria, che sfruttino a dovere il lavoro dal
basso presente nelle spinte sociali dei nostri tempi di crisi.
LINEA 2/c – Riciclo urbano come bricolage e come Merz-Bau
Un secondo corollario di questa linea di pensiero si può rintracciare nella
posizione che vede il «riciclo urbano come strumento di bricolage per costruire quello che Schwitters chiamava Merz-Bau»: una linea che sembra
proporsi di coniugare obiettivi etici ed estetici e in qualche modo anche
l’autoriale col politico. Nicola Emery (in Distruzione e progetto, Marinotti, Milano 2011) ci ha recentemente ricordato come la "filosofia Merz" di
Kurt Schwitters, fondata sul raccogliere-riformare e curare detriti e scarti,
tendesse infatti a superare il riciclo in senso meramente mercantile-produttivo per aprire alle "pratiche sociali dal basso", proponendo di fatto una
coniugazione degli obiettivi estetici (dell’opera d’arte) con quelli di natura
etico-sociale e quindi politica.
«La Merz-Stadt – spiega Emery – presuppone un controllo dell’economico
"prestazionale" da parte di un riattivato principio di cittadinanza».
L’approccio del bricoleur invocato da Walter Benjamin e ripreso dagli studi
antropologici di Levi-Strauss è allora forse da riscoprire – come propone
Angrilli – per articolare l’azione del riciclo urbano. «Come per il bricoleur»
– dice Angrilli – «a regola del gioco per progettare nuovi cicli di vita per
i territori fragili consiste nel rielaborare continuamente ciò che ci offre il
contesto, escogitando sempre nuove possibilità combinatorie e creative.»
Io stesso ho sostenuto altrove (The Waste Land-scape, in A. Bertagna, S.
Marini, The Landscape of Waste, Skira, Milano 2011) la volontà di «disegnare un processo che costruisca relazioni (spazio-temporali) fra i frammenti-scarti della nostra civiltà post-industriale per giungere a qualcosa come
un merz-bau à la Schwitters, dove la dinamica temporale sia attentamente
considerata e incorporata in funzione "proiettiva", assumendo un metodo
simile a quello proposto da Eliot nella sua Waste Land».
Il che presuppone tuttavia – e questo è il nodo a mio parere – l’uso del
bricolage in funzione di un’istanza di ordine finale. Ovvero: costruire – più
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ancora che un racconto – un montaggio (ipertestuale) di cose e di immagini capaci di delineare un quadro spaziale complesso e però anche
continuamente in evoluzione: insomma un palinsesto che contenga tracce
del passato ma "immagini" anche un possibile futuro. Il che significa appunto disegnare nuove "crudeli primavere", utopie del possibile – se si vuole – che possano realizzarsi anche attraverso frammenti e con interventi
minimi e puntuali e certamente attraverso meccanismi processuali, ma
che puntino comunque a un disegno di riattivazione e rigenerazione più
globale. «Elevato a paradigma, il riciclo come "ri-germogliazione", diviene
un tramite» – secondo le parole di Alberto Bertagna – «un connettore e un
facilitatore, grazie al quale ricomporre un quadro contemporaneo complesso, sconnesso»: non mai definitivo – dico io – ma processualmente
tendente comunque a un fine ultimo.
LINEA 3 – Scarti, rifiuti, aree inquinate (politiche per)
Una terza linea di pensiero che attraversa i nostri lavori riallaccia il tema
del riciclo più specificamente alle politiche per il recupero degli scarti,
dei rifiuti e delle aree inquinate, quindi a una dimensione squisitamente
politico-pianificatoria, privilegiando decisamente gli obiettivi economicosociali e politici del riciclo.
«Riciclare» – scrive al riguardo Rosario Pavia – «non attiene solo ai rifiuti in senso stretto ma anche ai territori in abbandono e alle infrastrutture sottoutilizzate e dismesse. Riciclare significa in sostanza rendere il
territorio più sostenibile, più efficiente dal punto di vista energetico e di
consumi, più produttivo e accessibile. Riciclare porta a modernizzare, trasformare, densificare, interconnettere.»
Si rende quindi necessario mappare una geografia del «drosscape, quale
arcipelago di spazi contaminati» – come propone il gruppo napoletano –
e delineare perciò «network paesaggistici multiscalari costituiti da spazi
aperti abitati e multifunzionali, dando luogo a un vero progetto di bonifica
– un progetto che sia stratigrafico-relazionale nello spazio e resilienteadattativo nel tempo.» (Carlo Gasparrini).
LINEA 4 – Dalla modificazione ai nuovi cicli di vita: la costruzione di una
teoria della città e del territorio come risorse rinnovabili
Ma il tema del waste è solo la punta dell’iceberg della questione del riciclo.
Nella direzione di una teoria di tutta la città e di tutto il territorio come ri-
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sorse rinnovabili, il gruppo Viganò, per esempio, propone come chiave di
s-volta di passare decisamente dal concetto di modificazione su cui si appuntavano gli studi urbani degli anni Settanta e Ottanta al concetto di nuovi
cicli di vita.
La metamorfosi è allora il nuovo paradigma proposto. «Essa indica un
cambiamento di stato, segnala la distanza da un dibattito che di fronte ai
primi segnali di trasformazione epocale (soprattutto le grandi dismissioni
industriali) ha cercato di stabilire linee di continuità con il moderno ed il
suo progetto.»
Si cerca dunque di riscoprire e liberare l’energia incorporata nei nostri territori urbanizzati. «Il concetto di "ciclo di vita", associato al Viaggio in Italia»
– aggiunge Paola Viganò – «è un "theory-building device" per affrontare il
passaggio del tempo e i mutamenti strutturali nelle organizzazioni e nei
processi di crescita o di declino. […] La nostra ipotesi è che questi processi
possano essere compresi a partire da una lettura dello spazio.»
Emerge così una dimensione temporale del costruire (Ilaria Valente), tutta
da mappare e interpretare.
LINEA 5 – Postproduzione, strategie di riciclo e di abbandono, processi
di selezione
Ma possiamo pensare che il riciclo diventi anche uno specifico innovativo
paradigma per il progetto contemporaneo?
La linea di pensiero che potremmo chiamare "marchigiana" – proposta da
Sara Marini, in diretta continuità con l’impostazione della mostra Re-cycle
di Pippo Ciorra e con le ricerche dell’Unità di Ascoli, sottolinea il significato delle strategie del riciclo, e anche delle possibili (se non necessarie)
strategie di abbandono, come processi di post-produzione che impongono
dei precisi processi di selezione. «Riciclare (secondo le varie accezioni di
upcycle, hypercycle, downcycle, ecc.) implica» – spiega Sara Marini – «la
moltiplicazione dell’utilizzo dell’oggetto, la sua aspirazione ad una sorta di
ossessiva possibilità di recupero perenne attraverso la ripetizione di una
sequenza fissa di eventi o l’istituzione di diversi processi.»
Si constata l’assenza nel contemporaneo di un immaginario (insomma di
una visione di futuro), «l’incapacità di costruire nuovi mondi a partire dallo
scarto, incapacità dettata dall’interpretazione sostanzialmente tecnologica ed ecologica del "nuovo materiale" con il quale si progetta.
Si tratta allora di scegliere esplicitamente cosa salvare, su cosa investire,
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e anche cosa togliere, cosa perdere. La "scelta" che attende il progetto
potrebbe appunto non coincidere più e soltanto con incrementi di quantità
ma con la sfida di affermarsi agendo attraverso demolizioni. Il progetto è
doppio: è anche decidere cosa cancellare.»
Sembra emergere quindi decisamente in questo caso una dimensione
estetica, autoriale ed innovativa del progetto di riciclo.
È qui allora che si ipotizza – come fa per esempio Marco D’Annuntiis – un
passaggio dalla dimensione etica a quella estetica: «Ciò che è "politicamente corretto", in quanto prodotto di riuso/riciclo, può risultare per ciò
stesso anche dotato di senso e quindi: "bello".»
«In quale modo» – si chiede D’Annuntiis – «il riuso/riciclo inteso come
strategia fondativa può segnare diversamente il progetto di architettura,
rispetto al modo che ognuno ha già di rapportarsi con ciò che pre-esiste
nell’azione progettuale? Portata al suo estremo – pur senza ricadere negli
opposti estremismi della tabula rasa e della rinaturazione – tale strategia
dovrebbe prevedere anche la cancellazione, totale o parziale, di segni e
materiali esistenti per riciclare ancora una volta il palinsesto territoriale,
riscrivendo o sovrascrivendo su di esso un nuovo discorso.»
Provvisorie conclusioni: la verità, vi prego, sull’autore
Dal dibattito nel convegno, esprimendo un parere del tutto personale – al
di là delle evidenti differenti declinazioni proposte per il tema e il concetto
di ri-ciclo già in parte presenti nella tassonomia qui sopra genericamente
proposta – sono emersi almeno due-tre piani distinti di discorso, che forse
possono chiarire in parte i nessi e le possibili correlazioni fra le linee di
pensiero individuate ed i filoni di ricerca ed elaborazione che ne derivano.
Da un lato, il concetto di nuovo ciclo di vita si propone come possibile
costruttore di un nuovo scenario futuro dei modelli insediativi e del loro
rapporto con i paesaggi italiani del XXI secolo: si tratta in questo caso di
un’elaborazione che sembra dover far leva su una visione "autoriale" (non
uso a caso questo termine, che richiama appunto elaborazioni "visionarie"
da parte della cultura architettonico-urbana, talvolta sconfinanti in "utopie" più o meno possibili o futuribili, e in tal senso comunque "innovative")
basata su nuovi paradigmi sia socio-economici sia urbanistico-territoriali,
capace di rovesciare i termini di lettura del quadro territoriale presente.
Non a caso si insiste da più parti sulla messa a punto di "nuovi paradigmi", di una mappatura della "città inversa", della necessità insomma di
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lanciare un "nuovo sguardo" sui fenomeni di trasformazione urbana e territoriale e di "cambiare verso" (se vogliamo il "verso" all’attuale premier)
al governo di tali fenomeni.
Si tratta quindi di elaborare da parte della cultura architettonico-urbanistica, a partire da una coscienza "politica" attenta e disincantata, visioni
rinnovate e strategiche, fondate sul concetto di nuovo ciclo di vita, capaci
di informare la filosofia e le tecniche di lettura e gli strumenti di governo
di quei fenomeni medesimi, in cui possono trovare senso anche le parole
d’ordine spesso abusate che ricorrono nei nostri discorsi programmatici,
quali paesaggio e sostenibilità.
Da un altro lato, il concetto di riciclo, in termini più tecnici e strumentali,
sembra proporsi come chiave di volta per un’azione, per sua necessità
squisitamente "politica", e quindi per l’intervento concreto sui processi in
atto, attraverso "azioni" mirate, incisive, "tattiche", molto spesso compiute
secondo interventi "dal basso", capillari, "omeopatici", infiltranti il corpo
delle città e dei territori.
Si tratta quindi di innescare e attuare progressivamente "processi" rigeneratori, nei quali gioca di nuovo un ruolo, da un lato, l’"autorialità" in
fase di innesco dei processi stessi (dando spazio a un taglio più creativo
e inventivo di azione progettuale) e dall’altro la "politicità" in fase di progressività dell’azione e di messa a sistema dei processi trasformativi (con
l’intervento anche di meccanismi e incentivi di tipo economico-fiscale,
normativo-legislativo e squisitamente politico).
Lo strumento progettuale del riciclo, con la sua incisività e innovatività
sia in senso ecologico sia in senso economico – persino laddove ripensi e
rimetta in essere tecniche già collaudate e sperimentate nel passato nelle
nostre discipline – può forse uscire allora dalle secche della parola d’ordine politically correct e farsi invece portatore di un rinnovamento anche
degli strumenti disciplinari dell’architettura, come avviene nelle sperimentazioni più interessanti dell’architettura internazionale, convertendosi
non troppo paradossalmente in un più interessante significato politically
uncorrect. Non è in tal senso certamente casuale la celebrazione sempre più frequente di figure che in questo campo hanno aperto le porte da
tempo ad una efficace e audace sperimentazione: dal Pritzker a Shigeru
Ban, al successo crescente degli appelli "ecologici" e "sociali" di architetti
altrettanto e più sperimentatori, anche sul piano delle tecnologie, quali
Toyo Ito o Kengo Kuma, alla crescente influenza in Italia, e non solo, di un
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guru come Renzo Piano, solo per citare alcune fra le esperienze mediaticamente più visibili. Benché io creda – proprio per questo – che sia poco
appropriato parlare di esigenze di "rammendo" come ha fatto di recente
Renzo Piano nella sua campagna mediatica, con un termine che troppo richiama ipotesi di rimedio e riparazione o mitigazione, mentre nella parola
"ri-ciclo" sembra ritrovarsi una determinazione più forte e radicale, quindi
più convincente, a favore di un necessario rovesciamento di prospettiva.
22
IL TERRITORIO REALE
E IL TERRITORIO
DELL'ARCHITETTURA
Sara Marini
>IUAV
1.
23
2.
René Daumal e Peter Handke aprono e chiudono questa breve incursione nel territorio reale e in quello dell'architettura (guidati dal termine recycle) alla ricerca di confini, tangenze, chiare corrispondenze. «Il territorio
cercato deve poter esistere in una regione qualsiasi della superficie del
pianeta; bisogna dunque studiare per quali condizioni risulta inaccessibile
non solo alle navi, agli aerei o ad altri mezzi di trasporto, ma anche allo
sguardo. Voglio dire che, teoricamente, potrebbe benissimo esistere in
mezzo a questo tavolo senza che ne avessimo la minima nozione.»1
Il termine re-cycle, in questo percorso di ricerca, si sta dimostrando la
cartina al tornasole di una serie di altri intrecci tra parole e cose. Nella ricerca, ponendosi il problema della verità, obbliga a riflettere su strumenti
e territori. Il termine riapre la riflessione sul ruolo e lo statuto dell'architettura, in senso più vasto conduce ad una revisione del concetto o della
veste contemporanea della modernità. Sostanzialmente re-cycle pone un
24
problema di metodo: esaspera posizioni e opposizioni, o forse semplicemente sottende un'identità molteplice (come da sua definizione).
Quando l'impalcatura, la traccia di questa ricerca è stata scritta re-cycle
sembrava già essere una parola d'ordine, un termine pervasivo capace di
mettere tutti d'accordo e, pur essendo assunto con accezioni differenti,
sembrava imminente il suo tradursi in realtà, in prassi. Così non è ancora.
Anzi è sempre più evidente che il riciclo è un paradigma soprattutto per la
ricerca italiana; altre realtà europee, come ad esempio quella spagnola,
non lo contemplano affatto.
In Francia e Germania sicuramente questa strategia è tenuta in grande
cosiderazione, grazie anche a regole che definiscono la quantità di suolo consumabile, a cui si affiancano norme che permettono ampie libertà
di revisione dell'esistente: in queste realtà l'architettura trovata è nuova
terra. Termini quali preservation, convertible, réutiliser testimoniano una
sensibilità europea al tema spesso concentrata a definire lo strumento
progettuale piuttosto che a tracciarne le connivenze con altri campi, con
altri cicli.
In Italia re-cycle disegna corrispondenze tra architettura, altre arti, produzione: la strategia viene guardata quale grande affresco in cui finalmente
la cultura può convergere di concerto. In questi anni la produzione scientifica si sta arricchendo di progetti realizzati, dove spesso il riciclo è un
ripiego più che una direzione cercata, mentre la produzione bibliografica
spesso si limita a raccolte di sperimentazioni denunciando una sempre
più diffusa ritrosia verso la speculazione teorica, relegata agli altri saperi
e ad altre arti.
Il tutto sembra restituire uno statuto teorico debole, e forse così è, di questa strategia progettuale a fronte di una sua applicazione di necessità, che
chiede però ancora spinte normative ed economiche.
Fanno eccezione a questo ragionamento una serie di esperienze che hanno nel progetto di recupero di Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal del
Palais de Tokyo il capostipite, progetti quali il Matadero di Madrid o molti spazi del lavoro e del tempo libero che possiamo rintracciare nei meandri delle città, forse delle città più ricche d'Europa.2 Si tratta di spazi
che assumono il re-cycle come nuova lingua, nuova bandiera d'una idea
di modernità cangiante, dichiaratamente non monodirezionale, non tanto
in termini spaziali, quanto temporali. Sono spazi della resistenza, della
sopravvivenza di vecchi magazzini, edifici dalla storia più o meno ordinaria
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che persistono in aree soggette a una evidente gentrification. Sono luoghi
della collezione, dell'inventario senza ordine, dove quello che conta non
è il singolo oggetto e nemmeno la sua autenticità ma l'inventario stesso,
sono Wunderkammer o raccolte di storie.
Spazi in cui le persone s'incontrano grazie all'appartenenza comune al
mondo della produzione, del pensiero, delle arti, dell'immateriale e che
trovano nell'accatastamento casuale di cose e di tempi un'atmosfera coincidente con la propria idea di contemporaneità, di modernità. Questi stessi
spazi si offrono quale risposta oppositiva al replicarsi di una modernità
monotona. Una modernità specchiata che si enuncia nella forza del metro cubo e nell'attualizzazione della città piuttosto che in un messaggio.
Una modernità che è il riflesso di un'economia che sembra procedere con
traumi ma senza dubbi.
In sintesi nello scenario generale, se si guarda alla realtà, il territorio dell'architettura sembra coincidere sostanzialmente con il territorio
dell'economia e gli altri termini che potrebbero disegnare opposizioni (etico, estetico, ecologico, noto, innovativo, politico, autoriale) sembrano ancillari. Se si guarda con maggiore attenzione, il territorio dell'architettura
non è tanto nelle cose quanto nelle tensioni culturali che questo territorio può esprimere. Gli architetti in Italia firmano il quattro/otto per cento
(stando ad alcune precise stime) dei manufatti realizzati.
Tornando alla ricerca, già nella tappa nazionale di questo PRIN che si è
svolta lo scorso autunno tra le scuole e le città di Pescara e di Ascoli Piceno si è fatta esperienza del dato reale (la città dell'Aquila ne ha rappresentato la bandiera) e del territorio immaginario: oggetto di studio e
progetto del workshop TRUE-TOPIA organizzato ad Ascoli Piceno erano
territori possibili ma non collocabili, non rintracciali in una mappa.
È possibile quindi schematizzare che la ricerca Re-cycle si muove tra cicli
di vita e cicli di produzione, tra teoria ed esperienza, utilizzando strumenti
quali l'astrazione e l'analisi del contesto.
Insistendo su questioni di metodo e sui territori possibili della speculazione, in questo tracciato vengono inseguite e la verità nelle cose e la verità delle cose, affermando l'analogia o sostenendo il neo neorealismo.
Riemergono così confini sempre presenti ma non esaustivi tra ricerca di
frontiera e ricerca applicata. Oltre la mera opposizione di paradigmi, si
perseguono un disegno organico e la necessità di ragionare su strumenti
diversi e obiettivi comuni.
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Posizioni e opposizioni
Va precisato che l'opposizione in astronomia è la posizione reciproca di
due corpi celesti allineati rispetto all'osservatore e che può rappresentare
un momento favorevole per vedere meglio, questo è il senso della costruzione delle quattro coppie di termini. Etico/estetico, economico/ecologico,
noto/innovativo, autoriale/politico intercettano e deformano possibili precise posizioni del termine re-cycle.
Nel momento in cui il termine re-cycle entra nel dizionario progettuale
si vuole sostenere la necessità che il progetto assuma uno statuto etico, a fronte dell'annunciata fine delle risorse e di una domanda di cambiamento dei costumi di come viene gestito il territorio. L'architettura al
contempo non può rinunciare ad una dimensione estetica. Se l'uomo è
senza contenuto, come sostiene Agamben, l'esperienza dell'arte può sopravvivere anche solo quale promesse de bonheur, come recita Nietzsche,
o ancora l'arte può essere interessata, come sostiene Artaud, così come
l'idea di bello può dileguarsi in un divenire molteplice3, in sovrapposizioni4.
In sostanza re-cycle non è una rinuncia del progetto ma una lingua dello
stesso. Certamente il termine deriva dal mondo della produzione. Il riciclo
è l'ultima prassi di un procedimento che lascia sul campo scarti. Solo
l'analisi economica può definire come e quanto il riciclo sarà "conveniente" e "autonomo" e non continuerà ad essere il semplice retaggio di una
produzione di stampo novecentesco. Il riciclo è scontatamente ecologico.
Si chiede oggi all'ecologia una nuova idea di città in dialogo con nuove
direzioni economiche, mentre la stessa ecologia ondeggia tra l'essere una
diversa economia e un paradigma coprente ed esaustivo. Nicola Emery ha
ricordato, in occasione di un seminario dedicato a possibili esercizi di postproduzione5, citando una recente sentenza del tribunale torinese i risultati
della "virtuosa" (in termini di riciclo del prodotto) capacità dell'eternit di
essere riutilizzato tanto da condurre ad un disastro ambientale doloso. Sul
riciclo si attestano molti luoghi comuni che lo disegnano eticamente ed
ecologicamente positivo e propositivo, l'intervento di Emery ha ricordato il
lato oscuro di questa strategia industriale.
La coppia di termini noto e innovativo mette in evidenza da un lato il ricorrere della strategia del riciclo nel tempo, dall'altro la capacità diacronica della lingua non solo di mutare ma anche di mutare i paradigmi del
fare, o meglio, su questo si sostiene buona parte del territorio letterario
dell'architettura. Il riciclo ritorna sulla scena della città, la storia riporta la
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perenne o meglio ciclica presenza di questa strategia, al contempo va verificato quanto le trasformazioni culturali aggiornino il concetto e la consapevolezza degli obiettivi sottesi nel suo utilizzo. Già la sola tecnologia
ci informa di una città che si stratifica non solo per questioni di necessità
ma per "ricostituire" il palinsesto virtuale, per citare uno dei paradigmi
della ricerca europea sulla città. Mentre le norme rendono sempre più
complesso arricchire un disegno che ha raccolto, per diverso tempo, la
sommatoria di obiettivi singoli e frammentari.
Il riciclo è autoriale e politico. L'autore ne risulta sfigurato o sfuggente. La
dimensione autoriale torna ad essere materiale di discussione e di progetto, riemergono questioni quali il ready made reciproco, basti pensare
a Daniel Spoerri e alla sua tavola da stiro che supera o esaspera il gesto
duschampiano sulla povera Monnalisa di Leonardo da Vinci. Mentre il collettivo chiede di partecipare: tornano echi del progetto politico, dell'atto
politico, svuotato di ideologia e più assimilabile a procedure artistiche o
anche dettato dalle nuove, vigorose industrie della comunicazione.
Altre derive, altre direzioni
Nel territorio della ricerca gli otto termini sottolineati rimandano ad un
dialogo con chi amministra i territori, con la filosofia, con l'economia,
l'ecologia, il design del prodotto, l'industria e la storia, l'arte perseguendo
la costruzione di città inclusive, innovative e poi la retorica della ricerca
europea recita anche sicure. In sostanza lo scenario disegnato dagli otto
termini sembra vasto ma in realtà si muove all'interno del macro settore europeo della ricerca dedicato alle scienze sociali ed umanistiche.
Re-cycle può essere appunto un terreno di scambio tra discipline che
dall'Italia sembrano distanti e che in Europa convergono verso un comune
orizzonte.6 Ciò che può muovere la trasmigrazione di un termine da un
sapere all'altro, si pensi ad esempio al palinsesto di André Corboz, prescinde comunque dalle strutture, dai metodi e dai contenitori della ricerca
e dipende sostanzialmente dalla necessità e dalla consapevolezza di un
sommovimento paradigmatico.
Peter Handke rende chiaro che difficilmente la realtà offre verità: è molto
più interessante guardare al territorio di mezzo tra ciò che è e ciò che si
attende, tra ciò che il territorio dell'architettura vorrebbe che fosse territorio reale e a ciò che il territorio reale offre all'interpretazione come
mancata corrispondenza da capire più che da scrivere.
28
«Fu sollevato, quando trovò sulla carta un quadrangolo che non ritrovò nel
paesaggio: la casa che doveva esserci in quel punto non c'era, e la strada,
che in quel punto faceva una curva, in realtà correva diritta. Parve a Bloch
che questa mancata corrispondenza potesse essere d'aiuto.»7
3.
4.
5.
6.
29
Note
1. R. Daumal, Il monte analogo. Romanzo
d'avventure alpine non euclidee e
simbolicamente autentiche, Adelphi, Milano
1991.
2. Si veda ad esempio il paesaggio
architettonico e il suo utilizzo nell'area
in cui è stato costruito lo store Freitag a
Zurigo.
3. Si fa qui riferimento al testo di G.
Deleuze, Divenire molteplice. Saggi su
Nietzsche e Foucault, Ombre Corte, Verona
1996.
4. Si fa qui riferimento al testo di C. Bene,
G. Deleuze, Sovrapposizioni, Quodlibet,
Macerata 2012.
5. Il seminario, dal titolo Esercizi di
postproduzione si è tenuto presso
l'Università Iuav di Venezia il 19 novembre
2013 ed è stato organizzato dall'unità di
ricerca Re-cycle. Strategie di riciclaggio per
l'architettura e la città del Dipartimento
Culture del Progetto dello Iuav. Gli atti
del seminario, tra i quali è presente il
contributo di Nicola Emery dal titolo
Riciclare il capital-nichilismo? Frammento
realistico, sono pubblicati in S. Marini, V.
Santangelo (a cura di), Ricicli. Teorie da
concetti nomadi e di ritorno, Aracne, Roma
2014.
6. Il convegno rappresenta una premessa
alla costruzione di nuovi progetti di ricerca
per l'Europa: traduzioni di Re-cycle Italy
nel panorama internazionale. I progetti
assumeranno, per tornare ai metodi della
ricerca, ricadute operative in virtù anche
del dialogo sia con chi amministra che
con chi produce il territorio. Il convegno è
anche l'introduzione di un ciclo di seminari
intitolato Immateriali ricicli dedicato alle
teorie del re-cycle che si svolgerà da
ottobre 2014 a gennaio 2015 presso il MAXXI
B.A.S.E. a Roma.
7. P. Handke, Prima del calcio di rigore,
Feltrinelli, Milano 1981.
Immagini
1. Venice 2014
2. Il piroscafo Aquitania in Le Corbusier,
Verso un'architettura, 1923
3. Sissi Cesira Roselli, Padiglione
americano, Biennale, Venezia 2012
4. Sissi Cesira Roselli, Palazzo Grassi,
Venezia 2014
5. Sissi Cesira Roselli, Teatri, Brescia 2011
6. Sissi Cesira Roselli, Illuminazioni, Brescia
2013
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OP_
POSIT
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IONS
32
33
(Ri)costruire il senso.
Verso un marchio di qualità
Re-cycle Italy
Raffaella Fagnoni
>UNIGE
Al termine re-cycle si associa una riflessione sul tempo, una narrazione
dell’esperienza individuale e collettiva in cui il progetto è un piano che altera la logica del tempo esistente. Il tempo è fattore-chiave di ogni sensemaking progettuale. Il tempo è punto di partenza per storie che cambiano
prospettive.
#cornice di tempo/cornice di senso
La realtà prende forma attraverso il senso che le persone danno alle cose,
alle situazioni in cui si trovano, a quelle che hanno creato. Cicli che si
susseguono in una cornice di tempo e di senso, nel rito di ogni passaggio
generano opportunità di rinnovamento e allo stesso tempo lasciano ruderi, rottami, residui.
Una condizione di sopravvivenza fra i resti, di residenza fra i residui, di
avanzamento fra gli avanzi, che trova una possibile via d’uscita nel trasfor-
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mare la quantità in qualità attraverso l’estetica della scoria.
La maggior parte delle opere presenti nelle mostre d’arte contemporanea sono sublimazioni di scarti, di residui. La via del riciclo si percorre
all’interno di una cornice di senso, attraverso la trasformazione del residuo. L’attribuzione di senso contribuisce a costruire ciò che si percepisce,
riguarda «i modi in cui le persone generano quello che interpretano.»1
L’individuo percepisce un determinato aspetto della realtà, interagisce
con esso, che in questo modo è attivato, esiste, e può modificarlo con le
proprie azioni continuando a attribuire significati. A sua volta l’ambiente attivato retroagisce su altri soggetti che assumeranno comportamenti
conseguenti alla nuova realtà costruita. Il soggetto dunque non plasma
l’ambiente, ma è l’ambiente, una volta attivato (una volta che il soggetto
lo percepisce e lo fa esistere, per sé) che influenza le azioni del soggetto.
Gli elementi che entrano in gioco nei processi di creazione di senso sono
tre: cornice, informazione e relazione. I primi due riguardano il contenuto,
il terzo il processo. Costruire il senso è l’operazione per cui si collocano
degli stimoli (informazioni) all’interno di un contesto (cornice) mettendoli
in relazione con altri preesistenti. Si può parlare del sensemaking come di
un processo attivo, dinamico, una forma di azione sul mondo che permette
di costruire, filtrare, incorniciare la realtà. Produrre senso è anche elaborare una buona storia, «qualcosa che conservi plausibilità e coerenza,
qualcosa di ragionevole e di memorabile, qualcosa che incarni l’esperienza passata e le aspettative, qualcosa che faccia risuonare insieme le persone, qualcosa che si possa costruire retrospettivamente, ma che anche
possa essere usato in prospettiva.»2
#definito/indefinito
La pratica del riciclaggio non è certo un fenomeno nuovo, fa parte da sempre del normale ciclo di vita delle cose, spesso in modo pragmatico, senza particolari attenzioni, seguendo ragioni funzionali ed economiche. Il
termine riciclaggio ha invece una storia recente. Secondo alcuni dizionari
(De Mauro-Utet, Sabatini Coletti) il termine risale al 1970, mentre riciclare viene datato, nelle stesse fonti, al 1959. Etimologicamente collegato al
francese recycler – lat. cyclus, greco kyklos – è usato nel senso di aggiornare, riqualificare, ad indicare un’azione di rimessa in circolo per fornire
una nuova o migliore qualificazione/efficienza. Non è ancora un termine
di uso comune rispetto alle pratiche del progetto, per le quali si è fatto
35
ricorso più frequentemente ad altre espressioni (trasformazione, recupero, riuso, reimpiego, o anche ready-made, riattivazione, adaptive-reuse)
sempre comunque distinte da quelle di restauro, rigenerazione. Rispetto
a queste ultime il riciclo si propone in maniera trasgressiva, mettendo in
discussione la finalità originaria del manufatto e la sua forma per ragioni
dettate dall’attualità, e non come adattamento progressivo. Nell’operazione di riciclaggio l’oggetto (manufatto, costruzione, sito) di partenza non è il
nodo centrale del progetto, bensì uno degli elementi che entrano in gioco.3
Fra le varie accezioni rientra anche quella che vede il riciclo come pratica
di riuso temporaneo di situazioni spaziali residuali, e dunque strumento
concettuale e operativo indispensabile per affrontare le emergenze poste
al progetto in relazione alle problematiche ambientali, sociali ed economiche. La ricerca europea Urban Catalyst4, finanziata nel 5th Framework
Programme (2001-2003) attraverso una serie di casi studio nelle aree di
Amsterdam, Berlino, Helsinki, Napoli e Vienna, ha indagato le possibilità
per offrire un modo nuovo di intendere gli usi temporanei. Cosa si può imparare dai processi spontanei? Gli usi temporanei possono essere pianificati? Controllati? La difficoltà cronica a definire un programma, una scelta
che sia il più possibile condivisa, deriva dalla pluralità degli attori coinvolti
nel processo, dalla loro distanza di visione che impedisce di fatto di formulare valutazioni unitarie e, di conseguenza, di prendere decisioni univoche.
Le strategie di intervento entrano spesso in conflitto con le esigenze e le
aspettative dei cittadini, con la memoria dei luoghi e con un’immagine di
questi che si è sedimentata nell’immaginario collettivo.
#prassi/teoria
La riflessione sul riciclo prende avvio dall’osservazione dell’azione progettuale e dalle sue ricadute sul contesto. Il progetto è utilizzato per acquisire, analizzare, esplorare e trasmettere idee attraverso la sensibilità, l’ideazione, la verifica e la realizzazione. La prassi non è antitetica alla teoria,
come sosteneva Aristotele. La saggezza pratica (la phrònesis di Aristotele)
richiede sia esperienza sia conoscenza. Non si tratta dunque di opposizione ma di relazione. L’approccio abduttivo, in cui si conoscono regole e
risultati, porta a ricostruire una situazione, a definire un processo, il cui
scopo non è quello di testare un’ipotesi per rispondere a una domanda di
ricerca o alla scoperta di nuove realtà, ma di ideare soluzioni plausibili per
i fenomeni proposti attraverso la pratica.
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Il senso della teoria, per Recycle Italy, è diffondere la pratica. Il senso del
riciclo si può rendere concreto attraverso il riciclo del senso.
Se dunque è opportuno veicolare la diffusione delle pratiche del riciclo,
una strada percorribile è quella del marchio di qualità. Un marchio può
raccontare storie sulle azioni di re-cycle messe in atto, può riconoscere
alle migliori un valore. Un marchio è un messaggio virale. Le storie, i racconti di esperienze realizzate, ci parlano di un mondo possibile, possiedono contenuti emozionali in grado di suscitare empatia e solidarietà. Le
storie nascono dalle parole e dalle immagini, dai segni che si trasformano
in significanti e producono significati, attraverso uno slogan, una frase,
un simbolo, un immaginario, una via principale di contaminazione per far
dilagare il virus memetico.
#brand/trend
Un marchio può agire come un meme, un’unità di trasmissione culturale
che si trasmette di cervello in cervello. I memi più potenti sono in grado di
catalizzare cambiamenti collettivi. Generano percezioni-pensieri-azionicomportamenti attraverso la fiducia e la reputazione nella propria rete sociale, creando un effetto a catena capace di diffondere percezioni-pensieri-azioni-comportamenti in altre reti. La creazione di un marchio di qualità
è un’opportunità per rendere efficace il lavoro della ricerca Re-cycle Italy.
Il marchio è destinato agli interventi di riciclo del patrimonio esistente.
Testimonia la qualità urbana, ambientale, di processo. Viene attribuito in
base alla soddisfazione di parametri stabiliti e connessi all’attivazione di
processi di riciclo di artefatti, contesti, edifici, spazi, infrastrutture urbane,
facendosi garante della valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale, della cultura del servizio, dell’accesso e della fruibilità delle risorse,
della qualità della fruizione. Rappresenta l’inizio di un percorso che porta
alla promozione sinergica delle città che ne godono. Il marchio racconta
una storia che ci parla di un modo di affrontare il presente-futuro delle nostre città. Attraverso un simbolo si attesta l’attitudine al riciclo di
una comunità, di un ente: è spendibile nei confronti degli interlocutori e
rappresenta un momento di ottimizzazione delle risorse secondo criteri
quantificabili prestabiliti. Il marchio propone una morale chiara, attraverso i propri temi e i propri valori: elementi centrali per rafforzare la capacità
emotiva e evocativa. La relazione con il pubblico si fonda su un’esperienza
percettiva ed estetica immediata e la sfida è realizzare un nuovo posizio-
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namento per un brand capace di comunicare con una propria personalità,
per sensazioni, stati d’animo e tensioni estetiche. Il lancio e la diffusione del marchio aspirano a valorizzare i singoli interventi, a premiare le
città-comunità capaci di attivare il maggior numero di azioni, le istituzioni
che ne sono parte attiva. Attraverso un percorso condiviso (dal progetto
alla promozione) il marchio rende riconoscibile il network e le azioni a
esso connesse. Attraverso la capacità distintiva, la riconoscibilità interna
(adesione di tutti i soggetti coinvolti) e esterna (testimonianza di qualità,
proposta di un modello di sviluppo, stimoli ad agire e investire secondo la
sua direzione) il marchio svolge un ruolo centrale nell’affermazione della
reputazione, creando attrattività e prestigio grazie ai valori ad esso connessi e diffusi. Le attività necessarie vanno dalla costruzione del sistema
dei valori allo studio dell’identità visiva; dall’accreditamento secondo criteri e standard di qualità certificati da organismi di controllo istituzionali
alla comunicazione e diffusione.
Un percorso complesso che tuttavia potrebbe dar vita ad un nuovo ciclo di
attività e ad una nuova logica di sviluppo, basata non su sistemi normativo-sanzionatori ma su sistemi premiali e partecipativi.
Note
1. K. E. Weick, Senso e significato
nell’organizzazioni. Alla ricerca delle
ambiguità e delle contraddizioni nei processi
organizzativi, Raffaele Cortina, Milano 1995.
2. Ibid., p. 63-64.
3. Sui significati di riciclaggio cfr. M.
Zanetti, Architetture di scarto. Riciclaggio
e progetto. Da drop city a lot-ek, tesi di
dottorato XXII ciclo, Scuola di Dottorato
in Scienze dell’uomo, della società del
territorio, Università di Trieste (http://
www.openstarts.units.it/dspace/
handle/10077/3493).
4. P. Oswalt, K. Overmeyer, P. Misselwitz,
Urban Catalyst. The power of temporary
reuse, Dom Publisher, 2013.
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Alcune questioni… per una
teoria del re-cycle
Giulia Menzietti
>UNICAM
Proiezioni
Il 20 Luglio del 1969, per la prima volta nella storia, due astronauti (Neil
Armstrong, Buzz Aldrin) mettono piede sulla Luna. La vicenda assume
un ruolo significativo e viene interpretata da molti come il compimento
del progetto di futuro messo in piedi dalla Modernità. Per diversi anni le
foto scattate nella missione Apollo 11 e in quelle che l’hanno succeduta
sono state il simbolo del progresso tecnologico e culturale, dello slancio
proiettivo verso nuove realtà, del senso di conquista e dell’affermazione
dell’uomo nei confronti dell’altro da sé.
Nel 2011 la NASA ha rilasciato un protocollo in cui ha espresso la volontà
di tutelare i resti e le tracce umane lasciate sulla Luna, proteggendo i siti
degli allunaggi in quanto "inestimabili tesori dell’umanità" (NASA 2011)1.
Dopo più di quarant’anni dalla prima missione, la vicenda è tornata nelle
cronache e compare oggi in diversi articoli e in una ricchissima rassegna
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di foto di repertorio, diffusissime nel web, che riattualizzano una storia
appena trascorsa restituendola con uno sguardo mutato. Se prima erano
le immagini di Neil Armstrong che piantava la bandiera dell’America in
un territorio ignoto, oggi sono le foto dei resti delle apparecchiature, dei
rifiuti tecnici e organici, degli scarti, delle tracce lasciate dagli esploratori
sul territorio lunare a raccontare la scoperta del nostro satellite, non più
con l’orgoglio per la conquista dell’ignoto, ma con atteggiamento consolatorio, come ri-proposizione di una vicenda già data, già nota. Targhe commemorative, foto tratte dall’album di famiglia, medaglie, monete, rottami
delle apparecchiature lasciate sul suolo lunare acquistano oggi un’inedita
importanza in quanto residui, frammenti di una vicenda già consumata e
disponibili a nuove letture, a nuove manipolazioni.
La volontà di tutelare ciò che resta nella Luna esprime una tendenza della
cultura contemporanea che si manifesta, sempre più spesso, in un atteggiamento retrospettivo, che guarda a ciò che già c’è e che recupera in una
dimensione di interesse resti e testimonianze di esperienze già consumate. Tale «disagio nei confronti di una stagione storica […] ripiegata su di sé
e sulla celebrazione del proprio passato […]»2 e la tensione del pensiero
contemporaneo verso il già noto alimentano una sorta di inibizione degli
slanci e delle proiezioni verso il futuro; deboli e rarissimi, nei progetti,
sono i tentativi di prefigurazione di immaginari e di scenari a venire. Il
lavoro sull’esistente rappresenta un’urgenza, una necessità, ma al tempo
stesso traduce un sentire diffuso, teso alla rielaborazione degli oggetti del
presente piuttosto che al progetto del futuro. Le operazioni di manipolazione e ricomposizione dei materiali esistenti disegnano scenari temporalmente lontani ma visivamente molto vicini, poco distanti dall’immagine
dell’attuale; i resti costituiscono la materia del futuro, ma allo stesso tempo tradiscono aspirazioni e slanci verso scenari completamente rinnovati,
riportando l’immaginazione ad uno stadio di inibitoria concretezza. Il significato del termine "nuovo" viene riscritto e proiettato in un domani che
ha le stesse fattezze del presente e del passato recente.
Linguaggi
Il confronto con la preesistenza e la necessità di costruire il nuovo col già
dato collocano il re-cycle in un contesto culturale ampio e trasversale a
vari ambiti del pensiero contemporaneo. Il termine non rimanda infatti ad
una dimensione esclusivamente operativa, traducibile in pratiche e stra-
40
tegie di intervento, ma rivela piuttosto una visione dilatata, che accoglie in
sé contenuti di natura teorica ed espressiva. La possibilità di rielaborare
resti e scarti anche nella Luna, e lo stesso tema lanciato nel workshop
PRIN nell’autunno 2013 dall’UdR di Camerino, che proponeva la possibilità
di trasformare attraverso il riciclo il territorio immaginario di TRUE-TOPIA,
una città d’invenzione, rivelano una natura immateriale del termine, che si
misura e si sostanzia anche in una dimensione di pura astrazione.
Il riciclo di materiali usati e di stili già tramontati nella moda, il reimpiego
di metraggi preesistenti nella pratica cinematografica del found footage, le
ultime sperimentazioni del design sui materiali di recupero o le ultime ricerche dell’arte su resti, scarti e residui denunciano un percorso condiviso
teso verso pratiche di montaggio di brani esistenti. La lettura del presente restituisce un carattere fenomenologico del re-cycle, che si declina in
diversi contesti e in varie modalità, e che rappresenta un modo di essere
della cultura contemporanea. Intese come «vere e proprie forme di spoliazione e di nuova vestizione dello sguardo»3 queste operazioni di reimpiego creativo rivelano una matrice estetica, non codificata e allo stesso
tempo riconoscibile. Lo stesso protocollo della NASA sembra rivelare un
interesse che va ben oltre gli obiettivi della salvaguardia, e che si orienta
ai residui lasciati sul satellite in quanto feticci di un’adorazione generata
non tanto dalla presenza della Luna, quanto dalla trasformazione dello
sguardo rivolto ai resti e agli scarti. Emerge in questo senso un’attitudine
espressiva insita nella natura stessa del riciclo, tesa ad una continua elaborazione/ricomposizione del mondo, capace di influire sul consolidarsi di
rinnovati codici linguistici, che mutano i rapporti col passato, col presente
e col futuro.
Mutazioni
Il re-cycle non si traduce esclusivamente in un modus operandi, ma anche
in una categoria di pensiero, che chiede una declinazione del termine con
coordinate interpretative altre rispetto all’ambito progettuale. All’indagine
messa in campo attraverso raccolte di casi studio e best-practices, mappature di aree sensibili e prefigurazioni di strategie d’intervento, si affianca
necessariamente la costruzione di un apparato teorico delle operazioni di
riciclo. L’interesse per la dimensione immateriale non presuppone scetticismo nei confronti dell’effettiva concretezza e operabilità dell’intervento
sul costruito. "La fame di realtà"4 che le operazioni sull’esistente mani-
41
festano in tutte le espressioni richiede un nuovo statuto conoscitivo, che
sappia interpretare il contesto attuale a fronte di alcune mutate dinamiche
del progetto.
Nella stagione che ci ha preceduto, l’architettura moderna ha mostrato
un atteggiamento di sfida nei confronti del tempo, in una visione proiettiva
delle opere che dovevano durare e resistere a lungo. Oggi la mentalità
a breve termine accoglie la dimensione del temporaneo e trasforma la
durata programmata dell’edificio in una stratificazione di storie e tempi
differenti. Rispetto alle pratiche canoniche di restauro e riuso, il riciclo
genera rinnovati rapporti con la preesistenza: non più l’ostinazione a ripristinare una condizione originaria, ma un’operazione di manipolazione e
rielaborazione, che non esclude la possibilità di dimenticare e di cancellare le storie pregresse. In questo senso le tensioni tra memorie e amnesie,
tra un vago senso di nostalgia e la radicalità della tabula rasa diventano
aspetti cruciali nelle operazioni di re-cycle. Il concetto di autorialità assume un significato rinnovato, che risiede sia nella presenza di una firma
contenuta nella preesistenza che ne autorizza, o meno, il reimpiego creativo, sia nell’autorialità dell’operazione stessa di riciclo, in cui il pezzo
unico si trasforma in palinsesto e la paternità si traduce in una moltiplicazione continua di firme. Tali aspetti descrivono "valori, e configurazioni
spaziali" rinnovate, che attestano una "svolta critica"5, uno scenario mutato in cui l’indagine sugli aspetti immateriali e la costruzione di una teoria
del re-cycle sembrano progressivamente assumere caratteri di necessità,
di concretezza, di iper-realtà.
Fatti
Il lavoro sull’esistente ribalta i rapporti nietzschiani tra fatti e interpretazioni con un urlo alle cose reali, con una tensione alla rielaborazione dei
fatti, all’impiego dell’interpretazione non come matrice ideativa, ma come
operazione strumentale alla manipolazione del reale. «Una voluta inartisticità: materiale grezzo, apparentemente non lavorato, non filtrato, non
censurato e non professionale»6 emerge in varie espressioni della cultura
contemporanea, attestandone un attaccamento alla materia, alla realtà,
al dato da manipolare, senza scampo, senza pretese. Circoscritto ai confini dell’esistente, il re-cycle si inserisce perfettamente nella stagione del
Nuovo realismo7, che trae dalla realtà le proprie ragioni, i propri materiali e
gli strumenti operativi. In uno scenario di crisi e in una condizione di iper-
42
oggettività dello scenario culturale, poco incline a slanci ed entusiasmi e
teso a riportare l’immaginazione ai confini del già dato, il re-cycle sembra tradurre una condizione di tensione, di contrazione del pensiero contemporaneo. Se la «modernità era liquida e la postmodernità gassosa”8,
la condizione attuale può essere descritta con uno stadio di solidità, che
descrive l’impatto, l’urto con la nuda oggettività. Intriso di realismo, il recycle chiama ad un approccio olistico, che sappia raccogliere tutti i fatti a
disposizione e restituirli in un progetto di trasformazione dell’esistente, in
cui le interpretazioni non rappresentano più le operazioni postmoderne di
costruzione di realtà parallele, ma diventano strumenti operativi del progetto, e nell’urgenza della crisi traducono l’unica forma di elaborazione di
un presente timidamente proiettato nel futuro.
Note
Immagine
1. S. Catucci, Imparare dalla Luna, Quodlibet, Macerata 2013, p. 12.
Recycle primo sbarco sulla luna.
Rielaborazione di Giulia Menzietti, foto
originale ©NASA: «Apollo 15, il set di una
postazione scientifica al termine di un
esperimento. I resti che si vedono sparsi
al suolo consistono nelle apparecchiature
tecniche dismesse dopo l’uso, nei loro
imballaggi e nelle loro protezioni.», in S.
Catucci, Imparare dalla Luna, Quodlibet,
Macerata 2013, p. 127
2. Ibid, p. 15.
3. I. Mattazzi, Aprire lo sguardo. Stili della
visione in grado di agire sul reale, in «Il Manifesto», 2011.
4. D. Shields, Fame di realtà. Un manifesto,
Fazi, Roma 2010.
5. N. Emery, L’architettura difficile, Marinotti, Milano 2008, pp. 175, 177, 178.
6. D. Shields, Fame di realtà. Un manifesto,
cit., pp. 9-10.
7. M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo,
Laterza, Roma-Bari 2013.
8. Ibid.
43
Il recycle possiede una dimensione estetica che si esprime nell’azione in sé e
negli oggetti che coinvolge.
Il protocollo rilasciato dalla NASA nel 2011 per la conservazione delle tracce
lasciate dall’uomo nei siti degli allunaggi rivela, dietro l’alibi della salvaguardia,
un interesse di carattere espressivo verso
i resti, i rifiuti, i residui.
In virtù della loro natura informe, della capacità narrativa, della disponibilità
ad accogliere operazioni e pratiche discorsive di re-cupero e ri-lettura, di
elaborazione e ricomposizione, gli scarti assumono una connotazione estetica,
e in quanto tali legittimano l’atto stesso del riciclo… anche sulla Luna.
44
IL
CARATTERE
SOVVERSIVO
DEL RICICLO
Chiara Rizzi
>UNITN
Il presente contributo proverà ad argomentare una delle op-positions,
emersa durante gli incontri preparatori del convegno e poi accantonata:
il re-cycle è sovversivo/riformista. Secondo il dizionario on line della Treccani, l’aggettivo sovversivo [der. del lat. subversus, part. pass. di subvertere
"sovvertire", sul modello del fr. subversif] sta ad indicare un soggetto o
un’azione che tende a sovvertire l’ordine costituito di uno stato, ovvero,
in termini più ampi, che sovverte la tradizione, che tende a rivoluzionare e sconvolgere uno stato di cose esistente. L’aggettivo riformista (der.
di riforma) indica qualcuno o qualcosa che sia fautore di riforme, ovvero
che, ripudiando sia i sistemi rivoluzionari, sia il conservatorismo, riconosce la possibilità di modificare l’ordinamento politico, economico e sociale
esistente solo attraverso l’attuazione di organiche, ma graduali riforme
dell’esistente. Per definire se il riciclo sia sovversivo o riformista occorre
innanzitutto, chiarire quale sia lo "stato di cose esistente".
45
Status quo
In uno dei suoi celebri scritti corsari Pier Paolo Pasolini sostiene che «ci
sono due parole che ritornano frequentemente nei nostri discorsi: anzi,
sono le parole chiave dei nostri discorsi. Queste due parole sono "sviluppo" e "progresso". Bisogna assolutamente chiarire il senso di queste due
parole e il loro rapporto, se vogliamo capirci in una discussione che riguarda molto da vicino la nostra vita anche quotidiana e fisica. [...] senza
confondere mai, neanche per un solo istante, l’idea di "progresso" con la
realtà di questo "sviluppo"».1
Le cose sembrano essere andate diversamente. Il contesto attuale, infatti,
sembra essere stato determinato in modo decisivo da un equivoco di fondo
che ha dominato la cultura occidentale degli ultimi decenni: considerare
sinonimi il "progresso" e lo "sviluppo". Nello stesso scritto Pasolini sostiene che lo sviluppo, accolto dalla massa come un’occasione di promozione
sociale, di emancipazione, di abiura dei valori culturali che avevano fornito i modelli di "poveri", di "lavoratori", di "risparmiatori", di "soldati", di
"credenti", è, in realtà, portatore dei nuovi valori del consumo. A qualche
decennio di distanza l’effetto di quell’ideologia che Pasolini chiamava dei
blu-jeans Jesus, una sorta di fede incondizionata nel prodotto di consumo,
sono evidenti. I suoi scarti invadono la Terra e diventano la prova dei nostri
progressi nella colonizzazione dello spazio.2
Secondo il dossier Terra rubata, redatto dal FAI e dal WWF nel 2009, nel
nostro Paese l’urbanizzazione pro capite media è pari a circa 230 mq per
abitante. A fronte di una sostanziale stabilità che contraddistingue l’andamento demografico italiano, l’Agenzia Ambientale Europea rileva un incremento di quasi 8.500 ha/anno di territorio urbanizzato e secondo l’ISTAT 3
milioni di ettari di territorio, di cui un terzo agricolo, sono andati persi tra il
1990 e il 2005. Nel 2012 gli alloggi invenduti erano 694.000 (dati Nomisma)
e oltre 2 milioni di abitazioni risultavano vuote (Primo rapporto sull’edilizia
sostenibile, CGIL). Inoltre i dati ISTAT ci rivelano che le aree industriali da
recuperare occupano ben 9.000 kmq e circa il 30% di queste aree si trova
in ambito urbano.
Anche se è difficile fare un calcolo preciso a scala nazionale, le aree e
gli edifici del demanio militare sono numerosissimi. Emblematico il caso
della Sardegna, in cui esse occupano 144.230 ettari per un volume di circa
4,5 milioni di mc (elaborazioni WWF su dati Regione Sardegna).
Bisogna inoltre considerare che in Italia ci sono 5.535 km di linee ferrovia-
46
rie non utilizzate, 502 km di tratti incompiuti e 940 km di linee con tratta
variata, per un totale di 6.977 km di tratte ferroviarie dismesse (fonte: Database Ferrovie abbandonate, Associazione Italiana Greenways).
Nel nostro paese le cave dismesse sono 7.774 (dato riferibile alle sole Regioni in cui esiste un monitoraggio), mentre si possono stimare in oltre
10.000 quelle abbandonate.
Sulla base dei dati raccolti dall’ISPRA, in Italia i siti potenzialmente contaminati sono circa 15.000, di cui oltre 3.400 sono stati dichiarati già compromessi. A questo dato vanno aggiunti gli oltre 1.500 siti minerari abbandonati e le aree comprese nei Siti di Interesse Nazionale, 57 fino allo scorso
gennaio, quando 18 di essi sono stati declassati a SIR, Siti di Interesse
Regionale. Un declassamento che non corrisponde ad un reale miglioramento dello stato dei luoghi, ma esclusivamente a considerazioni di tipo
gestionale ed economico.
Eppure si continua a costruire: ogni anno vengono realizzati 328.000 nuovi
appartamenti (dati ANCE).
Ma qualcosa sta cambiando. Ad accelerare questo cambiamento è la crisi.
Si tratta di una crisi strutturale, non congiunturale. Per superarla, occorre
dunque, una rivoluzione più che una riforma.
Missione Re-cycle
«Ogni rivoluzione scientifica ha reso necessario l’abbandono da parte della comunità di una teoria scientifica un tempo onorata, in favore di un’altra
incompatibile con essa [...] la transizione da un paradigma in crisi ad uno
nuovo [...] è tutt’altro che un processo cumulativo, che si attui attraverso
un’articolazione o un’estensione del vecchio paradigma. È piuttosto una
ricostruzione del campo su nuove basi [...]».3
La crisi ci impone di mutare il punto di vista sui fenomeni che essa stessa
rende più evidenti, essa radicalizza la necessità di ripensare gli strumenti
e le pratiche con cui affrontiamo il cambiamento. Occorre cioè dar vita ad
una vera e propria rivoluzione scientifica e per far ciò bisogna necessariamente riferirsi a nuovi paradigmi. Le crisi sono, ancora secondo T. S.
Kuhn, una condizione preliminare necessaria all’emergere di nuove teorie.
Per decenni l’architettura e l’urbanistica si sono confrontate con i temi
dell’espansione, della costruzione del nuovo. Mai come dal dopoguerra
fino ai giorni nostri abbiamo costruito, occupato, consumato suolo e risorse. L’uscita dalla città moderna, come già lo fu quella dalla città antica, è
47
anche riflessione sulla trasformabilità della città, sosteneva qualche anno
fa Bernardo Secchi.4 L’uscita dalla città post-moderna è anche riflessione
sulla sua riciclabilità, diciamo noi.
La città contemporanea è una Reverse city, una città inversa, che ha al
proprio centro il vuoto e non il pieno, che si struttura a partire dai grandi
spazi aperti e assume i grandi scenari naturali come proprio sfondo e prolungamento.5 La Re-cycle city è il risultato di un nuovo paradigma, quello
del riciclo appunto, che inverte le logiche, rivoluziona le pratiche urbane a
partire dalla città inversa.
Per l’architettura e l’urbanistica si tratta di svolgere un ruolo di raccordo
tra le discipline e tra queste e la società che, pur essendo loro connaturato, sembra essere stato quantomeno trascurato negli ultimi decenni.
Il paesaggio è il campo in cui tutto questo può accadere. Nel paesaggio
è possibile «attraversare le frontiere della conoscenza per inaugurare un
nuovo ciclo d’innovazione scientifica, economica e culturale».
Secondo Christakis «per tre secoli il principio di base della ricerca è stato: distruggere il castello per analizzare i singoli granelli. Ora, invece, si
tende a ricostruire il castello per studiare le relazioni tra le diverse componenti [...] Al di là dell’accademia, una giocosa indisciplina – che fa saltare i vecchi confini per generare sinapsi sempre nuove – si è impadronita
del mondo [...] Oggi, la massima innovazione non nasce più dal centro,
bensì dalla frontiera tra i saperi, laddove i sistemi si sovrappongono»6.
Un’innovazione che nasce dalla cultura dell’indisciplina, intesa come la
capacità di stabilire nuove connessioni tra i saperi, non solo quelli disciplinari, ma anche quelli che derivano da desideri e aspettative di una società sempre più consapevole, sempre più desiderosa di essere protagonista del cambiamento. Dai movimenti "no Tav" ai forum per la difesa del
paesaggio fino ai guerrilla gardening e alle numerosissime associazioni
che danno vita agli orti urbani, solo per citare gli esempi più conosciuti.
Niente di nuovo, sostiene qualcuno.
Niente di nuovo, sosteneva il manifesto realizzato da Reiner de Graaf (OMA)
per la mostra Re-cyle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, tenutasi al MAXXI nel 2011.
Infatti, come chiarisce Alberto Ferlenga in un suo contributo per il catalogo della stessa mostra, il riciclo non è una strategia inedita. Le architetture e le città si sono sempre riciclate. L’aspetto rivoluzionario del riciclo
come paradigma della città contemporanea è la sua pervasività.
48
La crisi sta cambiando in maniera radicale i nostri stili di vita e il modo in
cui pensiamo al futuro; dal riciclo degli scarti della città moderna ci aspettiamo non solo una città più ecologica e più sicura, ma anche più etica e
bella. Il riciclo, in questa nuova geografia del desiderio, ci fornisce gli strumenti operativi per un situazionismo forse meno utopico e più realistico.
Note
1. P. P. Pasolini, Sviluppo e progresso, in W.
Siti, S. De Laude (a cura di), Pasolini. Saggi
sulla politica e sulla società, Mondadori,
Milano 1999.
2. È del 2011 la notizia che la sonda LRO è
stata capace di catturare l’immagine più
nitida mai ripresa dallo spazio dei punti
di sbarco sulla luna dell’Apollo 12, 14 e 17,
mettendo in evidenza le tracce (e i rifiuti)
che gli astronauti hanno lasciato, spesso
volontariamente, esplorando il suolo
lunare.
3. Cfr. S. Kuhn Thomas, La struttura delle
rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 2009.
4. B. Secchi, Città moderna, città
contemporanea e loro futuri, in AA.VV., I
futuri della città. Tesi a confronto, Franco
Angeli, Milano 1999.
5. Ibid.
6. Cfr. G. Da Empoli, Contro gli specialisti. La
rivincita dell’umanesimo, Marsilio, Venezia
2013.
49
L'assedio, ovvero
per una tattica di uscita
dai confini del riciclo
Daniele Ronsivalle
>UNIPA
La visione centrata sulla crisi che contribuisce alla formulazione dell’approccio re-cycle1 rischia di apparire come una condizione di assedio per la
ricerca. Ogni qual volta si pone il problema della definizione di cosa sia e di
quali regole sovrintendano al re-cycle, sin dalla mostra del MAXXI curata
da Pippo Ciorra2, si sostanzia uno stato di incertezza molto simile a quello
che si realizza durante un assedio.
Con la differenza che chi si occupa di re-cycle è sia l’assediante, sia l’assediato.
Da una città assediata3 si può uscire vincitori in due modi:
– facendo credere all’assediante, con abili tattiche, che l’assedio potrebbe
essere lungo e faticoso a fronte di grandi quantità di viveri ammassati
nella città (la tattica delle pecore dei Traci);
– attaccando frontalmente l’assediante anche a costo di adoperare le stesse mura della città come proiettili da scagliare (difesa ad oltranza).
50
Oppure da una città assediata si può fuggire nottetempo dal lato opposto
all’assedio. Oppure ancora si può rischiare di rimanere vittima dello stress
psicologico prodotto dall’assedio e cominciare una lunga fase di crisi che
può sfociare nelle situazioni estreme del cannibalismo e della coprofagia
e ovviamente alla resa incondizionata.
Fuor di metafora, la condizione in cui si trova ad operare chi lavora nella ricerca Re-cycle Italy è spesso quella di rimanere chiusi all’interno di
schemi linguistici e lessicali che non consentono il superamento delle
condizioni di partenza da cui si è avviato il lavoro. Di seguito alcune proposte operative per la risoluzione vittoriosa dell’assedio.
La contingenza nella condizione di crisi ci porta a riflettere sul fatto che
dopo la crisi il mondo non sarà più lo stesso e, quindi, per estensione,
pensare che gli strumenti, gli approcci e le modalità di lavoro possano
essere identiche al passato è errato.
Cerchiamo di capire il perché.
Quando la città nasce in Mesopotamia e nella città di Uruk si definisce
l’articolazione in classi sociali e la specializzazione del lavoro, il tempo
che viene liberato per attività superiori (scienze, letteratura, arte...) per
ogni singolo individuo rispetto alle proprie specifiche occupazioni è via
via crescente e la città si anima di una intelligenza collettiva che aziona
processi di sviluppo urbano in termini di progressiva urbanizzazione della popolazione e di definizione di cicli di vita compresi tra la produzione
dell’energia chimica (cibo, produzione agricola, estrazione di materie prime, ecc.) del contado e la trasformazione nell’energia intellettuale (manufatti, arti liberali, politica, ecc.) delle città. Nel mezzo tra l’energia chimica
fotosintetica e l’energia intellettuale si sviluppa un unico ciclo vitale che è
in grado di controbilanciare la forza irreversibile del degradarsi dell’energia in calore definito dalla seconda legge della termodinamica.
La condizione di crisi attuale4 – di cui peraltro si sente parlare sempre
meno come a voler allontanare il problema senza risolverlo – può essere
studiata sotto vari punti di vista:
– è solo un problema finanziario?
– È solo il capitalismo ormai privo delle sue fonti di approvvigionamento di
liquidità (la guerra come condizione anticiclica e lo Stato come elargitore
e ridistributore della ricchezza)?
– È solo un fatto ecologico di superamento dei processi energetici troppo
legati all’energia chimica non fotosintetica?
51
– È solo un fatto demografico di incremento della popolazione urbana?
– È solo una questione di governance e di assenza di autorialità nelle scelte?
Se analizziamo solo uno dei punti di vista sopra esposti e proposti a vario
titolo nel corso del XX secolo e dei primi del XXI secolo, sembra che non
siamo capaci di uscire dall’assedio5.
La realtà urbana post-industriale, l’economia fondata sul capitalismo, i
processi produttivi fondati sugli idrocarburi, i processi demografici di urbanizzazione irreversibile e la crisi generalizzata della capacità autoriale
hanno rallentato il ciclo città-contado che nasce nel momento stesso in
cui nasce la città. Solo un elemento non è mai cambiato nel corso della
storia della città: la capacità della città di creare valore aggiunto intellettuale, cultura, arti liberali e di bloccare l’entropia energetica attraverso
processi di "entropia negativa", cioè di sviluppo culturale.6 Questa condizione è la vera base per uscire dall’assedio concettuale di un riciclo fatto
di riuso dei prodotti materiali e degli scarti e definire complessivamente
il nuovo ciclo di vita delle nostre città attraverso il ripensamento degli approcci ciclici e l’applicazione di nuovi linguaggi e approcci operativi7.
1. Il ciclo energetico fotosintetico come generatore del progetto di città
Il primo elemento che va posto in attenzione è il modo in cui il progetto di
città, di infrastruttura e di paesaggio si relazionano con l’energia solare
che deve essere assunta come riferimento per lo sviluppo urbano.
Il che non significa solo rendere più tecnologici gli edifici esistenti o ricoprire la città di superfici fotovoltaiche, ma significa attivare processi per
cui la forma stessa della città trova nell’energia solare (forte, abbondante
e improvvisa del sud del mondo o debole, limitata e continua del nord) un
modo di riprogettare se stessa.
2. Il tempo circadiano come nuovo tempo dell’urbanistica e luogo della celebrazione dei riti urbani
In conseguenza della visione del progetto urbano orientato dall’energia,
la trasformazione urbana – e le discipline che se ne occupano – devono aggiungere il tempo circadiano all’interno dei cronogrammi di vita del
progetto realizzato in modo da accentuare il vantaggio competitivo urbano
nell’uso degli spazi e nella distribuzione dei servizi.
3. Priorità dell’intervento pubblico e/o pubblico-privato
Le aree disponibili all’interno dei sistemi urbani compatti (aree dismesse
e sottoutilizzate, brani di città in abbandono, ecc.) costituiscono la materia
prima su cui un nuovo ciclo di vita può garantire l’innovazione del siste-
52
ma urbano a partire dalle risorse presenti8. Va sottolineata la necessità di
applicare anche criteri di priorità alla scelta localizzativa e di intervento ai
fini di ridefinire in che modo alcuni luoghi prioritariamente debbano essere oggetto della trasformazione (anche con intervento pubblico se possibile) per attivare processi di trasformazione più complessi e ampi.
Anche processi perequativi e compensativi potranno essere adottati allo
scopo di rendere più utili alcuni interventi
4. Trattare il rifiuto e lo scarto come inevitabili nei processi entropici
Questo assunto parte dal presupposto che è necessario far sì che lo scarto
"non esista" come concetto ma il processo produttivo preveda un ciclo di
vita lungo, privo di salti e facilmente attivabile in sede locale.
5. Il riciclo come linguaggio
Riciclare i materiali diventa allora una modalità linguistica9, in cui i materiali scartati vengono usati come mattoni privi di significato all’interno di
nuovi processi costruttivi e produttivi.
Cinque modi per uscire dall’assedio, quindi, che potranno essere i nodi
da sviluppare all’interno delle varie anime del re-cycle ma che potranno
indirizzare una nuova visione ciclica nell’operatività sperimentale che discende dalla ricerca, frutto di una visione ampia e condivisa sui temi dello
sviluppo dei territori locali e che tengano conto di tutte le tecniche necessarie all’equilibrio dello sviluppo urbano.
53
Note
1. S. Marini, V. Santangelo, Re-cycle
Italy. Nuovi cicli di vita per architetture e
infrastrutture della città e del paesaggio.
Aracne, Roma 2013.
2. P. Ciorra, S. Marini, (a cura di), Re-cycle.
Strategie per l'architettura, la città e il
pianeta, Electa, Milano 2011.
3. Sun Tzu, L’arte della guerra, e-Newton
classici, Roma 2010 (edizione e-book), p.
168.
4. M. Carta, Reimagining Urbanism, Città
creative, intelligenti ed ecologiche per i tempi
che cambiano, List Lab, Trento 2013.
5. Si veda a tal proposito la relazione
problematica tra economia ed ecologia
descritta ed articolata in C. Ravaioli, Il
pianeta degli economisti ovvero l’economia
contro il pianeta, Isedi, Torino 1992.
6. F. Rizzo, Economia del patrimonio
architettonico-ambientale, Franco Angeli,
Milano 1992.
7. M. Mostafavi, G. Doherty, Ecological
Urbanism, Lars Müller, Zurich 2010.
8. S. Stanghellini, Perequazione,
Compensazione, Fattibilità, INU Edizioni,
Roma 2013.
9. P. Ciorra, S. Marini (a cura di), Re-cycle.
Strategie per l'architettura, la città e il
pianeta, cit.
54
ETICO
/
ESTE
ETICO
55
56
57
Il bello e
il buono di
Re-cycle
Andrea Gritti
>POLIMI
Chi parla o scrive fa ricorso a qualche “presupposto condiviso” con chi lo
ascolta o lo legge; in questo modo rende riconoscibile lo sfondo nel quale
le sue frasi devono assumere rilievo e significato. D’altra parte chi ascolta
o legge ricorre alla propria “competenza pragmatica” per comprendere le
reali intenzioni del parlante o dello scrivente. Ogni giorno tutti noi esercitiamo questa competenza. Lo speaker di un notiziario per esempio ci
“ribadisce silenziosamente una serie di presupposti che fanno da invisibile
cornice alla notizia” e che la rendono, in un certo senso, più importante
del quadro dentro il quale sono espresse le informazioni. I “presupposti
condivisi” e le “competenze pragmatiche” sono i binari che ci consentono di non deragliare alla prima svolta, soprattutto quando si trattano argomenti teorici. Ragionando di etica e di estetica in relazione a Re-cycle
dobbiamo dunque fare ricorso alla pragmatica per almeno tre motivi. Innanzitutto perché è la parte della linguistica che tratta gli enunciati e il
58
loro significato in relazione alle intenzioni del soggetto che li esprime. In
secondo luogo perché indaga il rapporto tra la parola ed il contesto. Infine
perché «è una straordinaria macchina teorica per criticare e smascherare
l’ideologia dominante.»1
Gli enunciati
“Riciclo è etico/estetico” è l’enunciato di partenza: difficilmente espugnabile, certamente ambivalente. Per ridurne la complessità si può operare
una semplificazione riconoscendo nel “bello” e nel “buono” gli oggetti privilegiati dell’estetica e dell’etica2. Di conseguenza la proposizione di partenza si può tradurre in questo modo: “il riciclo è (o non è) bello/il riciclo
è (o non è) buono”. Malgrado la semplificazione introdotta l’enunciato originale si moltiplica per quattro e produce una matrice cui possono essere
applicati altrettanti operatori logici (la congiunzione e, la disgiunzione o,
l’implicazione se... allora..., la coimplicazione se… e solo se…)3.
Questo ampio spettro di possibilità non ha impedito che nel dibattito
sull’argomento si imponesse, almeno fino ad ora, una doppia affermazione: “riciclo è bello e riciclo è buono”.
Qualunque sia l’operatore logico mobilitato, gli enunciati che stiamo evocando restano indefiniti e imprecisati. Le intenzioni reali del parlante (o
dello scrivente) in merito ai temi del suo dire (o scrivere) non vengono
realmente rivelate e nulla di essenziale viene detto (o scritto) sull’architettura e sul progetto. Facendo esercizio di “competenza pragmatica” si
potrebbe obiettare che gli enunciati di partenza confinano i termini architettonici nella “cornice dei presupposti condivisi” e si affidano prevalentemente a concetti presi in prestito da altre discipline: il buono dall’etica, il
bello dall’estetica, il riciclo dall’ecologia. Se questa affermazione è vera la
sfida proposta dalla Re-cycle Op_positions verte sulla capacità di reintrodurre l’architettura, l’infrastruttura, la città, il paesaggio (per citare i termini che sostengono il titolo della ricerca nazionale) nella dialettica etico/
estetica implicita nel concetto di Re-cycle, restituendola integralmente al
discorso disciplinare. Per affrontarla si devono fuggire tentazioni retoriche
come quelle che condizionarono la Biennale di Architettura del 2000.4
Per questo motivo le tesi dovrebbero essere espresse chiaramente e dovrebbero includere i termini architettonici nell’articolazione del significato
da attribuire al concetto di partenza.
Proviamo ad esemplificare mettendo alla prova una tesi condivisa nel
59
gruppo di ricerca: “ri-ciclo è pro-getto”5. Questo enunciato per quanto
semplice non è ambiguo e utilizza la doppia scomposizione dei termini
riciclo e progetto per introdurre implicazioni di natura etica ed estetica.
Sotto il profilo etico il prefisso “pro” corregge e amplifica il significato
della voce del verbo “gettare”, che inevitabilmente allude allo scarto e
al rifiuto, ma allo stesso tempo non è immemore dall’azione liberatoria
contenuta nel suo significato etimologico6. Se certamente si getta per liberarsi di qualcosa, probabilmente si “pro-getta” per liberare le cose dalla
loro precedente servitù7 o quantomeno per riconoscere nel ciclo di vita
di ogni cosa architettata l’inevitabile status di rovina, di reperto8. Questa
liberazione e questo riconoscimento sono impliciti nelle azioni promosse
dal riciclo come atto progettuale e sono atti di natura etica ed estetica, che
assumono perfino un significato ludico.
La separazione delle radici “ciclo” e “getto” dai prefissi “ri” e “pro” ci ricorda che con le parole “si fanno cose”9 e ci si può giocare.
La manipolazione delle parole con il fine di attribuire loro nuovi significati
è stato un fondamentale contributo dell’arte alla parabola della Modernità
e ha caratterizzato l’intera storia estetica del Novecento.
La sottrazione dall’originale “kommerz” del prefisso “kom” e l’addizione
alla radice “merz” del suffisso “bau”, più volte ricordata nel percorso di
questa ricerca10, resta un momento emblematico nel processo di emancipazione del concetto di riciclo all’interno delle pratiche artistiche e continua ad offrire spunti operativi.
Il Merzbau di Schwitters non è soltanto un neologismo, un gioco di e con
le parole, è piuttosto una filosofia che introduce un’azione. Non significa
“né fare né costuire” ma “raccogliere-organizzare-curare detriti e scarti”.
È dunque un’operazione necessaria che impone di ritornare sulle cose
senza abbandonarle, in questo senso è un’azione pedagogica: insegna a
«ri-progettarsi […] ossia saper ri-abitare l’altro […] saper con-dividere il
mondo con gli altri.» 11 Se questa lezione è ancora valida allora l’enunciatoguida che stiamo cercando potrebbe essere precisato: “ri-ciclo è ri-progetto”. Per quanto elementare non è né opaco né retorico. Il suo interesse
risiede nel fatto che esprime un concetto potenzialmente eversivo dello
statuto progettuale e del suo rapporto col tempo perché fondato sull’idea
di reiterazione12. L’irruzione del riciclo nel discorso sull’architettura potrebbe quindi costituire l’occasione per ritornare a saggiare l’idea di progetto con nuove ambizioni e prospettive13.
60
La parola
Merzbau è una parola inventata che irrompe nel contesto in cui viene pronunciata per la sua singolarità. Fa effetto. Fanno effetto anche le parole
non pronunciate e che ci si aspettava di incontrare. Le parole assenti.
Nel dibattito attuale sui cicli di vita di architetture, infrastrutture, città e
paesaggi stupisce l’assenza della parola corpo. Tutte le metafore contenute nelle metodologie del Life Cycle Assessement fanno riferimento al tema
di un ciclo che conduce un corpo dalla nascita alla morte: “dalla culla
alla tomba”. Tutte le metafore che cercano di attualizzare quei paradigmi
propongono forme di rigenerazione di quello stesso corpo che alludono ad
autentiche resurrezioni: “dalla culla alla culla.”14
Il Corpo è stato l’oggetto privilegiato di potenti analogie (con l’edificio, con
la città) poste alla base della trattatistica classica, ma anche l’inossidabile
protagonista di descrizioni dell’habitat contemporaneo (il luogo dove corpi
organici, che abitano corpi meccanici, si organizzano attraverso reti di corpi
immateriali 15). Riferimenti agli organi del corpo (il ventre di Parigi, il cuore
delle città) sono persistenti quando si narra lo spazio abitato. Si tratta di
metafore che traggono origine sia dalla sfera estetica (dai canoni antropomorfici alle protesi sceniche) sia da quella etica (si pensi all’importanza dell’habeas corpus nelle pratiche d’uso dello spazio urbano). Dentro
questo orizzonte di senso spiccano le osservazioni di Michel Foucault sul
legame tra corpo e biopotere16.
Secondo Foucault il potere ha modificato la sua azione sui corpi dei viventi
passando dal “diritto di morte” alla “garanzia di vita”. Quest’ultima viene
esercitata in forma ossessiva, promettendo ai corpi assoggettati di tenere
lontana o quantomeno rimandare la loro la morte. In questo modo vengono negate libertà, salute e felicità autentiche.
La tesi foucaultiana è densa di implicazioni per gli orizzonti concettuali di
Re-cycle. Se esiste un biopotere sui corpi organici, che non sono liberi di
morire, ne esiste uno che agisce sui corpi inorganici? In altre parole i corpi
di fabbrica non possono essere semplicemente abbandonati al loro destino invece di essere forzosamente avviati verso nuovi cicli di vita?
Questo argomento è potenzialmente dirompente dal momento che scuote
alle fondamenta il problema della “cura”. Se è quasi inevitabile interpretare come perverso il modo con cui il potere si prende “cura” dei corpi organici negli orizzonti della biopolitica siamo certi che da questa perversione
sia immune la “cura” dei corpi inorganici?
61
Nicola Emery ha dedicato pagine di grande profondità all’idea di “cura” dei
luoghi, proponendo di «declinare il costruire come riaggiustare, salvare,
sottrarre il progetto all’imperativo economico e così rendere il mondo più
favorevole all’io comune»17. Si tratta senza dubbio di una forma di “cura”
opposta a quella proposta dal biopotere, perché basata sull’espressione di
una volontà collettiva e di una libertà individuale non alienabili e non contrattabili, fondata sull’idea che ogni ciclo abbia un proprio fine e che i corpi
possano, e forse debbano, prima deperire e poi morire.
Citando Paul Ricoeur, Emery ricorda che «non è possibile confrontarci con
le nostre città, fatte anche di monumenti distrutti […] e di vite perdute»
senza compiere una forma di “elaborazione del lutto”.18 Sarebbe questo
lavoro sulle emozioni il motore di una nuova e più autentica architettura:
giusta, partecipata, libera e immaginativa.
L’ideologia dominante
Andrebbe detto senza ipocrisie che il predicato “riciclare” è totalizzante.
Nulla può sottrarsi all’azione che ricicla. Facendo un ulteriore passo in
avanti è lecito affermare che riciclare è un “imperativo etico”.
L’imperativo cui ci si riferisce nel caso del riciclo tuttavia non è un sostantivo ma un modo del predicato. “Ricicla! È bello. Ricicla! È buono e giusto”.
Per quanto possiamo essere concordi con il senso ultimo di queste esortazioni non può sfuggire come il ricorso a questa specifica categoria
grammaticale introduca posizioni ideologiche non pienamente congruenti
con quelle espresse da Emery e Ricoeur quando parlano di ineluttabilità
della fine ciclo. L’imperativo è infatti un modo alquanto singolare: ha solo
due tempi nei quali si può coniugare (il presente e il futuro) e non dispone
di tutte le persone ma solo del tu (ricicla! Riclicherai!), del noi e del voi
(ricicliamo! Riciclereremo! Riciclate! Riciclerete!)19.
In sostanza l’imperativo implica una relazione inclusiva tra i soggetti che
lo possano coniugare (tu, noi, voi) che, espressi in forma implicita, manifestano una specifica valenza comunitaria.
Si può sfuggire alla dittatura del modo imperativo quando parliamo di riciclo?20 Non è una questione oziosa, anzi. Affonda le sue radici dentro la
dialettica etico/estetico. Basti pensare all’uso che hanno fatto dell’imperativo le avanguardie artistiche o a quello che se ne fa nel discorso etico.
In questo senso l’imperativo appare come uno formidabile sistema per
produrre retoriche esclusive.
62
Un’estetica e un’etica del riciclo fondate su formule imperative sono però
destinate a generare frizioni con le virtualità implicite nell’idea di progetto
i cui predicati sono piuttosto condizionali, congiuntivi e indicativi in base al
livello di precisazione dell’atto immaginativo iniziale21.
In sostanza si potrebbe affermare che il momento più delicato della relazione riciclo/progetto, richiamata nell’enunciato-guida, sia quello iniziale
dove ancora tutto può accadere. Ben oltre la retorica della “carta bianca”,
Franco Purini ha descritto questa fase del pensiero progettuale tessendo
l’elogio della “demolizione immaginaria”22. Secondo Purini si procede in
questo modo: il progettista pensa il luogo di progetto in uno stato di rêverie
e decide di rimuovere virtualmente alcuni elementi che lo occupano. In
questo modo si muove liberamente nello spazio virtuale che ha rigenerato
e a ritroso nel tempo che ha ritrovato. Quello che ne ricava non è solo un
ingenuo e approssimativo ritorno allo stato d’origine, quanto piuttosto una
nuova immagine del contesto e di conseguenza inedite relazioni potenziali
tra gli elementi che lo compongono.
Il riciclo all’imperativo renderebbe impossibile questa forma, inaugurale e virtuale, di “demolizione” e di conseguenza altererebbe l’estetica e
l’etica del progetto che vi si ispira. Al contrario introdurrebbe (in forma di
ordine, consiglio, imposizione) una nuova fissità delle relazioni, negando
valore all’azione di sottrarre (alla “forza di levare”) e favorendo solo criteri
addittivi e adattativi. Non è detto che questo non sia un bene, ma in senso
squisitamente logico si deve ammettere che un’eccezione metodologica di
questa portata alla lunga potrebbe generare errori.
La sopravvalutazione delle potenzialità del già costruito, l’implicita affermazione di superiori valori etico/estetici dell’esistente rispetto al nuovo,
la legittimazione di pratiche manutentive deboli rischiano di confermare
l’equivalenza tra il già costruito e il suo valore economico trasformando
l’azione riciclante in una forma di coazione a ripetere23. Il riciclo all’imperativo è quindi un’ideologia dominante che sembra opporsi frontalmente
al processo che assimila le rovine incipienti ai cantieri nascenti24.
A quale “culla” dovrebbe mai aspirare l’edificio cui d’imperio si nega il
ritorno all’infanzia della costruzione? O quello a cui si impedisce di cancellare le parti di una precedente memoria costruita?
La moltiplicazione di interrogativi radicali su una pratica così complessa e
necessaria ci suggerisce che forse il “bello” e il “buono” di Re-cycle sono
ancora in larga misura da scrivere.
63
Note
1. Tutte le citazioni di questo primo paragrafo sono tratte dal testo dedicato alla
parola chiave “presupposto” in R. Ronchi,
LiberoPensiero, Lessico filosofico della contemporaneità, Fandango Libri, Roma 2006.
2. Questa semplificazione si trova tanto
nell’incipit di voci enciclopediche dedicate
all’etica o all’estetica quanto nelle introduzioni di alcuni celebri contributi sulla
materia. Sul “buono” (e sul “cattivo”) come
oggetto dell’etica si veda F. Savater, Etica
per un figlio, Laterza, Bari 1992, pp. 3-13.
Sul “bello” (e sul “brutto”) come oggetto
dell’estetica si veda U. Eco (a cura di), Storia della bruttezza, Bompiani, Milano 2007,
pp. 8-22.
3. Per un’introduzione alla logica elementare che presiede agli enunciati cfr. F. Berto,
Logica da zero a Gödel, Laterza, Bari 2008.
4. Cfr AA.VV., Less Aesthetics More Ethics,
Biennale di Venezia: Marsilio, Venezia 2000.
Il titolo scelto per la 7a. Mostra Internazionale di Architettura evocava il “less is
more” miesiano alla stregua di un operatore logico con il fine di modulare l’opposizione originaria. L’assenza di un predicato
scaricava il potenziale della formula su
una cornice priva di più precisi riferimenti
all’architettura.
5. Nella call for positions questa tesi affiora
implicitamente in molti dei manifesti presentati, orientati verso la ri-fondazione delle teorie e delle pratiche dell’architettura
negli attuali contesti di crisi.
6. I riferimenti alla relazione etico/estetica
tra progetto e istanze libertarie si trovano
espressi con diversi accenti in alcuni testi
fondativi pubblicati a cavallo tra gli anni
Sessanta e Settanta. Cfr. G. C. Argan, Progetto e destino, Saggiatore, Milano 1965; T.
Maldonado, La speranza progettuale, Einau-
di, Milano 1971; M. Tafuri, Progetto e utopia,
Laterza, Bari 1973.
7 Cfr. K. Lynch, Deperire. Rifiuti e spreco nella vita di uomini e città, Clean, Napoli 1992.
8. Cfr. M. Augé, Rovine e macerie, il senso
del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2004.
9. Cfr. J. Langshaw Austin, Come fare cose
con le parole, Marietti, Genova 1987. Uno
dei testi fondamentali sulla pragmatica in
quanto disciplina della linguistica.
10. Cfr. I testi di R. Bocchi e S. Marini in
AA.VV., Re-cycle Italy. Nuovi cicli di vita per
architetture e infrastrutture di città e paesaggio, Aracne, Roma 2013.
11 Cfr. N. Emery, Distruzione e progetto. L’architettura promessa, Marinotti, Milano 2011,
pp. 285-286.
12. Cfr. J. Barrow, L’infinito, Mondadori, Milano 2006. Barrow si sofferma su uno dei
paradossi della modernità: la replica all’infinito, in un mondo finito, di una specifica
azione. La questione aveva suggestionato
Nietzsche che era interessato alle possibilità offerte alla ricorrenza dall’eternità
del tempo piuttosto che dall’infinità dello
spazio. Il paradosso ispira anche la descrizione che J. L. Borges fa della biblioteca di
Babele: illimitata, in quanto involvente su
sé stessa, ma finita, in quanto non proliferante, rappresenta ancora la vertiginosa
ambizione di ogni intenzione riciclante.
13. An Essay upon projects è il primo saggio
esplicitamente dedicato al progetto pubblicato da Daniel Defoe nel 1697. L’autore del
Robinson Crusoe lo scrive mentre sconta
una pena in carcere a causa di un rovescio
finanziario, Cfr. T. Maldonado, L’età progettuale e Daniel Defoe, in Il Futuro della Modernità, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 186-194.
14. È di grande interesse osservare come da
64
più parti e con accenti diversi la riflessione
filosofica si stia concentrando su questioni
direttamente riferite al destino ultimo del
corpo. Cfr. N. Emery, L’architettura e la resurrezione dei morti, in Distruzione e Progetto, cit. pp. 279-299 e R. Ronchi, Figure del
postumano. Gli zombie, l’onkos e il rovescio
del Dasein, in «Aut Aut», n. 361, Aprile, La
condizione postumana, Saggiatore, Milano
2014.
15. Cfr. F. Purini, Costruire la demolizione, in
A. Criconia (a cura di), Figure della demolizione, Costa&Nolan, Milano 1998, p. 78.
16. Sull’argomento si veda la conferenza di
Rocco Ronchi intitolata “Il corpo in salute”
tenuta a Genova il 6 marzo 2013 nell’ambito
del ciclo di incontri La Religione del Corpo
(http://www.youtube.com/watch?v=PGb_
g3j5ajc ).
17. Cfr. N. Emery, Distruzione e progetto, cit.
ma anche N. Emery, Progettare, costruire,
curare. Per una deontologia dell’architettura,
Casagrande, Bellinzona 2010.
18. Cfr. N. Emery, Distruzione e progetto, cit.,
p. 305. Si può notare l’affinità tra l’elaborazione del lutto di cui parla Ricoeur e certe
declinazioni del contemporaneo concetto di
resilienza.
19. All’imperativo io non si coniuga. Per declinare egli ed essi si ricorre al congiuntivo
senza alcuna articolazione distintiva tra
presente e futuro (ricicli! Riciclino!).
20. Si potrebbe obiettare che questo principio vale anche per altri termini che costituiscono la “popolazione di concetti” preceduti
dai prefissi “ri” e “re”: riuso, riqualificazione, rigenerazione, recupero, restauro. Ma
in questo caso i sostantivi sono più stabili
dei predicati che li accompagnano e insieme resistono a univoche declinazioni.
21. Vale la pena di notare che l’imperativo
è il modo prevalente nella grammatica e
nella sintassi che, a progetto compiuto, si
adotta nel cantiere: abbatti! Traccia! Scava!
Arma! Getta!
22. Cfr. F. Purini, Costruire la demolizione,
cit., pp. 77-78.
23. Cfr. Ibid., pp. 81-83.
24. Cfr. A. Gritti, Rovine del passato cantieri
del futuro. Un incontro con Marc Augé, in
«Ark», n. 13, Rovine, ottobre 2013.
65
IL FILOSOFO
E I RESTI
Rocco Ronchi
>UNIVAQ
1. Antefatto: Socrate e Parmenide discutono di scorie, avanzi e residui vari
Che cosa minaccia la possibilità della filosofia? Che cosa mette a prova
l’ambizione del filosofo? Se si leggono le prime battute del Parmenide di
Platone si fa una scoperta sconcertante. A inquietare la filosofia è qualcosa di irrilevante e senza valore, qualcosa a cui non si presta attenzione per
via della sua natura indegna e ridicola. L’abietto – quanto è stato "buttato
via" (abicere) – tormenta il filosofo. Incurante del disprezzo di cui è oggetto, l’abietto ritorna a screziare il cristallo della teoria: fa macchia e mette
in questione in un punto, un punto irrimediabilmente cieco, la possibilità
dell’armonia. Nessuna deduzione del molteplice da un unico principio è
infatti ora possibile e, quindi, nemmeno nessun ritorno, nessuna theosis
(divinizzazione), nessuna omoiosis (somiglianza con il divino), nessuna beatitudo: ci sono dei resti che non si lasciano assimilare. Né adesso né mai.
L’eterogeneità di questi scarti sfugge ad ogni processo di smaltimento dei
66
rifiuti irridendo gli sforzi di divinizzazione del filosofo il quale si ritroverà
sempre dello sporco tra le unghie e del fango nei piedi.
Come è noto, nella finzione del Parmenide, Socrate è raffigurato giovanissimo, poco più che adolescente. Non poteva essere altrimenti se si voleva
rendere appena credibile l’impossibile incontro con il vecchio filosofo eleate. Nonostante la giovanissima età, Socrate espone la metafisica (platonica) delle idee con una sicurezza che rasenta la sfrontatezza. Il vecchio filosofo aspetta con pazienza, bonarietà e financo un pizzico di ammirazione,
la fine del suo dotto discorso per sferrare con la feroce grazia del boxeur
il suo colpo da maestro. La questione che pone sul tappeto della contesa
dialettica è quella della "partecipazione" delle idee (methexis): essa concerne la sua "estensione" o meno a tutte le cose. Dopo aver sollevato obiezioni che hanno già messo in imbarazzo l’aspirante filosofo, Parmenide
elenca una serie di cose «che sembrano ridicole (gheloia doxeien), come
capelli, fango, sporcizia o altro, che è privo di importanza (atimotaton) e
valore (phaulotaton)»1. Sono le cose, aggiunge Parmenide, «che trattiamo con le mani (metacheirizometha)», quelle che, ad esempio, rendono
il lavoro manuale indegno di un cittadino libero. Di esse, chiede, esistono
idee corrispondenti? È la legione dei resti, degli avanzi, degli scarti e delle
scorie, che, grazie a Parmenide, entra per la prima volta sulla scena del
discorso filosofico per contestarne alla radice la possibilità stessa.
Non si può non apprezzare la sublime ironia del drammaturgo Platone.
Proprio Parmenide, il filosofo che non riconosceva dignità di ente a ciò che
cade sotto il dominio dei sensi e che amiamo immaginare sprezzante del
mondo fisico, proprio lui, per contestare l’idealismo del suo giovane avversario, fa appello a quanto, per statuto ontologico, appare inferiore perfino
al grado della più bassa materialità. Parmenide non evoca gli escrementi, ma è indubbio che essi costituiscano il termine ultimo della serie di
quelle cose ridicole e abiette delle quali si chiede se esista un’idea (separata, choristé) corrispondente. Socrate non solo rifiuta tale ipotesi ma
indietreggia come spaventato da quella possibilità. Per i resti, dice, non ci
può essere idea, verità, essenza. Socrate si sente minacciato da quei resti
evocati da Parmenide e reagisce emotivamente. Quelle scorie lo ossessionano. Quel pullulare anarchico di avanzi lo spaventa. Quelle miserande
realtà – capelli, sporco e fango – possono infatti far franare l’elegante castello costruito dal giovane filosofo nella sua dotta risposta alle tesi zenoniane2. Ciò che c’è di più grande e di più sublime, vale a dire la teoria
67
delle idee, è sottoposto all’ipoteca del sudiciume. Da quella infima porta
può passare il drago che distrugge la possibilità stessa della filosofia. La
scienza della verità è compromessa dall’esistenza atopica di un capello.
I capelli e le altre realtà abiette, infatti, non hanno letteralmente "luogo"
(tópos) nella teoria. Più che compromessa, occorrerebbe forse dire che la
teoria è inquinata, contaminata, imbastardita da capelli, fango e sporco.
«Un’idea del sudiciume finirebbe per corrompere l’empireo: essa annerirebbe (noircirait) l’insieme etereo, definito contemporaneamente dalla sua
luminosità, dalla sua purezza, dalla sua costanza»3. Tutto questo appare
intollerabile all’apprendista filosofo che preferisce "rifugiarsi", come un
bambino spaventato, nelle sue rassicuranti certezze.
All’imbarazzo del giovane Socrate, Parmenide risponde con una diagnosi
ed un augurio. La reazione scomposta di Socrate è dovuta, egli dice, alla
"giovane età", che gli fa tenere ancora in considerazione "le opinioni degli
uomini", ovvero l’abituale partizione del reale in due regioni contrapposte,
quella alta, degna della massima considerazione e quella bassa, la "parte
maledetta" inassimilabile al concetto4. Il disprezzo per queste cose suppone un’assiologia implicita desunta dal senso comune e non problematizzata come tale. L’augurio riguardava il futuro filosofico del giovane interlocutore. Troppo giovane per essere vero filosofo (segno ne era, appunto, il
disprezzo e l’angoscia infantile provata per le scorie) ma sufficientemente
innamorato della verità per poter approdare, un giorno, alla vera filosofia.
Ad essa, continua Parmenide rivolgendosi a Socrate, arriverai «quando
non disprezzerai (atimaseis) più nessuna di queste realtà»5. Non credo che
questa sentenza platonica sia stata finora tenuta nella doverosa considerazione. Dopotutto si tratta di una definizione della filosofia che si trova
in un testo chiave della storia della metafisica occidentale. La filosofia,
quella autentica, avrebbe inizio quando capelli, fango e sporco entrano
nell’orbita della verità. La filosofia inizia quando ciò che al senso comune
appare abietto viene investito dalla luce del bene (in senso extra-morale),
quando, potremmo dire, i resti, in quanto resti, cominciano a splendere dello splendore della verità. La teoria delle idee, che di questo non è capace,
è allora ancora prefilosofica. Se si va alla ricerca della filosofia non è lì che
la si può trovare. Platone, al quale la tradizione assegna la paternità di
quella teoria, non esita dunque, nel Parmenide, a sottoporre il suo stesso
pensiero ad una revisione (auto)critica radicale, a testimonianza del fatto
che la filosofia è fedeltà alla verità, quale che sia il costo di questa fedeltà.
68
2. Statuto ontologico, fisico, etico, politico ed estetico dei resti
Molto, forse quasi tutto, è detto in questo antico dialogo sullo statuto dei
resti. In primo luogo si fa chiarezza sul loro statuto ontologico. Lo stesso
Platone, più avanti nel dialogo, lo precisa. Il loro statuto ontologico è oncologico. Onkos, la parola greca tristemente nota per la malattia che indica,
fa il suo ingresso ufficiale nella prosa scientifica proprio nel Parmenide
platonico. I resti non sono, i resti proliferano, brulicano, pullulano. I resti si
moltiplicano illimitatamente senza che sia possibile porre un termine alla
loro virale replicazione. Sono un molteplice privo di unità o delle esistenze che non si lasciano ridurre a concetto. Non si ordinano in un insieme
organizzato e gerarchicamente strutturato ma si accumulano, si ammassano, fanno massa (onkos significa "massa").
Dal loro statuto ontologico/oncologico discende il loro statuto fisico: i resti
sono divenire, sono kinesis, come tutte le cose della natura, ma sono una
kinesis particolare, una kinesis abnorme. Essi infatti non se ne stanno certamente immobili e identici come le idee, ma nemmeno procedono ordinatamente, come fanno le cose naturali, nella direzione del loro termine,
raggiunto il quale, acquisirebbero una forma compiuta. I resti piuttosto
"avanzano" incessantemente con uno strano moto circolare che parodia il
nostos odissiaco: avanzano per ritornare là dove per altro non hanno posto
(come i cinematografici "morti viventi"6). Per i resti non c’è patria, non
c’è collocazione, non c’è mondo ("atopia" dei resti). In quanto avanzi sono
in costante eccesso rispetto a quel tutto di cui non sono parti. Lo statuto
fisico dei resti non è, infatti, quello del particolare, che dell’insieme dato
è un elemento, piuttosto è quello del dettaglio che in un punto, il punctum di Barthes, incrina il senso dell’insieme, lo eccede dall’interno, ne
smentisce l’ordine apparente (lo "taglia" e, come tutto ciò che è tagliente,
"ferisce"chi inciampa in esso). La psicanalisi investirà i resti del valore di
sintomi: nell’ordine del significante i resti sono crepe che aprono l’interno
(e l’intero) al suo fuori senza senso. Alludono, secondo Jacques Lacan, ad
un "godimento" che è al di là del principio omeostatico di piacere, vale a
dire al di là di quel principio che regola l’autoconservazione del tutto.
Data questa ontologia e questa fisica dei resti, non vi sono dubbi su quale
sia lo statuto etico dei resti. Essi non potranno stare che dalla batailleana
"parte maledetta"7. Così, più di due millenni prima di Georges Bataille, li
percepisce il giovanissimo Socrate alle prese con l’obiezione di Parmenide ed è per questo che prova angoscia. L’eterogeneità e l’inassimibilità li
69
caratterizza da cima a fondo. Non è con la placida "materia" dei filosofi
che i resti mettono infatti in comunicazione. Quella è ancora una idea, è
un concetto che si ordina insieme agli altri concetti e che insieme a loro
partecipa alla costituzione di un kosmos ordinato. La materia dei filosofi
materialisti è un principio d’ordine. Grazie al contatto delle idee con essa,
si generano le cose nella loro razionale molteplicità. I resti, invece, della
materia rappresentano l’elemento irriducibilmente anarchico, riottoso ad
ogni legge. Ci sono i "materiali" con cui si costruiscono le case, ma ci sono
anche le macerie che restano dopo i terremoti che le hanno distrutte. Queste non solo restano, ma avanzano e non si lasciano facilmente smaltire.
Ebbene, i resti sono la dimensione di maceria della materia, sono il tumore della materia. Dal punto di vista etico, non potranno perciò essere altro
che dalla "parte maledetta", la parte "bassa".
I resti sono l’ossessione del demiurgo platonico, dell’artigiano-dio-architetto che nel Timeo ha il compito di progettare il kosmos sul modello delle
idee. Sono gli scarti di lavorazione della sua opera che mirava, per quanto
poteva, al bene e al bello («il mondo è il più bello dei nati e dio il più buono
degli autori»8). Sono il risultato di una divisione imperfetta nella quale il
dividendo (la chora, che molto impropriamente si può tradurre con materia) non è un multiplo del divisore (le idee). Rappresentano sensibilmente
il limite strutturale della sua generosità, la sua impotenza definitiva ed il
quantum ineliminabile di male (in senso extra-morale), vale a dire di non
somiglianza, che il kosmos per essere quel kosmos che è deve ammettere
accanto a sé (l’agostiniana regio dissimilitudinis).
Di tali scorie il kosmos non si libererà mai perché la demiurgia del kosmos,
che è produzione di una immagine simile9, è, al tempo stesso, produzione
di queste scorie e cioè liberazione di una immagine dissimile. Chi si occupa del problema dei rifiuti (materiali e umani) lo sa bene: l’industria dello
smaltimento, in quanto industria, continua a produrre rifiuti che andranno
a loro volta smaltiti, in un circolo vizioso che ha il sapore del double bind
(ad esempio, la prigione produce criminali, l’ospedale psichiatrico performa psicotici ecc.).
Siccome il kósmos offre, ad ogni latitudine, il modello della polis armonica,
la proliferazione dei resti si configura poi come il rovescio della politica
(statuto politico dei resti). Proprio come il kosmos, anche la polis nel suo
prodursi genera dei rifiuti che sono il suo altro. È la molteplicità irriducibile che l’affetta dall’interno mettendo a repentaglio il suo progetto di unità
70
"politica": può essere la sfrenatezza di desideri che desiderano sempre
di più (pleonexía) o l’ambizione del tiranno/mostro oppure la condizione
anch’essa mostruosa degli "avanzi" della società che sopravvivono ai suoi
"margini" frugando nelle discariche. La bontà del legislatore postula e
presuppone questo male radicale, perché la chora resiste alla methexis
e perché l’armonia del tutto si interrompe sempre in un punto: nel punto
cieco denotato dal permanere ostinato di "capelli, fango e sudiciume".
Infine i resti hanno una peculiare dimensione estetica nel senso originario
del termine: mobilitano un’affettività particolare, traumatica. È qui evocata un’esperienza assai comune.
I resti suscitano disgusto o commuovono (i "poveri" resti…), turbano oppure possono far ridere ma di un riso sempre tinto di inconfessabile angoscia. La parte della nostra anima che coinvolgono è quella che ride,
che piange, che prova ripulsa o che è preda della fascinazione. Non è la
parte "migliore", secondo la ripartizione platonica, non è cioè la parte prediletta dai filosofi, sulla quale si può fare affidamento per la costruzione
della città giusta. Non è l’elemento logistico, l’elemento pronto ad obbedire alla legge10. È piuttosto l’altro elemento, quello fantastico e patetico,
avido di lacrimare ma anche di ridere: l’elemento peggiore e debole lontano dall’intelletto11, la parte "maledetta", cara al dostoevskiano uomo del
sottosuolo. Questo è, continua Socrate, l’elemento a cui si rivolgono i poeti
imitatori con i loro inganni seduttivi, gli imbonitori da piazza, i sofisti, tutti
coloro che insomma hanno come scopo non la verità di ciò che è, ma la
conquista, mediante tecnica di cattura, delle anime inesperte
3. La virtù speculativa dei resti
Ebbene, se è tale lo statuto dei resti, come dare seguito all’augurio di Parmenide? Socrate, afferma l’eleate, diverrà filosofo quando non disprezzerà più nessuna di queste cose. Anzi, Parmenide, nel dialogo platonico,
aggiunge che la differenza tra filosofia e non filosofia passa proprio dal
rapporto che l’aspirante filosofo saprà instaurare con "capello, fango e
sudiciume". La non filosofia è quella che sottende il rifiuto del giovane
Socrate di estendere ai resti lo statuto della partecipazione al vero. Egli
non farebbe, in questo caso, che seguire il senso comune, quando invece
la filosofia del senso comune è l’inversione. Per il senso comune, infatti, i
resti sono da smaltire. Ogni produzione li implica come il proprio rovescio
ed è compito ancora della produzione contenerne l’anarchico proliferare.
71
Il demiurgo ha insomma bisogna di tecnici competenti nello smaltimento
dei rifiuti. Forse il senso ultimo della parola "tecnico", quando questa migra nell’ambito della gestione delle risorse umane (quando ad esempio di
parla di "tecnici" in politica), è proprio quello di esperto nello smaltimento
dei rifiuti, in primis quelli umani.
Ma la filosofia, che sovverte il senso comune, sembra segnalarsi per
un’opposta attitudine. Non disprezzare queste cose, come raccomanda il
vecchio eleate, significa saperne apprezzare la virtù. E quale può essere
la loro virtù se non quella di resistere, di ritornare insistentemente al loro
(non) posto, di perdurare a dispetto di ogni tentativo di liquidarli? E se,
proprio a causa del loro costitutivo eccesso, i resti fossero quanto c’è di più
resistente, quanto di più può ammantarsi del nome di fondamento? I resti
restano anche e soprattutto quando il "mondo" degli uomini (kosmos) viene meno. Nella sua ricerca di un fondamento indiscutibile della verità, capace di resistere ad ogni dubbio, perfino agli inganni di un dio onnipotente,
il filosofo moderno per antonomasia inciampava in un residuo, battezzato
«ego sum, ego existo»12. Questo resto era più potente dell’onnipotenza di
Dio. Da esso, secondo Descartes, doveva cominciare la metafisica. Costruire sull’indistruttibilità dei resti è allora la vocazione speculativa del
filosofo: della pietra scartata egli fa la pietra angolare. Se vi è, come vi è,
una qualche continuità tra la filosofia e il cristianesimo, essa si dà solo in
questo punto (e, forse, si esaurisce in esso): nella chiara percezione che
filosofia e cristianesimo hanno della verità più che umana, della verità
divina della "parte maledetta".
Note
1. Parm. 130 c 5 – d 1 (Oxford University
Press, First published 1902, reprinted 1989).
2. Nella finzione platonica, era stato Zenone, all’inizio del dialogo, a introdurre le tesi
parmenidee sul movimento.
3. François Dagognet, Des détritus, des
déchets, de l’abject. Une philosophie écologique. Institut Synthélabo, La Plessis-Ro-
72
binson 1997, p. 65
4. Parm. 130 e 3 – 5.
5. Parm. 130 e 3.
6. Si veda il mio Figure del postumano. Gli
zombi, l’onkos e il rovescio del Dasein, in
“Aut Aut”, 361, Gennaio-Marzo 2014, pp.
82-96.
7. Cfr. Georges Bataille, La parte maledetta
(preceduto da La nozione di dépense), Bollati
Boringhieri, Torino 2003.
8. Tim. 29 a5 – 6.
9. Tim. 29 b 1 – 2.
10. Rep. X, 604 b 6 – 7.
11. Rep. X, 604 d 8 – 10.
12. Cartesio, Meditazione seconda, in Meditazioni metafisiche, Bompiani, Milano 2001.
73
FRAMMENTI
E DINTORNI.
DIVAGAZIONI ETICHE
E DERIVE ESTETICHE
Matteo Aimini
>IUAV
Evoluzione
L’interrogazione dei valori derivati dalla coppia etico/estetico applicata al
tema re-cycle, può apparentemente far sorridere. Beffardamente si intende, in quanto è richiesto alla compagine di studiosi delle discipline architettoniche, urbane e del paesaggio di riflettere in merito a due categorie
ancora incluse, forse, negli armamentari teorici dei vari settori, ma che di
fatto appartengo ad un'altra disciplina. L’architettura ha per caso perso le
parole? Abbiamo esaurito la capacità di esprimere dei concetti attraverso
un lessico appropriato? O si richiede di procedere verso un processo di
ibridazione, di contaminazione, di rinnovate espressioni, frutto di ispirati
processi dialettici? Il messaggio subliminale di questo esercizio sottende una disperata necessità evolutiva mediante incroci disciplinari? Pena
la totale estinzione? Provocatoriamente potremmo dire che il progetto di
architettura in senso lato è una specie protetta in via di estinzione se non
74
saremo in grado di adattarlo ai nuovi cicli e ai differenti valori etici ed estetici richiesti dall’attuale stato dell’arte.
Stato
Solo venti anni fa nessuno si sarebbe mai immaginato, almeno in Italia,
di dover ritrattare condizioni di tali portata. Il vento del benessere, la capacità del capitale di porre rimedio ad ogni fallimento, sembravano delle
condizioni rassicuranti. Purtroppo la sbornia è finita, ed alcuni valori come
la gestione dei contenuti del progetto, l’attenzione verso il consolidato e la
cura contro lo spreco del suolo e degli edifici esistenti riprendono terreno.
Maggiore è la scarsità dei mezzi maggiore è l’attenzione verso quello che
si possiede. Minore la capacità d’azione maggiore le probabilità di ottenere soluzioni diversificate. Minore è la forza del singolo promotore maggiore è la capacità della comunità di organizzarsi.
75
Direzione
Di fronte a tale panorama di opportunità, la ricerca di una direzione oscilla
ipoteticamente tra l’immagine di una Ocean Chart deserta1, in cui non viene
disegnata una singola rotta e dove l’assenza dei tracciati sono l’unica direzione possibile versus la densità espressa dai flussi di movimento liberi
ed incanalati che raccontano momenti di iperattività come rappresentati
in Collective form2. L’interpolazioni tra questi due stati di navigazione che
raccontano il vuoto e la densità dei movimenti esprimono molto bene, a
mio avviso, i vari gradienti e i molteplici stadi dei processi inerenti re-cycle,
che talvolta in termini progettuali possono apparire come un quadrato
bianco su bianco3 prendendo forma nella loro scomparsa o essere deflagranti come un intervento di street art che dipinge l’apertura di un lucchetto situato al posto dei nostri occhi4. Assenza ed intensità, mimetismo
e frattura, sono quattro ritmiche molto interessanti, da applicare nelle loro
possibili sfumature al progetto di architettura che pone come cardini una
nuova condizione etica ed estetica nei processi di riuso.
Scala
Un momento... al di là di una auspicata direzione ritmica del progetto di
riuso in architettura, analizziamo innanzitutto quelle che apparentemente
sono delle criticità etiche che riguardano la nostra materia progettuale,
come per esempio il fattore scala.
Milano, il "laboratorio urbano d'Italia" ne è la dimostrazione più evidente.
Sopra una certa dimensione i processi di governo del progetto risultano
difficili se non talvolta fallimentari, sia dal punto di vista finanziario sia per
quanto concerne la qualità architettonica ed urbana. Senza scendere nei
dettagli consideriamo i 14 maggiori progetti dell’area milanese5, per un
totale di 610 ettari e 11.2 miliardi di euro di investimenti.
Si registra che oltre il 40 % di essi presenta uno stato di sofferenza a vari
livelli, causando come è facile immaginare disagio e imbarazzo.
Per comprendere la dimensione di tali cifre, consideriamo che 610 ha sono
poco meno di un terzo dell’intera superficie di Porto Marghera. Se applichiamo in linea teorica la stessa logica con cui Milano si è sviluppata
dal 1995 al 2015, servirebbero all’incirca 40 miliardi di euro, per nuovi ed
eventuali piani di sviluppo. Una cifra pari al prodotto interno lordo annuo
dell’Estonia che conta una popolazione di 1.339.000 abitanti.
Dopo tali considerazioni una serie di domande sorgono abbastanza spon-
76
tanee: saranno ancora possibili progetti di queste dimensioni data la drastica riduzione dei flussi finanziari che rendono difficili se non impossibili
valide strategie di lungo periodo? Faremmo ancora impazzare nei nostri
territori cordate di Archistar paravento di affaristi privi di scrupolo? O saremo costretti a rivedere profondamente le prospettive dei lacerti eccellenti in funzione delle esigenze reali?
Processi
Interessante notare come la scala del progetto ponga irrimediabilmente
alcune questioni rilevanti ed estremamente connesse ai modelli finanziari
andati in crisi dal 2008 in poi. Rileggendo la definizione della Vita Etica,
dove «il momento in cui l’uomo sceglie di scegliere e si impegna in un
compito e così facendo assume la responsabilità della propria libertà»6
saremmo portati a pensare che l’attuale condizione economica dettata dal
nuovo ciclo, ci vincola e apparentemente limita definitivamente le nostre
possibilità di scelta e quindi di impegno, minando di conseguenza la nostra condizione etica.
In verità questa apparente costrizione della libertà di azione economica
getta le basi per un radicale ripensamento dei processi progettuali che
coinvolgono tutti gli attori in campo. Da un modello di finanza responsabile, ironicamente evocato dal dito medio7 permanentemente situato in fronte alla borsa di Milano. Alla capacità che alcuni autori come Bonomi, in
reazione a tali fenomeni, hanno, nel ridefinire nuove geografie territoriali
realizzate attorno ai concetti di infrastrutture collettive della produzione
piuttosto che a singole e sporadiche isole di massima efficienza.8
Programma
Tale situazione rimette pesantemente in discussione anche i programmi
funzionali del progetto di architettura post crisi, per poter in qualche maniera sfuggire... «all’alienazione globale e volontaria, in forma collettiva.
Dove la costrizione è la nuova legge, con la quale è assurdo colloquiare: la
resistenza a tale legge inesprimibile è pagata con la tortura».9
Tale affermazione, rubata a Tafuri si riferisce agli episodi di tortura urbana, a cui i territori sono stati sottoposti, come ad esempio il quartiere satellite di Santa Giulia vicino alla stazione ferroviaria di Rogoredo o Sesena
a pochi chilometri di distanza da Madrid, dove la banalità dei programmi
ed un uso ripetitivo e spregiudicato delle densità, altro tema cruciale, han-
77
no creato situazioni di vera desolazione.
I nuovi cicli dovrebbero essere in grado di ripensare il programma di architettura superando la classica suddivisione di tipo neo-razionalista, lasciando spazio in teoria all’incertezza, ad una modulazione meno rigida,
più simile ad una tela di Boetti più che a un dipinto di Mondrian.
«La certezza del fallimento deve essere il nostro gas esilarante/ossigeno;
la modernizzazione è la nostra droga più potente. Dal momento che non
siamo responsabili, dobbiamo diventare irresponsabili [...]».10
Raccogliendo la provocazione forse potremmo spingere l’etica a prendere
delle posizioni più forti e propositive verso alcune questioni cruciali dei
nuovi cicli come i fattori di scala, i processi di costruzione economica, i
contenuti/programmi e la densità. Senza avere paura di lasciarsi alle spalle quei modelli teorici e progettuali che hanno messo in crisi i territori del
contemporaneo.
Frammento
Anche gli esercizi teorici non sono immuni dallo stato di crisi che attraversano il progetto di architettura, se fino al 2006 avevamo ancora la forza di immaginare utopie di nuova fondazione11, innocue sperimentazioni
compositive, la dura condizione del presente ci spinge a ritornare verso
una dimensione più contenuta, alla scala del frammento, che induce a
plasmare selettivamente e con logiche precise gli shrapnel incandescenti
piovuti al suolo. Ripartendo dall’opportunità degli scarti apparentemente
irrecuperabili, come nel caso del Ribbon Park di Tianjin, magistrale progetto realizzato da Turenscape. Esprimendo maggiore attenzione verso il
ciclo dei manufatti, come dimostra l’adeguamento energetico e tipologico
condotto a Winterthur, da Burkhalter Sumi Architekten o verso i territori,
progettando architetture naturali capaci di sviluppare una vita propria con
bassissimi costi manutenzione come nel progetto del parco olimpico realizzato per i giochi di Londra da Hargreaves Associates.
Posizione
Che cos'è allora re-cycle a questo punto?
Se dovessimo posizionare il blob re-cycle nel diagramma di Jencks12, cercando di stabilire un lasso temporale sulle ascisse, certamente risulterebbe non inferiore al ciclo ventennale precedente. Collocandolo invece
nell’asse delle ordinate dove compaiono le macro categorie che indicano
78
le varie anime dei movimenti di architettura, sicuramente sarebbe situato
a cavallo dei termini intuitivo e militante, con alcuni sconfinamenti nelle
fasce idealiste e logiche. Potremmo allora riformularlo secondo questa
espressione: re-cycle è un progetto etico quando si dimostra intuitivo nelle
scelte progettuali atte a migliorare una condizione di bordo e militante
nella scelta degli obiettivi. Idealista ed estremamente logico nella sue varie espressioni attuative ed estetiche.
Condizione
La situazione che emerge da questa definizione potrebbe risultare ostica e
difficile da accettare perchè da sempre siamo abituati a far prevalere il
senso della Vita Estetica «dove l’uomo è immediatamente impegnato alla
ricerca dell’attimo fuggente della propria realizzazione, rifiutando la monotonia e la ripetitività di ogni impegno continuato».13 Forse anche la condizione estetica rinuncia in parte alla sua dimensione di dichiarata singolarità e stravaganza, per abbracciare una provocatoria normalità.
Approcci
La condizione estetica potrebbe mutare a favore di situazioni coinvolte in
processi:
– di fusione, come nel caso di una semplice ampliamento di una villetta
bi-famigliare per mano di Amunt nella periferia nord di Aquisgrana, dove
la preesistenza in klinker rimane tale e la nuova espansione è provocatoriamente dichiarata da brutali blocchi di calcestruzzo prefabbricato;
– di metamorfosi controllate come il rudere di una manica del museo di
scienze naturali di Berlino, bombardato durante la seconda guerra mondiale, diventa l’occasione per effettuare una operazione di sapiente ricucitura. Non tanto nel programma funzionale, che ospita al suo interno una
enorme wunderkammer di esseri in formaldeide, ma nell’operazione verso
l’esterno che mediante un sistema di calchi, riproduce in finissimo calcestruzzo i temi, le trame ed i disegni dell’esistente, generando un potente
conto circuito materico;
– di sbinamenti rivitalizzanti come nel Frac di Lacaton & Vassal, a Dunkerque, dove l’aggiunta di un volume parallelo di ugual sagoma e dimensione,
ma di differente consistenza materica, è stato progettato nell’ottica del
mantenimento di una condizione fin dal principio in dote all’edificio madre: il grande vuoto dello spazio centrale.
79
Infatti il gemello di nuova costruzione ospita tutte le funzioni accessorie
non compatibili con "l’assenza".
Conflitto?
Nel nuovo ciclo le categorie antinomiche di Etica intesa come rimodulazione di scale, processi economici, di programmi e densità versus una
condizione Estetica apparentemente sottotono fatta di fusioni, metamorfosi e calibrati innesti fanno supporre la presenza di un conflitto o di una
serie di esclusioni quasi insanabili. In verità entrambe le categorie nelle
varie eccezioni concorrono sul medesimo piano, una non esclude l’altra
e viceversa, compensandosi in un meccanismo di mutuo aggiustamento.
Lo scontro caso mai è trasferito verso i piani sociali e culturali di questo
nuovo stato d’essere, dove lo sforzo più grande risiederà nella capacità di
trasmettere il nascere di nuove categorie Etiche ed Estetiche, pertinenti al
periodo storico che ci accingiamo ad affrontare.
Futuro
La città di re-cycle, la città del nuovo ciclo, 2015-2035, deve essere quindi
in grado di rielaborare rinnovati meccanismi etici che tengano in considerazione quelle variabili del progetto sopracitate che non siamo più in
grado di ignorare senza mortificare una dimensione Estetica che è ancora
in grado di fornire notevoli spunti di riflessione. Il progetto di architettura
per ora pare sia salvo, anzi ne esce quasi rinvigorito.
Assenza ed intensità, mimetismo e frattura, sono alcuni dei valori minimi
e massimi di questi nuova gamma di progetti possibili.
Riprendendo il gioco dello opposizioni, motivo saliente di questo seminario diremo che re-cycle è progettare l’assenza di un Marat che scompare14
come nel Naturkunder museum di Diener & Diener. Della rinnovata necessità di riconoscere i frammenti dell’arcipelago15 per iniettare intensi
ma calibrati innesti programmatici di vitale importanza come accade ad
esempio per la Nuova Fondazione Prada a Milano16. Di progettare mimetiche macchine per contocircuiti come il Palais de Tokyo17, che vagamente ricorda una raffinata versione del Fun Palace di Price, fino ad osare
blasfeme rotture per superfetazioni del Colosseo18 inconsciamente ri-interpretate da Herzog & DeMeroun, nel progetto della Elbphilarmonie di
Amburgo... (segue nel prossimo episodio).
80
InterventoSuperficie
1. Santa Giulia1.200.000 mq
2. EXPO 20151.100.000 mq
3. Nuova Fiera Milano
1.000.000 mq
4. Quartiere Adriano-Marelli
468.000 mq
5. Portello400.000 mq
6. Milano Fiori Business
360.000 mq
7. Porta Nuova340.000 mq
8. Quatiere Bicocca
300.000 mq
9. City Life250.000 mq
10. Regione Lombardia
190.000 mq
11. Porta Vittoria
151.000 mq
12. Maciachini Center
110.000 mq
13. Abitare Milano 1 Social H.
55.000 mq
14. Fondazione Prada
11.000 mq
81
Investimento
Stato
Note
2.8 Miliardi di Euro
Fallito 20% realizzato
Attivo In fase di realizzazione
Realizzato
Realizzato
1.7
800 Miliardi di Euro
770
Ritardo
60% no servizi alla residenza
350
Attivo 90% in chiusura
480
Fermo 60%
2.1 Miliardi di Euro
Attivo Il 40% ceduto al Qatar
390 Milioni di Euro
Realizzato
Realizzato
520
Ritardo
50% post pon consegna 2023
400
Realizzato
Realizzato
420
Fallito 50% Abbandono BEIC B6W
380
Realizzato
Realizzato
80
Realizzato
Realizzato
54
Attivo
In fase di costruzione
82
Note
Immagine
1. L. Carroll, Ocean Chart, The Hunting of the
Snark (An Agony in 8 Fits), 1876.
Diener & Diener, Ostflügel des Museums für
Naturkunde, Berlin 2010
2. F. Maki, Investigations in Collective Form,
1964.
3. S. K. Malevic, Composizione suprematista:
bianco su bianco, 1918.
4. Blu, Senza titolo, Bologna 2010.
5. Quattordici progetti dell’area milanese:
vedi pagine precedenti.
6. S. Kierkegaard, Enten-Eller, 1843.
7. M. Cattelan, L.O.V.E., Piazza Borsa, 2012.
8. A. Bonomi, Il capitalismo in-finito, 2013.
9. M. Tafuri, Progetto e utopia. Architettura e
sviluppo capitalistico, 1973.
10. R. Koolhaas, What Ever Happened to
Urbanism?, in S,M,L,XL, 1995.
11. F. Purini, VEMA, Biennale di Venezia,
2006.
12. C. Jencks, The century is over, 2000.
13. S. Kierkegaard, Enten-Eller, cit.
14. Yue Minjun, The Death of Marat, 2002.
15. O. M. Ungers, Archipelago sketches,
1978.
16. OMA, Progetto per la nuova fondazione
Prada, 2013.
17. A. Lacaton & J. P. Vassal, Palais de
Tokyo, 2012.
18. Superstudio, Monumento continuo, 1972.
83
LA
METAFORA
DEL RICICLO
Sara Favargiotti
>UNIGE
Agli albori del Cristianesimo i teologi suggerivano che la bellezza degli edifici avesse il potere di migliorare moralmente e spiritualmente le persone.
Credevano che, lungi dal corrompere e dall’essere un’oziosa debolezza
da decadenti, un bell'edificio potesse rendere più determinati a coltivare
il bene. Queste convinzioni stabilivano un’equazione tra l'ambito dell'etica e quello dell’estetica.1 Estetica intesa come percezione soggettiva (ma
condivisa) del nostro legame con l’ambiente, è il legame caratterizzato da
una profonda ed equilibrata armonia dinamica; l’etica invece è la capacità, soggettiva e intersoggettiva, di concepire e compiere azioni capaci di
mantenere sano ed equilibrato il legame con l’ambiente. Etica ed estetica
sono quindi due facce della stessa medaglia. Se l'estetica è il sentimento (inter)soggettivo dell'immersione armonica nell'ambiente e l'etica è il
sentimento (inter)soggettivo di rispetto per l'ambiente e di azione armonica con esso, allora l'etica ci consente di mantenere l'estetica e l'estetica ci
84
serve da guida nell'operare etico.2
Dagli anni Settanta, nel dibattito teorico sulla sostenibilità ambientale, vi
è la ricerca di una nuova ecologia dell’artificiale, dove i vincoli ambientali
offrono alla cultura del progetto la straordinaria occasione di proporre
soluzioni diverse, basate su rinnovati criteri di qualità. Nel 1965 Vittorio
Gregotti sostiene che «nulla si crea, nulla si distrugge: tuttavia tutto si
accumula in attesa di essere trasformato. Non ci sono solo più i cimiteri
degli uomini, dei cani e degli elefanti: tutta la nostra periferia urbana è un
cimitero di oggetti […] e si ferma, scheletrame, a metà strada, attendendo
che torni conveniente il suo ricupero».3
Anche il sociologo Maldonado4 sostiene il ruolo e la responsabilità del
progettista nel proporre le necessarie trasformazioni della società. Il suo
obiettivo è quello di dimostrare che per agire contro le cause e gli effetti
della nostra situazione ambientale si deve sempre iniziare recuperando la
speranza progettuale, in altre parole riconducendo su nuove basi la nostra
fiducia nella funzione rivoluzionaria della razionalità applicata.5
La questione del cambio delle pratiche è molto importante perché implica
un ripensamento del ruolo degli architetti nella società di oggi. Che cosa
la società si aspetta (o di che cosa ha necessità) dall'architettura e dagli
architetti? Si tratta solo di nuove forme affascinanti che introducono nuove
espressioni estetiche e nuovi materiali?
Secondo Lacaton6 le questioni più importanti per gli architetti sono: come
e dove vogliamo vivere? Cosa possiamo fare per migliorare le condizioni
di vita nelle città? Come possiamo portare un approccio più sensibile alle
questioni della sostenibilità e dell'ecologia attraverso la tecnologia o il
risparmio energetico?
Una risposta a queste domande è data attraverso il riciclo del patrimonio
moderno. Negli anni Sessanta e Settanta, molte città del mondo hanno
visto la costruzione di unità abitative di edilizia sociale, generalmente in
aree periferiche. In contrasto con le politiche francesi di demolire e ricostruire, Lacaton e Vassal propongono la trasformazione di uno di questi
edifici, Tour Bois Le Prête a Parigi. Secondo gli architetti francesi, non
si può pensare che sia un problema solo di architettura. Questi blocchi
residenziali, infatti, anche se si trovano in cattive condizioni, non sono alla
fine della loro vita e rappresentano ancora un elevato potenziale di miglioramento. Il progetto lavora con i "materiali" presenti: l'edificio che era già
lì, e le persone che lo abitano, per arrivare a decidere cosa aggiungere
85
per renderlo «un bel posto dove vivere».7 Aggiungendo giardini pensili e
balconi, rimodellando la pelle attraverso nuove aperture e nuovi materiali,
il progetto ha portato un miglioramento della qualità degli spazi interni,
creando un’immediata trasformazione dell'immagine dell'edificio. Quello
che Lacaton e Vassal propongono non è un progetto dove sostituiscono
semplicemente la pelle, ma piuttosto attuano una trasformazione duratura che scaturisce dall’interno, dalla sostanza dell’edificio. L’architetto
Levete definisce l’intervento progettuale «far from the usual cosmetic approach that fools no-one.»
Molto spesso, però, la speranza progettuale è ritrovata in luoghi emblematici e per mezzo di pratiche non formali. Come nella Torre David a Caracas che oggi è il più grande edificio occupato del mondo. Doveva essere
il terzo grattacielo più alto del Venezuela ma la sua costruzione fu interrotta durante la crisi del ’94 e da quel momento rimase incompiuto fino
all’occupazione da parte degli attuali residenti. Al suo interno, una comunità spontanea ha creato una nuova casa e una nuova identità, occupandola con talento e determinazione. Quello che è conosciuto come squatting, oggi, ha il suo modello da seguire. Un modello di Common Ground,
ovvero di spazi comuni e per questo il progetto è stato premiato con il
Leone d'Oro alla XIII Biennale di Architettura di Venezia. Questa iniziativa
può essere intesa come un modello ispiratore che riconosce la forza delle
associazioni informali. Tuttavia non si tratta solo di favelas, orizzontali o
verticali, campi rom o residui post-moderni. Infatti, all’interno delle città,
molteplici sono le strutture in attesa di essere riutilizzate, gli spazi invenduti o occupati.
Il tema è particolarmente "italico", nell’arte come in architettura. Il non
finito riferito ai cantieri edili incompiuti sembra essere una prerogativa del
nostro modus operandi, soprattutto per quanto concerne le opere pubbliche: moncherini di strade e viadotti nel nulla, recinti di cantiere e sbancamenti abbandonati, scheletri strutturali lasciati a metà paiono connaturati
alla percezione visiva del nostro paesaggio urbano e rurale. Julia Schulz li
definisce rovine moderne8: luoghi precocemente abbandonati che affollano le periferie, i paesaggi e i nostri centri.
Rigenerare spazi, esplorando nuove possibilità di qualità urbana, è poi così
diverso dalle esigenze di un corpo umano? La performance, intesa come
azione urbana, fonda il suo effetto sull'intervento fisico di una persona o
di una struttura inusuale in un contesto più o meno di qualità che destabi-
86
lizza la gente, confonde o rende felici, fa pensare o incoraggia a prestare
maggiore attenzione per l'ambiente. Dove c’è azione, c’è interazione di
individui che genera una sacralità sociologica, come definisce Boni.
Riprendendo la teoria di Goffman,9 tutte le forme di interazione sono tipi
di prestazioni che si traducono in atti o eventi significativi e che vengono
eseguiti attraverso la partecipazione dalla gente. L'azione, quindi, è un
veicolo per scoprire la qualità profonda di carattere.10 Allo stesso modo,
nella città, gli eventi o le performance urbane contribuiscono ad aumentare la sensibilità del luogo. Si tratta per lo più di performance che generano
un nuovo ciclo, per comunicare, fruire, condividere, per sperimentare un
modo diverso di vivere uno spazio abbandonato e riscoprirne il fascino.
Azioni che si realizzano grazie a un lavoro condiviso di istituzioni e privati,
associazioni e gruppi, con uno spirito collaborativo e come atto politico.
Questo è quello che succede a Prata Sannita, nella progettazione del Million Donkey Hotel attraverso la partecipazione dei cittadini.11 Oppure attraverso l’evento urbano che ha riattivato Tour Paris 13 reinterpretandola
in chiave street art.12 Si tratta di progetti che sono azionati dalla necessità
e dalla ricerca di una nuova linfa per la città, sia per seguire le tracce
del passato che per intraprendere un nuovo percorso. Riciclaggio urbano,
squatting, arte e installazioni urbane si trasformano sempre più da pratiche contingenziali a prassi regolari.
Secondo l’artista urbano JR «le aree pubbliche appartengono a coloro che
vi abitano» e di conseguenza, le azioni urbane rigenerano paesaggi urbani:
proprio gli spazi interstiziali o dismessi della città diventano la tavolozza
su cui agire con performance e azioni urbane, generando un’opportunità
per costruire una nuova sensibilità ecologica e ambientale per la città.
D’altra parte il concetto di contaminazione fra architettura e arti plastiche
e figurative è molto antico. Spesso le ricerche artistiche più significative
hanno anticipato o influenzato il mondo del design, dell’architettura, della comunicazione. Si tratta di azioni culturali che si adattano al contesto
in cui vengono collocate attraverso una nuova organizzazione fisico-spaziale oppure per mezzo dell’interpretazione soggettiva di ciascun fruitore.
Come per la 54esima edizione della Biennale d’arte, Cattelan attraverso
la sua opera Turisti, proponeva 2.000 piccioni imbalsamati che invadevano
diversi spazi e opere del padiglione centrale. Un’opera priva di uno spazio
proprio definito e delimitato ma che contamina altre opere, generando
un nuovo significato per se stessa e per le altre opere. Così nella città, la
87
gente invade l’architettura e l’architettura contamina lo spazio e da questo
incontro scaturisce il vero significato del progettare per la città.
La società contemporanea sembra perdere di solidità: le sue organizzazioni diventano plastiche, le forme di vita che in essa hanno luogo diventano fluide, ogni progetto tende a essere flessibile e ogni scelta si propone
come reversibile. O almeno così vorrebbe. Ma se pure nulla è poi così
nuovo in termini filosofici, tutto cambia in termini pratici.13 Secondo la posizione platonica14 c’è insegnamento dove accade qualche cosa: Platone,
infatti, critica la scrittura, valorizzando invece il processo di apprendimento come evento. L’evento è quanto c’è di residuale, di non progettabile.
L’evento non è un rumore di fondo che disturba la trasmissione del sapere
ma è il luogo in cui si fa il senso del sapere. Secondo Ronchi, questa è
una lezione interessante ancora per noi oggi perché, in fin dei conti, tutti
i processi di funzionalizzazione della comunicazione mirano ad eliminare
la dimensione residuale e creativa della comunicazione stessa. Così nella
città, gli eventi temporanei, spesso motore di queste azioni e derivanti da
altre discipline, diventano oggi principio di trasformazione anche in contesti non problematici. Si tratta per lo più di strategie di riciclo urbano che
agiscono attraverso la partecipazione attiva dei cittadini nel processo di
trasformazione. Secondo Renzo Piano, infatti, la città è luogo di contaminazione, di contatto fisico, reale. «La città è più di un insieme di strade,
piazze, giardini, palazzi, persone: è uno stato d'animo. È una straordinaria emozione. Una città non è mai disegnata, si fa da sola: insomma una
città "è" [...] un luogo dove non tutto è programmato. Anzi, dove nulla è
programmato».15 In questo senso «la città è un luogo dove c'è un continuo
tumulto di sentimenti, dove si creano relazioni, interazioni e si manifestano passioni, inscritte negli spazi o provate nei cittadini. Ma l’anima tende
ad animare, a immaginare per mezzo di immagini e di simboli [...] senza
immagini tendiamo a smarrirci.»16
Pertanto, è fondamentale il ruolo degli eventi temporanei nei processi di
trasformazione perché attraverso un rispetto etico e un’attenzione estetica, propongono una visione alternativa e trasformano la qualità dello
spazio urbano, rigenerando la città, implementandone la qualità estetica
e generando nuove narrazioni. Oggi, pensare a che cosa sia ecologico, sostenibile ed economica porta a un diverso principio etico: un'architettura
fatta di riuso e riduzione dei consumi, che sta rivelando un suo linguaggio
espressivo e processuale. Il riciclo, infatti, è una pratica adattiva e speci-
88
fica che si muove per tattiche più che per modelli. All’uso abbandonato,
se ne sostituisce uno preso a prestito da altre forme espressive, la cui
"essenza" va a sovrapporsi a quella del luogo originario creando, così, immagini di forte carica espressiva. Modelli comportamentali più che buone
pratiche. Così i progetti riciclati propongono una visione pervasiva, capace
di interpretare il cambiamento quotidiano dei modi d’uso dello spazio. In
questo senso etica ed estetica non sono in opposizione ma piuttosto sono
paradigmi complementari.
Forse siamo davvero di fronte a una nuova tendenza: la griffe del processo.17 Ma non si tratta di un’opposizione all’architettura, o di una demistificazione del suo ruolo demiurgico. Recycle, mettendo in difficoltà la figura
dell’autore, apre le possibilità alla partecipazione attiva dei cittadini nel
ridisegnare il futuro della città. Forse l’architetto, addentrandosi con il suo
operare, volontariamente o inconsapevolmente, nel campo dell'etica, non
dice nulla che non sia già stato detto in altri ambiti del pensiero del suo
tempo: non fa che interpretare e tradurre in forma costruita un messaggio già articolato da altri in linguaggi diversi. L’autore, singolo o riunito in
una collettività, si trasforma in un interprete del cambiamento del nuovo
linguaggio espressivo. Architetti e urbanisti sono chiamati a ricodificare il
cambiamento. Il riciclo non è che una metafora: una metafora etica per un
cambiamento estetico.
Note
1. A. De Botton, Architettura e felicità,
Guanda, Milano 2006.
2. G. O. Longo, Etica, estetica e libero
arbitrio, in «Scienza in Rete», 2010.
3. V. Gregotti, E. Battisti, Periferia di rifiuti,
in «Edilizia moderna», n. 85, 1965, p. 28.
4. T. Maldonado, La speranza progettuale.
Ambiente e società, Piccola Biblioteca
Einaudi, Milano 1992.
5. P. Tamborrini, G. Tartaro, Design
Sostenibile, 2013.
6. A. Lacaton, Transformation, density for
a better quality of life in the cities, in «RIBA
Research Symposium "Changing Practices"
conference proceedings», London 2009.
7. A. Lacaton and J. P. Vassal in
conversation with M. Wellner, Surplus,
in M. Petzet, F. Helimeyer (eds.),
«Reuse, Reduce, Recycle. Architecture
as Resources», German Pavillion, 13th
International Architecture Exhibition, 2012.
89
8. J. Schultz, Ruinas Modernas. Una
topografia de lucro, Àmbit, Barcelona 2012.
9. Erving Goffman è un sociologo
americano e ha contribuito alla teoria
dell’interazionismo simbolico attraverso lo
sviluppo dell’approccio "drammaturgico":
considera cioè la vita sociale come
una sorta di teatro in cui le persone
interpretano diverse parti e agiscono come
"registi" della loro vita e delle impressioni
che destano negli altri.
10. E. Goffman, Where the action is: three
essays, Allen Lane 1969, p. 164.
11. Feld72, Million Donkey Hotel, Prata
Sannita 2005.
12. Tour Paris 13, Parigi 2013.
13. E. Manzini, Il design in un mondo fluido,
in P. Bertola, E. Manzini (a cura di), «Design
multiverso. Appunti di fenomenologia del
design», POLI.design, Milano 2006, p. 17.
14. Platone, Lettera VII, 341c.
15. R. Piano, La responsabilità dell’architetto.
Conversazione con Renzo Cassigoli, Passigli
Editori, Firenze-Antella, 2004, pp. 77-78.
16. J. Hillman, Politica della bellezza, a cura
di Francesco Donfrancesco, Moretti &
Vitali, Bergamo 1999, p. 81.
17. S. Marini, Convegno Re-cycle Op_
Position, Venezia, 4 aprile 2014.
90
OBJET
TROUVé
O READYMADE?
Enrico Formato
>UNINA
1. Progettare (con) gli scarti
Nel mondo di Re-cycle non c’è opposizione tra etico ed estetico: il riciclo è
una necessità. Da questo punto di vista la categoria degli scarti, dei rifiuti,
degli oggetti e delle relazioni non in uso (alla fine del proprio ciclo di vita),
è estremamente più interessante (ed infinitamente più cospicua) di quella
delle cose e delle relazioni in essere o inserite in un network attivo.
Ogni scarto, mediante un meccanismo di concettualizzazione retroattiva,
può essere inserito in una o più storie, in cui assume senso.1 Le cose e
le loro concatenazioni acquistano così uno spessore temporale, fatto di
accumulazioni e proiezioni nel futuro. Le mappe si liberano dalla bidimensionalità e, sfocandosi, assumono profondità.2 I cicli di vita (e le loro storie:
le biografie urbane e del territorio), i metabolismi dei sistemi ed i loro ibridi (urbani, naturali, delle aggregazioni sociali e degli scontri tra classi –
come nella visione neo-materialista degli assemblaggi3) rendono il mondo
91
degli scarti avvolgente e pervasivo, mai veramente esterno all’osservatore
(che è sempre attante: agente o agito dalla realtà). Così il progetto diventa dispositivo, elegge il tempo e la mutazione come campi privilegiati di
azione; assume le biografie come matrice generativa, sovrappone layer,
muove lo spazio, obliqua punti di vista (come in un mosaico cubista), costruisce inedite configurazioni attraverso la ri-composizione di materiali
e relazioni. Dato che ogni concettualizzazione di un frammento, un oggetto o una relazione, richiede un’interpretazione, le scelte del progetto
assumono rilevanza sia dal punto di vista estetico che etico. Da entrambe
le prospettive provengono interrogativi significativi sul come declinare la
condizione di necessità che definisce il campo del riciclo.
2. Catalogazione, interpretazione, poesia
Dal punto di vista estetico Re-cycle sembra poter utilizzare due atteggiamenti, complementari ed opposti, non separabili. Tali espressioni sembrano declinabili mediante un’analogia con la ricerca estetica dell’arte
contemporanea, dove la multidimensionalità e la significazione dei reperti, a partire dalle avanguardie storiche fino ai nostri giorni (da Gris e
Duchamp, fino al Nouveau Réalisme e alle accumulation di Arman), sono
temi centrali, sia dal punto di vista teorico che per le ricadute tecniche
ed espressive. Il primo procedimento – che diciamo degli objet trouvé –
sembra fondare su di una pura razionalità analitica: la ricostruzione delle
biografie, la loro sovrapposizione, la ricostruzione scientifica di direzioni
interrotte. Un lavoro di tipo archeologico, basato sullo scavo e la catalogazione dei frammenti e delle parti. Ogni elemento ed ogni relazione trovata
sul campo viene assegnata ad un sistema di significati e di azioni indipendente, ad esempio ad una determinata famiglia di scarti.4 La sovrapposizione di questi sistemi lavora su più piani, evita ogni giudizio di valore, assegna ad ognuno di essi eguale dignità. Come in un dipinto di Juan Gris5:
lo sguardo inganna, la realtà è compresa solo mediante la catalogazione
e la ricostruzione in vitro dei diversi piani che la compongono. Il passaggio
dalla catalogazione al progetto avviene mediante la sovrapposizione dei
piani e la ricerca visuale di addensamenti, strappi, sfilacciamenti, linee di
flusso, pieghe.
La seconda mossa – che definiamo del ready-made – è di tipo poetico,
fornisce prospettive non ovvie recuperando oggetti noti ("pronti all’uso") in
concatenazioni funzionali ed estetiche del tutto inedite, tendenzialmente
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inaspettate. Questo procedimento impiega l’oggetto o il sistema di oggetti come fatto unico, non sezionabile. Differentemente ed in opposizione
alla razionalità analitica (descrittivo-catalogatoria) non utilizza il montaggio ma lo spostamento (il fuoco dello sguardo, il punto di vista, il nesso
percettivo o funzionale). Si basa sullo straniamento6, assegna valore ad
oggetti abusati (nella percezione, nell’uso) che possono assumere nuovo
significato in cicli di vita attuali. Non solo oggetti: i ready-made sono anche
metabolismi, cicli di vita ri-significati in altro sistema, come ad esempio la
natura che colonizza spontaneamente le grandi aree dismesse.
Nella concatenazione tra analisi, catalogazione, interpretazione e poesia
(o meglio attraverso l’andirivieni tra di esse) non si definisce un procedimento astratto né codificabile: la concettualizzazione impatta con l’immanenza della realtà, la durezza dei fatti resiste all’idealismo della codifica.
D’altro canto non può non intervenire l’assegnazione di giudizi di valore:
nelle infinite combinazioni tra piani, il progetto individua difatti un fascio di
direzioni privilegiate (dalle tante del piano di area vasta, all’univoca soluzione dell’esecutivo architettonico). Re-cycle sceglie gli oggetti ed i processi da assemblare, gli elementi da caricare di valore espressivo; determina
la direzione della trasformazione, individua i metabolismi e i cicli di vita da
coltivare e quelli da sradicare. Come un contadino di fronte al proprio orto
Re-cycle sa quali erbe estirpare e quali bulbi innaffiare e curare.
3. Figure: le terre comuni, la corona di cemento
Re-cycle non può esprimere una neutralità rispetto ai fatti, pena il descrittivismo o l’inefficacia. Il punto (aperto) è dunque: cosa si ricicla? Il nodo è
la scelta e l’assegnazione di valore che ne fonda la posizione.
Si apre una dimensione politica in cui il progetto di riciclo, che pur usa l’archeologia come tecnica e la concettualizzazione retroattiva come metodo,
non rinuncia alla combinazione inedita, ad opporsi alla realtà sfidandone le inerzie. Sembra emergere allora l’opportunità che Re-cycle sia allo
stesso tempo pratica di trasformazione e critica della trasformazione, per la
definizione di alcuni obiettivi comuni, condivisi e sufficientemente netti da
polarizzare il dibattito pubblico.
Un’ipotesi, da verificare alla prova dei fatti, è che possa tornare di utilità
ragionare su alcune definite e condivise figure del riciclo; provare a definire
delle costellazioni d’immagini che riducano e sintetizzino i valori etici del
fare architettura, urbanistica e paesaggio oggi7; definiscono alcuni punti
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verso i quali provare a convergere, al fine di non rendere vani o controproducenti le mosse del riciclo.8
Due sono le figure che in questa sede mi sembra opportuno tratteggiare,
a causa della loro attualità e del carattere dirompente che esse paiono
sottendere: le terre comuni e la corona di cemento.
Le terre comuni sono aree (semi-)abbandonate, spesso marginali, che
vanno definitivamente liberate (in parte ciò è accaduto spontaneamente
negli ultimi anni per effetto della crisi) della rendita differenziale che le
cristallizza in uno stato di sospensione, e significate con nuovi usi sociali,
civici e agro-produttivi, secondo un modello reticolare e di nuove continuità ecologiche e spaziali. Le grandi agglomerazioni metropolitane, le centocittà italiane, le conurbazioni estese, possono così trovare nuove trame per
lo spazio pubblico e nuovi rapporti tra insediamenti e natura, a partire dagli open drosscape, i vuoti che scartano tra le maglie degli insediamenti. Le
pratiche del riciclo sono senza dubbio in grado di concorrere, mediante il
recupero mirato di infrastrutture, vuoti inutilizzati, fasce para-infrastrutturali, edifici e spazi sottoutilizzati (dall’agricoltura, dalla produzione, dalla
residenza) alla definizione di tali aree. Allo stesso modo va circoscritto ciò
che non è compatibile con l’obiettivo, lasciando deperire o eliminando gli
elementi e le relazioni che contrastano i processi di rinaturalizzazione e di
strutturazione delle nuove topologie pubbliche.
Altrettanto rilevante sembra il lavoro sugli insediamenti, in particolare su
quella sorta di "corona di cemento", eredità dell’espansione edilizia iniziata con la ricostruzione e continuata negli anni del boom economico (dal
Piano Casa del 1949 all’anno di moratoria della Legge Ponte del 1967).
Questa parte urbana si è sviluppata, salvo rare eccezioni, in ogni parte
d’Italia con caratteri analoghi – la strada come matrice di un’edificazione
a cortina, l’elevata densità, la carenza di spazi pubblici e servizi adeguati
– come ampliamento degli antichi insediamenti, in modo radiale, usandone parassitariamente i tracciati e l’armatura urbana. Dal diradamento di
questa parte di città e dal riciclo di questo territorio possono trarre vantaggio sia i centri antichi (per i quali si aprono delle possibilità di restauro
a scala urbana, potendo ripensarsi un’Italia di centri urbani riconoscibili
come manufatti nel paesaggio) sia le parti più moderne e periferiche da
riallacciare, mediante nuovi spazi pubblici a rete, tra loro e con il resto
della conurbazione.
Questa operazione, per quanto possa oggi sembrare immane, è sempre
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più necessaria, anche perché è da qui che sembra opportuno ripartire per
riformare, con radicalità adeguata alle condizioni di fatto, le nostre città
ed i nostri territori.
4. Conclusioni (provvisorie)
Re-cycle Italy è una condizione necessaria, allo stesso tempo estetica ed
etica; risolve all’origine ogni dibattito sul consumo di suolo. La sua estetica
affonda nella combinazione di razionalità analitica e straniamenti poetici.
La sua concettualizzazione usa il tempo, è retroattiva e proiettata nel futuro. La sua etica si basa sulla scelta: è opportuno che emergano delle figure, per fissare orizzonti di senso su cui lavorare collettivamente, ognuno
dal proprio punto di partenza, verso alcuni radicali obiettivi comuni.
C’è da indirizzare il riciclo, favorendo le delocalizzazioni delle cubature e
dei sistemi insediativi irrazionali, brutti e cattivi del novecento. I drosscape ambientali, vanno inquadrati in una logica sistemica, reticolare, volta
alla costruzione di nuove terre comuni. Una rete di spazi aperti, pubblici e
con elevata caratterizzazione naturalistica, che va indirizzata ad insinuarsi
progressivamente nelle parti più dure e dense della conurbazione; sfruttando le crepe che Re-cycle saprà determinare nella "corona di cemento".
Note
Press, 2007.
1. B. Hue, Sur un état de la théorie de
l’architecture au XX siècle, Éditions
Quintette, Paris, 2003; P. Viganò, I territori
dell’urbanistica. Il progetto come produttore
di conoscenza, Officina Edizioni, Roma 2011.
5. Nella pittura cubista, a differenza di
quanto accade nella rappresentazione
prospettica in cui gli oggetti sono dati
nello spazio, gli oggetti sono dati con lo
spazio, che viene immedesimato e risolto
negli oggetti. Nella Natura morta di Juan
Gris, del 1914 la perdita di profondità è
accompagnata dalla sovrapposizione degli
elementi mediante la rappresentazione
simultanea di più piani: «il bordo del
tovagliolo non è interrotto dal piatto: poiché
sappiamo che il bordo è continuo […] non
c’è ragione per rinunciare ad un aspetto
certo per uno occasionale», G. C. Argan,
Storia dell’arte moderna, Sansoni, Firenze
1989, ed. or. 1970, p. 396.
2. Come un film in 3D, dove la profondità
è data dalla traslazione della medesima
immagine in diversi quadri, non
perfettamente coincidenti.
3. R. Beauregard, In search of assemblages,
in «Crios », n. 4, 2012.
4. A. Berger, Drosscape. Wasting land in
urban America, Princeton Architectural
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6. La tecnica dello straniamento, in russo
ostranenie, è stata elaborata dal critico
letterario Victor Šklovskij nell’ambito del
movimento formalista, alla fine degli anni
Venti: l'immagine poetica 'strania' l'usuale,
il quotidiano, operando uno spostamento
rispetto alla consueta serie semantica
in cui si colloca e presentandolo in una
nuova luce, dunque trasformandolo in
oggetto poetico. Il procedimento è stato
approfonditamente sperimentato dalla
cinematografia sovietica, da Sergej
Ejzenštejn ad Andrei Tarkovsky.
7. «Le immagini del pensiero […] si
aggregano in costellazioni, ma si
trasformano solo diventando figure […] La
figura potrebbe essere […] la redenzione
dei frammenti e delle immagini di un senso
individuale che, proprio nella trasmissibilità
della figura, si connette a un destino e a
una storia collettiva», F. Rella, Miti e figure
del moderno, Feltrinelli, Milano 1993, p. 11.
8. La strada da percorrere non è il recupero
indifferenziato del patrimonio edilizio
esistente, come disposto dai recenti
provvedimenti legislativi per il rilancio
del settore delle costruzioni. Occorre
distinguere ciò che va recuperato da ciò che
va eliminato o trasformato radicalmente.
Immagine
Enrico Formato, Objet trouvé o ready-made?,
Lago di Miseno, Campi Flegrei, Italia, 10
febbraio 2014, ore 8:34 am
96
I'M SO VAIN.
JUST, DON'T
WASTE ME
AWAY
Maria Clara Ghia
>UNIROMA1
In qualunque classificazione di Fourier, c’è sempre una parte riservata,
l’ottava parte di ogni collezione. Fourier la definisce ogni volta con nomi
diversi: passaggio, misto, transizione, neutro, banalità, ambiguo. Essa è
trascurata dagli studiosi come fosse un errore, ma è ciò di cui il tassonomista ha maggior bisogno. È il termine che consente di transitare da
una classe all’altra, l’eccesso che occorre per definire la classificazione. Il
tampone, l’ammortizzatore, ciò che fluidifica il tic-tac semantico, il rumore metronomico che segna l’alternanza paradigmatica: si/no si/no si/no.
Lo spiega bene Roland Barthes quando scrive che il campo del Desiderio
e il campo del Bisogno sono due reti le cui maglie non coincidono. Il loro
rapporto non è complementare, ma supplementare: «ognuno è il troppo
dell’altro. Il troppo: quello che non passa».1
Il troppo viene scartato. È ciò che avanza dal processo produttivo, dal processo di consumo. È ciò che non si assimila e viene rigettato fuori. Il trop-
97
po, non sappiamo dove metterlo. Cerchiamo di nasconderlo, distogliamo
lo sguardo. Lo gettiamo via, saranno altri a doversene occupare. Oppure
resterà come residuo in balìa degli eventi, da qualche parte sul nostro
pianeta. Enorme isola di scarti fluttuante nell’oceano.
Il troppo è inutile, svuotato di valore d’uso. You’re so vain, cantava Carly Simon in perfetto stile country, ironizzando sulla sua relazione con Warren
Beatty: «sei così vanitoso, avevo dei sogni che ti riguardavano ma si sono
dissolti come nuvole mentre prendo il caffè». Vain quindi, vuoto di valore
d’uso, mancante di profitto2, eppure pieno di (presunto?) valore estetico.
Sono le avanguardie per prime ad attribuire allo scarto qualità estetiche
non più legate alla catena del consumo. Tra il 1920 e il 1936, nella casa studio dell’artista dadaista Kurt Schwitters, cresce a dismisura una scultura
composta da materiali di scarto, fino a sfondarne il tetto. È il Merzbau, e
merz significa merce. Il sottotitolo dell’opera è: Cattedrale della miseria
erotica, per indicare quale fine faccia la merce nel momento in cui perde la sua capacità attrattiva. Si può andare avanti all’infinito, ricordando
i Combine paintings di Robert Rauschenberg, la Merda d’artista di Piero
Manzoni, i resti del pasto di Daniel Spoerri, le installazioni sonore di Jean
Tinguely, gli scarti di tappezzeria di Alberto Burri, la Venere degli stracci di
Michelangelo Pistoletto.3
Le avanguardie danno il via a un processo tuttora in atto, quello dell’estetizzazione di ciò che è rifiutato. Sacro Gra, il documentario che nel 2013 è
valso il Leone d’Oro a Gianfranco Rosi al Festival di Venezia, racconta vite
di scarto confinate al margine del Grande Raccordo Anulare di Roma.
Senza voler negare gli accenti poetici di una visione del reale che parte dal
punto di vista di ciò che resta al margine, di ciò che viene escluso, viene
da domandarci: non c’è un’alternativa alla mera contemplazione di ciò
che la società mette al confino? Non c’è un altro possibile atteggiamento
rispetto a quella sorta di attuale mania dell’apprezzamento incondizionato, verrebbe da aggiungere politicamente corretto, della marginalità così
come essa si mostra? Non c’è una risposta al conseguente dilagare di
(marginali) considerazioni estetiche?
Possiamo seguire le tracce di Walter Benjamin: «Non sottrarrò nulla di
prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ingegnosa. Stracci e
rifiuti, invece, ma non per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli».4
Da una parte il detto, il manifesto, il visibile, glorificato dalla storiografia
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borghese, dall’altra il non detto, il nascosto, il non visibile su cui lavora il
materialismo storico, i materiali dimenticati, abbandonati, destinati alla
distruzione. Ma il lavoro del materialista storico non si limita a un pedissequo inventario, quindi a una mera contemplazione. Il lavoro del materialista storico è un agire su questi materiali: usandoli. I più alti prodotti culturali e i più bassi detriti della vita possono essere trattati allo stesso modo,
possono essere, allo stesso modo, usati: la possibilità di reinserire anche
l’ultimo dei relitti nel campo dell’utile come estrema forma di riscatto.5
Immediatamente, nella visione di Benjamin, si condensa un passaggio,
un salto, uno scarto appunto: dalla dimensione estetica a quella etica,
dallo stato contemplativo all’azione, alla praxis. E, come si suol dire, c’è di
mezzo un mare: nell’esperienza estetica un soggetto si trova di fronte ad
un oggetto, in questo caso alla manifestazione estetizzata dello scarto, e
riconoscendone il valore qualitativo riconosce anche se stesso, quindi si
instaura il rapporto fra un sé che ha la prova di esistere e un oggetto della
cui esistenza il soggetto partecipa; nell’agire etico il rapporto che si istituisce non è soltanto fra un soggetto e un oggetto, ma fra un soggetto e tutti
coloro la cui esistenza verrà modificata dai possibili usi di quell’oggetto.
Modificazioni che incideranno quindi su molteplici vite, sull’ambiente circostante, sul possibile assetto del nostro domani.
In questa ricerca si parte dalla triade Reduce-Reuse-Recycle. Si prosegue,
secondo le teorie alla base della sostenibilità6, con la triade EconomyEquity-Environment. Allargando il quadro teorico, si aggiunge la triade di
riferimento per ogni discorso sull’etica, quella formulata da Edgar Morin
accostando i temini Individu-Société-Espèce: l’imperativo etico nasce da
una "fonte interiore" all’individuo, che sente nel suo spirito l’ingiunzione
di un dovere, proviene anche da una "fonte esteriore", ossia la cultura e
le norme di una comunità, deriva infine da una "fonte anteriore", risultato
dell’organizzazione vivente, che viene trasmessa geneticamente, dal passato al futuro.7
Il punto interessante del pensiero sull’etica è quindi l’apertura di una prospettiva temporale.
Giorgio Agamben, più volte ricordato per il suo interrogarsi sul concetto di
contemporaneità8, si esprime sul concetto di scarto non tanto in termini
spaziali, ossia di sfasamento fra una cosa e l’altra nello spazio, di differenza formale fra uno stato e l’altro, quanto in termini temporali: lo scarto
come anacronismo. È contemporaneo l’inattuale, colui che legge il suo
99
tempo attraverso una sfasatura e che proprio attraverso essa è in grado
di percepire in un colpo tutta la complessità del presente. C’è di più: colui
che veramente è contemporaneo coglie l’appuntamento in questione nel
presente in tutta la sua urgenza, e non può tirarsi indietro di fronte all’impellente necessità di una trasformazione. In questo assunto si respira tutta la risonanza di una missione etica.
Che cosa proviamo quando emerge dinnanzi a noi l’evidenza dell’inutilità
dello scarto, la sua vaghezza di senso, il suo essere vain? Prima di tutto,
un senso di disagio, consapevoli del fatto di essere noi, egocentrici protagonisti della società dei consumi, a generare avanzi, eccessi del processo di produzione. Poi, un senso di accettazione irresponsabile, perché
produrre scarti è un aspetto necessario del sistema economico attuale.
Questo stadio di accettazione ci porta a contemplare lo scarto nella sua
dimensione estetica (o estetizzata). Ma solo un ultimo passo ci spinge nel
campo dell’etica: il passo della scelta, della decisione verso una possibile
trasformazione. E in questo passo consiste uno sfasamento temporale,
un anacronismo, uno slancio verso il futuro: un progetto. Ora, Berger ci
insegna che in inglese le parole vain e waste derivano dalla medesima radice. Waste, dal latino vastus, vuol dire vuoto, deserto, improduttivo, devastato.9 Vuol dire anche vasto, ampio, smisurato, quindi: il troppo. To waste
significa scartare, quindi sprecare. Il cavallo scarta di lato quando cambia
direzione, dal latino exquartare, a sua volta da quartus, con riferimento al
quarto di giro di fianco caratteristico del movimento dell’animale.10 Ecarté,
in francese, è la rotazione della ballerina che partendo dalla posizione en
face compie la quarta parte di un giro. Ancora, écarter de la bonne voie,
far deviare dalla retta via, scostarsi dalla rotta prefissata. La differenza
rispetto alla traiettoria, lo slittamento per cambiare posizione, producono
energia. Il termine waste si riferisce allo spreco di questa energia.
Se l’analisi del concetto di scarto avviene dal punto di vista della dimensione estetica, appare con chiarezza la figura di una materia inutile, vain,
svuotata di senso e di forma: questa figura appare bella? Oppure si può
rendere bella di nuovo? E in che modo?
Se invece spostiamo l’analisi nel campo dell’etica, appare la figura di una
materia densa di energia, e immediatamente siamo portati a ragionare
sulla possibilità di non disperdere questa energia, sul modo di contenerla,
di trasformarla, di renderla utile a noi stessi, agli altri, al mondo. In una
frase, sulla necessità di non lasciare che lo scarto si trasformi in spreco.
100
Abbiamo scomodato Fourier per comprendere come lo scarto sia l’anello
fondamentale per passare in ogni classificazione da uno stadio all’altro.
Ora possiamo banalmente ricordare Capra per la sua ormai arcinota ricerca sull’autopoiesi, sulla rete della vita come sistema aperto, lontano
dall’equilibrio, caratterizzato da un flusso costante di energia e materia,
sulla definizione del vivente come organismo che assorbe energia e libera
prodotti di scarto e sui sistemi in grado di utilizzare l’uno gli scarti dell’altro come materia prima11: from cradle to cradle.
Nel campo del Re-cycle si parla spesso di End of life, di prodotti a "fine
vita". Ma trasformare lo scarto, non sprecare il suo potenziale, materico
ed energetico, vuol dire reinserirlo in un altro ciclo (formale), in un nuovo
processo (economico), vuol dire quindi garantirgli la possibilità di nuove
vite dopo la prima.
In questa trasformazione, etica ed estetica si passano il testimone. Questa trasformazione non è etica ed estetica, non è etica oppure estetica.
Istanza etica ed istanza estetica non si danno se non insieme, due facce
della stessa medaglia. Questa trasformazione trae origine da motivazioni
etiche, dalla decisione dell’urgenza di cambiamento, e approda a risultati
estetici, delineando per gli scarti nuove forme. Ma allo stesso tempo questa trasformazione nasce da una consapevolezza estetica, dalla percezione che "qualcosa manca"12 nella forma delle cose così come sono, e conduce a finalità etiche, garantendo nuove possibilità di uso a ciò che oggi è
scartato, uso che potrà contribuire a migliorare altre vite, a disegnare altri
luoghi, a creare altri mondi.
Il troppo, l’eccesso, lo scarto, può riacquistare il senso che gli manca (e
il corrispettivo valore economico), proprio nel divenire tassello di congiunzione fra istanza estetica ed istanza etica? Può ritrovare significato
nell’essere mostrato per ciò che è, pezzo mancante all’interno di un processo virtuoso? Può essere reinserito nella rete di relazioni attraverso cui
configuriamo il nostro presente e prefiguriamo il nostro domani?
Si tratta di saper coniugare ciò che si incontra oggi con ciò che si desidera
per il futuro, il dato di realtà e il suo rimando a un altrove avverabile.
Possiamo reggere la vista di ciò che si mostra attuale, cumuli di macerie,
spazi degradati, edifici in rovina, vite ai margini? Possiamo non nasconderli, non rimuoverli semplicemente? Possiamo non fermarci semplicemente a contemplarli in un anelito di romanticismo, viaggiatori su un mare
di nebbie, possiamo agire in quella nebbia, diradarla, usarla? Possiamo
101
mettere ciò che oggi è sprecato al centro del nostro impegno, valorizzare
ciò che è scartato come fosse il bene più prezioso, farne una diagnosi e
trovare una cura, tramandarne gli effetti alle generazioni future?
Il nostro compito e la nostra sfida, come uomini e solo secondariamente
come architetti, consiste nel tradurre in progetto il possibile che il presente ospita. Proprio nel non sapere come fare, nel non avere alcun modello
prefissato da imitare, nel muoversi in un territorio sconosciuto, nell’essere
persi in un waste desert da attraversare e trasformare, consiste l’imperativo etico. Perché decisione e responsabilità trovano il loro motivo autentico
non se ci si confronta con una possibilità prevedibile, ma se ci si misura
con un indicibile e con un incalcolabile.13
Note
1. R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola, Einaudi,
Milano 1981.
2. A. Berger, Drosscapes Wasting Land in
Urban America, Princeton Architectural
Press 2007.
3. C. Guida, Rovine, scarti, memorie. L’uso
nell’arte contemporanea, in D. Borrelli e P.
Di Cori, (a cura di), Rovine future. Resti e
rifiuti come depositi del possibile, Lampi di
Stampa, 2010.
4. W. Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino 1986.
5. A questo proposito denso di significati
è un paragrafo della Tesi di filosofia della
storia di Benjamin: «La tradizione degli
oppressi ci insegna che lo "stato di emergenza" in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che
corrisponda a questo fatto. Avremo allora di
fronte, come nostro compito, la creazione
del vero stato di emergenza […]. La sua
fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che
i suoi avversari combattono in nome del
102
progresso come di una legge storica. Lo
stupore perché le cose che viviamo sono
"ancora" possibili nel ventesimo secolo è
tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di
nessuna conoscenza, se non di quella che
l’idea di storia da cui proviene non sta più
in piedi».
6. Utile ricordare che la stessa definizione
di Sviluppo Sostenibile mette profonde
radici nel discorso di Hans Jonas sull’etica per la civiltà tecnologica. L’imperativo
categorico kantiano: «agisci in modo che
la tua massima diventi legge universale» si
trasforma nell’età della tecnica in: «agisci
in modo che le conseguenze della tua
azione siano compatibili con la permanenza
di un’autentica vita sulla terra». H. Jonas,
Il principio responsabilità, Einaudi, Torino
1990.
7. E. Morin, Il Metodo 6. Etica, Raffaello
Cortina, Milano 2005.
8. G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo,
Nottetempo, Roma 2008. Agamben deriva
le sue considerazioni dagli Appunti dei corsi
al College de France di Roland Barthes,
il quale cita a sua volta F. W. Nietzsche,
Considerazioni intempestive, Bompiani,
Milano 1944.
9. L. Castiglioni, S. Mariotti, Il Vocabolario
della lingua latina, Loescher, Torino 1987.
10. Dizionario delle Scienze Fisiche, Treccani, 2006.
11. F. Capra, La rete della vita, Rizzoli,
Milano 1997.
12. Si rimanda al concetto di Etwas felt e
alla filosofia del non-ancora in E. Bloch, Il
principio speranza, Garzanti, Milano 2005.
13. G. Vattimo, in G. Vattimo, M. Ferraris, Alleggerimento come responsabilità, Laterza,
Bari 1993.
103
QUE LO HERMOSO
SEA PODEROSO.
una conversazione virtuale
con ramon folch
Stefania Staniscia
>UNITN
È vero, principe, che lei una volta ha detto che la bellezza salverà il mondo?
«State a sentire, signori,» esclamò con voce stentorea, rivolgendosi a tutti,
«il principe sostiene che il mondo sarà salvato dalla bellezza».
F. M. Dostoevskij, L’Idiota
Il rapporto tra etica ed estetica è un tema di grande interesse in questo
momento. Recentemente la Libera Università di Bolzano e il Centro per
la Pace hanno organizzato, mutuando il titolo da Dostoevskij, la rassegna
Quale bellezza salverà il mondo? e su questo tema sono stati chiamati a
confrontarsi due grandi pensatori, il sociologo Zygmunt Bauman e la filosofa Ágnes Heller. La loro risposta, alla domanda esplicita posta da titolo,
è stata unanime: la bellezza, o la sua assenza, sono in grado di portare ad
un progresso morale.
Per la Heller, che mutua il concetto da Adorno, la bellezza consiste nella
104
promessa di felicità e se non può salvare l’uomo dalla sofferenza o dalla
morte può sicuramente «salvare dalla disperazione nell’esperienza del
momento, nel vivere l’istante del bello». Bauman sostiene, invece, che bisogna trovarsi «di fronte alle forme della bruttezza, dell’assenza di piacere, per innescare un’irrequietezza che porti alla reazione che possa, quella sì, portarci alla salvezza del mondo». È evidente, nelle due posizioni,
l’idea che il valore della bellezza, o del suo contrario, risieda nella valenza
etica della stessa e non puramente estetica o meglio nella valenza etica
dell’estetica.
Nel dicembre del 1990 Ramon Folch1 pubblica Que lo hermoso sea poderoso. Sobre ecología, educación y desarrollo2, un libro il cui contenuto si rivela
estremamente significativo per alcune riflessioni che possono essere condotte sul binomio etico/estetico – nell’ambito più generale del tema del
riciclo – e che, nell’interpretazione del libro, non costituisce una coppia
oppositiva bensì una necessaria combinazione.
A distanza di ventiquattro anni dalla pubblicazione le argomentazioni che
danno il titolo al libro risultano ancora molto attuali, potremmo anzi dire
che il testo anticipa di molto alcune questioni emergenti sulle quali oggi,
anche attraverso il paradigma del riciclo, è necessario riflettere.
La rilettura del testo diventa motivo di riflessione su quanto nel frattempo
è accaduto, la conversazione virtuale con l’autore costituisce il tentativo di
un aggiornamento della sua riflessione orientando lo sguardo al tema del
riciclo e alla possibilità che questo rappresenti il punto di coincidenza tra i
due imperativi. Si propongono, quindi, tre citazioni tratte dal testo reinterpretate in chiave re-cycle.
1. Nel libro si sostiene che: «[e]l conflicto ecológico existe. Es una cuestión
ética, estética y funcional. Lo que se reconoce hoy en día es, precisamente, su dimensión funcional, y ante ella todo el mundo se va viendo forzado
a reconsiderar sus posiciones morales».
È possibile affermare che il riciclo – applicato in modo estensivo anche
alla città, al paesaggio e all’architettura – come pratica diventata necessaria alla luce della crisi ambientale ed economica possa effettivamente
rappresentare un dispositivo operativo che risponde ad una nuova "posizione morale".
2. Il progresso, si legge, si basa sullo sfruttamento razionale delle risorse
ecologiche: «[d]e unos recursos ecológicos que van mucho mas allá de
las meras materias primas, puesto que incluyen el clima, el aire, el agua,
105
el suelo, las redes tróficas, la diversidad genética e incluso la belleza: ser
ricos en un mundo feo sería tristísimo.»
Con questa affermazione si pone l’attenzione proprio sulla inquietante
consapevole rinuncia alla bellezza in nome di un approccio etico che non
ha saputo elaborare un proprio linguaggio espressivo ma solo nuove tecniche e tecnologie. Il riciclo potrebbe, invece, costituire un nuovo linguaggio che sia in grado di coniugare istanze etiche ed estetiche.
3. La contrapposizione tra il motto ecologista "piccolo è bello" e quello sviluppista "grande è potente" si risolve: «en imaginar plausibles caminos de
equilibrio para la feliz sensatez del mañana [...] Si ‘the small is beautiful’
pero "the big is powerful", procuremos que, en una desarrollada sociedad
postindustrial, "the beautiful" resulte "powerful": que lo hermoso sea poderoso. Y posible.»
Questo enunciato suggerisce l’idea di una profonda interdipendenza tra
etica ed estetica. Un ecosistema è un’unità funzionale in equilibrio dinamico che deve le proprie qualità, incluso quelle estetiche, al mantenimento della sua funzionalità. L’estetica deriva, quindi, dalla "razionalità" del
sistema e dalla sua efficienza, si potrebbe dire dalla sua eticità. Il riciclo,
in quanto dispositivo progettuale che rimette in circolo risorse esauste,
arrivate alla fine del proprio ciclo di vita dando loro nuovo senso e in quanto prodotto culturale, può possedere uno specifico valore estetico che deriva dalle sue potenzialità performative ambientali e sociali.
Infine, Folch sostiene che «il riciclo anatomico è nulla se non parte dal
riciclo fisiologico (riciclare la forma dopo la funzione).» Se, comunque, il
riciclo anatomico e fisiologico sono sufficienti a garantire eticità e valore
estetico a un ecosistema è possibile dire lo stesso per l’architettura, la
città e il paesaggio?
106
Note
1. Ramon Folch (1946) è dottore di ricerca
in biologia e socioecologo. È membro del
Club di Roma. È stato presidente del Consell Social de la Universitat Politècnica de
Catalunya, segretario generale del Consejo
Asesor Internacional del Foro Latinoamericano de Ciencias Ambientals, professore
della Cattedra UNESCO/FLACAM per lo
Sviluppo Sostenibile. Campo di attività e di
ricerca sono la gestione del territorio, la
pianificazione urbana ed energetica attraverso un approccio sostenibile, approccio
che ha contribuito a definire e sviluppare
sia nella teoria che nella prassi. Ricopre un
importante ruolo divulgativo, è editorialista
e autore di programmi radiotelevisivi oltre
che di numerose pubblicazioni.
2. R. Folch, Que lo hermoso sea poderoso,
Editorial Alta Fulla, Barcellona 1990.
107
IL PROGETTO DI RICICLO POTRà
INCIDERE SUL NOSTRO SPAZIO
DI VITA SE SAPRà COSTRUIRE I
TERMINI SEMPLICI DI UN NUOVO
CODICE URBANO E PAESISTICO
1
Federico Zanfi
>POLIMI
Come premessa all’esposizione della tesi vera e propria, vorremmo proporre un’interpretazione dei due aggettivi che danno il nome alla sessione
non come termini alternativi o opposti, ma come termini tra cui esiste una
sorta di nesso consequenziale.
In quanto al primo termine, si può dire che oggi dal punto di vista di un urbanista sia quasi naturale assegnare all’azione di riciclo un significato etico. In primo luogo perché in territori con tassi di urbanizzazione del suolo
molto elevati, come quelli con cui sempre più spesso ci confrontiamo, un
progetto di riciclo dell’urbanizzato risponde al bisogno di salvaguardare il
suolo libero – che è un caso particolare della più generale questione della
finitezza delle risorse naturali posta già dagli anni Settanta dal Club di
Roma – e quindi si fa in un certo senso carico dei diritti delle generazioni
future di disporre di tale bene comune.2 In secondo luogo perché in una
condizione di risorse scarse, come quella attraversata dal nostro paese
108
1.
– che a detta di molti non è da intendere come una congiuntura transitoria quanto piuttosto come una nuova condizione strutturale – un progetto
di riciclo alla scala edilizia risponde al bisogno tanto delle amministrazioni pubbliche quanto dei proprietari privati di non disperdere il valore
– economico, energetico, ma anche culturale – incorporato nel proprio
patrimonio costruito. Che si tratti di infrastrutture scolastiche, di edilizia
residenziale pubblica, o di alloggi risalenti al boom edilizio postbellico, la
questione centrale è valorizzare ciò che già si ha, minimizzando lo spreco.3
La posizione che qui sosteniamo è che a un risvolto etico che si esprime
lungo le due prospettive richiamate – una prima che in termini generali
interessa il suolo, e una seconda che interessa i manufatti depositatisi al
suolo – non potrà non corrispondere un impatto sulla forma delle città e
109
dei paesaggi. E che tale impatto estetico non si misurerà attraverso la realizzazione di poche – o molte che saranno – opere d’autore, ma riuscirà a
essere significativo se – e solo se – saremo in grado di costruire i termini
semplici di un codice urbano e paesistico coerente col progetto di riciclo.
Un codice che sia in grado di farsi linguaggio diffuso delle trasformazioni.
Consideriamo un aspetto della storia recente del nostro paese. Non possiamo più credere che la realizzazione – o la messa in evidenza attraverso
i media, che siano di settore o generalisti – di qualche progetto d’autore
ben fatto sia sufficiente per dar seguito a un fare imitativo diffuso. Valgano
da esempio gli ultimi vent’anni di esposizione di buoni progetti internazionali di infrastruttura e di paesaggio sulle riviste italiane. Un’esposizione
intensa – un "diluvio", su cui ha insistito bene Angelo Sampieri4 – a conti
110
2.
fatti inefficace, che ci segnala che per fare sì che buoni progetti di infrastruttura e di paesaggio si diffondano nel nostro paese è necessario
intervenire anche ad un altro livello, sulle regole che non prevedono tali
operazioni, e sui processi che le impediscono.5
Il punto è allora, a nostro avviso, capire come rendere ordinarie alcune
semplici pratiche del riciclo nelle trasformazioni delle città e dei territori
italiani. E, come conseguenza, capire quali siano i meccanismi fiscali che
le possono rendere possibili, quali procedure amministrative queste richiedano, come debba cambiare il linguaggio dei Regolamenti urbanistici
ed edilizi – che saranno indubbiamente il fonte principale della trasformazione urbana dei prossimi decenni – e come tutto ciò comporti momenti di
riflessione e di lavoro congiunto con differenti saperi (in primis un sapere
di tipo giuridico ed economico).
Per chiarire questa posizione vi proponiamo tre esempi di queste operazioni, tra i molti che sarebbero possibili, richiamando tre progetti a cui vi
chiederei di guardare come tre occasioni di sperimentazione dei termini
111
comuni di un possibile nuovo linguaggio, piuttosto che come soluzioni autoriali specifiche. Qual è il codice spaziale condiviso che potrebbe nascere
dal sistematico riuso in situ di una quota degli inerti demoliti nel caso
di ricostruzione edilizia, per limitare la produzione di rifiuti da discarica?
(immagine 1) Quale forma urbana potrebbe invece derivare dalla modifica
generalizzata dei balconi e delle logge dei condomini costruiti nel boom
edilizio del secondo dopoguerra, per massimizzarne la difesa dal surriscaldamento estivo e la raccolta invernale dell’energia solare? (immagine 2) Quale paesaggio potrebbe risultare dalla diffusione di una rete di
mobilità dolce, che si costruisce col riuso e la riforma di strade bianche,
di alzaie, di ferrovie dismesse, e soltanto eccezionalmente attraverso la
costruzione di nuove piste ciclabili? (immagine 3)
Perché si costruisca questo linguaggio, e perché questo sappia farsi codice condiviso e diffuso, dobbiamo sviluppare all’interno della nostra ricerca
due linee di lavoro, da tenere molto vicine.
In primo luogo occorre sviluppare una linea che potremmo chiamare "di
3.
112
visione". Dobbiamo produrre dei disegni re-immaginativi di grandi porzioni di città e di territori urbanizzati esplorando la loro possibilità di trasformarsi nel medio e lungo termine attraverso azioni molecolari e diffuse
di riciclo – i "termini" semplici del codice. Questi disegni dovranno consentire di verificare la coerenza delle operazioni minute alla scala della
singola architettura o infrastruttura – il recupero di un edificio rurale, la
reinvenzione di un piazzale a parcheggio, un intervento di demolizione e ricostruzione edilizia –, ma soprattutto di tenere sotto controllo l’esito a una
scala vasta della moltiplicazione e della diffusione di queste operazioni.6
In secondo luogo occorre sviluppare una linea che potremmo chiamare
"d’azione". Dobbiamo intrecciare la produzione di questi disegni con un
lavoro di terreno, un confronto con le situazioni insediative, le coalizioni di
interessi, le routine professionali e amministrative, per capire quali sono
le "prese" reali possibili su cui avviare le prime "mosse".
Quali sono i suoli e gli oggetti edilizi su cui è possibile condurre le prime
operazioni. Rimanendo consapevoli che dal disegno re-immaginativo non
nascono – di norma – interventi puntuali secondo una logica piramidale
(che è invece propria del progetto di architettura), ma può attivarsi un dialogo – anche aspro – con le eventuali altre azioni in corso, al fine di operare una loro ridefinizione – la revisione di un tracciato stradale, lo stralcio
di una previsione di espansione su un suolo agricolo, il vincolo al riuso di
un edificio esistente.7
È solo dall’interazione tra queste due linee – dal confronto ricorsivo tra
una visione di lungo periodo che faccia proprie le due questioni etiche richiamate in apertura, e un’azione puntuale che individui lo stretto punto di
passaggio imposto dalle condizioni economiche, giuridiche e amministrative – che a nostro avviso potranno maturare i termini semplici di un nuovo
codice urbano e paesistico coerente con l’idea del recycle. Un progetto
diffuso, che sappia stare nei processi, che sappia stare nel mercato, e che
non abbia necessariamente bisogno di "autori" per realizzarsi.
113
Note
1. Le note seguenti sviluppano alcuni
aspetti di una più ampia riflessione
collettiva sul progetto di riciclo
dell’urbanizzato in Italia svolta con A.
Lanzani, C. Merlini e C. Mattioli. Si rimanda
al contributo di A. Lanzani e agli altri due
"manifesti" contenuti nel presente volume
e in quello successivo.
2. Una riflessione più recente che aggiorna
queste posizioni è in P. Pileri e E. Granata,
Amor loci. Suolo, ambiente, cultura civile,
Cortina, Milano 2012.
iniziare a realizzarsi approfittando di
alcune occasioni oggi già disponibili. In
questo senso si vedano le considerazione
sul progetto paesaggistico di Giuseppe
Dematteis in Contraddizioni dell’agire
paesaggistico, in G. Ambrosini et al.,
Disegnare i paesaggi costruiti, Franco
Angeli, Milano, 2003, e Una geografia
mentale come il paesaggio, in A. De Rossi et
al., Linee nel paesaggio, Utet, Torino 1999.
Immagini
3. M. Petzet e F. Heilmeyer (ed.), Reduce/
Reuse/Recycle, Hatje Cantz, Ostfildern 2012.
1. Observatorium, barriera antirumore tra il
quartiere residenziale di Nieuw-Terbregge
e l’autostrada A 20, Rotterdam 2001 (©
Observatorium)
4. A. Sampieri, Nel paesaggio. Il progetto
per la città negli ultimi vent’anni, Donzelli,
Roma 2008.
2. F. Zanfi, Trasformazione della torre
residenziale Bois le Prêtre, Druot, Lacaton &
Vassal, Parigi 2011
5. Come ha sostenuto Carlo Magnagni nei
saggi Per una ricerca di progettazione e La
costruzione dell’infrastruttura: tra progetto
e processo (con M. Morsut e T. Pelzel) in
B. Secchi (a cura di), On Mobility, Marsilio,
Venezia 2010.
3. A. Giacomel, Gruppo di lavoro Dastu/
Politecnico di Milano, VenTo, progetto per
una ciclovia da Torino a Venezia, argine del
Po' nei pressi di Guastalla 2011-2014
6. Come abbiamo tentato di fare in
una recente esperienza di ricerca e di
progettazione nel territorio pedemontano
lombardo, in cui abbiamo affiancato
una visione di riforma radicale di questo
territorio nel lungo termine, con una
dimensione di azione più pragmatica
e legata alla diffusione di operazioni
minute. Si veda A. Lanzani et al., Quando
l’autostrada non basta. Infrastrutture,
paesaggio e urbanistica nel territorio
pedemontano lombardo, Quodlibet,
Macerata 2013.
7. "Prese" e "mosse" sono i termini che
utilizziamo per descrivere come i progetti
di riforma a lungo termine proposti per il
territorio pedemontano lombardo possono
114
IL PROCESSO
COME
ESTETICA
DEL RiCICLO
115
Guya Bertelli, Juan Carlos Dall'Asta, Paola Bracchi,
Giuliana Bonifati
>POLIMI
116
Nell’accezione socialmente diffusa – se riferita a comportamenti individuali o collettivi – il riciclo è una pratica a cui viene conferito un valore
etico. Se riferita al progetto la coppia etico/estetico mette in atto una relazione che lavora più sul registro della co-fusione piuttosto che della opposizione. Le pratiche artistiche, dagli anni Sessanta del '900 in poi, hanno
sperimentato questa congiunzione facendo dell’atto artistico la testimonianza di una presa di posizione nei confronti della realtà e giungendo a
forme di partecipata azione del pubblico. Il prodotto estetico non è rintracciabile nel risultato finale ma impregna l’intero processo di realizzazione
dell’opera, arrivando ad essere collettiva.
Il progetto del riciclo inteso quale ricerca di nuovi cicli di vita per spazi e
paesaggi, modifica le condizioni, gli equilibri di una certa situazione, si
pone all’incrocio tra un sapere – la cultura del progetto – e le relazioni
materiali e sociali che lo caratterizzano. La sfera estetica si rivela solo se
spostiamo l’attenzione dall’oggetto finito al processo e al meccanismo di
IL PAESAGGIO
IMPERFETTO
Sanjeev Shankar, Jugaad, New
Delhi, 2008*
*Jugaad è un termine hindi che
identifica la pratica indiana di
realizzare oggetti utilizzando
materiali di scarto. In questo
caso è stata la base per
realizzare una copertura di 70
metri quadri utilizzando 692 latte
di olio e 945 coperchi recuperati
tra i rifiuti. Con corde di cocco
sono stati legati tra di loro e
sospesi con cavi di acciaio fissati
al terreno. Un’occasione per
esplorare le idee di sostenibilità.
Immagini tratte da http://www.
sanjeevshankar.com/jugaad.html
socialità che ne scaturisce, includendo in questa nuova dimensione alcune delle prerogative che tradizionalmente riguardano l’etica.
Il progetto del riciclo invoca un coinvolgimento attivo, perché la trasformazione lavora sull’inadempiuto e sull’imperfetto, chiama in causa il soggetto, le comunità.
Per riattivare luoghi, spazi, territori abbiamo bisogno di incidere la realtà
con una immagine sensibile, abbiamo bisogno di costruire uno sguardo
che tenga insieme utile e bello, abbiamo bisogno di bellezza.
Cosa si può fare con il paesaggio? Il valore del progetto di paesaggio non
è in sé ma risiede in ciò che è capace di attivare. Si può riconoscere un
senso di necessità del progetto di paesaggio, perché è in gioco l’efficacia
(forse espressione di una unità superiore tra etico ed estetico?). Come
può il progetto di paesaggio contribuire alla qualità delle esperienze degli
individui e delle comunità? È uno degli interrogativi che la dialettica etico/
estetico stimola ma anche che anima il nostro lavoro in questo tempo.
Gianni Celestini
>UNIRC
117
118
1. [doppio senso di circolazione] – soprelevata – GE
Monumento della città Moderna. Spietata sezione del paesaggio urbano.
Oggi, occasione di esperienza della città delle stratificazioni: storiche, geografiche,
architettoniche. Metarchitettura per la ricerca dei significati della città.
2. [oltre il margine] – aree zama-pestagalli-bonfadini – MI
La materia del progetto è la necessità: la crisi è la sua risorsa.
Emergenza da fenomeno distruttivo a esito costruttivo: è il ruolo del pensiero architettonico. Il progetto nasce nel «mucchio di rifiuti gettati a caso»: ogni progetto
è riciclo.
3. [simbolo abitabile] – velodromo vigorelli – MI
Architettura della cittadinanza: riconnessione tra carattere dello spazio e carattere
dell’individuo, tra forma dei luoghi e progetto degli abitanti.
La crisi dello spazio pubblico non sta nel pubblico ma nello spazio! Uso pubblico
significa: coscienza del passato – immaginazione del futuro – sperimentazione del
presente.
Immagine
Collage: elaborazione grafica Alisia Tognon, Mauro Marinelli.
Il collage è il risultato della composizione delle seguenti immagini:
– Andrea Di Franco, Sopraelevata di Genova, 2013.
– La prassi manutentiva storica, realizzata sotto la direzione del direttore del velodromo Argeo
Carapezzi nel gennaio del 1939, fonte: Archivio Farabola, Crema.
– Barbara Coppetti, Area Zama Pestagalli Bonfadini, 2012
IL PROGETTO DELL'EMERGENZA
ETICA = ESTETICA CONDIVISA:
"LA BELLEZZA SALVERà IL MONDO"
119
Bibliografia
M. Augé, Il bello della bicicletta, Bollati Boringhieri,
Torino 2009; M. Boriani,
Sviluppo urbano, cultura architettonica e trasformazioni
del costruito, 1861-1918, in M.
Boriani, C. Morandi, A. Rossari, Milano Contemporanea,
Designer Riuniti, Roma
1986; F. Dostoevskij, L’idiota, 1896, Feltrinelli, Roma
2002; N. Emery, L’architettura difficile. Filosofia del
costruire, Marinotti, Milano
2008; N. Emery, Distruzione e progetto. L’architettura
promessa, Marinotti, Milano
2011; F. Farinelli, Estetizzazione e anestetizzazione,
in C. Andriani, a cura di, Il
Patrimonio e l’abitare, Donzelli, Roma 2010; M. Fossati,
Il Vigorelli, lo Stradivari della
Pista, in G. Vergani, a cura
di, L’uomo a due ruote, Electa, Milano 1987; B. Gabrielli
2000, Difficoltà politiche e
difficoltà tecniche. I tempi
della riqualificazione urbana dei tempi dell’amministrazione, in «Archivio di Studi Urbani e Regionali», n. 70; U. Galimberti, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Roma 2009; F. Gastaldi 2000,
Genova: verso il completamento del waterfront redevelopment, in «Urbanistica Informazioni»,
n. 174; M. Grandi, A. Pracchi, Milano, Guida all’architettura Moderna, Zanichelli, Bologna 1980;
I. Illich, Energie, Vitesse et justice sociale, trad. it. Elogio della bicicletta, Bollati Boringhieri,
Torino 2006; E. Turri, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato,
Marsilio, Venezia 1998; P. Zumthor, Pensare architettura, Mondadori Electa, Milano 2003.
Barbara Coppetti, Andrea Di Franco, Mauro Marinelli,
Alisia Tognon
>POLIMI
120
Disegni di Carlo Deregibus, 2014
RE-CYCLE [È] può essere
etico/estetico.
DERIVE E POTENZIALITà
di un paradigma
ancora da scrivere
121
Che il Re-Cycle sia
cosa buona e giusta,
parrebbe scontato.
Eppure, andando al
di là del politically
correct, emerge una
debolezza latente, una
deriva concettuale che
si nutre dell’illusione
di un’etica dei principi
tanto consolatoria
quanto inattuale. Evitare
che il concetto stesso
di Re-Cycle perda la
sua – potenzialmente
dirompente – forza
concettuale significa
farsi carico, sempre
e di nuovo, della
responsabilità di
verificare la sua
consistenza, la sua
forza, la sua fallacia.
Carlo Deregibus
>POLITO
122
re-cycle.
visione e
pensiero
123
Giovanni Hänninen
>POLIMI
124
Venera Leto, Collage Il paesaggio dei rifiuti dello stretto, 2014
DISCARICA
PAESAGGIo
125
"Bello è brutto
e brutto è bello"
Il titolo Discarica Paesaggio allude provocatoriamente allo svuotamento
semantico della parola. Il paesaggio è come un enorme contenitore in
cui, di volta in volta, gettiamo significati nuovi. Si tenta costantemente di
darne una definizione; il paesaggio diviene un serbatoio caotico di simboli, un colorato e variopinto magma culturale cui solo il progetto può
dare forma. La discarica è un luogo che ciascun cittadino quotidianamente contribuisce a creare: diviene un esempio rappresentativo, per rendere evidente l’importanza della relazione tra individuo e paesaggio. Così
come, attraverso l’azione di ognuno, si possono creare enormi paesaggi
insalubri come le discariche parimenti, grazie al supporto di ciascuno,
si possono creare paesaggi di qualità. Il rifiuto può considerarsi materia
o spazio rifiutato e l’Architettura del paesaggio è il trait d’union tra i due
ambiti poiché consente di utilizzare il rifiuto come materia e riqualificare
uno spazio rifiutato. L’intervento progettuale consente indubbiamente una
mediazione estetica che non deve avvenire per forza dal Brutto al Bello ma
che consente di superare questo dualismo, di vivere il rifiuto e conferire
nuovi significanti a questi luoghi. Un luogo che tutti rifiutano può essere
trasformato, attraverso il progetto, e assumere anche una valenza estetica ed etica divenendo un espediente educativo per modificare l’atteggiamento percettivo e comportamentale verso il ciclo dei rifiuti e verso i
luoghi rifiutati stessi.
Venera Leto
>UNIRC
126
COSA SONO: la strategia per la rete del verde locale fornisce indirizzi
all’amministrazione locale per l’organizzazione, l’uso e la progettazione
degli spazi liberi disponibili nella città in un sistema coerente orientandone l’utilizzazione ai fini ambientali, ricreativi di servizio e di mobilità lenta e ponendoli come componente determinante dello spazio pubblico. La
strategia fornisce anche le direttive per la formazione e revisione del piano
urbanistico e dei progetti urbani.
La strategia nell’organizzazione del progetto del verde locale ne assicura
la continuità spaziale con il verde urbano metropolitano. Essa in particolare indirizza e dà comune finalizzazione agli interventi necessari per la
realizzazione della rete verde locale, stabilendo le priorità di investimento
attraverso un piano di azione secondo le esigenze della comunità.
Il processo di costruzione della strategia coinvolge attivamente, sia per
la preparazione che per l’attuazione, soggetti interessati della comunità
locale e diviene occasione di collaborazione e coordinamento dei dipartimenti delle amministrazioni che si occupano settorialmente di urbanistica, di ambiente, di trasporti e di residenza.
Nella strategia sono affrontate in modo integrato molteplici e diverse questioni relative ai rapporti con la città nella sua unità e questioni legate
alla domanda ed al benessere dei residenti relativa al miglioramento della
qualità insediativa dei quartieri. In particolare essa persegue la continuità
RECYCLE (UPCYCLE) URBANO
È... E PERCHÉ. STRATEGIA PER
LA RETE DEL VERDE LOCALE
A FAVORE DI UN RITORNO
DELL’ETICA DISCIPLINARE NEL
PROGETTO DELLA CITTÀ
127
degli spazi pubblici ed il disegno degli spazi verdi di uso pubblico e del
verde di prossimità alla residenza, la scelta delle destinazioni d’uso compatibili, i servizi per la comunità, le attrezzature per il gioco, per lo sport
e ricreative, la sicurezza e l’accessibilità pedonale. Per motivare le scelte,
la parte analitica e valutativa dei problemi in atto è fortemente intrecciata
con la parte propositiva.
La strategia nasce da un’attenta analisi della domanda dei residenti per
temi e propone soluzioni progettuali e politiche quanto più possibile rispondenti a questa domanda tenendo conto dei caratteri socioeconomici
ed insediativi del contesto locale. L’autonomia decisionale assicurata alle
amministrazioni locali dà luogo a strategie differenziate con attenzioni tematiche e soluzioni di grande interesse.
Il coinvolgimento delle comunità locali per creare una visione condivisa
rimuove i possibili ostacoli alla fase attuativa e il carattere complessivo
e multi tematico della strategia determina un valore economico aggiunto
alle operazioni attuative e consente di attrarre maggiormente risorse private e fondi pubblici per gli interventi.
PERCHÉ LA STRATEGIA COSÌ INTESA PROMUOVE UN RITORNO DELL’ETICA:
- permette di definire scelte progettuali deontologicamente giuste e lecite
rispetto a comportamenti disciplinari ritenuti non appropriati;
- mette in crisi, costringe al cambiamento del pensare e del fare l’urbanistica impone una ricerca di criteri più razionali, condivisi, argomentati e
valutabili;
- costituisce una cornice di riferimento, dei confini, entro i quali la libertà
progettuale si deve esercitare per ricercare le sue alternative possibili;
- impone un ritorno al senso più profondo dell’agire progettuale capace di
tenere insieme, finalizzare e rendere operative le diverse componenti del
progetto.
Lucia Nucci
>UNICAM [UNIROMA3]
128
Coperta lavorata ai ferri, utilizzando lana recuperata da golf di cachemire acquistati ai mercatini dell’usato. La bordura è fatta smontando gonne tirolesi di medesima origine. Realizzata da Laboratorio artigiano romano
L’opera costretta da vincoli se ne libera
attraverso il gesto creativo che produce bellezza.
Z. Carloni
LA BELLEZZA
DEL GIUSTO
129
La preminenza di un gusto definisce una monocrazia, imponendo un'unica
percezione estetica e strutturando una sorta di "manierismo" di fatto.
Ma la maniera, che si basa su di un giudizio uniformato, non possiede le
caratteristiche per definire il bello; può comprenderlo ma non esaurirlo, in
quanto il bello, per sua natura, si sottrae all’uniformità. Il bello quindi non
può essere affidato ad una maniera né come giudizio né come prodotto.
I materiali, le tecniche, il metodo progettuale uniformati producono edifici
di maniera. Per ottenere edifici belli è necessario modificare i criteri che
ne guidano l’attuale produzione.
Il recupero, il riuso, il riciclo di oggetti e materiali riduce gli sprechi e i
consumi di energia e di risorse, costringe ad una maggiore attenzione nei
confronti dei manufatti. È un atto lento, riflessivo, etico.
Il giudizio estetico è dinamico, cambia nel tempo, tende a modificarsi in
quanto giudizio profondamente culturale, e dunque soggetto agli slittamenti della percezione del gusto. La variabile etica stabilizza il giudizio
estetico e gli impedisce di divenire anch’esso oggetto di inesplicabile consumo. Un oggetto prodotto da un materiale scartato è più bello in quanto
in esso vi è una maggiore qualità degli elementi che determinano l’atto
creativo e una più elevata espressione della capacità tecnica. È un atto che
si misura con il limite, condizione questa inalienabile dell’attività creativa.
In tale maniera il processo creativo e progettuale non è più volto alla realizzazione di un idea autoreferenziata.
I manufatti potranno esser più approssimativi, meno perfetti, più disordinati, meno precisi ma fuori dall’uniformità e dalla maniera si potrà ottenere una nuova bellezza, quella del giusto.
Adriano Paolella
>UNIRC
130
Luca Zecchin, Interno a strati n.10, 2013
Nel tempo tutto è destinato a ri-ciclarsi [trasformarsi], le cose di Natura, gli artefatti, le idee, il sentire cambia come gli appetiti del momento. L’etica e l’estetica. Abitiamo un interno stratificato, fabbricato saturo
di marche [nell’antichità spazio tra territori] dove emerge con forza tutto
ciò che si è fatto sfondo, scartato o contrastato, anche in architettura:
il MARGIN[AL]E, spazio della trasformazione e strumento di progetto a
disposizione dell’architetto. Il brutto e il guasto, l’impuro e il parziale, il
cattivo e l’impresentabile, il tempo e la morte, la riapertura dell’opera e il
non finito come possibilità di un altro compimento, persino la vita [intesa
come abitare dell’uomo] che trasforma l’architettura oltre l’architetto, non
sono disvalori a priori ma resistenza progettuale, potenziale virtù estetica
[che è] etica di modi di essere o diventare altrimenti, di nuovi compimenti.
riciclo [COMPIMENTO] ESTETICO
[EST]ETICO DEL MARGIN[AL]E
131
Riciclare significa avviare un nuovo ciclo di vita da una condizione esistente, significa trasformare. In architettura riciclare implica l’accettazione che un materiale, un manufatto, un pezzo di città o di territorio, abbia
raggiunto la fine di un ciclo e ne debba/possa iniziare un altro, implica
cioè una scelta: progetto. Si vuole intendere, infatti, un nuovo ciclo entro
l’architettura – far continuare a essere qualcosa, o trasformare qualcosa
in, architettura – cioè la possibilità di riaprire un’opera per portarla a un
nuovo compimento o di portare a un compimento architettonico ciò che
non lo è mai [ancora] stato. In entrambi i casi é il MARGIN[AL]E lo spazio e
strumento di progetto, essendo fisicamente e concettualmente quello più
prossimo alla trasformazione e disponibile a integrarsi ai problemi progettuali. La seconda natura che abitiamo è un interno, privo di esterno se non
in ormai sempre più ristretti ritagli di Natura. Possiamo rivoltarci solo dentro (Derrida) tutto ciò che finora è rimasto, spesso accettato, come sfondo.
Oggi che la crisi impone l’aggiornamento delle questioni etiche non solo
nelle sue declinazioni ecologiche [il sentire uomo-ambiente] ma in quelle
economiche, sociali, culturali, ecc., anche la ragione estetica diventa una
questione etica. Perché se è vero che tutto si ricicla e si è riciclato nel
tempo, compresi la mutevolezza del sentire architettonico etico ed estetico, è altrettanto riconosciuta la necessità di dover lavorare [progettare]
da una selezione senza discrimine di ciò di cui spesso l’architettura non
si è occupata, la ruina del margine [non la grande rovina ma la perdita nel
senso latino del termine] piuttosto che il centro. Pensare il poetico nell’impoetico (Heiddegher) richiede cura: del progetto [che fa spazio e facendo
spazio rende possibile la vita, l’abitare, il sentire]; della costruzione [arte
che con-tiene]; della composizione [assemblaggio nel tempo, mescolanza
e combinazione di diversi, parti esistenti e nuove]. Il tempo addensato in
spazio può essere inventato trasformando il margine, muovendo da una
spazializzazione dello spazio o dal solo risultato di una tecnica, a una spazializzazione del tempo e della vita. I modi di questa architettura operativa
– metafisicamente più vicina alla natura finita dell’uomo, alla sua ruina
imperfetta, meno astratta, non assoluta – sono il vero corpus teorico da
indagare per via empirica e induttiva a partire dalle configurazioni date,
spesso non conosciute, del MARGIN[AL]E.
Luca Zecchin
>UNITN
132
ECONO
/
ECOL
OMICO
LOGICO
133
134
135
Total Recycle Design/
Total Recycle Process
Consuelo Nava
>UNIRC
0_ Le tre traiettorie corollari della tesi
Nell’affrontare i termini dell’op_posizione ecologico/economico per tale
contributo teorico alla ricerca Recycle Italy, si propone di individuare due
parole "cifra" capaci di fare da calibro, misurando e pesando simultaneamente vicinanze e lontananze nelle questioni che i termini stessi aprono
nelle definite "traiettorie" in grado di trasferire gli assunti per una nuova
prassiologia del progetto urbano ed architettonico.
Si tratta delle parole "valore" e "tempo", della loro qualità paradigmatica
di includersi nei significati e nelle derive, quindi di riferirsi a questioni di
progetto e di processo, con interesse più diretto in ambito di riciclo urbano
ed architettonico, ma anche con riferimento ai componenti ed alle unità
funzionali di un dato sistema contestualizzato. Si tratta di assumere posizioni specifiche per il contesto culturale di riferimento che si colloca tra il
total recycle design ed il total recycle process.
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Nel senso etimologico della parola, il termine "valore" «si riferisce alla
misura "non comune" di una dote o di una capacità, di un’abilità […]. Il
suo sinonimo economico, si riferisce al termine prezzo, quotazione o pregio […], ma anche alla sua locuzione come"valore aggiunto", quale incremento dovuto alla trasformazione […]».1 Il "valore ecologico" è l’insieme
delle caratteristiche che determina il pregio naturale di un determinato
biotopo, esso determina la priorità di conservazione del biotopo stesso.
Si considerano di alto valore quei biotopi che contengono al loro interno
specie […] di notevole interesse o che sono ritenute particolarmente rare;
il v. ecologico si calcola a partire da un set di indicatori che considerano:
aspetti istituzionali […], biodiversità […], aspetti strutturali […]2. La parola
"tempo", è invece etimologicamente connessa al significato di "durata" di
certe azioni, situazioni o fatti ed anche al loro periodo; il termine, in economia come in ecologia si ritrova sulla condizione assai riferita agli oggetti
osservati ed anche sulla sua definizione come "ciclo". Si parla di "ciclo
ecologico" riferendosi a processi di sviluppo e riproduzione di un qualsiasi
sistema o fenomeno, si parla di "ciclo economico" per indicare una fase
in cui non si hanno comportamenti di un fenomeno in maniera "uniforme"
ma in maniera "fluttuante".3
Nella rilettura dei termini nelle loro accezioni ne emerge immediatamente una specifica interpretazione, connessa a fatti di processo (tempo) e di
qualità del progetto nel processo che si innesca (valore). Detta capacità
con il riferirsi ai temi connessi al recycle, rinviano però ad una ri-significazione quasi inversa, rispetto alla trasformazione ed alla conservazione
delle qualità dell’oggetto in questione; ciò avviene, reinvestendo nel suo
scarto o rifiuto, sia come capacità di sfidare il valore di origine e nella
trasfigurazione di una "nuova vita" nel fermarne quindi il consumo definitivo e totale (arrestando il tempo… ), che come condizione che lavora
sulla trasformazione (non conservazione… ) per ritrovare un nuovo valore,
quindi un nuovo ciclo di vita (un nuovo tempo... ). Recycle stesso diviene
quindi la vera ed originale "op_posizione" al termine valore e tempo, per
come lo abbiamo sopra definito in economia ed in ecologia; esso impone
una strategia che lavori al "contorno" in termini teorici sui due aspetti,
rinviando alla necessità di una nuova metodologia per la risoluzione delle
sue opposizioni. Accade di fatto quello che Sara Marini descrive a proposito dell’applicazione della "modalità parassitaria" con «[…] Le condizioni
al contorno, riassunte nei termini "luogo" e "tempo", si fanno motori del-
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la riscoperta di questa modalità costruttiva, ma anche come commento
critico e conflittuale con le modalità di controllo e progetto vigenti […] .»4
Quindi, anche in tale contesto di riflessione teorica sui termini op_position
ecologico/economico si propone di lavorare "al contorno" seguendo tre
traiettorie, in grado di riposizionare le strategie in termini di progetto e
processo, intercettando le questioni più riferibili al riciclo, riportando le
loro condizioni paradigmatiche in ri-scritture di brani selezionati capaci di
suggerire l’attesa prassiologia, perché già esplorata.
Traiettoria 1_ L’ambizione del territorio
La sfida tra requisiti ecologici e requisiti economici (variabili) nella capacità di rispondere alle istanze di riciclo, riescono a realizzare una nuova
configurazione e produttività del territorio, se il termine "valore" si rinomina come "valore d’uso". Tale condizione deve essere la più efficace per
innescare relazioni e scambi tra la qualità e la quantità dei flussi di materia, di energia e di attività in gioco.
L’ambizione del territorio diviene quella di trasformare i contesti di riferimento (urbano, architettonico, sociale, economico) con una nuova organizzazione dello spazio, capace di resistere a tale trasformazione con una
sua capacità pro-attiva e proiettiva, una resilienza che si autorganizza al
mutare dell’uso di tali contesti.
La riscrittura di seguito proposta, mette in evidenza una nuova qualità del
progetto che diviene vincente per chi investe nella trasformazione e per
chi accoglie la trasformazione, perché risolta nella dimensione dell’utilità
collettiva, dello scambio e di un nuovo metabolismo rigenerativo; ciò che
con la pratica del riciclo, definisce la configurazione di nuovi spazi ed il
riattivarsi di nuove e residuali risorse in altre risorse.
Metabolism as planning principle
«The ambitions of the territory are realised to the full when the system
of agricolture, habitation, industry, nature, recreation, etc. that lie alongside and superimposed on one another start to cooperate an interact.
Rather than simply creating a place for burgeoning collectivity, territorial
collectivity in this istance organises itself around the sharing of services
and amenities. This collective organisation thus shares the territory and
organises its Evolution and transformation towards a more sustainable
state. […] Residual heat can be used for the surrounding housing so that
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the two are more closely connected to each other. The exchange of interests means that mutual win-win situations – or productive relationships
– determine the organisation of space.»5
Traiettoria 2_ Dalla green economy/city alla blue economy/ecosystem
Il passaggio dal modello urbano "green" (D. Owen, Green Metropolis, Egea
ed., Milano, 2009) a quello imprenditoriale "blue"6 di fatto spinge la città
stessa a divenire un nuovo scambiatore di energia e materiali, metabolizzatore di risorse, non solo al fine di una propria sussistenza, ma anche
di una vita di altri cicli di risorse, attività, economie, in sintesi un nuovo
generatore di capitale economico e sociale. In tale senso è interessante
comprendere quanto nei processi di riciclo, il ciclo di vita delle componenti
urbane (LCA) sia capace di innescare nuovi modelli di cicli di costi (LCC),
capaci di caratterizzare la differenza (come e perché) tra il noto ecological
design ed un innovato sustainable urban design. Quanto la variabile "tempo", in tali scenari, caratterizzi un differente concetto di "risparmio" tra
recycle ecologico e recycle economico.
Dal metabolismo urbano per esempio possono essere espulsi residui delle attività umane capaci di innescare processi di metabolismo agricolo o
di progettualità alla scala dell’industrial design o risorse per reti energetiche diffuse. Ciò giustifica la necessità di concepire anche il rapporto tra
costi/benefici nei processi di riciclo, non in maniera convenzionale, non
con riferimenti standard da assumere per verificare guadagni e perdite.
Mentre tra i processi di energy pay back (rientro economico dell’investimento) ed energy ecological impact (recupero ecologico dell’energia grigia)
in progetti tecnologici di uso delle fonti rinnovabili, la variabile tempo e
costi di fatto si riferisce a processi lineari, in progetti di riciclo misurare la
tracciabilità di un progetto e delle sue risorse (filiere) mette in campo, tra
ecologia ed economia (e magari anche sull’impatto sociale) cicli di tempo
e modelli d’uso, in entrata ed in uscita, in un processo assai meno lineare
e più connesso a variabili del tutto disomogenee (distance to place, material quantity, factor CO2, factor man-hours, factor industrial-hours, factor
labour costs, factor material costs…).
La riscrittura di seguito proposta, mette in evidenza una condizione di atemporalità tipica dei processi di riciclo, ancora di più di quelli che utilizzano lo scarto. Il principio fondativo di una vera e propria "cultura" dei
rifiuti che dovrebbe considerare una vera e proprio cultura del riciclo, in
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cui cambiano anche i termini di riferimento nel rapporto tra progetto e
processo e dove per esempio il trasferimento di risorse e progetti può avvenire da contesti di settore completamente estranei nella loro definizione
e con tempi e cicli differenti.
Cultura dei rifiuti
«[…] nella storia assai complessa della produzione e dello smaltimento
dei rifiuti umani, hanno svolto un ruolo determinante la visione dell’"eternità" e la sua attuale caduta in disgrazia. Soltanto l’infinito è pienamente
e autenticamente onnicomprensivo. Infinito ed esclusione sono incompatibili, e così anche infinito ed esenzione. Nell’infinità del tempo e dello
spazio tutto può succedere, e tutto deve succedere. Tutto ciò che è stato, è
e forse sarà ha il suo posto. La sola a non avere spazio nell’infinito è l’idea
del "non spazio". L’idea cui l’infinito non può far spazio è quella dell’esubero, dello scarto. […] Nell’infinito tutto è riciclato senza fine […] oppure
eternamente esistente […].»7
Traiettoria 3_ Le trasfigurazioni in esperienze di Re_Learning EcoCity
Il passaggio dal modello della "città per progetti" alla "città-laboratorio",
alla "città in transizione", proietta il potere della conoscenza e le sue
forme di disvelamento verso una città futura capace di avere una nuova
dimensione comunicativa8, ma anche una nuova economia basata sulla
conoscenza. Attraverso l’agire sociale ed il controllo ecologico delle trasformazioni, si intercettano le "comunità concrete" in grado di produrre
"senso" nel costruire dei mondi vitali. Si tratta di una topografia reticolare
delle partecipazione sociale9 in cui i processi di riciclo possono essere acceleratori di questo bisogno di "autorganizzazione". Questa forma di costruzione dal basso, innesca per il potere del riciclo stesso nell’epoca della terza generazione post "obsolescenza programmata", un fenomeno di
"retroazione" in cui il 1°obiettivo torna ad essere quello dell’autosufficienza energetica e di materiale ed il 2° quello della resilienza.10 Quindi si tratta di innescare nuovi processi per riempire gli spazi di luoghi e collettività,
riciclando ciò che è privo di senso, residuale o interrotto, un "junkspace"
manifesto, capace di produrre trasfigurazioni partendo dai luoghi di scarto, dagli oggetti di scarto ma anche dalle visioni di scarto. Si considerino
in tal senso le pratiche di Re_Learning Ecocity, in cui la parola chiave torna
essere "apprendimento", l’approccio più adatto per una learning ecology,
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capace di tenere ben presente il ruolo degli attori che entrano in gioco12 e
tendere comunque ad una modificazione capace di aggiungere alle note
caratteristiche degli ecosistemi, anche altri valori sensibili come la cultura o la consapevolezza e più strutturali come la stabilità economica.
Si tratta quindi per esempio, di indagare come all’interno dei nuovi cicli di
vita della città e del territorio, attraverso il riciclo dei "beni comuni sociali"
in "beni comuni fruttiferi" si possano innescare nuove filiere produttive e
riattivare economie alla scala di comunità e struttura sociale di riferimento. Ciò di fatto si realizza partendo proprio da un nuovo principio di ordine
che recupera nel valore dello scarto quella nuova economia riscattata dal
rifiuto. Nella rilettura di seguito proposta ciò avviene proprio secondo quel
riferimento contestuale che anche Ezio Micelli (Convegno Re-cycle Op_position, IUAV, Venezia, 4 aprile 2014) individua quali "luoghi sospesi", territori di elezione recycle, capaci di innescare processi di scala, mobilitare
risorse locali ed anche cambiare gli strumenti di gestione convenzionali
in altri più evoluti ed adeguati, anche in assenza di plusvalore dei beni e
servizi.
Do-It-Yourself City
«Work, thought, is what this D.I.Y. city has not shied away from. In June
a group including Mr Paffendorf of Loveland spent S1,000 for two abandoned houses across from the vacant Michigan Central Station, a symbol
of Detroit’s decline, and, along with the Packard plant, a must-stop on any
hardscrabble tour. They renamed the buildings-shells filled with debris
and few squatters – Imagination Station And hope to transform them into
an artists’ enclave and green space. There wasn’t much to see yet, but
Mr. Paffendorf offered a tour. "Welcome home", he said, pushing open the
battered door, with a hole where the lock should be. The next day he and
his girlfriends and partner, M. L. Carter, were a t Maker Faire, sitting behind a table covered in sod, publicizing Loveland. They sold 70 inches of
Detroit.»13
00_ Considerazioni sulla sfida Recycle ecologico/economico
Avendo proposto il tema dell’opposizione come una sfida su un ring che si
svolge fuori dal campo, nei suoi margini e contorni, è evidente che anche
per questa tesi, come per le altre discusse nel convegno Re-cycle Op_position, rimangono da fare "i compiti a casa".
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Sono compiti connessi ad un nuovo approccio di sustainable learning nelle
azioni e retroazioni di carattere urbano ed architettonico, nell’uso delle
risorse (ecologiche ed economiche), ma anche di un’idea del valore che
progetta il tempo e del tempo che proietta il valore in nuove visioni. Un
nuovo to think project-action capace di sostituire all’impeto della parola
"rivoluzione", l’urgenza e la necessità della parola "risoluzione", per scenari di "trasfigurazione della dismissione" in cui il progetto ed il processo
di riciclo ne interpretano essenzialmente culture ed istanze.
Note
1. Etimologia dal dizionario DevotoOli, termine "valore" e suoi sinonimi e
locuzioni.
2. Definizioni estratte da doc. di settore:
metodologia sviluppata da ISPRA, 2012.
3. Etimologia dal dizionario Treccani,
termine "ciclo economico" e definizioni.
4. S. Marini, Architettura parassita. Strategia
di riciclaggio della città, Quodlibet, Macerata
2008, p. 100.
5. AWJGGRAUaDVVTAT, in The Ambition of
the Territory, in "Belgian Pavillion, 13th International Architecture Exhibition", La Biennale di Venezia 2012, p. 10.
6. G. Pauli, Blue Economy. 10 anni, 100 innovazioni, 100 milioni di posti di lavoro, Ambiente, Roma 2014.
7. Z. Bauman, Vite di scarto, Laterza, Bari
2004, pp. 117-8.
8. E. Rullani, La Fabbrica dell’Immateriale,
Carrocci, Roma 2004.
9. G. Perulli, Visioni di città, Einaudi, Torino
2009.
10. S. Latouche, Usa e getta, Bollati Boringhieri, Torino 2013.
11. C. Nava, Doc. istruttorio per esperienze
Calajunco, con Pensando Meridiano, Lab.
Recycle RC, marzo, 2014.
12. K. Lynch, Deperire. Rifiuti e spreco, trad.
it. M. Southworth (a cura), Cuen, Napoli
1990.
13. M. Ryzik, Wringing Art out of the Rubble
in Detroit, «New York Times», 3.08.2010.
142
Il recycle come opzione
e come necessità.
Le condizioni economiche
del riuso tra stagnazione
e ripresa
Ezio Micelli
>IUAV
0. Introduzione
La lunga fase di stagnazione economica del nostro Paese, quando non di
vera e propria recessione, non è senza effetti sul modo in cui è possibile
pensare e promuovere gli interventi nelle città.
Le valutazioni sul settore del real estate e delle costruzioni divergono. Se
alcuni contano sul ritorno alle condizioni dei primi anni del secolo con valori e volumi in costante crescita, altri – più lucidamente – riconoscono la
natura strutturale dei cambiamenti avvenuti e la conseguente necessità di
un cambio di paradigma che permetta di coniugare redditività e sostenibilità, consenso e sviluppo.
Che il nuovo paradigma debba considerare una visione più ampia rispetto
a quella della sola economia immobiliare appare auspicabile: il rilancio di
settori economici in difficoltà – ne sono buon esempio parti della manifattura e dell’agroalimentare – passa non solo per una razionalizzazione
143
dei processi produttivi, ma anche per una riflessione sulla natura stessa
dei beni prodotti, sulle caratteristiche quantitative e qualitative della domanda, sul valore attribuito alle componenti materiali e immateriali dei
beni scambiati. Le nostre città sono destinate a essere condizionate da
una crescita modesta e ineguale, incapace di sostenere, come è avvenuto
per anni, uno sviluppo basato sul debito e su aspettative di crescita errate
quando non del tutto infondate.
Ciò impone un diverso rapporto con ciò che abbiamo, con ciò che già occupa i nostri territori, rende necessario un diverso rapporto con lo stock
– di abitazioni, di attrezzature collettive, di infrastrutture – di cui il passato
ci ha reso beneficiari. Il riuso della città esistente, debitamente declinato
in ragione dei diversi contesti spaziali ed economici, sembra essere una
delle categorie più promettenti per comprendere le forme con cui operare
nella città del prossimo futuro.
1. Il new "normal" dell’economia e delle città italiane
L’economia italiana soffre da molti anni dell’assenza di crescita. Se consideriamo la variazione del prodotto interno lordo per abitante, il Paese dal
1999 ad oggi si è impoverito in termini reali di poco oltre due punti percentuali. Nello stesso arco temporale, gli stessi paesi dell’area mediterranea
hanno beneficiato di un aumento della ricchezza prodotta – ad esempio
la Spagna, con oltre 8 punti percentuali – senza considerare l’impetuosa
crescita dell’area nordeuropea guidata dalla Germania (+21%).
L’assenza di crescita si è riflessa sulla capacità di investimento delle amministrazioni nelle nostre città – per anni oggetto di sottoinvestimento da
parte delle amministrazioni a tutti i livelli1 – e sui mercati immobiliari delle
nostre città. Dopo la fase di grande crescita dei valori immobiliari, individuabile con buona approssimazione tra la fine del secolo scorso e la
prima metà degli anni del decennio scorso, i mercati hanno intrapreso
un’inversione di tendenza che riguarda sia le quantità che i valori.
Gli effetti sono noti e qualche numero è tuttavia utile per restituire l’ampiezza della svolta: il numero delle transazioni di immobili residenziali, di
gran lunga la quota più consistente del mercato immobiliare nazionale, è
sceso da oltre 845.000 compravendite nel 2006 a 448.000 nel 2013 (fonte
Agenzia delle Entrate); i mutui del settore residenziale ammontavano a
31,45 miliardi di euro nel 2007 e sono scesi a 10,98 miliardi nel 2013 (fonte
Ance e Banca d’Italia).
144
Considerare accidentale e transitoria l’attuale fase economica con il suo
portato per le decisioni pubbliche e le scelte di investimento privato sarebbe poco lucido. L’analisi dei tassi di crescita dell’economia italiana e del
debito pubblico, oltre alla disamina delle indicazioni che i dati demografici offrono del nostro Paese, suggeriscono una lettura diversa dell’attuale
fase della nostra economia e delle nostre città. Vi sono buone chances
che lo sviluppo delle città in un contesto di economia a crescita nulla o
molto modesta sia da accettare come la norma. Tassi di crescita dell’uno
per cento, frazione risibile dell’incremento del PIL dei paesi emergenti,
potranno essere la consuetudine e non l’eccezione.
La nuova normalità, il new normal dell’economia post-recessione, incide
sul contesto e sul modo in cui amministrazioni e investitori operano. La
fine della crescita non è per sempre e non è per ogni luogo: alcune aree
del Paese potranno crescere con scarti significativi rispetto alla media e
alcune aree potrebbero trovarsi in una fase di declino analoga a quella
sperimentata in tante shrinking cities nordamericane (Coppola, 2012).
Se i fasti degli anni del dopoguerra – i trenta gloriosi – sono da archiviare
senza esitazione, sarebbe un errore considerare le nostre città senza risorse nella sfida che le attende. Le difficoltà nell’incrementare il prodotto
interno non devono essere confuse con la ricchezza di beni immobili che le
nostre città conoscono in ragione di un lunghissimo periodo di pace. Una
ricchezza sia privata che pubblica: un patrimonio immobiliare privato che
rappresenta la parte più consistente del risparmio delle famiglie italiane
e un capitale fisso sociale che, pur scontando le difficoltà legate ad una
modernizzazione claudicante dell’assetto infrastrutturale, rappresenta un
insieme di asset che hanno comunque consentito al nostro Paese di entrare tra i primi dieci paesi sviluppati del pianeta.
Città incapaci di ritrovare importanti flussi finanziari possono e devono
sfruttare meglio il capitale fisso accumulato per ammodernare le infrastrutture a costi più contenuti, valorizzando selettivamente ciò che oggi
è attualmente disponibile, senza necessariamente distruggere e realizzare nuove opere; possono e devono impiegare al meglio le opportunità
di riqualificazione del patrimonio residenziale sotto il profilo funzionale e
tecnologico senza così dilatare il già amplissimo confine delle città o, più
precisamente, dei "sistemi territoriali locali" (Calafati, 2009) in cui le città
si sono confuse; possono e devono adattare il patrimonio non residenziale
alle rinnovate esigenze di mercati profondamente mutati.
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2. Valore, forme, energia
La convergenza tra una diversa prospettiva di carattere economico e alcuni temi della ricerca architettonica appare evidente. Riciclare il patrimonio
esistente, risignificarne le forme e trasformarne le funzioni: l’agenda di
una parte della cultura architettonica appare perfettamente allineata con
il percorso delineato per lo sviluppo delle nostre città.
Se per l’architettura il riciclo consente di estrarre nuovo senso e significato da ciò a prima vista appare inutilizzabile o comunque obsoleto, in
opposizione alla demolizione e ricostruzione di immobili e quartieri, il ragionamento è analogo per chi estrae valore da un patrimonio di cui rileva
il potenziale economico ancora inespresso, massimizzando il rapporto costo/efficacia delle sempre più limitate risorse a disposizione.
La convergenza non si limita al rapporto tra economia e architettura, ma
si estende alla dimensione ambientale della trasformazione della città.
L’attività di recycle non riguarda solo il valore economico e il senso stesso
di forma e funzioni del progetto, ma include l’energia contenuta nei manufatti. I processi di densificazione e riuso della città esistente costituiscono
la via maestra per costi energetici assai più contenuti rispetto a quelli
di altre forme di insediamento e in particolare di quelli a bassa densità
(Owen, 2009) e rappresentano il modo in cui è possibile estrarre l’embodied energy ancora presente nel capitale edilizio esistente che in altre fasi
della storia economica delle nostre città avremmo considerato ineluttabilmente esaurito (Viganò, 2012).
Valore, significato, energia: il riciclo dei contenuti, materiali e immateriali,
della città e delle sue costruzioni si presta a una sovrapposizione di letture
e interpretazioni di evidente carattere interdisciplinare che ne evidenzia la
ricchezza e le potenzialità. Tuttavia, la lettura economica delle trasformazioni urbane impone una doverosa declinazione delle modalità con cui il
riciclo potrà avere luogo, evidenziando la diversa posizione degli operatori
nei confronti della trasformazione dell’esistente.
3. La selezione necessaria
Una geografia del recycle appare possibile. Secondo una partizione ampiamente perfettibile, è possibile immaginare uno sviluppo secondo le linee di seguito delineate.
In un recente saggio, (Marini, 2013) sottolinea la necessità che dei materiali ereditati dalla storia – poco importa se abitazioni, ferrovie, capannoni
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– si faccia una selezione preliminare al riciclo. Tale selezione divide ciò
che non è recuperabile da ciò che lo è, separa le parti di un manufatto o
di una parte di città capaci di esprimere un nuovo significato, formale e
funzionale, da quelle prive di un simile potenziale.
Un’analoga selezione è doverosa anche dal punto di vista economico. Se
immaginiamo che la ripresa economica possa avere luogo, pur in forma
limitata alla luce dei dati prima evidenziati, essa non necessariamente
avrà pari intensità in tutto il Paese. Con buona probabilità, essa riguarderà, ad una scala territoriale ampia, soprattutto le parti del nostro Paese
meglio interconnesse con un mondo rimodellato dalla globalizzazione. Alcune aree si ritroveranno a essere beneficiarie di simili cambiamenti, altre
lo saranno meno. È plausibile ipotizzare che le parti del nostro territorio
meglio attrezzate sotto il profilo del capitale fisso sociale saranno le più
pronte a ritrovare la strada della crescita, mentre altre aree potrebbero
non conoscere le minime condizioni di domanda per attivare i processi di
riciclo per la semplice ragione che non vi è alcun interesse a impiegare
manufatti e opere nell’assenza di una verosimile domanda finale.
Che si discuta di caserme nelle Alpi Giulie o di antichi borghi nel sud del
Paese, per alcune parti del nostro territorio semplicemente non ci sono
le condizioni economiche perché si possa immaginare processi di riciclo e
riuso, perlomeno se basati sull’azione degli operatori privati. Per ritornare
alla immagine prima evocata, appare chiaro che per le aree dismesse o
sottoutilizzate di alcune parti del Paese non c’è alcuna strategia credibile,
perlomeno nel breve periodo, che catturi un valore residuo poiché semplicemente non c’è alcuna domanda solvibile interessata a sfruttare i beni
esito del riciclo stesso.
4. Quando il recycle non è un’opzione economica conveniente
Un secondo discrimine riguarda le aree in cui il riuso può avere luogo.
Due opzioni appaiono possibili: i luoghi in cui le operazioni di recycle costituiscono una tra le molteplici possibilità a disposizione, e quelli in cui il
recycle è l’unica opzione possibile.
Riprendiamo il tema prima sinteticamente delineato della ripresa e della crescita. I luoghi capaci di attrarre nuova domanda e di offrire nuove
possibilità di creazione di ricchezza possono conoscere l’interesse degli
investitori che ne immaginano il riuso e la riqualificazione. È il caso, per
esempio, delle aree oggetto di importanti investimenti pubblici a cui fa se-
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guito un vantaggio posizionale che invariabilmente determina nuove condizioni di domanda insediativa. È il caso, ad esempio, delle stazioni ferroviarie ad alta velocità, oppure, ad una scala diversa, di aree che si trovano
a essere beneficiarie di altre infrastrutture o altre dotazioni territoriali.
In simili contesti la strategia del riuso può essere un’opzione, ma non
necessariamente la più convincente sotto il profilo economico. Laddove
infatti la densità sia oggetto di un considerevole aumento il recycle potrebbe essere legato solo alle infrastrutture, mentre la demolizione e ricostruzione di nuovi manufatti, o di un nuovo quartiere, diviene la scelta più
razionale poiché massimizza simultaneamente il profitto e le rendite che
si formano a seguito della variazione della edificabilità dell’area.
Le amministrazioni, dal canto loro, potrebbero trovare assai più conveniente il percorso della demolizione e ricostruzione in quanto, soprattutto
in aree a media bassa densità, la possibilità di aumentare la potenzialità
edificatoria permette anche di recuperare valore subordinando la variazione degli strumenti urbanistici alla restituzione alla comunità di quote del
plusvalore nelle forme definite poi in sede di negoziato. Che l’intervento
resti di riqualificazione, è evidente. E che si possa parlare di riuso di parte
del capitale fisso sociale, appare parimenti vero nella misura in cui parte
delle infrastrutture sono in realtà riutilizzate. Ma il cuore dell’intervento
prevede l’azzeramento del valore (e dunque del potenziale di senso, di significati, e di energia) dei beni esistenti per realizzarne di nuovi.
Un simile scenario riguarda aree e beni assai di rilievo, ma limitati per
numero. Ciò può accadere laddove la struttura proprietaria si rivela tutto
sommato semplificata e dove siano significative le possibilità di aumentare con successo le densità edificatorie. All’aumentare dello scarto di valore tra i beni esistenti (magari completamente obsoleti) e il potenziale
edificatorio (per soddisfare una domanda ampia e solvibile), la proprietà
valuterà con minore interesse l’opzione del recycle e considererà la demolizione e ricostruzione l’ipotesi maggiormente conveniente.
Lo sviluppo del progetto Garibaldi Repubblica a Milano (Catella e Doninelli, 2013) rappresenta al meglio l’insieme dei progetti che, a seguito di
investimenti pubblici di grande rilievo, possono reclamare inediti livelli di
densità, perlomeno per i tradizionali standard urbanistici del nostro Paese, con l’esito di rendere ineludibile l’ipotesi della demolizione e ricostruzione dell’esistente.
Per riprendere il concetto con le categorie dell’economia urbana, laddove
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il valore della rendita potenziale ecceda il valore dei beni immobili esistenti, la trasformazione dell’area per demolizione e ricostruzione diviene
la soluzione più razionale: non si tratta di estrarre valore da ciò che già
esiste, poiché sotto il profilo economico i manufatti e le opere che occupano lo spazio del progetto rappresentano un ostacolo alla simultanea
massimizzazione di rendite e profitti.
5. Quando il recycle è l’unica opzione
Non tutti i luoghi saranno oggetto di nuove e importanti concentrazioni capaci di generare una domanda significativa. Molte città potrebbero conoscere nel futuro processi di crescita contenuti. Le disponibilità finanziarie
delle amministrazioni, a tutti i livelli, lasciano dubitare che le nostre città
possano essere oggetto di ampi e importanti progetti di reinfrastrutturazione a cui associare interventi di trasformazione radicale della città.
I noti vincoli alla finanza pubblica e la scarsa disponibilità di quella privata
a promuovere interventi in project financing non sono destinati a scomparire a breve. Plausibile immaginare dunque che interventi di questa natura
siano localizzati nei nodi urbani di maggiore rilievo, ma che altrove le condizioni dell’investimento pubblico siano di rilievo contenuto, quando non
proprio marginali.
In una simile prospettiva, il recycle di ciò che già oggi è insediato nelle nostre città, dai capannoni della città diffusa del Nord Est ai grands
ensambles delle periferie milanesi alla città lineare della costa adriatica
appare più un vincolo che una scelta, l’unica opzione possibile da un punto
di vista economico. Fino a pochi anni fa – prova ne siano le misure ispirate
al Piano casa in tutte le sue edizioni – era opinione corrente che nuove
possibilità edificatorie avrebbero potuto determinare le condizioni per la
demolizione di edifici quando non di quartieri superati funzionalmente e
inefficienti tecnologicamente. E tuttavia le attuali condizioni di mercato, il
crollo della domanda di nuove abitazioni e l’azzeramento dei valori delle
aree di nuova edificazione hanno imposto un atteggiamento diverso nei
confronti dell’edilizia esistente.
A ciò si aggiunga la frammentazione proprietaria, legata a decenni di incentivi all’investimento immobiliare, con i rilevanti conseguenti costi di federazione della proprietà in vista di ambiziosi progetti di trasformazione
radicale di aree e immobili, per avere una completa rappresentazione dei
vincoli che oggi impongono di considerare l’azione del recycle come l’unica
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possibile. In una fase di contrazione delle aspettative di redditi futuri e di
severa contrazione del credito a famiglie e imprese, appare scarsamente
probabile che tutti i proprietari aderiscano entusiasticamente a quella che
è stata definita la rottamazione della città del dopoguerra in vista di futuri
investimenti. In assenza di sorprese eclatanti sulla capacità di ripresa e
della nostra economia, e dunque dei valori immobiliari e delle scelte pubbliche di investimento, le nostre città hanno nel recycle l’unica prospettiva
credibile sulla quale appare doveroso porre il massimo impegno. E se una
città come Parigi, che certo non sconta i limiti allo sviluppo di aree oggi
oggettivamente ai margini della crescita del nostro continente, ha iniziato a «concentrarsi sull’idea di costruire sopra, in mezzo, sotto, intorno,
dentro gli edifici esistenti» (Pippo Ciorra, 2011, p. 51) allora appare cruciale
anche per il nostro Paese riscrivere l’agenda non solo del progetto, ma
anche della produzione e della finanza che a nuovi modelli di intervento
dovranno dedicarsi con rinnovato impegno.
6. Una necessaria estetica del riuso
La sfida è importante per la cultura del progetto, così come lo è per le
aziende della filiera e per la finanza che alimenta con le proprie risorse le
parti pubbliche e private della città. Si tratta di investire energie e intelligenze sulla realizzazione di progetti di una qualità del tutto confrontabile
con quella che viene ascritta ai progetti di nuova realizzazione. Sotto il
profilo formale ed esecutivo, la sfida è ritrovare un valore indiscutibile nei
processi di riuso senza il quale il rischio è di rendere spazialmente evidenti gerarchie progettuali riflesso di altrettanto chiare gerarchie sociali.
La città delle nuove costruzioni e la città che si ricicla: la prima appare
agli occhi della comunità quella verso la quale tendere appena le risorse
lo consentano, la seconda il luogo in cui si è condannati a restare auspicabilmente il meno possibile.
Se il riuso non riesce a imporre un linguaggio architettonico nuovo e originale, è possibile che esso non divenga null’altro che un rattoppo a forme
e strutture superate, ad architetture e opere la cui permanenza è legata
all’incapacità di promuovere nuove forme, di organizzare nuovi processi.
Magari si tratta di un rattoppo utile, capace ad esempio di rendere energeticamente efficienti immobili ormai obsoleti, ma l’incapacità di promuovere soluzioni organiche che tengano insieme le dimensioni della forma e
delle tecnologie, e dunque dei costi e della sostenibilità economica degli
150
interventi, costituisce un problema di non poco conto.
La mappa del riciclo e delle nuove costruzioni rischia di trasformarsi, quasi meccanicamente, nella mappa della "città dei ricchi e la città dei poveri", esaltando ulteriormente differenze sociali ed economiche che negli
ultimi anni hanno conosciuto un profondo allargamento anche in Europa
(Bernardo Secchi, 2013). Per parti intere delle nostre città, il riciclo può
divenire null’altro che il rimedio alla scarsità delle risorse, la soluzione
progettuale e tecnica che rivela plasticamente la debolezza di ampie fasce
della società a migliorare la propria condizione sociale ed economica.
Strette tra i centri storici e le nuove aree di espansione, le nostre periferie
– in particolare quelle degli anni Sessanta e Settanta, assai bisognose di
interventi – rischiano l’impasse per l’incapacità non solo tecnica ed economica, ma anche progettuale di restituire a queste parti della città una
dimensione nuova con un canone estetico riconoscibile e apprezzato.
Non mancano i casi di riuso premiati e acclamati (Pippo Ciorra e Sara Marini, 2012). Tuttavia, è ancora prematuro affermare che una simile estetica
abbia conquistato le platee più vaste del pubblico dell’architettura, con un
auspicato effetto di trascinamento dell’industria delle costruzioni e della
finanza.
Che questa sfida sia affrontata con successo non è affatto scontato. È nota
la propensione delle imprese alla realizzazione di nuovi interventi rispetto al recupero dell’esistente, per l’intrinseca complessità di iniziative che
operano selettivamente sulle componenti degli immobili. La scarsa capacità della nostra cultura progettuale di integrarsi con i processi costruttivi e finanziari non permette di dare per acquisita una sintesi capace di
spostare nella città esistente, con successo, il campo di azione privilegiato
della trasformazione a tutte le scale. L’agenda della ricerca e della sperimentazione, tuttavia, sembra essere comunque chiaramente delineata.
151
Nota
Bibliografia
1. Sottolinea Camagni (2012, p. 60) come
«negli ultimi 20 anni il sistema Italia ha
sottoinvestito sulle città, apparentemente
a causa della crisi fiscale nazionale e
locale e delle difficoltà di utilizzare il
project financing per opere di rilievo»
e come «la sottocapitalizzazione delle
nostre città non è solo verificabile in senso
quantitativo, ma anche in una serie di
squilibri e di costi sociali: elevati costi
individuali e sociali della mobilità; bassa
efficienza energetica; insufficiente offerta
di spazi pubblici a carattere ricreativo e
culturale; bassa qualità urbana nelle aree
di nuova urbanizzazione ed anche in molte
aree di trasformazione; bassa qualità
dell’aria e, in molti casi, basse condizioni
igienico sanitarie rispetto agli standard
internazionali».
A. Calafati, Economie in cerca di città. La
questione urbana in Italia, Donzelli, Roma
2009.
R. Camagni, La città del presente, le città del
futuro: rendita e ricapitalizzazione, Eyesreg
– Giornale di Scienze Regionali, Marzo 2012,
Vol. 2, n. 2, pp. 60-63.
M. Catella, L. Doninelli, Milano si alza. Porta
nuova, un progetto per l’Italia, Vita Feltrinelli,
Milano 2013.
P. Ciorra, Senza architettura. Le ragioni di
una crisi, Laterza, Bari 2011.
P. Ciorra, S. Marini (a cura di) Re-cycle.
Strategie per la casa, la città e il pianeta,
Electa, Milano 2012.
A. Coppola, Apocalyse Town. Cronache dalla
fine della civiltà urbana, Laterza, Bari 2012.
S. Marini, Post-produzioni o del problema
della scelta, in S. Marini, V. Santangelo (a
cura di), Recycland, Aracne, Roma 2013, pp.
13-17.
D. Owen, Green Metropolis. Why Living
Smaller, Living Closer, and Driving Less Are
the Keys to Sustainability, Riverhead Books,
New York 2009.
B. Secchi, La città dei ricchi e la città dei
poveri, Laterza, Bari 2013.
P. Viganò, Elements for a Theory of the City
as Renwable Resource, in L. Fabian, E.
Giannotti, P. Viganò (eds.) Recycling City.
Lifecycles, Embodied Energy, Inclusion,
Giavedoni, Pordenone 2012, pp. 12-23.
152
CYCLE
VS
RE-CYCLE
Marco Bovati, Cassandra Cozza
>POLIMI
1. Il ciclo è ecologico, il riciclo è economico.
2. Nella logica dalla culla alla tomba il riciclo è l’ultima tappa prima della discarica.
3. Nella logica dalla culla alla culla non c’è riciclo, non c’è rifiuto, solo ciclo.
4. Il ciclo è un processo chiuso e non produce rifiuti.
5. Il riciclo è un processo aperto e consiste nell’interrogarsi sul destino dei rifiuti
prodotti dal meccanismo dell’obsolescenza programmata.
6. Il progetto è per durare, il riciclo è la conseguenza di una progettazione errata.
7. L’ecologia studia le condizioni di durata dei sistemi, fondate sulla ciclicità dei
processi e sull’eliminazione dei rifiuti.
8. L’architettura ecologica usa i cicli naturali come paradigma, non come modello.
9. L’architettura ecologica è autenticamente economica quando programma l’eliminazione del rifiuto e con esso il problema del suo riciclo.
10. Il progetto non persegue il riciclo ma il nuovo ciclo di vita.
153
I problemi ambientali possono essere compresi solo collegandoli
ai meccanismi di funzionamento dell’economia.
B. Commoner
Interrogandosi su come attivare un nuovo ciclo di vita per tessuti, manufatti e infrastrutture abbandonate o sottoutilizzate, la ricerca PRIN Recycle Italy si inserisce in una riflessione più ampia sull’attuale crisi paradigmatica1 e sulle proposte per superarla.
Il contesto teorico e culturale di riferimento si basa su posizioni che rimandano all’idea di responsabilità dell’azione individuale2 come idea fondativa del paradigma ecologico,3 incorniciata nel concetto di nuova alleanza4
tra uomo e natura. In questo quadro l’azione dell’uomo si inserisce in un
universo creativo caratterizzato dalla freccia del tempo, dall’irreversibilità
dei fenomeni e dal costante riferimento all’osservazione e interpretazione
dei meccanismi naturali in senso paradigmatico; Ilia Prigogine in particolare riporta l’azione dell’uomo all’interno dell’evoluzione naturale, fatta di
invenzione e innovazione.
La natura funziona per cicli chiusi, non produce rifiuti, non ricicla ma riusa. Il principio è noto e la necessità della sua applicazione al settore economico e produttivo è all’attenzione della cultura e della politica almeno
dal 1971, grazie alla seminale pubblicazione di Barry Commoner dal titolo
The Closing Circle: Nature, Man, and Technology.5 In quegli anni l’ecologia
veniva ancora chiamata "scienza sovversiva"6 soprattutto quando metteva di fronte alle proprie responsabilità l’economia della produzione e
del consumo delle merci. Oggi sembra essere utilizzata più spesso come
strumento di marketing, in grado di sostenere le azioni più diverse, anche
quando sono tutt’altro che ecologiche.
La tesi di Commoner si basa sulla constatazione che le trasformazioni
naturali, alimentate dall’energia del sole, producono materia sempre in
grado di rientrare in circolo, di essere riutilizzata divenendo materia prima
per altri cicli naturali. La violazione di questa semplice regola produce
rifiuti e scarti e, di conseguenza, la necessità del loro riciclo.
Successivamente il testo Cradle to Cradle. Remaking the Way We Make
Things di William McDonough e Michael Braungart7, aggiorna la riflessione riflettendo sulle strategie ecologiche di eliminazione del rifiuto –
come concetto e come fatto materiale – dai meccanismi di produzione
delle merci. Con il rifiuto si elimina anche la pratica del riciclo che viene
154
sostituita dall’idea di nuovo ciclo di vita.
Come avviene tale eliminazione? È sufficiente cambiare la nostra interpretazione degli scarti iniziando a considerarli altro e, di conseguenza, a
immaginare per loro una nuova vita? In questo atteggiamento virtuoso si
annida un rischio: la costruzione di un’estetica del rifiuto che non può
che configurarsi come estetica a posteriori, una artificiosa costruzione del
bello a partire da ciò che è trovato. Se poi tale atteggiamento si coniuga
con l’imperativo ecologico allora si passa dall’estetica all’etica: riciclo ciò
che trovo, ciò che non serve più, lo scarto, e arresto i processi entropici – o
almeno provo a rallentarli – ricombinando i materiali per dare loro nuove
funzionalità. Ma a che prezzo?
Se osserviamo le logiche di produzione delle merci, scorgiamo nel meccanismo dell’obsolescenza programmata il motore primo della produzione
di rifiuti.8 Le pratiche del riciclo, lodevoli dal punto di vista delle tattiche
del quotidiano, appaiono in una luce diversa se viste nella più generale
strategia della società dei consumi, poiché risultano del tutto funzionali
ad essa, così come lo sono le ideologie a posteriori che le accompagnano
e le sorreggono.
Anche dal punto di vista delle pratiche è inevitabile scorgere qualche criticità, soprattutto se, a proposito di ecologia, si tengono in maggiore considerazione i tempi lunghi dei cicli naturali; in questo quadro ricombinare i
materiali a costo di grandi investimenti energetici per attribuire loro nuove
funzionalità per le quali non sono stati progettati, assume il carattere di
una forzatura9, anche in ragione della vita relativamente breve che potranno avere una volta riciclati.
McDonough e Braungart propongono l’esempio del tappeto di poliestere
prodotto riciclando (subciclando, precisano gli autori) bottiglie di plastica:
«Buone intenzioni a parte, il tappeto [...] è stato fabbricato impiegando
materiali che non sono stati pensati per questo [...] utilizzo e dare loro
questa forma ha richiesto la stessa energia – e prodotto la stessa quantità
di scarti – che sarebbe servita per un tappeto nuovo (ottenendo di) rinviare
il normale destino dei materiali [...] di un ciclo di vita o due. Il tappeto è
ancora in viaggio verso una discarica; sta solo facendo una tappa da voi
lungo la strada.»10
Nulla di particolarmente virtuoso in tutto ciò, pertanto. Diversamente
dall’idea di progettare il destino dei materiali, immaginando e programmando il loro uso una volta esaurito il primo ciclo, e realizzandoli in ma-
155
niera funzionale ad esso. Progettare il loro esser altro impedendo che diventino rifiuti e evitando gli alti costi energetici dei processi di riciclaggio.
Cosa fare, allora, con l’architettura? Si dirà giustamente che essa è un
prodotto immobile, non mobile11, con tempi di vita più lunghi delle merci
convenzionali e che, perciò, le considerazioni fatte sul loro ciclo e riciclo non sono applicabili. Dobbiamo considerare, però, che l’architettura
è soggetta sempre di più alle regole del mercato; lo evidenziava già De
Carlo12 nel 1980 e la contemporaneità ha esasperato questo fenomeno.
In ogni caso le riflessioni proposte in questo scritto in riferimento alla
questione ecologico/economico relativa al tema del Re-cycle, non intendono affermare che in architettura non esistano rifiuti o che il loro riciclo
non sia una pratica auspicabile. Piuttosto argomentano come essa sia da
interpretare più come una prassi, che insieme ad altre possibili, si offre
come insieme di tecniche, azioni e interventi13 che agisce come strumento
in grado di mitigare le conseguenze dei meccanismi propri dell’economia
delle merci, piuttosto che pensare di farla assurgere allo status di paradigma ecologico.
Progettare un nuovo ciclo di vita finalizzato alla ridefinizione formale, funzionale e identitaria dell’esistente significa lavorare su tessuti, paesaggi e
infrastrutture soggetti a fenomeni di sottoutilizzo, abbandono, dispersione e frammentazione, attraverso pratiche progettuali innovative capaci di
rendere più efficienti gli ambienti costruiti e più resilienti gli ambienti naturali – wilderness, agricoltura, verde urbano. L’insieme delle azioni proposte si inserisce in un paradigma progettuale14 che assume criticamente
il tema dello sviluppo sostenibile e propone strategie progettuali orientate
alla modificazione del paradigma urbano di riferimento.
Ciò implica che le declinazioni del concetto di sostenibilità (ambientale,
sociale ed economica) si articolino secondo una strategia di approccio al
progetto architettonico e urbano in grado di assume le "tre E" come riferimento: Ecologico – che contrasta il degrado delle risorse naturali e
del patrimonio costruito e preserva gli spazi aperti evitando il consumo
di suolo; Equo – che incrementa l’urbanità dei territori della dispersione
e delle periferie rendendoli più isotropi e vivibili; Economico – che agisce
in maniera neghentropica15 sul territorio, razionalizzando l’uso dello spazio e delle risorse, evitando gli sprechi, inserendo nuovi usi, rinnovando
l’identità dei luoghi rendendoli più attrattivi e contrastando il sottoutilizzo
e l’abbandono.
156
Per individuare strategie e pratiche progettuali paradigmatiche occorre,
quindi, che esse siano inserite entro un sistema di descrizioni ed analisi
adeguate, in modo da valutarne gli esiti a diverse scale e sui vari tipi di paradigma proposti. L’obiettivo è orientare le scelte in base ai risultati attesi
nella trasformazione del paradigma urbano; per farlo si devono individuare problemi da risolvere (cosa modifico) e proporre dei modelli di trasformazione (come lo modifico). Bisogna ottimizzare i risultati delle trasformazioni attraverso sinergie ed economie di scala, ad esempio, agendo
con una serie di progetti puntuali (paradigmi progettuali che agiscono sui
paradigmi spaziali selezionati e ritenuti significativi) i cui effetti trasformativi possono avere una ripercussione alla scala territoriale contribuendo a
trasformare il paradigma urbano nella direzione desiderata.
L’obiettivo è mettere in stretta relazione le modificazioni del paradigma
progettuale e quelle del paradigma urbano in modo da innescare una
trasformazione alla scala della città e del territorio attraverso operazioni
puntuali interconnesse. In questo quadro le strategie progettuali possono
assumere valore paradigmatico se sono in grado di indicare nuove direzioni per la ricerca, cambiare i problemi da risolvere e il modo in cui farlo.
Antonella Tarpino descrive l’antropologia delle rovine di Marc Augè16 come
un enigma dove la maceria è «traccia inerte del passato, sequenza muta
di un tempo che non parla più», essa è «relitto inerte, scarto nel consumo
del tempo».17
La maceria è materiale da riciclare il cui valore è prettamente economico.
La rovina, invece, «dà ancora segni di vita», «ci parla ma di cose cadute
fuori dal corso del tempo, costrette a cedere a nuove, pur precarie funzionalità», essa è «sospesa in una fine, piuttosto che finita». La riattivazione
di un nuovo ciclo di vita è l’uscita da questa sospensione, un’uscita progettata, radicata nel passato ma profondamente contemporanea (esprime
una nuova identità, ospita una nuova funzione, offre qualità spaziali adatte
al tempo in cui si colloca ed è performante secondo nuovi standard).
Il riciclo della maceria è economico. La nuova vita della rovina è ecologica.
157
Note
mata, Bollati Boringhieri, Torino 2013.
1. T. S. Kuhn, The Structure of Scientific
Revolutions, The University of Chicago
Press, Chicago 1962; tr. it., La struttura delle
rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969.
9. Braungart e McDonough, Cradle to Cradle: Remaking the Way We Make Things, cit.
2. H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung.
Versuch einer Ethik für die technologische
Zivilisation, Suhrkamp, Frankfurt/M 1979; tr.
it. Il principio responsabilità. Un’etica per la
civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990.
11. S. Los, Geografia dell’architettura – Progettazione bioclimatica e disegno architettonico, Il Poligrafo, Padova 2013, p. 81.
3. F. Capra, The turning point: Science,
Society, and the Rising Culture, Simon and
Schuster, Bantam paperback 1982; tr. it., Il
punto di svolta, Feltrinelli, Milano 1984.
F. Capra, The web of life,Anchor Books, New
York 1996; tr. it. La rete della vita, Rizzoli,
Milano 2001. E. Morin, La vie de la vie, Editeur Seuil, Paris 1980.
4. I. Prigogine, I. Stengers, La nouvelle
alliance. Métamorphose de la science, Gallimard, Paris 1979; tr. it. La nuova alleanza.
Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino
1979.
5. B. Commoner, The Closing Circle: Nature,
Man, and Technology, Knopf, New York 1971;
tr. it. Il cerchio da chiudere. La natura, l’uomo
e la tecnologia, Garzanti, Milano 1972.
6. P. Shepard, D. McKinley (edited by), The
subversive science, Houghton Mifflin, New
York 1969.
7. M. Braungart, W. McDonough, Cradle to
Cradle: Remaking the Way We Make Things,
North Point Press, New York 2002; tr. it.
Dalla culla alla culla. Come conciliare tutela
dell'ambiente, equità sociale e sviluppo, Blu
Edizioni, Torino 2003.
8. S. Latouche, Bon pour la casse: Les
déraisons de l’obsolescence programmée,
Les liens qui libèrent, Paris 2012; tr. it. Usa
e getta. Le follie dell’obsolescenza program-
10. Ibid., edizione italiana, p. 2
12. Del ribaltamento del termine riuso
nella prassi architettonica è il titolo della
relazione che Giancarlo De Carlo presentò
al Politecnico di Milano nel 1980, AA.VV.,
Riuso e riqualificazione edilizia negli anni ‘80,
Franco Angeli, Milano 1981; citato in A. Gritti, M. Bovati, Emblematica del riciclo: suoli,
tessuti e manufatti produttivi, in S. Marini, V.
Santangelo (a cura di), Recycland, Aracne,
Roma 2013, pp. 75-79.
13. Renato Bocchi, relazione al Convegno
Re-cycle Op-Positions, Venezia, Palazzo
Badoer, 4 aprile 2014.
14. In questo scritto si assume l’articolazione paradigmatica del progetto architettonico e urbano proposta da C. Cozza nella sua
tesi dottorale: paradigma urbano o di ordine
superiore – modello che gestisce il funzionamento della città o del territorio per un
dato periodo storico, in cui convivono diversi paradigmi spaziali originati in epoche
diverse ma che si trasformano nel tempo
assumendo nuovi significati simbolici e
funzionali; paradigma spaziale – spazialità
differenti che caratterizzano e compongono
un certo paradigma urbano; paradigma
progettuale – modalità della progettazione
(cosa modifico e come lo modifico) valide
entro un determinato paradigma spaziale;
paradigma sintattico – forma sintattica di
riferimento, legata alla moda o allo stile,
che implica componenti soggettive autoriali
e componenti artistiche e culturali.
Cassandra Cozza, Paradigmi per il progetto
della città contemporanea, DrPAU – XX ciclo,
158
DiAP, Politecnico di Milano, 2008.
15. Per approfondimenti si veda E.
Schrödinger, Che cos’è la vita? La cellula
vivente dal punto di vista fisico, Adelphi,
Milano 1995; citato in E. Tiezzi, Che cos’è
l’entropia, http://hannibalector.altervista.
org/che-cos%E2%80%99e%E2%80%99l%E2%80%99entropia-di-enzo-tiezziuniversita-degli-studi-di-siena/.
16. M. Augè, Le temps en ruines, Édition
Galilée, Paris 2003; tr. it., Rovine e macerie.
Il senso del tempo, Bollati Boringhieri,
Torino 2004.
17. A. Tarpino, Spaesati. Luoghi dell’Italia in
abbandono tra memoria e futuro, Einaudi,
Torino 2012, pp. 29-30.
159
SGUARDI
ROVESCI,
STRABICI
Emanuel Lancerini
>IUAV
Re-cycle è ecologico perché concatena materiali esistenti, ma dimenticati o che sembrano aver perso senso e valore nelle dinamiche dell’oggi,
all’interno di sistemi aperti e dinamici. Abbandonando logiche settoriali
e superando steccati disciplinari, progetta nuovi cicli di vita individuando
i materiali sopra richiamati come possibili risorse in processi economici
emergenti. Aspirando a promuovere una maggiore qualità della vita.
La forza di Re-cycle consiste anche nella sua capacità di implementarsi
nei dispositivi della comunicazione. È un precetto agile, comprensibile,
condivisibile, che può facilmente circolare nelle piattaforme mediatiche
contemporanee, da Internet alla televisione, dalla radio alla carta stampata. Può sembrare una ovvietà, ma è bene ricordare che un pensiero
quanto più riesce ad agganciarsi alle piattaforme mediali tanto più riesce
ad essere efficace in termini di presenza critica e di proposta alternativa.
In questi ultimi anni caratterizzati dalla crisi economica che si è anda-
160
ta a sovrapporre alla meno recente crisi ambientale (la prima ondata di
emergenza ambientale planetaria risale al 1972 con il rapporto del Club di
Roma sullo stato del pianeta), Re-cycle è usato efficacemente nelle proposte programmatiche che hanno occupato lo spazio lasciato libero dall’indebolirsi del mito della crescita. Re-cycle è presente sia nelle 8R della
Decrescita sia nelle "tre R" della Green Economy. Anche se non possiamo
definire un rapporto diretto tra stati di crisi e pratiche di riciclo, sembra
legittimo evidenziare come gli choc ambientali ed economici ai quali è sottoposta la nostra società producono, sul piano della comunicazione spontanea, categorie di reazione le quali finiscono per essere assorbite dalla
comunicazione ufficiale e Re-cycle è sicuramente una di queste. Tuttavia,
se agli choc ambientali è sottoposto l’intero pianeta, non possiamo dire
lo stesso per la crisi economica che, pur irrobustendo la consapevolezza
collettiva e ridefinendo globalmente alcune dinamiche, assume esiti differenti al variare dei contesti sociali, culturali e territoriali sui quali impatta.
Allo stesso tempo è bene ricordare che il riciclaggio è una pratica comune
161
nella storia dell’uomo, offuscata in spazi e tempi di benessere, rilanciata
quando le risorse scarseggiano.
Al momento, quindi, Re-cycle può apparire come una sorta di brand che
rende riconoscibile una certa critica ecologica ed economica, la cui rilevanza varia al variare di contesti locali ai quali si riferisce, nel mondo della
comunicazione dove si fa l’economia e la politica. Destino delle culture
formalizzate come tali, è però quello di assorbire e legittimare sensibilità
teoriche tra loro anche estremamente differenti. Il rischio è quello di contrapporre un mito ad un altro mito. Dove per mito intendo qui un efficace
marchio di comunicazione al quale aderiscono culture e pratiche divergenti in cui è marcato l’elemento simbolico, indefinito quello culturale e
spesso inerte la dimensione che rimanda alle pratiche.
Per far emergere terreni controversi di pensiero, uscire dall’indeterminato in cui rischia di avvitarsi Re-cycle in quanto brand, delineare differenze tra territori e paesaggi, prospettare alternative teoriche, sfuggendo
al sincretismo, è importante occuparsi delle pratiche che sostanziano il
nostro operare. Nel tentativo di cogliere contemporaneamente gli aspetti
fisici e mentali, la pluralità di storie di ridefinizione del nostro abitare la
terra, bisogna mettersi in viaggio. È un viaggio dove a volte non ci si muove
eppure si è nomadi abitando periferie e osservando il centro attraverso
uno sguardo rovescio, strabico. È in questa sfasatura dello sguardo che
possiamo ritrovare la capacità di leggere i materiali e i processi, che danno forma alla terra non per differenza, ma per temporanee relazioni di
complementarietà.
I mezzi che usiamo per spostarci modificano la nostra percezione. In treno il mondo appare immobile, in auto foriamo il paesaggio, in aereo tutto
diventa tempo, in bicicletta siamo dentro i luoghi, ma «mai come quando
andiamo a piedi il nostro modo di guardare si avvicina alla realtà indissolubile del mondo. Uno sguardo oltre lo sguardo: senza filtri, senza obiettivi, senza inquadrature. Non a caso credo che passeggiare sia il modo di
spostarsi più interessante anche per chi non vede. Ma perché la magia si
sprigioni, bisogna aver appreso i segreti dell’arte. Il glaucoma del turista
– che vede soltanto ciò che ha già visto in foto o nelle parole di una guida
– e la cataratta del pilota – che ci tormenta anche quando non siamo al
volante – sono sempre in agguato per confonderci la vista. Andare a piedi
non basta, e la lentezza non è solo questione di chilometri all’ora […].»
162
(Wu Ming 2, in L. Gianotti, L’arte del camminare, Ediciclo, Portogruaro 2011).
Si elaborano così forme descrittivo-interpretative, veri e propri progetti
d’indagine che aspirano ad andare in profondità dentro il paesaggio, come
apporto dei materiali fisici scartati alla definizione delle forme della terra.
Di fatto esistono territori che, se guardati attraverso le carte di analisi finora prodotte, vengono rappresentati come sostanzialmente "vuoti", privi
di interesse urbanistico, di un qualche valore omogeneo alle descrizioni che dello spazio urbano normalmente si usano restituire. A guardare
bene, tuttavia, è proprio nello scarto prodotto da queste sovraesposizioni
che c’è tempo e modo perché accadano cose nuove. Dalla superficie delle
cose è necessario muoversi attraverso un paesaggio intricato di segni per
cogliere le tracce di innovazione territoriale e provare così a restituirne
mappe invisibili. Le vere cartografie che dobbiamo sempre immaginare
per restituire abitabilità alla terra sono quelle di territori a venire, nuovi orizzonti su aspetti inattesi del reale. Ma come rappresentare questa
sfasatura, quello che è altro o che semplicemente sfugge ad uno sguardo normato dalla consuetudine alla sovraesposizione? Nei vecchi atlanti i
"buchi", ciò che non si conosceva, venivano colmati con dei mostri. Draghi
paurosi e fiere feroci erano posti a custodi dell’impossibilità o incapacità
di descrivere, misurare e restituire delle conoscenze. Come i mostri dei
vecchi atlanti, questi scarti ci raccontano di sguardi che devono essere
affinati, di strumenti disciplinari da ridefinire, di spostamenti di interessi e
azioni, di traslazioni di senso, di frizioni e conflitti.
Innescando relazioni tra sistemi apparentemente in conflitto, Re-cycle
restituisce un senso e un significato che va oltre il senso comune delle
immagini consolidate. Si fanno emergere strati e materiali nascosti, ma
fluttuanti nel tempo e nello spazio tentando di restituirne, più che la precisione tecnica, il respiro.
Il progetto parte quindi dal riconoscimento collettivo del fatto che uno
scarto può essere risignificato e rivalorizzato attraverso un nuovo concatenamento tra saperi e poteri differenti. Utilizzando uno sguardo inclusivo,
scarti e frammenti, esito di progetti settoriali, si ricompongono all’interno
di una nuova ecologia. Una nuova geografia relazionale che insiste sui tre
elementi regolatori della vita umana, ma anche del divenire della natura:
complessità, diversità e simbiosi.
In questo senso possiamo ritrovare un essere ecologico di Re-cycle che
non si esprime tanto nell’assumere e ricercare una normatività della na-
163
tura sui processi e sui comportamenti umani, sulla definizione delle nostre pratiche, ma piuttosto nella sua capacità di far proprio e valorizzare
il concetto di biodiversità. Una capacità che scaturisce da un diverso dislocamento delle fasi di accumulazione del mercato, dalla formazione di
processi di riappropriazione di porzioni di territorio e di pratiche collettive di condivisione degli stessi (F. Guattari, Le tre ecologie, Sonda, Casale
Monferrato 1991).
Re-cycle non è tanto un nuovo paradigma regolatore di una ecologia comune al mondo naturale e a quello umano, quanto fattore propulsivo di
un nuovo rapporto equilibrato con la biodiversità che prende le mosse
all’interno di particolari istanze localmente condivise. Al di fuori da ogni
determinismo, queste azioni posso anche apparire instabili e perverse,
piuttosto che ecologicamente dettate da una visione profonda della natura, ma sicuramente scommettono su un alto tenore di vita. Essere capaci
di elaborare ed offrire una diversa e superiore qualità dell’abitare è una
sfida che ci riguarda profondamente.
Indagando i luoghi dell’abitare contemporaneo e le nuove modalità di fruizione del territorio, Re-cycle investe su ritmi particolari, su velocità tra loro
complementari e paesaggi nascosti aspirando ad una più alta qualità della
vita come motivo di un agire collettivo, un progetto territoriale politico e
sociale in grado di giustificarsi con i propri risultati e la propria positività.
Frequentare luoghi scartati porta ad incontrare strane storie di soggetti
che rimangono radicati in ambienti plurali: urbani e rurali, turistici e industriali, agricoli e residenziali. E da essi riescono a prendere nuovo impulso
e nuova vitalità. Miscelando saperi antichi e accelerazioni tecnologiche si
favorisce la promozione di una complessità sociale e territoriale capace
di essere costituente nella costruzione di nuove storie della permanente
ri-creazione del mondo.
Un nuovo ciclo di vita è più intricato, più condizionato e più antico di quanto
appaia. Il "nuovo" ha bisogno anche di essere continuamente verificato,
rimesso in discussione e riproposto come progetto di ricerca, se necessario, ricalibrando l’interpretazione sottesa alle questioni sollevate.
È attraverso iniezioni di nuovi valori e significati e non di nuova rendita immobiliare che si possono attivare processi di Re-cycle in grado di conformare il nostro pensiero, le nostre città e i nostri paesaggi. Concatenando
istanze ecologiche e un’economia circolare basata sul recupero e riciclo,
procedendo per sottrazione, si può mette in campo un’idea di sviluppo
164
senza crescita quantitativa rilevante e a basso consumo di risorse ambientali. Studiando le dinamiche coevolutive tra i processi di globalizzazione e i rapporti che la società e gli individui intrattengono con lo spazio
vissuto, il nostro obiettivo può essere quello di mettere in luce il delinearsi
di una nuova geografia degli spazi dell’abitare, del lavorare e del tempo
libero concatenata a fenomenologie legate a stili di vita emergente. Recycle diventa allora metafora esplorativa che è anche progetto implicito,
capace di guidare l’esplorazione e delineare politiche, programmi e azioni
in grado di accompagnare le trasformazioni territoriali di alcuni particolari ambienti di vita. Territori sospesi in una condizione di sviluppo ancora
poco determinato, aperto verso traiettorie consuete od originali. Linee di
sviluppo non necessariamente migliori, ma forse più sostenibili, non al di
fuori dalle logiche capitalistiche più recenti, ma che ne affrontano strade
differenti. Declinando ambienti costitutivamente vari e plurali evidenziandone i caratteri di complementarietà piuttosto che di alterità, si ricerca
una rappresentazione della società contemporanea che superi l’idea di
frammento come unica rappresentazione e metodo di intervento possibile. Promuovendo pratiche di riappropriazione dei luoghi scartati, superando l’esasperazione dei micro diritti come bypass per interventi puntuali
privi di connessioni e orizzonte comune, si aspira a promuovere scenari di
riferimento condivisi, anche con forte impatto affettivo ed empatico, scartando il rischio di ogni avvitamento intimista.
Questo approccio si colloca all’interno di uno quadro disciplinare plurale
che ha a che fare con la storia lunga dello sviluppo del nostro paese, ma
evidenzia anche la necessità di strumenti e di politiche differenti in grado
di relazionarsi con il territorio a partire da un’immagine potenziale che
Re-cycle può offrire dello stesso.
Un nuovo ciclo di vita non può darsi al di fuori del conflitto originario e
Re-cycle non può esaurirsi nell’essere marchio di comunicazione: deve
mirare ad articolare una precisa idea politico-culturale. Le culture del
progetto per loro natura dividono proprio perché prendono posizione, da
qui possiamo riaprire una discussione sul ruolo civico del nostro operare,
sulla necessità di una politica del mestiere, che permetta al racconto della
nostra disciplina di dare inizio a un’altra narrazione del presente.
Immagine
Cristian Guizzo, Busche 2013
165
Oltre le retoriche del
green e dello smart
ci sono un’economia e
un’urbanistica fatte di
manutenzione innovativa e
trasformatrice
1
Arturo Lanzani
>POLIMI
Una crescita senza senso
In Italia e in Europa, come urbanisti siamo oggi chiamati a operare in un
contesto radicalmente diverso da quello in cui abbiamo operato negli
ultimi due secoli: non più una condizione di crescita dell’urbanizzazione sufficientemente correlata ad una crescita della popolazione (ormai
spesso stazionaria) e tanto più del suo benessere (in prima istanza con
il miglioramento delle condizioni abitative, ma anche per tutto il "secolo breve" dello spazio e dei servizi pubblici urbani); non più una crescita
dell’urbanizzato che non genera spazi abbandonati e sottoutilizzati se non
in quantità irrisorie e in regioni marginali e di abbandono; non più una
crescita dell’urbanizzato necessariamente correlata alla crescita dell’occupazione, della produzione e dei redditi nelle città e nelle nazioni; infine
non più una crescita dell’urbanizzato come condizione comune alla quasi
totalità del sistema urbano.
166
L’economia "normale"2 – assieme all’urbanistica e all’architettura che
l’accompagnano – continua a promuovere un ciclo di ulteriore crescita
dell’urbanizzato e di nuove edificazioni e infrastrutturazioni. Incrementando come per altri "prodotti" la veloce obsolescenza dello stock già costruito attraverso la promozione di nuovi modelli insediativi – anche solo illusoriamente – green e smart, disinteressandosi del consumo delle risorse da
utilizzare per produrre i nuovi prodotti in sostituzione di quelli precedenti,
come pure disinteressandosi del destino dei rifiuti edificati e infrastrutturali
lasciati al suolo (nonché dei suoli scartati). È anche per questo strutturale
funzionamento dell’economia "normale" – e non solo per l’arresto della
crescita demografica e/o la crisi economica di alcuni territori – che nel
nostro lavoro ci troviamo sempre più spesso a confrontarci con spazi ed
edifici dismessi e sottoutilizzati: vecchie fabbriche, ma anche nuovi box
produttivi prefabbricati, i piani terra commerciali del tessuto compatto,
ma anche centri commerciali velocemente invecchiati, sedimi ferroviari,
distributori di carburanti, caserme, quartieri pubblici non più a norma ed
edifici privati di sempre più difficile manutenzione.
Seguendo le posizioni di Augé e Picon possiamo distinguere due famiglie
di tali materiali.3 Una prima famiglia di "rovine": depositi fisici di un secolare processo di antropizzazione, pensati e prodotti generalmente come
beni durevoli, oggi localizzati anche nelle aree di sviluppo e non necessariamente solo nelle aree "interne" o "deboli". Una seconda famiglia di
"macerie": depositi fisici di una fase di urbanizzazione più recente che
sono stati pensati e prodotti come beni che rispondono (a tempo) a domande emergenti (e spesso ricchi di materiali non metabolizzabili), localizzati quasi esclusivamente nelle aree di sviluppo a forte urbanizzazione.
Economia ecologica, economia dei beni relazionali e urbanistica
dell’ambiente e del paesaggio
Un approccio all’urbanistica che possiamo definire "economico-ecologico" – sulla scia delle riflessioni di Roegen e Nebbia4 – muove proprio dai
due elementi che abbiamo detto essere strutturalmente esclusi dall’economia "normale" e dalla prassi urbanistica ed architettonica dell’ultimo
trentennio: "a monte" la riduzione del prelievo di risorse finite (suolo
e materiali da costruzione), "a valle" il riciclo e/o lo smaltimento degli
scarti. Non considera lo spazio come un puro supporto di beni semplici
– o complessi che siano – ma in coerenza con alcune delle più originali
167
tradizioni di pensiero urbanistico e geografico come un ambiente e come
un paesaggio (dove paesaggio è inteso in un’accezione più vicina alle
posizioni di Berque e Besse,5 e non certo a quelle di Roger6 che consente agli architetti di far proprio il paesaggio senza nessun reale ripensamento del proprio lavoro). Un’urbanistica dell’ambiente e del paesaggio
"congruente" a quelle riflessioni economiche (ma anche a quei settori
dell’economia che si sono soffermate sul ruolo dei beni relazionali e sul
capitale sociale sulla scia di Sen, Ostrom e Putnam) non opera quindi tanto attraverso la produzione di nuovi beni – quant’anche essi siano nelle
loro prestazioni green o smart – ma muove piuttosto da ciò che c’è, dalla
sua manutenzione, dalla sua cura e dal suo riuso e/o da una sostituzione "programmata" in sito dei manufatti abbandonati che ricicli e rigeneri
parti, componenti o materiali di ciò a cui si sostituisce (e naturalmente i
suoli di origine, rinaturalizzandoli, se diversamente ubicata).
Ciò detto, in quanto urbanisti, esistono a nostro parere due principali modi
di porsi "ecologicamente" nei riguardi di manufatti e suoli dismessi e abbandonati (e solo parzialmente correlati alla distinzione tra rovine e macerie) che dovremo sempre più sviluppare nei prossimi anni.
Un primo modo vede questi oggetti come "prese" per un differente sviluppo, facendo proprie non solo le riflessioni più alte sul riuso degli anni Settanta-Ottanta7, ma anche quelle più recenti che prevedono usi temporanei
in combinazione tra recupero di parte di edifici esistenti – o di suoli edificati – e infiltrazioni-aggiunte di nuovi elementi.8 In altri termini i suoli e i
manufatti abbandonati non vanno osservati secondo la logica strumentale
più consueta, ma piuttosto osservando il potenziale, la resilienza, l’inerzia,
la "vita" in essi incorporata e le dinamiche d’uso che potrebbero indurre,
generare e attivare9.
Un secondo modo vede questi oggetti come "rifiuto", riconoscendo una
fondamentale discontinuità realizzatasi nel corso del Novecento anche nel
campo edile con il moltiplicarsi dei prodotti ricchi di sostanze di sintesi
(come le plastiche) ignoti ai cicli ecologici e non metabolizzabili grazie alla
azione di organismi capaci da fungere da saprofiti.10 Questi oggetti obsoleti vanno inglobati quando non inquinanti per quanto possibile nei nuovi
manufatti che li sostituiscono, oppure vanno considerati come elementi
da rimuovere dai suoli che occupano, per consentire dinamiche di rinaturalizzazione ed ecogenesi, e recuperando eventualmente altrove tanto la
loro materia non inquinata – ad esempio attraverso un riciclo degli inerti
168
prodotti dalla demolizione – quanto il loro volume – attraverso un eventuale trasferimento dei diritti volumetrici in altri ambiti ed edifici.11
Nove punti di svolta nel fare urbanistica
Facendo propria questa impostazione possiamo allora provare a segnalare nove punti di svolta nel fare urbanistica, che hanno ricadute sul fare
architettura.
1. Nella politica economico-territoriale serve sempre meno interrogarsi
sui provvedimenti da attuare per estendere lo "sviluppo" in un territorio
secondo una prospettiva esogena economico-funzionalista – ivi inclusi usi
del suolo e possibile infrastrutture – come serve sempre meno interrogarsi sull’esclusivo accompagnamento di dinamiche di sviluppo endogeno
spesso ecologicamente distruttivo, secondo una prospettiva distrettualeterritorialista. Piuttosto occorre interrogarsi maggiormente su quale sviluppo sia compatibile con la manutenzione, la cura e il riuso innovativo e/o
con il riciclo o lo smaltimento dei manufatti, in una logica di attrazione e
attivazione di "economie" in cerca di particolari configurazioni del capitale
territoriale. Muovendo dalle riflessioni di Antonio Calafati nella direzione
di quelle di Giuseppe Dematteis, e dando forse qualche spazio non velleitario all’idea di una costruzione di una committenza secondo la prospettiva di Giancarlo De Carlo.12
2. Sono sempre meno utili nel nostro lavoro prospettive di dilatazione
dell’urbanizzazione: dobbiamo al contrario concettualizzare lo spazio
urbanizzato come un lago, come un sistema dinamico, aperto, in continua trasformazione, ma non più in crescita.13 Parallelamente dobbiamo
pensare spazi che riescano a diventare urbani senza urbanizzazione, riconoscendo forme di mixité tra natura, ruralità e urbanità in ogni contesto
di vita. In questa prospettiva vanno viste sia le riflessioni su reti verdi e
campagne urbane, sia quelle sulle possibili condizioni di vita urbane in
montagna e nelle "aree interne" che ne consentono il necessario presidio.
3. Nel fare urbanistica, l’individuazione di ambiti di espansione perde rilevanza rispetto non solo e non tanto all’individuazione degli ambiti di rigenerazione-ristrutturazione urbanistica, dentro una comunque tradizionale
distinzione tra tessuti consolidati e aree di trasformazione (potremmo dire
che oggi non esistono più tessuti consolidati). Ma perde rilevanza anche e
soprattutto di fronte alla necessità d’individuazione di parti estese del territorio e del costruito ove regolare in forme radicalmente nuove un’este-
169
sa ma incrementale metamorfosi: di fronte all’individuazione di ambiti di
densificazione (magari per l’ottima accessibilità) e di rarefazione (magari
perché aree di esondazione, o di ricostruzione di forti conduzioni di ruralità-naturalità, o di insostenibile manutenzione delle reti sottoutilizzate), da
gestire con strumenti di trasferimento delle volumetrie.
4. Nella regolamentazione delle trasformazione edilizie nello spazio già
urbanizzato, diventano allora fondamentali due aspetti. In primo luogo la
valutazione dell’impatto ecologico dell’operazione di sostituzione edilizia
rispetto a quella di miglioramento dell’edificio esistente, con una valutazione energetica che consideri non solo il funzionamento dell’edificio
ma l’intero ciclo (dal prelievo di risorse finite allo smaltimento dei detriti da demolizione). In secondo luogo l’incontro tra la normativa tecnicoecologica e quella architettonico-paesaggistica nel pensare traiettorie di
miglioramento ecologiche plurali, che rafforzino la presenza di ambienti
di vita e di lavoro differenziati. In tutti i casi, questi due aspetti spingono
a un ripensamento delle tradizionali classi d’intervento edilizio e alla critica di alcune loro recenti ridefinizioni (ad esempio la ridefinizione della
ristrutturazione fatta nel testo unico dell’edilizia) valorizzando le possibilità
di recuperi parziali abbinati a inserimenti di nuovi elementi e in relazione
all’eventuale trattamento/riciclo in loco dei detriti da demolizione.
5. Lo strumento della perequazione urbanistica perde rilevanza – anzi oggi
rischia di alimentare una crescita senza senso – o perlomeno va radicalmente ripensato. Da un lato esso va riconcettualizzato in riferimento alle
dinamiche di trasferimento delle volumetrie reali (nelle aree di origine e
in quelle di destinazione), per cui non si costruisce più solo "in cambio di
aree", ma anche a condizione che si rinaturalizzino aree ed edifici abbandonati altrove. Dall’altro lato l’acquisizione di aree dove disegnare corridoi
verdi, parchi e ambiti di agricoltura urbana può avvenire attraverso la cessione di aree ubicate altrove in occasione di radicali ristrutturazioni urbanistiche – una forma cessione che si configura come condizione di fattibilità e non come premio volumetrico da fare ricadere sulle stesse – come
attraverso l’alienazione di patrimoni edificati pubblici non indisponibili (in
questa prospettiva il patrimonio va alienato non per "far cassa", ma per
rinnovare il capitale fisso sociale anche attraverso l’acquisizione di aree di
rilevanza pubblica strategica).
6. Nel promuovere un efficace metabolismo urbano perde rilevanza l’insieme dei premi volumetrici per come oggi sono intesi e utilizzati. Da un
170
lato, per disincentivare nuove urbanizzazioni è necessario tornare a porre
vincoli più stringenti, aumentare i costi relativi con compensazioni ambientali e/o vincolarli alla rigenerazione di suoli edificati o degradati. Sul
versante opposto, per incentivare le operazioni di trasformazione sull’urbanizzato esistente è necessario: I. introdurre più marcate differenziazioni
negli oneri di urbanizzazione, anche in relazione alle nuove tipologia di
intervento sul costruito (in ragione del bilancio ecologico); II. introdurre
una tassazione sugli immobili differenziata, in relazione all’uso del patrimonio (oggi solo parzialmente presente); III. introdurre esenzioni fiscali
temporanee non più in modo indifferenziato per tutto il nuovo costruito,
ma per i soli interventi di rinnovo edilizio; IV. introdurre agevolazioni attraverso normative ambientali e di sicurezza differenziate per forme d’uso
temporaneo e per azioni parziali di miglioramento.
7. Nella definizione di dotazioni, infrastrutture, attrezzature urbane è
sempre più necessario superare normative generalizzanti ed omogenee,
e pensare per contro a una pluralizzazione dei modelli urbanistico-infrastrutturali di mobilità, di approvvigionamento energetico, di trattamento
delle acque e di smaltimento dei rifiuti nei differenti territori – anche in
relazione alle scelte di densificazione e rarefazione degli stessi, già richiamate. Ad esempio la ristrutturazione edilizia o l’edificazione in zone rade
può essere subordinata all’adozione di severe misure di autosufficienza
nei cicli dell’energia, del trattamento delle acque e dei rifiuti. Per contro,
le operazioni edilizie attuate come densificazione in un’area già densa potrebbero essere subordinate all’allaccio a una rete di teleriscaldamento,
al convenzionamento con parcheggi esistenti e/o al finanziamento di una
rete di trasporto collettivo ad alta capacità.
8. Nella pianificazione dei servizi e nel progetto dello spazio pubblico dovremo più spesso occuparci della manutenzione straordinaria delle attrezzature collettive, in termini non solo tecnologico-ingegneristici, ma
anche e soprattutto come occasione di riforma del paesaggio urbano e
del modo di funzionamento della città entro forme di progetto "multifunzionali" e "integrate". Analogamente, dovremmo concepire il disegno dello spazio aperto vegetale non solo nei termini di uno spazio collettivo low
cost di cui valutare il ruolo indiretto nella promozione dello sviluppo e del
benessere, ma anche in relazione alle forme di welfare familiare che vi si
possono sviluppare (articolando la nozione di verde privato), ai più specifici servizi ecosistemici forniti (ossia in relazione alle esternalità positive
171
da esse prodotte), alle economie che su questi spazi si possono attivare
(ossia in relazione alle possibili nuove produzioni agroforestali attivabili a
fini energetici e/o alimentari).
9. Infine, occorre promuovere un ripensamento radicale della categoria
d’intervento del progetto urbano, per come lo abbiamo conosciuto attraverso la ricca produzione disciplinare e le numerose esperienze di rigenerazione che le città europee hanno ospitato già dagli anni Settanta.14 Sempre meno progetti che debbono concludersi, presupponendo una simultaneità di capitali, domanda immobiliare e gestione politica, ma progetti che
possono interrompersi e/o risultare parziali e provvisori, in un territorio
da regolare immaginandolo poroso, ricco di ambiti sottoutilizzati, e non
continuo e isotropo15.
Note
1. Le note seguenti sviluppano alcuni aspetti di una più ampia riflessione collettiva sul
progetto di riciclo dell’urbanizzato in Italia
svolta con C. Merlini, C. Mattioli e F. Zanfi.
Si rimanda al contributo di F. Zanfi e agli
altri due "manifesti" contenuti nel presente
volume.
2. Con l’espressione "normale" si fa riferimento "alla Kuhn" a un paradigma scientifico consolidato e standardizzato, che nel
pensiero economico corrisponde a una
sorta di sintesi tra l’economia neoclassica e
gli assunti della teoria keynesiana ad essa
non incompatibili, codificata in ogni manuale di micro e macroeconomia e nel discorso
economico ricorrente.
3. M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del
tempo, Bollati Boringhieri, Torino, 2004; A.
Picon, Tra utopia e ruggine. Paesaggi dell’ingegneria dal Settecento a oggi, a cura di E.
Piccoli, Allemandi, Torino 2006.
4. G. Roegen, Bioeconomia, Verso un’altra
172
economia ecologicamente e socialmente
sostenibile, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
G. Nebbia, Le merci e i valori. Per una critica
ecologica al Capitalismo, Jaca Book, Milano
2002. Si sottolinea che alcune riflessioni
dell’economia del benessere di Pigou e
keynesiane anticipino non poche considerazioni della bioeconomia di Rogen. E si
osservi come i temi ecologici siano centrali
nella tradizione dell’economia agraria classica (istituzionalista e territorialista).
5. A. Berque, La Pensée paysagère, Archibooks, Paris 2008; J. M. Besse, Vedere la
terra. Sei saggi sul paesaggio e la geografia,
Bruno Mondadori, Milano 2008 (2000). Sulla
stessa scia, in Italia, le riflessioni di G. Dematteis e M. Quaini.
6. A. Roger, Breve trattato sul paesaggio,
Sellerio, Palermo 2008.
7. Ad esempio quelle raccolte in AA.VV.,
Riuso e riqualificazione edilizia negli anni
ottanta, Franco Angeli, Milano 1981.
8. F. Haydn e R. Temel (ed.), Temporary urban spaces. Concepts for the use of city spaces, Birkhäuser, Basel-Boston-Berlin 2006;
I. Inti e V. Inguaggiato (a cura di), Riuso
temporaneo, in «Territorio», n. 56, pp. 14-94,
2011; P. Oswalt, K. Overmeyer e P. Misselwitz, Urban catalyst: the power of temporary
use, DOM, Berlin 2013.
9. R. Bodei, La vita delle cose, Laterza, Bari,
2008. Si veda anche F. Jullien, Trattato
dell’efficacia, Einaudi, Torino 1998 (1997).
10. K. Lynch, Deperire, Cuen, Napoli, 1992
(1990); G. Nebbia, cit., AA.VV. No Waste, in
«PianoProgetto Città» n. 27-28, 2014.
11. A. Lanzani, C. Merlini e F. Zanfi, Quando
«un nuovo ciclo di vita» non si dà. Fenomenologia dello spazio abbandonato e prospettive
per il progetto urbanistico oltre il paradigma
del riuso, in «Archivio di Studi Urbani e Re-
gionali» n. 109, 2014.
12. A. Calafati, Economie in cerca di città. La
questione urbana in Italia, Donzelli, Roma,
2010; G. Dematteis, Montanari per scelta.
Indizi di rinascita nella montagna piemontese, Franco Angeli, Milano, 2011; G. De Carlo,
L’architettura della partecipazione, a cura di
S. Marini, Quodlibet, Macerata 2013.
13. A. Lanzani, In cammino nel paesaggio.
Questioni di geografia e urbanistica, Carocci,
Roma, 2011. L’immagine del lago è ripresa
da G. Ruffolo, Lo specchio del diavolo, Einaudi, Torino 2006.
14. V. Gregotti, Identità e crisi dell’architettura europea, Einaudi, Torino 1999; AA.VV.,
Il disegno degli spazi aperti, in «Casabella»,
n. 597-598, 1993, doppio numero monografico; M. Solà Morales, Progettare città, in
«Lotus Quaderni», n. 23, 1999, a cura di M.
Zardini.
15. In questa direzione le riflessioni di
Clément e di Desvigne assumono un significato più generale per l’urbanistica, e
consentono un ripensamento e una radicalizzazione della stessa idea di progetto
di suolo formulata da B. Secchi nel corso
degli anni Ottanta.
173
Progetto e
rifiuti
Rosario Pavia, Matteo di Venosa
>UNICH
I rifiuti producono danni ambientali ed economici. Trasformarli in risorsa
richiede impegno civile e politico ma, soprattutto, un ambizioso progetto
culturale. I rifiuti da spazio materico da nascondere e allontanare devono
diventare parte visibile della città e del territorio. Le gestione dei rifiuti è
una rete che deve integrarsi con le altre reti della sostenibilità (reti energetiche, dell’informazione, della mobilità, della raccolta e smaltimento
delle acque, della sicurezza urbana) e produrre nuovi valori di qualità,
nuovi suoli e spazi pubblici per la città contemporanea. Le brevi note che
seguono raccolgono alcuni passaggi chiave del progetto di ricerca che si è
avviato a Pescara nell’ambito del programma Re-cycle Italy1.
I rifiuti come (nuova) questione ambientale
I rifiuti, un tempo integrati nei cicli di vita dei territori e delle comunità,
oggi non sono più assimilati e metabolizzati dall’ambiente. Spesso la loro
174
produzione supera la capacità di gestirli in modo efficace e sicuro.
Secondo il Rapporto dell’International Solid Waste Association (2012) ogni
anno il nostro Pianeta produce circa 4 miliardi di tonnellate di rifiuti (di cui
circa il 50% di rifiuti solidi urbani). Il dato è preoccupante soprattutto se si
considera che oltre la metà della popolazione mondiale (circa 3,5 miliardi
di persone) non ha accesso ai più elementari servizi di gestione dei rifiuti
che vengono, di conseguenza, prodotti e abbandonati con danni irreparabili sotto l’aspetto ambientale e sanitario.
La questione dei rifiuti coincide con l’emergenza ambientale e con un modello di sviluppo insostenibile: energivoro, socialmente discriminante, che
consuma suolo incurante dei suoi equilibri geo-ambientali. Un modello
che altera il rapporto tra uomo ed ambiente nei termini di reciproca capacità di adattamento e di sopravvivenza.
Il tema dei rifiuti assume una dimensione pervasiva, coinvolge l’intero Pianeta minacciandone la resilienza, la biodiversità e la capacità di autoproduzione. I rifiuti contribuiscono al surriscaldamento del pianeta, hanno
effetti negativi sulla salute umana, sulla qualità dell’aria, delle acque e
dei suoli2. Per la loro influenza sull’ecosistema, sulla salute e qualità delle
città e del paesaggio, i rifiuti vanno intesi come un bene comune attraverso
cui si realizza un nuovo diritto all’ambiente.
La gestione dei rifiuti, soprattutto quando si associa alle pratiche dell’illegalità, ha effetti sul grado di vulnerabilità dei sistemi territoriali. Tutto ciò
genera allarme e insicurezza sociale accentuando quei processi di esclusione e segregazione di comunità e territori. La questione dei rifiuti rientra
così nell’emergenza della questione sociale.
I rifiuti come risorsa
I rifiuti, da danno ambientale ed economico possono diventare una risorsa
in grado di orientare nuove forme di sviluppo sostenibile delle città e del
territorio. Una risorsa, non solo economica ed occupazionale3, ma anche
ambientale e paesaggistica le cui potenzialità morfogenetiche e relazionali qualificano i processi di trasformazione dei sistemi territoriali.
Tali ipotesi di lavoro intendono riscattare il settorialismo che molto spesso
connota gli approcci correnti alla pianificazione e gestione dei rifiuti (il
più delle volte affidati a procedure specializzate e modelli standardizzati),
per affermare al contrario la necessità di una maggiore integrazione tra
pianificazione dei rifiuti e politiche territoriali, tra gestione dei rifiuti e pia-
175
nificazione energetica ed ambientale.
In modo forse più ambizioso, la ricerca avviata a Pescara propone il superamento di una nozione di rifiuti come risorsa che emerge dal recente
dibattito sulla green economy e sulle smart cities in cui si sottolineano le
molteplici potenzialità riutilizzative dei rifiuti nei campi dell’energia, della
innovazione tecnologica, della produzione di materiali…
Riportare il tema dei rifiuti, all’interno della piano e del progetto significa
assumere una visione condivisa di sviluppo della città e del territorio che
faccia leva sui rifiuti e sulla loro integrazione con le altre reti della sostenibilità (in particolare, le reti dell’acqua, energia, mobilità e sicurezza
urbana), per innescare un processo di riequilibrio ambientale e di rigenerazione ecologica del territorio.
Non si tratta solo di promuovere una gestione più coordinata dei diversi
cicli di vita della città per rendere più sostenibile il funzionamento dell’organismo urbano, quanto di esplorare attraverso progetti di rete ed opere
di qualità, le inedite potenzialità configurative che tale modello di funzionamento è in grado di esprimere.
Rifiuti e filiere
La gestione dei rifiuti risponde a complessi meccanismi di funzionamento
interno. Le differenti logistiche si specializzano rispetto alle tipologie dei
prodotti. Le razionalità di filiera orientano scelte e processi localizzativi
che sfuggono a qualsiasi intenzionalità progettuale.
Il riconoscimento di tale complessità ha richiesto, sin dalle fasi di avvio
della ricerca, un notevole impegno descrittivo. Parlando di rifiuti, si è sentito il bisogno di identificare, classificare, costruire repertori. Le reti dei
rifiuti non sono adeguatamente rappresentate nella cartografia ufficiale.
La loro ingombrante assenza testimonia il disinteresse del piano e del
progetto. Un obiettivo della ricerca è tentare di rappresentare queste reti
invisibili. Le prime mappe fanno emergere una inedita geografia topologica e relazionale che soppianta ogni retorica cartografica: flussi, grafi,
punti, campi di relazione eterogenei e variabili. Le reti dei rifiuti si sovrappongono ad altri territori di scarto: tessuti storici abbandonati, aree
produttive dismesse, siti inquinati ed insicuri. Territori fragili, terre mobili,
anch’essi attendono un progetto di riciclo e di rigenerazione ambientale.
L’unità di ricerca pescarese si occupa, in modo particolare, di Rifiuti Solidi
Urbani (RSU, codice CER, Allegato D, Dlgs n. 152/06)4. L’Abruzzo è il campo
176
di osservazione e di sperimentazione.
Lo studio delle logistiche dei rifiuti ha messo in evidenza la nozione di filiera. La filiera è un ingranaggio di una catena di operazioni che coinvolgono
l’individuo, la società, la città ed il territorio. La filiera è un processo che
inizia nell’ambito residenziale, prosegue con il conferimento delle diverse
frazioni di rifiuti in strada o in depositi temporanei di quartieri (isole ecologiche); di qui le frazioni (vetro, carta, imballaggi…) vengono trasferiti in
centri specializzati (Centri di Trattamento Meccanico Biologico, CTMB) per
l’avvio al riciclo. Poi i prodotti selezionati vengono avviati verso le aziende produttrici. Un nodo importante della filiera è costituito dalla stazione
ecologica per la raccolta dei rifiuti ingombranti.
L’analisi delle filiere, se da un alto mette in risalto la complessità dei meccanismi organizzativi e gestionali, dall’altro ne evidenzia la natura settoriale ed autoreferenziale. La filiera è una macchina banale che si accosta e
si sovrappone ai territori, che non si integra con la città e con i paesaggi,
con i loro cicli e metabolismi. Gli impianti di filiera sono opere settoriali e
misconosciute. Le filiere, spesso, sono reti invisibili.
Un territorio di rifiuti
La nozione di metabolismo urbano permette di inquadrare la questione dei
rifiuti in un’accezione ancora più ampia. Il tema dei rifiuti, infatti, non si
esaurisce con la gestione della spazzatura.
I rifiuti non sono altro che l’esito (lo scarto) di un processo di produzione e
di consumo. Anche la città ed il territorio con i loro processi di funzionamento e di trasformazione producono scarti e rifiuti. Sono i paesaggi dei
drosscape, delle cave dismesse, delle aree inquinate, delle infrastrutture
realizzate e mai utilizzate. Sono, inoltre, i territori abbandonati perché insicuri dal punto di vista geo-ambientale: scarpate e versanti franosi, aree
in erosione, zone esondabili e geologicamente attive. Linee di faglia, pieghe e fratture – terre mobili – restituiscono la complessità della geografia
tettonica del nostro Paese e permettono, nel contempo, di valutare il grado di instabilità e di pericolosità dei fenomeni naturali ad esse associati.
L’elevata vulnerabilità ambientale del nostro Paese produce territori fragili ed insicuri; paesaggi degradati ed abbandonati; anch’essi diventano rifiuti e scarti. I territori fragili vanno intesi come geografie complesse nelle
quali i luoghi abbandonati si affiancano e si sovrappongono alla struttura
ambientale instabile e dissestata.
177
L’interpretazione estensiva di rifiuti articola ed arricchisce la rappresentazione delle mappa dei rifiuti; quest’ultima tende ad articolarsi in strati
e livelli tematici. Ogni strato raccoglie scarti e rifiuti affini per tipologia di
prodotti e modalità di gestione. Nei differenti livello è possibile osservare
il funzionamento di filiera ma anche le relazioni che queste stabiliscono con contesti paesaggistici attraversati. La rappresentazione permette
inoltre di leggere le relazioni trasversali tra i vari strati: le reti dei rifiuti
solidi urbani intersecano quelle di gestione delle macerie da crollo e da
demolizione; queste ultime si intrecciano con i paesaggi fragili, insicuri ed
abbandonati…
I rifiuti come infrastrutture ambientali
La gestione dei rifiuti incide direttamente sulla qualità del territorio, del
paesaggio, della città, tuttavia continua ad essere una attività settoriale,
al di fuori del piano (territoriale urbanistico) e del progetto di architettura.
La questione dei rifiuti è interna alla problematica ambientale ed energetica; nello stesso tempo è il risultato di processi di produzione e di consumo. Le nuove istanze ambientali impongono una profonda trasformazione
nei modi di produzione, di consumo, di gestione dei rifiuti e di produzione
dell’energia (terza rivoluzione industriale).
Il progetto dovrà dare forma e qualità ad un nuovo rapporto tra reti naturali
e reti artificiali. Non è solo un problema di integrazione ma di sovrapposizione, di regolazione dei reciproci metabolismi e cicli di vita, di strutturazione dello spazio, di visione condivisa di sviluppo.
La ricerca sviluppa la nozione di infrastruttura ambientale. La gestione dei
rifiuti rappresenta una rete all’interno delle infrastrutture ambientali. È
necessario immaginare territori attraversati da reti infrastrutturali e ambientali insieme. Reti artificiali che si naturalizzano e reti naturali che si
rafforzano attraverso la scienza e la tecnologia. Un sistema di grandi reti
interconnesse tra loro e a quelle minori dei territori locali.
Per l’urbanistica e l’architettura si impone una profonda revisione dei propri statuti disciplinari. È la forma del progetto che deve cambiare ricercando un nuovo equilibrio con la natura, con i suoi metabolismi, con le sue
leggi e con le sue reti vitali. Il progetto deve incorporare i processi metabolici degli oggetti e degli spazi sviluppando le suggestioni che provengono
dal design strategico e della blue economy.
Espressioni come zero rifiuti, dalla culla alla culla, sono obiettivi che ri-
178
chiedono un cambio di paradigma, nella progettazione e nella produzione di manufatti, nello smaltimento degli scarti e nel loro riciclo. La questione dei rifiuti impone una visione di insieme. Esige che il prodotto sia
già pensato per essere riciclato o riassorbito dall’ambiente. Oggi siamo
solo all’inizio, il consumo e il processo di produzione rilasciano rifiuti che
debbono essere selezionati e trattati prima di poter essere riciclati. Per
questo è importante gestire con efficienza le loro filiere, intenderle come
infrastrutture ambientali i cui flussi e impianti si distendono sul territorio
aumentandone la resilienza e la qualità.
Note
1. L’unità di ricerca di Pescara, coordinata
dal prof. Rosario Pavia, è composta da
Stefania Camplone, Antonio Clemente,
Matteo di Venosa e Raffaella Massacesi.
2. La gestione dei rifiuti contribuisce dal
3 al 5% alle emissioni di gas serra del
Pianeta.
3. Nel 2008, una ricerca della Commissione
europea dal titolo Getting gold from garbage.
How some Members States are making
waste a resource ha stimato il valore del
settore dei rifiuti in 148 miliardi di euro e in
2 milioni di addetti.
4. I Rifiuti Solidi Urbani rappresentano
circa il 20% del totale dei rifiuti prodotti
ogni anno nel nostro Paese (160 milioni di
tonnellate nel 2010).
179
Il paesaggio che resiste:
Re-cycle come attitudine
Cristina Sciarrone
>UNIRC
Tra l’immagine della periferia urbana e quella del tumore
esistono evidenti analogie: in entrambi i casi vi era uno spazio ancora sano
in cui erano state realizzate una molteplicità di strutture molto diverse
anche se sottilmente differenziate fra loro e reciprocamente complementari,
il cui saggio equilibrio poggia su un bagaglio di informazioni
raccolte nel corso di un lungo sviluppo storico.
Konrad Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà
Re-cycle può essere interpretato come un’attitudine economico-ecologica
che, rappresentando una forma di resistenza a fenomeni di diffusione urbana a carattere distruttivo, propone un’alternativa per territori difficili.
Il fenomeno di esplosione urbana può essere descritto, riprendendo la
definizione di Alan Berger, attraverso l’accostamento al termine “città”
dell’aggettivo “orizzontale”, che rimanda, da un lato, ad un’organizzazione
180
spaziale sviluppata secondo una direzione prevalente, e dall’altro ad un
implicito riferimento all’idea di superficie.1 L’orizzontalità, quindi, rappresenta una caratteristica intrinseca del fenomeno urbano contemporaneo
e ciò induce ad attribuire al paesaggio il ruolo di sistema di mediazione tra
l’espansione pervasiva del tessuto edificato e la conseguente frammentazione di quello agricolo.
Franco Zagari utilizza l’espressione «paesaggi di città non città»2 in riferimento a quei luoghi liminari dell’urbano contemporaneo che appaiono
come spazi di transizione, territori fertili per il proliferare di stati di tensione prodotti dalla presenza simultanea di situazioni, fenomeni e processi
differenti e talvolta contraddittori. All’interno di queste zone d’instabilità lo
scarto emerge come prodotto rifiutato della città orizzontale, delineando
una nuova categoria di paesaggio descrivibile attraverso concetti di residualità, abbandono e rifiuto.
Zygmunt Bauman3 spiega che qualsiasi operazione ordinatrice dello spazio inevitabilmente produce scarti, luoghi ambivalenti in cui allo stato di
abbandono si contrappone un senso di attesa su cui occorre fare leva,
riconoscendovi la prefigurazione di possibilità future.
In questi contesti marginali della città contemporanea, il concetto di Recycle rappresenta una vera e propria pratica di cura in grado di rispondere a quel fenomeno di antropizzazione malata che Eugenio Turri descrive
come un’escrescenza,4 all’interno del quale la presenza di spazi di scarto
si configura come la principale risorsa, in virtù dell’alto potenziale di stimoli vitali che ad essi si associa.
Il ricorso alla metafora della complessità consente una decodificazione
efficace dei territori urbani di transizione che utilizza come riferimento il
paesaggio in quanto parte resistente all’interno del fenomeno della città
orizzontale; emergono quindi alcune proprietà dei sistemi complessi, quali non linearità, autorganizzazione, evoluzione e relazione tra le parti che
spiegano e motivano quello che apparentemente risulta essere uno stato
caotico ed illogico. La resistenza alla diffusione urbana orizzontale si manifesta attraverso le field conditions teorizzate da Stan Allen5,che alludono
a rapporti di interscambio tra singoli frammenti di un’ipotetica matrice
composta dagli spazi aperti del sistema urbano e che tengono conto di
una fenomenologia attiva e vitale di cui occorre comprendere le ragioni.
Il riferimento alla complessità consente quindi di spiegare alcuni comportamenti spontanei attribuendovi il ruolo di processi autorganizzativi
181
intrinseci al sistema stesso, capaci di agire come forme di adattamento
alle perturbazioni esterne.
Individuando nella matrice degli spazi aperti la parte più resistente del
sistema-paesaggio si vuole sottolineare l’importanza di valori quali diversità e interazioni tra le parti. Ciò permette di riconoscere la presenza di
frammenti (spazi) posti in fasi differenti del proprio ciclo vitale (a causa di
fenomeni di natura diversa ma legati alla progressiva urbanizzazione del
territorio) che rappresentano la principale fonte di disequilibrio all’interno del sistema stesso. La compresenza simultanea di condizioni spaziotemporali differenti crea stati di tensione che sfociano in veri e propri corto
circuiti in grado di catalizzare forze vitali proprio in virtù di quella capacità
di resilienza che è tipica non solo dei sistemi complessi ma, con riferimento al campo dell’ecologia, di qualsiasi ecosistema aperto.Gli scarti
del paesaggio diventano così i luoghi in cui si manifestano in maniera più
rilevante due attitudini che rappresentano forme di autorganizzazione del
sistema, fenomeni di opposizione al dilagare dell’urbano e delle sue dinamiche. Tali attitudini spontanee si descrivono attraverso concetti di resistenza e permanenza.
La resistenza rappresenta la capacità del sistema-paesaggio di generare
una contrapposizione a disturbi esterni per promuovere la sopravvivenza
di alcune caratteristiche (ambientali, sociali, spaziali) che altrimenti andrebbero perdute. Il modo attraverso cui il sistema stesso garantisce tale
opposizione è rappresentato dalla seconda attitudine, la permanenza, la
quale si spiega come una continua riproposizione di segni, usi, modalità
appartenenti alla geografia del luogo.6
Queste attitudini altro non sono che l’espressione di una comunità creativa e reattiva, che opera all’interno dei paesaggi scartati dalla pianificazione ufficiale. In virtù del loro essere al di fuori del controllo formalmente
esercitato, tali luoghi palesano una maggiore suscettibilità al proliferare
di operazioni spontanee in grado di innescare nuovi cicli vitali. Tali comportamenti risultano maggiormente evidenti in quei contesti dotati di un
certo grado di diversità, nei quali vi è la possibilità di attingere a un bagaglio d’informazioni costruitosi nel tempo, che permette di selezionare le
soluzioni più efficaci per rispondere alle esigenze attuali.7 Per tale motivo
l’eterogeneità che contraddistingue i luoghi di margine della città orizzontale non può essere interpretata come fonte di tensione bensì rappresenta un fattore positivo, capace di fornire materia prima per lo sviluppo
182
di pratiche di riciclo. Re-cycle può quindi essere interpretato come un’attitudine (ossia una modalità comportamentale auto-indotta) che accoglie
concettualmente ed operativamente l’idea di resistenza e permanenza
all’interno di un sistema – paesaggio eterogeneo e complesso, posto ai
margini della città compatta ed espressione della diffusione orizzontale
del tessuto edificato.
La comunità che vive quotidianamente l’instabilità e i dinamismi che si
verificano in questi luoghi diventa il tramite attraverso cui si esprime l’attitudine al Re-cycle, che rappresenta, quindi, la manifestazione di una capacità resiliente, oppositiva e creativa. Questa interviene all’interno delle
maglie aperte della matrice, in corrispondenza di cortocircuiti generati
da fattori differenti, e determina la possibilità di innescarvi nuovi processi
fortemente radicati e contestualizzati, grazie all’utilizzo di dispositivi appartenenti alla stratificazione del luogo.
Si delinea quindi un’idea di Re-cycle che racchiude al suo interno una doppia natura, economica ed ecologica.
Re-cycle si può interpretare come un’attitudine economica in quanto
espressione di capacità creative interne al sistema che possono essere
descritte come forme di sopravvivenza sociale nei confronti di strategie di
marginalizzazione. Tali capacità creative rappresentano l’esercizio di quel
diritto alla libertà più volte auspicato da Ivan Illich come opposizione al
dilagare delle logiche di produzione a carattere consumistico.8
Assecondare e promuovere certe pratiche di riciclo spontanee in contesti marginali significa assegnare valore a processi attivati dal basso che
permettono di pensare al paesaggio in un’ottica di decrescita. L’idea del
riciclo come strumento attraverso il quale la comunità di margine produce
fenomeni di riattivazione di paesaggi dello scarto rimanda alla possibilità
di restituire la cura delle zone più difficili del territorio alle popolazioni
locali, escludendo progressivamente le diverse parti della matrice degli
spazi aperti dalle logiche di mercato e favorendo lo sviluppo di una linea di
gestione del territorio basata su identità ed interrelazioni forti.9
Si può però riconoscere al Re-cycle anche una natura ecologica, che risiede nella sua capacità di rappresentare comportamenti e proprietà tipici
degli ecosistemi: resistenza e permanenza, infatti, rimandano al concetto
di resilienza che si spiega come un adattamento spontaneo che il sistema
stesso produce per ritrovare uno stato di equilibrio in seguito a un fenomeno di disturbo.
183
Il parallelismo tra Re-cycle e resilienza permette quindi di utilizzare un
paradigma ecologico che si rivela estremamente utile ai fini di una comprensione dei diversi fenomeni che si verificano all’interno del sistemapaesaggio della città orizzontale. Ciò fornisce un nuovo strumento interpretativo necessario ai fini di una decodifica dei caratteri più complessi
dell’urbano contemporaneo.10
Re-cycle quindi esprime una doppia natura, economico–ecologica, e diventa uno strumento attraverso il quale si delinea la possibilità di ottenere
la massima efficacia con il minimo sforzo. Nel rintracciare il valore insito
negli scarti e, più in generale, nella geografia complessa della città orizzontale, esso rappresenta una strategia operativa capace di individuare il
potenziale della situazione più predisposto ad indirizzare l’evoluzione del
sistema verso condizioni favorevoli.11
Nello sviluppo spontaneo e autoprodotto dell’attitudine al Re-cycle nei luoghi urbani di transizione e marginalità il ruolo della comunità è fondamentale. Essa rappresenta quella forza resistente che promuove la permanenza di usi, segni, comportamenti capaci di innescare processi virtuosi di
recupero e cura del paesaggio locale, nonostante le continue pressioni e i
perenni stravolgimenti prodotti dall’espansione del tessuto urbano.
Le possibilità offerte da un’interpretazione economico-ecologica del Recycle sono diverse.
Resistenza e permanenza sono modalità comportamentali autoprodotte
che permettono di escludere dalla logica consumistica gli spazi aperti
compromessi ed i relativi valori potenziali presenti nel territorio della città orizzontale, promuovendo ed accompagnando processi innescati dalle
comunità locali, vera e propria memoria storica del paesaggio, in grado di
tramandarne le proprietà stratificate e consolidate nel tempo.
Inoltre tale comportamento permette di promuovere una gestione del paesaggio che si basa su un rapporto dialettico tra evoluzione (intesa come
proiezione verso il futuro ed adattamento nel corso del tempo) e permanenza (interpretata come riproposizione di valori considerati caratterizzanti ed efficaci).
La forza adattiva del sistema, da cui dipende la capacità dello stesso di
evolvere, risulta come conseguenza della ricchezza e della diversità che lo
contraddistinguono, proprietà derivanti, a loro volta, da un continuo stratificarsi e riproporsi, nel corso del tempo, di segni e modalità consolidati.
Infine, l’efficacia del Re-cycle, in quanto processo economico-ecologico, si
184
rivela in tutta la sua evidenza se lo si interpreta come espressione chiara
ed inequivocabile dell’esistenza di forze sociali reazionarie e vigorose, in
grado di agire autonomamente tra le maglie lasciate libere nella matrice
degli spazi aperti ai margini dell’urbano per promuovere il riciclo di pratiche, segni, materiali che altrimenti andrebbero incontro all’estinzione,
fagocitati dal dilagante fenomeno urbano.
Note
1. «The types of development found
in sprawling areas mainly consist of
horizontally oriented landscape planes
and surfaces.» A. Berger, Drosscape.
Wasting land in urban America, Princeton
Architectural Press, New York 2006.
2. G. Laganà (a cura di), Paesaggi di città
non città. Franco Zagari, quattro progetti di
ricerca, Libria, Melfi 2012.
3. «Non può esservi ordine senza caos […]
Caos, disordine, illegalità presagiscono
le infinite possibilità e l’illimitatezza
dell’inclusione; l’ordine rappresenta i limiti
e la finitezza. In uno spazio ordinato, non
tutto può succedere.» Z. Bauman, Vite di
scarto, Laterza, Roma 2005.
4. E. Turri, La megalopoli padana, Marsilio,
Venezia 2000.
5. S. Allen, From objects to fields, in «AD»
profile 127, vol. 67, n. 5/6, 1997.
6. Il geografo francese Roger Brunet parla
di conformazione geografica dei luoghi
come risultato della combinazione di una
serie di caratteri ripetuti che, però, nel
loro intersecarsi in maniera ogni volta
originale danno vita a un luogo con proprie
caratteristiche identitarie. R. Brunet,
Per una critica ragionata e razionale della
rappresentazione dei luoghi, in G. Dematteis,
F. Ferlaino (a cura di), Il mondo e i luoghi:
geografie dell’identità e del cambiamento,
IRES Istituto di Ricerche Economico-sociali
del Piemonte, Torino 2003.
7. «Biodiversity could be considered
analogous to a library of information
(some recorded long ago, and some only
now being written) that provides not only
a wide range of possible pathways for the
future development of life but also learned
repertoires for responding to environmental
change and disturbance.» N. M. Lister,
Sustainable Large Parks: ecological design
or designed ecology?, in J. Czerniak, G.
Hargreaves (ed.), Large Parks, Princeton
Architectural Press, New York 2007.
8. «La crescita industriale produce la
versione moderna della povertà. Questo
tipo di povertà fa la sua apparizione quando
l'intensità della dipendenza dal mercato
arriva a una certa soglia. (…) Essa non fa
altro che privare le sue vittime della libertà
e del potere di agire autonomamente,
di vivere in maniera creativa; le riduce
a sopravvivere grazie al fatto di essere
inserite in relazioni di mercato.» I. Illich,
Disoccupazione creativa, Boroli, Milano
2005.
9. «Per fare diventare il paesaggio un
punto di forza delle ragioni della decrescita
185
è necessario […] decidere di "prenderlo
in cura" (governarlo e gestirlo) in forme
e modalità efficienti e condivise. […] La
città (urbs e civica, assieme) decrescente
è tutto questo. Un grande movimento dal
basso per sottrarre paesaggio-ambienteterritorio-luoghi alla logica economica
del mercato.» P. Cacciari, Paesaggio e
decrescita, presentato al convegno Il
tramonto dell’Occidente, Cagliari, novembre
2012.
10. J. Corner, Espansioni urbane orizzontali e
densità nel paesaggio emergente, in «Lotus»
n. 110, 2003.
11. F. Jullien, Trattato dell’efficacia, Giulio
Einaudi, Torino 1998.
186
Blue (+) Green
settle-ments.
Towards a new land/water
network of drosscapes
Sabrina Sposito
>UNINA
La città contemporanea è il luogo in cui si manifestano con evidenza una
serie di paradossi che, agendo per giustapposizione e contaminazione
di antinomie, moltiplicano le condizioni di ibridazione e imprevedibilità
nell’ambiente urbano, ribaltando principi e strutture concettuali fondativi
del pensiero tradizionale.
La duplice esistenza delle città, da giganti urbani e da frammenti a bassa
definizione, è il paradosso sul quale si è costruita la post-modernità, supportata dal surplus tecnologico e dal mito dell’infrastruttura come veicolo
di crescita illimitata. Il mutamento nella fisicità e nelle densità relazionali
ha generato organismi eterogenei, un amalgama di città esplose e saldate
in più punti che, diramandosi nei territori, incrociano altri insiemi urbanizzati. L’espansione è avvenuta in tutte le direzioni contro ogni tentativo di
teorizzazione e contenimento, restituendoci un complesso "mosaico territoriale"1 «in cui l’umanità evolve e si specializza in stretta relazione all’am-
187
188
biente, a sua volta modificato da questo reciproco processo di adattamento naturale e culturale, come da tempo ci aiuta a vedere l’ecologia»2.
Sostenuta dal meccanismo convulso attraverso cui la città si è progressivamente diluita nella natura, la comparsa del frammento ha segnato la
rottura delle continuità geografiche e la coabitazione di territori diversi,
influenzando e invadendo ogni aspetto della vita umana, dall’organizzazione spaziale, al rapporto con il mondo materiale, ai legami economici e
sociali. L’intero processo evolutivo urbano dalle origini ad oggi, difatti, «si
apre con una città che era simbolicamente un mondo e si conclude con un
mondo che è diventato per molti aspetti pratici una città»3, raccontando di
un’inversione di rotta epocale.
La frammentazione ha modificato le compagini fisiche e le caratteristiche
antropomorfiche della città, determinandone la polverizzazione morfologica e funzionale entro una nebulosa, di cui il centro storico non ricopre
che appena il 2 o 3% della superficie totale4. La nuova dimensione pulviscolare del fenomeno urbano è una congerie di forme, usi e pratiche
disparate di cui non è possibile riconoscere un vero punto di condensazione. La delocalizzazione delle attività specializzate in aree periferiche,
infatti, si è accompagnata a fenomeni di dismissione e svuotamento di
senso nelle aree prima considerate centrali, e ora punteggiate di "vuoti"
accumulatisi nelle fasi di deindustrializzazione, post-fordismo e innovazione tecnologica.
Il vuoto ha conquistato spazio soprattutto fra i tessuti incerti della città,
nei luoghi sospesi, dei progetti mancati e degli eterni cantieri, nei quali si
respira aria di crisi e di attesa.
La dissoluzione della città compatta in una moltitudine di episodi urbani
ha altresì richiamato l’urgenza di prolungare e ramificare il network delle
reti artificiali, il quale ha assunto l’aspetto di un groviglio inestricabile,
reciso e atrofizzato in più punti, in grado di mandare in corto circuito interi
sistemi urbani.
La reticolarità capillare attraverso cui la città si è dispersa nel territorio
vasto e ha costruito la propria superficie isotropa, produce continue interferenze nella natura. La popolazione preme lungo i corsi d’acqua, i laghi,
le coste, vi sversa le scorie delle attività produttive e agricole, gli scarichi
fognari, alterando la struttura e il funzionamento delle matrici ecologiche e riducendone la capacità rigenerativa. Questa forma di "paesaggio
addomesticato" è una porzione di natura compressa fra realtà urbane di-
189
versificate, "artificializzata" senza un progetto, e divenuta residuale, compromessa, vulnerabile. La marginalità cui è relegata fa sì che la ricerca di
una condizione di equilibrio dinamico avvenga in tempi sempre più brevi
e spazi drasticamente ridotti, rendendo violenti, talvolta catastrofici, i processi naturali di adattamento e regolazione attraverso cui la natura progressivamente scompone e ricompone i propri ordini.
Il territorio, dunque, è un intreccio eterogeneo di linee fisiche, che corrono sulle superfici e le incidono fino in profondità, e linee ideali lungo
le quali materia, energia e sapere si muovono ciclicamente tra gli strati.
Le linee tangibili e intangibili sono le infrastrutture che intermediano le
relazioni tra le componenti sistemiche dell’habitat urbano, governando i
flussi che trasportano nutrienti, mettono in comune risorse, trasferiscono
informazioni, distribuiscono servizi e connettono le città globalmente. Gli
ambienti di entrata ed uscita dei flussi crescono al crescere delle città e,
per alimentare un intenso metabolismo urbano che quasi sfida le leggi
dell’entropia, si impoveriscono e degradano verso livelli qualitativi e prestazionali minori5.
I meccanismi di feedback interconnettono i comportamenti umani e le
dinamiche naturali all’interno di un sistema globale ipercomplesso, evidenziando come le città debbano essere trattate in termini di networked
ecologies, «a series of codependent systems of environmental mitigation,
land-use organization, communication and service delivery».6
La collisione tra frammenti, il declino delle aree centrali e la dispersione
nel territorio, l’affiorare dei "vuoti" nel coacervo urbano, l’impossibilità di
predire e governare pienamente la mutevolezza dell’ambiente aprono ad
una molteplicità di questioni e interrogativi su come debba essere oggi
ripensata la città.
In condizioni di variabilità, decrescita e risorse scarse, la riorganizzazione dei sistemi territoriali richiede un cambio radicale di paradigma, che
sappia conciliare la razionalità economica con una più forte razionalità
ecologica, partendo dalle situazioni di rottura per disegnare nuovi modelli
formali e funzionali7. Il riconoscimento dei valori universali del mondo fisico e la necessità di coniugarli alla produzione di ricchezza entro il limite
di finitezza ecologica impongono di ribaltare il punto di vista, assumendo
il progetto di riciclo come un campo d’azione comune in grado di spingere
in avanti le frontiere dell’urbanistica.
La dilatazione degli orizzonti interpretativi, l’attraversamento delle scale
190
e l’integrazione dei saperi divengono gli strumenti attraverso cui la contemporaneità può dispiegare lo spettacolo del paesaggio in modi diversi.
La costruzione di una geografia dei drosscape8, che arricchisca e contestualizzi la catalogazione compiuta da Alan Berger sul suolo americano,
si propone come lettura del territorio "al negativo", in cui far emergere
le configurazioni che il paesaggio può assumere quando si trasforma in
scarto, residuo, interstizio. L’articolazione del "paesaggio dello scarto" in
aree non utilizzate o sottoutilizzate, dismesse, inquinate, interrotte costituisce un campionario di situazioni al limite, da indirizzare verso obiettivi
condivisi di rivalorizzazione. Lo scarto, attualizzato e caricato di nuovi significati e valori, può essere una risorsa inesauribile per la città e il progetto, perché ritorna incessantemente come prodotto del metabolismo
urbano. Nel tentativo di avvicinare i cicli urbani a quelli naturali e di gestire il processo dissipativo, il progetto di riciclo recupera la profondità degli
strati, la geografia e la morfologia dei luoghi, si esplicita nelle rappresentazioni diagrammatiche, provando a «rendere visibili forze invisibili»9, a
governare la processualità e la concatenazione dei fenomeni.
Il passaggio dalla "geografia dei drosscape" alla "geografia del riciclo" sigla il carattere adattivo e resiliente del progetto urbano, che utilizza lo
scarto quale dispositivo utile a riattivare i territori e ricucirne le parti, accogliendo l’imprevedibilità, ridefinendo al contempo lo spazio costruito,
e costruendo grammatiche e sequenze narrative inedite. In quest’ottica,
la residualità dello scarto non è ciò che "avanza" del pieno, ma energia
latente attraverso cui innescare diffusi meccanismi di rigenerazione ecologica, sociale e produttiva.
Nel rinnovato sodalizio tra l’uomo e l’ambiente socio-fisico, i drosscape
divengono perni di un sistema reticolare che produce relazioni dinamiche nel paesaggio e che ha nelle rete verdi e blu le proprie infrastrutture
portanti. Le reti verdi e blu sono paesaggi boscati e paesaggi d’acqua, che
si originano prevalentemente dalle azioni di decodifica e riconfigurazione di segni dimenticati (corsi d’acqua, canalizzazioni, naturalità diffusa,
trame agrarie) sui quali l’uomo ha cancellato e sovrascritto frettolosamente, e che reclamano nuova vita, un’identità, un progetto di rete che li
tenga insieme. Riprendendo un rapporto dialettico tra l’ambiente naturale
e quello costruito, esse garantiscono un incremento generale delle perfomance territoriali. Sono l’infrastruttura ecologica intorno alla quale la città si rigenera, per ripristinare la continuità dei corridoi ecologici secondo
191
un modello di ibridazione naturale/artificiale, lavorando sulla struttura e
gli spessori dell’ecosistema urbano, sulla ciclizzazione dei materiali, secondo grane, tempi e usi simultanei, per attrezzare le città alle sfide del
cambiamento entro il limite di riproducibilità delle risorse. Ma sono anche
l’infrastruttura sociale che crea nuovi spazi pubblici, a partire dalle aree
di scarto, nelle quali poter sperimentare forme integrate di sostenibilità,
coinvolgendo la gestione dello spazio pubblico e privato, individuale e collettivo in un disegno unitario, divenendo motore potenziale di una ripresa
economica virtuosa e duratura. Cosicché, mentre nuovi cicli di vita si attivano, il paesaggio lentamente si ricostruisce.
Il progetto di riciclo, dunque, sposta il baricentro valoriale in nuovi punti
di condensazione, re-introducendo lo scarto in nuovi circuiti produttivi e
di riconfigurazione del paesaggio, lavorando dentro e intorno a esso per
comporre il grande network dei drosscape, che diviene difatti la vera intelaiatura della città pubblica del futuro.
La complessità della realtà necessita di conoscenza e di descrizione, ma
anche di rallentamenti, di metafore e sogni, di arte e cultura, di modi originali per rappresentarla nel tempo oltre che nello spazio. La spugna10 resta
la metafora più suggestiva attraverso cui costruire una nuova porosità,
assumendo le aree di scarto come superfici di percolazione che regolano
il rapporto osmotico tra la città e il "fondo" territoriale a lungo ignorato11.
Si tratta di esplorare le potenzialità dei drosscape, di comprendere che gli
effetti delle trasformazioni non si fermano dove arrivano i nostri strumenti
per misurarli e prevederli, né alla soglia di limiti convenzionali. Piuttosto, assumere queste condizioni come asset basilari per re-immaginare
l’esistenza umana, le azioni sociali e il modo di prefigurare e produrre il
futuro12, impadronendosi del concetto di città fluida, resiliente e adattiva,
giocando con scenari evolutivi, soluzioni reversibili, usi temporanei e compatibili con la variabilità ecologica «in order to prepare the way for a space
and time which do not generate unrecyclable waste».13
192
Note
1. R. T. T. Forman, Land Mosaic. The Ecology
of Landscape and Region, Cambridge
University Press, New York 1995.
2. M. Mininni, Abitare il territorio e costruire
paesaggi, prefazione a J. Donadieu,
Campagne urbane, Donzelli, Roma 2013.
3. M. Mumford, The City in History: Its
Origins, Its Transformations, and Its
Prospects, Harcourt, Brace and World, New
York 1961.
4. A. Corboz, Ordine sparso, Saggi sull’arte,
il metodo, la città e il territorio, a cura di P.
Viganò, Franco Angeli, Milano 1998.
5. B. Secchi, P. Viganò, Water&Asphalt,
2006, in V. Ferrario, A. Sampieri, P. Viganò
(a cura di), Landscapes of urbanism,
«Quaderno del dottorato in Urbanistica»,
Officina edizioni, Venezia 2011.
6. K. Varnelis (a cura di), The infrastructural
city. Networked ecologies in Los Angeles,
Actar, Barcellona 2008.
7. V. Bettini (a cura di), Elementi di ecologia
urbana, Einaudi, Torino 1996.
8. A. Berger, Drosscape: wasting Land in
Urban America, Princeton Architectural
Press, New York 2007.
9. G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della
sensazione, Quodlibet, Macerata 2008.
10. B. Secchi, Prima lezione di urbanistica,
Laterza, Bari 2000.
11. A. Corboz, Il territorio come palinsesto, in
«Casabella», n. 516, 1985.
12. F. Guattari, The Three Ecologies, tr. en.,
Athlone Press, Londra 2000.
13. G. Clément, Recyclable Space-Time,
in Colloquium Slowing Down the City, 2010
[online] http://www.gillesclement.com/.
Immagine
Sabrina Sposito, Urban habitat: back to
signs, 2014
193
RURBANSCAPE:
oltre il
paesaggio
Ignazio Vinci
>UNIPA
Il concetto di confine occupa nella cultura occidentale un posto tanto rilevante almeno quanto esteso, e potremmo dire ambiguo, è il suo campo
semantico. Un confine per definizione separa, attraverso barriere naturali
o convenzionali, due diversi regimi giuridici, a loro volta espressione di
culture, condizioni territoriali, percorsi di sviluppo che si ritengono autonomi e differenziati. Ma allo stesso tempo il confine unisce, può essere
interpretato come il punto in cui due lembi di un medesimo tessuto di
relazioni, culturali e sociali, economiche e ambientali, entrano in contatto
resistendo alla separazione. Nella sua esplorazione dei diversi significati
del confine, Piero Zanini1 suggerisce un dualismo che ci può essere utile
per trattare la questione delle intersezioni tra modelli di sviluppo: egli affianca al concetto di confine quello di frontiera, un'area (da intendersi non
necessariamente in termini spaziali) strutturalmente instabile ed in continua evoluzione in cui i limiti si "sfrangiano" e le identità si sovrappongono.
194
Situarsi in questa condizione liminale, secondo Zanini, significa abitare e
costruire un "terzo luogo", uno spazio dove evidentemente la costruzione
di percorsi di sviluppo appare il frutto di contrattazioni e adattamenti rispetto a condizioni ed identità consolidate.
Questo richiamo ai confini ed alle forze che ne alimentano la disgregazione – peraltro sviluppato in contesti intellettuali molto eterogenei2 – ci
sembra utile non solo per il suo valore metaforico nel tornare a riflettere sulle condizioni cognitive che debbono alimentare il paradigma del
re-cycle applicato alla trasformazione dello spazio fisico. In un precedente
contributo3 si è infatti posto l'accento sulla necessità di cogliere la sfida
dei "territori ibridi", quelle aree di frontiera risultanti dalla dissoluzione di
confini tra città e campagna, ambiente naturale e costruito, che caratterizza in maniera crescente la dimensione urbana contemporanea. Ed anche come tale sfida ci impone di cogliere, in questo incessante processo di
ibridazione, segnali di cambiamento che si muovano ben oltre le manifestazioni meramente spaziali dei fenomeni in corso. In altre parole, occorre
riconoscere come le trasformazioni nello spazio che occorrono nei contesti al margine di identità territoriali consolidate, siano il riflesso di cambiamenti più complessi e strutturali quali la transizione post-industriale, i
processi di diversificazione produttiva in un contesto di crescente dematerializzazione dell'economia, le forme di uso e valorizzazione del territorio
discendenti da innovazioni tecnologiche, nuovi interessi culturali e pratiche sociali. Nella prospettiva del re-cycle territoriale uno dei processi che
ci appare più intriso di potenziali in chiave progettuale è quello che sta
occorrendo al confine tra l'urbano ed il rurale. Concepite dall'economia
classica e da una visione positivista del mondo come domini sostanzialmente autonomi, le relazioni tra città e campagna, industria e agricoltura, appaiono oggi caratterizzati da rapporti di interdipendenza fondati su
crescenti flussi di persone, conoscenze, capitali ed innovazioni tecnologie.
Al crocevia di questi flussi si produce un intrico di risorse ed opportunità
ancora largamente inesplorate dalle politiche pubbliche, ma che vari indizi ci segnalano in grado ridisegnare i contorni di una nuova ecologia dello
sviluppo. Si tratta principalmente di osservare l'interazione urbano-rurale
come il territorio di un nuovo modello di sviluppo, fortemente dinamizzato
da innovazioni culturali e tecnologiche tendenti a scoprire nuove riserve
di sostenibilità, il cui valore aggiunto (economico e sociale) risiede esattamente nel concepire tale interazione in termini biunivoci, al di là delle
195
visioni subalterne e settoriali del passato. La posizione di questo scritto
è che questa prospettiva richieda l'adozione di una concezione molto più
olistica ed integrata di tale interazione, e che le relazioni urbano-rurali
possano essere osservate e progettate lungo almeno quattro dimensioni
prevalenti: una dimensione ambientale e paesaggistica, una dimensione
sociale, una dimensione economica, una dimensione energetica.
La prima dimensione, storicamente più influente ed esplorata nelle culture del progetto di territorio, guarda all'interazione urbano-rurale prevalentemente attaverso la lente degli assetti paesaggistici e ambientali.
Dopo le visioni pionieristiche di Ebenezer Howard, nella seconda metà
del Novecento si sviluppa un forte interesse per la progettazione urbana
orientata in senso ambientale – si veda, solo per fare un esempio, al percorso che da McHarg conduce a Steiner4 – che interpreta il rapporto tra
la città e la sua regione naturale soprattutto in termini di ricucitura delle
connessioni ecologiche. Questa prospettiva sistemica, inizialmente animata dal contatto tra la progettazione del paesaggio e scienze più "dure"
quali la landscape ecology, è stata più tardi affiancata da una pluralità di
sensibilità che osservano il "periurbano" e le sue diverse morfologie territoriali come spazio privilegiato per ripensare le relazioni tra città e campagna: dalle urban fringe alle "campagne urbane", da quel "terzo paesaggio"
generato dai territori in abbandono ai margini delle città contemporanee
ai "progetti locali autosostenibili"5.
Una seconda dimensione rilevante per la dialettica urbano-rurale si lega
a quel processo di rielaborazione di significati culturali ed interessi sociali che Merlo ha definito "neoruralismo"6 e che si esprime soprattutto
in due forme: da un lato, nella frequentazione dell'ambiente rurale come
destinazione privilegiata per il tempo libero e la residenza; dall'altro, nel
tentativo di riportare la campagna e l'agricoltura (o frammenti di una ruralità perduta) dentro la città attraverso una varietà di interpretazioni progettuali. Negli ultimi anni un numero crescente di città occidentali sono
state teatro di sperimentazione progettuali nel campo dell'agricoltura urbana – dai community gardens americani alle city farms inglesi, dai jardins
familiaux francesi agli "orti urbani" italiani – in cui obiettivi ambientali ed
economici sono subalterni alla finalità di rafforzare le relazioni sociali ed
il senso di comunità nei quartieri.7 Inoltre, gli spazi generati da molte di
queste esperienze progettuali si fanno carico di trasmettere l'idea di modelli alternativi e più sostenibili di sviluppo nelle aree urbane e per questo
196
il loro ruolo è rilevante soprattutto sul piano culturale ed educativo.
Una terza dimensione, generalmente ai margini delle riflessioni territorialiste, riguarda le funzioni economiche del complesso delle attività marketled che regolano e possono sollecitare una più equilibrata interazione tra
città e campagna. Ci si riferisce, in particolare, ai vantaggi che possono discendere da una diversa articolazione del mercato dei prodotti agricoli con
caratteristiche di tipicità. In quest'ottica, il futuro dello sviluppo rurale in
termini economici non potrà che focalizzarsi su un diverso rapporto con le
aree urbane, le quali costituiscono la destinazione naturale per i prodotti
agricoli, in particolare a più alto valore aggiunto8. Lungo questa direzione
vi sono ormai diversi contesti in Europa dove progetti locali ed iniziative imprenditoriali provano a perseguire il difficile equilibrio tra mercato,
modelli economici solidali e sviluppo sostenibile: si tratta di iniziative progettuali di varia natura e rilevanza sociale, dai mercati urbani legati allo
sviluppo di filiere corte, agli store delle tipicità produttive – di cui Eataly costituisce ormai un modello mainstream non solo in Italia9 –, caratterizzati
comunque da una ricerca di logiche di mercato "territoriali". Una quarta
ed ultima interpretazione, ancora largamente eccentrica al progetto territoriale, è quella che allude alle relazioni città-campagna (agricoltura)
da una prospettiva energetica. Si tratta di un processo di innovazione che
intravede un nuovo metabolismo urbano, fondato insieme su nuove filosofie del riciclo ed interessanti sviluppi della ricerca industriale nel campo
delle biomasse10 e che apre ad un diverso impiego del capitale naturale nel
modello urbano occidentale.
Gli sviluppi più promettenti per ciò che riguarda le relazioni tra città e
campagna si legano ai sistemi di cogenerazione in grado di trarre energia dalle biomasse, i cui derivati assicurano rendimenti energetici ormai
comparabili ai combustibili di natura fossile ma con ridotte emissioni nella biosfera. Lo sviluppo di sistemi integrati orientati a trarre energia dai
sottoprodotti dell'agricoltura, ad esempio in una logica di agro-distretti
energetici locali, appare una prospettiva destinata a ridisegnare non solo
sul piano ecologico ma anche economico le relazioni tra le aree urbane
ed i sistemi rurali che le circondano. Dinanzi alle quattro dimensioni del
progetto che sono state evocate, la prospettiva del re-cycle non si alimenta
necessariamente di nuovi strumenti e paradigmi progettuali ma dal collocare le proprie pratiche in un nuovo scenario strategico che assegna
all’architettura ed allo spazio fisico nuove funzioni e significati culturali.
197
Note
development, Springer, Verlag 2010.
1. P. Zanini, Significati del confine. I limiti
naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori,
Milano 1997.
9. Cfr. R. Sebastiani, F. Montagnini, Ethical
consumption and new business models in the
food industry. Evidence from the Eataly case,
in «Journal of Business Ethics», on-line,
June 2012.
2. Si veda ad esempio G. Agamben, Stato
di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino
2003; M. Augé, Tra i confini. Città, luoghi,
interazioni, Bruno Mondadori, Milano
2007; C. Raffestin, Les notions de limite et
de frontière et la territorialité, in «Regio
Basiliensis», n. 2-3, 1981.
3. I. Vinci, Pianificare per nuovi cicli di vita
territoriali. Considerazioni preliminari, in S.
Marini, V. Santangelo (a cura di), Recycland,
Aracne, Roma 2013.
4. Cfr. I. L. McHarg, Design with Nature,
Natural History Press, New York 1969; F.
Steiner, The living landscape. An ecological
approach to landscape planning, McGraw
Hill, New York 2000.
5. Cfr. N. Gallent, J. Andersson, M.
Bianconi, Planning on the edge. The context
for planning at the rural-urban fringe,
Routledege, London 2006; P. Donadieu,
Campagne urbane. Una nuova proposta
di paesaggio della città, Donzelli, Roma
2006; M. Mininni, Approsimazioni alla città.
Urbano, rurale, ecologia, Donzelli, Roma
2013; G. Clément, Manifesto del Terzo
paesaggio, Quodlibet, Macerata 2005; A.
Magnaghi, D. Fanfano (a cura di), Patto Città
Campagna. Un progetto di bioregione urbana
per la Toscana centrale, Alinea, Firenze
2010.
6. Cfr. V. Merlo, Voglia di campagna:
neoruralismo e città, Città Aperta, Troina
2006.
7. Cfr. L. J. Mougeot, Agropolis. The social,
political and environmental dimensions of
urban agricolture, Earthscan, London 2005.
8. Cfr. E. S. Van Leeuwen, Urban-Rural
interactions: towns as focus points in rural
10. E. Rapoport, Interdisciplinary
Perspectives on Urban Metabolims, «UCL
Environmental Institute Working paper»,
London 2011; W. McDonough, M. Braungart,
Cradle to Cradle. Remaking the way we make
things, North Point Press, New York 2002;
D. L. Klass, Biomass for renewable energy,
fuels, and chemicals, Academic Press, San
Diego 1998.
198
1.
2.
NUOVE ECOLOGIE/ECONOMIE LATENTI
199
Nelle aree periurbane si riconosce un elevato numero di territori
di scarto. Tra questi, lembi di paesaggio agricolo sottoutilizzati o abbandonati rappresentano forme di
economie latenti. Il riciclo in chiave
ecologica dei network potenziali
dei territori sospesi tra urbano e
rurale rappresenta una strategia
innovativa per nuovi paesaggi.
Immagini
1. Gruppo di ricerca Re-cycle Napoli Lab, Il
puzzle del periurbano, 2014
2. Libera Amenta, Il periurbano a Napoli Est,
2014
Libera Amenta, Susanna Castiello, Cecilia Di Marco
>UNINA
200
Eco-logia/eco-nomia non sono la stessa cosa, tuttavia entro l’idea di una architettura del ri-ciclo – trasformare per
attivare nuove economie – è possibile
indagare una intensità di rapporti che
possono agire in un futuro disegno comune. L’economia di materia (minimo
impiego), la centralità della qualità sulla quantità (dei materiali e manufatti), la
diversa produzione/distribuzione/consumo (delle ricchezze) sono elementi su
cui orientare scelte e azioni. Nell’economia produttiva, la crescita economica ha
già sostituito la crescita fisica con quella immateriale, operando in un sistema
economico, occorre che il paradigma
della produzione, il riciclo è questo, si
converta in nuova economia identitaria.
Lo stesso vale per l’ecologia. L’ecologia,
come l’economia, non sono mai obiettivi
statici, possono essere solo un processo, un processo che contempla anche
la distruzione creativa nell’economia,
come nell’ecologia. La connotazione
economica/ecologica di ri-ciclo, il suo
contenere come rapporto inscindibile,
una nuova idea di progresso e natura, è
da tempo luogo di ogni ontologia sulla
città, l’architettura, il paesaggio. Fondata sul riconoscimento dell’oikos comune, quest’idea di ri-ciclo, che interpreta,
porta a prendere una posizione, sotto
intende una valutazione etico/estetica,
che sceglie strategie e tattiche di moralizzazione, per le buone trasformazio-
ni. La città e l’architettura non si sono
fermate solo a causa della crisi economica, le nuove esigenze economiche e
spaziali, la revisione di regole e azioni
sono state negate. È necessario ripartire da un ragionamento sulle regole che
hanno assecondato il processo di sviluppo diventato insostenibile, dai modi
in cui i riusi degli elementi che hanno
costruito la città e l’architettura sono
possibili. L’idea di ri-ciclo diventa "rivelatrice" (Zagreblesky) se fondata sulla
cultura del progetto, come processo di
trasformazione dei materiali e dei luoghi mediante l’architettura, altrimenti,
in modo quasi volontario, sarà relegata
al margine di quello stesso mercato che
nel frattempo, sul binomio economico/
ecologico delle frammentazioni e degli
specialismi della produzione culturale
generale, si è già messo in moto.
Eco-con[testi] complessi
È evidente in molti dei territori che abitiamo, occupati da un gran numero di
materiali a bassa tecnologia o a bassa
articolazione spaziale. Nei tessuti disegnati come periferie della produzione,
compatte o diffuse, il malfunzionamento si palesa con emergenze ambientali
e/o sociali. Data la loro estensione, tali
materiali sono difficilmente eliminabili,
anche solo per parti, e la procedura individuata per questi materiali è l’hypercycle: attivazione di più cicli di vita in
RI-CICLO
FONDATO SUL PROGETTO
201
contemporanea sulla stessa realtà, per
renderla più efficiente e rispondente
alle esigenze dell’oggi, meno in conflitto
con l’ambiente, più inclusiva dal punto
di vista sociale, più efficace dal punto di
vista energetico. Elementi puntuali, edifici e aree scartati, possono essere ri-ciclati come "frammenti", riscritti secondo una "narrazione ipertestuale" che
alluda ad un nuovo ordine stratificato
e complesso di nuove relazioni. Gli abbandoni di origine produttiva artigianale
possono essere di natura puntuale, lineare, o di tessuto. In ogni caso si configurano come collezione di margini, spazi che inglobano frammenti diversi, aree
e edifici, scarti infrastrutturali, spazi
residuali, o che sono inglobati nell’(an)
isotropia territoriale. Capannoni abbandonati o dismessi, che si distribuiscono
e costituiscono un elemento significativo del territorio della contemporaneità,
sono un elemento di criticità attuale e
potenziale riferimento per i futuri e prevedibili abbandoni, sottoutilizzi o obsolescenze di oggetti e spazi produttivi.
Questi aree e oggetti obsoleti e inutilizzati possono essere ripensati come
"vuoti" per la rigenerazione dei tessuti
urbani periferici, progettandoli come
nuovi "margini" per la riqualificazione
di aree da conservare libere da edificazioni, o luoghi per nuove prefigurazioni, luoghi da svuotare o saturare per
usi spontanei o trasformazioni legate a
Claudia Battaino
>UNITN
possibili riusi. Ciò significa individuare
negli elementi puntuali da sottoporre ad
agopuntura i "nuovi paradigmi" in grado
di innescare un processo di trasformazione controllato, per la costruzione di
un telaio portante di una nuova ecologia,
ampio e stratificato.
Immagine
Claudia Battaino, Vacant Spaces. Recycling
Architecture. La periferia inglobante,
Mimesis, Milano 2012
202
Riciclare le infrastrutture è ecologico? Riciclare le infrastrutture è economico? Sono
termini applicabili ad un tema come quello delle infrastrutture per loro caratteristica e
vocazione logica non riconducibili a loro? È possibile passare da un pessimismo empirico diffuso nella pratica dei processi (de)generativi delle infrastrutture ad un ottimismo
scientifico del ri-ciclo di queste? / Infrastrutture eco-logiche. Ci sono aspetti della
modificazione del territorio che spesso sfuggono a codificazioni o definizioni esatte
nelle discipline che le indagano o le osservano come l‘architettura e l’urbanistica.
Spesso queste modificazioni sono indotte da sistemi infrastrutturali diversi come forma e funzione, e altrettanto spesso questi sistemi appaiono sempre più inadeguati ad
una dimensione economica, sociale, culturale che vede scambio di merci e persone
tra contesti sempre più ampi e differenti tra loro in relazioni di prossimità tra spazi e
tempi anche molto distanti tra loro. In questa nuova geografia le azioni di trasformazione, frequentemente, sono mutuate da fenomeni derivanti da eventi molto lontani
dai contesti e poco affini al progetto o alla pianificazione che li ha creati, generando
esperienze diverse con ricadute differenziate sul territorio e sulle sue modificazioni.
Nel frattempo, le infrastrutture, hanno con il tempo sedimentato manufatti e strutture urbane e paesaggistiche che con il trascorrere degli anni si sono manifestate
sempre più reciprocamente inadeguate sia per funzionamento sia per resistenza ad
eventi naturali calamitosi, e sia per gestione economica. Il campo delle infrastrutture
è per definizione un campo di frattura tra il territorio e le sue parti, lo relaziona di fatto
e lo connette a scale che appartengono alla logica del funzionamento tecnologico e
prestazionale piuttosto che a quello delle relazioni di prossimità e della continuità.
Riciclare significa individuare tecniche di lettura e comprensione degli elementi che
intervengono in questo campo per provare a smontare i principi ordinatori e riaggregarli secondo nuove logiche, ripensando gli scarti, riprogettando le relazioni, individuando interlocutori, scale di progetto, dimensione economica e nuovi paesaggi sostenibili entro cui definire nuove ecologie. / Metamorfosi dei territori e dei manufatti
infrastrutturali. Le prospettive di lavoro riguardano l’individuazione di elementi di
multidisciplinarietà nella trasformazione dei paesaggi infrastrutturali a partire dalla
codificazione delle azioni semplici e ricorrenti nel campo di applicazione. Esiste una
genetica riconoscibile che accomunano le esperienze italiane a quelle europee, e
questa è riconoscibile e riconducibile alla grande tradizione di architettura dell’inge-
PARADIGMI PER IL RE-CYCLE
DI INFRASTRUTTURE
IN TERRITORI FRAGILI
203
gneria che l’Italia ha rappresentato per decenni e che potrebbe essere rifondante per
una disciplina multiscalare, multiculturale. La sperimentazione dell’ingegneria degli
anni Cinquanta e Sessanta in Italia ha avuto la grande capacità di sintetizzare sia la
sperimentazione con la ricerca sui materiali e i suoi brevetti, con la forma costruendo
un patrimonio semantico fondativo per l’architettura delle infrastrutture contemporanee, paesaggistiche con la ricerca continua tra territorio e sue modificazioni e ambientale con un uso consapevole delle risorse e dei contesti. Da questa prospettiva al
passato che si potrebbero cogliere delle valenze propositive da studiare. In quest’ottica si ipotizza di valutare e costruire modelli teorici e applicativi legati allo slow move
ovvero un offerta di territori e di elementi che lo costituiscono di alta valenza paesaggistica e qualitativa per ragionare su modelli di riciclo economici ed ecologici ma
anche ad un possibile ripensamento del patrimonio infrastrutturale da luogo dello
scarto ad occasione di riqualificazione soprattutto urbana ed ambientale. In questo
processo nuovi materiali e nuove tecnologie potrebbero essere una chiave di progetto
per restituire qualità e appartenenza di questi ad una trasformazione consapevole
e di qualità. / Economia di scala o scala economica del riciclo infrastrutturale. Le
infrastrutture sono componenti essenziali della formazione e del funzionamento dei
territori sia nel passato che nel futuro, ma spesso risultano essere inadeguati o completamente abbandonati. Questa condizione di fatto genera grossi relitti territoriali
con ricadute sia qualitative, ambientali, sociali che economiche. Quasi sempre, questi
elementi, non conferiscono alcun valore alla forma e alla qualità dei territori e dei
paesaggi, tutt’altro, le sconnessioni che originano, la trasformazione dell’ambiente, il
depauperamento di suolo e degrado delle risorse ambientali risultano essere "scarti
di lavorazione" come conseguente configurazione della trasformazione del paesaggio e come assetto definitivo dello stesso. È un dato sostanziale del riciclo l’individuazione delle scale economiche che i processi di recupero o riuso possono generare
o ingenerare e di questo comprenderne attori e processi, progetti e strategie. / Una
posizione di ricerca. Si riassume nella domanda iniziale il paradigma fondamentale
della riflessione. L‘assunzione letterale dei due termini oppositivi riferiti al tema delle
infrastrutture genera già di per sé la definizione di posizioni difficilmente conciliabili
tra loro. Una possibile sfida di questa ricerca potrebbe essere indicata dall’individuazione di tecniche di recupero di manufatti infrastrutturali in una nuova logica di uso
ed economica anche attraverso lo smontaggio e rimontaggio di figure, ruoli, forme,
manufatti e nuovi materiali in cui la costruzione di un sistema metodologico diventi
processo scientifico di ri-ciclo.
* Questo breve contributo è stato elaborato all’interno dell’Unità di Pescara nel Laboratorio
coordinato dalla Prof.ssa Carmen Andriani.
Emilia Corradi, Raffaella Massacesi
>UNICH
204
Re-cycle è economico/ecologico perché economia ed ecologia devono camminare
l’una di fianco all’altra per delineare strategie intelligenti di riciclo dei territori.
Economico non deve essere non ecologico, ecologico non deve essere anti-economico. Ce lo dimostrano le tendenze dell’economia contemporanea, le cui nuove frontiere guardano all’economia circolare come potenziale nuovo paradigma
dell’economia mondiale1. L’economia circolare si basa sulla rivalutazione di un
prodotto nella fase finale di vita, sulla massimizzazione delle possibilità di essere
riutilizzato e sulla ottimizzazione delle potenzialità delle risorse messe in gioco e
dunque sulla riduzione degli sprechi e degli scarti. Tali nuovi paradigmi segnerebbero un percorso innovativo per andare oltre l’obsolescenza programmata verso
un orientamento al recupero, al riutilizzo e al riuso delle risorse. Cosa significherebbe applicare tali paradigmi al territorio? Agire per dare un nuovo senso ai
territori di scarto che per anni hanno sotteso solo dinamiche di consumo lineare
senza prospettive di riciclo è una delle urgenti necessità a cui bisogna rispondere.
In quest’ottica riciclare significherebbe considerare il territorio come una risorsa:
dare nuova vita agli scarti che ci sono stati restituiti, coinvolgendo il territorio in
un’azione rigenerativa, rivalutandolo come risorsa da riattivare. Riciclare implicherebbe il recupero e la ricostruzione delle relazioni economiche ed ecologiche
con il territorio, fare in modo che sia esso stesso il destinatario di un’azione restaurativa e allo stesso tempo sia il supporto di tale azione. Riciclare dovrebbe
riconsiderare i cicli di vita delle attività (agricole, abitative, industriali, ricreative),
i tempi che le sottendono, le relazioni tra loro e con il supporto che le ospita e ciò
che esse stesse ci restituiranno in termini di scarti da riattivare. Riciclare potrebbe
coinvolgere le forze locali, le piccole imprese e la popolazione a partecipare all’implementazione dei cicli di vita del territorio. Senza un coinvolgimento delle forze
locali è impossibile riattivare un territorio in modo sostenibile e duraturo. Riciclare
infine significherebbe riappropriarsi del territorio, renderlo fruibile ma soprattutto
fornire nuove nuove possibilità, nuovi strumenti e nuovi orizzonti di crescita. Per
anni lo "spreco" di territorio e la mancanza di una visione a lungo termine ci ha re-
Dall'obsolescenza
programmata al riciclo
ecologicamente orientato
205
stituito una molteplicità di situazioni di scarto, esternalità inevitabili di sviluppo urbano ed economico, frutto di "un’obsolescenza programmata" di cui ci troviamo a
dover affrontare le conseguenze economiche ma soprattutto ecologiche. I territori
chiedono di essere riattivati, reimmessi in un ciclo in cui gli scarti che producono
non sono il problema da risolvere ma l’occasione da cui ripartire per rigenerare
un territorio e creare nuove economie foriere di benefici non solo quantitativi ma
soprattutto qualitativi per gli spazi e la società.
Note
1. «Desiree Mohindra, Direttrice associata
del dipartimento di comunicazione del Wef,
in collaborazione con la Ellen MacArthur
Foundation, rivela che il passaggio ad
un’economia circolare a livello mondiale
sarebbe in grado, in soli 5 anni, di generare
500 milioni di dollari in risparmi sui costi
dei materiali, 100.000 nuovi posti di lavoro
ed evitare che nel mondo 100 milioni
di tonnellate di rifiuti finiscano nelle
discariche a livello globale.» (Umberto
Mazzantini) tratto da www.greenreport.it,
27 gennaio 2014.
Immagine
Zona industriale Giugliano Qualiano,
impianti dismessi. Immagine tratta da Bing
Mappe
Emanuela De Marco
>UNINA
206
Perché parlare di stormwater re-cycle?
L’acqua, con il suo ciclo naturale, è la
risorsa, che più di qualsiasi altra, ha
intrinseco il processo di riciclo. Se con
il termine re-cycle intendiamo il processo di trasformazione di una risorsa
al fine di essere riusata per altri scopi,
non si può prescindere dal sostenere
che l’acqua sia per sua stessa natura l’elemento che più si trasforma (nei
suoi tre stadi: solido, liquido e gassoso)
e negli stadi di questa continua trasformazione risulta indispensabile per tutti
gli esseri viventi e tutti i processi biologici. Il processo naturale di riciclo delle
acque meteoriche risulta però sempre
più ostacolato e complesso, specialmente nell’habitat contemporaneo e in
relazione all’espansione delle aree urbane, a causa dell’aumento di superfici
impermeabili e alla derivante riduzione
di zone di infiltrazione. Le conseguenze di questo processo sono sempre più
evidenti agli occhi di tutti quando in presenza di nubifragi ci troviamo di fronte
a sempre più devastanti inondazione o
a vere e proprie alluvioni. Recuperare le
acque meteoriche e destinarle a nuovi
usi è oggi più che mai indispensabile
sia dal punto di vista sociale, ecologico,
ambientale, ma anche estetico, ed è una
vera e propria emergenza soprattutto
in relazione al mutamento climatico.
Perché considerare lo stormwater recycle economico/ecologico? Nuovi studi,
pubblicati dalla Commissione Europea1
ribadiscono l’importanza di rafforzare la protezione dalle inondazioni e di
passare a una fiscalità più ecologica.
“Investire nella protezione dalle inondazioni può apportare benefici complessivi
per l’economia, soprattutto se si privilegiano soluzioni basate sulla natura,
molto efficaci sotto il profilo dei costi”2.
Eco-strategie, nella duplice accezione economico/ecologico, di gestione
ECO-STORMWATER RE-CYCLE.
NEW LANDSCAPES - NEW LIFE.
Il progetto di riciclo
e riuso delle acque
meteoriche per
l’adattamento climatico e la
creazione di nuovi paesaggi
207
dell’acqua sperimentate, massimizzate
ed integrate nel progetto di paesaggio,
sono oggi la base di vere e proprie politiche nazionali e urbane in diversi paesi
del mondo. È questo il caso della Danimarca e di alcuni importanti progetti
di adattamento climatico che si stanno
realizzando per esempio nella città di
Kokkedal3 e nella capitale. Copenhagen,
con il suo CPH 2025 Climate Plan4, ha
avviato una serie di progetti per preparare la città ai nubifragi, evitare le
inondazioni e creare quartieri a prova di
clima, riciclando l’acqua piovana e rendendola visibile nello spazio pubblico.
Tra questi non si può non annoverare i
progetti, Indre By Skybrudsplan5, Det
Første Klimakvarter6 e il più recente e
innovativo Klimaflise7, tutti dello studio
Tredje Natur. L’incentivazione della raccolta delle acque piovane e di un suo
riuso locale costituiscono una grande
opportunità per la rigenerazione urbana
e la creazione di nuovi paesaggi e nuovi
cicli di vita. Le straordinarie proprietà
dell’acqua, nelle sue applicazioni estetiche, ricreative, sostenibili e funzionali
e come elemento di interazione capace
di donare una nuova qualità e identità
ai territori, rendono l’acqua oltreché un
materiale economico/ecologico del progetto di paesaggio, anche il simbolo di
identità culturale e sociale di intere comunità. In tal senso una riflessione sul
riciclo dell’acqua non può essere non
considerata anche sotto il profilo etico/
Emanuela Genovese
>UNIRC
estetico, in relazione alle nuove politiche
urbane anche autoriale/politico e grazie
alla ricerca ed alla sperimentazione del
settore anche noto/innovativo.
Note
1. T. Fenn, D. Fleet, L. Garrett, E. Daly,
C. Elding, M. Hartman, J. Udo, Study
on Economic and Social Benefits of
Environmental Protection and Resource
Efficiency, Related to the European
Semester, (ENV.D.2/ETU/2013/0048r), Final
Report, prepared for DG Environment,
February 2014; D. Hogg, M. Skou Andersen,
Elliott T., C. Sherrington, T. Vergunst, S.
Ettlinger, L. Elliott, J. Hudson, Study on
Environmental Fiscal, Reform Potential in 12
EU Member States, No 07.0307/ETU/2013/
SI2.664058/ENV.D.2, Final Report to DG
Environment of the European Commission,
February 2014.
2. J. Potocnik, European Commissioner
for the Environment at the opening of the
Greening the European Semester workshop
on 28.11.2013.
3. Schønherr, BIG, Rambøll, Klimatilpasning
Kokkedal. http://www.schonherr.dk/
projekter/772/.
4. City of Copenhagen, Technical And
Environmental Administration, CPH 2025
Climate Plan, www.kk.dk/climate, June 2012.
5. Tredje Natur, Indre By Skybrudsplan.
http://tredjenatur.dk/portfolio/indre-byskybrudsplan/.
6. Tredje Natur, Det Første Klimakvarter.
http://tredjenatur.dk/portfolio/klimakvarter/.
7. Tredje Natur, ACO Nordic, Wewers,
Teknologisk Institut, Kollision, Orbicon,
Klimaflise. http://tredjenatur.dk/portfolio/
klimaflise/.
208
ORDITURE DEL TERZO SPAZIO
FABBRICARE L'AGRICOLTURA
209
Le trasformazioni sociali della cultura rurale hanno caratterizzato la forma stessa
del paesaggio agrario.
E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano
Come spesso accade nel gap tra la ricerca teorica sul paesaggio urbano e la realtà
delle trasformazioni del territorio, il fenomeno di abbandono del suolo agricolo ha
innescato un processo di riappropriazione "spontaneo" dell'uso della terra con attività economiche più redditizie, caratterizzate da progetti il più delle volte estranei
alla cultura architettonica. Il progetto Re-cycle viene inteso come opportunità per
riportare al centro della questione il ruolo del progetto come strumento di reinterpretazione della funzione agricola che seppur declassata ad un ruolo secondario
rispetto alle dinamiche economiche urbane, possa continuare ad essere strumento di salvaguardia del territorio sia come sostentamento economico che ecologico.
Le dualità della tesi:
Economico crisi dell’agricoltura
agricoltura “fai da te”: sostentamento familiare; sfondo di supporto ad una attività urbana primaria
VS
agricoltura come macchina per la grande distribuzione: esportazione immagine
Italia; cicli produttivi “esatti” e continui
Ecologico agricoltura come progetto
strategie di trasformazione diffusa degli spazi pubblici: la campagna in città;
riappropriazione dell’attività agricola nelle aree rurali abbandonate negli interstizi
del territorio urbanizzato
VS
centralità architettoniche: abitare le serre: riciclo delle strutture industriali agricole dismesse come potenzialità di sviluppo urbano; salvaguardia del suolo
Immagine
Coltivazioni in serra - Almeria
Paola Misino
>UNICH
210
Per riattivare paesaggi agrari abbandonati è necessario puntare su progetti di riciclo in grado di intrecciare nuove relazioni di reciprocità tra l'urbano e il rurale, a livello economico,
ecologico, sociale. Sperimentare forme di agricoltura ecocompatibili per generare economie, garantire la produzione
di ambiente e territorio, offrire la fruizione sociale di servizi,
riportare la Comunità a vivere e ad occuparsi dei propri territori. Re-cycle è dunque economico, ed ecologico.
RICONESSIONI
AGROURBANE
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Elisabetta Nucera
>UNIRC
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ECONOMIA-ECOLOGIA
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«Noi costruiamo la nostra immagine del mondo con le informazioni che
ci vengono dai nostri sensi» (Lynch 1977, 197): per questo riciclare vuole
dire riposizionare lo sguardo, ridefinire la scala dei valori rispetto a materiali e contesti in un dialogo non oppositivo tra economia ed ecologia.
Non possono più darsi le condizioni di una crescita illimitata, perché in
un contesto come quello ecologico – limitato per definizione – ciò produce
una conflittualità senza soluzioni. Senza rinunciare agli obiettivi collettivi
di crescita come benessere, resilienza e abitabilità delle nostre città, nel
contemporaneo è necessario orientare le strategie diversamente. Verso la
valorizzazione delle risorse non riproducibili; verso nuove attitudini culturali, per interpretare/comprendere/prefigurare sequenze di cicli di vita
capaci di creare una nuova armonia tra spazio, tempo e società. Riciclare
vuol dire ripensare contesti in chiave ecologica, per produrre una nuova
economia del benessere.
Michelangelo Russo, Danilo Capasso
>UNINA
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Finito di stampare nel mese di giugno del 2014
dalla « ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. »
00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15
per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma