Re-It 05 isbn 05 RE-CYCLE OP_POSITIONS I 978-88-548-7239-4 Aracne euro 30,00 Re-cycle Op_positions I Re-cycle Op_positions I e II raccolgono gli atti dell’omonimo convegno che si è tenuto il 4 aprile 2014 presso l’Università Iuav di Venezia a cura di Renato Bocchi e del Laboratorio Re-cycle. Oltre agli atti sono presenti alcune riflessioni che hanno preceduto e seguito l'incontro veneziano. I due volumi riguardano rispettivamente il primo le due sessioni etico/estetico, ecologico/economico, il secondo le altre due sessioni noto/innovativo, autoriale/politico. Le coppie oppositive (op_positions) hanno avuto lo scopo di generare un dibattito e una presa di posizione (positions) più chiara e incisiva possibile sui modi di interpretare il tema del riciclo negli ambiti disciplinari dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio. Alcuni contributi sono in forma di manifesto, altri di saggio: i primi sono il risultato di una call interna alla rete di ricerca, i secondi corrispondono sostanzialmente alle relazioni presentate al convegno. Il filosofo Rocco Ronchi, l’economista Ezio Micelli, il critico d’arte Marco Senaldi e il sociologo Federico Boni sono stati chiamati a partecipare in qualità di testimoni di angolazioni disciplinari differenti rispetto a quelle presenti nel progetto di ricerca Re-cycle Italy. 1 RE-CYCLE OP_POSITIONS I A CURA DI SARA MARINI SISSI CESIRA ROSELLI 2 Progetto grafico di Sara Marini e Sissi Cesira Roselli Copyright © MMXIV ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978-88-548-7239-4 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: giugno 2014 3 PRIN 2013/2016 Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale Area Scientifico-disciplinare 08: Ingegneria civile ed Architettura 100% Unità di Ricerca Università Iuav di Venezia Università degli Studi di Trento Politecnico di Milano Politecnico di Torino Università degli Studi di Genova Università degli Studi di Roma "La Sapienza" Università degli Studi di Napoli "Federico II" Università degli Studi di Palermo Università degli Studi "Mediterranea" di Reggio Calabria Università degli Studi "G. d’Annunzio" Chieti-Pescara Università degli Studi di Camerino 4 Re-cycle Op_positions I e II raccolgono gli atti dell'omonimo convegno che si è tenuto il 4 aprile 2014 presso l'Università Iuav di Venezia a cura di Renato Bocchi e del Laboratorio Recycle. Oltre agli atti sono presenti alcune riflessioni che hanno preceduto e seguito l'incontro veneziano. Il Laboratorio Re-cycle è un tavolo che vede lavorare assieme i responsabili degli undici laboratori presenti nei diversi Atenei coinvolti nella ricerca: Sara Marini e Stefano Munarin per l'Università Iuav di Venezia, Chiara Rizzi per l'Università di Trento, Andrea Gritti per il Politecnico di Milano, Mauro Berta per il Politecnico di Torino, Raffaella Fagnoni e Alberto Bertagna per l'Università di Genova, Francesca Romana Castelli per L'Università di Roma "La Sapienza", Fabrizia Ippolito per l'Università "Federico II" di Napoli, Daniele Ronsivalle per l'Università di Palermo, Consuelo Nava per l'Università "Mediterranea" di Reggio Calabria, Francesca Pignatelli per l'Università "Gabriele d'Annunzio" di Chieti Pescara, Giulia Menzietti per l'Università di Camerino. Hanno lavorato alla segreteria del convegno Sissi Cesira Roselli e Vincenza Santangelo dell'Università Iuav di Venezia. 5 Indice re-cycle Re-cycled Paper Renato Bocchi 13 Il territorio reale e il territorio dell'architettura Sara Marini 22 OP_POSITIONS (Ri)costruire il senso. Verso un marchio di qualità Re-cycle Italy Raffaella Fagnoni 33 Alcune questioni... per una teoria del re-cycle Giulia Menzietti 38 Il carattere sovversivo del riciclo Chiara Rizzi 44 L'assedio, ovvero per una tattica di uscita dai confini del riciclo Daniele Ronsivalle 49 etico/estetico Il bello e il buono di Re-cycle Andrea Gritti 57 6 Il filosofo e i resti Rocco Ronchi 65 Frammenti e dintorni. Divagazioni etiche e derive estetiche Matteo Aimini 73 La metafora del Riciclo Sara Favargiotti 83 Objet trouvé o ready-made? Enrico Formato 90 I'm so vain. Just, don't waste me away Maria Clara Ghia 96 Que lo hermoso sea poderoso. Una conversazione virtuale con Ramon Folch Stefania Staniscia 103 Il progetto di riciclo potrà incidere sul nostro spazio di vita se saprà costruire i termini semplici di un nuovo codice urbano e paesistico Federico Zanfi 107 Il processo come estetica del riciclo Guya Bertelli, Juan Carlos Dall'Asta, Paola Bracchi, Giuliana Bonifati 114 Il paesaggio imperfetto Gianni Celestini 116 Il progetto dell'emergenza. Etica = Estetica condivisa: "La bellezza salverà il mondo" Barbara Coppetti, Andrea Di Franco, Mauro Marinelli, Alisia Tognon 118 Re-cycle [è] può essere etico/estetico. Derive e potenzialità di un paradigma ancora da scrivere Carlo Deregibus 120 7 Re-cycle. Visione e pensiero Giovanni Hänninen 122 Discarica paesaggio Venera Leto 124 Recycle (Upcycle) urbano è... e perchè. Strategia per la rete del verde locale a favore di un ritorno dell'etica disciplinare nel progetto della città Lucia Nucci 126 La bellezza del giusto Adriano Paolella 128 Riciclo [compimento] estetico [est]etico del margin[al]e Luca Zecchin 130 ECONOMICO/ECOLOGICO Total Recycle Design/Total Recycle Process Consuelo Nava 135 Il recycle come opzione e come necessità. Le condizioni economiche del riuso tra stagnazione e ripresa Ezio Micelli 142 Cycle vs Re-cycle Marco Bovati, Cassandra Cozza 152 Sguardi rovesci, strabici Emanuel Lancerini 159 Oltre le retoriche del green e dello smart ci sono un’economia e un’urbanistica fatte di manutenzione innovativa e trasformatrice Arturo Lanzani 165 Progetti e rifiuti Rosario Pavia, Matteo di Venosa 173 8 Il paesaggio che resiste: Re-cycle come attitudine Cristina Sciarrone 179 Blue (+) Green settlements. Towards a new land/water network of drosscapes Sabrina Sposito 186 Rurbanscapes: oltre il paesaggio Ignazio Vinci 193 Nuove ecologie/economie latenti Libera Amenta, Susanna Castiello, Cecilia Di Marco 198 Ri-ciclo fondato sul progetto Claudia Battaino 200 Paradigmi per il re-cycle di infrastrutture in territori fragili Emilia Corradi, Raffaella Massacesi 202 Dall'obsolescenza programmata al riciclo ecologicamente orientato Emanuela De Marco 204 Eco-stormwater re-cycle. New landscapes-new life. Il progetto di riciclo e riuso delle acque meteoriche per l'adattamento climatico e la creazione di nuovi paesaggi Emanuela Genovese 206 208 Orditure del terzo spazio. Fabbricare l'agricoltura Paola Misino Riconessioni agrourbane Elisabetta Nucera 210 Economia/Ecologia Michelangelo Russo, Danilo Capasso 212 9 10 RECYC CLE 11 Sissi Cesira Roselli, Resident, Londra 2013 12 13 RE-CYCLED PAPER Renato Bocchi >IUAV Nei quattro quaderni che raccolgono le prime elaborazioni teoriche svolte dal nostro vasto gruppo di ricerca lo scorso anno, si possono rintracciare varie linee di pensiero, distinte o fra esse intrecciate, circa il tema del riciclo architettonico, urbano e del paesaggio. Questo secondo convegno – a distanza di un anno – intende identificare le "tesi" che fondano quelle differenti linee di pensiero e confrontarle apertamente in una dialettica che mi auguro costruttiva, in quanto chiarificante delle rispettive posizioni. Abbiamo proposto – attraverso un intenso lavoro svolto dagli undici responsabili di sede del Laboratorio Re-cycle – di fare il punto sulla questione, partendo dalla discussione di quattro coppie oppositive secondo le quali il concetto di riciclo può essere declinato e definito. Le coppie oppositive prescelte – cui sono dedicate le quattro sessioni del convegno – sono: etico/estetico, economico/ecologico, noto/innovativo, politico/autoriale. 14 Provo qui a sintetizzare le linee di pensiero che mi paiono emergere dai quattro quaderni fin qui pubblicati. LINEA 1/a – L’infrastruttura ambientale come matrice del riciclo territoriale Una prima linea di pensiero accomuna vari contributi, soprattutto torinesi, veneziani e romani, e ha a che fare sia con le coppie economico/ecologico e noto/innovativo (privilegiando – mi pare – gli aspetti ecologici e del già noto) sia con la coppia politico-autoriale (con propensione – mi pare – per la dimensione politica). La possiamo riassumere con gli slogan proposti da Antonio De Rossi e Mauro Berta: «Una "ritirata strategica" dall’urbanizzato (intesa come opportunità per ripensare le modalità di progettare e costruire il territorio e per ricalibrare e riorientare i modelli di sviluppo) e una "geografia della restituzione" (intesa come opera di rinforzo tramite una rinaturalizzazione dei territori resi più fragili dallo sviluppo).» Si tratta dunque di un riciclo che gioca a favore della riscoperta di valori perduti e obliterati, nascosti nelle pieghe dell’infrastrutturazione più ancestrale dei territori – soprattutto nell’armatura geografica: riguarda i grandi telai infrastrutturali, ritenuti fondamentali per una strategia di "riciclo territoriale" in funzione di un modello di fruizione "lento" – contrastante le logiche dello sviluppo capitalistico imperante – in cui per esempio i paesaggi fluviali possano tornare ad essere – come dicono Carlo Magnani e Emanuel Lancerini – infrastruttura del paesaggio, in quanto contribuiscono ad aumentare la qualità della vita. La rete ambientale – come proposto anche dagli studi dei colleghi di Roma sulla "coda della cometa" – vuol tornare così ad essere fondante dell’armatura territoriale. LINEA 1/b – I telai infrastrutturali nei territori fragili Un corollario di questa linea di ricerca è presente soprattutto nell’elaborazione del gruppo pescarese, quando indaga non più sul «"troppo pieno" delle conurbazioni più dense e più efficienti, ma soprattutto sul "troppo vuoto" dei territori fragili dell’entroterra abruzzese e lavora sul possibile riciclo delle infrastrutture deboli – come per esempio le ferrovie minori in via di dismissione – capaci di stabilire reti di prossimità» (Carmen Andriani). Questo ragionamento può accostarsi alle ricerche sui territori dei grandi conflitti bellici condotte dal gruppo veneziano Ferlenga-De Maio, in cui «il reimpiego fisico dei resti di un ciclo esaurito si accompagna a 15 quello immateriale di tradizioni, riti, leggende e in cui la topografia transtemporale delle guerre sembra aver trasformato e rappresentato il paesaggio più di ogni altro evento. Si mantiene così il valore di un modo di interpretare l’infrastruttura-paesaggio, tale da proporsi come il supporto logistico al sistema stesso degli attuali usi turistici.» LINEA 2/a – Nuovi paradigmi. Per una strategia etico-politica del riciclo urbano-territoriale Una seconda linea di pensiero e d’azione disegna invece una strategia etico-politica del riciclo urbano-territoriale lavorando sulla ricerca di nuovi paradigmi. Non si lavora in tal caso sul riciclo di valori positivi consegnati dall’eredità storico-geografica e sostanzialmente obliterati dai processi di trasformazione, quanto piuttosto sul riciclo di disvalori (di scarti), tuttavia in funzione positiva, cioè per la costruzione di nuovi modelli insediativi che riescano a metamorfizzare quegli stessi scarti. Scrive Mosè Ricci: «Riciclare vuol dire creare nuovo valore e nuovo senso. Il concetto del riciclo implica una nuova storia e un nuovo corso. Coinvolge la narrazione più che la misura. Il suo campo di riferimento è il paesaggio, non il territorio. Il "recycle footprint" è l’impronta che precedenti cicli di vita di parti urbane dismesse o abbandonate lasciano sulla città; rappresenta la geografia dei luoghi urbani abbandonati o sottoutilizzati e ne descrive il valore potenziale: è il patrimonio reale che la città che non consuma suolo può spendere sul progetto del proprio futuro.» Fondamentale è tuttavia il ripensamento dei nuovi principi insediativi stessi con cui reintegrare e manipolare i "resti", fondato su una rinnovata volontà di integrazione con i caratteri salienti del paesaggio. Il nuovo ciclo di vita ripensa totalmente il materiale del preesistente. È un processo di vero e proprio ri-germoglio, come lo chiama Maurizio Carta. LINEA 2/b – Per un'ecologia artificiale Un corollario di questa linea di pensiero – che potrei definire Per un’ecologia artificiale, rubando a Consuelo Nava una citazione da Stan Allen – propone di accogliere la propensione popolare al riciclo (Vincenzo Gioffrè) per estenderla agli scarti del paesaggio. È una linea che, attraverso il concetto di riciclo, cerca esplicitamente di sposare ecologia e paesaggio. «Occorre recuperare» – dicono i colleghi reggini richiamandosi agli ultimi scritti di Kevin Lynch – «l’enorme quantità di suoli abbandonati […] verso 16 un concetto più sostenibile di rigenerazione della "terra esaurita", quale terra abbandonata proprio per i cambiamenti di mercato.» E cercano di individuare modalità attraverso le quali questo capitale di "energia grigia" investita, che ha prodotto enormi danni ambientali, possa ritornare ad essere un bene comune, istituendo uno stretto rapporto con attività di partecipazione comunitaria, che sfruttino a dovere il lavoro dal basso presente nelle spinte sociali dei nostri tempi di crisi. LINEA 2/c – Riciclo urbano come bricolage e come Merz-Bau Un secondo corollario di questa linea di pensiero si può rintracciare nella posizione che vede il «riciclo urbano come strumento di bricolage per costruire quello che Schwitters chiamava Merz-Bau»: una linea che sembra proporsi di coniugare obiettivi etici ed estetici e in qualche modo anche l’autoriale col politico. Nicola Emery (in Distruzione e progetto, Marinotti, Milano 2011) ci ha recentemente ricordato come la "filosofia Merz" di Kurt Schwitters, fondata sul raccogliere-riformare e curare detriti e scarti, tendesse infatti a superare il riciclo in senso meramente mercantile-produttivo per aprire alle "pratiche sociali dal basso", proponendo di fatto una coniugazione degli obiettivi estetici (dell’opera d’arte) con quelli di natura etico-sociale e quindi politica. «La Merz-Stadt – spiega Emery – presuppone un controllo dell’economico "prestazionale" da parte di un riattivato principio di cittadinanza». L’approccio del bricoleur invocato da Walter Benjamin e ripreso dagli studi antropologici di Levi-Strauss è allora forse da riscoprire – come propone Angrilli – per articolare l’azione del riciclo urbano. «Come per il bricoleur» – dice Angrilli – «a regola del gioco per progettare nuovi cicli di vita per i territori fragili consiste nel rielaborare continuamente ciò che ci offre il contesto, escogitando sempre nuove possibilità combinatorie e creative.» Io stesso ho sostenuto altrove (The Waste Land-scape, in A. Bertagna, S. Marini, The Landscape of Waste, Skira, Milano 2011) la volontà di «disegnare un processo che costruisca relazioni (spazio-temporali) fra i frammenti-scarti della nostra civiltà post-industriale per giungere a qualcosa come un merz-bau à la Schwitters, dove la dinamica temporale sia attentamente considerata e incorporata in funzione "proiettiva", assumendo un metodo simile a quello proposto da Eliot nella sua Waste Land». Il che presuppone tuttavia – e questo è il nodo a mio parere – l’uso del bricolage in funzione di un’istanza di ordine finale. Ovvero: costruire – più 17 ancora che un racconto – un montaggio (ipertestuale) di cose e di immagini capaci di delineare un quadro spaziale complesso e però anche continuamente in evoluzione: insomma un palinsesto che contenga tracce del passato ma "immagini" anche un possibile futuro. Il che significa appunto disegnare nuove "crudeli primavere", utopie del possibile – se si vuole – che possano realizzarsi anche attraverso frammenti e con interventi minimi e puntuali e certamente attraverso meccanismi processuali, ma che puntino comunque a un disegno di riattivazione e rigenerazione più globale. «Elevato a paradigma, il riciclo come "ri-germogliazione", diviene un tramite» – secondo le parole di Alberto Bertagna – «un connettore e un facilitatore, grazie al quale ricomporre un quadro contemporaneo complesso, sconnesso»: non mai definitivo – dico io – ma processualmente tendente comunque a un fine ultimo. LINEA 3 – Scarti, rifiuti, aree inquinate (politiche per) Una terza linea di pensiero che attraversa i nostri lavori riallaccia il tema del riciclo più specificamente alle politiche per il recupero degli scarti, dei rifiuti e delle aree inquinate, quindi a una dimensione squisitamente politico-pianificatoria, privilegiando decisamente gli obiettivi economicosociali e politici del riciclo. «Riciclare» – scrive al riguardo Rosario Pavia – «non attiene solo ai rifiuti in senso stretto ma anche ai territori in abbandono e alle infrastrutture sottoutilizzate e dismesse. Riciclare significa in sostanza rendere il territorio più sostenibile, più efficiente dal punto di vista energetico e di consumi, più produttivo e accessibile. Riciclare porta a modernizzare, trasformare, densificare, interconnettere.» Si rende quindi necessario mappare una geografia del «drosscape, quale arcipelago di spazi contaminati» – come propone il gruppo napoletano – e delineare perciò «network paesaggistici multiscalari costituiti da spazi aperti abitati e multifunzionali, dando luogo a un vero progetto di bonifica – un progetto che sia stratigrafico-relazionale nello spazio e resilienteadattativo nel tempo.» (Carlo Gasparrini). LINEA 4 – Dalla modificazione ai nuovi cicli di vita: la costruzione di una teoria della città e del territorio come risorse rinnovabili Ma il tema del waste è solo la punta dell’iceberg della questione del riciclo. Nella direzione di una teoria di tutta la città e di tutto il territorio come ri- 18 sorse rinnovabili, il gruppo Viganò, per esempio, propone come chiave di s-volta di passare decisamente dal concetto di modificazione su cui si appuntavano gli studi urbani degli anni Settanta e Ottanta al concetto di nuovi cicli di vita. La metamorfosi è allora il nuovo paradigma proposto. «Essa indica un cambiamento di stato, segnala la distanza da un dibattito che di fronte ai primi segnali di trasformazione epocale (soprattutto le grandi dismissioni industriali) ha cercato di stabilire linee di continuità con il moderno ed il suo progetto.» Si cerca dunque di riscoprire e liberare l’energia incorporata nei nostri territori urbanizzati. «Il concetto di "ciclo di vita", associato al Viaggio in Italia» – aggiunge Paola Viganò – «è un "theory-building device" per affrontare il passaggio del tempo e i mutamenti strutturali nelle organizzazioni e nei processi di crescita o di declino. […] La nostra ipotesi è che questi processi possano essere compresi a partire da una lettura dello spazio.» Emerge così una dimensione temporale del costruire (Ilaria Valente), tutta da mappare e interpretare. LINEA 5 – Postproduzione, strategie di riciclo e di abbandono, processi di selezione Ma possiamo pensare che il riciclo diventi anche uno specifico innovativo paradigma per il progetto contemporaneo? La linea di pensiero che potremmo chiamare "marchigiana" – proposta da Sara Marini, in diretta continuità con l’impostazione della mostra Re-cycle di Pippo Ciorra e con le ricerche dell’Unità di Ascoli, sottolinea il significato delle strategie del riciclo, e anche delle possibili (se non necessarie) strategie di abbandono, come processi di post-produzione che impongono dei precisi processi di selezione. «Riciclare (secondo le varie accezioni di upcycle, hypercycle, downcycle, ecc.) implica» – spiega Sara Marini – «la moltiplicazione dell’utilizzo dell’oggetto, la sua aspirazione ad una sorta di ossessiva possibilità di recupero perenne attraverso la ripetizione di una sequenza fissa di eventi o l’istituzione di diversi processi.» Si constata l’assenza nel contemporaneo di un immaginario (insomma di una visione di futuro), «l’incapacità di costruire nuovi mondi a partire dallo scarto, incapacità dettata dall’interpretazione sostanzialmente tecnologica ed ecologica del "nuovo materiale" con il quale si progetta. Si tratta allora di scegliere esplicitamente cosa salvare, su cosa investire, 19 e anche cosa togliere, cosa perdere. La "scelta" che attende il progetto potrebbe appunto non coincidere più e soltanto con incrementi di quantità ma con la sfida di affermarsi agendo attraverso demolizioni. Il progetto è doppio: è anche decidere cosa cancellare.» Sembra emergere quindi decisamente in questo caso una dimensione estetica, autoriale ed innovativa del progetto di riciclo. È qui allora che si ipotizza – come fa per esempio Marco D’Annuntiis – un passaggio dalla dimensione etica a quella estetica: «Ciò che è "politicamente corretto", in quanto prodotto di riuso/riciclo, può risultare per ciò stesso anche dotato di senso e quindi: "bello".» «In quale modo» – si chiede D’Annuntiis – «il riuso/riciclo inteso come strategia fondativa può segnare diversamente il progetto di architettura, rispetto al modo che ognuno ha già di rapportarsi con ciò che pre-esiste nell’azione progettuale? Portata al suo estremo – pur senza ricadere negli opposti estremismi della tabula rasa e della rinaturazione – tale strategia dovrebbe prevedere anche la cancellazione, totale o parziale, di segni e materiali esistenti per riciclare ancora una volta il palinsesto territoriale, riscrivendo o sovrascrivendo su di esso un nuovo discorso.» Provvisorie conclusioni: la verità, vi prego, sull’autore Dal dibattito nel convegno, esprimendo un parere del tutto personale – al di là delle evidenti differenti declinazioni proposte per il tema e il concetto di ri-ciclo già in parte presenti nella tassonomia qui sopra genericamente proposta – sono emersi almeno due-tre piani distinti di discorso, che forse possono chiarire in parte i nessi e le possibili correlazioni fra le linee di pensiero individuate ed i filoni di ricerca ed elaborazione che ne derivano. Da un lato, il concetto di nuovo ciclo di vita si propone come possibile costruttore di un nuovo scenario futuro dei modelli insediativi e del loro rapporto con i paesaggi italiani del XXI secolo: si tratta in questo caso di un’elaborazione che sembra dover far leva su una visione "autoriale" (non uso a caso questo termine, che richiama appunto elaborazioni "visionarie" da parte della cultura architettonico-urbana, talvolta sconfinanti in "utopie" più o meno possibili o futuribili, e in tal senso comunque "innovative") basata su nuovi paradigmi sia socio-economici sia urbanistico-territoriali, capace di rovesciare i termini di lettura del quadro territoriale presente. Non a caso si insiste da più parti sulla messa a punto di "nuovi paradigmi", di una mappatura della "città inversa", della necessità insomma di 20 lanciare un "nuovo sguardo" sui fenomeni di trasformazione urbana e territoriale e di "cambiare verso" (se vogliamo il "verso" all’attuale premier) al governo di tali fenomeni. Si tratta quindi di elaborare da parte della cultura architettonico-urbanistica, a partire da una coscienza "politica" attenta e disincantata, visioni rinnovate e strategiche, fondate sul concetto di nuovo ciclo di vita, capaci di informare la filosofia e le tecniche di lettura e gli strumenti di governo di quei fenomeni medesimi, in cui possono trovare senso anche le parole d’ordine spesso abusate che ricorrono nei nostri discorsi programmatici, quali paesaggio e sostenibilità. Da un altro lato, il concetto di riciclo, in termini più tecnici e strumentali, sembra proporsi come chiave di volta per un’azione, per sua necessità squisitamente "politica", e quindi per l’intervento concreto sui processi in atto, attraverso "azioni" mirate, incisive, "tattiche", molto spesso compiute secondo interventi "dal basso", capillari, "omeopatici", infiltranti il corpo delle città e dei territori. Si tratta quindi di innescare e attuare progressivamente "processi" rigeneratori, nei quali gioca di nuovo un ruolo, da un lato, l’"autorialità" in fase di innesco dei processi stessi (dando spazio a un taglio più creativo e inventivo di azione progettuale) e dall’altro la "politicità" in fase di progressività dell’azione e di messa a sistema dei processi trasformativi (con l’intervento anche di meccanismi e incentivi di tipo economico-fiscale, normativo-legislativo e squisitamente politico). Lo strumento progettuale del riciclo, con la sua incisività e innovatività sia in senso ecologico sia in senso economico – persino laddove ripensi e rimetta in essere tecniche già collaudate e sperimentate nel passato nelle nostre discipline – può forse uscire allora dalle secche della parola d’ordine politically correct e farsi invece portatore di un rinnovamento anche degli strumenti disciplinari dell’architettura, come avviene nelle sperimentazioni più interessanti dell’architettura internazionale, convertendosi non troppo paradossalmente in un più interessante significato politically uncorrect. Non è in tal senso certamente casuale la celebrazione sempre più frequente di figure che in questo campo hanno aperto le porte da tempo ad una efficace e audace sperimentazione: dal Pritzker a Shigeru Ban, al successo crescente degli appelli "ecologici" e "sociali" di architetti altrettanto e più sperimentatori, anche sul piano delle tecnologie, quali Toyo Ito o Kengo Kuma, alla crescente influenza in Italia, e non solo, di un 21 guru come Renzo Piano, solo per citare alcune fra le esperienze mediaticamente più visibili. Benché io creda – proprio per questo – che sia poco appropriato parlare di esigenze di "rammendo" come ha fatto di recente Renzo Piano nella sua campagna mediatica, con un termine che troppo richiama ipotesi di rimedio e riparazione o mitigazione, mentre nella parola "ri-ciclo" sembra ritrovarsi una determinazione più forte e radicale, quindi più convincente, a favore di un necessario rovesciamento di prospettiva. 22 IL TERRITORIO REALE E IL TERRITORIO DELL'ARCHITETTURA Sara Marini >IUAV 1. 23 2. René Daumal e Peter Handke aprono e chiudono questa breve incursione nel territorio reale e in quello dell'architettura (guidati dal termine recycle) alla ricerca di confini, tangenze, chiare corrispondenze. «Il territorio cercato deve poter esistere in una regione qualsiasi della superficie del pianeta; bisogna dunque studiare per quali condizioni risulta inaccessibile non solo alle navi, agli aerei o ad altri mezzi di trasporto, ma anche allo sguardo. Voglio dire che, teoricamente, potrebbe benissimo esistere in mezzo a questo tavolo senza che ne avessimo la minima nozione.»1 Il termine re-cycle, in questo percorso di ricerca, si sta dimostrando la cartina al tornasole di una serie di altri intrecci tra parole e cose. Nella ricerca, ponendosi il problema della verità, obbliga a riflettere su strumenti e territori. Il termine riapre la riflessione sul ruolo e lo statuto dell'architettura, in senso più vasto conduce ad una revisione del concetto o della veste contemporanea della modernità. Sostanzialmente re-cycle pone un 24 problema di metodo: esaspera posizioni e opposizioni, o forse semplicemente sottende un'identità molteplice (come da sua definizione). Quando l'impalcatura, la traccia di questa ricerca è stata scritta re-cycle sembrava già essere una parola d'ordine, un termine pervasivo capace di mettere tutti d'accordo e, pur essendo assunto con accezioni differenti, sembrava imminente il suo tradursi in realtà, in prassi. Così non è ancora. Anzi è sempre più evidente che il riciclo è un paradigma soprattutto per la ricerca italiana; altre realtà europee, come ad esempio quella spagnola, non lo contemplano affatto. In Francia e Germania sicuramente questa strategia è tenuta in grande cosiderazione, grazie anche a regole che definiscono la quantità di suolo consumabile, a cui si affiancano norme che permettono ampie libertà di revisione dell'esistente: in queste realtà l'architettura trovata è nuova terra. Termini quali preservation, convertible, réutiliser testimoniano una sensibilità europea al tema spesso concentrata a definire lo strumento progettuale piuttosto che a tracciarne le connivenze con altri campi, con altri cicli. In Italia re-cycle disegna corrispondenze tra architettura, altre arti, produzione: la strategia viene guardata quale grande affresco in cui finalmente la cultura può convergere di concerto. In questi anni la produzione scientifica si sta arricchendo di progetti realizzati, dove spesso il riciclo è un ripiego più che una direzione cercata, mentre la produzione bibliografica spesso si limita a raccolte di sperimentazioni denunciando una sempre più diffusa ritrosia verso la speculazione teorica, relegata agli altri saperi e ad altre arti. Il tutto sembra restituire uno statuto teorico debole, e forse così è, di questa strategia progettuale a fronte di una sua applicazione di necessità, che chiede però ancora spinte normative ed economiche. Fanno eccezione a questo ragionamento una serie di esperienze che hanno nel progetto di recupero di Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal del Palais de Tokyo il capostipite, progetti quali il Matadero di Madrid o molti spazi del lavoro e del tempo libero che possiamo rintracciare nei meandri delle città, forse delle città più ricche d'Europa.2 Si tratta di spazi che assumono il re-cycle come nuova lingua, nuova bandiera d'una idea di modernità cangiante, dichiaratamente non monodirezionale, non tanto in termini spaziali, quanto temporali. Sono spazi della resistenza, della sopravvivenza di vecchi magazzini, edifici dalla storia più o meno ordinaria 25 che persistono in aree soggette a una evidente gentrification. Sono luoghi della collezione, dell'inventario senza ordine, dove quello che conta non è il singolo oggetto e nemmeno la sua autenticità ma l'inventario stesso, sono Wunderkammer o raccolte di storie. Spazi in cui le persone s'incontrano grazie all'appartenenza comune al mondo della produzione, del pensiero, delle arti, dell'immateriale e che trovano nell'accatastamento casuale di cose e di tempi un'atmosfera coincidente con la propria idea di contemporaneità, di modernità. Questi stessi spazi si offrono quale risposta oppositiva al replicarsi di una modernità monotona. Una modernità specchiata che si enuncia nella forza del metro cubo e nell'attualizzazione della città piuttosto che in un messaggio. Una modernità che è il riflesso di un'economia che sembra procedere con traumi ma senza dubbi. In sintesi nello scenario generale, se si guarda alla realtà, il territorio dell'architettura sembra coincidere sostanzialmente con il territorio dell'economia e gli altri termini che potrebbero disegnare opposizioni (etico, estetico, ecologico, noto, innovativo, politico, autoriale) sembrano ancillari. Se si guarda con maggiore attenzione, il territorio dell'architettura non è tanto nelle cose quanto nelle tensioni culturali che questo territorio può esprimere. Gli architetti in Italia firmano il quattro/otto per cento (stando ad alcune precise stime) dei manufatti realizzati. Tornando alla ricerca, già nella tappa nazionale di questo PRIN che si è svolta lo scorso autunno tra le scuole e le città di Pescara e di Ascoli Piceno si è fatta esperienza del dato reale (la città dell'Aquila ne ha rappresentato la bandiera) e del territorio immaginario: oggetto di studio e progetto del workshop TRUE-TOPIA organizzato ad Ascoli Piceno erano territori possibili ma non collocabili, non rintracciali in una mappa. È possibile quindi schematizzare che la ricerca Re-cycle si muove tra cicli di vita e cicli di produzione, tra teoria ed esperienza, utilizzando strumenti quali l'astrazione e l'analisi del contesto. Insistendo su questioni di metodo e sui territori possibili della speculazione, in questo tracciato vengono inseguite e la verità nelle cose e la verità delle cose, affermando l'analogia o sostenendo il neo neorealismo. Riemergono così confini sempre presenti ma non esaustivi tra ricerca di frontiera e ricerca applicata. Oltre la mera opposizione di paradigmi, si perseguono un disegno organico e la necessità di ragionare su strumenti diversi e obiettivi comuni. 26 Posizioni e opposizioni Va precisato che l'opposizione in astronomia è la posizione reciproca di due corpi celesti allineati rispetto all'osservatore e che può rappresentare un momento favorevole per vedere meglio, questo è il senso della costruzione delle quattro coppie di termini. Etico/estetico, economico/ecologico, noto/innovativo, autoriale/politico intercettano e deformano possibili precise posizioni del termine re-cycle. Nel momento in cui il termine re-cycle entra nel dizionario progettuale si vuole sostenere la necessità che il progetto assuma uno statuto etico, a fronte dell'annunciata fine delle risorse e di una domanda di cambiamento dei costumi di come viene gestito il territorio. L'architettura al contempo non può rinunciare ad una dimensione estetica. Se l'uomo è senza contenuto, come sostiene Agamben, l'esperienza dell'arte può sopravvivere anche solo quale promesse de bonheur, come recita Nietzsche, o ancora l'arte può essere interessata, come sostiene Artaud, così come l'idea di bello può dileguarsi in un divenire molteplice3, in sovrapposizioni4. In sostanza re-cycle non è una rinuncia del progetto ma una lingua dello stesso. Certamente il termine deriva dal mondo della produzione. Il riciclo è l'ultima prassi di un procedimento che lascia sul campo scarti. Solo l'analisi economica può definire come e quanto il riciclo sarà "conveniente" e "autonomo" e non continuerà ad essere il semplice retaggio di una produzione di stampo novecentesco. Il riciclo è scontatamente ecologico. Si chiede oggi all'ecologia una nuova idea di città in dialogo con nuove direzioni economiche, mentre la stessa ecologia ondeggia tra l'essere una diversa economia e un paradigma coprente ed esaustivo. Nicola Emery ha ricordato, in occasione di un seminario dedicato a possibili esercizi di postproduzione5, citando una recente sentenza del tribunale torinese i risultati della "virtuosa" (in termini di riciclo del prodotto) capacità dell'eternit di essere riutilizzato tanto da condurre ad un disastro ambientale doloso. Sul riciclo si attestano molti luoghi comuni che lo disegnano eticamente ed ecologicamente positivo e propositivo, l'intervento di Emery ha ricordato il lato oscuro di questa strategia industriale. La coppia di termini noto e innovativo mette in evidenza da un lato il ricorrere della strategia del riciclo nel tempo, dall'altro la capacità diacronica della lingua non solo di mutare ma anche di mutare i paradigmi del fare, o meglio, su questo si sostiene buona parte del territorio letterario dell'architettura. Il riciclo ritorna sulla scena della città, la storia riporta la 27 perenne o meglio ciclica presenza di questa strategia, al contempo va verificato quanto le trasformazioni culturali aggiornino il concetto e la consapevolezza degli obiettivi sottesi nel suo utilizzo. Già la sola tecnologia ci informa di una città che si stratifica non solo per questioni di necessità ma per "ricostituire" il palinsesto virtuale, per citare uno dei paradigmi della ricerca europea sulla città. Mentre le norme rendono sempre più complesso arricchire un disegno che ha raccolto, per diverso tempo, la sommatoria di obiettivi singoli e frammentari. Il riciclo è autoriale e politico. L'autore ne risulta sfigurato o sfuggente. La dimensione autoriale torna ad essere materiale di discussione e di progetto, riemergono questioni quali il ready made reciproco, basti pensare a Daniel Spoerri e alla sua tavola da stiro che supera o esaspera il gesto duschampiano sulla povera Monnalisa di Leonardo da Vinci. Mentre il collettivo chiede di partecipare: tornano echi del progetto politico, dell'atto politico, svuotato di ideologia e più assimilabile a procedure artistiche o anche dettato dalle nuove, vigorose industrie della comunicazione. Altre derive, altre direzioni Nel territorio della ricerca gli otto termini sottolineati rimandano ad un dialogo con chi amministra i territori, con la filosofia, con l'economia, l'ecologia, il design del prodotto, l'industria e la storia, l'arte perseguendo la costruzione di città inclusive, innovative e poi la retorica della ricerca europea recita anche sicure. In sostanza lo scenario disegnato dagli otto termini sembra vasto ma in realtà si muove all'interno del macro settore europeo della ricerca dedicato alle scienze sociali ed umanistiche. Re-cycle può essere appunto un terreno di scambio tra discipline che dall'Italia sembrano distanti e che in Europa convergono verso un comune orizzonte.6 Ciò che può muovere la trasmigrazione di un termine da un sapere all'altro, si pensi ad esempio al palinsesto di André Corboz, prescinde comunque dalle strutture, dai metodi e dai contenitori della ricerca e dipende sostanzialmente dalla necessità e dalla consapevolezza di un sommovimento paradigmatico. Peter Handke rende chiaro che difficilmente la realtà offre verità: è molto più interessante guardare al territorio di mezzo tra ciò che è e ciò che si attende, tra ciò che il territorio dell'architettura vorrebbe che fosse territorio reale e a ciò che il territorio reale offre all'interpretazione come mancata corrispondenza da capire più che da scrivere. 28 «Fu sollevato, quando trovò sulla carta un quadrangolo che non ritrovò nel paesaggio: la casa che doveva esserci in quel punto non c'era, e la strada, che in quel punto faceva una curva, in realtà correva diritta. Parve a Bloch che questa mancata corrispondenza potesse essere d'aiuto.»7 3. 4. 5. 6. 29 Note 1. R. Daumal, Il monte analogo. Romanzo d'avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche, Adelphi, Milano 1991. 2. Si veda ad esempio il paesaggio architettonico e il suo utilizzo nell'area in cui è stato costruito lo store Freitag a Zurigo. 3. Si fa qui riferimento al testo di G. Deleuze, Divenire molteplice. Saggi su Nietzsche e Foucault, Ombre Corte, Verona 1996. 4. Si fa qui riferimento al testo di C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, Quodlibet, Macerata 2012. 5. Il seminario, dal titolo Esercizi di postproduzione si è tenuto presso l'Università Iuav di Venezia il 19 novembre 2013 ed è stato organizzato dall'unità di ricerca Re-cycle. Strategie di riciclaggio per l'architettura e la città del Dipartimento Culture del Progetto dello Iuav. Gli atti del seminario, tra i quali è presente il contributo di Nicola Emery dal titolo Riciclare il capital-nichilismo? Frammento realistico, sono pubblicati in S. Marini, V. Santangelo (a cura di), Ricicli. Teorie da concetti nomadi e di ritorno, Aracne, Roma 2014. 6. Il convegno rappresenta una premessa alla costruzione di nuovi progetti di ricerca per l'Europa: traduzioni di Re-cycle Italy nel panorama internazionale. I progetti assumeranno, per tornare ai metodi della ricerca, ricadute operative in virtù anche del dialogo sia con chi amministra che con chi produce il territorio. Il convegno è anche l'introduzione di un ciclo di seminari intitolato Immateriali ricicli dedicato alle teorie del re-cycle che si svolgerà da ottobre 2014 a gennaio 2015 presso il MAXXI B.A.S.E. a Roma. 7. P. Handke, Prima del calcio di rigore, Feltrinelli, Milano 1981. Immagini 1. Venice 2014 2. Il piroscafo Aquitania in Le Corbusier, Verso un'architettura, 1923 3. Sissi Cesira Roselli, Padiglione americano, Biennale, Venezia 2012 4. Sissi Cesira Roselli, Palazzo Grassi, Venezia 2014 5. Sissi Cesira Roselli, Teatri, Brescia 2011 6. Sissi Cesira Roselli, Illuminazioni, Brescia 2013 30 OP_ POSIT 31 IONS 32 33 (Ri)costruire il senso. Verso un marchio di qualità Re-cycle Italy Raffaella Fagnoni >UNIGE Al termine re-cycle si associa una riflessione sul tempo, una narrazione dell’esperienza individuale e collettiva in cui il progetto è un piano che altera la logica del tempo esistente. Il tempo è fattore-chiave di ogni sensemaking progettuale. Il tempo è punto di partenza per storie che cambiano prospettive. #cornice di tempo/cornice di senso La realtà prende forma attraverso il senso che le persone danno alle cose, alle situazioni in cui si trovano, a quelle che hanno creato. Cicli che si susseguono in una cornice di tempo e di senso, nel rito di ogni passaggio generano opportunità di rinnovamento e allo stesso tempo lasciano ruderi, rottami, residui. Una condizione di sopravvivenza fra i resti, di residenza fra i residui, di avanzamento fra gli avanzi, che trova una possibile via d’uscita nel trasfor- 34 mare la quantità in qualità attraverso l’estetica della scoria. La maggior parte delle opere presenti nelle mostre d’arte contemporanea sono sublimazioni di scarti, di residui. La via del riciclo si percorre all’interno di una cornice di senso, attraverso la trasformazione del residuo. L’attribuzione di senso contribuisce a costruire ciò che si percepisce, riguarda «i modi in cui le persone generano quello che interpretano.»1 L’individuo percepisce un determinato aspetto della realtà, interagisce con esso, che in questo modo è attivato, esiste, e può modificarlo con le proprie azioni continuando a attribuire significati. A sua volta l’ambiente attivato retroagisce su altri soggetti che assumeranno comportamenti conseguenti alla nuova realtà costruita. Il soggetto dunque non plasma l’ambiente, ma è l’ambiente, una volta attivato (una volta che il soggetto lo percepisce e lo fa esistere, per sé) che influenza le azioni del soggetto. Gli elementi che entrano in gioco nei processi di creazione di senso sono tre: cornice, informazione e relazione. I primi due riguardano il contenuto, il terzo il processo. Costruire il senso è l’operazione per cui si collocano degli stimoli (informazioni) all’interno di un contesto (cornice) mettendoli in relazione con altri preesistenti. Si può parlare del sensemaking come di un processo attivo, dinamico, una forma di azione sul mondo che permette di costruire, filtrare, incorniciare la realtà. Produrre senso è anche elaborare una buona storia, «qualcosa che conservi plausibilità e coerenza, qualcosa di ragionevole e di memorabile, qualcosa che incarni l’esperienza passata e le aspettative, qualcosa che faccia risuonare insieme le persone, qualcosa che si possa costruire retrospettivamente, ma che anche possa essere usato in prospettiva.»2 #definito/indefinito La pratica del riciclaggio non è certo un fenomeno nuovo, fa parte da sempre del normale ciclo di vita delle cose, spesso in modo pragmatico, senza particolari attenzioni, seguendo ragioni funzionali ed economiche. Il termine riciclaggio ha invece una storia recente. Secondo alcuni dizionari (De Mauro-Utet, Sabatini Coletti) il termine risale al 1970, mentre riciclare viene datato, nelle stesse fonti, al 1959. Etimologicamente collegato al francese recycler – lat. cyclus, greco kyklos – è usato nel senso di aggiornare, riqualificare, ad indicare un’azione di rimessa in circolo per fornire una nuova o migliore qualificazione/efficienza. Non è ancora un termine di uso comune rispetto alle pratiche del progetto, per le quali si è fatto 35 ricorso più frequentemente ad altre espressioni (trasformazione, recupero, riuso, reimpiego, o anche ready-made, riattivazione, adaptive-reuse) sempre comunque distinte da quelle di restauro, rigenerazione. Rispetto a queste ultime il riciclo si propone in maniera trasgressiva, mettendo in discussione la finalità originaria del manufatto e la sua forma per ragioni dettate dall’attualità, e non come adattamento progressivo. Nell’operazione di riciclaggio l’oggetto (manufatto, costruzione, sito) di partenza non è il nodo centrale del progetto, bensì uno degli elementi che entrano in gioco.3 Fra le varie accezioni rientra anche quella che vede il riciclo come pratica di riuso temporaneo di situazioni spaziali residuali, e dunque strumento concettuale e operativo indispensabile per affrontare le emergenze poste al progetto in relazione alle problematiche ambientali, sociali ed economiche. La ricerca europea Urban Catalyst4, finanziata nel 5th Framework Programme (2001-2003) attraverso una serie di casi studio nelle aree di Amsterdam, Berlino, Helsinki, Napoli e Vienna, ha indagato le possibilità per offrire un modo nuovo di intendere gli usi temporanei. Cosa si può imparare dai processi spontanei? Gli usi temporanei possono essere pianificati? Controllati? La difficoltà cronica a definire un programma, una scelta che sia il più possibile condivisa, deriva dalla pluralità degli attori coinvolti nel processo, dalla loro distanza di visione che impedisce di fatto di formulare valutazioni unitarie e, di conseguenza, di prendere decisioni univoche. Le strategie di intervento entrano spesso in conflitto con le esigenze e le aspettative dei cittadini, con la memoria dei luoghi e con un’immagine di questi che si è sedimentata nell’immaginario collettivo. #prassi/teoria La riflessione sul riciclo prende avvio dall’osservazione dell’azione progettuale e dalle sue ricadute sul contesto. Il progetto è utilizzato per acquisire, analizzare, esplorare e trasmettere idee attraverso la sensibilità, l’ideazione, la verifica e la realizzazione. La prassi non è antitetica alla teoria, come sosteneva Aristotele. La saggezza pratica (la phrònesis di Aristotele) richiede sia esperienza sia conoscenza. Non si tratta dunque di opposizione ma di relazione. L’approccio abduttivo, in cui si conoscono regole e risultati, porta a ricostruire una situazione, a definire un processo, il cui scopo non è quello di testare un’ipotesi per rispondere a una domanda di ricerca o alla scoperta di nuove realtà, ma di ideare soluzioni plausibili per i fenomeni proposti attraverso la pratica. 36 Il senso della teoria, per Recycle Italy, è diffondere la pratica. Il senso del riciclo si può rendere concreto attraverso il riciclo del senso. Se dunque è opportuno veicolare la diffusione delle pratiche del riciclo, una strada percorribile è quella del marchio di qualità. Un marchio può raccontare storie sulle azioni di re-cycle messe in atto, può riconoscere alle migliori un valore. Un marchio è un messaggio virale. Le storie, i racconti di esperienze realizzate, ci parlano di un mondo possibile, possiedono contenuti emozionali in grado di suscitare empatia e solidarietà. Le storie nascono dalle parole e dalle immagini, dai segni che si trasformano in significanti e producono significati, attraverso uno slogan, una frase, un simbolo, un immaginario, una via principale di contaminazione per far dilagare il virus memetico. #brand/trend Un marchio può agire come un meme, un’unità di trasmissione culturale che si trasmette di cervello in cervello. I memi più potenti sono in grado di catalizzare cambiamenti collettivi. Generano percezioni-pensieri-azionicomportamenti attraverso la fiducia e la reputazione nella propria rete sociale, creando un effetto a catena capace di diffondere percezioni-pensieri-azioni-comportamenti in altre reti. La creazione di un marchio di qualità è un’opportunità per rendere efficace il lavoro della ricerca Re-cycle Italy. Il marchio è destinato agli interventi di riciclo del patrimonio esistente. Testimonia la qualità urbana, ambientale, di processo. Viene attribuito in base alla soddisfazione di parametri stabiliti e connessi all’attivazione di processi di riciclo di artefatti, contesti, edifici, spazi, infrastrutture urbane, facendosi garante della valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale, della cultura del servizio, dell’accesso e della fruibilità delle risorse, della qualità della fruizione. Rappresenta l’inizio di un percorso che porta alla promozione sinergica delle città che ne godono. Il marchio racconta una storia che ci parla di un modo di affrontare il presente-futuro delle nostre città. Attraverso un simbolo si attesta l’attitudine al riciclo di una comunità, di un ente: è spendibile nei confronti degli interlocutori e rappresenta un momento di ottimizzazione delle risorse secondo criteri quantificabili prestabiliti. Il marchio propone una morale chiara, attraverso i propri temi e i propri valori: elementi centrali per rafforzare la capacità emotiva e evocativa. La relazione con il pubblico si fonda su un’esperienza percettiva ed estetica immediata e la sfida è realizzare un nuovo posizio- 37 namento per un brand capace di comunicare con una propria personalità, per sensazioni, stati d’animo e tensioni estetiche. Il lancio e la diffusione del marchio aspirano a valorizzare i singoli interventi, a premiare le città-comunità capaci di attivare il maggior numero di azioni, le istituzioni che ne sono parte attiva. Attraverso un percorso condiviso (dal progetto alla promozione) il marchio rende riconoscibile il network e le azioni a esso connesse. Attraverso la capacità distintiva, la riconoscibilità interna (adesione di tutti i soggetti coinvolti) e esterna (testimonianza di qualità, proposta di un modello di sviluppo, stimoli ad agire e investire secondo la sua direzione) il marchio svolge un ruolo centrale nell’affermazione della reputazione, creando attrattività e prestigio grazie ai valori ad esso connessi e diffusi. Le attività necessarie vanno dalla costruzione del sistema dei valori allo studio dell’identità visiva; dall’accreditamento secondo criteri e standard di qualità certificati da organismi di controllo istituzionali alla comunicazione e diffusione. Un percorso complesso che tuttavia potrebbe dar vita ad un nuovo ciclo di attività e ad una nuova logica di sviluppo, basata non su sistemi normativo-sanzionatori ma su sistemi premiali e partecipativi. Note 1. K. E. Weick, Senso e significato nell’organizzazioni. Alla ricerca delle ambiguità e delle contraddizioni nei processi organizzativi, Raffaele Cortina, Milano 1995. 2. Ibid., p. 63-64. 3. Sui significati di riciclaggio cfr. M. Zanetti, Architetture di scarto. Riciclaggio e progetto. Da drop city a lot-ek, tesi di dottorato XXII ciclo, Scuola di Dottorato in Scienze dell’uomo, della società del territorio, Università di Trieste (http:// www.openstarts.units.it/dspace/ handle/10077/3493). 4. P. Oswalt, K. Overmeyer, P. Misselwitz, Urban Catalyst. The power of temporary reuse, Dom Publisher, 2013. 38 Alcune questioni… per una teoria del re-cycle Giulia Menzietti >UNICAM Proiezioni Il 20 Luglio del 1969, per la prima volta nella storia, due astronauti (Neil Armstrong, Buzz Aldrin) mettono piede sulla Luna. La vicenda assume un ruolo significativo e viene interpretata da molti come il compimento del progetto di futuro messo in piedi dalla Modernità. Per diversi anni le foto scattate nella missione Apollo 11 e in quelle che l’hanno succeduta sono state il simbolo del progresso tecnologico e culturale, dello slancio proiettivo verso nuove realtà, del senso di conquista e dell’affermazione dell’uomo nei confronti dell’altro da sé. Nel 2011 la NASA ha rilasciato un protocollo in cui ha espresso la volontà di tutelare i resti e le tracce umane lasciate sulla Luna, proteggendo i siti degli allunaggi in quanto "inestimabili tesori dell’umanità" (NASA 2011)1. Dopo più di quarant’anni dalla prima missione, la vicenda è tornata nelle cronache e compare oggi in diversi articoli e in una ricchissima rassegna 39 di foto di repertorio, diffusissime nel web, che riattualizzano una storia appena trascorsa restituendola con uno sguardo mutato. Se prima erano le immagini di Neil Armstrong che piantava la bandiera dell’America in un territorio ignoto, oggi sono le foto dei resti delle apparecchiature, dei rifiuti tecnici e organici, degli scarti, delle tracce lasciate dagli esploratori sul territorio lunare a raccontare la scoperta del nostro satellite, non più con l’orgoglio per la conquista dell’ignoto, ma con atteggiamento consolatorio, come ri-proposizione di una vicenda già data, già nota. Targhe commemorative, foto tratte dall’album di famiglia, medaglie, monete, rottami delle apparecchiature lasciate sul suolo lunare acquistano oggi un’inedita importanza in quanto residui, frammenti di una vicenda già consumata e disponibili a nuove letture, a nuove manipolazioni. La volontà di tutelare ciò che resta nella Luna esprime una tendenza della cultura contemporanea che si manifesta, sempre più spesso, in un atteggiamento retrospettivo, che guarda a ciò che già c’è e che recupera in una dimensione di interesse resti e testimonianze di esperienze già consumate. Tale «disagio nei confronti di una stagione storica […] ripiegata su di sé e sulla celebrazione del proprio passato […]»2 e la tensione del pensiero contemporaneo verso il già noto alimentano una sorta di inibizione degli slanci e delle proiezioni verso il futuro; deboli e rarissimi, nei progetti, sono i tentativi di prefigurazione di immaginari e di scenari a venire. Il lavoro sull’esistente rappresenta un’urgenza, una necessità, ma al tempo stesso traduce un sentire diffuso, teso alla rielaborazione degli oggetti del presente piuttosto che al progetto del futuro. Le operazioni di manipolazione e ricomposizione dei materiali esistenti disegnano scenari temporalmente lontani ma visivamente molto vicini, poco distanti dall’immagine dell’attuale; i resti costituiscono la materia del futuro, ma allo stesso tempo tradiscono aspirazioni e slanci verso scenari completamente rinnovati, riportando l’immaginazione ad uno stadio di inibitoria concretezza. Il significato del termine "nuovo" viene riscritto e proiettato in un domani che ha le stesse fattezze del presente e del passato recente. Linguaggi Il confronto con la preesistenza e la necessità di costruire il nuovo col già dato collocano il re-cycle in un contesto culturale ampio e trasversale a vari ambiti del pensiero contemporaneo. Il termine non rimanda infatti ad una dimensione esclusivamente operativa, traducibile in pratiche e stra- 40 tegie di intervento, ma rivela piuttosto una visione dilatata, che accoglie in sé contenuti di natura teorica ed espressiva. La possibilità di rielaborare resti e scarti anche nella Luna, e lo stesso tema lanciato nel workshop PRIN nell’autunno 2013 dall’UdR di Camerino, che proponeva la possibilità di trasformare attraverso il riciclo il territorio immaginario di TRUE-TOPIA, una città d’invenzione, rivelano una natura immateriale del termine, che si misura e si sostanzia anche in una dimensione di pura astrazione. Il riciclo di materiali usati e di stili già tramontati nella moda, il reimpiego di metraggi preesistenti nella pratica cinematografica del found footage, le ultime sperimentazioni del design sui materiali di recupero o le ultime ricerche dell’arte su resti, scarti e residui denunciano un percorso condiviso teso verso pratiche di montaggio di brani esistenti. La lettura del presente restituisce un carattere fenomenologico del re-cycle, che si declina in diversi contesti e in varie modalità, e che rappresenta un modo di essere della cultura contemporanea. Intese come «vere e proprie forme di spoliazione e di nuova vestizione dello sguardo»3 queste operazioni di reimpiego creativo rivelano una matrice estetica, non codificata e allo stesso tempo riconoscibile. Lo stesso protocollo della NASA sembra rivelare un interesse che va ben oltre gli obiettivi della salvaguardia, e che si orienta ai residui lasciati sul satellite in quanto feticci di un’adorazione generata non tanto dalla presenza della Luna, quanto dalla trasformazione dello sguardo rivolto ai resti e agli scarti. Emerge in questo senso un’attitudine espressiva insita nella natura stessa del riciclo, tesa ad una continua elaborazione/ricomposizione del mondo, capace di influire sul consolidarsi di rinnovati codici linguistici, che mutano i rapporti col passato, col presente e col futuro. Mutazioni Il re-cycle non si traduce esclusivamente in un modus operandi, ma anche in una categoria di pensiero, che chiede una declinazione del termine con coordinate interpretative altre rispetto all’ambito progettuale. All’indagine messa in campo attraverso raccolte di casi studio e best-practices, mappature di aree sensibili e prefigurazioni di strategie d’intervento, si affianca necessariamente la costruzione di un apparato teorico delle operazioni di riciclo. L’interesse per la dimensione immateriale non presuppone scetticismo nei confronti dell’effettiva concretezza e operabilità dell’intervento sul costruito. "La fame di realtà"4 che le operazioni sull’esistente mani- 41 festano in tutte le espressioni richiede un nuovo statuto conoscitivo, che sappia interpretare il contesto attuale a fronte di alcune mutate dinamiche del progetto. Nella stagione che ci ha preceduto, l’architettura moderna ha mostrato un atteggiamento di sfida nei confronti del tempo, in una visione proiettiva delle opere che dovevano durare e resistere a lungo. Oggi la mentalità a breve termine accoglie la dimensione del temporaneo e trasforma la durata programmata dell’edificio in una stratificazione di storie e tempi differenti. Rispetto alle pratiche canoniche di restauro e riuso, il riciclo genera rinnovati rapporti con la preesistenza: non più l’ostinazione a ripristinare una condizione originaria, ma un’operazione di manipolazione e rielaborazione, che non esclude la possibilità di dimenticare e di cancellare le storie pregresse. In questo senso le tensioni tra memorie e amnesie, tra un vago senso di nostalgia e la radicalità della tabula rasa diventano aspetti cruciali nelle operazioni di re-cycle. Il concetto di autorialità assume un significato rinnovato, che risiede sia nella presenza di una firma contenuta nella preesistenza che ne autorizza, o meno, il reimpiego creativo, sia nell’autorialità dell’operazione stessa di riciclo, in cui il pezzo unico si trasforma in palinsesto e la paternità si traduce in una moltiplicazione continua di firme. Tali aspetti descrivono "valori, e configurazioni spaziali" rinnovate, che attestano una "svolta critica"5, uno scenario mutato in cui l’indagine sugli aspetti immateriali e la costruzione di una teoria del re-cycle sembrano progressivamente assumere caratteri di necessità, di concretezza, di iper-realtà. Fatti Il lavoro sull’esistente ribalta i rapporti nietzschiani tra fatti e interpretazioni con un urlo alle cose reali, con una tensione alla rielaborazione dei fatti, all’impiego dell’interpretazione non come matrice ideativa, ma come operazione strumentale alla manipolazione del reale. «Una voluta inartisticità: materiale grezzo, apparentemente non lavorato, non filtrato, non censurato e non professionale»6 emerge in varie espressioni della cultura contemporanea, attestandone un attaccamento alla materia, alla realtà, al dato da manipolare, senza scampo, senza pretese. Circoscritto ai confini dell’esistente, il re-cycle si inserisce perfettamente nella stagione del Nuovo realismo7, che trae dalla realtà le proprie ragioni, i propri materiali e gli strumenti operativi. In uno scenario di crisi e in una condizione di iper- 42 oggettività dello scenario culturale, poco incline a slanci ed entusiasmi e teso a riportare l’immaginazione ai confini del già dato, il re-cycle sembra tradurre una condizione di tensione, di contrazione del pensiero contemporaneo. Se la «modernità era liquida e la postmodernità gassosa”8, la condizione attuale può essere descritta con uno stadio di solidità, che descrive l’impatto, l’urto con la nuda oggettività. Intriso di realismo, il recycle chiama ad un approccio olistico, che sappia raccogliere tutti i fatti a disposizione e restituirli in un progetto di trasformazione dell’esistente, in cui le interpretazioni non rappresentano più le operazioni postmoderne di costruzione di realtà parallele, ma diventano strumenti operativi del progetto, e nell’urgenza della crisi traducono l’unica forma di elaborazione di un presente timidamente proiettato nel futuro. Note Immagine 1. S. Catucci, Imparare dalla Luna, Quodlibet, Macerata 2013, p. 12. Recycle primo sbarco sulla luna. Rielaborazione di Giulia Menzietti, foto originale ©NASA: «Apollo 15, il set di una postazione scientifica al termine di un esperimento. I resti che si vedono sparsi al suolo consistono nelle apparecchiature tecniche dismesse dopo l’uso, nei loro imballaggi e nelle loro protezioni.», in S. Catucci, Imparare dalla Luna, Quodlibet, Macerata 2013, p. 127 2. Ibid, p. 15. 3. I. Mattazzi, Aprire lo sguardo. Stili della visione in grado di agire sul reale, in «Il Manifesto», 2011. 4. D. Shields, Fame di realtà. Un manifesto, Fazi, Roma 2010. 5. N. Emery, L’architettura difficile, Marinotti, Milano 2008, pp. 175, 177, 178. 6. D. Shields, Fame di realtà. Un manifesto, cit., pp. 9-10. 7. M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2013. 8. Ibid. 43 Il recycle possiede una dimensione estetica che si esprime nell’azione in sé e negli oggetti che coinvolge. Il protocollo rilasciato dalla NASA nel 2011 per la conservazione delle tracce lasciate dall’uomo nei siti degli allunaggi rivela, dietro l’alibi della salvaguardia, un interesse di carattere espressivo verso i resti, i rifiuti, i residui. In virtù della loro natura informe, della capacità narrativa, della disponibilità ad accogliere operazioni e pratiche discorsive di re-cupero e ri-lettura, di elaborazione e ricomposizione, gli scarti assumono una connotazione estetica, e in quanto tali legittimano l’atto stesso del riciclo… anche sulla Luna. 44 IL CARATTERE SOVVERSIVO DEL RICICLO Chiara Rizzi >UNITN Il presente contributo proverà ad argomentare una delle op-positions, emersa durante gli incontri preparatori del convegno e poi accantonata: il re-cycle è sovversivo/riformista. Secondo il dizionario on line della Treccani, l’aggettivo sovversivo [der. del lat. subversus, part. pass. di subvertere "sovvertire", sul modello del fr. subversif] sta ad indicare un soggetto o un’azione che tende a sovvertire l’ordine costituito di uno stato, ovvero, in termini più ampi, che sovverte la tradizione, che tende a rivoluzionare e sconvolgere uno stato di cose esistente. L’aggettivo riformista (der. di riforma) indica qualcuno o qualcosa che sia fautore di riforme, ovvero che, ripudiando sia i sistemi rivoluzionari, sia il conservatorismo, riconosce la possibilità di modificare l’ordinamento politico, economico e sociale esistente solo attraverso l’attuazione di organiche, ma graduali riforme dell’esistente. Per definire se il riciclo sia sovversivo o riformista occorre innanzitutto, chiarire quale sia lo "stato di cose esistente". 45 Status quo In uno dei suoi celebri scritti corsari Pier Paolo Pasolini sostiene che «ci sono due parole che ritornano frequentemente nei nostri discorsi: anzi, sono le parole chiave dei nostri discorsi. Queste due parole sono "sviluppo" e "progresso". Bisogna assolutamente chiarire il senso di queste due parole e il loro rapporto, se vogliamo capirci in una discussione che riguarda molto da vicino la nostra vita anche quotidiana e fisica. [...] senza confondere mai, neanche per un solo istante, l’idea di "progresso" con la realtà di questo "sviluppo"».1 Le cose sembrano essere andate diversamente. Il contesto attuale, infatti, sembra essere stato determinato in modo decisivo da un equivoco di fondo che ha dominato la cultura occidentale degli ultimi decenni: considerare sinonimi il "progresso" e lo "sviluppo". Nello stesso scritto Pasolini sostiene che lo sviluppo, accolto dalla massa come un’occasione di promozione sociale, di emancipazione, di abiura dei valori culturali che avevano fornito i modelli di "poveri", di "lavoratori", di "risparmiatori", di "soldati", di "credenti", è, in realtà, portatore dei nuovi valori del consumo. A qualche decennio di distanza l’effetto di quell’ideologia che Pasolini chiamava dei blu-jeans Jesus, una sorta di fede incondizionata nel prodotto di consumo, sono evidenti. I suoi scarti invadono la Terra e diventano la prova dei nostri progressi nella colonizzazione dello spazio.2 Secondo il dossier Terra rubata, redatto dal FAI e dal WWF nel 2009, nel nostro Paese l’urbanizzazione pro capite media è pari a circa 230 mq per abitante. A fronte di una sostanziale stabilità che contraddistingue l’andamento demografico italiano, l’Agenzia Ambientale Europea rileva un incremento di quasi 8.500 ha/anno di territorio urbanizzato e secondo l’ISTAT 3 milioni di ettari di territorio, di cui un terzo agricolo, sono andati persi tra il 1990 e il 2005. Nel 2012 gli alloggi invenduti erano 694.000 (dati Nomisma) e oltre 2 milioni di abitazioni risultavano vuote (Primo rapporto sull’edilizia sostenibile, CGIL). Inoltre i dati ISTAT ci rivelano che le aree industriali da recuperare occupano ben 9.000 kmq e circa il 30% di queste aree si trova in ambito urbano. Anche se è difficile fare un calcolo preciso a scala nazionale, le aree e gli edifici del demanio militare sono numerosissimi. Emblematico il caso della Sardegna, in cui esse occupano 144.230 ettari per un volume di circa 4,5 milioni di mc (elaborazioni WWF su dati Regione Sardegna). Bisogna inoltre considerare che in Italia ci sono 5.535 km di linee ferrovia- 46 rie non utilizzate, 502 km di tratti incompiuti e 940 km di linee con tratta variata, per un totale di 6.977 km di tratte ferroviarie dismesse (fonte: Database Ferrovie abbandonate, Associazione Italiana Greenways). Nel nostro paese le cave dismesse sono 7.774 (dato riferibile alle sole Regioni in cui esiste un monitoraggio), mentre si possono stimare in oltre 10.000 quelle abbandonate. Sulla base dei dati raccolti dall’ISPRA, in Italia i siti potenzialmente contaminati sono circa 15.000, di cui oltre 3.400 sono stati dichiarati già compromessi. A questo dato vanno aggiunti gli oltre 1.500 siti minerari abbandonati e le aree comprese nei Siti di Interesse Nazionale, 57 fino allo scorso gennaio, quando 18 di essi sono stati declassati a SIR, Siti di Interesse Regionale. Un declassamento che non corrisponde ad un reale miglioramento dello stato dei luoghi, ma esclusivamente a considerazioni di tipo gestionale ed economico. Eppure si continua a costruire: ogni anno vengono realizzati 328.000 nuovi appartamenti (dati ANCE). Ma qualcosa sta cambiando. Ad accelerare questo cambiamento è la crisi. Si tratta di una crisi strutturale, non congiunturale. Per superarla, occorre dunque, una rivoluzione più che una riforma. Missione Re-cycle «Ogni rivoluzione scientifica ha reso necessario l’abbandono da parte della comunità di una teoria scientifica un tempo onorata, in favore di un’altra incompatibile con essa [...] la transizione da un paradigma in crisi ad uno nuovo [...] è tutt’altro che un processo cumulativo, che si attui attraverso un’articolazione o un’estensione del vecchio paradigma. È piuttosto una ricostruzione del campo su nuove basi [...]».3 La crisi ci impone di mutare il punto di vista sui fenomeni che essa stessa rende più evidenti, essa radicalizza la necessità di ripensare gli strumenti e le pratiche con cui affrontiamo il cambiamento. Occorre cioè dar vita ad una vera e propria rivoluzione scientifica e per far ciò bisogna necessariamente riferirsi a nuovi paradigmi. Le crisi sono, ancora secondo T. S. Kuhn, una condizione preliminare necessaria all’emergere di nuove teorie. Per decenni l’architettura e l’urbanistica si sono confrontate con i temi dell’espansione, della costruzione del nuovo. Mai come dal dopoguerra fino ai giorni nostri abbiamo costruito, occupato, consumato suolo e risorse. L’uscita dalla città moderna, come già lo fu quella dalla città antica, è 47 anche riflessione sulla trasformabilità della città, sosteneva qualche anno fa Bernardo Secchi.4 L’uscita dalla città post-moderna è anche riflessione sulla sua riciclabilità, diciamo noi. La città contemporanea è una Reverse city, una città inversa, che ha al proprio centro il vuoto e non il pieno, che si struttura a partire dai grandi spazi aperti e assume i grandi scenari naturali come proprio sfondo e prolungamento.5 La Re-cycle city è il risultato di un nuovo paradigma, quello del riciclo appunto, che inverte le logiche, rivoluziona le pratiche urbane a partire dalla città inversa. Per l’architettura e l’urbanistica si tratta di svolgere un ruolo di raccordo tra le discipline e tra queste e la società che, pur essendo loro connaturato, sembra essere stato quantomeno trascurato negli ultimi decenni. Il paesaggio è il campo in cui tutto questo può accadere. Nel paesaggio è possibile «attraversare le frontiere della conoscenza per inaugurare un nuovo ciclo d’innovazione scientifica, economica e culturale». Secondo Christakis «per tre secoli il principio di base della ricerca è stato: distruggere il castello per analizzare i singoli granelli. Ora, invece, si tende a ricostruire il castello per studiare le relazioni tra le diverse componenti [...] Al di là dell’accademia, una giocosa indisciplina – che fa saltare i vecchi confini per generare sinapsi sempre nuove – si è impadronita del mondo [...] Oggi, la massima innovazione non nasce più dal centro, bensì dalla frontiera tra i saperi, laddove i sistemi si sovrappongono»6. Un’innovazione che nasce dalla cultura dell’indisciplina, intesa come la capacità di stabilire nuove connessioni tra i saperi, non solo quelli disciplinari, ma anche quelli che derivano da desideri e aspettative di una società sempre più consapevole, sempre più desiderosa di essere protagonista del cambiamento. Dai movimenti "no Tav" ai forum per la difesa del paesaggio fino ai guerrilla gardening e alle numerosissime associazioni che danno vita agli orti urbani, solo per citare gli esempi più conosciuti. Niente di nuovo, sostiene qualcuno. Niente di nuovo, sosteneva il manifesto realizzato da Reiner de Graaf (OMA) per la mostra Re-cyle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, tenutasi al MAXXI nel 2011. Infatti, come chiarisce Alberto Ferlenga in un suo contributo per il catalogo della stessa mostra, il riciclo non è una strategia inedita. Le architetture e le città si sono sempre riciclate. L’aspetto rivoluzionario del riciclo come paradigma della città contemporanea è la sua pervasività. 48 La crisi sta cambiando in maniera radicale i nostri stili di vita e il modo in cui pensiamo al futuro; dal riciclo degli scarti della città moderna ci aspettiamo non solo una città più ecologica e più sicura, ma anche più etica e bella. Il riciclo, in questa nuova geografia del desiderio, ci fornisce gli strumenti operativi per un situazionismo forse meno utopico e più realistico. Note 1. P. P. Pasolini, Sviluppo e progresso, in W. Siti, S. De Laude (a cura di), Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999. 2. È del 2011 la notizia che la sonda LRO è stata capace di catturare l’immagine più nitida mai ripresa dallo spazio dei punti di sbarco sulla luna dell’Apollo 12, 14 e 17, mettendo in evidenza le tracce (e i rifiuti) che gli astronauti hanno lasciato, spesso volontariamente, esplorando il suolo lunare. 3. Cfr. S. Kuhn Thomas, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 2009. 4. B. Secchi, Città moderna, città contemporanea e loro futuri, in AA.VV., I futuri della città. Tesi a confronto, Franco Angeli, Milano 1999. 5. Ibid. 6. Cfr. G. Da Empoli, Contro gli specialisti. La rivincita dell’umanesimo, Marsilio, Venezia 2013. 49 L'assedio, ovvero per una tattica di uscita dai confini del riciclo Daniele Ronsivalle >UNIPA La visione centrata sulla crisi che contribuisce alla formulazione dell’approccio re-cycle1 rischia di apparire come una condizione di assedio per la ricerca. Ogni qual volta si pone il problema della definizione di cosa sia e di quali regole sovrintendano al re-cycle, sin dalla mostra del MAXXI curata da Pippo Ciorra2, si sostanzia uno stato di incertezza molto simile a quello che si realizza durante un assedio. Con la differenza che chi si occupa di re-cycle è sia l’assediante, sia l’assediato. Da una città assediata3 si può uscire vincitori in due modi: – facendo credere all’assediante, con abili tattiche, che l’assedio potrebbe essere lungo e faticoso a fronte di grandi quantità di viveri ammassati nella città (la tattica delle pecore dei Traci); – attaccando frontalmente l’assediante anche a costo di adoperare le stesse mura della città come proiettili da scagliare (difesa ad oltranza). 50 Oppure da una città assediata si può fuggire nottetempo dal lato opposto all’assedio. Oppure ancora si può rischiare di rimanere vittima dello stress psicologico prodotto dall’assedio e cominciare una lunga fase di crisi che può sfociare nelle situazioni estreme del cannibalismo e della coprofagia e ovviamente alla resa incondizionata. Fuor di metafora, la condizione in cui si trova ad operare chi lavora nella ricerca Re-cycle Italy è spesso quella di rimanere chiusi all’interno di schemi linguistici e lessicali che non consentono il superamento delle condizioni di partenza da cui si è avviato il lavoro. Di seguito alcune proposte operative per la risoluzione vittoriosa dell’assedio. La contingenza nella condizione di crisi ci porta a riflettere sul fatto che dopo la crisi il mondo non sarà più lo stesso e, quindi, per estensione, pensare che gli strumenti, gli approcci e le modalità di lavoro possano essere identiche al passato è errato. Cerchiamo di capire il perché. Quando la città nasce in Mesopotamia e nella città di Uruk si definisce l’articolazione in classi sociali e la specializzazione del lavoro, il tempo che viene liberato per attività superiori (scienze, letteratura, arte...) per ogni singolo individuo rispetto alle proprie specifiche occupazioni è via via crescente e la città si anima di una intelligenza collettiva che aziona processi di sviluppo urbano in termini di progressiva urbanizzazione della popolazione e di definizione di cicli di vita compresi tra la produzione dell’energia chimica (cibo, produzione agricola, estrazione di materie prime, ecc.) del contado e la trasformazione nell’energia intellettuale (manufatti, arti liberali, politica, ecc.) delle città. Nel mezzo tra l’energia chimica fotosintetica e l’energia intellettuale si sviluppa un unico ciclo vitale che è in grado di controbilanciare la forza irreversibile del degradarsi dell’energia in calore definito dalla seconda legge della termodinamica. La condizione di crisi attuale4 – di cui peraltro si sente parlare sempre meno come a voler allontanare il problema senza risolverlo – può essere studiata sotto vari punti di vista: – è solo un problema finanziario? – È solo il capitalismo ormai privo delle sue fonti di approvvigionamento di liquidità (la guerra come condizione anticiclica e lo Stato come elargitore e ridistributore della ricchezza)? – È solo un fatto ecologico di superamento dei processi energetici troppo legati all’energia chimica non fotosintetica? 51 – È solo un fatto demografico di incremento della popolazione urbana? – È solo una questione di governance e di assenza di autorialità nelle scelte? Se analizziamo solo uno dei punti di vista sopra esposti e proposti a vario titolo nel corso del XX secolo e dei primi del XXI secolo, sembra che non siamo capaci di uscire dall’assedio5. La realtà urbana post-industriale, l’economia fondata sul capitalismo, i processi produttivi fondati sugli idrocarburi, i processi demografici di urbanizzazione irreversibile e la crisi generalizzata della capacità autoriale hanno rallentato il ciclo città-contado che nasce nel momento stesso in cui nasce la città. Solo un elemento non è mai cambiato nel corso della storia della città: la capacità della città di creare valore aggiunto intellettuale, cultura, arti liberali e di bloccare l’entropia energetica attraverso processi di "entropia negativa", cioè di sviluppo culturale.6 Questa condizione è la vera base per uscire dall’assedio concettuale di un riciclo fatto di riuso dei prodotti materiali e degli scarti e definire complessivamente il nuovo ciclo di vita delle nostre città attraverso il ripensamento degli approcci ciclici e l’applicazione di nuovi linguaggi e approcci operativi7. 1. Il ciclo energetico fotosintetico come generatore del progetto di città Il primo elemento che va posto in attenzione è il modo in cui il progetto di città, di infrastruttura e di paesaggio si relazionano con l’energia solare che deve essere assunta come riferimento per lo sviluppo urbano. Il che non significa solo rendere più tecnologici gli edifici esistenti o ricoprire la città di superfici fotovoltaiche, ma significa attivare processi per cui la forma stessa della città trova nell’energia solare (forte, abbondante e improvvisa del sud del mondo o debole, limitata e continua del nord) un modo di riprogettare se stessa. 2. Il tempo circadiano come nuovo tempo dell’urbanistica e luogo della celebrazione dei riti urbani In conseguenza della visione del progetto urbano orientato dall’energia, la trasformazione urbana – e le discipline che se ne occupano – devono aggiungere il tempo circadiano all’interno dei cronogrammi di vita del progetto realizzato in modo da accentuare il vantaggio competitivo urbano nell’uso degli spazi e nella distribuzione dei servizi. 3. Priorità dell’intervento pubblico e/o pubblico-privato Le aree disponibili all’interno dei sistemi urbani compatti (aree dismesse e sottoutilizzate, brani di città in abbandono, ecc.) costituiscono la materia prima su cui un nuovo ciclo di vita può garantire l’innovazione del siste- 52 ma urbano a partire dalle risorse presenti8. Va sottolineata la necessità di applicare anche criteri di priorità alla scelta localizzativa e di intervento ai fini di ridefinire in che modo alcuni luoghi prioritariamente debbano essere oggetto della trasformazione (anche con intervento pubblico se possibile) per attivare processi di trasformazione più complessi e ampi. Anche processi perequativi e compensativi potranno essere adottati allo scopo di rendere più utili alcuni interventi 4. Trattare il rifiuto e lo scarto come inevitabili nei processi entropici Questo assunto parte dal presupposto che è necessario far sì che lo scarto "non esista" come concetto ma il processo produttivo preveda un ciclo di vita lungo, privo di salti e facilmente attivabile in sede locale. 5. Il riciclo come linguaggio Riciclare i materiali diventa allora una modalità linguistica9, in cui i materiali scartati vengono usati come mattoni privi di significato all’interno di nuovi processi costruttivi e produttivi. Cinque modi per uscire dall’assedio, quindi, che potranno essere i nodi da sviluppare all’interno delle varie anime del re-cycle ma che potranno indirizzare una nuova visione ciclica nell’operatività sperimentale che discende dalla ricerca, frutto di una visione ampia e condivisa sui temi dello sviluppo dei territori locali e che tengano conto di tutte le tecniche necessarie all’equilibrio dello sviluppo urbano. 53 Note 1. S. Marini, V. Santangelo, Re-cycle Italy. Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture della città e del paesaggio. Aracne, Roma 2013. 2. P. Ciorra, S. Marini, (a cura di), Re-cycle. Strategie per l'architettura, la città e il pianeta, Electa, Milano 2011. 3. Sun Tzu, L’arte della guerra, e-Newton classici, Roma 2010 (edizione e-book), p. 168. 4. M. Carta, Reimagining Urbanism, Città creative, intelligenti ed ecologiche per i tempi che cambiano, List Lab, Trento 2013. 5. Si veda a tal proposito la relazione problematica tra economia ed ecologia descritta ed articolata in C. Ravaioli, Il pianeta degli economisti ovvero l’economia contro il pianeta, Isedi, Torino 1992. 6. F. Rizzo, Economia del patrimonio architettonico-ambientale, Franco Angeli, Milano 1992. 7. M. Mostafavi, G. Doherty, Ecological Urbanism, Lars Müller, Zurich 2010. 8. S. Stanghellini, Perequazione, Compensazione, Fattibilità, INU Edizioni, Roma 2013. 9. P. Ciorra, S. Marini (a cura di), Re-cycle. Strategie per l'architettura, la città e il pianeta, cit. 54 ETICO / ESTE ETICO 55 56 57 Il bello e il buono di Re-cycle Andrea Gritti >POLIMI Chi parla o scrive fa ricorso a qualche “presupposto condiviso” con chi lo ascolta o lo legge; in questo modo rende riconoscibile lo sfondo nel quale le sue frasi devono assumere rilievo e significato. D’altra parte chi ascolta o legge ricorre alla propria “competenza pragmatica” per comprendere le reali intenzioni del parlante o dello scrivente. Ogni giorno tutti noi esercitiamo questa competenza. Lo speaker di un notiziario per esempio ci “ribadisce silenziosamente una serie di presupposti che fanno da invisibile cornice alla notizia” e che la rendono, in un certo senso, più importante del quadro dentro il quale sono espresse le informazioni. I “presupposti condivisi” e le “competenze pragmatiche” sono i binari che ci consentono di non deragliare alla prima svolta, soprattutto quando si trattano argomenti teorici. Ragionando di etica e di estetica in relazione a Re-cycle dobbiamo dunque fare ricorso alla pragmatica per almeno tre motivi. Innanzitutto perché è la parte della linguistica che tratta gli enunciati e il 58 loro significato in relazione alle intenzioni del soggetto che li esprime. In secondo luogo perché indaga il rapporto tra la parola ed il contesto. Infine perché «è una straordinaria macchina teorica per criticare e smascherare l’ideologia dominante.»1 Gli enunciati “Riciclo è etico/estetico” è l’enunciato di partenza: difficilmente espugnabile, certamente ambivalente. Per ridurne la complessità si può operare una semplificazione riconoscendo nel “bello” e nel “buono” gli oggetti privilegiati dell’estetica e dell’etica2. Di conseguenza la proposizione di partenza si può tradurre in questo modo: “il riciclo è (o non è) bello/il riciclo è (o non è) buono”. Malgrado la semplificazione introdotta l’enunciato originale si moltiplica per quattro e produce una matrice cui possono essere applicati altrettanti operatori logici (la congiunzione e, la disgiunzione o, l’implicazione se... allora..., la coimplicazione se… e solo se…)3. Questo ampio spettro di possibilità non ha impedito che nel dibattito sull’argomento si imponesse, almeno fino ad ora, una doppia affermazione: “riciclo è bello e riciclo è buono”. Qualunque sia l’operatore logico mobilitato, gli enunciati che stiamo evocando restano indefiniti e imprecisati. Le intenzioni reali del parlante (o dello scrivente) in merito ai temi del suo dire (o scrivere) non vengono realmente rivelate e nulla di essenziale viene detto (o scritto) sull’architettura e sul progetto. Facendo esercizio di “competenza pragmatica” si potrebbe obiettare che gli enunciati di partenza confinano i termini architettonici nella “cornice dei presupposti condivisi” e si affidano prevalentemente a concetti presi in prestito da altre discipline: il buono dall’etica, il bello dall’estetica, il riciclo dall’ecologia. Se questa affermazione è vera la sfida proposta dalla Re-cycle Op_positions verte sulla capacità di reintrodurre l’architettura, l’infrastruttura, la città, il paesaggio (per citare i termini che sostengono il titolo della ricerca nazionale) nella dialettica etico/ estetica implicita nel concetto di Re-cycle, restituendola integralmente al discorso disciplinare. Per affrontarla si devono fuggire tentazioni retoriche come quelle che condizionarono la Biennale di Architettura del 2000.4 Per questo motivo le tesi dovrebbero essere espresse chiaramente e dovrebbero includere i termini architettonici nell’articolazione del significato da attribuire al concetto di partenza. Proviamo ad esemplificare mettendo alla prova una tesi condivisa nel 59 gruppo di ricerca: “ri-ciclo è pro-getto”5. Questo enunciato per quanto semplice non è ambiguo e utilizza la doppia scomposizione dei termini riciclo e progetto per introdurre implicazioni di natura etica ed estetica. Sotto il profilo etico il prefisso “pro” corregge e amplifica il significato della voce del verbo “gettare”, che inevitabilmente allude allo scarto e al rifiuto, ma allo stesso tempo non è immemore dall’azione liberatoria contenuta nel suo significato etimologico6. Se certamente si getta per liberarsi di qualcosa, probabilmente si “pro-getta” per liberare le cose dalla loro precedente servitù7 o quantomeno per riconoscere nel ciclo di vita di ogni cosa architettata l’inevitabile status di rovina, di reperto8. Questa liberazione e questo riconoscimento sono impliciti nelle azioni promosse dal riciclo come atto progettuale e sono atti di natura etica ed estetica, che assumono perfino un significato ludico. La separazione delle radici “ciclo” e “getto” dai prefissi “ri” e “pro” ci ricorda che con le parole “si fanno cose”9 e ci si può giocare. La manipolazione delle parole con il fine di attribuire loro nuovi significati è stato un fondamentale contributo dell’arte alla parabola della Modernità e ha caratterizzato l’intera storia estetica del Novecento. La sottrazione dall’originale “kommerz” del prefisso “kom” e l’addizione alla radice “merz” del suffisso “bau”, più volte ricordata nel percorso di questa ricerca10, resta un momento emblematico nel processo di emancipazione del concetto di riciclo all’interno delle pratiche artistiche e continua ad offrire spunti operativi. Il Merzbau di Schwitters non è soltanto un neologismo, un gioco di e con le parole, è piuttosto una filosofia che introduce un’azione. Non significa “né fare né costuire” ma “raccogliere-organizzare-curare detriti e scarti”. È dunque un’operazione necessaria che impone di ritornare sulle cose senza abbandonarle, in questo senso è un’azione pedagogica: insegna a «ri-progettarsi […] ossia saper ri-abitare l’altro […] saper con-dividere il mondo con gli altri.» 11 Se questa lezione è ancora valida allora l’enunciatoguida che stiamo cercando potrebbe essere precisato: “ri-ciclo è ri-progetto”. Per quanto elementare non è né opaco né retorico. Il suo interesse risiede nel fatto che esprime un concetto potenzialmente eversivo dello statuto progettuale e del suo rapporto col tempo perché fondato sull’idea di reiterazione12. L’irruzione del riciclo nel discorso sull’architettura potrebbe quindi costituire l’occasione per ritornare a saggiare l’idea di progetto con nuove ambizioni e prospettive13. 60 La parola Merzbau è una parola inventata che irrompe nel contesto in cui viene pronunciata per la sua singolarità. Fa effetto. Fanno effetto anche le parole non pronunciate e che ci si aspettava di incontrare. Le parole assenti. Nel dibattito attuale sui cicli di vita di architetture, infrastrutture, città e paesaggi stupisce l’assenza della parola corpo. Tutte le metafore contenute nelle metodologie del Life Cycle Assessement fanno riferimento al tema di un ciclo che conduce un corpo dalla nascita alla morte: “dalla culla alla tomba”. Tutte le metafore che cercano di attualizzare quei paradigmi propongono forme di rigenerazione di quello stesso corpo che alludono ad autentiche resurrezioni: “dalla culla alla culla.”14 Il Corpo è stato l’oggetto privilegiato di potenti analogie (con l’edificio, con la città) poste alla base della trattatistica classica, ma anche l’inossidabile protagonista di descrizioni dell’habitat contemporaneo (il luogo dove corpi organici, che abitano corpi meccanici, si organizzano attraverso reti di corpi immateriali 15). Riferimenti agli organi del corpo (il ventre di Parigi, il cuore delle città) sono persistenti quando si narra lo spazio abitato. Si tratta di metafore che traggono origine sia dalla sfera estetica (dai canoni antropomorfici alle protesi sceniche) sia da quella etica (si pensi all’importanza dell’habeas corpus nelle pratiche d’uso dello spazio urbano). Dentro questo orizzonte di senso spiccano le osservazioni di Michel Foucault sul legame tra corpo e biopotere16. Secondo Foucault il potere ha modificato la sua azione sui corpi dei viventi passando dal “diritto di morte” alla “garanzia di vita”. Quest’ultima viene esercitata in forma ossessiva, promettendo ai corpi assoggettati di tenere lontana o quantomeno rimandare la loro la morte. In questo modo vengono negate libertà, salute e felicità autentiche. La tesi foucaultiana è densa di implicazioni per gli orizzonti concettuali di Re-cycle. Se esiste un biopotere sui corpi organici, che non sono liberi di morire, ne esiste uno che agisce sui corpi inorganici? In altre parole i corpi di fabbrica non possono essere semplicemente abbandonati al loro destino invece di essere forzosamente avviati verso nuovi cicli di vita? Questo argomento è potenzialmente dirompente dal momento che scuote alle fondamenta il problema della “cura”. Se è quasi inevitabile interpretare come perverso il modo con cui il potere si prende “cura” dei corpi organici negli orizzonti della biopolitica siamo certi che da questa perversione sia immune la “cura” dei corpi inorganici? 61 Nicola Emery ha dedicato pagine di grande profondità all’idea di “cura” dei luoghi, proponendo di «declinare il costruire come riaggiustare, salvare, sottrarre il progetto all’imperativo economico e così rendere il mondo più favorevole all’io comune»17. Si tratta senza dubbio di una forma di “cura” opposta a quella proposta dal biopotere, perché basata sull’espressione di una volontà collettiva e di una libertà individuale non alienabili e non contrattabili, fondata sull’idea che ogni ciclo abbia un proprio fine e che i corpi possano, e forse debbano, prima deperire e poi morire. Citando Paul Ricoeur, Emery ricorda che «non è possibile confrontarci con le nostre città, fatte anche di monumenti distrutti […] e di vite perdute» senza compiere una forma di “elaborazione del lutto”.18 Sarebbe questo lavoro sulle emozioni il motore di una nuova e più autentica architettura: giusta, partecipata, libera e immaginativa. L’ideologia dominante Andrebbe detto senza ipocrisie che il predicato “riciclare” è totalizzante. Nulla può sottrarsi all’azione che ricicla. Facendo un ulteriore passo in avanti è lecito affermare che riciclare è un “imperativo etico”. L’imperativo cui ci si riferisce nel caso del riciclo tuttavia non è un sostantivo ma un modo del predicato. “Ricicla! È bello. Ricicla! È buono e giusto”. Per quanto possiamo essere concordi con il senso ultimo di queste esortazioni non può sfuggire come il ricorso a questa specifica categoria grammaticale introduca posizioni ideologiche non pienamente congruenti con quelle espresse da Emery e Ricoeur quando parlano di ineluttabilità della fine ciclo. L’imperativo è infatti un modo alquanto singolare: ha solo due tempi nei quali si può coniugare (il presente e il futuro) e non dispone di tutte le persone ma solo del tu (ricicla! Riclicherai!), del noi e del voi (ricicliamo! Riciclereremo! Riciclate! Riciclerete!)19. In sostanza l’imperativo implica una relazione inclusiva tra i soggetti che lo possano coniugare (tu, noi, voi) che, espressi in forma implicita, manifestano una specifica valenza comunitaria. Si può sfuggire alla dittatura del modo imperativo quando parliamo di riciclo?20 Non è una questione oziosa, anzi. Affonda le sue radici dentro la dialettica etico/estetico. Basti pensare all’uso che hanno fatto dell’imperativo le avanguardie artistiche o a quello che se ne fa nel discorso etico. In questo senso l’imperativo appare come uno formidabile sistema per produrre retoriche esclusive. 62 Un’estetica e un’etica del riciclo fondate su formule imperative sono però destinate a generare frizioni con le virtualità implicite nell’idea di progetto i cui predicati sono piuttosto condizionali, congiuntivi e indicativi in base al livello di precisazione dell’atto immaginativo iniziale21. In sostanza si potrebbe affermare che il momento più delicato della relazione riciclo/progetto, richiamata nell’enunciato-guida, sia quello iniziale dove ancora tutto può accadere. Ben oltre la retorica della “carta bianca”, Franco Purini ha descritto questa fase del pensiero progettuale tessendo l’elogio della “demolizione immaginaria”22. Secondo Purini si procede in questo modo: il progettista pensa il luogo di progetto in uno stato di rêverie e decide di rimuovere virtualmente alcuni elementi che lo occupano. In questo modo si muove liberamente nello spazio virtuale che ha rigenerato e a ritroso nel tempo che ha ritrovato. Quello che ne ricava non è solo un ingenuo e approssimativo ritorno allo stato d’origine, quanto piuttosto una nuova immagine del contesto e di conseguenza inedite relazioni potenziali tra gli elementi che lo compongono. Il riciclo all’imperativo renderebbe impossibile questa forma, inaugurale e virtuale, di “demolizione” e di conseguenza altererebbe l’estetica e l’etica del progetto che vi si ispira. Al contrario introdurrebbe (in forma di ordine, consiglio, imposizione) una nuova fissità delle relazioni, negando valore all’azione di sottrarre (alla “forza di levare”) e favorendo solo criteri addittivi e adattativi. Non è detto che questo non sia un bene, ma in senso squisitamente logico si deve ammettere che un’eccezione metodologica di questa portata alla lunga potrebbe generare errori. La sopravvalutazione delle potenzialità del già costruito, l’implicita affermazione di superiori valori etico/estetici dell’esistente rispetto al nuovo, la legittimazione di pratiche manutentive deboli rischiano di confermare l’equivalenza tra il già costruito e il suo valore economico trasformando l’azione riciclante in una forma di coazione a ripetere23. Il riciclo all’imperativo è quindi un’ideologia dominante che sembra opporsi frontalmente al processo che assimila le rovine incipienti ai cantieri nascenti24. A quale “culla” dovrebbe mai aspirare l’edificio cui d’imperio si nega il ritorno all’infanzia della costruzione? O quello a cui si impedisce di cancellare le parti di una precedente memoria costruita? La moltiplicazione di interrogativi radicali su una pratica così complessa e necessaria ci suggerisce che forse il “bello” e il “buono” di Re-cycle sono ancora in larga misura da scrivere. 63 Note 1. Tutte le citazioni di questo primo paragrafo sono tratte dal testo dedicato alla parola chiave “presupposto” in R. Ronchi, LiberoPensiero, Lessico filosofico della contemporaneità, Fandango Libri, Roma 2006. 2. Questa semplificazione si trova tanto nell’incipit di voci enciclopediche dedicate all’etica o all’estetica quanto nelle introduzioni di alcuni celebri contributi sulla materia. Sul “buono” (e sul “cattivo”) come oggetto dell’etica si veda F. Savater, Etica per un figlio, Laterza, Bari 1992, pp. 3-13. Sul “bello” (e sul “brutto”) come oggetto dell’estetica si veda U. Eco (a cura di), Storia della bruttezza, Bompiani, Milano 2007, pp. 8-22. 3. Per un’introduzione alla logica elementare che presiede agli enunciati cfr. F. Berto, Logica da zero a Gödel, Laterza, Bari 2008. 4. Cfr AA.VV., Less Aesthetics More Ethics, Biennale di Venezia: Marsilio, Venezia 2000. Il titolo scelto per la 7a. Mostra Internazionale di Architettura evocava il “less is more” miesiano alla stregua di un operatore logico con il fine di modulare l’opposizione originaria. L’assenza di un predicato scaricava il potenziale della formula su una cornice priva di più precisi riferimenti all’architettura. 5. Nella call for positions questa tesi affiora implicitamente in molti dei manifesti presentati, orientati verso la ri-fondazione delle teorie e delle pratiche dell’architettura negli attuali contesti di crisi. 6. I riferimenti alla relazione etico/estetica tra progetto e istanze libertarie si trovano espressi con diversi accenti in alcuni testi fondativi pubblicati a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Cfr. G. C. Argan, Progetto e destino, Saggiatore, Milano 1965; T. Maldonado, La speranza progettuale, Einau- di, Milano 1971; M. Tafuri, Progetto e utopia, Laterza, Bari 1973. 7 Cfr. K. Lynch, Deperire. Rifiuti e spreco nella vita di uomini e città, Clean, Napoli 1992. 8. Cfr. M. Augé, Rovine e macerie, il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2004. 9. Cfr. J. Langshaw Austin, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987. Uno dei testi fondamentali sulla pragmatica in quanto disciplina della linguistica. 10. Cfr. I testi di R. Bocchi e S. Marini in AA.VV., Re-cycle Italy. Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture di città e paesaggio, Aracne, Roma 2013. 11 Cfr. N. Emery, Distruzione e progetto. L’architettura promessa, Marinotti, Milano 2011, pp. 285-286. 12. Cfr. J. Barrow, L’infinito, Mondadori, Milano 2006. Barrow si sofferma su uno dei paradossi della modernità: la replica all’infinito, in un mondo finito, di una specifica azione. La questione aveva suggestionato Nietzsche che era interessato alle possibilità offerte alla ricorrenza dall’eternità del tempo piuttosto che dall’infinità dello spazio. Il paradosso ispira anche la descrizione che J. L. Borges fa della biblioteca di Babele: illimitata, in quanto involvente su sé stessa, ma finita, in quanto non proliferante, rappresenta ancora la vertiginosa ambizione di ogni intenzione riciclante. 13. An Essay upon projects è il primo saggio esplicitamente dedicato al progetto pubblicato da Daniel Defoe nel 1697. L’autore del Robinson Crusoe lo scrive mentre sconta una pena in carcere a causa di un rovescio finanziario, Cfr. T. Maldonado, L’età progettuale e Daniel Defoe, in Il Futuro della Modernità, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 186-194. 14. È di grande interesse osservare come da 64 più parti e con accenti diversi la riflessione filosofica si stia concentrando su questioni direttamente riferite al destino ultimo del corpo. Cfr. N. Emery, L’architettura e la resurrezione dei morti, in Distruzione e Progetto, cit. pp. 279-299 e R. Ronchi, Figure del postumano. Gli zombie, l’onkos e il rovescio del Dasein, in «Aut Aut», n. 361, Aprile, La condizione postumana, Saggiatore, Milano 2014. 15. Cfr. F. Purini, Costruire la demolizione, in A. Criconia (a cura di), Figure della demolizione, Costa&Nolan, Milano 1998, p. 78. 16. Sull’argomento si veda la conferenza di Rocco Ronchi intitolata “Il corpo in salute” tenuta a Genova il 6 marzo 2013 nell’ambito del ciclo di incontri La Religione del Corpo (http://www.youtube.com/watch?v=PGb_ g3j5ajc ). 17. Cfr. N. Emery, Distruzione e progetto, cit. ma anche N. Emery, Progettare, costruire, curare. Per una deontologia dell’architettura, Casagrande, Bellinzona 2010. 18. Cfr. N. Emery, Distruzione e progetto, cit., p. 305. Si può notare l’affinità tra l’elaborazione del lutto di cui parla Ricoeur e certe declinazioni del contemporaneo concetto di resilienza. 19. All’imperativo io non si coniuga. Per declinare egli ed essi si ricorre al congiuntivo senza alcuna articolazione distintiva tra presente e futuro (ricicli! Riciclino!). 20. Si potrebbe obiettare che questo principio vale anche per altri termini che costituiscono la “popolazione di concetti” preceduti dai prefissi “ri” e “re”: riuso, riqualificazione, rigenerazione, recupero, restauro. Ma in questo caso i sostantivi sono più stabili dei predicati che li accompagnano e insieme resistono a univoche declinazioni. 21. Vale la pena di notare che l’imperativo è il modo prevalente nella grammatica e nella sintassi che, a progetto compiuto, si adotta nel cantiere: abbatti! Traccia! Scava! Arma! Getta! 22. Cfr. F. Purini, Costruire la demolizione, cit., pp. 77-78. 23. Cfr. Ibid., pp. 81-83. 24. Cfr. A. Gritti, Rovine del passato cantieri del futuro. Un incontro con Marc Augé, in «Ark», n. 13, Rovine, ottobre 2013. 65 IL FILOSOFO E I RESTI Rocco Ronchi >UNIVAQ 1. Antefatto: Socrate e Parmenide discutono di scorie, avanzi e residui vari Che cosa minaccia la possibilità della filosofia? Che cosa mette a prova l’ambizione del filosofo? Se si leggono le prime battute del Parmenide di Platone si fa una scoperta sconcertante. A inquietare la filosofia è qualcosa di irrilevante e senza valore, qualcosa a cui non si presta attenzione per via della sua natura indegna e ridicola. L’abietto – quanto è stato "buttato via" (abicere) – tormenta il filosofo. Incurante del disprezzo di cui è oggetto, l’abietto ritorna a screziare il cristallo della teoria: fa macchia e mette in questione in un punto, un punto irrimediabilmente cieco, la possibilità dell’armonia. Nessuna deduzione del molteplice da un unico principio è infatti ora possibile e, quindi, nemmeno nessun ritorno, nessuna theosis (divinizzazione), nessuna omoiosis (somiglianza con il divino), nessuna beatitudo: ci sono dei resti che non si lasciano assimilare. Né adesso né mai. L’eterogeneità di questi scarti sfugge ad ogni processo di smaltimento dei 66 rifiuti irridendo gli sforzi di divinizzazione del filosofo il quale si ritroverà sempre dello sporco tra le unghie e del fango nei piedi. Come è noto, nella finzione del Parmenide, Socrate è raffigurato giovanissimo, poco più che adolescente. Non poteva essere altrimenti se si voleva rendere appena credibile l’impossibile incontro con il vecchio filosofo eleate. Nonostante la giovanissima età, Socrate espone la metafisica (platonica) delle idee con una sicurezza che rasenta la sfrontatezza. Il vecchio filosofo aspetta con pazienza, bonarietà e financo un pizzico di ammirazione, la fine del suo dotto discorso per sferrare con la feroce grazia del boxeur il suo colpo da maestro. La questione che pone sul tappeto della contesa dialettica è quella della "partecipazione" delle idee (methexis): essa concerne la sua "estensione" o meno a tutte le cose. Dopo aver sollevato obiezioni che hanno già messo in imbarazzo l’aspirante filosofo, Parmenide elenca una serie di cose «che sembrano ridicole (gheloia doxeien), come capelli, fango, sporcizia o altro, che è privo di importanza (atimotaton) e valore (phaulotaton)»1. Sono le cose, aggiunge Parmenide, «che trattiamo con le mani (metacheirizometha)», quelle che, ad esempio, rendono il lavoro manuale indegno di un cittadino libero. Di esse, chiede, esistono idee corrispondenti? È la legione dei resti, degli avanzi, degli scarti e delle scorie, che, grazie a Parmenide, entra per la prima volta sulla scena del discorso filosofico per contestarne alla radice la possibilità stessa. Non si può non apprezzare la sublime ironia del drammaturgo Platone. Proprio Parmenide, il filosofo che non riconosceva dignità di ente a ciò che cade sotto il dominio dei sensi e che amiamo immaginare sprezzante del mondo fisico, proprio lui, per contestare l’idealismo del suo giovane avversario, fa appello a quanto, per statuto ontologico, appare inferiore perfino al grado della più bassa materialità. Parmenide non evoca gli escrementi, ma è indubbio che essi costituiscano il termine ultimo della serie di quelle cose ridicole e abiette delle quali si chiede se esista un’idea (separata, choristé) corrispondente. Socrate non solo rifiuta tale ipotesi ma indietreggia come spaventato da quella possibilità. Per i resti, dice, non ci può essere idea, verità, essenza. Socrate si sente minacciato da quei resti evocati da Parmenide e reagisce emotivamente. Quelle scorie lo ossessionano. Quel pullulare anarchico di avanzi lo spaventa. Quelle miserande realtà – capelli, sporco e fango – possono infatti far franare l’elegante castello costruito dal giovane filosofo nella sua dotta risposta alle tesi zenoniane2. Ciò che c’è di più grande e di più sublime, vale a dire la teoria 67 delle idee, è sottoposto all’ipoteca del sudiciume. Da quella infima porta può passare il drago che distrugge la possibilità stessa della filosofia. La scienza della verità è compromessa dall’esistenza atopica di un capello. I capelli e le altre realtà abiette, infatti, non hanno letteralmente "luogo" (tópos) nella teoria. Più che compromessa, occorrerebbe forse dire che la teoria è inquinata, contaminata, imbastardita da capelli, fango e sporco. «Un’idea del sudiciume finirebbe per corrompere l’empireo: essa annerirebbe (noircirait) l’insieme etereo, definito contemporaneamente dalla sua luminosità, dalla sua purezza, dalla sua costanza»3. Tutto questo appare intollerabile all’apprendista filosofo che preferisce "rifugiarsi", come un bambino spaventato, nelle sue rassicuranti certezze. All’imbarazzo del giovane Socrate, Parmenide risponde con una diagnosi ed un augurio. La reazione scomposta di Socrate è dovuta, egli dice, alla "giovane età", che gli fa tenere ancora in considerazione "le opinioni degli uomini", ovvero l’abituale partizione del reale in due regioni contrapposte, quella alta, degna della massima considerazione e quella bassa, la "parte maledetta" inassimilabile al concetto4. Il disprezzo per queste cose suppone un’assiologia implicita desunta dal senso comune e non problematizzata come tale. L’augurio riguardava il futuro filosofico del giovane interlocutore. Troppo giovane per essere vero filosofo (segno ne era, appunto, il disprezzo e l’angoscia infantile provata per le scorie) ma sufficientemente innamorato della verità per poter approdare, un giorno, alla vera filosofia. Ad essa, continua Parmenide rivolgendosi a Socrate, arriverai «quando non disprezzerai (atimaseis) più nessuna di queste realtà»5. Non credo che questa sentenza platonica sia stata finora tenuta nella doverosa considerazione. Dopotutto si tratta di una definizione della filosofia che si trova in un testo chiave della storia della metafisica occidentale. La filosofia, quella autentica, avrebbe inizio quando capelli, fango e sporco entrano nell’orbita della verità. La filosofia inizia quando ciò che al senso comune appare abietto viene investito dalla luce del bene (in senso extra-morale), quando, potremmo dire, i resti, in quanto resti, cominciano a splendere dello splendore della verità. La teoria delle idee, che di questo non è capace, è allora ancora prefilosofica. Se si va alla ricerca della filosofia non è lì che la si può trovare. Platone, al quale la tradizione assegna la paternità di quella teoria, non esita dunque, nel Parmenide, a sottoporre il suo stesso pensiero ad una revisione (auto)critica radicale, a testimonianza del fatto che la filosofia è fedeltà alla verità, quale che sia il costo di questa fedeltà. 68 2. Statuto ontologico, fisico, etico, politico ed estetico dei resti Molto, forse quasi tutto, è detto in questo antico dialogo sullo statuto dei resti. In primo luogo si fa chiarezza sul loro statuto ontologico. Lo stesso Platone, più avanti nel dialogo, lo precisa. Il loro statuto ontologico è oncologico. Onkos, la parola greca tristemente nota per la malattia che indica, fa il suo ingresso ufficiale nella prosa scientifica proprio nel Parmenide platonico. I resti non sono, i resti proliferano, brulicano, pullulano. I resti si moltiplicano illimitatamente senza che sia possibile porre un termine alla loro virale replicazione. Sono un molteplice privo di unità o delle esistenze che non si lasciano ridurre a concetto. Non si ordinano in un insieme organizzato e gerarchicamente strutturato ma si accumulano, si ammassano, fanno massa (onkos significa "massa"). Dal loro statuto ontologico/oncologico discende il loro statuto fisico: i resti sono divenire, sono kinesis, come tutte le cose della natura, ma sono una kinesis particolare, una kinesis abnorme. Essi infatti non se ne stanno certamente immobili e identici come le idee, ma nemmeno procedono ordinatamente, come fanno le cose naturali, nella direzione del loro termine, raggiunto il quale, acquisirebbero una forma compiuta. I resti piuttosto "avanzano" incessantemente con uno strano moto circolare che parodia il nostos odissiaco: avanzano per ritornare là dove per altro non hanno posto (come i cinematografici "morti viventi"6). Per i resti non c’è patria, non c’è collocazione, non c’è mondo ("atopia" dei resti). In quanto avanzi sono in costante eccesso rispetto a quel tutto di cui non sono parti. Lo statuto fisico dei resti non è, infatti, quello del particolare, che dell’insieme dato è un elemento, piuttosto è quello del dettaglio che in un punto, il punctum di Barthes, incrina il senso dell’insieme, lo eccede dall’interno, ne smentisce l’ordine apparente (lo "taglia" e, come tutto ciò che è tagliente, "ferisce"chi inciampa in esso). La psicanalisi investirà i resti del valore di sintomi: nell’ordine del significante i resti sono crepe che aprono l’interno (e l’intero) al suo fuori senza senso. Alludono, secondo Jacques Lacan, ad un "godimento" che è al di là del principio omeostatico di piacere, vale a dire al di là di quel principio che regola l’autoconservazione del tutto. Data questa ontologia e questa fisica dei resti, non vi sono dubbi su quale sia lo statuto etico dei resti. Essi non potranno stare che dalla batailleana "parte maledetta"7. Così, più di due millenni prima di Georges Bataille, li percepisce il giovanissimo Socrate alle prese con l’obiezione di Parmenide ed è per questo che prova angoscia. L’eterogeneità e l’inassimibilità li 69 caratterizza da cima a fondo. Non è con la placida "materia" dei filosofi che i resti mettono infatti in comunicazione. Quella è ancora una idea, è un concetto che si ordina insieme agli altri concetti e che insieme a loro partecipa alla costituzione di un kosmos ordinato. La materia dei filosofi materialisti è un principio d’ordine. Grazie al contatto delle idee con essa, si generano le cose nella loro razionale molteplicità. I resti, invece, della materia rappresentano l’elemento irriducibilmente anarchico, riottoso ad ogni legge. Ci sono i "materiali" con cui si costruiscono le case, ma ci sono anche le macerie che restano dopo i terremoti che le hanno distrutte. Queste non solo restano, ma avanzano e non si lasciano facilmente smaltire. Ebbene, i resti sono la dimensione di maceria della materia, sono il tumore della materia. Dal punto di vista etico, non potranno perciò essere altro che dalla "parte maledetta", la parte "bassa". I resti sono l’ossessione del demiurgo platonico, dell’artigiano-dio-architetto che nel Timeo ha il compito di progettare il kosmos sul modello delle idee. Sono gli scarti di lavorazione della sua opera che mirava, per quanto poteva, al bene e al bello («il mondo è il più bello dei nati e dio il più buono degli autori»8). Sono il risultato di una divisione imperfetta nella quale il dividendo (la chora, che molto impropriamente si può tradurre con materia) non è un multiplo del divisore (le idee). Rappresentano sensibilmente il limite strutturale della sua generosità, la sua impotenza definitiva ed il quantum ineliminabile di male (in senso extra-morale), vale a dire di non somiglianza, che il kosmos per essere quel kosmos che è deve ammettere accanto a sé (l’agostiniana regio dissimilitudinis). Di tali scorie il kosmos non si libererà mai perché la demiurgia del kosmos, che è produzione di una immagine simile9, è, al tempo stesso, produzione di queste scorie e cioè liberazione di una immagine dissimile. Chi si occupa del problema dei rifiuti (materiali e umani) lo sa bene: l’industria dello smaltimento, in quanto industria, continua a produrre rifiuti che andranno a loro volta smaltiti, in un circolo vizioso che ha il sapore del double bind (ad esempio, la prigione produce criminali, l’ospedale psichiatrico performa psicotici ecc.). Siccome il kósmos offre, ad ogni latitudine, il modello della polis armonica, la proliferazione dei resti si configura poi come il rovescio della politica (statuto politico dei resti). Proprio come il kosmos, anche la polis nel suo prodursi genera dei rifiuti che sono il suo altro. È la molteplicità irriducibile che l’affetta dall’interno mettendo a repentaglio il suo progetto di unità 70 "politica": può essere la sfrenatezza di desideri che desiderano sempre di più (pleonexía) o l’ambizione del tiranno/mostro oppure la condizione anch’essa mostruosa degli "avanzi" della società che sopravvivono ai suoi "margini" frugando nelle discariche. La bontà del legislatore postula e presuppone questo male radicale, perché la chora resiste alla methexis e perché l’armonia del tutto si interrompe sempre in un punto: nel punto cieco denotato dal permanere ostinato di "capelli, fango e sudiciume". Infine i resti hanno una peculiare dimensione estetica nel senso originario del termine: mobilitano un’affettività particolare, traumatica. È qui evocata un’esperienza assai comune. I resti suscitano disgusto o commuovono (i "poveri" resti…), turbano oppure possono far ridere ma di un riso sempre tinto di inconfessabile angoscia. La parte della nostra anima che coinvolgono è quella che ride, che piange, che prova ripulsa o che è preda della fascinazione. Non è la parte "migliore", secondo la ripartizione platonica, non è cioè la parte prediletta dai filosofi, sulla quale si può fare affidamento per la costruzione della città giusta. Non è l’elemento logistico, l’elemento pronto ad obbedire alla legge10. È piuttosto l’altro elemento, quello fantastico e patetico, avido di lacrimare ma anche di ridere: l’elemento peggiore e debole lontano dall’intelletto11, la parte "maledetta", cara al dostoevskiano uomo del sottosuolo. Questo è, continua Socrate, l’elemento a cui si rivolgono i poeti imitatori con i loro inganni seduttivi, gli imbonitori da piazza, i sofisti, tutti coloro che insomma hanno come scopo non la verità di ciò che è, ma la conquista, mediante tecnica di cattura, delle anime inesperte 3. La virtù speculativa dei resti Ebbene, se è tale lo statuto dei resti, come dare seguito all’augurio di Parmenide? Socrate, afferma l’eleate, diverrà filosofo quando non disprezzerà più nessuna di queste cose. Anzi, Parmenide, nel dialogo platonico, aggiunge che la differenza tra filosofia e non filosofia passa proprio dal rapporto che l’aspirante filosofo saprà instaurare con "capello, fango e sudiciume". La non filosofia è quella che sottende il rifiuto del giovane Socrate di estendere ai resti lo statuto della partecipazione al vero. Egli non farebbe, in questo caso, che seguire il senso comune, quando invece la filosofia del senso comune è l’inversione. Per il senso comune, infatti, i resti sono da smaltire. Ogni produzione li implica come il proprio rovescio ed è compito ancora della produzione contenerne l’anarchico proliferare. 71 Il demiurgo ha insomma bisogna di tecnici competenti nello smaltimento dei rifiuti. Forse il senso ultimo della parola "tecnico", quando questa migra nell’ambito della gestione delle risorse umane (quando ad esempio di parla di "tecnici" in politica), è proprio quello di esperto nello smaltimento dei rifiuti, in primis quelli umani. Ma la filosofia, che sovverte il senso comune, sembra segnalarsi per un’opposta attitudine. Non disprezzare queste cose, come raccomanda il vecchio eleate, significa saperne apprezzare la virtù. E quale può essere la loro virtù se non quella di resistere, di ritornare insistentemente al loro (non) posto, di perdurare a dispetto di ogni tentativo di liquidarli? E se, proprio a causa del loro costitutivo eccesso, i resti fossero quanto c’è di più resistente, quanto di più può ammantarsi del nome di fondamento? I resti restano anche e soprattutto quando il "mondo" degli uomini (kosmos) viene meno. Nella sua ricerca di un fondamento indiscutibile della verità, capace di resistere ad ogni dubbio, perfino agli inganni di un dio onnipotente, il filosofo moderno per antonomasia inciampava in un residuo, battezzato «ego sum, ego existo»12. Questo resto era più potente dell’onnipotenza di Dio. Da esso, secondo Descartes, doveva cominciare la metafisica. Costruire sull’indistruttibilità dei resti è allora la vocazione speculativa del filosofo: della pietra scartata egli fa la pietra angolare. Se vi è, come vi è, una qualche continuità tra la filosofia e il cristianesimo, essa si dà solo in questo punto (e, forse, si esaurisce in esso): nella chiara percezione che filosofia e cristianesimo hanno della verità più che umana, della verità divina della "parte maledetta". Note 1. Parm. 130 c 5 – d 1 (Oxford University Press, First published 1902, reprinted 1989). 2. Nella finzione platonica, era stato Zenone, all’inizio del dialogo, a introdurre le tesi parmenidee sul movimento. 3. François Dagognet, Des détritus, des déchets, de l’abject. Une philosophie écologique. Institut Synthélabo, La Plessis-Ro- 72 binson 1997, p. 65 4. Parm. 130 e 3 – 5. 5. Parm. 130 e 3. 6. Si veda il mio Figure del postumano. Gli zombi, l’onkos e il rovescio del Dasein, in “Aut Aut”, 361, Gennaio-Marzo 2014, pp. 82-96. 7. Cfr. Georges Bataille, La parte maledetta (preceduto da La nozione di dépense), Bollati Boringhieri, Torino 2003. 8. Tim. 29 a5 – 6. 9. Tim. 29 b 1 – 2. 10. Rep. X, 604 b 6 – 7. 11. Rep. X, 604 d 8 – 10. 12. Cartesio, Meditazione seconda, in Meditazioni metafisiche, Bompiani, Milano 2001. 73 FRAMMENTI E DINTORNI. DIVAGAZIONI ETICHE E DERIVE ESTETICHE Matteo Aimini >IUAV Evoluzione L’interrogazione dei valori derivati dalla coppia etico/estetico applicata al tema re-cycle, può apparentemente far sorridere. Beffardamente si intende, in quanto è richiesto alla compagine di studiosi delle discipline architettoniche, urbane e del paesaggio di riflettere in merito a due categorie ancora incluse, forse, negli armamentari teorici dei vari settori, ma che di fatto appartengo ad un'altra disciplina. L’architettura ha per caso perso le parole? Abbiamo esaurito la capacità di esprimere dei concetti attraverso un lessico appropriato? O si richiede di procedere verso un processo di ibridazione, di contaminazione, di rinnovate espressioni, frutto di ispirati processi dialettici? Il messaggio subliminale di questo esercizio sottende una disperata necessità evolutiva mediante incroci disciplinari? Pena la totale estinzione? Provocatoriamente potremmo dire che il progetto di architettura in senso lato è una specie protetta in via di estinzione se non 74 saremo in grado di adattarlo ai nuovi cicli e ai differenti valori etici ed estetici richiesti dall’attuale stato dell’arte. Stato Solo venti anni fa nessuno si sarebbe mai immaginato, almeno in Italia, di dover ritrattare condizioni di tali portata. Il vento del benessere, la capacità del capitale di porre rimedio ad ogni fallimento, sembravano delle condizioni rassicuranti. Purtroppo la sbornia è finita, ed alcuni valori come la gestione dei contenuti del progetto, l’attenzione verso il consolidato e la cura contro lo spreco del suolo e degli edifici esistenti riprendono terreno. Maggiore è la scarsità dei mezzi maggiore è l’attenzione verso quello che si possiede. Minore la capacità d’azione maggiore le probabilità di ottenere soluzioni diversificate. Minore è la forza del singolo promotore maggiore è la capacità della comunità di organizzarsi. 75 Direzione Di fronte a tale panorama di opportunità, la ricerca di una direzione oscilla ipoteticamente tra l’immagine di una Ocean Chart deserta1, in cui non viene disegnata una singola rotta e dove l’assenza dei tracciati sono l’unica direzione possibile versus la densità espressa dai flussi di movimento liberi ed incanalati che raccontano momenti di iperattività come rappresentati in Collective form2. L’interpolazioni tra questi due stati di navigazione che raccontano il vuoto e la densità dei movimenti esprimono molto bene, a mio avviso, i vari gradienti e i molteplici stadi dei processi inerenti re-cycle, che talvolta in termini progettuali possono apparire come un quadrato bianco su bianco3 prendendo forma nella loro scomparsa o essere deflagranti come un intervento di street art che dipinge l’apertura di un lucchetto situato al posto dei nostri occhi4. Assenza ed intensità, mimetismo e frattura, sono quattro ritmiche molto interessanti, da applicare nelle loro possibili sfumature al progetto di architettura che pone come cardini una nuova condizione etica ed estetica nei processi di riuso. Scala Un momento... al di là di una auspicata direzione ritmica del progetto di riuso in architettura, analizziamo innanzitutto quelle che apparentemente sono delle criticità etiche che riguardano la nostra materia progettuale, come per esempio il fattore scala. Milano, il "laboratorio urbano d'Italia" ne è la dimostrazione più evidente. Sopra una certa dimensione i processi di governo del progetto risultano difficili se non talvolta fallimentari, sia dal punto di vista finanziario sia per quanto concerne la qualità architettonica ed urbana. Senza scendere nei dettagli consideriamo i 14 maggiori progetti dell’area milanese5, per un totale di 610 ettari e 11.2 miliardi di euro di investimenti. Si registra che oltre il 40 % di essi presenta uno stato di sofferenza a vari livelli, causando come è facile immaginare disagio e imbarazzo. Per comprendere la dimensione di tali cifre, consideriamo che 610 ha sono poco meno di un terzo dell’intera superficie di Porto Marghera. Se applichiamo in linea teorica la stessa logica con cui Milano si è sviluppata dal 1995 al 2015, servirebbero all’incirca 40 miliardi di euro, per nuovi ed eventuali piani di sviluppo. Una cifra pari al prodotto interno lordo annuo dell’Estonia che conta una popolazione di 1.339.000 abitanti. Dopo tali considerazioni una serie di domande sorgono abbastanza spon- 76 tanee: saranno ancora possibili progetti di queste dimensioni data la drastica riduzione dei flussi finanziari che rendono difficili se non impossibili valide strategie di lungo periodo? Faremmo ancora impazzare nei nostri territori cordate di Archistar paravento di affaristi privi di scrupolo? O saremo costretti a rivedere profondamente le prospettive dei lacerti eccellenti in funzione delle esigenze reali? Processi Interessante notare come la scala del progetto ponga irrimediabilmente alcune questioni rilevanti ed estremamente connesse ai modelli finanziari andati in crisi dal 2008 in poi. Rileggendo la definizione della Vita Etica, dove «il momento in cui l’uomo sceglie di scegliere e si impegna in un compito e così facendo assume la responsabilità della propria libertà»6 saremmo portati a pensare che l’attuale condizione economica dettata dal nuovo ciclo, ci vincola e apparentemente limita definitivamente le nostre possibilità di scelta e quindi di impegno, minando di conseguenza la nostra condizione etica. In verità questa apparente costrizione della libertà di azione economica getta le basi per un radicale ripensamento dei processi progettuali che coinvolgono tutti gli attori in campo. Da un modello di finanza responsabile, ironicamente evocato dal dito medio7 permanentemente situato in fronte alla borsa di Milano. Alla capacità che alcuni autori come Bonomi, in reazione a tali fenomeni, hanno, nel ridefinire nuove geografie territoriali realizzate attorno ai concetti di infrastrutture collettive della produzione piuttosto che a singole e sporadiche isole di massima efficienza.8 Programma Tale situazione rimette pesantemente in discussione anche i programmi funzionali del progetto di architettura post crisi, per poter in qualche maniera sfuggire... «all’alienazione globale e volontaria, in forma collettiva. Dove la costrizione è la nuova legge, con la quale è assurdo colloquiare: la resistenza a tale legge inesprimibile è pagata con la tortura».9 Tale affermazione, rubata a Tafuri si riferisce agli episodi di tortura urbana, a cui i territori sono stati sottoposti, come ad esempio il quartiere satellite di Santa Giulia vicino alla stazione ferroviaria di Rogoredo o Sesena a pochi chilometri di distanza da Madrid, dove la banalità dei programmi ed un uso ripetitivo e spregiudicato delle densità, altro tema cruciale, han- 77 no creato situazioni di vera desolazione. I nuovi cicli dovrebbero essere in grado di ripensare il programma di architettura superando la classica suddivisione di tipo neo-razionalista, lasciando spazio in teoria all’incertezza, ad una modulazione meno rigida, più simile ad una tela di Boetti più che a un dipinto di Mondrian. «La certezza del fallimento deve essere il nostro gas esilarante/ossigeno; la modernizzazione è la nostra droga più potente. Dal momento che non siamo responsabili, dobbiamo diventare irresponsabili [...]».10 Raccogliendo la provocazione forse potremmo spingere l’etica a prendere delle posizioni più forti e propositive verso alcune questioni cruciali dei nuovi cicli come i fattori di scala, i processi di costruzione economica, i contenuti/programmi e la densità. Senza avere paura di lasciarsi alle spalle quei modelli teorici e progettuali che hanno messo in crisi i territori del contemporaneo. Frammento Anche gli esercizi teorici non sono immuni dallo stato di crisi che attraversano il progetto di architettura, se fino al 2006 avevamo ancora la forza di immaginare utopie di nuova fondazione11, innocue sperimentazioni compositive, la dura condizione del presente ci spinge a ritornare verso una dimensione più contenuta, alla scala del frammento, che induce a plasmare selettivamente e con logiche precise gli shrapnel incandescenti piovuti al suolo. Ripartendo dall’opportunità degli scarti apparentemente irrecuperabili, come nel caso del Ribbon Park di Tianjin, magistrale progetto realizzato da Turenscape. Esprimendo maggiore attenzione verso il ciclo dei manufatti, come dimostra l’adeguamento energetico e tipologico condotto a Winterthur, da Burkhalter Sumi Architekten o verso i territori, progettando architetture naturali capaci di sviluppare una vita propria con bassissimi costi manutenzione come nel progetto del parco olimpico realizzato per i giochi di Londra da Hargreaves Associates. Posizione Che cos'è allora re-cycle a questo punto? Se dovessimo posizionare il blob re-cycle nel diagramma di Jencks12, cercando di stabilire un lasso temporale sulle ascisse, certamente risulterebbe non inferiore al ciclo ventennale precedente. Collocandolo invece nell’asse delle ordinate dove compaiono le macro categorie che indicano 78 le varie anime dei movimenti di architettura, sicuramente sarebbe situato a cavallo dei termini intuitivo e militante, con alcuni sconfinamenti nelle fasce idealiste e logiche. Potremmo allora riformularlo secondo questa espressione: re-cycle è un progetto etico quando si dimostra intuitivo nelle scelte progettuali atte a migliorare una condizione di bordo e militante nella scelta degli obiettivi. Idealista ed estremamente logico nella sue varie espressioni attuative ed estetiche. Condizione La situazione che emerge da questa definizione potrebbe risultare ostica e difficile da accettare perchè da sempre siamo abituati a far prevalere il senso della Vita Estetica «dove l’uomo è immediatamente impegnato alla ricerca dell’attimo fuggente della propria realizzazione, rifiutando la monotonia e la ripetitività di ogni impegno continuato».13 Forse anche la condizione estetica rinuncia in parte alla sua dimensione di dichiarata singolarità e stravaganza, per abbracciare una provocatoria normalità. Approcci La condizione estetica potrebbe mutare a favore di situazioni coinvolte in processi: – di fusione, come nel caso di una semplice ampliamento di una villetta bi-famigliare per mano di Amunt nella periferia nord di Aquisgrana, dove la preesistenza in klinker rimane tale e la nuova espansione è provocatoriamente dichiarata da brutali blocchi di calcestruzzo prefabbricato; – di metamorfosi controllate come il rudere di una manica del museo di scienze naturali di Berlino, bombardato durante la seconda guerra mondiale, diventa l’occasione per effettuare una operazione di sapiente ricucitura. Non tanto nel programma funzionale, che ospita al suo interno una enorme wunderkammer di esseri in formaldeide, ma nell’operazione verso l’esterno che mediante un sistema di calchi, riproduce in finissimo calcestruzzo i temi, le trame ed i disegni dell’esistente, generando un potente conto circuito materico; – di sbinamenti rivitalizzanti come nel Frac di Lacaton & Vassal, a Dunkerque, dove l’aggiunta di un volume parallelo di ugual sagoma e dimensione, ma di differente consistenza materica, è stato progettato nell’ottica del mantenimento di una condizione fin dal principio in dote all’edificio madre: il grande vuoto dello spazio centrale. 79 Infatti il gemello di nuova costruzione ospita tutte le funzioni accessorie non compatibili con "l’assenza". Conflitto? Nel nuovo ciclo le categorie antinomiche di Etica intesa come rimodulazione di scale, processi economici, di programmi e densità versus una condizione Estetica apparentemente sottotono fatta di fusioni, metamorfosi e calibrati innesti fanno supporre la presenza di un conflitto o di una serie di esclusioni quasi insanabili. In verità entrambe le categorie nelle varie eccezioni concorrono sul medesimo piano, una non esclude l’altra e viceversa, compensandosi in un meccanismo di mutuo aggiustamento. Lo scontro caso mai è trasferito verso i piani sociali e culturali di questo nuovo stato d’essere, dove lo sforzo più grande risiederà nella capacità di trasmettere il nascere di nuove categorie Etiche ed Estetiche, pertinenti al periodo storico che ci accingiamo ad affrontare. Futuro La città di re-cycle, la città del nuovo ciclo, 2015-2035, deve essere quindi in grado di rielaborare rinnovati meccanismi etici che tengano in considerazione quelle variabili del progetto sopracitate che non siamo più in grado di ignorare senza mortificare una dimensione Estetica che è ancora in grado di fornire notevoli spunti di riflessione. Il progetto di architettura per ora pare sia salvo, anzi ne esce quasi rinvigorito. Assenza ed intensità, mimetismo e frattura, sono alcuni dei valori minimi e massimi di questi nuova gamma di progetti possibili. Riprendendo il gioco dello opposizioni, motivo saliente di questo seminario diremo che re-cycle è progettare l’assenza di un Marat che scompare14 come nel Naturkunder museum di Diener & Diener. Della rinnovata necessità di riconoscere i frammenti dell’arcipelago15 per iniettare intensi ma calibrati innesti programmatici di vitale importanza come accade ad esempio per la Nuova Fondazione Prada a Milano16. Di progettare mimetiche macchine per contocircuiti come il Palais de Tokyo17, che vagamente ricorda una raffinata versione del Fun Palace di Price, fino ad osare blasfeme rotture per superfetazioni del Colosseo18 inconsciamente ri-interpretate da Herzog & DeMeroun, nel progetto della Elbphilarmonie di Amburgo... (segue nel prossimo episodio). 80 InterventoSuperficie 1. Santa Giulia1.200.000 mq 2. EXPO 20151.100.000 mq 3. Nuova Fiera Milano 1.000.000 mq 4. Quartiere Adriano-Marelli 468.000 mq 5. Portello400.000 mq 6. Milano Fiori Business 360.000 mq 7. Porta Nuova340.000 mq 8. Quatiere Bicocca 300.000 mq 9. City Life250.000 mq 10. Regione Lombardia 190.000 mq 11. Porta Vittoria 151.000 mq 12. Maciachini Center 110.000 mq 13. Abitare Milano 1 Social H. 55.000 mq 14. Fondazione Prada 11.000 mq 81 Investimento Stato Note 2.8 Miliardi di Euro Fallito 20% realizzato Attivo In fase di realizzazione Realizzato Realizzato 1.7 800 Miliardi di Euro 770 Ritardo 60% no servizi alla residenza 350 Attivo 90% in chiusura 480 Fermo 60% 2.1 Miliardi di Euro Attivo Il 40% ceduto al Qatar 390 Milioni di Euro Realizzato Realizzato 520 Ritardo 50% post pon consegna 2023 400 Realizzato Realizzato 420 Fallito 50% Abbandono BEIC B6W 380 Realizzato Realizzato 80 Realizzato Realizzato 54 Attivo In fase di costruzione 82 Note Immagine 1. L. Carroll, Ocean Chart, The Hunting of the Snark (An Agony in 8 Fits), 1876. Diener & Diener, Ostflügel des Museums für Naturkunde, Berlin 2010 2. F. Maki, Investigations in Collective Form, 1964. 3. S. K. Malevic, Composizione suprematista: bianco su bianco, 1918. 4. Blu, Senza titolo, Bologna 2010. 5. Quattordici progetti dell’area milanese: vedi pagine precedenti. 6. S. Kierkegaard, Enten-Eller, 1843. 7. M. Cattelan, L.O.V.E., Piazza Borsa, 2012. 8. A. Bonomi, Il capitalismo in-finito, 2013. 9. M. Tafuri, Progetto e utopia. Architettura e sviluppo capitalistico, 1973. 10. R. Koolhaas, What Ever Happened to Urbanism?, in S,M,L,XL, 1995. 11. F. Purini, VEMA, Biennale di Venezia, 2006. 12. C. Jencks, The century is over, 2000. 13. S. Kierkegaard, Enten-Eller, cit. 14. Yue Minjun, The Death of Marat, 2002. 15. O. M. Ungers, Archipelago sketches, 1978. 16. OMA, Progetto per la nuova fondazione Prada, 2013. 17. A. Lacaton & J. P. Vassal, Palais de Tokyo, 2012. 18. Superstudio, Monumento continuo, 1972. 83 LA METAFORA DEL RICICLO Sara Favargiotti >UNIGE Agli albori del Cristianesimo i teologi suggerivano che la bellezza degli edifici avesse il potere di migliorare moralmente e spiritualmente le persone. Credevano che, lungi dal corrompere e dall’essere un’oziosa debolezza da decadenti, un bell'edificio potesse rendere più determinati a coltivare il bene. Queste convinzioni stabilivano un’equazione tra l'ambito dell'etica e quello dell’estetica.1 Estetica intesa come percezione soggettiva (ma condivisa) del nostro legame con l’ambiente, è il legame caratterizzato da una profonda ed equilibrata armonia dinamica; l’etica invece è la capacità, soggettiva e intersoggettiva, di concepire e compiere azioni capaci di mantenere sano ed equilibrato il legame con l’ambiente. Etica ed estetica sono quindi due facce della stessa medaglia. Se l'estetica è il sentimento (inter)soggettivo dell'immersione armonica nell'ambiente e l'etica è il sentimento (inter)soggettivo di rispetto per l'ambiente e di azione armonica con esso, allora l'etica ci consente di mantenere l'estetica e l'estetica ci 84 serve da guida nell'operare etico.2 Dagli anni Settanta, nel dibattito teorico sulla sostenibilità ambientale, vi è la ricerca di una nuova ecologia dell’artificiale, dove i vincoli ambientali offrono alla cultura del progetto la straordinaria occasione di proporre soluzioni diverse, basate su rinnovati criteri di qualità. Nel 1965 Vittorio Gregotti sostiene che «nulla si crea, nulla si distrugge: tuttavia tutto si accumula in attesa di essere trasformato. Non ci sono solo più i cimiteri degli uomini, dei cani e degli elefanti: tutta la nostra periferia urbana è un cimitero di oggetti […] e si ferma, scheletrame, a metà strada, attendendo che torni conveniente il suo ricupero».3 Anche il sociologo Maldonado4 sostiene il ruolo e la responsabilità del progettista nel proporre le necessarie trasformazioni della società. Il suo obiettivo è quello di dimostrare che per agire contro le cause e gli effetti della nostra situazione ambientale si deve sempre iniziare recuperando la speranza progettuale, in altre parole riconducendo su nuove basi la nostra fiducia nella funzione rivoluzionaria della razionalità applicata.5 La questione del cambio delle pratiche è molto importante perché implica un ripensamento del ruolo degli architetti nella società di oggi. Che cosa la società si aspetta (o di che cosa ha necessità) dall'architettura e dagli architetti? Si tratta solo di nuove forme affascinanti che introducono nuove espressioni estetiche e nuovi materiali? Secondo Lacaton6 le questioni più importanti per gli architetti sono: come e dove vogliamo vivere? Cosa possiamo fare per migliorare le condizioni di vita nelle città? Come possiamo portare un approccio più sensibile alle questioni della sostenibilità e dell'ecologia attraverso la tecnologia o il risparmio energetico? Una risposta a queste domande è data attraverso il riciclo del patrimonio moderno. Negli anni Sessanta e Settanta, molte città del mondo hanno visto la costruzione di unità abitative di edilizia sociale, generalmente in aree periferiche. In contrasto con le politiche francesi di demolire e ricostruire, Lacaton e Vassal propongono la trasformazione di uno di questi edifici, Tour Bois Le Prête a Parigi. Secondo gli architetti francesi, non si può pensare che sia un problema solo di architettura. Questi blocchi residenziali, infatti, anche se si trovano in cattive condizioni, non sono alla fine della loro vita e rappresentano ancora un elevato potenziale di miglioramento. Il progetto lavora con i "materiali" presenti: l'edificio che era già lì, e le persone che lo abitano, per arrivare a decidere cosa aggiungere 85 per renderlo «un bel posto dove vivere».7 Aggiungendo giardini pensili e balconi, rimodellando la pelle attraverso nuove aperture e nuovi materiali, il progetto ha portato un miglioramento della qualità degli spazi interni, creando un’immediata trasformazione dell'immagine dell'edificio. Quello che Lacaton e Vassal propongono non è un progetto dove sostituiscono semplicemente la pelle, ma piuttosto attuano una trasformazione duratura che scaturisce dall’interno, dalla sostanza dell’edificio. L’architetto Levete definisce l’intervento progettuale «far from the usual cosmetic approach that fools no-one.» Molto spesso, però, la speranza progettuale è ritrovata in luoghi emblematici e per mezzo di pratiche non formali. Come nella Torre David a Caracas che oggi è il più grande edificio occupato del mondo. Doveva essere il terzo grattacielo più alto del Venezuela ma la sua costruzione fu interrotta durante la crisi del ’94 e da quel momento rimase incompiuto fino all’occupazione da parte degli attuali residenti. Al suo interno, una comunità spontanea ha creato una nuova casa e una nuova identità, occupandola con talento e determinazione. Quello che è conosciuto come squatting, oggi, ha il suo modello da seguire. Un modello di Common Ground, ovvero di spazi comuni e per questo il progetto è stato premiato con il Leone d'Oro alla XIII Biennale di Architettura di Venezia. Questa iniziativa può essere intesa come un modello ispiratore che riconosce la forza delle associazioni informali. Tuttavia non si tratta solo di favelas, orizzontali o verticali, campi rom o residui post-moderni. Infatti, all’interno delle città, molteplici sono le strutture in attesa di essere riutilizzate, gli spazi invenduti o occupati. Il tema è particolarmente "italico", nell’arte come in architettura. Il non finito riferito ai cantieri edili incompiuti sembra essere una prerogativa del nostro modus operandi, soprattutto per quanto concerne le opere pubbliche: moncherini di strade e viadotti nel nulla, recinti di cantiere e sbancamenti abbandonati, scheletri strutturali lasciati a metà paiono connaturati alla percezione visiva del nostro paesaggio urbano e rurale. Julia Schulz li definisce rovine moderne8: luoghi precocemente abbandonati che affollano le periferie, i paesaggi e i nostri centri. Rigenerare spazi, esplorando nuove possibilità di qualità urbana, è poi così diverso dalle esigenze di un corpo umano? La performance, intesa come azione urbana, fonda il suo effetto sull'intervento fisico di una persona o di una struttura inusuale in un contesto più o meno di qualità che destabi- 86 lizza la gente, confonde o rende felici, fa pensare o incoraggia a prestare maggiore attenzione per l'ambiente. Dove c’è azione, c’è interazione di individui che genera una sacralità sociologica, come definisce Boni. Riprendendo la teoria di Goffman,9 tutte le forme di interazione sono tipi di prestazioni che si traducono in atti o eventi significativi e che vengono eseguiti attraverso la partecipazione dalla gente. L'azione, quindi, è un veicolo per scoprire la qualità profonda di carattere.10 Allo stesso modo, nella città, gli eventi o le performance urbane contribuiscono ad aumentare la sensibilità del luogo. Si tratta per lo più di performance che generano un nuovo ciclo, per comunicare, fruire, condividere, per sperimentare un modo diverso di vivere uno spazio abbandonato e riscoprirne il fascino. Azioni che si realizzano grazie a un lavoro condiviso di istituzioni e privati, associazioni e gruppi, con uno spirito collaborativo e come atto politico. Questo è quello che succede a Prata Sannita, nella progettazione del Million Donkey Hotel attraverso la partecipazione dei cittadini.11 Oppure attraverso l’evento urbano che ha riattivato Tour Paris 13 reinterpretandola in chiave street art.12 Si tratta di progetti che sono azionati dalla necessità e dalla ricerca di una nuova linfa per la città, sia per seguire le tracce del passato che per intraprendere un nuovo percorso. Riciclaggio urbano, squatting, arte e installazioni urbane si trasformano sempre più da pratiche contingenziali a prassi regolari. Secondo l’artista urbano JR «le aree pubbliche appartengono a coloro che vi abitano» e di conseguenza, le azioni urbane rigenerano paesaggi urbani: proprio gli spazi interstiziali o dismessi della città diventano la tavolozza su cui agire con performance e azioni urbane, generando un’opportunità per costruire una nuova sensibilità ecologica e ambientale per la città. D’altra parte il concetto di contaminazione fra architettura e arti plastiche e figurative è molto antico. Spesso le ricerche artistiche più significative hanno anticipato o influenzato il mondo del design, dell’architettura, della comunicazione. Si tratta di azioni culturali che si adattano al contesto in cui vengono collocate attraverso una nuova organizzazione fisico-spaziale oppure per mezzo dell’interpretazione soggettiva di ciascun fruitore. Come per la 54esima edizione della Biennale d’arte, Cattelan attraverso la sua opera Turisti, proponeva 2.000 piccioni imbalsamati che invadevano diversi spazi e opere del padiglione centrale. Un’opera priva di uno spazio proprio definito e delimitato ma che contamina altre opere, generando un nuovo significato per se stessa e per le altre opere. Così nella città, la 87 gente invade l’architettura e l’architettura contamina lo spazio e da questo incontro scaturisce il vero significato del progettare per la città. La società contemporanea sembra perdere di solidità: le sue organizzazioni diventano plastiche, le forme di vita che in essa hanno luogo diventano fluide, ogni progetto tende a essere flessibile e ogni scelta si propone come reversibile. O almeno così vorrebbe. Ma se pure nulla è poi così nuovo in termini filosofici, tutto cambia in termini pratici.13 Secondo la posizione platonica14 c’è insegnamento dove accade qualche cosa: Platone, infatti, critica la scrittura, valorizzando invece il processo di apprendimento come evento. L’evento è quanto c’è di residuale, di non progettabile. L’evento non è un rumore di fondo che disturba la trasmissione del sapere ma è il luogo in cui si fa il senso del sapere. Secondo Ronchi, questa è una lezione interessante ancora per noi oggi perché, in fin dei conti, tutti i processi di funzionalizzazione della comunicazione mirano ad eliminare la dimensione residuale e creativa della comunicazione stessa. Così nella città, gli eventi temporanei, spesso motore di queste azioni e derivanti da altre discipline, diventano oggi principio di trasformazione anche in contesti non problematici. Si tratta per lo più di strategie di riciclo urbano che agiscono attraverso la partecipazione attiva dei cittadini nel processo di trasformazione. Secondo Renzo Piano, infatti, la città è luogo di contaminazione, di contatto fisico, reale. «La città è più di un insieme di strade, piazze, giardini, palazzi, persone: è uno stato d'animo. È una straordinaria emozione. Una città non è mai disegnata, si fa da sola: insomma una città "è" [...] un luogo dove non tutto è programmato. Anzi, dove nulla è programmato».15 In questo senso «la città è un luogo dove c'è un continuo tumulto di sentimenti, dove si creano relazioni, interazioni e si manifestano passioni, inscritte negli spazi o provate nei cittadini. Ma l’anima tende ad animare, a immaginare per mezzo di immagini e di simboli [...] senza immagini tendiamo a smarrirci.»16 Pertanto, è fondamentale il ruolo degli eventi temporanei nei processi di trasformazione perché attraverso un rispetto etico e un’attenzione estetica, propongono una visione alternativa e trasformano la qualità dello spazio urbano, rigenerando la città, implementandone la qualità estetica e generando nuove narrazioni. Oggi, pensare a che cosa sia ecologico, sostenibile ed economica porta a un diverso principio etico: un'architettura fatta di riuso e riduzione dei consumi, che sta rivelando un suo linguaggio espressivo e processuale. Il riciclo, infatti, è una pratica adattiva e speci- 88 fica che si muove per tattiche più che per modelli. All’uso abbandonato, se ne sostituisce uno preso a prestito da altre forme espressive, la cui "essenza" va a sovrapporsi a quella del luogo originario creando, così, immagini di forte carica espressiva. Modelli comportamentali più che buone pratiche. Così i progetti riciclati propongono una visione pervasiva, capace di interpretare il cambiamento quotidiano dei modi d’uso dello spazio. In questo senso etica ed estetica non sono in opposizione ma piuttosto sono paradigmi complementari. Forse siamo davvero di fronte a una nuova tendenza: la griffe del processo.17 Ma non si tratta di un’opposizione all’architettura, o di una demistificazione del suo ruolo demiurgico. Recycle, mettendo in difficoltà la figura dell’autore, apre le possibilità alla partecipazione attiva dei cittadini nel ridisegnare il futuro della città. Forse l’architetto, addentrandosi con il suo operare, volontariamente o inconsapevolmente, nel campo dell'etica, non dice nulla che non sia già stato detto in altri ambiti del pensiero del suo tempo: non fa che interpretare e tradurre in forma costruita un messaggio già articolato da altri in linguaggi diversi. L’autore, singolo o riunito in una collettività, si trasforma in un interprete del cambiamento del nuovo linguaggio espressivo. Architetti e urbanisti sono chiamati a ricodificare il cambiamento. Il riciclo non è che una metafora: una metafora etica per un cambiamento estetico. Note 1. A. De Botton, Architettura e felicità, Guanda, Milano 2006. 2. G. O. Longo, Etica, estetica e libero arbitrio, in «Scienza in Rete», 2010. 3. V. Gregotti, E. Battisti, Periferia di rifiuti, in «Edilizia moderna», n. 85, 1965, p. 28. 4. T. Maldonado, La speranza progettuale. Ambiente e società, Piccola Biblioteca Einaudi, Milano 1992. 5. P. Tamborrini, G. Tartaro, Design Sostenibile, 2013. 6. A. Lacaton, Transformation, density for a better quality of life in the cities, in «RIBA Research Symposium "Changing Practices" conference proceedings», London 2009. 7. A. Lacaton and J. P. Vassal in conversation with M. Wellner, Surplus, in M. Petzet, F. Helimeyer (eds.), «Reuse, Reduce, Recycle. Architecture as Resources», German Pavillion, 13th International Architecture Exhibition, 2012. 89 8. J. Schultz, Ruinas Modernas. Una topografia de lucro, Àmbit, Barcelona 2012. 9. Erving Goffman è un sociologo americano e ha contribuito alla teoria dell’interazionismo simbolico attraverso lo sviluppo dell’approccio "drammaturgico": considera cioè la vita sociale come una sorta di teatro in cui le persone interpretano diverse parti e agiscono come "registi" della loro vita e delle impressioni che destano negli altri. 10. E. Goffman, Where the action is: three essays, Allen Lane 1969, p. 164. 11. Feld72, Million Donkey Hotel, Prata Sannita 2005. 12. Tour Paris 13, Parigi 2013. 13. E. Manzini, Il design in un mondo fluido, in P. Bertola, E. Manzini (a cura di), «Design multiverso. Appunti di fenomenologia del design», POLI.design, Milano 2006, p. 17. 14. Platone, Lettera VII, 341c. 15. R. Piano, La responsabilità dell’architetto. Conversazione con Renzo Cassigoli, Passigli Editori, Firenze-Antella, 2004, pp. 77-78. 16. J. Hillman, Politica della bellezza, a cura di Francesco Donfrancesco, Moretti & Vitali, Bergamo 1999, p. 81. 17. S. Marini, Convegno Re-cycle Op_ Position, Venezia, 4 aprile 2014. 90 OBJET TROUVé O READYMADE? Enrico Formato >UNINA 1. Progettare (con) gli scarti Nel mondo di Re-cycle non c’è opposizione tra etico ed estetico: il riciclo è una necessità. Da questo punto di vista la categoria degli scarti, dei rifiuti, degli oggetti e delle relazioni non in uso (alla fine del proprio ciclo di vita), è estremamente più interessante (ed infinitamente più cospicua) di quella delle cose e delle relazioni in essere o inserite in un network attivo. Ogni scarto, mediante un meccanismo di concettualizzazione retroattiva, può essere inserito in una o più storie, in cui assume senso.1 Le cose e le loro concatenazioni acquistano così uno spessore temporale, fatto di accumulazioni e proiezioni nel futuro. Le mappe si liberano dalla bidimensionalità e, sfocandosi, assumono profondità.2 I cicli di vita (e le loro storie: le biografie urbane e del territorio), i metabolismi dei sistemi ed i loro ibridi (urbani, naturali, delle aggregazioni sociali e degli scontri tra classi – come nella visione neo-materialista degli assemblaggi3) rendono il mondo 91 degli scarti avvolgente e pervasivo, mai veramente esterno all’osservatore (che è sempre attante: agente o agito dalla realtà). Così il progetto diventa dispositivo, elegge il tempo e la mutazione come campi privilegiati di azione; assume le biografie come matrice generativa, sovrappone layer, muove lo spazio, obliqua punti di vista (come in un mosaico cubista), costruisce inedite configurazioni attraverso la ri-composizione di materiali e relazioni. Dato che ogni concettualizzazione di un frammento, un oggetto o una relazione, richiede un’interpretazione, le scelte del progetto assumono rilevanza sia dal punto di vista estetico che etico. Da entrambe le prospettive provengono interrogativi significativi sul come declinare la condizione di necessità che definisce il campo del riciclo. 2. Catalogazione, interpretazione, poesia Dal punto di vista estetico Re-cycle sembra poter utilizzare due atteggiamenti, complementari ed opposti, non separabili. Tali espressioni sembrano declinabili mediante un’analogia con la ricerca estetica dell’arte contemporanea, dove la multidimensionalità e la significazione dei reperti, a partire dalle avanguardie storiche fino ai nostri giorni (da Gris e Duchamp, fino al Nouveau Réalisme e alle accumulation di Arman), sono temi centrali, sia dal punto di vista teorico che per le ricadute tecniche ed espressive. Il primo procedimento – che diciamo degli objet trouvé – sembra fondare su di una pura razionalità analitica: la ricostruzione delle biografie, la loro sovrapposizione, la ricostruzione scientifica di direzioni interrotte. Un lavoro di tipo archeologico, basato sullo scavo e la catalogazione dei frammenti e delle parti. Ogni elemento ed ogni relazione trovata sul campo viene assegnata ad un sistema di significati e di azioni indipendente, ad esempio ad una determinata famiglia di scarti.4 La sovrapposizione di questi sistemi lavora su più piani, evita ogni giudizio di valore, assegna ad ognuno di essi eguale dignità. Come in un dipinto di Juan Gris5: lo sguardo inganna, la realtà è compresa solo mediante la catalogazione e la ricostruzione in vitro dei diversi piani che la compongono. Il passaggio dalla catalogazione al progetto avviene mediante la sovrapposizione dei piani e la ricerca visuale di addensamenti, strappi, sfilacciamenti, linee di flusso, pieghe. La seconda mossa – che definiamo del ready-made – è di tipo poetico, fornisce prospettive non ovvie recuperando oggetti noti ("pronti all’uso") in concatenazioni funzionali ed estetiche del tutto inedite, tendenzialmente 92 inaspettate. Questo procedimento impiega l’oggetto o il sistema di oggetti come fatto unico, non sezionabile. Differentemente ed in opposizione alla razionalità analitica (descrittivo-catalogatoria) non utilizza il montaggio ma lo spostamento (il fuoco dello sguardo, il punto di vista, il nesso percettivo o funzionale). Si basa sullo straniamento6, assegna valore ad oggetti abusati (nella percezione, nell’uso) che possono assumere nuovo significato in cicli di vita attuali. Non solo oggetti: i ready-made sono anche metabolismi, cicli di vita ri-significati in altro sistema, come ad esempio la natura che colonizza spontaneamente le grandi aree dismesse. Nella concatenazione tra analisi, catalogazione, interpretazione e poesia (o meglio attraverso l’andirivieni tra di esse) non si definisce un procedimento astratto né codificabile: la concettualizzazione impatta con l’immanenza della realtà, la durezza dei fatti resiste all’idealismo della codifica. D’altro canto non può non intervenire l’assegnazione di giudizi di valore: nelle infinite combinazioni tra piani, il progetto individua difatti un fascio di direzioni privilegiate (dalle tante del piano di area vasta, all’univoca soluzione dell’esecutivo architettonico). Re-cycle sceglie gli oggetti ed i processi da assemblare, gli elementi da caricare di valore espressivo; determina la direzione della trasformazione, individua i metabolismi e i cicli di vita da coltivare e quelli da sradicare. Come un contadino di fronte al proprio orto Re-cycle sa quali erbe estirpare e quali bulbi innaffiare e curare. 3. Figure: le terre comuni, la corona di cemento Re-cycle non può esprimere una neutralità rispetto ai fatti, pena il descrittivismo o l’inefficacia. Il punto (aperto) è dunque: cosa si ricicla? Il nodo è la scelta e l’assegnazione di valore che ne fonda la posizione. Si apre una dimensione politica in cui il progetto di riciclo, che pur usa l’archeologia come tecnica e la concettualizzazione retroattiva come metodo, non rinuncia alla combinazione inedita, ad opporsi alla realtà sfidandone le inerzie. Sembra emergere allora l’opportunità che Re-cycle sia allo stesso tempo pratica di trasformazione e critica della trasformazione, per la definizione di alcuni obiettivi comuni, condivisi e sufficientemente netti da polarizzare il dibattito pubblico. Un’ipotesi, da verificare alla prova dei fatti, è che possa tornare di utilità ragionare su alcune definite e condivise figure del riciclo; provare a definire delle costellazioni d’immagini che riducano e sintetizzino i valori etici del fare architettura, urbanistica e paesaggio oggi7; definiscono alcuni punti 93 verso i quali provare a convergere, al fine di non rendere vani o controproducenti le mosse del riciclo.8 Due sono le figure che in questa sede mi sembra opportuno tratteggiare, a causa della loro attualità e del carattere dirompente che esse paiono sottendere: le terre comuni e la corona di cemento. Le terre comuni sono aree (semi-)abbandonate, spesso marginali, che vanno definitivamente liberate (in parte ciò è accaduto spontaneamente negli ultimi anni per effetto della crisi) della rendita differenziale che le cristallizza in uno stato di sospensione, e significate con nuovi usi sociali, civici e agro-produttivi, secondo un modello reticolare e di nuove continuità ecologiche e spaziali. Le grandi agglomerazioni metropolitane, le centocittà italiane, le conurbazioni estese, possono così trovare nuove trame per lo spazio pubblico e nuovi rapporti tra insediamenti e natura, a partire dagli open drosscape, i vuoti che scartano tra le maglie degli insediamenti. Le pratiche del riciclo sono senza dubbio in grado di concorrere, mediante il recupero mirato di infrastrutture, vuoti inutilizzati, fasce para-infrastrutturali, edifici e spazi sottoutilizzati (dall’agricoltura, dalla produzione, dalla residenza) alla definizione di tali aree. Allo stesso modo va circoscritto ciò che non è compatibile con l’obiettivo, lasciando deperire o eliminando gli elementi e le relazioni che contrastano i processi di rinaturalizzazione e di strutturazione delle nuove topologie pubbliche. Altrettanto rilevante sembra il lavoro sugli insediamenti, in particolare su quella sorta di "corona di cemento", eredità dell’espansione edilizia iniziata con la ricostruzione e continuata negli anni del boom economico (dal Piano Casa del 1949 all’anno di moratoria della Legge Ponte del 1967). Questa parte urbana si è sviluppata, salvo rare eccezioni, in ogni parte d’Italia con caratteri analoghi – la strada come matrice di un’edificazione a cortina, l’elevata densità, la carenza di spazi pubblici e servizi adeguati – come ampliamento degli antichi insediamenti, in modo radiale, usandone parassitariamente i tracciati e l’armatura urbana. Dal diradamento di questa parte di città e dal riciclo di questo territorio possono trarre vantaggio sia i centri antichi (per i quali si aprono delle possibilità di restauro a scala urbana, potendo ripensarsi un’Italia di centri urbani riconoscibili come manufatti nel paesaggio) sia le parti più moderne e periferiche da riallacciare, mediante nuovi spazi pubblici a rete, tra loro e con il resto della conurbazione. Questa operazione, per quanto possa oggi sembrare immane, è sempre 94 più necessaria, anche perché è da qui che sembra opportuno ripartire per riformare, con radicalità adeguata alle condizioni di fatto, le nostre città ed i nostri territori. 4. Conclusioni (provvisorie) Re-cycle Italy è una condizione necessaria, allo stesso tempo estetica ed etica; risolve all’origine ogni dibattito sul consumo di suolo. La sua estetica affonda nella combinazione di razionalità analitica e straniamenti poetici. La sua concettualizzazione usa il tempo, è retroattiva e proiettata nel futuro. La sua etica si basa sulla scelta: è opportuno che emergano delle figure, per fissare orizzonti di senso su cui lavorare collettivamente, ognuno dal proprio punto di partenza, verso alcuni radicali obiettivi comuni. C’è da indirizzare il riciclo, favorendo le delocalizzazioni delle cubature e dei sistemi insediativi irrazionali, brutti e cattivi del novecento. I drosscape ambientali, vanno inquadrati in una logica sistemica, reticolare, volta alla costruzione di nuove terre comuni. Una rete di spazi aperti, pubblici e con elevata caratterizzazione naturalistica, che va indirizzata ad insinuarsi progressivamente nelle parti più dure e dense della conurbazione; sfruttando le crepe che Re-cycle saprà determinare nella "corona di cemento". Note Press, 2007. 1. B. Hue, Sur un état de la théorie de l’architecture au XX siècle, Éditions Quintette, Paris, 2003; P. Viganò, I territori dell’urbanistica. Il progetto come produttore di conoscenza, Officina Edizioni, Roma 2011. 5. Nella pittura cubista, a differenza di quanto accade nella rappresentazione prospettica in cui gli oggetti sono dati nello spazio, gli oggetti sono dati con lo spazio, che viene immedesimato e risolto negli oggetti. Nella Natura morta di Juan Gris, del 1914 la perdita di profondità è accompagnata dalla sovrapposizione degli elementi mediante la rappresentazione simultanea di più piani: «il bordo del tovagliolo non è interrotto dal piatto: poiché sappiamo che il bordo è continuo […] non c’è ragione per rinunciare ad un aspetto certo per uno occasionale», G. C. Argan, Storia dell’arte moderna, Sansoni, Firenze 1989, ed. or. 1970, p. 396. 2. Come un film in 3D, dove la profondità è data dalla traslazione della medesima immagine in diversi quadri, non perfettamente coincidenti. 3. R. Beauregard, In search of assemblages, in «Crios », n. 4, 2012. 4. A. Berger, Drosscape. Wasting land in urban America, Princeton Architectural 95 6. La tecnica dello straniamento, in russo ostranenie, è stata elaborata dal critico letterario Victor Šklovskij nell’ambito del movimento formalista, alla fine degli anni Venti: l'immagine poetica 'strania' l'usuale, il quotidiano, operando uno spostamento rispetto alla consueta serie semantica in cui si colloca e presentandolo in una nuova luce, dunque trasformandolo in oggetto poetico. Il procedimento è stato approfonditamente sperimentato dalla cinematografia sovietica, da Sergej Ejzenštejn ad Andrei Tarkovsky. 7. «Le immagini del pensiero […] si aggregano in costellazioni, ma si trasformano solo diventando figure […] La figura potrebbe essere […] la redenzione dei frammenti e delle immagini di un senso individuale che, proprio nella trasmissibilità della figura, si connette a un destino e a una storia collettiva», F. Rella, Miti e figure del moderno, Feltrinelli, Milano 1993, p. 11. 8. La strada da percorrere non è il recupero indifferenziato del patrimonio edilizio esistente, come disposto dai recenti provvedimenti legislativi per il rilancio del settore delle costruzioni. Occorre distinguere ciò che va recuperato da ciò che va eliminato o trasformato radicalmente. Immagine Enrico Formato, Objet trouvé o ready-made?, Lago di Miseno, Campi Flegrei, Italia, 10 febbraio 2014, ore 8:34 am 96 I'M SO VAIN. JUST, DON'T WASTE ME AWAY Maria Clara Ghia >UNIROMA1 In qualunque classificazione di Fourier, c’è sempre una parte riservata, l’ottava parte di ogni collezione. Fourier la definisce ogni volta con nomi diversi: passaggio, misto, transizione, neutro, banalità, ambiguo. Essa è trascurata dagli studiosi come fosse un errore, ma è ciò di cui il tassonomista ha maggior bisogno. È il termine che consente di transitare da una classe all’altra, l’eccesso che occorre per definire la classificazione. Il tampone, l’ammortizzatore, ciò che fluidifica il tic-tac semantico, il rumore metronomico che segna l’alternanza paradigmatica: si/no si/no si/no. Lo spiega bene Roland Barthes quando scrive che il campo del Desiderio e il campo del Bisogno sono due reti le cui maglie non coincidono. Il loro rapporto non è complementare, ma supplementare: «ognuno è il troppo dell’altro. Il troppo: quello che non passa».1 Il troppo viene scartato. È ciò che avanza dal processo produttivo, dal processo di consumo. È ciò che non si assimila e viene rigettato fuori. Il trop- 97 po, non sappiamo dove metterlo. Cerchiamo di nasconderlo, distogliamo lo sguardo. Lo gettiamo via, saranno altri a doversene occupare. Oppure resterà come residuo in balìa degli eventi, da qualche parte sul nostro pianeta. Enorme isola di scarti fluttuante nell’oceano. Il troppo è inutile, svuotato di valore d’uso. You’re so vain, cantava Carly Simon in perfetto stile country, ironizzando sulla sua relazione con Warren Beatty: «sei così vanitoso, avevo dei sogni che ti riguardavano ma si sono dissolti come nuvole mentre prendo il caffè». Vain quindi, vuoto di valore d’uso, mancante di profitto2, eppure pieno di (presunto?) valore estetico. Sono le avanguardie per prime ad attribuire allo scarto qualità estetiche non più legate alla catena del consumo. Tra il 1920 e il 1936, nella casa studio dell’artista dadaista Kurt Schwitters, cresce a dismisura una scultura composta da materiali di scarto, fino a sfondarne il tetto. È il Merzbau, e merz significa merce. Il sottotitolo dell’opera è: Cattedrale della miseria erotica, per indicare quale fine faccia la merce nel momento in cui perde la sua capacità attrattiva. Si può andare avanti all’infinito, ricordando i Combine paintings di Robert Rauschenberg, la Merda d’artista di Piero Manzoni, i resti del pasto di Daniel Spoerri, le installazioni sonore di Jean Tinguely, gli scarti di tappezzeria di Alberto Burri, la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto.3 Le avanguardie danno il via a un processo tuttora in atto, quello dell’estetizzazione di ciò che è rifiutato. Sacro Gra, il documentario che nel 2013 è valso il Leone d’Oro a Gianfranco Rosi al Festival di Venezia, racconta vite di scarto confinate al margine del Grande Raccordo Anulare di Roma. Senza voler negare gli accenti poetici di una visione del reale che parte dal punto di vista di ciò che resta al margine, di ciò che viene escluso, viene da domandarci: non c’è un’alternativa alla mera contemplazione di ciò che la società mette al confino? Non c’è un altro possibile atteggiamento rispetto a quella sorta di attuale mania dell’apprezzamento incondizionato, verrebbe da aggiungere politicamente corretto, della marginalità così come essa si mostra? Non c’è una risposta al conseguente dilagare di (marginali) considerazioni estetiche? Possiamo seguire le tracce di Walter Benjamin: «Non sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ingegnosa. Stracci e rifiuti, invece, ma non per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli».4 Da una parte il detto, il manifesto, il visibile, glorificato dalla storiografia 98 borghese, dall’altra il non detto, il nascosto, il non visibile su cui lavora il materialismo storico, i materiali dimenticati, abbandonati, destinati alla distruzione. Ma il lavoro del materialista storico non si limita a un pedissequo inventario, quindi a una mera contemplazione. Il lavoro del materialista storico è un agire su questi materiali: usandoli. I più alti prodotti culturali e i più bassi detriti della vita possono essere trattati allo stesso modo, possono essere, allo stesso modo, usati: la possibilità di reinserire anche l’ultimo dei relitti nel campo dell’utile come estrema forma di riscatto.5 Immediatamente, nella visione di Benjamin, si condensa un passaggio, un salto, uno scarto appunto: dalla dimensione estetica a quella etica, dallo stato contemplativo all’azione, alla praxis. E, come si suol dire, c’è di mezzo un mare: nell’esperienza estetica un soggetto si trova di fronte ad un oggetto, in questo caso alla manifestazione estetizzata dello scarto, e riconoscendone il valore qualitativo riconosce anche se stesso, quindi si instaura il rapporto fra un sé che ha la prova di esistere e un oggetto della cui esistenza il soggetto partecipa; nell’agire etico il rapporto che si istituisce non è soltanto fra un soggetto e un oggetto, ma fra un soggetto e tutti coloro la cui esistenza verrà modificata dai possibili usi di quell’oggetto. Modificazioni che incideranno quindi su molteplici vite, sull’ambiente circostante, sul possibile assetto del nostro domani. In questa ricerca si parte dalla triade Reduce-Reuse-Recycle. Si prosegue, secondo le teorie alla base della sostenibilità6, con la triade EconomyEquity-Environment. Allargando il quadro teorico, si aggiunge la triade di riferimento per ogni discorso sull’etica, quella formulata da Edgar Morin accostando i temini Individu-Société-Espèce: l’imperativo etico nasce da una "fonte interiore" all’individuo, che sente nel suo spirito l’ingiunzione di un dovere, proviene anche da una "fonte esteriore", ossia la cultura e le norme di una comunità, deriva infine da una "fonte anteriore", risultato dell’organizzazione vivente, che viene trasmessa geneticamente, dal passato al futuro.7 Il punto interessante del pensiero sull’etica è quindi l’apertura di una prospettiva temporale. Giorgio Agamben, più volte ricordato per il suo interrogarsi sul concetto di contemporaneità8, si esprime sul concetto di scarto non tanto in termini spaziali, ossia di sfasamento fra una cosa e l’altra nello spazio, di differenza formale fra uno stato e l’altro, quanto in termini temporali: lo scarto come anacronismo. È contemporaneo l’inattuale, colui che legge il suo 99 tempo attraverso una sfasatura e che proprio attraverso essa è in grado di percepire in un colpo tutta la complessità del presente. C’è di più: colui che veramente è contemporaneo coglie l’appuntamento in questione nel presente in tutta la sua urgenza, e non può tirarsi indietro di fronte all’impellente necessità di una trasformazione. In questo assunto si respira tutta la risonanza di una missione etica. Che cosa proviamo quando emerge dinnanzi a noi l’evidenza dell’inutilità dello scarto, la sua vaghezza di senso, il suo essere vain? Prima di tutto, un senso di disagio, consapevoli del fatto di essere noi, egocentrici protagonisti della società dei consumi, a generare avanzi, eccessi del processo di produzione. Poi, un senso di accettazione irresponsabile, perché produrre scarti è un aspetto necessario del sistema economico attuale. Questo stadio di accettazione ci porta a contemplare lo scarto nella sua dimensione estetica (o estetizzata). Ma solo un ultimo passo ci spinge nel campo dell’etica: il passo della scelta, della decisione verso una possibile trasformazione. E in questo passo consiste uno sfasamento temporale, un anacronismo, uno slancio verso il futuro: un progetto. Ora, Berger ci insegna che in inglese le parole vain e waste derivano dalla medesima radice. Waste, dal latino vastus, vuol dire vuoto, deserto, improduttivo, devastato.9 Vuol dire anche vasto, ampio, smisurato, quindi: il troppo. To waste significa scartare, quindi sprecare. Il cavallo scarta di lato quando cambia direzione, dal latino exquartare, a sua volta da quartus, con riferimento al quarto di giro di fianco caratteristico del movimento dell’animale.10 Ecarté, in francese, è la rotazione della ballerina che partendo dalla posizione en face compie la quarta parte di un giro. Ancora, écarter de la bonne voie, far deviare dalla retta via, scostarsi dalla rotta prefissata. La differenza rispetto alla traiettoria, lo slittamento per cambiare posizione, producono energia. Il termine waste si riferisce allo spreco di questa energia. Se l’analisi del concetto di scarto avviene dal punto di vista della dimensione estetica, appare con chiarezza la figura di una materia inutile, vain, svuotata di senso e di forma: questa figura appare bella? Oppure si può rendere bella di nuovo? E in che modo? Se invece spostiamo l’analisi nel campo dell’etica, appare la figura di una materia densa di energia, e immediatamente siamo portati a ragionare sulla possibilità di non disperdere questa energia, sul modo di contenerla, di trasformarla, di renderla utile a noi stessi, agli altri, al mondo. In una frase, sulla necessità di non lasciare che lo scarto si trasformi in spreco. 100 Abbiamo scomodato Fourier per comprendere come lo scarto sia l’anello fondamentale per passare in ogni classificazione da uno stadio all’altro. Ora possiamo banalmente ricordare Capra per la sua ormai arcinota ricerca sull’autopoiesi, sulla rete della vita come sistema aperto, lontano dall’equilibrio, caratterizzato da un flusso costante di energia e materia, sulla definizione del vivente come organismo che assorbe energia e libera prodotti di scarto e sui sistemi in grado di utilizzare l’uno gli scarti dell’altro come materia prima11: from cradle to cradle. Nel campo del Re-cycle si parla spesso di End of life, di prodotti a "fine vita". Ma trasformare lo scarto, non sprecare il suo potenziale, materico ed energetico, vuol dire reinserirlo in un altro ciclo (formale), in un nuovo processo (economico), vuol dire quindi garantirgli la possibilità di nuove vite dopo la prima. In questa trasformazione, etica ed estetica si passano il testimone. Questa trasformazione non è etica ed estetica, non è etica oppure estetica. Istanza etica ed istanza estetica non si danno se non insieme, due facce della stessa medaglia. Questa trasformazione trae origine da motivazioni etiche, dalla decisione dell’urgenza di cambiamento, e approda a risultati estetici, delineando per gli scarti nuove forme. Ma allo stesso tempo questa trasformazione nasce da una consapevolezza estetica, dalla percezione che "qualcosa manca"12 nella forma delle cose così come sono, e conduce a finalità etiche, garantendo nuove possibilità di uso a ciò che oggi è scartato, uso che potrà contribuire a migliorare altre vite, a disegnare altri luoghi, a creare altri mondi. Il troppo, l’eccesso, lo scarto, può riacquistare il senso che gli manca (e il corrispettivo valore economico), proprio nel divenire tassello di congiunzione fra istanza estetica ed istanza etica? Può ritrovare significato nell’essere mostrato per ciò che è, pezzo mancante all’interno di un processo virtuoso? Può essere reinserito nella rete di relazioni attraverso cui configuriamo il nostro presente e prefiguriamo il nostro domani? Si tratta di saper coniugare ciò che si incontra oggi con ciò che si desidera per il futuro, il dato di realtà e il suo rimando a un altrove avverabile. Possiamo reggere la vista di ciò che si mostra attuale, cumuli di macerie, spazi degradati, edifici in rovina, vite ai margini? Possiamo non nasconderli, non rimuoverli semplicemente? Possiamo non fermarci semplicemente a contemplarli in un anelito di romanticismo, viaggiatori su un mare di nebbie, possiamo agire in quella nebbia, diradarla, usarla? Possiamo 101 mettere ciò che oggi è sprecato al centro del nostro impegno, valorizzare ciò che è scartato come fosse il bene più prezioso, farne una diagnosi e trovare una cura, tramandarne gli effetti alle generazioni future? Il nostro compito e la nostra sfida, come uomini e solo secondariamente come architetti, consiste nel tradurre in progetto il possibile che il presente ospita. Proprio nel non sapere come fare, nel non avere alcun modello prefissato da imitare, nel muoversi in un territorio sconosciuto, nell’essere persi in un waste desert da attraversare e trasformare, consiste l’imperativo etico. Perché decisione e responsabilità trovano il loro motivo autentico non se ci si confronta con una possibilità prevedibile, ma se ci si misura con un indicibile e con un incalcolabile.13 Note 1. R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola, Einaudi, Milano 1981. 2. A. Berger, Drosscapes Wasting Land in Urban America, Princeton Architectural Press 2007. 3. C. Guida, Rovine, scarti, memorie. L’uso nell’arte contemporanea, in D. Borrelli e P. Di Cori, (a cura di), Rovine future. Resti e rifiuti come depositi del possibile, Lampi di Stampa, 2010. 4. W. Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino 1986. 5. A questo proposito denso di significati è un paragrafo della Tesi di filosofia della storia di Benjamin: «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo "stato di emergenza" in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza […]. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari combattono in nome del 102 progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono "ancora" possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi». 6. Utile ricordare che la stessa definizione di Sviluppo Sostenibile mette profonde radici nel discorso di Hans Jonas sull’etica per la civiltà tecnologica. L’imperativo categorico kantiano: «agisci in modo che la tua massima diventi legge universale» si trasforma nell’età della tecnica in: «agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita sulla terra». H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1990. 7. E. Morin, Il Metodo 6. Etica, Raffaello Cortina, Milano 2005. 8. G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo, Roma 2008. Agamben deriva le sue considerazioni dagli Appunti dei corsi al College de France di Roland Barthes, il quale cita a sua volta F. W. Nietzsche, Considerazioni intempestive, Bompiani, Milano 1944. 9. L. Castiglioni, S. Mariotti, Il Vocabolario della lingua latina, Loescher, Torino 1987. 10. Dizionario delle Scienze Fisiche, Treccani, 2006. 11. F. Capra, La rete della vita, Rizzoli, Milano 1997. 12. Si rimanda al concetto di Etwas felt e alla filosofia del non-ancora in E. Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Milano 2005. 13. G. Vattimo, in G. Vattimo, M. Ferraris, Alleggerimento come responsabilità, Laterza, Bari 1993. 103 QUE LO HERMOSO SEA PODEROSO. una conversazione virtuale con ramon folch Stefania Staniscia >UNITN È vero, principe, che lei una volta ha detto che la bellezza salverà il mondo? «State a sentire, signori,» esclamò con voce stentorea, rivolgendosi a tutti, «il principe sostiene che il mondo sarà salvato dalla bellezza». F. M. Dostoevskij, L’Idiota Il rapporto tra etica ed estetica è un tema di grande interesse in questo momento. Recentemente la Libera Università di Bolzano e il Centro per la Pace hanno organizzato, mutuando il titolo da Dostoevskij, la rassegna Quale bellezza salverà il mondo? e su questo tema sono stati chiamati a confrontarsi due grandi pensatori, il sociologo Zygmunt Bauman e la filosofa Ágnes Heller. La loro risposta, alla domanda esplicita posta da titolo, è stata unanime: la bellezza, o la sua assenza, sono in grado di portare ad un progresso morale. Per la Heller, che mutua il concetto da Adorno, la bellezza consiste nella 104 promessa di felicità e se non può salvare l’uomo dalla sofferenza o dalla morte può sicuramente «salvare dalla disperazione nell’esperienza del momento, nel vivere l’istante del bello». Bauman sostiene, invece, che bisogna trovarsi «di fronte alle forme della bruttezza, dell’assenza di piacere, per innescare un’irrequietezza che porti alla reazione che possa, quella sì, portarci alla salvezza del mondo». È evidente, nelle due posizioni, l’idea che il valore della bellezza, o del suo contrario, risieda nella valenza etica della stessa e non puramente estetica o meglio nella valenza etica dell’estetica. Nel dicembre del 1990 Ramon Folch1 pubblica Que lo hermoso sea poderoso. Sobre ecología, educación y desarrollo2, un libro il cui contenuto si rivela estremamente significativo per alcune riflessioni che possono essere condotte sul binomio etico/estetico – nell’ambito più generale del tema del riciclo – e che, nell’interpretazione del libro, non costituisce una coppia oppositiva bensì una necessaria combinazione. A distanza di ventiquattro anni dalla pubblicazione le argomentazioni che danno il titolo al libro risultano ancora molto attuali, potremmo anzi dire che il testo anticipa di molto alcune questioni emergenti sulle quali oggi, anche attraverso il paradigma del riciclo, è necessario riflettere. La rilettura del testo diventa motivo di riflessione su quanto nel frattempo è accaduto, la conversazione virtuale con l’autore costituisce il tentativo di un aggiornamento della sua riflessione orientando lo sguardo al tema del riciclo e alla possibilità che questo rappresenti il punto di coincidenza tra i due imperativi. Si propongono, quindi, tre citazioni tratte dal testo reinterpretate in chiave re-cycle. 1. Nel libro si sostiene che: «[e]l conflicto ecológico existe. Es una cuestión ética, estética y funcional. Lo que se reconoce hoy en día es, precisamente, su dimensión funcional, y ante ella todo el mundo se va viendo forzado a reconsiderar sus posiciones morales». È possibile affermare che il riciclo – applicato in modo estensivo anche alla città, al paesaggio e all’architettura – come pratica diventata necessaria alla luce della crisi ambientale ed economica possa effettivamente rappresentare un dispositivo operativo che risponde ad una nuova "posizione morale". 2. Il progresso, si legge, si basa sullo sfruttamento razionale delle risorse ecologiche: «[d]e unos recursos ecológicos que van mucho mas allá de las meras materias primas, puesto que incluyen el clima, el aire, el agua, 105 el suelo, las redes tróficas, la diversidad genética e incluso la belleza: ser ricos en un mundo feo sería tristísimo.» Con questa affermazione si pone l’attenzione proprio sulla inquietante consapevole rinuncia alla bellezza in nome di un approccio etico che non ha saputo elaborare un proprio linguaggio espressivo ma solo nuove tecniche e tecnologie. Il riciclo potrebbe, invece, costituire un nuovo linguaggio che sia in grado di coniugare istanze etiche ed estetiche. 3. La contrapposizione tra il motto ecologista "piccolo è bello" e quello sviluppista "grande è potente" si risolve: «en imaginar plausibles caminos de equilibrio para la feliz sensatez del mañana [...] Si ‘the small is beautiful’ pero "the big is powerful", procuremos que, en una desarrollada sociedad postindustrial, "the beautiful" resulte "powerful": que lo hermoso sea poderoso. Y posible.» Questo enunciato suggerisce l’idea di una profonda interdipendenza tra etica ed estetica. Un ecosistema è un’unità funzionale in equilibrio dinamico che deve le proprie qualità, incluso quelle estetiche, al mantenimento della sua funzionalità. L’estetica deriva, quindi, dalla "razionalità" del sistema e dalla sua efficienza, si potrebbe dire dalla sua eticità. Il riciclo, in quanto dispositivo progettuale che rimette in circolo risorse esauste, arrivate alla fine del proprio ciclo di vita dando loro nuovo senso e in quanto prodotto culturale, può possedere uno specifico valore estetico che deriva dalle sue potenzialità performative ambientali e sociali. Infine, Folch sostiene che «il riciclo anatomico è nulla se non parte dal riciclo fisiologico (riciclare la forma dopo la funzione).» Se, comunque, il riciclo anatomico e fisiologico sono sufficienti a garantire eticità e valore estetico a un ecosistema è possibile dire lo stesso per l’architettura, la città e il paesaggio? 106 Note 1. Ramon Folch (1946) è dottore di ricerca in biologia e socioecologo. È membro del Club di Roma. È stato presidente del Consell Social de la Universitat Politècnica de Catalunya, segretario generale del Consejo Asesor Internacional del Foro Latinoamericano de Ciencias Ambientals, professore della Cattedra UNESCO/FLACAM per lo Sviluppo Sostenibile. Campo di attività e di ricerca sono la gestione del territorio, la pianificazione urbana ed energetica attraverso un approccio sostenibile, approccio che ha contribuito a definire e sviluppare sia nella teoria che nella prassi. Ricopre un importante ruolo divulgativo, è editorialista e autore di programmi radiotelevisivi oltre che di numerose pubblicazioni. 2. R. Folch, Que lo hermoso sea poderoso, Editorial Alta Fulla, Barcellona 1990. 107 IL PROGETTO DI RICICLO POTRà INCIDERE SUL NOSTRO SPAZIO DI VITA SE SAPRà COSTRUIRE I TERMINI SEMPLICI DI UN NUOVO CODICE URBANO E PAESISTICO 1 Federico Zanfi >POLIMI Come premessa all’esposizione della tesi vera e propria, vorremmo proporre un’interpretazione dei due aggettivi che danno il nome alla sessione non come termini alternativi o opposti, ma come termini tra cui esiste una sorta di nesso consequenziale. In quanto al primo termine, si può dire che oggi dal punto di vista di un urbanista sia quasi naturale assegnare all’azione di riciclo un significato etico. In primo luogo perché in territori con tassi di urbanizzazione del suolo molto elevati, come quelli con cui sempre più spesso ci confrontiamo, un progetto di riciclo dell’urbanizzato risponde al bisogno di salvaguardare il suolo libero – che è un caso particolare della più generale questione della finitezza delle risorse naturali posta già dagli anni Settanta dal Club di Roma – e quindi si fa in un certo senso carico dei diritti delle generazioni future di disporre di tale bene comune.2 In secondo luogo perché in una condizione di risorse scarse, come quella attraversata dal nostro paese 108 1. – che a detta di molti non è da intendere come una congiuntura transitoria quanto piuttosto come una nuova condizione strutturale – un progetto di riciclo alla scala edilizia risponde al bisogno tanto delle amministrazioni pubbliche quanto dei proprietari privati di non disperdere il valore – economico, energetico, ma anche culturale – incorporato nel proprio patrimonio costruito. Che si tratti di infrastrutture scolastiche, di edilizia residenziale pubblica, o di alloggi risalenti al boom edilizio postbellico, la questione centrale è valorizzare ciò che già si ha, minimizzando lo spreco.3 La posizione che qui sosteniamo è che a un risvolto etico che si esprime lungo le due prospettive richiamate – una prima che in termini generali interessa il suolo, e una seconda che interessa i manufatti depositatisi al suolo – non potrà non corrispondere un impatto sulla forma delle città e 109 dei paesaggi. E che tale impatto estetico non si misurerà attraverso la realizzazione di poche – o molte che saranno – opere d’autore, ma riuscirà a essere significativo se – e solo se – saremo in grado di costruire i termini semplici di un codice urbano e paesistico coerente col progetto di riciclo. Un codice che sia in grado di farsi linguaggio diffuso delle trasformazioni. Consideriamo un aspetto della storia recente del nostro paese. Non possiamo più credere che la realizzazione – o la messa in evidenza attraverso i media, che siano di settore o generalisti – di qualche progetto d’autore ben fatto sia sufficiente per dar seguito a un fare imitativo diffuso. Valgano da esempio gli ultimi vent’anni di esposizione di buoni progetti internazionali di infrastruttura e di paesaggio sulle riviste italiane. Un’esposizione intensa – un "diluvio", su cui ha insistito bene Angelo Sampieri4 – a conti 110 2. fatti inefficace, che ci segnala che per fare sì che buoni progetti di infrastruttura e di paesaggio si diffondano nel nostro paese è necessario intervenire anche ad un altro livello, sulle regole che non prevedono tali operazioni, e sui processi che le impediscono.5 Il punto è allora, a nostro avviso, capire come rendere ordinarie alcune semplici pratiche del riciclo nelle trasformazioni delle città e dei territori italiani. E, come conseguenza, capire quali siano i meccanismi fiscali che le possono rendere possibili, quali procedure amministrative queste richiedano, come debba cambiare il linguaggio dei Regolamenti urbanistici ed edilizi – che saranno indubbiamente il fonte principale della trasformazione urbana dei prossimi decenni – e come tutto ciò comporti momenti di riflessione e di lavoro congiunto con differenti saperi (in primis un sapere di tipo giuridico ed economico). Per chiarire questa posizione vi proponiamo tre esempi di queste operazioni, tra i molti che sarebbero possibili, richiamando tre progetti a cui vi chiederei di guardare come tre occasioni di sperimentazione dei termini 111 comuni di un possibile nuovo linguaggio, piuttosto che come soluzioni autoriali specifiche. Qual è il codice spaziale condiviso che potrebbe nascere dal sistematico riuso in situ di una quota degli inerti demoliti nel caso di ricostruzione edilizia, per limitare la produzione di rifiuti da discarica? (immagine 1) Quale forma urbana potrebbe invece derivare dalla modifica generalizzata dei balconi e delle logge dei condomini costruiti nel boom edilizio del secondo dopoguerra, per massimizzarne la difesa dal surriscaldamento estivo e la raccolta invernale dell’energia solare? (immagine 2) Quale paesaggio potrebbe risultare dalla diffusione di una rete di mobilità dolce, che si costruisce col riuso e la riforma di strade bianche, di alzaie, di ferrovie dismesse, e soltanto eccezionalmente attraverso la costruzione di nuove piste ciclabili? (immagine 3) Perché si costruisca questo linguaggio, e perché questo sappia farsi codice condiviso e diffuso, dobbiamo sviluppare all’interno della nostra ricerca due linee di lavoro, da tenere molto vicine. In primo luogo occorre sviluppare una linea che potremmo chiamare "di 3. 112 visione". Dobbiamo produrre dei disegni re-immaginativi di grandi porzioni di città e di territori urbanizzati esplorando la loro possibilità di trasformarsi nel medio e lungo termine attraverso azioni molecolari e diffuse di riciclo – i "termini" semplici del codice. Questi disegni dovranno consentire di verificare la coerenza delle operazioni minute alla scala della singola architettura o infrastruttura – il recupero di un edificio rurale, la reinvenzione di un piazzale a parcheggio, un intervento di demolizione e ricostruzione edilizia –, ma soprattutto di tenere sotto controllo l’esito a una scala vasta della moltiplicazione e della diffusione di queste operazioni.6 In secondo luogo occorre sviluppare una linea che potremmo chiamare "d’azione". Dobbiamo intrecciare la produzione di questi disegni con un lavoro di terreno, un confronto con le situazioni insediative, le coalizioni di interessi, le routine professionali e amministrative, per capire quali sono le "prese" reali possibili su cui avviare le prime "mosse". Quali sono i suoli e gli oggetti edilizi su cui è possibile condurre le prime operazioni. Rimanendo consapevoli che dal disegno re-immaginativo non nascono – di norma – interventi puntuali secondo una logica piramidale (che è invece propria del progetto di architettura), ma può attivarsi un dialogo – anche aspro – con le eventuali altre azioni in corso, al fine di operare una loro ridefinizione – la revisione di un tracciato stradale, lo stralcio di una previsione di espansione su un suolo agricolo, il vincolo al riuso di un edificio esistente.7 È solo dall’interazione tra queste due linee – dal confronto ricorsivo tra una visione di lungo periodo che faccia proprie le due questioni etiche richiamate in apertura, e un’azione puntuale che individui lo stretto punto di passaggio imposto dalle condizioni economiche, giuridiche e amministrative – che a nostro avviso potranno maturare i termini semplici di un nuovo codice urbano e paesistico coerente con l’idea del recycle. Un progetto diffuso, che sappia stare nei processi, che sappia stare nel mercato, e che non abbia necessariamente bisogno di "autori" per realizzarsi. 113 Note 1. Le note seguenti sviluppano alcuni aspetti di una più ampia riflessione collettiva sul progetto di riciclo dell’urbanizzato in Italia svolta con A. Lanzani, C. Merlini e C. Mattioli. Si rimanda al contributo di A. Lanzani e agli altri due "manifesti" contenuti nel presente volume e in quello successivo. 2. Una riflessione più recente che aggiorna queste posizioni è in P. Pileri e E. Granata, Amor loci. Suolo, ambiente, cultura civile, Cortina, Milano 2012. iniziare a realizzarsi approfittando di alcune occasioni oggi già disponibili. In questo senso si vedano le considerazione sul progetto paesaggistico di Giuseppe Dematteis in Contraddizioni dell’agire paesaggistico, in G. Ambrosini et al., Disegnare i paesaggi costruiti, Franco Angeli, Milano, 2003, e Una geografia mentale come il paesaggio, in A. De Rossi et al., Linee nel paesaggio, Utet, Torino 1999. Immagini 3. M. Petzet e F. Heilmeyer (ed.), Reduce/ Reuse/Recycle, Hatje Cantz, Ostfildern 2012. 1. Observatorium, barriera antirumore tra il quartiere residenziale di Nieuw-Terbregge e l’autostrada A 20, Rotterdam 2001 (© Observatorium) 4. A. Sampieri, Nel paesaggio. Il progetto per la città negli ultimi vent’anni, Donzelli, Roma 2008. 2. F. Zanfi, Trasformazione della torre residenziale Bois le Prêtre, Druot, Lacaton & Vassal, Parigi 2011 5. Come ha sostenuto Carlo Magnagni nei saggi Per una ricerca di progettazione e La costruzione dell’infrastruttura: tra progetto e processo (con M. Morsut e T. Pelzel) in B. Secchi (a cura di), On Mobility, Marsilio, Venezia 2010. 3. A. Giacomel, Gruppo di lavoro Dastu/ Politecnico di Milano, VenTo, progetto per una ciclovia da Torino a Venezia, argine del Po' nei pressi di Guastalla 2011-2014 6. Come abbiamo tentato di fare in una recente esperienza di ricerca e di progettazione nel territorio pedemontano lombardo, in cui abbiamo affiancato una visione di riforma radicale di questo territorio nel lungo termine, con una dimensione di azione più pragmatica e legata alla diffusione di operazioni minute. Si veda A. Lanzani et al., Quando l’autostrada non basta. Infrastrutture, paesaggio e urbanistica nel territorio pedemontano lombardo, Quodlibet, Macerata 2013. 7. "Prese" e "mosse" sono i termini che utilizziamo per descrivere come i progetti di riforma a lungo termine proposti per il territorio pedemontano lombardo possono 114 IL PROCESSO COME ESTETICA DEL RiCICLO 115 Guya Bertelli, Juan Carlos Dall'Asta, Paola Bracchi, Giuliana Bonifati >POLIMI 116 Nell’accezione socialmente diffusa – se riferita a comportamenti individuali o collettivi – il riciclo è una pratica a cui viene conferito un valore etico. Se riferita al progetto la coppia etico/estetico mette in atto una relazione che lavora più sul registro della co-fusione piuttosto che della opposizione. Le pratiche artistiche, dagli anni Sessanta del '900 in poi, hanno sperimentato questa congiunzione facendo dell’atto artistico la testimonianza di una presa di posizione nei confronti della realtà e giungendo a forme di partecipata azione del pubblico. Il prodotto estetico non è rintracciabile nel risultato finale ma impregna l’intero processo di realizzazione dell’opera, arrivando ad essere collettiva. Il progetto del riciclo inteso quale ricerca di nuovi cicli di vita per spazi e paesaggi, modifica le condizioni, gli equilibri di una certa situazione, si pone all’incrocio tra un sapere – la cultura del progetto – e le relazioni materiali e sociali che lo caratterizzano. La sfera estetica si rivela solo se spostiamo l’attenzione dall’oggetto finito al processo e al meccanismo di IL PAESAGGIO IMPERFETTO Sanjeev Shankar, Jugaad, New Delhi, 2008* *Jugaad è un termine hindi che identifica la pratica indiana di realizzare oggetti utilizzando materiali di scarto. In questo caso è stata la base per realizzare una copertura di 70 metri quadri utilizzando 692 latte di olio e 945 coperchi recuperati tra i rifiuti. Con corde di cocco sono stati legati tra di loro e sospesi con cavi di acciaio fissati al terreno. Un’occasione per esplorare le idee di sostenibilità. Immagini tratte da http://www. sanjeevshankar.com/jugaad.html socialità che ne scaturisce, includendo in questa nuova dimensione alcune delle prerogative che tradizionalmente riguardano l’etica. Il progetto del riciclo invoca un coinvolgimento attivo, perché la trasformazione lavora sull’inadempiuto e sull’imperfetto, chiama in causa il soggetto, le comunità. Per riattivare luoghi, spazi, territori abbiamo bisogno di incidere la realtà con una immagine sensibile, abbiamo bisogno di costruire uno sguardo che tenga insieme utile e bello, abbiamo bisogno di bellezza. Cosa si può fare con il paesaggio? Il valore del progetto di paesaggio non è in sé ma risiede in ciò che è capace di attivare. Si può riconoscere un senso di necessità del progetto di paesaggio, perché è in gioco l’efficacia (forse espressione di una unità superiore tra etico ed estetico?). Come può il progetto di paesaggio contribuire alla qualità delle esperienze degli individui e delle comunità? È uno degli interrogativi che la dialettica etico/ estetico stimola ma anche che anima il nostro lavoro in questo tempo. Gianni Celestini >UNIRC 117 118 1. [doppio senso di circolazione] – soprelevata – GE Monumento della città Moderna. Spietata sezione del paesaggio urbano. Oggi, occasione di esperienza della città delle stratificazioni: storiche, geografiche, architettoniche. Metarchitettura per la ricerca dei significati della città. 2. [oltre il margine] – aree zama-pestagalli-bonfadini – MI La materia del progetto è la necessità: la crisi è la sua risorsa. Emergenza da fenomeno distruttivo a esito costruttivo: è il ruolo del pensiero architettonico. Il progetto nasce nel «mucchio di rifiuti gettati a caso»: ogni progetto è riciclo. 3. [simbolo abitabile] – velodromo vigorelli – MI Architettura della cittadinanza: riconnessione tra carattere dello spazio e carattere dell’individuo, tra forma dei luoghi e progetto degli abitanti. La crisi dello spazio pubblico non sta nel pubblico ma nello spazio! Uso pubblico significa: coscienza del passato – immaginazione del futuro – sperimentazione del presente. Immagine Collage: elaborazione grafica Alisia Tognon, Mauro Marinelli. Il collage è il risultato della composizione delle seguenti immagini: – Andrea Di Franco, Sopraelevata di Genova, 2013. – La prassi manutentiva storica, realizzata sotto la direzione del direttore del velodromo Argeo Carapezzi nel gennaio del 1939, fonte: Archivio Farabola, Crema. – Barbara Coppetti, Area Zama Pestagalli Bonfadini, 2012 IL PROGETTO DELL'EMERGENZA ETICA = ESTETICA CONDIVISA: "LA BELLEZZA SALVERà IL MONDO" 119 Bibliografia M. Augé, Il bello della bicicletta, Bollati Boringhieri, Torino 2009; M. Boriani, Sviluppo urbano, cultura architettonica e trasformazioni del costruito, 1861-1918, in M. Boriani, C. Morandi, A. Rossari, Milano Contemporanea, Designer Riuniti, Roma 1986; F. Dostoevskij, L’idiota, 1896, Feltrinelli, Roma 2002; N. Emery, L’architettura difficile. Filosofia del costruire, Marinotti, Milano 2008; N. Emery, Distruzione e progetto. L’architettura promessa, Marinotti, Milano 2011; F. Farinelli, Estetizzazione e anestetizzazione, in C. Andriani, a cura di, Il Patrimonio e l’abitare, Donzelli, Roma 2010; M. Fossati, Il Vigorelli, lo Stradivari della Pista, in G. Vergani, a cura di, L’uomo a due ruote, Electa, Milano 1987; B. Gabrielli 2000, Difficoltà politiche e difficoltà tecniche. I tempi della riqualificazione urbana dei tempi dell’amministrazione, in «Archivio di Studi Urbani e Regionali», n. 70; U. Galimberti, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Roma 2009; F. Gastaldi 2000, Genova: verso il completamento del waterfront redevelopment, in «Urbanistica Informazioni», n. 174; M. Grandi, A. Pracchi, Milano, Guida all’architettura Moderna, Zanichelli, Bologna 1980; I. Illich, Energie, Vitesse et justice sociale, trad. it. Elogio della bicicletta, Bollati Boringhieri, Torino 2006; E. Turri, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Marsilio, Venezia 1998; P. Zumthor, Pensare architettura, Mondadori Electa, Milano 2003. Barbara Coppetti, Andrea Di Franco, Mauro Marinelli, Alisia Tognon >POLIMI 120 Disegni di Carlo Deregibus, 2014 RE-CYCLE [È] può essere etico/estetico. DERIVE E POTENZIALITà di un paradigma ancora da scrivere 121 Che il Re-Cycle sia cosa buona e giusta, parrebbe scontato. Eppure, andando al di là del politically correct, emerge una debolezza latente, una deriva concettuale che si nutre dell’illusione di un’etica dei principi tanto consolatoria quanto inattuale. Evitare che il concetto stesso di Re-Cycle perda la sua – potenzialmente dirompente – forza concettuale significa farsi carico, sempre e di nuovo, della responsabilità di verificare la sua consistenza, la sua forza, la sua fallacia. Carlo Deregibus >POLITO 122 re-cycle. visione e pensiero 123 Giovanni Hänninen >POLIMI 124 Venera Leto, Collage Il paesaggio dei rifiuti dello stretto, 2014 DISCARICA PAESAGGIo 125 "Bello è brutto e brutto è bello" Il titolo Discarica Paesaggio allude provocatoriamente allo svuotamento semantico della parola. Il paesaggio è come un enorme contenitore in cui, di volta in volta, gettiamo significati nuovi. Si tenta costantemente di darne una definizione; il paesaggio diviene un serbatoio caotico di simboli, un colorato e variopinto magma culturale cui solo il progetto può dare forma. La discarica è un luogo che ciascun cittadino quotidianamente contribuisce a creare: diviene un esempio rappresentativo, per rendere evidente l’importanza della relazione tra individuo e paesaggio. Così come, attraverso l’azione di ognuno, si possono creare enormi paesaggi insalubri come le discariche parimenti, grazie al supporto di ciascuno, si possono creare paesaggi di qualità. Il rifiuto può considerarsi materia o spazio rifiutato e l’Architettura del paesaggio è il trait d’union tra i due ambiti poiché consente di utilizzare il rifiuto come materia e riqualificare uno spazio rifiutato. L’intervento progettuale consente indubbiamente una mediazione estetica che non deve avvenire per forza dal Brutto al Bello ma che consente di superare questo dualismo, di vivere il rifiuto e conferire nuovi significanti a questi luoghi. Un luogo che tutti rifiutano può essere trasformato, attraverso il progetto, e assumere anche una valenza estetica ed etica divenendo un espediente educativo per modificare l’atteggiamento percettivo e comportamentale verso il ciclo dei rifiuti e verso i luoghi rifiutati stessi. Venera Leto >UNIRC 126 COSA SONO: la strategia per la rete del verde locale fornisce indirizzi all’amministrazione locale per l’organizzazione, l’uso e la progettazione degli spazi liberi disponibili nella città in un sistema coerente orientandone l’utilizzazione ai fini ambientali, ricreativi di servizio e di mobilità lenta e ponendoli come componente determinante dello spazio pubblico. La strategia fornisce anche le direttive per la formazione e revisione del piano urbanistico e dei progetti urbani. La strategia nell’organizzazione del progetto del verde locale ne assicura la continuità spaziale con il verde urbano metropolitano. Essa in particolare indirizza e dà comune finalizzazione agli interventi necessari per la realizzazione della rete verde locale, stabilendo le priorità di investimento attraverso un piano di azione secondo le esigenze della comunità. Il processo di costruzione della strategia coinvolge attivamente, sia per la preparazione che per l’attuazione, soggetti interessati della comunità locale e diviene occasione di collaborazione e coordinamento dei dipartimenti delle amministrazioni che si occupano settorialmente di urbanistica, di ambiente, di trasporti e di residenza. Nella strategia sono affrontate in modo integrato molteplici e diverse questioni relative ai rapporti con la città nella sua unità e questioni legate alla domanda ed al benessere dei residenti relativa al miglioramento della qualità insediativa dei quartieri. In particolare essa persegue la continuità RECYCLE (UPCYCLE) URBANO È... E PERCHÉ. STRATEGIA PER LA RETE DEL VERDE LOCALE A FAVORE DI UN RITORNO DELL’ETICA DISCIPLINARE NEL PROGETTO DELLA CITTÀ 127 degli spazi pubblici ed il disegno degli spazi verdi di uso pubblico e del verde di prossimità alla residenza, la scelta delle destinazioni d’uso compatibili, i servizi per la comunità, le attrezzature per il gioco, per lo sport e ricreative, la sicurezza e l’accessibilità pedonale. Per motivare le scelte, la parte analitica e valutativa dei problemi in atto è fortemente intrecciata con la parte propositiva. La strategia nasce da un’attenta analisi della domanda dei residenti per temi e propone soluzioni progettuali e politiche quanto più possibile rispondenti a questa domanda tenendo conto dei caratteri socioeconomici ed insediativi del contesto locale. L’autonomia decisionale assicurata alle amministrazioni locali dà luogo a strategie differenziate con attenzioni tematiche e soluzioni di grande interesse. Il coinvolgimento delle comunità locali per creare una visione condivisa rimuove i possibili ostacoli alla fase attuativa e il carattere complessivo e multi tematico della strategia determina un valore economico aggiunto alle operazioni attuative e consente di attrarre maggiormente risorse private e fondi pubblici per gli interventi. PERCHÉ LA STRATEGIA COSÌ INTESA PROMUOVE UN RITORNO DELL’ETICA: - permette di definire scelte progettuali deontologicamente giuste e lecite rispetto a comportamenti disciplinari ritenuti non appropriati; - mette in crisi, costringe al cambiamento del pensare e del fare l’urbanistica impone una ricerca di criteri più razionali, condivisi, argomentati e valutabili; - costituisce una cornice di riferimento, dei confini, entro i quali la libertà progettuale si deve esercitare per ricercare le sue alternative possibili; - impone un ritorno al senso più profondo dell’agire progettuale capace di tenere insieme, finalizzare e rendere operative le diverse componenti del progetto. Lucia Nucci >UNICAM [UNIROMA3] 128 Coperta lavorata ai ferri, utilizzando lana recuperata da golf di cachemire acquistati ai mercatini dell’usato. La bordura è fatta smontando gonne tirolesi di medesima origine. Realizzata da Laboratorio artigiano romano L’opera costretta da vincoli se ne libera attraverso il gesto creativo che produce bellezza. Z. Carloni LA BELLEZZA DEL GIUSTO 129 La preminenza di un gusto definisce una monocrazia, imponendo un'unica percezione estetica e strutturando una sorta di "manierismo" di fatto. Ma la maniera, che si basa su di un giudizio uniformato, non possiede le caratteristiche per definire il bello; può comprenderlo ma non esaurirlo, in quanto il bello, per sua natura, si sottrae all’uniformità. Il bello quindi non può essere affidato ad una maniera né come giudizio né come prodotto. I materiali, le tecniche, il metodo progettuale uniformati producono edifici di maniera. Per ottenere edifici belli è necessario modificare i criteri che ne guidano l’attuale produzione. Il recupero, il riuso, il riciclo di oggetti e materiali riduce gli sprechi e i consumi di energia e di risorse, costringe ad una maggiore attenzione nei confronti dei manufatti. È un atto lento, riflessivo, etico. Il giudizio estetico è dinamico, cambia nel tempo, tende a modificarsi in quanto giudizio profondamente culturale, e dunque soggetto agli slittamenti della percezione del gusto. La variabile etica stabilizza il giudizio estetico e gli impedisce di divenire anch’esso oggetto di inesplicabile consumo. Un oggetto prodotto da un materiale scartato è più bello in quanto in esso vi è una maggiore qualità degli elementi che determinano l’atto creativo e una più elevata espressione della capacità tecnica. È un atto che si misura con il limite, condizione questa inalienabile dell’attività creativa. In tale maniera il processo creativo e progettuale non è più volto alla realizzazione di un idea autoreferenziata. I manufatti potranno esser più approssimativi, meno perfetti, più disordinati, meno precisi ma fuori dall’uniformità e dalla maniera si potrà ottenere una nuova bellezza, quella del giusto. Adriano Paolella >UNIRC 130 Luca Zecchin, Interno a strati n.10, 2013 Nel tempo tutto è destinato a ri-ciclarsi [trasformarsi], le cose di Natura, gli artefatti, le idee, il sentire cambia come gli appetiti del momento. L’etica e l’estetica. Abitiamo un interno stratificato, fabbricato saturo di marche [nell’antichità spazio tra territori] dove emerge con forza tutto ciò che si è fatto sfondo, scartato o contrastato, anche in architettura: il MARGIN[AL]E, spazio della trasformazione e strumento di progetto a disposizione dell’architetto. Il brutto e il guasto, l’impuro e il parziale, il cattivo e l’impresentabile, il tempo e la morte, la riapertura dell’opera e il non finito come possibilità di un altro compimento, persino la vita [intesa come abitare dell’uomo] che trasforma l’architettura oltre l’architetto, non sono disvalori a priori ma resistenza progettuale, potenziale virtù estetica [che è] etica di modi di essere o diventare altrimenti, di nuovi compimenti. riciclo [COMPIMENTO] ESTETICO [EST]ETICO DEL MARGIN[AL]E 131 Riciclare significa avviare un nuovo ciclo di vita da una condizione esistente, significa trasformare. In architettura riciclare implica l’accettazione che un materiale, un manufatto, un pezzo di città o di territorio, abbia raggiunto la fine di un ciclo e ne debba/possa iniziare un altro, implica cioè una scelta: progetto. Si vuole intendere, infatti, un nuovo ciclo entro l’architettura – far continuare a essere qualcosa, o trasformare qualcosa in, architettura – cioè la possibilità di riaprire un’opera per portarla a un nuovo compimento o di portare a un compimento architettonico ciò che non lo è mai [ancora] stato. In entrambi i casi é il MARGIN[AL]E lo spazio e strumento di progetto, essendo fisicamente e concettualmente quello più prossimo alla trasformazione e disponibile a integrarsi ai problemi progettuali. La seconda natura che abitiamo è un interno, privo di esterno se non in ormai sempre più ristretti ritagli di Natura. Possiamo rivoltarci solo dentro (Derrida) tutto ciò che finora è rimasto, spesso accettato, come sfondo. Oggi che la crisi impone l’aggiornamento delle questioni etiche non solo nelle sue declinazioni ecologiche [il sentire uomo-ambiente] ma in quelle economiche, sociali, culturali, ecc., anche la ragione estetica diventa una questione etica. Perché se è vero che tutto si ricicla e si è riciclato nel tempo, compresi la mutevolezza del sentire architettonico etico ed estetico, è altrettanto riconosciuta la necessità di dover lavorare [progettare] da una selezione senza discrimine di ciò di cui spesso l’architettura non si è occupata, la ruina del margine [non la grande rovina ma la perdita nel senso latino del termine] piuttosto che il centro. Pensare il poetico nell’impoetico (Heiddegher) richiede cura: del progetto [che fa spazio e facendo spazio rende possibile la vita, l’abitare, il sentire]; della costruzione [arte che con-tiene]; della composizione [assemblaggio nel tempo, mescolanza e combinazione di diversi, parti esistenti e nuove]. Il tempo addensato in spazio può essere inventato trasformando il margine, muovendo da una spazializzazione dello spazio o dal solo risultato di una tecnica, a una spazializzazione del tempo e della vita. I modi di questa architettura operativa – metafisicamente più vicina alla natura finita dell’uomo, alla sua ruina imperfetta, meno astratta, non assoluta – sono il vero corpus teorico da indagare per via empirica e induttiva a partire dalle configurazioni date, spesso non conosciute, del MARGIN[AL]E. Luca Zecchin >UNITN 132 ECONO / ECOL OMICO LOGICO 133 134 135 Total Recycle Design/ Total Recycle Process Consuelo Nava >UNIRC 0_ Le tre traiettorie corollari della tesi Nell’affrontare i termini dell’op_posizione ecologico/economico per tale contributo teorico alla ricerca Recycle Italy, si propone di individuare due parole "cifra" capaci di fare da calibro, misurando e pesando simultaneamente vicinanze e lontananze nelle questioni che i termini stessi aprono nelle definite "traiettorie" in grado di trasferire gli assunti per una nuova prassiologia del progetto urbano ed architettonico. Si tratta delle parole "valore" e "tempo", della loro qualità paradigmatica di includersi nei significati e nelle derive, quindi di riferirsi a questioni di progetto e di processo, con interesse più diretto in ambito di riciclo urbano ed architettonico, ma anche con riferimento ai componenti ed alle unità funzionali di un dato sistema contestualizzato. Si tratta di assumere posizioni specifiche per il contesto culturale di riferimento che si colloca tra il total recycle design ed il total recycle process. 136 Nel senso etimologico della parola, il termine "valore" «si riferisce alla misura "non comune" di una dote o di una capacità, di un’abilità […]. Il suo sinonimo economico, si riferisce al termine prezzo, quotazione o pregio […], ma anche alla sua locuzione come"valore aggiunto", quale incremento dovuto alla trasformazione […]».1 Il "valore ecologico" è l’insieme delle caratteristiche che determina il pregio naturale di un determinato biotopo, esso determina la priorità di conservazione del biotopo stesso. Si considerano di alto valore quei biotopi che contengono al loro interno specie […] di notevole interesse o che sono ritenute particolarmente rare; il v. ecologico si calcola a partire da un set di indicatori che considerano: aspetti istituzionali […], biodiversità […], aspetti strutturali […]2. La parola "tempo", è invece etimologicamente connessa al significato di "durata" di certe azioni, situazioni o fatti ed anche al loro periodo; il termine, in economia come in ecologia si ritrova sulla condizione assai riferita agli oggetti osservati ed anche sulla sua definizione come "ciclo". Si parla di "ciclo ecologico" riferendosi a processi di sviluppo e riproduzione di un qualsiasi sistema o fenomeno, si parla di "ciclo economico" per indicare una fase in cui non si hanno comportamenti di un fenomeno in maniera "uniforme" ma in maniera "fluttuante".3 Nella rilettura dei termini nelle loro accezioni ne emerge immediatamente una specifica interpretazione, connessa a fatti di processo (tempo) e di qualità del progetto nel processo che si innesca (valore). Detta capacità con il riferirsi ai temi connessi al recycle, rinviano però ad una ri-significazione quasi inversa, rispetto alla trasformazione ed alla conservazione delle qualità dell’oggetto in questione; ciò avviene, reinvestendo nel suo scarto o rifiuto, sia come capacità di sfidare il valore di origine e nella trasfigurazione di una "nuova vita" nel fermarne quindi il consumo definitivo e totale (arrestando il tempo… ), che come condizione che lavora sulla trasformazione (non conservazione… ) per ritrovare un nuovo valore, quindi un nuovo ciclo di vita (un nuovo tempo... ). Recycle stesso diviene quindi la vera ed originale "op_posizione" al termine valore e tempo, per come lo abbiamo sopra definito in economia ed in ecologia; esso impone una strategia che lavori al "contorno" in termini teorici sui due aspetti, rinviando alla necessità di una nuova metodologia per la risoluzione delle sue opposizioni. Accade di fatto quello che Sara Marini descrive a proposito dell’applicazione della "modalità parassitaria" con «[…] Le condizioni al contorno, riassunte nei termini "luogo" e "tempo", si fanno motori del- 137 la riscoperta di questa modalità costruttiva, ma anche come commento critico e conflittuale con le modalità di controllo e progetto vigenti […] .»4 Quindi, anche in tale contesto di riflessione teorica sui termini op_position ecologico/economico si propone di lavorare "al contorno" seguendo tre traiettorie, in grado di riposizionare le strategie in termini di progetto e processo, intercettando le questioni più riferibili al riciclo, riportando le loro condizioni paradigmatiche in ri-scritture di brani selezionati capaci di suggerire l’attesa prassiologia, perché già esplorata. Traiettoria 1_ L’ambizione del territorio La sfida tra requisiti ecologici e requisiti economici (variabili) nella capacità di rispondere alle istanze di riciclo, riescono a realizzare una nuova configurazione e produttività del territorio, se il termine "valore" si rinomina come "valore d’uso". Tale condizione deve essere la più efficace per innescare relazioni e scambi tra la qualità e la quantità dei flussi di materia, di energia e di attività in gioco. L’ambizione del territorio diviene quella di trasformare i contesti di riferimento (urbano, architettonico, sociale, economico) con una nuova organizzazione dello spazio, capace di resistere a tale trasformazione con una sua capacità pro-attiva e proiettiva, una resilienza che si autorganizza al mutare dell’uso di tali contesti. La riscrittura di seguito proposta, mette in evidenza una nuova qualità del progetto che diviene vincente per chi investe nella trasformazione e per chi accoglie la trasformazione, perché risolta nella dimensione dell’utilità collettiva, dello scambio e di un nuovo metabolismo rigenerativo; ciò che con la pratica del riciclo, definisce la configurazione di nuovi spazi ed il riattivarsi di nuove e residuali risorse in altre risorse. Metabolism as planning principle «The ambitions of the territory are realised to the full when the system of agricolture, habitation, industry, nature, recreation, etc. that lie alongside and superimposed on one another start to cooperate an interact. Rather than simply creating a place for burgeoning collectivity, territorial collectivity in this istance organises itself around the sharing of services and amenities. This collective organisation thus shares the territory and organises its Evolution and transformation towards a more sustainable state. […] Residual heat can be used for the surrounding housing so that 138 the two are more closely connected to each other. The exchange of interests means that mutual win-win situations – or productive relationships – determine the organisation of space.»5 Traiettoria 2_ Dalla green economy/city alla blue economy/ecosystem Il passaggio dal modello urbano "green" (D. Owen, Green Metropolis, Egea ed., Milano, 2009) a quello imprenditoriale "blue"6 di fatto spinge la città stessa a divenire un nuovo scambiatore di energia e materiali, metabolizzatore di risorse, non solo al fine di una propria sussistenza, ma anche di una vita di altri cicli di risorse, attività, economie, in sintesi un nuovo generatore di capitale economico e sociale. In tale senso è interessante comprendere quanto nei processi di riciclo, il ciclo di vita delle componenti urbane (LCA) sia capace di innescare nuovi modelli di cicli di costi (LCC), capaci di caratterizzare la differenza (come e perché) tra il noto ecological design ed un innovato sustainable urban design. Quanto la variabile "tempo", in tali scenari, caratterizzi un differente concetto di "risparmio" tra recycle ecologico e recycle economico. Dal metabolismo urbano per esempio possono essere espulsi residui delle attività umane capaci di innescare processi di metabolismo agricolo o di progettualità alla scala dell’industrial design o risorse per reti energetiche diffuse. Ciò giustifica la necessità di concepire anche il rapporto tra costi/benefici nei processi di riciclo, non in maniera convenzionale, non con riferimenti standard da assumere per verificare guadagni e perdite. Mentre tra i processi di energy pay back (rientro economico dell’investimento) ed energy ecological impact (recupero ecologico dell’energia grigia) in progetti tecnologici di uso delle fonti rinnovabili, la variabile tempo e costi di fatto si riferisce a processi lineari, in progetti di riciclo misurare la tracciabilità di un progetto e delle sue risorse (filiere) mette in campo, tra ecologia ed economia (e magari anche sull’impatto sociale) cicli di tempo e modelli d’uso, in entrata ed in uscita, in un processo assai meno lineare e più connesso a variabili del tutto disomogenee (distance to place, material quantity, factor CO2, factor man-hours, factor industrial-hours, factor labour costs, factor material costs…). La riscrittura di seguito proposta, mette in evidenza una condizione di atemporalità tipica dei processi di riciclo, ancora di più di quelli che utilizzano lo scarto. Il principio fondativo di una vera e propria "cultura" dei rifiuti che dovrebbe considerare una vera e proprio cultura del riciclo, in 139 cui cambiano anche i termini di riferimento nel rapporto tra progetto e processo e dove per esempio il trasferimento di risorse e progetti può avvenire da contesti di settore completamente estranei nella loro definizione e con tempi e cicli differenti. Cultura dei rifiuti «[…] nella storia assai complessa della produzione e dello smaltimento dei rifiuti umani, hanno svolto un ruolo determinante la visione dell’"eternità" e la sua attuale caduta in disgrazia. Soltanto l’infinito è pienamente e autenticamente onnicomprensivo. Infinito ed esclusione sono incompatibili, e così anche infinito ed esenzione. Nell’infinità del tempo e dello spazio tutto può succedere, e tutto deve succedere. Tutto ciò che è stato, è e forse sarà ha il suo posto. La sola a non avere spazio nell’infinito è l’idea del "non spazio". L’idea cui l’infinito non può far spazio è quella dell’esubero, dello scarto. […] Nell’infinito tutto è riciclato senza fine […] oppure eternamente esistente […].»7 Traiettoria 3_ Le trasfigurazioni in esperienze di Re_Learning EcoCity Il passaggio dal modello della "città per progetti" alla "città-laboratorio", alla "città in transizione", proietta il potere della conoscenza e le sue forme di disvelamento verso una città futura capace di avere una nuova dimensione comunicativa8, ma anche una nuova economia basata sulla conoscenza. Attraverso l’agire sociale ed il controllo ecologico delle trasformazioni, si intercettano le "comunità concrete" in grado di produrre "senso" nel costruire dei mondi vitali. Si tratta di una topografia reticolare delle partecipazione sociale9 in cui i processi di riciclo possono essere acceleratori di questo bisogno di "autorganizzazione". Questa forma di costruzione dal basso, innesca per il potere del riciclo stesso nell’epoca della terza generazione post "obsolescenza programmata", un fenomeno di "retroazione" in cui il 1°obiettivo torna ad essere quello dell’autosufficienza energetica e di materiale ed il 2° quello della resilienza.10 Quindi si tratta di innescare nuovi processi per riempire gli spazi di luoghi e collettività, riciclando ciò che è privo di senso, residuale o interrotto, un "junkspace" manifesto, capace di produrre trasfigurazioni partendo dai luoghi di scarto, dagli oggetti di scarto ma anche dalle visioni di scarto. Si considerino in tal senso le pratiche di Re_Learning Ecocity, in cui la parola chiave torna essere "apprendimento", l’approccio più adatto per una learning ecology, 140 capace di tenere ben presente il ruolo degli attori che entrano in gioco12 e tendere comunque ad una modificazione capace di aggiungere alle note caratteristiche degli ecosistemi, anche altri valori sensibili come la cultura o la consapevolezza e più strutturali come la stabilità economica. Si tratta quindi per esempio, di indagare come all’interno dei nuovi cicli di vita della città e del territorio, attraverso il riciclo dei "beni comuni sociali" in "beni comuni fruttiferi" si possano innescare nuove filiere produttive e riattivare economie alla scala di comunità e struttura sociale di riferimento. Ciò di fatto si realizza partendo proprio da un nuovo principio di ordine che recupera nel valore dello scarto quella nuova economia riscattata dal rifiuto. Nella rilettura di seguito proposta ciò avviene proprio secondo quel riferimento contestuale che anche Ezio Micelli (Convegno Re-cycle Op_position, IUAV, Venezia, 4 aprile 2014) individua quali "luoghi sospesi", territori di elezione recycle, capaci di innescare processi di scala, mobilitare risorse locali ed anche cambiare gli strumenti di gestione convenzionali in altri più evoluti ed adeguati, anche in assenza di plusvalore dei beni e servizi. Do-It-Yourself City «Work, thought, is what this D.I.Y. city has not shied away from. In June a group including Mr Paffendorf of Loveland spent S1,000 for two abandoned houses across from the vacant Michigan Central Station, a symbol of Detroit’s decline, and, along with the Packard plant, a must-stop on any hardscrabble tour. They renamed the buildings-shells filled with debris and few squatters – Imagination Station And hope to transform them into an artists’ enclave and green space. There wasn’t much to see yet, but Mr. Paffendorf offered a tour. "Welcome home", he said, pushing open the battered door, with a hole where the lock should be. The next day he and his girlfriends and partner, M. L. Carter, were a t Maker Faire, sitting behind a table covered in sod, publicizing Loveland. They sold 70 inches of Detroit.»13 00_ Considerazioni sulla sfida Recycle ecologico/economico Avendo proposto il tema dell’opposizione come una sfida su un ring che si svolge fuori dal campo, nei suoi margini e contorni, è evidente che anche per questa tesi, come per le altre discusse nel convegno Re-cycle Op_position, rimangono da fare "i compiti a casa". 141 Sono compiti connessi ad un nuovo approccio di sustainable learning nelle azioni e retroazioni di carattere urbano ed architettonico, nell’uso delle risorse (ecologiche ed economiche), ma anche di un’idea del valore che progetta il tempo e del tempo che proietta il valore in nuove visioni. Un nuovo to think project-action capace di sostituire all’impeto della parola "rivoluzione", l’urgenza e la necessità della parola "risoluzione", per scenari di "trasfigurazione della dismissione" in cui il progetto ed il processo di riciclo ne interpretano essenzialmente culture ed istanze. Note 1. Etimologia dal dizionario DevotoOli, termine "valore" e suoi sinonimi e locuzioni. 2. Definizioni estratte da doc. di settore: metodologia sviluppata da ISPRA, 2012. 3. Etimologia dal dizionario Treccani, termine "ciclo economico" e definizioni. 4. S. Marini, Architettura parassita. Strategia di riciclaggio della città, Quodlibet, Macerata 2008, p. 100. 5. AWJGGRAUaDVVTAT, in The Ambition of the Territory, in "Belgian Pavillion, 13th International Architecture Exhibition", La Biennale di Venezia 2012, p. 10. 6. G. Pauli, Blue Economy. 10 anni, 100 innovazioni, 100 milioni di posti di lavoro, Ambiente, Roma 2014. 7. Z. Bauman, Vite di scarto, Laterza, Bari 2004, pp. 117-8. 8. E. Rullani, La Fabbrica dell’Immateriale, Carrocci, Roma 2004. 9. G. Perulli, Visioni di città, Einaudi, Torino 2009. 10. S. Latouche, Usa e getta, Bollati Boringhieri, Torino 2013. 11. C. Nava, Doc. istruttorio per esperienze Calajunco, con Pensando Meridiano, Lab. Recycle RC, marzo, 2014. 12. K. Lynch, Deperire. Rifiuti e spreco, trad. it. M. Southworth (a cura), Cuen, Napoli 1990. 13. M. Ryzik, Wringing Art out of the Rubble in Detroit, «New York Times», 3.08.2010. 142 Il recycle come opzione e come necessità. Le condizioni economiche del riuso tra stagnazione e ripresa Ezio Micelli >IUAV 0. Introduzione La lunga fase di stagnazione economica del nostro Paese, quando non di vera e propria recessione, non è senza effetti sul modo in cui è possibile pensare e promuovere gli interventi nelle città. Le valutazioni sul settore del real estate e delle costruzioni divergono. Se alcuni contano sul ritorno alle condizioni dei primi anni del secolo con valori e volumi in costante crescita, altri – più lucidamente – riconoscono la natura strutturale dei cambiamenti avvenuti e la conseguente necessità di un cambio di paradigma che permetta di coniugare redditività e sostenibilità, consenso e sviluppo. Che il nuovo paradigma debba considerare una visione più ampia rispetto a quella della sola economia immobiliare appare auspicabile: il rilancio di settori economici in difficoltà – ne sono buon esempio parti della manifattura e dell’agroalimentare – passa non solo per una razionalizzazione 143 dei processi produttivi, ma anche per una riflessione sulla natura stessa dei beni prodotti, sulle caratteristiche quantitative e qualitative della domanda, sul valore attribuito alle componenti materiali e immateriali dei beni scambiati. Le nostre città sono destinate a essere condizionate da una crescita modesta e ineguale, incapace di sostenere, come è avvenuto per anni, uno sviluppo basato sul debito e su aspettative di crescita errate quando non del tutto infondate. Ciò impone un diverso rapporto con ciò che abbiamo, con ciò che già occupa i nostri territori, rende necessario un diverso rapporto con lo stock – di abitazioni, di attrezzature collettive, di infrastrutture – di cui il passato ci ha reso beneficiari. Il riuso della città esistente, debitamente declinato in ragione dei diversi contesti spaziali ed economici, sembra essere una delle categorie più promettenti per comprendere le forme con cui operare nella città del prossimo futuro. 1. Il new "normal" dell’economia e delle città italiane L’economia italiana soffre da molti anni dell’assenza di crescita. Se consideriamo la variazione del prodotto interno lordo per abitante, il Paese dal 1999 ad oggi si è impoverito in termini reali di poco oltre due punti percentuali. Nello stesso arco temporale, gli stessi paesi dell’area mediterranea hanno beneficiato di un aumento della ricchezza prodotta – ad esempio la Spagna, con oltre 8 punti percentuali – senza considerare l’impetuosa crescita dell’area nordeuropea guidata dalla Germania (+21%). L’assenza di crescita si è riflessa sulla capacità di investimento delle amministrazioni nelle nostre città – per anni oggetto di sottoinvestimento da parte delle amministrazioni a tutti i livelli1 – e sui mercati immobiliari delle nostre città. Dopo la fase di grande crescita dei valori immobiliari, individuabile con buona approssimazione tra la fine del secolo scorso e la prima metà degli anni del decennio scorso, i mercati hanno intrapreso un’inversione di tendenza che riguarda sia le quantità che i valori. Gli effetti sono noti e qualche numero è tuttavia utile per restituire l’ampiezza della svolta: il numero delle transazioni di immobili residenziali, di gran lunga la quota più consistente del mercato immobiliare nazionale, è sceso da oltre 845.000 compravendite nel 2006 a 448.000 nel 2013 (fonte Agenzia delle Entrate); i mutui del settore residenziale ammontavano a 31,45 miliardi di euro nel 2007 e sono scesi a 10,98 miliardi nel 2013 (fonte Ance e Banca d’Italia). 144 Considerare accidentale e transitoria l’attuale fase economica con il suo portato per le decisioni pubbliche e le scelte di investimento privato sarebbe poco lucido. L’analisi dei tassi di crescita dell’economia italiana e del debito pubblico, oltre alla disamina delle indicazioni che i dati demografici offrono del nostro Paese, suggeriscono una lettura diversa dell’attuale fase della nostra economia e delle nostre città. Vi sono buone chances che lo sviluppo delle città in un contesto di economia a crescita nulla o molto modesta sia da accettare come la norma. Tassi di crescita dell’uno per cento, frazione risibile dell’incremento del PIL dei paesi emergenti, potranno essere la consuetudine e non l’eccezione. La nuova normalità, il new normal dell’economia post-recessione, incide sul contesto e sul modo in cui amministrazioni e investitori operano. La fine della crescita non è per sempre e non è per ogni luogo: alcune aree del Paese potranno crescere con scarti significativi rispetto alla media e alcune aree potrebbero trovarsi in una fase di declino analoga a quella sperimentata in tante shrinking cities nordamericane (Coppola, 2012). Se i fasti degli anni del dopoguerra – i trenta gloriosi – sono da archiviare senza esitazione, sarebbe un errore considerare le nostre città senza risorse nella sfida che le attende. Le difficoltà nell’incrementare il prodotto interno non devono essere confuse con la ricchezza di beni immobili che le nostre città conoscono in ragione di un lunghissimo periodo di pace. Una ricchezza sia privata che pubblica: un patrimonio immobiliare privato che rappresenta la parte più consistente del risparmio delle famiglie italiane e un capitale fisso sociale che, pur scontando le difficoltà legate ad una modernizzazione claudicante dell’assetto infrastrutturale, rappresenta un insieme di asset che hanno comunque consentito al nostro Paese di entrare tra i primi dieci paesi sviluppati del pianeta. Città incapaci di ritrovare importanti flussi finanziari possono e devono sfruttare meglio il capitale fisso accumulato per ammodernare le infrastrutture a costi più contenuti, valorizzando selettivamente ciò che oggi è attualmente disponibile, senza necessariamente distruggere e realizzare nuove opere; possono e devono impiegare al meglio le opportunità di riqualificazione del patrimonio residenziale sotto il profilo funzionale e tecnologico senza così dilatare il già amplissimo confine delle città o, più precisamente, dei "sistemi territoriali locali" (Calafati, 2009) in cui le città si sono confuse; possono e devono adattare il patrimonio non residenziale alle rinnovate esigenze di mercati profondamente mutati. 145 2. Valore, forme, energia La convergenza tra una diversa prospettiva di carattere economico e alcuni temi della ricerca architettonica appare evidente. Riciclare il patrimonio esistente, risignificarne le forme e trasformarne le funzioni: l’agenda di una parte della cultura architettonica appare perfettamente allineata con il percorso delineato per lo sviluppo delle nostre città. Se per l’architettura il riciclo consente di estrarre nuovo senso e significato da ciò a prima vista appare inutilizzabile o comunque obsoleto, in opposizione alla demolizione e ricostruzione di immobili e quartieri, il ragionamento è analogo per chi estrae valore da un patrimonio di cui rileva il potenziale economico ancora inespresso, massimizzando il rapporto costo/efficacia delle sempre più limitate risorse a disposizione. La convergenza non si limita al rapporto tra economia e architettura, ma si estende alla dimensione ambientale della trasformazione della città. L’attività di recycle non riguarda solo il valore economico e il senso stesso di forma e funzioni del progetto, ma include l’energia contenuta nei manufatti. I processi di densificazione e riuso della città esistente costituiscono la via maestra per costi energetici assai più contenuti rispetto a quelli di altre forme di insediamento e in particolare di quelli a bassa densità (Owen, 2009) e rappresentano il modo in cui è possibile estrarre l’embodied energy ancora presente nel capitale edilizio esistente che in altre fasi della storia economica delle nostre città avremmo considerato ineluttabilmente esaurito (Viganò, 2012). Valore, significato, energia: il riciclo dei contenuti, materiali e immateriali, della città e delle sue costruzioni si presta a una sovrapposizione di letture e interpretazioni di evidente carattere interdisciplinare che ne evidenzia la ricchezza e le potenzialità. Tuttavia, la lettura economica delle trasformazioni urbane impone una doverosa declinazione delle modalità con cui il riciclo potrà avere luogo, evidenziando la diversa posizione degli operatori nei confronti della trasformazione dell’esistente. 3. La selezione necessaria Una geografia del recycle appare possibile. Secondo una partizione ampiamente perfettibile, è possibile immaginare uno sviluppo secondo le linee di seguito delineate. In un recente saggio, (Marini, 2013) sottolinea la necessità che dei materiali ereditati dalla storia – poco importa se abitazioni, ferrovie, capannoni 146 – si faccia una selezione preliminare al riciclo. Tale selezione divide ciò che non è recuperabile da ciò che lo è, separa le parti di un manufatto o di una parte di città capaci di esprimere un nuovo significato, formale e funzionale, da quelle prive di un simile potenziale. Un’analoga selezione è doverosa anche dal punto di vista economico. Se immaginiamo che la ripresa economica possa avere luogo, pur in forma limitata alla luce dei dati prima evidenziati, essa non necessariamente avrà pari intensità in tutto il Paese. Con buona probabilità, essa riguarderà, ad una scala territoriale ampia, soprattutto le parti del nostro Paese meglio interconnesse con un mondo rimodellato dalla globalizzazione. Alcune aree si ritroveranno a essere beneficiarie di simili cambiamenti, altre lo saranno meno. È plausibile ipotizzare che le parti del nostro territorio meglio attrezzate sotto il profilo del capitale fisso sociale saranno le più pronte a ritrovare la strada della crescita, mentre altre aree potrebbero non conoscere le minime condizioni di domanda per attivare i processi di riciclo per la semplice ragione che non vi è alcun interesse a impiegare manufatti e opere nell’assenza di una verosimile domanda finale. Che si discuta di caserme nelle Alpi Giulie o di antichi borghi nel sud del Paese, per alcune parti del nostro territorio semplicemente non ci sono le condizioni economiche perché si possa immaginare processi di riciclo e riuso, perlomeno se basati sull’azione degli operatori privati. Per ritornare alla immagine prima evocata, appare chiaro che per le aree dismesse o sottoutilizzate di alcune parti del Paese non c’è alcuna strategia credibile, perlomeno nel breve periodo, che catturi un valore residuo poiché semplicemente non c’è alcuna domanda solvibile interessata a sfruttare i beni esito del riciclo stesso. 4. Quando il recycle non è un’opzione economica conveniente Un secondo discrimine riguarda le aree in cui il riuso può avere luogo. Due opzioni appaiono possibili: i luoghi in cui le operazioni di recycle costituiscono una tra le molteplici possibilità a disposizione, e quelli in cui il recycle è l’unica opzione possibile. Riprendiamo il tema prima sinteticamente delineato della ripresa e della crescita. I luoghi capaci di attrarre nuova domanda e di offrire nuove possibilità di creazione di ricchezza possono conoscere l’interesse degli investitori che ne immaginano il riuso e la riqualificazione. È il caso, per esempio, delle aree oggetto di importanti investimenti pubblici a cui fa se- 147 guito un vantaggio posizionale che invariabilmente determina nuove condizioni di domanda insediativa. È il caso, ad esempio, delle stazioni ferroviarie ad alta velocità, oppure, ad una scala diversa, di aree che si trovano a essere beneficiarie di altre infrastrutture o altre dotazioni territoriali. In simili contesti la strategia del riuso può essere un’opzione, ma non necessariamente la più convincente sotto il profilo economico. Laddove infatti la densità sia oggetto di un considerevole aumento il recycle potrebbe essere legato solo alle infrastrutture, mentre la demolizione e ricostruzione di nuovi manufatti, o di un nuovo quartiere, diviene la scelta più razionale poiché massimizza simultaneamente il profitto e le rendite che si formano a seguito della variazione della edificabilità dell’area. Le amministrazioni, dal canto loro, potrebbero trovare assai più conveniente il percorso della demolizione e ricostruzione in quanto, soprattutto in aree a media bassa densità, la possibilità di aumentare la potenzialità edificatoria permette anche di recuperare valore subordinando la variazione degli strumenti urbanistici alla restituzione alla comunità di quote del plusvalore nelle forme definite poi in sede di negoziato. Che l’intervento resti di riqualificazione, è evidente. E che si possa parlare di riuso di parte del capitale fisso sociale, appare parimenti vero nella misura in cui parte delle infrastrutture sono in realtà riutilizzate. Ma il cuore dell’intervento prevede l’azzeramento del valore (e dunque del potenziale di senso, di significati, e di energia) dei beni esistenti per realizzarne di nuovi. Un simile scenario riguarda aree e beni assai di rilievo, ma limitati per numero. Ciò può accadere laddove la struttura proprietaria si rivela tutto sommato semplificata e dove siano significative le possibilità di aumentare con successo le densità edificatorie. All’aumentare dello scarto di valore tra i beni esistenti (magari completamente obsoleti) e il potenziale edificatorio (per soddisfare una domanda ampia e solvibile), la proprietà valuterà con minore interesse l’opzione del recycle e considererà la demolizione e ricostruzione l’ipotesi maggiormente conveniente. Lo sviluppo del progetto Garibaldi Repubblica a Milano (Catella e Doninelli, 2013) rappresenta al meglio l’insieme dei progetti che, a seguito di investimenti pubblici di grande rilievo, possono reclamare inediti livelli di densità, perlomeno per i tradizionali standard urbanistici del nostro Paese, con l’esito di rendere ineludibile l’ipotesi della demolizione e ricostruzione dell’esistente. Per riprendere il concetto con le categorie dell’economia urbana, laddove 148 il valore della rendita potenziale ecceda il valore dei beni immobili esistenti, la trasformazione dell’area per demolizione e ricostruzione diviene la soluzione più razionale: non si tratta di estrarre valore da ciò che già esiste, poiché sotto il profilo economico i manufatti e le opere che occupano lo spazio del progetto rappresentano un ostacolo alla simultanea massimizzazione di rendite e profitti. 5. Quando il recycle è l’unica opzione Non tutti i luoghi saranno oggetto di nuove e importanti concentrazioni capaci di generare una domanda significativa. Molte città potrebbero conoscere nel futuro processi di crescita contenuti. Le disponibilità finanziarie delle amministrazioni, a tutti i livelli, lasciano dubitare che le nostre città possano essere oggetto di ampi e importanti progetti di reinfrastrutturazione a cui associare interventi di trasformazione radicale della città. I noti vincoli alla finanza pubblica e la scarsa disponibilità di quella privata a promuovere interventi in project financing non sono destinati a scomparire a breve. Plausibile immaginare dunque che interventi di questa natura siano localizzati nei nodi urbani di maggiore rilievo, ma che altrove le condizioni dell’investimento pubblico siano di rilievo contenuto, quando non proprio marginali. In una simile prospettiva, il recycle di ciò che già oggi è insediato nelle nostre città, dai capannoni della città diffusa del Nord Est ai grands ensambles delle periferie milanesi alla città lineare della costa adriatica appare più un vincolo che una scelta, l’unica opzione possibile da un punto di vista economico. Fino a pochi anni fa – prova ne siano le misure ispirate al Piano casa in tutte le sue edizioni – era opinione corrente che nuove possibilità edificatorie avrebbero potuto determinare le condizioni per la demolizione di edifici quando non di quartieri superati funzionalmente e inefficienti tecnologicamente. E tuttavia le attuali condizioni di mercato, il crollo della domanda di nuove abitazioni e l’azzeramento dei valori delle aree di nuova edificazione hanno imposto un atteggiamento diverso nei confronti dell’edilizia esistente. A ciò si aggiunga la frammentazione proprietaria, legata a decenni di incentivi all’investimento immobiliare, con i rilevanti conseguenti costi di federazione della proprietà in vista di ambiziosi progetti di trasformazione radicale di aree e immobili, per avere una completa rappresentazione dei vincoli che oggi impongono di considerare l’azione del recycle come l’unica 149 possibile. In una fase di contrazione delle aspettative di redditi futuri e di severa contrazione del credito a famiglie e imprese, appare scarsamente probabile che tutti i proprietari aderiscano entusiasticamente a quella che è stata definita la rottamazione della città del dopoguerra in vista di futuri investimenti. In assenza di sorprese eclatanti sulla capacità di ripresa e della nostra economia, e dunque dei valori immobiliari e delle scelte pubbliche di investimento, le nostre città hanno nel recycle l’unica prospettiva credibile sulla quale appare doveroso porre il massimo impegno. E se una città come Parigi, che certo non sconta i limiti allo sviluppo di aree oggi oggettivamente ai margini della crescita del nostro continente, ha iniziato a «concentrarsi sull’idea di costruire sopra, in mezzo, sotto, intorno, dentro gli edifici esistenti» (Pippo Ciorra, 2011, p. 51) allora appare cruciale anche per il nostro Paese riscrivere l’agenda non solo del progetto, ma anche della produzione e della finanza che a nuovi modelli di intervento dovranno dedicarsi con rinnovato impegno. 6. Una necessaria estetica del riuso La sfida è importante per la cultura del progetto, così come lo è per le aziende della filiera e per la finanza che alimenta con le proprie risorse le parti pubbliche e private della città. Si tratta di investire energie e intelligenze sulla realizzazione di progetti di una qualità del tutto confrontabile con quella che viene ascritta ai progetti di nuova realizzazione. Sotto il profilo formale ed esecutivo, la sfida è ritrovare un valore indiscutibile nei processi di riuso senza il quale il rischio è di rendere spazialmente evidenti gerarchie progettuali riflesso di altrettanto chiare gerarchie sociali. La città delle nuove costruzioni e la città che si ricicla: la prima appare agli occhi della comunità quella verso la quale tendere appena le risorse lo consentano, la seconda il luogo in cui si è condannati a restare auspicabilmente il meno possibile. Se il riuso non riesce a imporre un linguaggio architettonico nuovo e originale, è possibile che esso non divenga null’altro che un rattoppo a forme e strutture superate, ad architetture e opere la cui permanenza è legata all’incapacità di promuovere nuove forme, di organizzare nuovi processi. Magari si tratta di un rattoppo utile, capace ad esempio di rendere energeticamente efficienti immobili ormai obsoleti, ma l’incapacità di promuovere soluzioni organiche che tengano insieme le dimensioni della forma e delle tecnologie, e dunque dei costi e della sostenibilità economica degli 150 interventi, costituisce un problema di non poco conto. La mappa del riciclo e delle nuove costruzioni rischia di trasformarsi, quasi meccanicamente, nella mappa della "città dei ricchi e la città dei poveri", esaltando ulteriormente differenze sociali ed economiche che negli ultimi anni hanno conosciuto un profondo allargamento anche in Europa (Bernardo Secchi, 2013). Per parti intere delle nostre città, il riciclo può divenire null’altro che il rimedio alla scarsità delle risorse, la soluzione progettuale e tecnica che rivela plasticamente la debolezza di ampie fasce della società a migliorare la propria condizione sociale ed economica. Strette tra i centri storici e le nuove aree di espansione, le nostre periferie – in particolare quelle degli anni Sessanta e Settanta, assai bisognose di interventi – rischiano l’impasse per l’incapacità non solo tecnica ed economica, ma anche progettuale di restituire a queste parti della città una dimensione nuova con un canone estetico riconoscibile e apprezzato. Non mancano i casi di riuso premiati e acclamati (Pippo Ciorra e Sara Marini, 2012). Tuttavia, è ancora prematuro affermare che una simile estetica abbia conquistato le platee più vaste del pubblico dell’architettura, con un auspicato effetto di trascinamento dell’industria delle costruzioni e della finanza. Che questa sfida sia affrontata con successo non è affatto scontato. È nota la propensione delle imprese alla realizzazione di nuovi interventi rispetto al recupero dell’esistente, per l’intrinseca complessità di iniziative che operano selettivamente sulle componenti degli immobili. La scarsa capacità della nostra cultura progettuale di integrarsi con i processi costruttivi e finanziari non permette di dare per acquisita una sintesi capace di spostare nella città esistente, con successo, il campo di azione privilegiato della trasformazione a tutte le scale. L’agenda della ricerca e della sperimentazione, tuttavia, sembra essere comunque chiaramente delineata. 151 Nota Bibliografia 1. Sottolinea Camagni (2012, p. 60) come «negli ultimi 20 anni il sistema Italia ha sottoinvestito sulle città, apparentemente a causa della crisi fiscale nazionale e locale e delle difficoltà di utilizzare il project financing per opere di rilievo» e come «la sottocapitalizzazione delle nostre città non è solo verificabile in senso quantitativo, ma anche in una serie di squilibri e di costi sociali: elevati costi individuali e sociali della mobilità; bassa efficienza energetica; insufficiente offerta di spazi pubblici a carattere ricreativo e culturale; bassa qualità urbana nelle aree di nuova urbanizzazione ed anche in molte aree di trasformazione; bassa qualità dell’aria e, in molti casi, basse condizioni igienico sanitarie rispetto agli standard internazionali». A. Calafati, Economie in cerca di città. La questione urbana in Italia, Donzelli, Roma 2009. R. Camagni, La città del presente, le città del futuro: rendita e ricapitalizzazione, Eyesreg – Giornale di Scienze Regionali, Marzo 2012, Vol. 2, n. 2, pp. 60-63. M. Catella, L. Doninelli, Milano si alza. Porta nuova, un progetto per l’Italia, Vita Feltrinelli, Milano 2013. P. Ciorra, Senza architettura. Le ragioni di una crisi, Laterza, Bari 2011. P. Ciorra, S. Marini (a cura di) Re-cycle. Strategie per la casa, la città e il pianeta, Electa, Milano 2012. A. Coppola, Apocalyse Town. Cronache dalla fine della civiltà urbana, Laterza, Bari 2012. S. Marini, Post-produzioni o del problema della scelta, in S. Marini, V. Santangelo (a cura di), Recycland, Aracne, Roma 2013, pp. 13-17. D. Owen, Green Metropolis. Why Living Smaller, Living Closer, and Driving Less Are the Keys to Sustainability, Riverhead Books, New York 2009. B. Secchi, La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza, Bari 2013. P. Viganò, Elements for a Theory of the City as Renwable Resource, in L. Fabian, E. Giannotti, P. Viganò (eds.) Recycling City. Lifecycles, Embodied Energy, Inclusion, Giavedoni, Pordenone 2012, pp. 12-23. 152 CYCLE VS RE-CYCLE Marco Bovati, Cassandra Cozza >POLIMI 1. Il ciclo è ecologico, il riciclo è economico. 2. Nella logica dalla culla alla tomba il riciclo è l’ultima tappa prima della discarica. 3. Nella logica dalla culla alla culla non c’è riciclo, non c’è rifiuto, solo ciclo. 4. Il ciclo è un processo chiuso e non produce rifiuti. 5. Il riciclo è un processo aperto e consiste nell’interrogarsi sul destino dei rifiuti prodotti dal meccanismo dell’obsolescenza programmata. 6. Il progetto è per durare, il riciclo è la conseguenza di una progettazione errata. 7. L’ecologia studia le condizioni di durata dei sistemi, fondate sulla ciclicità dei processi e sull’eliminazione dei rifiuti. 8. L’architettura ecologica usa i cicli naturali come paradigma, non come modello. 9. L’architettura ecologica è autenticamente economica quando programma l’eliminazione del rifiuto e con esso il problema del suo riciclo. 10. Il progetto non persegue il riciclo ma il nuovo ciclo di vita. 153 I problemi ambientali possono essere compresi solo collegandoli ai meccanismi di funzionamento dell’economia. B. Commoner Interrogandosi su come attivare un nuovo ciclo di vita per tessuti, manufatti e infrastrutture abbandonate o sottoutilizzate, la ricerca PRIN Recycle Italy si inserisce in una riflessione più ampia sull’attuale crisi paradigmatica1 e sulle proposte per superarla. Il contesto teorico e culturale di riferimento si basa su posizioni che rimandano all’idea di responsabilità dell’azione individuale2 come idea fondativa del paradigma ecologico,3 incorniciata nel concetto di nuova alleanza4 tra uomo e natura. In questo quadro l’azione dell’uomo si inserisce in un universo creativo caratterizzato dalla freccia del tempo, dall’irreversibilità dei fenomeni e dal costante riferimento all’osservazione e interpretazione dei meccanismi naturali in senso paradigmatico; Ilia Prigogine in particolare riporta l’azione dell’uomo all’interno dell’evoluzione naturale, fatta di invenzione e innovazione. La natura funziona per cicli chiusi, non produce rifiuti, non ricicla ma riusa. Il principio è noto e la necessità della sua applicazione al settore economico e produttivo è all’attenzione della cultura e della politica almeno dal 1971, grazie alla seminale pubblicazione di Barry Commoner dal titolo The Closing Circle: Nature, Man, and Technology.5 In quegli anni l’ecologia veniva ancora chiamata "scienza sovversiva"6 soprattutto quando metteva di fronte alle proprie responsabilità l’economia della produzione e del consumo delle merci. Oggi sembra essere utilizzata più spesso come strumento di marketing, in grado di sostenere le azioni più diverse, anche quando sono tutt’altro che ecologiche. La tesi di Commoner si basa sulla constatazione che le trasformazioni naturali, alimentate dall’energia del sole, producono materia sempre in grado di rientrare in circolo, di essere riutilizzata divenendo materia prima per altri cicli naturali. La violazione di questa semplice regola produce rifiuti e scarti e, di conseguenza, la necessità del loro riciclo. Successivamente il testo Cradle to Cradle. Remaking the Way We Make Things di William McDonough e Michael Braungart7, aggiorna la riflessione riflettendo sulle strategie ecologiche di eliminazione del rifiuto – come concetto e come fatto materiale – dai meccanismi di produzione delle merci. Con il rifiuto si elimina anche la pratica del riciclo che viene 154 sostituita dall’idea di nuovo ciclo di vita. Come avviene tale eliminazione? È sufficiente cambiare la nostra interpretazione degli scarti iniziando a considerarli altro e, di conseguenza, a immaginare per loro una nuova vita? In questo atteggiamento virtuoso si annida un rischio: la costruzione di un’estetica del rifiuto che non può che configurarsi come estetica a posteriori, una artificiosa costruzione del bello a partire da ciò che è trovato. Se poi tale atteggiamento si coniuga con l’imperativo ecologico allora si passa dall’estetica all’etica: riciclo ciò che trovo, ciò che non serve più, lo scarto, e arresto i processi entropici – o almeno provo a rallentarli – ricombinando i materiali per dare loro nuove funzionalità. Ma a che prezzo? Se osserviamo le logiche di produzione delle merci, scorgiamo nel meccanismo dell’obsolescenza programmata il motore primo della produzione di rifiuti.8 Le pratiche del riciclo, lodevoli dal punto di vista delle tattiche del quotidiano, appaiono in una luce diversa se viste nella più generale strategia della società dei consumi, poiché risultano del tutto funzionali ad essa, così come lo sono le ideologie a posteriori che le accompagnano e le sorreggono. Anche dal punto di vista delle pratiche è inevitabile scorgere qualche criticità, soprattutto se, a proposito di ecologia, si tengono in maggiore considerazione i tempi lunghi dei cicli naturali; in questo quadro ricombinare i materiali a costo di grandi investimenti energetici per attribuire loro nuove funzionalità per le quali non sono stati progettati, assume il carattere di una forzatura9, anche in ragione della vita relativamente breve che potranno avere una volta riciclati. McDonough e Braungart propongono l’esempio del tappeto di poliestere prodotto riciclando (subciclando, precisano gli autori) bottiglie di plastica: «Buone intenzioni a parte, il tappeto [...] è stato fabbricato impiegando materiali che non sono stati pensati per questo [...] utilizzo e dare loro questa forma ha richiesto la stessa energia – e prodotto la stessa quantità di scarti – che sarebbe servita per un tappeto nuovo (ottenendo di) rinviare il normale destino dei materiali [...] di un ciclo di vita o due. Il tappeto è ancora in viaggio verso una discarica; sta solo facendo una tappa da voi lungo la strada.»10 Nulla di particolarmente virtuoso in tutto ciò, pertanto. Diversamente dall’idea di progettare il destino dei materiali, immaginando e programmando il loro uso una volta esaurito il primo ciclo, e realizzandoli in ma- 155 niera funzionale ad esso. Progettare il loro esser altro impedendo che diventino rifiuti e evitando gli alti costi energetici dei processi di riciclaggio. Cosa fare, allora, con l’architettura? Si dirà giustamente che essa è un prodotto immobile, non mobile11, con tempi di vita più lunghi delle merci convenzionali e che, perciò, le considerazioni fatte sul loro ciclo e riciclo non sono applicabili. Dobbiamo considerare, però, che l’architettura è soggetta sempre di più alle regole del mercato; lo evidenziava già De Carlo12 nel 1980 e la contemporaneità ha esasperato questo fenomeno. In ogni caso le riflessioni proposte in questo scritto in riferimento alla questione ecologico/economico relativa al tema del Re-cycle, non intendono affermare che in architettura non esistano rifiuti o che il loro riciclo non sia una pratica auspicabile. Piuttosto argomentano come essa sia da interpretare più come una prassi, che insieme ad altre possibili, si offre come insieme di tecniche, azioni e interventi13 che agisce come strumento in grado di mitigare le conseguenze dei meccanismi propri dell’economia delle merci, piuttosto che pensare di farla assurgere allo status di paradigma ecologico. Progettare un nuovo ciclo di vita finalizzato alla ridefinizione formale, funzionale e identitaria dell’esistente significa lavorare su tessuti, paesaggi e infrastrutture soggetti a fenomeni di sottoutilizzo, abbandono, dispersione e frammentazione, attraverso pratiche progettuali innovative capaci di rendere più efficienti gli ambienti costruiti e più resilienti gli ambienti naturali – wilderness, agricoltura, verde urbano. L’insieme delle azioni proposte si inserisce in un paradigma progettuale14 che assume criticamente il tema dello sviluppo sostenibile e propone strategie progettuali orientate alla modificazione del paradigma urbano di riferimento. Ciò implica che le declinazioni del concetto di sostenibilità (ambientale, sociale ed economica) si articolino secondo una strategia di approccio al progetto architettonico e urbano in grado di assume le "tre E" come riferimento: Ecologico – che contrasta il degrado delle risorse naturali e del patrimonio costruito e preserva gli spazi aperti evitando il consumo di suolo; Equo – che incrementa l’urbanità dei territori della dispersione e delle periferie rendendoli più isotropi e vivibili; Economico – che agisce in maniera neghentropica15 sul territorio, razionalizzando l’uso dello spazio e delle risorse, evitando gli sprechi, inserendo nuovi usi, rinnovando l’identità dei luoghi rendendoli più attrattivi e contrastando il sottoutilizzo e l’abbandono. 156 Per individuare strategie e pratiche progettuali paradigmatiche occorre, quindi, che esse siano inserite entro un sistema di descrizioni ed analisi adeguate, in modo da valutarne gli esiti a diverse scale e sui vari tipi di paradigma proposti. L’obiettivo è orientare le scelte in base ai risultati attesi nella trasformazione del paradigma urbano; per farlo si devono individuare problemi da risolvere (cosa modifico) e proporre dei modelli di trasformazione (come lo modifico). Bisogna ottimizzare i risultati delle trasformazioni attraverso sinergie ed economie di scala, ad esempio, agendo con una serie di progetti puntuali (paradigmi progettuali che agiscono sui paradigmi spaziali selezionati e ritenuti significativi) i cui effetti trasformativi possono avere una ripercussione alla scala territoriale contribuendo a trasformare il paradigma urbano nella direzione desiderata. L’obiettivo è mettere in stretta relazione le modificazioni del paradigma progettuale e quelle del paradigma urbano in modo da innescare una trasformazione alla scala della città e del territorio attraverso operazioni puntuali interconnesse. In questo quadro le strategie progettuali possono assumere valore paradigmatico se sono in grado di indicare nuove direzioni per la ricerca, cambiare i problemi da risolvere e il modo in cui farlo. Antonella Tarpino descrive l’antropologia delle rovine di Marc Augè16 come un enigma dove la maceria è «traccia inerte del passato, sequenza muta di un tempo che non parla più», essa è «relitto inerte, scarto nel consumo del tempo».17 La maceria è materiale da riciclare il cui valore è prettamente economico. La rovina, invece, «dà ancora segni di vita», «ci parla ma di cose cadute fuori dal corso del tempo, costrette a cedere a nuove, pur precarie funzionalità», essa è «sospesa in una fine, piuttosto che finita». La riattivazione di un nuovo ciclo di vita è l’uscita da questa sospensione, un’uscita progettata, radicata nel passato ma profondamente contemporanea (esprime una nuova identità, ospita una nuova funzione, offre qualità spaziali adatte al tempo in cui si colloca ed è performante secondo nuovi standard). Il riciclo della maceria è economico. La nuova vita della rovina è ecologica. 157 Note mata, Bollati Boringhieri, Torino 2013. 1. T. S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, The University of Chicago Press, Chicago 1962; tr. it., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969. 9. Braungart e McDonough, Cradle to Cradle: Remaking the Way We Make Things, cit. 2. H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische Zivilisation, Suhrkamp, Frankfurt/M 1979; tr. it. Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990. 11. S. Los, Geografia dell’architettura – Progettazione bioclimatica e disegno architettonico, Il Poligrafo, Padova 2013, p. 81. 3. F. Capra, The turning point: Science, Society, and the Rising Culture, Simon and Schuster, Bantam paperback 1982; tr. it., Il punto di svolta, Feltrinelli, Milano 1984. F. Capra, The web of life,Anchor Books, New York 1996; tr. it. La rete della vita, Rizzoli, Milano 2001. E. Morin, La vie de la vie, Editeur Seuil, Paris 1980. 4. I. Prigogine, I. Stengers, La nouvelle alliance. Métamorphose de la science, Gallimard, Paris 1979; tr. it. La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino 1979. 5. B. Commoner, The Closing Circle: Nature, Man, and Technology, Knopf, New York 1971; tr. it. Il cerchio da chiudere. La natura, l’uomo e la tecnologia, Garzanti, Milano 1972. 6. P. Shepard, D. McKinley (edited by), The subversive science, Houghton Mifflin, New York 1969. 7. M. Braungart, W. McDonough, Cradle to Cradle: Remaking the Way We Make Things, North Point Press, New York 2002; tr. it. Dalla culla alla culla. Come conciliare tutela dell'ambiente, equità sociale e sviluppo, Blu Edizioni, Torino 2003. 8. S. Latouche, Bon pour la casse: Les déraisons de l’obsolescence programmée, Les liens qui libèrent, Paris 2012; tr. it. Usa e getta. Le follie dell’obsolescenza program- 10. Ibid., edizione italiana, p. 2 12. Del ribaltamento del termine riuso nella prassi architettonica è il titolo della relazione che Giancarlo De Carlo presentò al Politecnico di Milano nel 1980, AA.VV., Riuso e riqualificazione edilizia negli anni ‘80, Franco Angeli, Milano 1981; citato in A. Gritti, M. Bovati, Emblematica del riciclo: suoli, tessuti e manufatti produttivi, in S. Marini, V. Santangelo (a cura di), Recycland, Aracne, Roma 2013, pp. 75-79. 13. Renato Bocchi, relazione al Convegno Re-cycle Op-Positions, Venezia, Palazzo Badoer, 4 aprile 2014. 14. In questo scritto si assume l’articolazione paradigmatica del progetto architettonico e urbano proposta da C. Cozza nella sua tesi dottorale: paradigma urbano o di ordine superiore – modello che gestisce il funzionamento della città o del territorio per un dato periodo storico, in cui convivono diversi paradigmi spaziali originati in epoche diverse ma che si trasformano nel tempo assumendo nuovi significati simbolici e funzionali; paradigma spaziale – spazialità differenti che caratterizzano e compongono un certo paradigma urbano; paradigma progettuale – modalità della progettazione (cosa modifico e come lo modifico) valide entro un determinato paradigma spaziale; paradigma sintattico – forma sintattica di riferimento, legata alla moda o allo stile, che implica componenti soggettive autoriali e componenti artistiche e culturali. Cassandra Cozza, Paradigmi per il progetto della città contemporanea, DrPAU – XX ciclo, 158 DiAP, Politecnico di Milano, 2008. 15. Per approfondimenti si veda E. Schrödinger, Che cos’è la vita? La cellula vivente dal punto di vista fisico, Adelphi, Milano 1995; citato in E. Tiezzi, Che cos’è l’entropia, http://hannibalector.altervista. org/che-cos%E2%80%99e%E2%80%99l%E2%80%99entropia-di-enzo-tiezziuniversita-degli-studi-di-siena/. 16. M. Augè, Le temps en ruines, Édition Galilée, Paris 2003; tr. it., Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2004. 17. A. Tarpino, Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, Einaudi, Torino 2012, pp. 29-30. 159 SGUARDI ROVESCI, STRABICI Emanuel Lancerini >IUAV Re-cycle è ecologico perché concatena materiali esistenti, ma dimenticati o che sembrano aver perso senso e valore nelle dinamiche dell’oggi, all’interno di sistemi aperti e dinamici. Abbandonando logiche settoriali e superando steccati disciplinari, progetta nuovi cicli di vita individuando i materiali sopra richiamati come possibili risorse in processi economici emergenti. Aspirando a promuovere una maggiore qualità della vita. La forza di Re-cycle consiste anche nella sua capacità di implementarsi nei dispositivi della comunicazione. È un precetto agile, comprensibile, condivisibile, che può facilmente circolare nelle piattaforme mediatiche contemporanee, da Internet alla televisione, dalla radio alla carta stampata. Può sembrare una ovvietà, ma è bene ricordare che un pensiero quanto più riesce ad agganciarsi alle piattaforme mediali tanto più riesce ad essere efficace in termini di presenza critica e di proposta alternativa. In questi ultimi anni caratterizzati dalla crisi economica che si è anda- 160 ta a sovrapporre alla meno recente crisi ambientale (la prima ondata di emergenza ambientale planetaria risale al 1972 con il rapporto del Club di Roma sullo stato del pianeta), Re-cycle è usato efficacemente nelle proposte programmatiche che hanno occupato lo spazio lasciato libero dall’indebolirsi del mito della crescita. Re-cycle è presente sia nelle 8R della Decrescita sia nelle "tre R" della Green Economy. Anche se non possiamo definire un rapporto diretto tra stati di crisi e pratiche di riciclo, sembra legittimo evidenziare come gli choc ambientali ed economici ai quali è sottoposta la nostra società producono, sul piano della comunicazione spontanea, categorie di reazione le quali finiscono per essere assorbite dalla comunicazione ufficiale e Re-cycle è sicuramente una di queste. Tuttavia, se agli choc ambientali è sottoposto l’intero pianeta, non possiamo dire lo stesso per la crisi economica che, pur irrobustendo la consapevolezza collettiva e ridefinendo globalmente alcune dinamiche, assume esiti differenti al variare dei contesti sociali, culturali e territoriali sui quali impatta. Allo stesso tempo è bene ricordare che il riciclaggio è una pratica comune 161 nella storia dell’uomo, offuscata in spazi e tempi di benessere, rilanciata quando le risorse scarseggiano. Al momento, quindi, Re-cycle può apparire come una sorta di brand che rende riconoscibile una certa critica ecologica ed economica, la cui rilevanza varia al variare di contesti locali ai quali si riferisce, nel mondo della comunicazione dove si fa l’economia e la politica. Destino delle culture formalizzate come tali, è però quello di assorbire e legittimare sensibilità teoriche tra loro anche estremamente differenti. Il rischio è quello di contrapporre un mito ad un altro mito. Dove per mito intendo qui un efficace marchio di comunicazione al quale aderiscono culture e pratiche divergenti in cui è marcato l’elemento simbolico, indefinito quello culturale e spesso inerte la dimensione che rimanda alle pratiche. Per far emergere terreni controversi di pensiero, uscire dall’indeterminato in cui rischia di avvitarsi Re-cycle in quanto brand, delineare differenze tra territori e paesaggi, prospettare alternative teoriche, sfuggendo al sincretismo, è importante occuparsi delle pratiche che sostanziano il nostro operare. Nel tentativo di cogliere contemporaneamente gli aspetti fisici e mentali, la pluralità di storie di ridefinizione del nostro abitare la terra, bisogna mettersi in viaggio. È un viaggio dove a volte non ci si muove eppure si è nomadi abitando periferie e osservando il centro attraverso uno sguardo rovescio, strabico. È in questa sfasatura dello sguardo che possiamo ritrovare la capacità di leggere i materiali e i processi, che danno forma alla terra non per differenza, ma per temporanee relazioni di complementarietà. I mezzi che usiamo per spostarci modificano la nostra percezione. In treno il mondo appare immobile, in auto foriamo il paesaggio, in aereo tutto diventa tempo, in bicicletta siamo dentro i luoghi, ma «mai come quando andiamo a piedi il nostro modo di guardare si avvicina alla realtà indissolubile del mondo. Uno sguardo oltre lo sguardo: senza filtri, senza obiettivi, senza inquadrature. Non a caso credo che passeggiare sia il modo di spostarsi più interessante anche per chi non vede. Ma perché la magia si sprigioni, bisogna aver appreso i segreti dell’arte. Il glaucoma del turista – che vede soltanto ciò che ha già visto in foto o nelle parole di una guida – e la cataratta del pilota – che ci tormenta anche quando non siamo al volante – sono sempre in agguato per confonderci la vista. Andare a piedi non basta, e la lentezza non è solo questione di chilometri all’ora […].» 162 (Wu Ming 2, in L. Gianotti, L’arte del camminare, Ediciclo, Portogruaro 2011). Si elaborano così forme descrittivo-interpretative, veri e propri progetti d’indagine che aspirano ad andare in profondità dentro il paesaggio, come apporto dei materiali fisici scartati alla definizione delle forme della terra. Di fatto esistono territori che, se guardati attraverso le carte di analisi finora prodotte, vengono rappresentati come sostanzialmente "vuoti", privi di interesse urbanistico, di un qualche valore omogeneo alle descrizioni che dello spazio urbano normalmente si usano restituire. A guardare bene, tuttavia, è proprio nello scarto prodotto da queste sovraesposizioni che c’è tempo e modo perché accadano cose nuove. Dalla superficie delle cose è necessario muoversi attraverso un paesaggio intricato di segni per cogliere le tracce di innovazione territoriale e provare così a restituirne mappe invisibili. Le vere cartografie che dobbiamo sempre immaginare per restituire abitabilità alla terra sono quelle di territori a venire, nuovi orizzonti su aspetti inattesi del reale. Ma come rappresentare questa sfasatura, quello che è altro o che semplicemente sfugge ad uno sguardo normato dalla consuetudine alla sovraesposizione? Nei vecchi atlanti i "buchi", ciò che non si conosceva, venivano colmati con dei mostri. Draghi paurosi e fiere feroci erano posti a custodi dell’impossibilità o incapacità di descrivere, misurare e restituire delle conoscenze. Come i mostri dei vecchi atlanti, questi scarti ci raccontano di sguardi che devono essere affinati, di strumenti disciplinari da ridefinire, di spostamenti di interessi e azioni, di traslazioni di senso, di frizioni e conflitti. Innescando relazioni tra sistemi apparentemente in conflitto, Re-cycle restituisce un senso e un significato che va oltre il senso comune delle immagini consolidate. Si fanno emergere strati e materiali nascosti, ma fluttuanti nel tempo e nello spazio tentando di restituirne, più che la precisione tecnica, il respiro. Il progetto parte quindi dal riconoscimento collettivo del fatto che uno scarto può essere risignificato e rivalorizzato attraverso un nuovo concatenamento tra saperi e poteri differenti. Utilizzando uno sguardo inclusivo, scarti e frammenti, esito di progetti settoriali, si ricompongono all’interno di una nuova ecologia. Una nuova geografia relazionale che insiste sui tre elementi regolatori della vita umana, ma anche del divenire della natura: complessità, diversità e simbiosi. In questo senso possiamo ritrovare un essere ecologico di Re-cycle che non si esprime tanto nell’assumere e ricercare una normatività della na- 163 tura sui processi e sui comportamenti umani, sulla definizione delle nostre pratiche, ma piuttosto nella sua capacità di far proprio e valorizzare il concetto di biodiversità. Una capacità che scaturisce da un diverso dislocamento delle fasi di accumulazione del mercato, dalla formazione di processi di riappropriazione di porzioni di territorio e di pratiche collettive di condivisione degli stessi (F. Guattari, Le tre ecologie, Sonda, Casale Monferrato 1991). Re-cycle non è tanto un nuovo paradigma regolatore di una ecologia comune al mondo naturale e a quello umano, quanto fattore propulsivo di un nuovo rapporto equilibrato con la biodiversità che prende le mosse all’interno di particolari istanze localmente condivise. Al di fuori da ogni determinismo, queste azioni posso anche apparire instabili e perverse, piuttosto che ecologicamente dettate da una visione profonda della natura, ma sicuramente scommettono su un alto tenore di vita. Essere capaci di elaborare ed offrire una diversa e superiore qualità dell’abitare è una sfida che ci riguarda profondamente. Indagando i luoghi dell’abitare contemporaneo e le nuove modalità di fruizione del territorio, Re-cycle investe su ritmi particolari, su velocità tra loro complementari e paesaggi nascosti aspirando ad una più alta qualità della vita come motivo di un agire collettivo, un progetto territoriale politico e sociale in grado di giustificarsi con i propri risultati e la propria positività. Frequentare luoghi scartati porta ad incontrare strane storie di soggetti che rimangono radicati in ambienti plurali: urbani e rurali, turistici e industriali, agricoli e residenziali. E da essi riescono a prendere nuovo impulso e nuova vitalità. Miscelando saperi antichi e accelerazioni tecnologiche si favorisce la promozione di una complessità sociale e territoriale capace di essere costituente nella costruzione di nuove storie della permanente ri-creazione del mondo. Un nuovo ciclo di vita è più intricato, più condizionato e più antico di quanto appaia. Il "nuovo" ha bisogno anche di essere continuamente verificato, rimesso in discussione e riproposto come progetto di ricerca, se necessario, ricalibrando l’interpretazione sottesa alle questioni sollevate. È attraverso iniezioni di nuovi valori e significati e non di nuova rendita immobiliare che si possono attivare processi di Re-cycle in grado di conformare il nostro pensiero, le nostre città e i nostri paesaggi. Concatenando istanze ecologiche e un’economia circolare basata sul recupero e riciclo, procedendo per sottrazione, si può mette in campo un’idea di sviluppo 164 senza crescita quantitativa rilevante e a basso consumo di risorse ambientali. Studiando le dinamiche coevolutive tra i processi di globalizzazione e i rapporti che la società e gli individui intrattengono con lo spazio vissuto, il nostro obiettivo può essere quello di mettere in luce il delinearsi di una nuova geografia degli spazi dell’abitare, del lavorare e del tempo libero concatenata a fenomenologie legate a stili di vita emergente. Recycle diventa allora metafora esplorativa che è anche progetto implicito, capace di guidare l’esplorazione e delineare politiche, programmi e azioni in grado di accompagnare le trasformazioni territoriali di alcuni particolari ambienti di vita. Territori sospesi in una condizione di sviluppo ancora poco determinato, aperto verso traiettorie consuete od originali. Linee di sviluppo non necessariamente migliori, ma forse più sostenibili, non al di fuori dalle logiche capitalistiche più recenti, ma che ne affrontano strade differenti. Declinando ambienti costitutivamente vari e plurali evidenziandone i caratteri di complementarietà piuttosto che di alterità, si ricerca una rappresentazione della società contemporanea che superi l’idea di frammento come unica rappresentazione e metodo di intervento possibile. Promuovendo pratiche di riappropriazione dei luoghi scartati, superando l’esasperazione dei micro diritti come bypass per interventi puntuali privi di connessioni e orizzonte comune, si aspira a promuovere scenari di riferimento condivisi, anche con forte impatto affettivo ed empatico, scartando il rischio di ogni avvitamento intimista. Questo approccio si colloca all’interno di uno quadro disciplinare plurale che ha a che fare con la storia lunga dello sviluppo del nostro paese, ma evidenzia anche la necessità di strumenti e di politiche differenti in grado di relazionarsi con il territorio a partire da un’immagine potenziale che Re-cycle può offrire dello stesso. Un nuovo ciclo di vita non può darsi al di fuori del conflitto originario e Re-cycle non può esaurirsi nell’essere marchio di comunicazione: deve mirare ad articolare una precisa idea politico-culturale. Le culture del progetto per loro natura dividono proprio perché prendono posizione, da qui possiamo riaprire una discussione sul ruolo civico del nostro operare, sulla necessità di una politica del mestiere, che permetta al racconto della nostra disciplina di dare inizio a un’altra narrazione del presente. Immagine Cristian Guizzo, Busche 2013 165 Oltre le retoriche del green e dello smart ci sono un’economia e un’urbanistica fatte di manutenzione innovativa e trasformatrice 1 Arturo Lanzani >POLIMI Una crescita senza senso In Italia e in Europa, come urbanisti siamo oggi chiamati a operare in un contesto radicalmente diverso da quello in cui abbiamo operato negli ultimi due secoli: non più una condizione di crescita dell’urbanizzazione sufficientemente correlata ad una crescita della popolazione (ormai spesso stazionaria) e tanto più del suo benessere (in prima istanza con il miglioramento delle condizioni abitative, ma anche per tutto il "secolo breve" dello spazio e dei servizi pubblici urbani); non più una crescita dell’urbanizzato che non genera spazi abbandonati e sottoutilizzati se non in quantità irrisorie e in regioni marginali e di abbandono; non più una crescita dell’urbanizzato necessariamente correlata alla crescita dell’occupazione, della produzione e dei redditi nelle città e nelle nazioni; infine non più una crescita dell’urbanizzato come condizione comune alla quasi totalità del sistema urbano. 166 L’economia "normale"2 – assieme all’urbanistica e all’architettura che l’accompagnano – continua a promuovere un ciclo di ulteriore crescita dell’urbanizzato e di nuove edificazioni e infrastrutturazioni. Incrementando come per altri "prodotti" la veloce obsolescenza dello stock già costruito attraverso la promozione di nuovi modelli insediativi – anche solo illusoriamente – green e smart, disinteressandosi del consumo delle risorse da utilizzare per produrre i nuovi prodotti in sostituzione di quelli precedenti, come pure disinteressandosi del destino dei rifiuti edificati e infrastrutturali lasciati al suolo (nonché dei suoli scartati). È anche per questo strutturale funzionamento dell’economia "normale" – e non solo per l’arresto della crescita demografica e/o la crisi economica di alcuni territori – che nel nostro lavoro ci troviamo sempre più spesso a confrontarci con spazi ed edifici dismessi e sottoutilizzati: vecchie fabbriche, ma anche nuovi box produttivi prefabbricati, i piani terra commerciali del tessuto compatto, ma anche centri commerciali velocemente invecchiati, sedimi ferroviari, distributori di carburanti, caserme, quartieri pubblici non più a norma ed edifici privati di sempre più difficile manutenzione. Seguendo le posizioni di Augé e Picon possiamo distinguere due famiglie di tali materiali.3 Una prima famiglia di "rovine": depositi fisici di un secolare processo di antropizzazione, pensati e prodotti generalmente come beni durevoli, oggi localizzati anche nelle aree di sviluppo e non necessariamente solo nelle aree "interne" o "deboli". Una seconda famiglia di "macerie": depositi fisici di una fase di urbanizzazione più recente che sono stati pensati e prodotti come beni che rispondono (a tempo) a domande emergenti (e spesso ricchi di materiali non metabolizzabili), localizzati quasi esclusivamente nelle aree di sviluppo a forte urbanizzazione. Economia ecologica, economia dei beni relazionali e urbanistica dell’ambiente e del paesaggio Un approccio all’urbanistica che possiamo definire "economico-ecologico" – sulla scia delle riflessioni di Roegen e Nebbia4 – muove proprio dai due elementi che abbiamo detto essere strutturalmente esclusi dall’economia "normale" e dalla prassi urbanistica ed architettonica dell’ultimo trentennio: "a monte" la riduzione del prelievo di risorse finite (suolo e materiali da costruzione), "a valle" il riciclo e/o lo smaltimento degli scarti. Non considera lo spazio come un puro supporto di beni semplici – o complessi che siano – ma in coerenza con alcune delle più originali 167 tradizioni di pensiero urbanistico e geografico come un ambiente e come un paesaggio (dove paesaggio è inteso in un’accezione più vicina alle posizioni di Berque e Besse,5 e non certo a quelle di Roger6 che consente agli architetti di far proprio il paesaggio senza nessun reale ripensamento del proprio lavoro). Un’urbanistica dell’ambiente e del paesaggio "congruente" a quelle riflessioni economiche (ma anche a quei settori dell’economia che si sono soffermate sul ruolo dei beni relazionali e sul capitale sociale sulla scia di Sen, Ostrom e Putnam) non opera quindi tanto attraverso la produzione di nuovi beni – quant’anche essi siano nelle loro prestazioni green o smart – ma muove piuttosto da ciò che c’è, dalla sua manutenzione, dalla sua cura e dal suo riuso e/o da una sostituzione "programmata" in sito dei manufatti abbandonati che ricicli e rigeneri parti, componenti o materiali di ciò a cui si sostituisce (e naturalmente i suoli di origine, rinaturalizzandoli, se diversamente ubicata). Ciò detto, in quanto urbanisti, esistono a nostro parere due principali modi di porsi "ecologicamente" nei riguardi di manufatti e suoli dismessi e abbandonati (e solo parzialmente correlati alla distinzione tra rovine e macerie) che dovremo sempre più sviluppare nei prossimi anni. Un primo modo vede questi oggetti come "prese" per un differente sviluppo, facendo proprie non solo le riflessioni più alte sul riuso degli anni Settanta-Ottanta7, ma anche quelle più recenti che prevedono usi temporanei in combinazione tra recupero di parte di edifici esistenti – o di suoli edificati – e infiltrazioni-aggiunte di nuovi elementi.8 In altri termini i suoli e i manufatti abbandonati non vanno osservati secondo la logica strumentale più consueta, ma piuttosto osservando il potenziale, la resilienza, l’inerzia, la "vita" in essi incorporata e le dinamiche d’uso che potrebbero indurre, generare e attivare9. Un secondo modo vede questi oggetti come "rifiuto", riconoscendo una fondamentale discontinuità realizzatasi nel corso del Novecento anche nel campo edile con il moltiplicarsi dei prodotti ricchi di sostanze di sintesi (come le plastiche) ignoti ai cicli ecologici e non metabolizzabili grazie alla azione di organismi capaci da fungere da saprofiti.10 Questi oggetti obsoleti vanno inglobati quando non inquinanti per quanto possibile nei nuovi manufatti che li sostituiscono, oppure vanno considerati come elementi da rimuovere dai suoli che occupano, per consentire dinamiche di rinaturalizzazione ed ecogenesi, e recuperando eventualmente altrove tanto la loro materia non inquinata – ad esempio attraverso un riciclo degli inerti 168 prodotti dalla demolizione – quanto il loro volume – attraverso un eventuale trasferimento dei diritti volumetrici in altri ambiti ed edifici.11 Nove punti di svolta nel fare urbanistica Facendo propria questa impostazione possiamo allora provare a segnalare nove punti di svolta nel fare urbanistica, che hanno ricadute sul fare architettura. 1. Nella politica economico-territoriale serve sempre meno interrogarsi sui provvedimenti da attuare per estendere lo "sviluppo" in un territorio secondo una prospettiva esogena economico-funzionalista – ivi inclusi usi del suolo e possibile infrastrutture – come serve sempre meno interrogarsi sull’esclusivo accompagnamento di dinamiche di sviluppo endogeno spesso ecologicamente distruttivo, secondo una prospettiva distrettualeterritorialista. Piuttosto occorre interrogarsi maggiormente su quale sviluppo sia compatibile con la manutenzione, la cura e il riuso innovativo e/o con il riciclo o lo smaltimento dei manufatti, in una logica di attrazione e attivazione di "economie" in cerca di particolari configurazioni del capitale territoriale. Muovendo dalle riflessioni di Antonio Calafati nella direzione di quelle di Giuseppe Dematteis, e dando forse qualche spazio non velleitario all’idea di una costruzione di una committenza secondo la prospettiva di Giancarlo De Carlo.12 2. Sono sempre meno utili nel nostro lavoro prospettive di dilatazione dell’urbanizzazione: dobbiamo al contrario concettualizzare lo spazio urbanizzato come un lago, come un sistema dinamico, aperto, in continua trasformazione, ma non più in crescita.13 Parallelamente dobbiamo pensare spazi che riescano a diventare urbani senza urbanizzazione, riconoscendo forme di mixité tra natura, ruralità e urbanità in ogni contesto di vita. In questa prospettiva vanno viste sia le riflessioni su reti verdi e campagne urbane, sia quelle sulle possibili condizioni di vita urbane in montagna e nelle "aree interne" che ne consentono il necessario presidio. 3. Nel fare urbanistica, l’individuazione di ambiti di espansione perde rilevanza rispetto non solo e non tanto all’individuazione degli ambiti di rigenerazione-ristrutturazione urbanistica, dentro una comunque tradizionale distinzione tra tessuti consolidati e aree di trasformazione (potremmo dire che oggi non esistono più tessuti consolidati). Ma perde rilevanza anche e soprattutto di fronte alla necessità d’individuazione di parti estese del territorio e del costruito ove regolare in forme radicalmente nuove un’este- 169 sa ma incrementale metamorfosi: di fronte all’individuazione di ambiti di densificazione (magari per l’ottima accessibilità) e di rarefazione (magari perché aree di esondazione, o di ricostruzione di forti conduzioni di ruralità-naturalità, o di insostenibile manutenzione delle reti sottoutilizzate), da gestire con strumenti di trasferimento delle volumetrie. 4. Nella regolamentazione delle trasformazione edilizie nello spazio già urbanizzato, diventano allora fondamentali due aspetti. In primo luogo la valutazione dell’impatto ecologico dell’operazione di sostituzione edilizia rispetto a quella di miglioramento dell’edificio esistente, con una valutazione energetica che consideri non solo il funzionamento dell’edificio ma l’intero ciclo (dal prelievo di risorse finite allo smaltimento dei detriti da demolizione). In secondo luogo l’incontro tra la normativa tecnicoecologica e quella architettonico-paesaggistica nel pensare traiettorie di miglioramento ecologiche plurali, che rafforzino la presenza di ambienti di vita e di lavoro differenziati. In tutti i casi, questi due aspetti spingono a un ripensamento delle tradizionali classi d’intervento edilizio e alla critica di alcune loro recenti ridefinizioni (ad esempio la ridefinizione della ristrutturazione fatta nel testo unico dell’edilizia) valorizzando le possibilità di recuperi parziali abbinati a inserimenti di nuovi elementi e in relazione all’eventuale trattamento/riciclo in loco dei detriti da demolizione. 5. Lo strumento della perequazione urbanistica perde rilevanza – anzi oggi rischia di alimentare una crescita senza senso – o perlomeno va radicalmente ripensato. Da un lato esso va riconcettualizzato in riferimento alle dinamiche di trasferimento delle volumetrie reali (nelle aree di origine e in quelle di destinazione), per cui non si costruisce più solo "in cambio di aree", ma anche a condizione che si rinaturalizzino aree ed edifici abbandonati altrove. Dall’altro lato l’acquisizione di aree dove disegnare corridoi verdi, parchi e ambiti di agricoltura urbana può avvenire attraverso la cessione di aree ubicate altrove in occasione di radicali ristrutturazioni urbanistiche – una forma cessione che si configura come condizione di fattibilità e non come premio volumetrico da fare ricadere sulle stesse – come attraverso l’alienazione di patrimoni edificati pubblici non indisponibili (in questa prospettiva il patrimonio va alienato non per "far cassa", ma per rinnovare il capitale fisso sociale anche attraverso l’acquisizione di aree di rilevanza pubblica strategica). 6. Nel promuovere un efficace metabolismo urbano perde rilevanza l’insieme dei premi volumetrici per come oggi sono intesi e utilizzati. Da un 170 lato, per disincentivare nuove urbanizzazioni è necessario tornare a porre vincoli più stringenti, aumentare i costi relativi con compensazioni ambientali e/o vincolarli alla rigenerazione di suoli edificati o degradati. Sul versante opposto, per incentivare le operazioni di trasformazione sull’urbanizzato esistente è necessario: I. introdurre più marcate differenziazioni negli oneri di urbanizzazione, anche in relazione alle nuove tipologia di intervento sul costruito (in ragione del bilancio ecologico); II. introdurre una tassazione sugli immobili differenziata, in relazione all’uso del patrimonio (oggi solo parzialmente presente); III. introdurre esenzioni fiscali temporanee non più in modo indifferenziato per tutto il nuovo costruito, ma per i soli interventi di rinnovo edilizio; IV. introdurre agevolazioni attraverso normative ambientali e di sicurezza differenziate per forme d’uso temporaneo e per azioni parziali di miglioramento. 7. Nella definizione di dotazioni, infrastrutture, attrezzature urbane è sempre più necessario superare normative generalizzanti ed omogenee, e pensare per contro a una pluralizzazione dei modelli urbanistico-infrastrutturali di mobilità, di approvvigionamento energetico, di trattamento delle acque e di smaltimento dei rifiuti nei differenti territori – anche in relazione alle scelte di densificazione e rarefazione degli stessi, già richiamate. Ad esempio la ristrutturazione edilizia o l’edificazione in zone rade può essere subordinata all’adozione di severe misure di autosufficienza nei cicli dell’energia, del trattamento delle acque e dei rifiuti. Per contro, le operazioni edilizie attuate come densificazione in un’area già densa potrebbero essere subordinate all’allaccio a una rete di teleriscaldamento, al convenzionamento con parcheggi esistenti e/o al finanziamento di una rete di trasporto collettivo ad alta capacità. 8. Nella pianificazione dei servizi e nel progetto dello spazio pubblico dovremo più spesso occuparci della manutenzione straordinaria delle attrezzature collettive, in termini non solo tecnologico-ingegneristici, ma anche e soprattutto come occasione di riforma del paesaggio urbano e del modo di funzionamento della città entro forme di progetto "multifunzionali" e "integrate". Analogamente, dovremmo concepire il disegno dello spazio aperto vegetale non solo nei termini di uno spazio collettivo low cost di cui valutare il ruolo indiretto nella promozione dello sviluppo e del benessere, ma anche in relazione alle forme di welfare familiare che vi si possono sviluppare (articolando la nozione di verde privato), ai più specifici servizi ecosistemici forniti (ossia in relazione alle esternalità positive 171 da esse prodotte), alle economie che su questi spazi si possono attivare (ossia in relazione alle possibili nuove produzioni agroforestali attivabili a fini energetici e/o alimentari). 9. Infine, occorre promuovere un ripensamento radicale della categoria d’intervento del progetto urbano, per come lo abbiamo conosciuto attraverso la ricca produzione disciplinare e le numerose esperienze di rigenerazione che le città europee hanno ospitato già dagli anni Settanta.14 Sempre meno progetti che debbono concludersi, presupponendo una simultaneità di capitali, domanda immobiliare e gestione politica, ma progetti che possono interrompersi e/o risultare parziali e provvisori, in un territorio da regolare immaginandolo poroso, ricco di ambiti sottoutilizzati, e non continuo e isotropo15. Note 1. Le note seguenti sviluppano alcuni aspetti di una più ampia riflessione collettiva sul progetto di riciclo dell’urbanizzato in Italia svolta con C. Merlini, C. Mattioli e F. Zanfi. Si rimanda al contributo di F. Zanfi e agli altri due "manifesti" contenuti nel presente volume. 2. Con l’espressione "normale" si fa riferimento "alla Kuhn" a un paradigma scientifico consolidato e standardizzato, che nel pensiero economico corrisponde a una sorta di sintesi tra l’economia neoclassica e gli assunti della teoria keynesiana ad essa non incompatibili, codificata in ogni manuale di micro e macroeconomia e nel discorso economico ricorrente. 3. M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino, 2004; A. Picon, Tra utopia e ruggine. Paesaggi dell’ingegneria dal Settecento a oggi, a cura di E. Piccoli, Allemandi, Torino 2006. 4. G. Roegen, Bioeconomia, Verso un’altra 172 economia ecologicamente e socialmente sostenibile, Bollati Boringhieri, Torino 2003. G. Nebbia, Le merci e i valori. Per una critica ecologica al Capitalismo, Jaca Book, Milano 2002. Si sottolinea che alcune riflessioni dell’economia del benessere di Pigou e keynesiane anticipino non poche considerazioni della bioeconomia di Rogen. E si osservi come i temi ecologici siano centrali nella tradizione dell’economia agraria classica (istituzionalista e territorialista). 5. A. Berque, La Pensée paysagère, Archibooks, Paris 2008; J. M. Besse, Vedere la terra. Sei saggi sul paesaggio e la geografia, Bruno Mondadori, Milano 2008 (2000). Sulla stessa scia, in Italia, le riflessioni di G. Dematteis e M. Quaini. 6. A. Roger, Breve trattato sul paesaggio, Sellerio, Palermo 2008. 7. Ad esempio quelle raccolte in AA.VV., Riuso e riqualificazione edilizia negli anni ottanta, Franco Angeli, Milano 1981. 8. F. Haydn e R. Temel (ed.), Temporary urban spaces. Concepts for the use of city spaces, Birkhäuser, Basel-Boston-Berlin 2006; I. Inti e V. Inguaggiato (a cura di), Riuso temporaneo, in «Territorio», n. 56, pp. 14-94, 2011; P. Oswalt, K. Overmeyer e P. Misselwitz, Urban catalyst: the power of temporary use, DOM, Berlin 2013. 9. R. Bodei, La vita delle cose, Laterza, Bari, 2008. Si veda anche F. Jullien, Trattato dell’efficacia, Einaudi, Torino 1998 (1997). 10. K. Lynch, Deperire, Cuen, Napoli, 1992 (1990); G. Nebbia, cit., AA.VV. No Waste, in «PianoProgetto Città» n. 27-28, 2014. 11. A. Lanzani, C. Merlini e F. Zanfi, Quando «un nuovo ciclo di vita» non si dà. Fenomenologia dello spazio abbandonato e prospettive per il progetto urbanistico oltre il paradigma del riuso, in «Archivio di Studi Urbani e Re- gionali» n. 109, 2014. 12. A. Calafati, Economie in cerca di città. La questione urbana in Italia, Donzelli, Roma, 2010; G. Dematteis, Montanari per scelta. Indizi di rinascita nella montagna piemontese, Franco Angeli, Milano, 2011; G. De Carlo, L’architettura della partecipazione, a cura di S. Marini, Quodlibet, Macerata 2013. 13. A. Lanzani, In cammino nel paesaggio. Questioni di geografia e urbanistica, Carocci, Roma, 2011. L’immagine del lago è ripresa da G. Ruffolo, Lo specchio del diavolo, Einaudi, Torino 2006. 14. V. Gregotti, Identità e crisi dell’architettura europea, Einaudi, Torino 1999; AA.VV., Il disegno degli spazi aperti, in «Casabella», n. 597-598, 1993, doppio numero monografico; M. Solà Morales, Progettare città, in «Lotus Quaderni», n. 23, 1999, a cura di M. Zardini. 15. In questa direzione le riflessioni di Clément e di Desvigne assumono un significato più generale per l’urbanistica, e consentono un ripensamento e una radicalizzazione della stessa idea di progetto di suolo formulata da B. Secchi nel corso degli anni Ottanta. 173 Progetto e rifiuti Rosario Pavia, Matteo di Venosa >UNICH I rifiuti producono danni ambientali ed economici. Trasformarli in risorsa richiede impegno civile e politico ma, soprattutto, un ambizioso progetto culturale. I rifiuti da spazio materico da nascondere e allontanare devono diventare parte visibile della città e del territorio. Le gestione dei rifiuti è una rete che deve integrarsi con le altre reti della sostenibilità (reti energetiche, dell’informazione, della mobilità, della raccolta e smaltimento delle acque, della sicurezza urbana) e produrre nuovi valori di qualità, nuovi suoli e spazi pubblici per la città contemporanea. Le brevi note che seguono raccolgono alcuni passaggi chiave del progetto di ricerca che si è avviato a Pescara nell’ambito del programma Re-cycle Italy1. I rifiuti come (nuova) questione ambientale I rifiuti, un tempo integrati nei cicli di vita dei territori e delle comunità, oggi non sono più assimilati e metabolizzati dall’ambiente. Spesso la loro 174 produzione supera la capacità di gestirli in modo efficace e sicuro. Secondo il Rapporto dell’International Solid Waste Association (2012) ogni anno il nostro Pianeta produce circa 4 miliardi di tonnellate di rifiuti (di cui circa il 50% di rifiuti solidi urbani). Il dato è preoccupante soprattutto se si considera che oltre la metà della popolazione mondiale (circa 3,5 miliardi di persone) non ha accesso ai più elementari servizi di gestione dei rifiuti che vengono, di conseguenza, prodotti e abbandonati con danni irreparabili sotto l’aspetto ambientale e sanitario. La questione dei rifiuti coincide con l’emergenza ambientale e con un modello di sviluppo insostenibile: energivoro, socialmente discriminante, che consuma suolo incurante dei suoi equilibri geo-ambientali. Un modello che altera il rapporto tra uomo ed ambiente nei termini di reciproca capacità di adattamento e di sopravvivenza. Il tema dei rifiuti assume una dimensione pervasiva, coinvolge l’intero Pianeta minacciandone la resilienza, la biodiversità e la capacità di autoproduzione. I rifiuti contribuiscono al surriscaldamento del pianeta, hanno effetti negativi sulla salute umana, sulla qualità dell’aria, delle acque e dei suoli2. Per la loro influenza sull’ecosistema, sulla salute e qualità delle città e del paesaggio, i rifiuti vanno intesi come un bene comune attraverso cui si realizza un nuovo diritto all’ambiente. La gestione dei rifiuti, soprattutto quando si associa alle pratiche dell’illegalità, ha effetti sul grado di vulnerabilità dei sistemi territoriali. Tutto ciò genera allarme e insicurezza sociale accentuando quei processi di esclusione e segregazione di comunità e territori. La questione dei rifiuti rientra così nell’emergenza della questione sociale. I rifiuti come risorsa I rifiuti, da danno ambientale ed economico possono diventare una risorsa in grado di orientare nuove forme di sviluppo sostenibile delle città e del territorio. Una risorsa, non solo economica ed occupazionale3, ma anche ambientale e paesaggistica le cui potenzialità morfogenetiche e relazionali qualificano i processi di trasformazione dei sistemi territoriali. Tali ipotesi di lavoro intendono riscattare il settorialismo che molto spesso connota gli approcci correnti alla pianificazione e gestione dei rifiuti (il più delle volte affidati a procedure specializzate e modelli standardizzati), per affermare al contrario la necessità di una maggiore integrazione tra pianificazione dei rifiuti e politiche territoriali, tra gestione dei rifiuti e pia- 175 nificazione energetica ed ambientale. In modo forse più ambizioso, la ricerca avviata a Pescara propone il superamento di una nozione di rifiuti come risorsa che emerge dal recente dibattito sulla green economy e sulle smart cities in cui si sottolineano le molteplici potenzialità riutilizzative dei rifiuti nei campi dell’energia, della innovazione tecnologica, della produzione di materiali… Riportare il tema dei rifiuti, all’interno della piano e del progetto significa assumere una visione condivisa di sviluppo della città e del territorio che faccia leva sui rifiuti e sulla loro integrazione con le altre reti della sostenibilità (in particolare, le reti dell’acqua, energia, mobilità e sicurezza urbana), per innescare un processo di riequilibrio ambientale e di rigenerazione ecologica del territorio. Non si tratta solo di promuovere una gestione più coordinata dei diversi cicli di vita della città per rendere più sostenibile il funzionamento dell’organismo urbano, quanto di esplorare attraverso progetti di rete ed opere di qualità, le inedite potenzialità configurative che tale modello di funzionamento è in grado di esprimere. Rifiuti e filiere La gestione dei rifiuti risponde a complessi meccanismi di funzionamento interno. Le differenti logistiche si specializzano rispetto alle tipologie dei prodotti. Le razionalità di filiera orientano scelte e processi localizzativi che sfuggono a qualsiasi intenzionalità progettuale. Il riconoscimento di tale complessità ha richiesto, sin dalle fasi di avvio della ricerca, un notevole impegno descrittivo. Parlando di rifiuti, si è sentito il bisogno di identificare, classificare, costruire repertori. Le reti dei rifiuti non sono adeguatamente rappresentate nella cartografia ufficiale. La loro ingombrante assenza testimonia il disinteresse del piano e del progetto. Un obiettivo della ricerca è tentare di rappresentare queste reti invisibili. Le prime mappe fanno emergere una inedita geografia topologica e relazionale che soppianta ogni retorica cartografica: flussi, grafi, punti, campi di relazione eterogenei e variabili. Le reti dei rifiuti si sovrappongono ad altri territori di scarto: tessuti storici abbandonati, aree produttive dismesse, siti inquinati ed insicuri. Territori fragili, terre mobili, anch’essi attendono un progetto di riciclo e di rigenerazione ambientale. L’unità di ricerca pescarese si occupa, in modo particolare, di Rifiuti Solidi Urbani (RSU, codice CER, Allegato D, Dlgs n. 152/06)4. L’Abruzzo è il campo 176 di osservazione e di sperimentazione. Lo studio delle logistiche dei rifiuti ha messo in evidenza la nozione di filiera. La filiera è un ingranaggio di una catena di operazioni che coinvolgono l’individuo, la società, la città ed il territorio. La filiera è un processo che inizia nell’ambito residenziale, prosegue con il conferimento delle diverse frazioni di rifiuti in strada o in depositi temporanei di quartieri (isole ecologiche); di qui le frazioni (vetro, carta, imballaggi…) vengono trasferiti in centri specializzati (Centri di Trattamento Meccanico Biologico, CTMB) per l’avvio al riciclo. Poi i prodotti selezionati vengono avviati verso le aziende produttrici. Un nodo importante della filiera è costituito dalla stazione ecologica per la raccolta dei rifiuti ingombranti. L’analisi delle filiere, se da un alto mette in risalto la complessità dei meccanismi organizzativi e gestionali, dall’altro ne evidenzia la natura settoriale ed autoreferenziale. La filiera è una macchina banale che si accosta e si sovrappone ai territori, che non si integra con la città e con i paesaggi, con i loro cicli e metabolismi. Gli impianti di filiera sono opere settoriali e misconosciute. Le filiere, spesso, sono reti invisibili. Un territorio di rifiuti La nozione di metabolismo urbano permette di inquadrare la questione dei rifiuti in un’accezione ancora più ampia. Il tema dei rifiuti, infatti, non si esaurisce con la gestione della spazzatura. I rifiuti non sono altro che l’esito (lo scarto) di un processo di produzione e di consumo. Anche la città ed il territorio con i loro processi di funzionamento e di trasformazione producono scarti e rifiuti. Sono i paesaggi dei drosscape, delle cave dismesse, delle aree inquinate, delle infrastrutture realizzate e mai utilizzate. Sono, inoltre, i territori abbandonati perché insicuri dal punto di vista geo-ambientale: scarpate e versanti franosi, aree in erosione, zone esondabili e geologicamente attive. Linee di faglia, pieghe e fratture – terre mobili – restituiscono la complessità della geografia tettonica del nostro Paese e permettono, nel contempo, di valutare il grado di instabilità e di pericolosità dei fenomeni naturali ad esse associati. L’elevata vulnerabilità ambientale del nostro Paese produce territori fragili ed insicuri; paesaggi degradati ed abbandonati; anch’essi diventano rifiuti e scarti. I territori fragili vanno intesi come geografie complesse nelle quali i luoghi abbandonati si affiancano e si sovrappongono alla struttura ambientale instabile e dissestata. 177 L’interpretazione estensiva di rifiuti articola ed arricchisce la rappresentazione delle mappa dei rifiuti; quest’ultima tende ad articolarsi in strati e livelli tematici. Ogni strato raccoglie scarti e rifiuti affini per tipologia di prodotti e modalità di gestione. Nei differenti livello è possibile osservare il funzionamento di filiera ma anche le relazioni che queste stabiliscono con contesti paesaggistici attraversati. La rappresentazione permette inoltre di leggere le relazioni trasversali tra i vari strati: le reti dei rifiuti solidi urbani intersecano quelle di gestione delle macerie da crollo e da demolizione; queste ultime si intrecciano con i paesaggi fragili, insicuri ed abbandonati… I rifiuti come infrastrutture ambientali La gestione dei rifiuti incide direttamente sulla qualità del territorio, del paesaggio, della città, tuttavia continua ad essere una attività settoriale, al di fuori del piano (territoriale urbanistico) e del progetto di architettura. La questione dei rifiuti è interna alla problematica ambientale ed energetica; nello stesso tempo è il risultato di processi di produzione e di consumo. Le nuove istanze ambientali impongono una profonda trasformazione nei modi di produzione, di consumo, di gestione dei rifiuti e di produzione dell’energia (terza rivoluzione industriale). Il progetto dovrà dare forma e qualità ad un nuovo rapporto tra reti naturali e reti artificiali. Non è solo un problema di integrazione ma di sovrapposizione, di regolazione dei reciproci metabolismi e cicli di vita, di strutturazione dello spazio, di visione condivisa di sviluppo. La ricerca sviluppa la nozione di infrastruttura ambientale. La gestione dei rifiuti rappresenta una rete all’interno delle infrastrutture ambientali. È necessario immaginare territori attraversati da reti infrastrutturali e ambientali insieme. Reti artificiali che si naturalizzano e reti naturali che si rafforzano attraverso la scienza e la tecnologia. Un sistema di grandi reti interconnesse tra loro e a quelle minori dei territori locali. Per l’urbanistica e l’architettura si impone una profonda revisione dei propri statuti disciplinari. È la forma del progetto che deve cambiare ricercando un nuovo equilibrio con la natura, con i suoi metabolismi, con le sue leggi e con le sue reti vitali. Il progetto deve incorporare i processi metabolici degli oggetti e degli spazi sviluppando le suggestioni che provengono dal design strategico e della blue economy. Espressioni come zero rifiuti, dalla culla alla culla, sono obiettivi che ri- 178 chiedono un cambio di paradigma, nella progettazione e nella produzione di manufatti, nello smaltimento degli scarti e nel loro riciclo. La questione dei rifiuti impone una visione di insieme. Esige che il prodotto sia già pensato per essere riciclato o riassorbito dall’ambiente. Oggi siamo solo all’inizio, il consumo e il processo di produzione rilasciano rifiuti che debbono essere selezionati e trattati prima di poter essere riciclati. Per questo è importante gestire con efficienza le loro filiere, intenderle come infrastrutture ambientali i cui flussi e impianti si distendono sul territorio aumentandone la resilienza e la qualità. Note 1. L’unità di ricerca di Pescara, coordinata dal prof. Rosario Pavia, è composta da Stefania Camplone, Antonio Clemente, Matteo di Venosa e Raffaella Massacesi. 2. La gestione dei rifiuti contribuisce dal 3 al 5% alle emissioni di gas serra del Pianeta. 3. Nel 2008, una ricerca della Commissione europea dal titolo Getting gold from garbage. How some Members States are making waste a resource ha stimato il valore del settore dei rifiuti in 148 miliardi di euro e in 2 milioni di addetti. 4. I Rifiuti Solidi Urbani rappresentano circa il 20% del totale dei rifiuti prodotti ogni anno nel nostro Paese (160 milioni di tonnellate nel 2010). 179 Il paesaggio che resiste: Re-cycle come attitudine Cristina Sciarrone >UNIRC Tra l’immagine della periferia urbana e quella del tumore esistono evidenti analogie: in entrambi i casi vi era uno spazio ancora sano in cui erano state realizzate una molteplicità di strutture molto diverse anche se sottilmente differenziate fra loro e reciprocamente complementari, il cui saggio equilibrio poggia su un bagaglio di informazioni raccolte nel corso di un lungo sviluppo storico. Konrad Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà Re-cycle può essere interpretato come un’attitudine economico-ecologica che, rappresentando una forma di resistenza a fenomeni di diffusione urbana a carattere distruttivo, propone un’alternativa per territori difficili. Il fenomeno di esplosione urbana può essere descritto, riprendendo la definizione di Alan Berger, attraverso l’accostamento al termine “città” dell’aggettivo “orizzontale”, che rimanda, da un lato, ad un’organizzazione 180 spaziale sviluppata secondo una direzione prevalente, e dall’altro ad un implicito riferimento all’idea di superficie.1 L’orizzontalità, quindi, rappresenta una caratteristica intrinseca del fenomeno urbano contemporaneo e ciò induce ad attribuire al paesaggio il ruolo di sistema di mediazione tra l’espansione pervasiva del tessuto edificato e la conseguente frammentazione di quello agricolo. Franco Zagari utilizza l’espressione «paesaggi di città non città»2 in riferimento a quei luoghi liminari dell’urbano contemporaneo che appaiono come spazi di transizione, territori fertili per il proliferare di stati di tensione prodotti dalla presenza simultanea di situazioni, fenomeni e processi differenti e talvolta contraddittori. All’interno di queste zone d’instabilità lo scarto emerge come prodotto rifiutato della città orizzontale, delineando una nuova categoria di paesaggio descrivibile attraverso concetti di residualità, abbandono e rifiuto. Zygmunt Bauman3 spiega che qualsiasi operazione ordinatrice dello spazio inevitabilmente produce scarti, luoghi ambivalenti in cui allo stato di abbandono si contrappone un senso di attesa su cui occorre fare leva, riconoscendovi la prefigurazione di possibilità future. In questi contesti marginali della città contemporanea, il concetto di Recycle rappresenta una vera e propria pratica di cura in grado di rispondere a quel fenomeno di antropizzazione malata che Eugenio Turri descrive come un’escrescenza,4 all’interno del quale la presenza di spazi di scarto si configura come la principale risorsa, in virtù dell’alto potenziale di stimoli vitali che ad essi si associa. Il ricorso alla metafora della complessità consente una decodificazione efficace dei territori urbani di transizione che utilizza come riferimento il paesaggio in quanto parte resistente all’interno del fenomeno della città orizzontale; emergono quindi alcune proprietà dei sistemi complessi, quali non linearità, autorganizzazione, evoluzione e relazione tra le parti che spiegano e motivano quello che apparentemente risulta essere uno stato caotico ed illogico. La resistenza alla diffusione urbana orizzontale si manifesta attraverso le field conditions teorizzate da Stan Allen5,che alludono a rapporti di interscambio tra singoli frammenti di un’ipotetica matrice composta dagli spazi aperti del sistema urbano e che tengono conto di una fenomenologia attiva e vitale di cui occorre comprendere le ragioni. Il riferimento alla complessità consente quindi di spiegare alcuni comportamenti spontanei attribuendovi il ruolo di processi autorganizzativi 181 intrinseci al sistema stesso, capaci di agire come forme di adattamento alle perturbazioni esterne. Individuando nella matrice degli spazi aperti la parte più resistente del sistema-paesaggio si vuole sottolineare l’importanza di valori quali diversità e interazioni tra le parti. Ciò permette di riconoscere la presenza di frammenti (spazi) posti in fasi differenti del proprio ciclo vitale (a causa di fenomeni di natura diversa ma legati alla progressiva urbanizzazione del territorio) che rappresentano la principale fonte di disequilibrio all’interno del sistema stesso. La compresenza simultanea di condizioni spaziotemporali differenti crea stati di tensione che sfociano in veri e propri corto circuiti in grado di catalizzare forze vitali proprio in virtù di quella capacità di resilienza che è tipica non solo dei sistemi complessi ma, con riferimento al campo dell’ecologia, di qualsiasi ecosistema aperto.Gli scarti del paesaggio diventano così i luoghi in cui si manifestano in maniera più rilevante due attitudini che rappresentano forme di autorganizzazione del sistema, fenomeni di opposizione al dilagare dell’urbano e delle sue dinamiche. Tali attitudini spontanee si descrivono attraverso concetti di resistenza e permanenza. La resistenza rappresenta la capacità del sistema-paesaggio di generare una contrapposizione a disturbi esterni per promuovere la sopravvivenza di alcune caratteristiche (ambientali, sociali, spaziali) che altrimenti andrebbero perdute. Il modo attraverso cui il sistema stesso garantisce tale opposizione è rappresentato dalla seconda attitudine, la permanenza, la quale si spiega come una continua riproposizione di segni, usi, modalità appartenenti alla geografia del luogo.6 Queste attitudini altro non sono che l’espressione di una comunità creativa e reattiva, che opera all’interno dei paesaggi scartati dalla pianificazione ufficiale. In virtù del loro essere al di fuori del controllo formalmente esercitato, tali luoghi palesano una maggiore suscettibilità al proliferare di operazioni spontanee in grado di innescare nuovi cicli vitali. Tali comportamenti risultano maggiormente evidenti in quei contesti dotati di un certo grado di diversità, nei quali vi è la possibilità di attingere a un bagaglio d’informazioni costruitosi nel tempo, che permette di selezionare le soluzioni più efficaci per rispondere alle esigenze attuali.7 Per tale motivo l’eterogeneità che contraddistingue i luoghi di margine della città orizzontale non può essere interpretata come fonte di tensione bensì rappresenta un fattore positivo, capace di fornire materia prima per lo sviluppo 182 di pratiche di riciclo. Re-cycle può quindi essere interpretato come un’attitudine (ossia una modalità comportamentale auto-indotta) che accoglie concettualmente ed operativamente l’idea di resistenza e permanenza all’interno di un sistema – paesaggio eterogeneo e complesso, posto ai margini della città compatta ed espressione della diffusione orizzontale del tessuto edificato. La comunità che vive quotidianamente l’instabilità e i dinamismi che si verificano in questi luoghi diventa il tramite attraverso cui si esprime l’attitudine al Re-cycle, che rappresenta, quindi, la manifestazione di una capacità resiliente, oppositiva e creativa. Questa interviene all’interno delle maglie aperte della matrice, in corrispondenza di cortocircuiti generati da fattori differenti, e determina la possibilità di innescarvi nuovi processi fortemente radicati e contestualizzati, grazie all’utilizzo di dispositivi appartenenti alla stratificazione del luogo. Si delinea quindi un’idea di Re-cycle che racchiude al suo interno una doppia natura, economica ed ecologica. Re-cycle si può interpretare come un’attitudine economica in quanto espressione di capacità creative interne al sistema che possono essere descritte come forme di sopravvivenza sociale nei confronti di strategie di marginalizzazione. Tali capacità creative rappresentano l’esercizio di quel diritto alla libertà più volte auspicato da Ivan Illich come opposizione al dilagare delle logiche di produzione a carattere consumistico.8 Assecondare e promuovere certe pratiche di riciclo spontanee in contesti marginali significa assegnare valore a processi attivati dal basso che permettono di pensare al paesaggio in un’ottica di decrescita. L’idea del riciclo come strumento attraverso il quale la comunità di margine produce fenomeni di riattivazione di paesaggi dello scarto rimanda alla possibilità di restituire la cura delle zone più difficili del territorio alle popolazioni locali, escludendo progressivamente le diverse parti della matrice degli spazi aperti dalle logiche di mercato e favorendo lo sviluppo di una linea di gestione del territorio basata su identità ed interrelazioni forti.9 Si può però riconoscere al Re-cycle anche una natura ecologica, che risiede nella sua capacità di rappresentare comportamenti e proprietà tipici degli ecosistemi: resistenza e permanenza, infatti, rimandano al concetto di resilienza che si spiega come un adattamento spontaneo che il sistema stesso produce per ritrovare uno stato di equilibrio in seguito a un fenomeno di disturbo. 183 Il parallelismo tra Re-cycle e resilienza permette quindi di utilizzare un paradigma ecologico che si rivela estremamente utile ai fini di una comprensione dei diversi fenomeni che si verificano all’interno del sistemapaesaggio della città orizzontale. Ciò fornisce un nuovo strumento interpretativo necessario ai fini di una decodifica dei caratteri più complessi dell’urbano contemporaneo.10 Re-cycle quindi esprime una doppia natura, economico–ecologica, e diventa uno strumento attraverso il quale si delinea la possibilità di ottenere la massima efficacia con il minimo sforzo. Nel rintracciare il valore insito negli scarti e, più in generale, nella geografia complessa della città orizzontale, esso rappresenta una strategia operativa capace di individuare il potenziale della situazione più predisposto ad indirizzare l’evoluzione del sistema verso condizioni favorevoli.11 Nello sviluppo spontaneo e autoprodotto dell’attitudine al Re-cycle nei luoghi urbani di transizione e marginalità il ruolo della comunità è fondamentale. Essa rappresenta quella forza resistente che promuove la permanenza di usi, segni, comportamenti capaci di innescare processi virtuosi di recupero e cura del paesaggio locale, nonostante le continue pressioni e i perenni stravolgimenti prodotti dall’espansione del tessuto urbano. Le possibilità offerte da un’interpretazione economico-ecologica del Recycle sono diverse. Resistenza e permanenza sono modalità comportamentali autoprodotte che permettono di escludere dalla logica consumistica gli spazi aperti compromessi ed i relativi valori potenziali presenti nel territorio della città orizzontale, promuovendo ed accompagnando processi innescati dalle comunità locali, vera e propria memoria storica del paesaggio, in grado di tramandarne le proprietà stratificate e consolidate nel tempo. Inoltre tale comportamento permette di promuovere una gestione del paesaggio che si basa su un rapporto dialettico tra evoluzione (intesa come proiezione verso il futuro ed adattamento nel corso del tempo) e permanenza (interpretata come riproposizione di valori considerati caratterizzanti ed efficaci). La forza adattiva del sistema, da cui dipende la capacità dello stesso di evolvere, risulta come conseguenza della ricchezza e della diversità che lo contraddistinguono, proprietà derivanti, a loro volta, da un continuo stratificarsi e riproporsi, nel corso del tempo, di segni e modalità consolidati. Infine, l’efficacia del Re-cycle, in quanto processo economico-ecologico, si 184 rivela in tutta la sua evidenza se lo si interpreta come espressione chiara ed inequivocabile dell’esistenza di forze sociali reazionarie e vigorose, in grado di agire autonomamente tra le maglie lasciate libere nella matrice degli spazi aperti ai margini dell’urbano per promuovere il riciclo di pratiche, segni, materiali che altrimenti andrebbero incontro all’estinzione, fagocitati dal dilagante fenomeno urbano. Note 1. «The types of development found in sprawling areas mainly consist of horizontally oriented landscape planes and surfaces.» A. Berger, Drosscape. Wasting land in urban America, Princeton Architectural Press, New York 2006. 2. G. Laganà (a cura di), Paesaggi di città non città. Franco Zagari, quattro progetti di ricerca, Libria, Melfi 2012. 3. «Non può esservi ordine senza caos […] Caos, disordine, illegalità presagiscono le infinite possibilità e l’illimitatezza dell’inclusione; l’ordine rappresenta i limiti e la finitezza. In uno spazio ordinato, non tutto può succedere.» Z. Bauman, Vite di scarto, Laterza, Roma 2005. 4. E. Turri, La megalopoli padana, Marsilio, Venezia 2000. 5. S. Allen, From objects to fields, in «AD» profile 127, vol. 67, n. 5/6, 1997. 6. Il geografo francese Roger Brunet parla di conformazione geografica dei luoghi come risultato della combinazione di una serie di caratteri ripetuti che, però, nel loro intersecarsi in maniera ogni volta originale danno vita a un luogo con proprie caratteristiche identitarie. R. Brunet, Per una critica ragionata e razionale della rappresentazione dei luoghi, in G. Dematteis, F. Ferlaino (a cura di), Il mondo e i luoghi: geografie dell’identità e del cambiamento, IRES Istituto di Ricerche Economico-sociali del Piemonte, Torino 2003. 7. «Biodiversity could be considered analogous to a library of information (some recorded long ago, and some only now being written) that provides not only a wide range of possible pathways for the future development of life but also learned repertoires for responding to environmental change and disturbance.» N. M. Lister, Sustainable Large Parks: ecological design or designed ecology?, in J. Czerniak, G. Hargreaves (ed.), Large Parks, Princeton Architectural Press, New York 2007. 8. «La crescita industriale produce la versione moderna della povertà. Questo tipo di povertà fa la sua apparizione quando l'intensità della dipendenza dal mercato arriva a una certa soglia. (…) Essa non fa altro che privare le sue vittime della libertà e del potere di agire autonomamente, di vivere in maniera creativa; le riduce a sopravvivere grazie al fatto di essere inserite in relazioni di mercato.» I. Illich, Disoccupazione creativa, Boroli, Milano 2005. 9. «Per fare diventare il paesaggio un punto di forza delle ragioni della decrescita 185 è necessario […] decidere di "prenderlo in cura" (governarlo e gestirlo) in forme e modalità efficienti e condivise. […] La città (urbs e civica, assieme) decrescente è tutto questo. Un grande movimento dal basso per sottrarre paesaggio-ambienteterritorio-luoghi alla logica economica del mercato.» P. Cacciari, Paesaggio e decrescita, presentato al convegno Il tramonto dell’Occidente, Cagliari, novembre 2012. 10. J. Corner, Espansioni urbane orizzontali e densità nel paesaggio emergente, in «Lotus» n. 110, 2003. 11. F. Jullien, Trattato dell’efficacia, Giulio Einaudi, Torino 1998. 186 Blue (+) Green settle-ments. Towards a new land/water network of drosscapes Sabrina Sposito >UNINA La città contemporanea è il luogo in cui si manifestano con evidenza una serie di paradossi che, agendo per giustapposizione e contaminazione di antinomie, moltiplicano le condizioni di ibridazione e imprevedibilità nell’ambiente urbano, ribaltando principi e strutture concettuali fondativi del pensiero tradizionale. La duplice esistenza delle città, da giganti urbani e da frammenti a bassa definizione, è il paradosso sul quale si è costruita la post-modernità, supportata dal surplus tecnologico e dal mito dell’infrastruttura come veicolo di crescita illimitata. Il mutamento nella fisicità e nelle densità relazionali ha generato organismi eterogenei, un amalgama di città esplose e saldate in più punti che, diramandosi nei territori, incrociano altri insiemi urbanizzati. L’espansione è avvenuta in tutte le direzioni contro ogni tentativo di teorizzazione e contenimento, restituendoci un complesso "mosaico territoriale"1 «in cui l’umanità evolve e si specializza in stretta relazione all’am- 187 188 biente, a sua volta modificato da questo reciproco processo di adattamento naturale e culturale, come da tempo ci aiuta a vedere l’ecologia»2. Sostenuta dal meccanismo convulso attraverso cui la città si è progressivamente diluita nella natura, la comparsa del frammento ha segnato la rottura delle continuità geografiche e la coabitazione di territori diversi, influenzando e invadendo ogni aspetto della vita umana, dall’organizzazione spaziale, al rapporto con il mondo materiale, ai legami economici e sociali. L’intero processo evolutivo urbano dalle origini ad oggi, difatti, «si apre con una città che era simbolicamente un mondo e si conclude con un mondo che è diventato per molti aspetti pratici una città»3, raccontando di un’inversione di rotta epocale. La frammentazione ha modificato le compagini fisiche e le caratteristiche antropomorfiche della città, determinandone la polverizzazione morfologica e funzionale entro una nebulosa, di cui il centro storico non ricopre che appena il 2 o 3% della superficie totale4. La nuova dimensione pulviscolare del fenomeno urbano è una congerie di forme, usi e pratiche disparate di cui non è possibile riconoscere un vero punto di condensazione. La delocalizzazione delle attività specializzate in aree periferiche, infatti, si è accompagnata a fenomeni di dismissione e svuotamento di senso nelle aree prima considerate centrali, e ora punteggiate di "vuoti" accumulatisi nelle fasi di deindustrializzazione, post-fordismo e innovazione tecnologica. Il vuoto ha conquistato spazio soprattutto fra i tessuti incerti della città, nei luoghi sospesi, dei progetti mancati e degli eterni cantieri, nei quali si respira aria di crisi e di attesa. La dissoluzione della città compatta in una moltitudine di episodi urbani ha altresì richiamato l’urgenza di prolungare e ramificare il network delle reti artificiali, il quale ha assunto l’aspetto di un groviglio inestricabile, reciso e atrofizzato in più punti, in grado di mandare in corto circuito interi sistemi urbani. La reticolarità capillare attraverso cui la città si è dispersa nel territorio vasto e ha costruito la propria superficie isotropa, produce continue interferenze nella natura. La popolazione preme lungo i corsi d’acqua, i laghi, le coste, vi sversa le scorie delle attività produttive e agricole, gli scarichi fognari, alterando la struttura e il funzionamento delle matrici ecologiche e riducendone la capacità rigenerativa. Questa forma di "paesaggio addomesticato" è una porzione di natura compressa fra realtà urbane di- 189 versificate, "artificializzata" senza un progetto, e divenuta residuale, compromessa, vulnerabile. La marginalità cui è relegata fa sì che la ricerca di una condizione di equilibrio dinamico avvenga in tempi sempre più brevi e spazi drasticamente ridotti, rendendo violenti, talvolta catastrofici, i processi naturali di adattamento e regolazione attraverso cui la natura progressivamente scompone e ricompone i propri ordini. Il territorio, dunque, è un intreccio eterogeneo di linee fisiche, che corrono sulle superfici e le incidono fino in profondità, e linee ideali lungo le quali materia, energia e sapere si muovono ciclicamente tra gli strati. Le linee tangibili e intangibili sono le infrastrutture che intermediano le relazioni tra le componenti sistemiche dell’habitat urbano, governando i flussi che trasportano nutrienti, mettono in comune risorse, trasferiscono informazioni, distribuiscono servizi e connettono le città globalmente. Gli ambienti di entrata ed uscita dei flussi crescono al crescere delle città e, per alimentare un intenso metabolismo urbano che quasi sfida le leggi dell’entropia, si impoveriscono e degradano verso livelli qualitativi e prestazionali minori5. I meccanismi di feedback interconnettono i comportamenti umani e le dinamiche naturali all’interno di un sistema globale ipercomplesso, evidenziando come le città debbano essere trattate in termini di networked ecologies, «a series of codependent systems of environmental mitigation, land-use organization, communication and service delivery».6 La collisione tra frammenti, il declino delle aree centrali e la dispersione nel territorio, l’affiorare dei "vuoti" nel coacervo urbano, l’impossibilità di predire e governare pienamente la mutevolezza dell’ambiente aprono ad una molteplicità di questioni e interrogativi su come debba essere oggi ripensata la città. In condizioni di variabilità, decrescita e risorse scarse, la riorganizzazione dei sistemi territoriali richiede un cambio radicale di paradigma, che sappia conciliare la razionalità economica con una più forte razionalità ecologica, partendo dalle situazioni di rottura per disegnare nuovi modelli formali e funzionali7. Il riconoscimento dei valori universali del mondo fisico e la necessità di coniugarli alla produzione di ricchezza entro il limite di finitezza ecologica impongono di ribaltare il punto di vista, assumendo il progetto di riciclo come un campo d’azione comune in grado di spingere in avanti le frontiere dell’urbanistica. La dilatazione degli orizzonti interpretativi, l’attraversamento delle scale 190 e l’integrazione dei saperi divengono gli strumenti attraverso cui la contemporaneità può dispiegare lo spettacolo del paesaggio in modi diversi. La costruzione di una geografia dei drosscape8, che arricchisca e contestualizzi la catalogazione compiuta da Alan Berger sul suolo americano, si propone come lettura del territorio "al negativo", in cui far emergere le configurazioni che il paesaggio può assumere quando si trasforma in scarto, residuo, interstizio. L’articolazione del "paesaggio dello scarto" in aree non utilizzate o sottoutilizzate, dismesse, inquinate, interrotte costituisce un campionario di situazioni al limite, da indirizzare verso obiettivi condivisi di rivalorizzazione. Lo scarto, attualizzato e caricato di nuovi significati e valori, può essere una risorsa inesauribile per la città e il progetto, perché ritorna incessantemente come prodotto del metabolismo urbano. Nel tentativo di avvicinare i cicli urbani a quelli naturali e di gestire il processo dissipativo, il progetto di riciclo recupera la profondità degli strati, la geografia e la morfologia dei luoghi, si esplicita nelle rappresentazioni diagrammatiche, provando a «rendere visibili forze invisibili»9, a governare la processualità e la concatenazione dei fenomeni. Il passaggio dalla "geografia dei drosscape" alla "geografia del riciclo" sigla il carattere adattivo e resiliente del progetto urbano, che utilizza lo scarto quale dispositivo utile a riattivare i territori e ricucirne le parti, accogliendo l’imprevedibilità, ridefinendo al contempo lo spazio costruito, e costruendo grammatiche e sequenze narrative inedite. In quest’ottica, la residualità dello scarto non è ciò che "avanza" del pieno, ma energia latente attraverso cui innescare diffusi meccanismi di rigenerazione ecologica, sociale e produttiva. Nel rinnovato sodalizio tra l’uomo e l’ambiente socio-fisico, i drosscape divengono perni di un sistema reticolare che produce relazioni dinamiche nel paesaggio e che ha nelle rete verdi e blu le proprie infrastrutture portanti. Le reti verdi e blu sono paesaggi boscati e paesaggi d’acqua, che si originano prevalentemente dalle azioni di decodifica e riconfigurazione di segni dimenticati (corsi d’acqua, canalizzazioni, naturalità diffusa, trame agrarie) sui quali l’uomo ha cancellato e sovrascritto frettolosamente, e che reclamano nuova vita, un’identità, un progetto di rete che li tenga insieme. Riprendendo un rapporto dialettico tra l’ambiente naturale e quello costruito, esse garantiscono un incremento generale delle perfomance territoriali. Sono l’infrastruttura ecologica intorno alla quale la città si rigenera, per ripristinare la continuità dei corridoi ecologici secondo 191 un modello di ibridazione naturale/artificiale, lavorando sulla struttura e gli spessori dell’ecosistema urbano, sulla ciclizzazione dei materiali, secondo grane, tempi e usi simultanei, per attrezzare le città alle sfide del cambiamento entro il limite di riproducibilità delle risorse. Ma sono anche l’infrastruttura sociale che crea nuovi spazi pubblici, a partire dalle aree di scarto, nelle quali poter sperimentare forme integrate di sostenibilità, coinvolgendo la gestione dello spazio pubblico e privato, individuale e collettivo in un disegno unitario, divenendo motore potenziale di una ripresa economica virtuosa e duratura. Cosicché, mentre nuovi cicli di vita si attivano, il paesaggio lentamente si ricostruisce. Il progetto di riciclo, dunque, sposta il baricentro valoriale in nuovi punti di condensazione, re-introducendo lo scarto in nuovi circuiti produttivi e di riconfigurazione del paesaggio, lavorando dentro e intorno a esso per comporre il grande network dei drosscape, che diviene difatti la vera intelaiatura della città pubblica del futuro. La complessità della realtà necessita di conoscenza e di descrizione, ma anche di rallentamenti, di metafore e sogni, di arte e cultura, di modi originali per rappresentarla nel tempo oltre che nello spazio. La spugna10 resta la metafora più suggestiva attraverso cui costruire una nuova porosità, assumendo le aree di scarto come superfici di percolazione che regolano il rapporto osmotico tra la città e il "fondo" territoriale a lungo ignorato11. Si tratta di esplorare le potenzialità dei drosscape, di comprendere che gli effetti delle trasformazioni non si fermano dove arrivano i nostri strumenti per misurarli e prevederli, né alla soglia di limiti convenzionali. Piuttosto, assumere queste condizioni come asset basilari per re-immaginare l’esistenza umana, le azioni sociali e il modo di prefigurare e produrre il futuro12, impadronendosi del concetto di città fluida, resiliente e adattiva, giocando con scenari evolutivi, soluzioni reversibili, usi temporanei e compatibili con la variabilità ecologica «in order to prepare the way for a space and time which do not generate unrecyclable waste».13 192 Note 1. R. T. T. Forman, Land Mosaic. The Ecology of Landscape and Region, Cambridge University Press, New York 1995. 2. M. Mininni, Abitare il territorio e costruire paesaggi, prefazione a J. Donadieu, Campagne urbane, Donzelli, Roma 2013. 3. M. Mumford, The City in History: Its Origins, Its Transformations, and Its Prospects, Harcourt, Brace and World, New York 1961. 4. A. Corboz, Ordine sparso, Saggi sull’arte, il metodo, la città e il territorio, a cura di P. Viganò, Franco Angeli, Milano 1998. 5. B. Secchi, P. Viganò, Water&Asphalt, 2006, in V. Ferrario, A. Sampieri, P. Viganò (a cura di), Landscapes of urbanism, «Quaderno del dottorato in Urbanistica», Officina edizioni, Venezia 2011. 6. K. Varnelis (a cura di), The infrastructural city. Networked ecologies in Los Angeles, Actar, Barcellona 2008. 7. V. Bettini (a cura di), Elementi di ecologia urbana, Einaudi, Torino 1996. 8. A. Berger, Drosscape: wasting Land in Urban America, Princeton Architectural Press, New York 2007. 9. G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 2008. 10. B. Secchi, Prima lezione di urbanistica, Laterza, Bari 2000. 11. A. Corboz, Il territorio come palinsesto, in «Casabella», n. 516, 1985. 12. F. Guattari, The Three Ecologies, tr. en., Athlone Press, Londra 2000. 13. G. Clément, Recyclable Space-Time, in Colloquium Slowing Down the City, 2010 [online] http://www.gillesclement.com/. Immagine Sabrina Sposito, Urban habitat: back to signs, 2014 193 RURBANSCAPE: oltre il paesaggio Ignazio Vinci >UNIPA Il concetto di confine occupa nella cultura occidentale un posto tanto rilevante almeno quanto esteso, e potremmo dire ambiguo, è il suo campo semantico. Un confine per definizione separa, attraverso barriere naturali o convenzionali, due diversi regimi giuridici, a loro volta espressione di culture, condizioni territoriali, percorsi di sviluppo che si ritengono autonomi e differenziati. Ma allo stesso tempo il confine unisce, può essere interpretato come il punto in cui due lembi di un medesimo tessuto di relazioni, culturali e sociali, economiche e ambientali, entrano in contatto resistendo alla separazione. Nella sua esplorazione dei diversi significati del confine, Piero Zanini1 suggerisce un dualismo che ci può essere utile per trattare la questione delle intersezioni tra modelli di sviluppo: egli affianca al concetto di confine quello di frontiera, un'area (da intendersi non necessariamente in termini spaziali) strutturalmente instabile ed in continua evoluzione in cui i limiti si "sfrangiano" e le identità si sovrappongono. 194 Situarsi in questa condizione liminale, secondo Zanini, significa abitare e costruire un "terzo luogo", uno spazio dove evidentemente la costruzione di percorsi di sviluppo appare il frutto di contrattazioni e adattamenti rispetto a condizioni ed identità consolidate. Questo richiamo ai confini ed alle forze che ne alimentano la disgregazione – peraltro sviluppato in contesti intellettuali molto eterogenei2 – ci sembra utile non solo per il suo valore metaforico nel tornare a riflettere sulle condizioni cognitive che debbono alimentare il paradigma del re-cycle applicato alla trasformazione dello spazio fisico. In un precedente contributo3 si è infatti posto l'accento sulla necessità di cogliere la sfida dei "territori ibridi", quelle aree di frontiera risultanti dalla dissoluzione di confini tra città e campagna, ambiente naturale e costruito, che caratterizza in maniera crescente la dimensione urbana contemporanea. Ed anche come tale sfida ci impone di cogliere, in questo incessante processo di ibridazione, segnali di cambiamento che si muovano ben oltre le manifestazioni meramente spaziali dei fenomeni in corso. In altre parole, occorre riconoscere come le trasformazioni nello spazio che occorrono nei contesti al margine di identità territoriali consolidate, siano il riflesso di cambiamenti più complessi e strutturali quali la transizione post-industriale, i processi di diversificazione produttiva in un contesto di crescente dematerializzazione dell'economia, le forme di uso e valorizzazione del territorio discendenti da innovazioni tecnologiche, nuovi interessi culturali e pratiche sociali. Nella prospettiva del re-cycle territoriale uno dei processi che ci appare più intriso di potenziali in chiave progettuale è quello che sta occorrendo al confine tra l'urbano ed il rurale. Concepite dall'economia classica e da una visione positivista del mondo come domini sostanzialmente autonomi, le relazioni tra città e campagna, industria e agricoltura, appaiono oggi caratterizzati da rapporti di interdipendenza fondati su crescenti flussi di persone, conoscenze, capitali ed innovazioni tecnologie. Al crocevia di questi flussi si produce un intrico di risorse ed opportunità ancora largamente inesplorate dalle politiche pubbliche, ma che vari indizi ci segnalano in grado ridisegnare i contorni di una nuova ecologia dello sviluppo. Si tratta principalmente di osservare l'interazione urbano-rurale come il territorio di un nuovo modello di sviluppo, fortemente dinamizzato da innovazioni culturali e tecnologiche tendenti a scoprire nuove riserve di sostenibilità, il cui valore aggiunto (economico e sociale) risiede esattamente nel concepire tale interazione in termini biunivoci, al di là delle 195 visioni subalterne e settoriali del passato. La posizione di questo scritto è che questa prospettiva richieda l'adozione di una concezione molto più olistica ed integrata di tale interazione, e che le relazioni urbano-rurali possano essere osservate e progettate lungo almeno quattro dimensioni prevalenti: una dimensione ambientale e paesaggistica, una dimensione sociale, una dimensione economica, una dimensione energetica. La prima dimensione, storicamente più influente ed esplorata nelle culture del progetto di territorio, guarda all'interazione urbano-rurale prevalentemente attaverso la lente degli assetti paesaggistici e ambientali. Dopo le visioni pionieristiche di Ebenezer Howard, nella seconda metà del Novecento si sviluppa un forte interesse per la progettazione urbana orientata in senso ambientale – si veda, solo per fare un esempio, al percorso che da McHarg conduce a Steiner4 – che interpreta il rapporto tra la città e la sua regione naturale soprattutto in termini di ricucitura delle connessioni ecologiche. Questa prospettiva sistemica, inizialmente animata dal contatto tra la progettazione del paesaggio e scienze più "dure" quali la landscape ecology, è stata più tardi affiancata da una pluralità di sensibilità che osservano il "periurbano" e le sue diverse morfologie territoriali come spazio privilegiato per ripensare le relazioni tra città e campagna: dalle urban fringe alle "campagne urbane", da quel "terzo paesaggio" generato dai territori in abbandono ai margini delle città contemporanee ai "progetti locali autosostenibili"5. Una seconda dimensione rilevante per la dialettica urbano-rurale si lega a quel processo di rielaborazione di significati culturali ed interessi sociali che Merlo ha definito "neoruralismo"6 e che si esprime soprattutto in due forme: da un lato, nella frequentazione dell'ambiente rurale come destinazione privilegiata per il tempo libero e la residenza; dall'altro, nel tentativo di riportare la campagna e l'agricoltura (o frammenti di una ruralità perduta) dentro la città attraverso una varietà di interpretazioni progettuali. Negli ultimi anni un numero crescente di città occidentali sono state teatro di sperimentazione progettuali nel campo dell'agricoltura urbana – dai community gardens americani alle city farms inglesi, dai jardins familiaux francesi agli "orti urbani" italiani – in cui obiettivi ambientali ed economici sono subalterni alla finalità di rafforzare le relazioni sociali ed il senso di comunità nei quartieri.7 Inoltre, gli spazi generati da molte di queste esperienze progettuali si fanno carico di trasmettere l'idea di modelli alternativi e più sostenibili di sviluppo nelle aree urbane e per questo 196 il loro ruolo è rilevante soprattutto sul piano culturale ed educativo. Una terza dimensione, generalmente ai margini delle riflessioni territorialiste, riguarda le funzioni economiche del complesso delle attività marketled che regolano e possono sollecitare una più equilibrata interazione tra città e campagna. Ci si riferisce, in particolare, ai vantaggi che possono discendere da una diversa articolazione del mercato dei prodotti agricoli con caratteristiche di tipicità. In quest'ottica, il futuro dello sviluppo rurale in termini economici non potrà che focalizzarsi su un diverso rapporto con le aree urbane, le quali costituiscono la destinazione naturale per i prodotti agricoli, in particolare a più alto valore aggiunto8. Lungo questa direzione vi sono ormai diversi contesti in Europa dove progetti locali ed iniziative imprenditoriali provano a perseguire il difficile equilibrio tra mercato, modelli economici solidali e sviluppo sostenibile: si tratta di iniziative progettuali di varia natura e rilevanza sociale, dai mercati urbani legati allo sviluppo di filiere corte, agli store delle tipicità produttive – di cui Eataly costituisce ormai un modello mainstream non solo in Italia9 –, caratterizzati comunque da una ricerca di logiche di mercato "territoriali". Una quarta ed ultima interpretazione, ancora largamente eccentrica al progetto territoriale, è quella che allude alle relazioni città-campagna (agricoltura) da una prospettiva energetica. Si tratta di un processo di innovazione che intravede un nuovo metabolismo urbano, fondato insieme su nuove filosofie del riciclo ed interessanti sviluppi della ricerca industriale nel campo delle biomasse10 e che apre ad un diverso impiego del capitale naturale nel modello urbano occidentale. Gli sviluppi più promettenti per ciò che riguarda le relazioni tra città e campagna si legano ai sistemi di cogenerazione in grado di trarre energia dalle biomasse, i cui derivati assicurano rendimenti energetici ormai comparabili ai combustibili di natura fossile ma con ridotte emissioni nella biosfera. Lo sviluppo di sistemi integrati orientati a trarre energia dai sottoprodotti dell'agricoltura, ad esempio in una logica di agro-distretti energetici locali, appare una prospettiva destinata a ridisegnare non solo sul piano ecologico ma anche economico le relazioni tra le aree urbane ed i sistemi rurali che le circondano. Dinanzi alle quattro dimensioni del progetto che sono state evocate, la prospettiva del re-cycle non si alimenta necessariamente di nuovi strumenti e paradigmi progettuali ma dal collocare le proprie pratiche in un nuovo scenario strategico che assegna all’architettura ed allo spazio fisico nuove funzioni e significati culturali. 197 Note development, Springer, Verlag 2010. 1. P. Zanini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori, Milano 1997. 9. Cfr. R. Sebastiani, F. Montagnini, Ethical consumption and new business models in the food industry. Evidence from the Eataly case, in «Journal of Business Ethics», on-line, June 2012. 2. Si veda ad esempio G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003; M. Augé, Tra i confini. Città, luoghi, interazioni, Bruno Mondadori, Milano 2007; C. Raffestin, Les notions de limite et de frontière et la territorialité, in «Regio Basiliensis», n. 2-3, 1981. 3. I. Vinci, Pianificare per nuovi cicli di vita territoriali. Considerazioni preliminari, in S. Marini, V. Santangelo (a cura di), Recycland, Aracne, Roma 2013. 4. Cfr. I. L. McHarg, Design with Nature, Natural History Press, New York 1969; F. Steiner, The living landscape. An ecological approach to landscape planning, McGraw Hill, New York 2000. 5. Cfr. N. Gallent, J. Andersson, M. Bianconi, Planning on the edge. The context for planning at the rural-urban fringe, Routledege, London 2006; P. Donadieu, Campagne urbane. Una nuova proposta di paesaggio della città, Donzelli, Roma 2006; M. Mininni, Approsimazioni alla città. Urbano, rurale, ecologia, Donzelli, Roma 2013; G. Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata 2005; A. Magnaghi, D. Fanfano (a cura di), Patto Città Campagna. Un progetto di bioregione urbana per la Toscana centrale, Alinea, Firenze 2010. 6. Cfr. V. Merlo, Voglia di campagna: neoruralismo e città, Città Aperta, Troina 2006. 7. Cfr. L. J. Mougeot, Agropolis. The social, political and environmental dimensions of urban agricolture, Earthscan, London 2005. 8. Cfr. E. S. Van Leeuwen, Urban-Rural interactions: towns as focus points in rural 10. E. Rapoport, Interdisciplinary Perspectives on Urban Metabolims, «UCL Environmental Institute Working paper», London 2011; W. McDonough, M. Braungart, Cradle to Cradle. Remaking the way we make things, North Point Press, New York 2002; D. L. Klass, Biomass for renewable energy, fuels, and chemicals, Academic Press, San Diego 1998. 198 1. 2. NUOVE ECOLOGIE/ECONOMIE LATENTI 199 Nelle aree periurbane si riconosce un elevato numero di territori di scarto. Tra questi, lembi di paesaggio agricolo sottoutilizzati o abbandonati rappresentano forme di economie latenti. Il riciclo in chiave ecologica dei network potenziali dei territori sospesi tra urbano e rurale rappresenta una strategia innovativa per nuovi paesaggi. Immagini 1. Gruppo di ricerca Re-cycle Napoli Lab, Il puzzle del periurbano, 2014 2. Libera Amenta, Il periurbano a Napoli Est, 2014 Libera Amenta, Susanna Castiello, Cecilia Di Marco >UNINA 200 Eco-logia/eco-nomia non sono la stessa cosa, tuttavia entro l’idea di una architettura del ri-ciclo – trasformare per attivare nuove economie – è possibile indagare una intensità di rapporti che possono agire in un futuro disegno comune. L’economia di materia (minimo impiego), la centralità della qualità sulla quantità (dei materiali e manufatti), la diversa produzione/distribuzione/consumo (delle ricchezze) sono elementi su cui orientare scelte e azioni. Nell’economia produttiva, la crescita economica ha già sostituito la crescita fisica con quella immateriale, operando in un sistema economico, occorre che il paradigma della produzione, il riciclo è questo, si converta in nuova economia identitaria. Lo stesso vale per l’ecologia. L’ecologia, come l’economia, non sono mai obiettivi statici, possono essere solo un processo, un processo che contempla anche la distruzione creativa nell’economia, come nell’ecologia. La connotazione economica/ecologica di ri-ciclo, il suo contenere come rapporto inscindibile, una nuova idea di progresso e natura, è da tempo luogo di ogni ontologia sulla città, l’architettura, il paesaggio. Fondata sul riconoscimento dell’oikos comune, quest’idea di ri-ciclo, che interpreta, porta a prendere una posizione, sotto intende una valutazione etico/estetica, che sceglie strategie e tattiche di moralizzazione, per le buone trasformazio- ni. La città e l’architettura non si sono fermate solo a causa della crisi economica, le nuove esigenze economiche e spaziali, la revisione di regole e azioni sono state negate. È necessario ripartire da un ragionamento sulle regole che hanno assecondato il processo di sviluppo diventato insostenibile, dai modi in cui i riusi degli elementi che hanno costruito la città e l’architettura sono possibili. L’idea di ri-ciclo diventa "rivelatrice" (Zagreblesky) se fondata sulla cultura del progetto, come processo di trasformazione dei materiali e dei luoghi mediante l’architettura, altrimenti, in modo quasi volontario, sarà relegata al margine di quello stesso mercato che nel frattempo, sul binomio economico/ ecologico delle frammentazioni e degli specialismi della produzione culturale generale, si è già messo in moto. Eco-con[testi] complessi È evidente in molti dei territori che abitiamo, occupati da un gran numero di materiali a bassa tecnologia o a bassa articolazione spaziale. Nei tessuti disegnati come periferie della produzione, compatte o diffuse, il malfunzionamento si palesa con emergenze ambientali e/o sociali. Data la loro estensione, tali materiali sono difficilmente eliminabili, anche solo per parti, e la procedura individuata per questi materiali è l’hypercycle: attivazione di più cicli di vita in RI-CICLO FONDATO SUL PROGETTO 201 contemporanea sulla stessa realtà, per renderla più efficiente e rispondente alle esigenze dell’oggi, meno in conflitto con l’ambiente, più inclusiva dal punto di vista sociale, più efficace dal punto di vista energetico. Elementi puntuali, edifici e aree scartati, possono essere ri-ciclati come "frammenti", riscritti secondo una "narrazione ipertestuale" che alluda ad un nuovo ordine stratificato e complesso di nuove relazioni. Gli abbandoni di origine produttiva artigianale possono essere di natura puntuale, lineare, o di tessuto. In ogni caso si configurano come collezione di margini, spazi che inglobano frammenti diversi, aree e edifici, scarti infrastrutturali, spazi residuali, o che sono inglobati nell’(an) isotropia territoriale. Capannoni abbandonati o dismessi, che si distribuiscono e costituiscono un elemento significativo del territorio della contemporaneità, sono un elemento di criticità attuale e potenziale riferimento per i futuri e prevedibili abbandoni, sottoutilizzi o obsolescenze di oggetti e spazi produttivi. Questi aree e oggetti obsoleti e inutilizzati possono essere ripensati come "vuoti" per la rigenerazione dei tessuti urbani periferici, progettandoli come nuovi "margini" per la riqualificazione di aree da conservare libere da edificazioni, o luoghi per nuove prefigurazioni, luoghi da svuotare o saturare per usi spontanei o trasformazioni legate a Claudia Battaino >UNITN possibili riusi. Ciò significa individuare negli elementi puntuali da sottoporre ad agopuntura i "nuovi paradigmi" in grado di innescare un processo di trasformazione controllato, per la costruzione di un telaio portante di una nuova ecologia, ampio e stratificato. Immagine Claudia Battaino, Vacant Spaces. Recycling Architecture. La periferia inglobante, Mimesis, Milano 2012 202 Riciclare le infrastrutture è ecologico? Riciclare le infrastrutture è economico? Sono termini applicabili ad un tema come quello delle infrastrutture per loro caratteristica e vocazione logica non riconducibili a loro? È possibile passare da un pessimismo empirico diffuso nella pratica dei processi (de)generativi delle infrastrutture ad un ottimismo scientifico del ri-ciclo di queste? / Infrastrutture eco-logiche. Ci sono aspetti della modificazione del territorio che spesso sfuggono a codificazioni o definizioni esatte nelle discipline che le indagano o le osservano come l‘architettura e l’urbanistica. Spesso queste modificazioni sono indotte da sistemi infrastrutturali diversi come forma e funzione, e altrettanto spesso questi sistemi appaiono sempre più inadeguati ad una dimensione economica, sociale, culturale che vede scambio di merci e persone tra contesti sempre più ampi e differenti tra loro in relazioni di prossimità tra spazi e tempi anche molto distanti tra loro. In questa nuova geografia le azioni di trasformazione, frequentemente, sono mutuate da fenomeni derivanti da eventi molto lontani dai contesti e poco affini al progetto o alla pianificazione che li ha creati, generando esperienze diverse con ricadute differenziate sul territorio e sulle sue modificazioni. Nel frattempo, le infrastrutture, hanno con il tempo sedimentato manufatti e strutture urbane e paesaggistiche che con il trascorrere degli anni si sono manifestate sempre più reciprocamente inadeguate sia per funzionamento sia per resistenza ad eventi naturali calamitosi, e sia per gestione economica. Il campo delle infrastrutture è per definizione un campo di frattura tra il territorio e le sue parti, lo relaziona di fatto e lo connette a scale che appartengono alla logica del funzionamento tecnologico e prestazionale piuttosto che a quello delle relazioni di prossimità e della continuità. Riciclare significa individuare tecniche di lettura e comprensione degli elementi che intervengono in questo campo per provare a smontare i principi ordinatori e riaggregarli secondo nuove logiche, ripensando gli scarti, riprogettando le relazioni, individuando interlocutori, scale di progetto, dimensione economica e nuovi paesaggi sostenibili entro cui definire nuove ecologie. / Metamorfosi dei territori e dei manufatti infrastrutturali. Le prospettive di lavoro riguardano l’individuazione di elementi di multidisciplinarietà nella trasformazione dei paesaggi infrastrutturali a partire dalla codificazione delle azioni semplici e ricorrenti nel campo di applicazione. Esiste una genetica riconoscibile che accomunano le esperienze italiane a quelle europee, e questa è riconoscibile e riconducibile alla grande tradizione di architettura dell’inge- PARADIGMI PER IL RE-CYCLE DI INFRASTRUTTURE IN TERRITORI FRAGILI 203 gneria che l’Italia ha rappresentato per decenni e che potrebbe essere rifondante per una disciplina multiscalare, multiculturale. La sperimentazione dell’ingegneria degli anni Cinquanta e Sessanta in Italia ha avuto la grande capacità di sintetizzare sia la sperimentazione con la ricerca sui materiali e i suoi brevetti, con la forma costruendo un patrimonio semantico fondativo per l’architettura delle infrastrutture contemporanee, paesaggistiche con la ricerca continua tra territorio e sue modificazioni e ambientale con un uso consapevole delle risorse e dei contesti. Da questa prospettiva al passato che si potrebbero cogliere delle valenze propositive da studiare. In quest’ottica si ipotizza di valutare e costruire modelli teorici e applicativi legati allo slow move ovvero un offerta di territori e di elementi che lo costituiscono di alta valenza paesaggistica e qualitativa per ragionare su modelli di riciclo economici ed ecologici ma anche ad un possibile ripensamento del patrimonio infrastrutturale da luogo dello scarto ad occasione di riqualificazione soprattutto urbana ed ambientale. In questo processo nuovi materiali e nuove tecnologie potrebbero essere una chiave di progetto per restituire qualità e appartenenza di questi ad una trasformazione consapevole e di qualità. / Economia di scala o scala economica del riciclo infrastrutturale. Le infrastrutture sono componenti essenziali della formazione e del funzionamento dei territori sia nel passato che nel futuro, ma spesso risultano essere inadeguati o completamente abbandonati. Questa condizione di fatto genera grossi relitti territoriali con ricadute sia qualitative, ambientali, sociali che economiche. Quasi sempre, questi elementi, non conferiscono alcun valore alla forma e alla qualità dei territori e dei paesaggi, tutt’altro, le sconnessioni che originano, la trasformazione dell’ambiente, il depauperamento di suolo e degrado delle risorse ambientali risultano essere "scarti di lavorazione" come conseguente configurazione della trasformazione del paesaggio e come assetto definitivo dello stesso. È un dato sostanziale del riciclo l’individuazione delle scale economiche che i processi di recupero o riuso possono generare o ingenerare e di questo comprenderne attori e processi, progetti e strategie. / Una posizione di ricerca. Si riassume nella domanda iniziale il paradigma fondamentale della riflessione. L‘assunzione letterale dei due termini oppositivi riferiti al tema delle infrastrutture genera già di per sé la definizione di posizioni difficilmente conciliabili tra loro. Una possibile sfida di questa ricerca potrebbe essere indicata dall’individuazione di tecniche di recupero di manufatti infrastrutturali in una nuova logica di uso ed economica anche attraverso lo smontaggio e rimontaggio di figure, ruoli, forme, manufatti e nuovi materiali in cui la costruzione di un sistema metodologico diventi processo scientifico di ri-ciclo. * Questo breve contributo è stato elaborato all’interno dell’Unità di Pescara nel Laboratorio coordinato dalla Prof.ssa Carmen Andriani. Emilia Corradi, Raffaella Massacesi >UNICH 204 Re-cycle è economico/ecologico perché economia ed ecologia devono camminare l’una di fianco all’altra per delineare strategie intelligenti di riciclo dei territori. Economico non deve essere non ecologico, ecologico non deve essere anti-economico. Ce lo dimostrano le tendenze dell’economia contemporanea, le cui nuove frontiere guardano all’economia circolare come potenziale nuovo paradigma dell’economia mondiale1. L’economia circolare si basa sulla rivalutazione di un prodotto nella fase finale di vita, sulla massimizzazione delle possibilità di essere riutilizzato e sulla ottimizzazione delle potenzialità delle risorse messe in gioco e dunque sulla riduzione degli sprechi e degli scarti. Tali nuovi paradigmi segnerebbero un percorso innovativo per andare oltre l’obsolescenza programmata verso un orientamento al recupero, al riutilizzo e al riuso delle risorse. Cosa significherebbe applicare tali paradigmi al territorio? Agire per dare un nuovo senso ai territori di scarto che per anni hanno sotteso solo dinamiche di consumo lineare senza prospettive di riciclo è una delle urgenti necessità a cui bisogna rispondere. In quest’ottica riciclare significherebbe considerare il territorio come una risorsa: dare nuova vita agli scarti che ci sono stati restituiti, coinvolgendo il territorio in un’azione rigenerativa, rivalutandolo come risorsa da riattivare. Riciclare implicherebbe il recupero e la ricostruzione delle relazioni economiche ed ecologiche con il territorio, fare in modo che sia esso stesso il destinatario di un’azione restaurativa e allo stesso tempo sia il supporto di tale azione. Riciclare dovrebbe riconsiderare i cicli di vita delle attività (agricole, abitative, industriali, ricreative), i tempi che le sottendono, le relazioni tra loro e con il supporto che le ospita e ciò che esse stesse ci restituiranno in termini di scarti da riattivare. Riciclare potrebbe coinvolgere le forze locali, le piccole imprese e la popolazione a partecipare all’implementazione dei cicli di vita del territorio. Senza un coinvolgimento delle forze locali è impossibile riattivare un territorio in modo sostenibile e duraturo. Riciclare infine significherebbe riappropriarsi del territorio, renderlo fruibile ma soprattutto fornire nuove nuove possibilità, nuovi strumenti e nuovi orizzonti di crescita. Per anni lo "spreco" di territorio e la mancanza di una visione a lungo termine ci ha re- Dall'obsolescenza programmata al riciclo ecologicamente orientato 205 stituito una molteplicità di situazioni di scarto, esternalità inevitabili di sviluppo urbano ed economico, frutto di "un’obsolescenza programmata" di cui ci troviamo a dover affrontare le conseguenze economiche ma soprattutto ecologiche. I territori chiedono di essere riattivati, reimmessi in un ciclo in cui gli scarti che producono non sono il problema da risolvere ma l’occasione da cui ripartire per rigenerare un territorio e creare nuove economie foriere di benefici non solo quantitativi ma soprattutto qualitativi per gli spazi e la società. Note 1. «Desiree Mohindra, Direttrice associata del dipartimento di comunicazione del Wef, in collaborazione con la Ellen MacArthur Foundation, rivela che il passaggio ad un’economia circolare a livello mondiale sarebbe in grado, in soli 5 anni, di generare 500 milioni di dollari in risparmi sui costi dei materiali, 100.000 nuovi posti di lavoro ed evitare che nel mondo 100 milioni di tonnellate di rifiuti finiscano nelle discariche a livello globale.» (Umberto Mazzantini) tratto da www.greenreport.it, 27 gennaio 2014. Immagine Zona industriale Giugliano Qualiano, impianti dismessi. Immagine tratta da Bing Mappe Emanuela De Marco >UNINA 206 Perché parlare di stormwater re-cycle? L’acqua, con il suo ciclo naturale, è la risorsa, che più di qualsiasi altra, ha intrinseco il processo di riciclo. Se con il termine re-cycle intendiamo il processo di trasformazione di una risorsa al fine di essere riusata per altri scopi, non si può prescindere dal sostenere che l’acqua sia per sua stessa natura l’elemento che più si trasforma (nei suoi tre stadi: solido, liquido e gassoso) e negli stadi di questa continua trasformazione risulta indispensabile per tutti gli esseri viventi e tutti i processi biologici. Il processo naturale di riciclo delle acque meteoriche risulta però sempre più ostacolato e complesso, specialmente nell’habitat contemporaneo e in relazione all’espansione delle aree urbane, a causa dell’aumento di superfici impermeabili e alla derivante riduzione di zone di infiltrazione. Le conseguenze di questo processo sono sempre più evidenti agli occhi di tutti quando in presenza di nubifragi ci troviamo di fronte a sempre più devastanti inondazione o a vere e proprie alluvioni. Recuperare le acque meteoriche e destinarle a nuovi usi è oggi più che mai indispensabile sia dal punto di vista sociale, ecologico, ambientale, ma anche estetico, ed è una vera e propria emergenza soprattutto in relazione al mutamento climatico. Perché considerare lo stormwater recycle economico/ecologico? Nuovi studi, pubblicati dalla Commissione Europea1 ribadiscono l’importanza di rafforzare la protezione dalle inondazioni e di passare a una fiscalità più ecologica. “Investire nella protezione dalle inondazioni può apportare benefici complessivi per l’economia, soprattutto se si privilegiano soluzioni basate sulla natura, molto efficaci sotto il profilo dei costi”2. Eco-strategie, nella duplice accezione economico/ecologico, di gestione ECO-STORMWATER RE-CYCLE. NEW LANDSCAPES - NEW LIFE. Il progetto di riciclo e riuso delle acque meteoriche per l’adattamento climatico e la creazione di nuovi paesaggi 207 dell’acqua sperimentate, massimizzate ed integrate nel progetto di paesaggio, sono oggi la base di vere e proprie politiche nazionali e urbane in diversi paesi del mondo. È questo il caso della Danimarca e di alcuni importanti progetti di adattamento climatico che si stanno realizzando per esempio nella città di Kokkedal3 e nella capitale. Copenhagen, con il suo CPH 2025 Climate Plan4, ha avviato una serie di progetti per preparare la città ai nubifragi, evitare le inondazioni e creare quartieri a prova di clima, riciclando l’acqua piovana e rendendola visibile nello spazio pubblico. Tra questi non si può non annoverare i progetti, Indre By Skybrudsplan5, Det Første Klimakvarter6 e il più recente e innovativo Klimaflise7, tutti dello studio Tredje Natur. L’incentivazione della raccolta delle acque piovane e di un suo riuso locale costituiscono una grande opportunità per la rigenerazione urbana e la creazione di nuovi paesaggi e nuovi cicli di vita. Le straordinarie proprietà dell’acqua, nelle sue applicazioni estetiche, ricreative, sostenibili e funzionali e come elemento di interazione capace di donare una nuova qualità e identità ai territori, rendono l’acqua oltreché un materiale economico/ecologico del progetto di paesaggio, anche il simbolo di identità culturale e sociale di intere comunità. In tal senso una riflessione sul riciclo dell’acqua non può essere non considerata anche sotto il profilo etico/ Emanuela Genovese >UNIRC estetico, in relazione alle nuove politiche urbane anche autoriale/politico e grazie alla ricerca ed alla sperimentazione del settore anche noto/innovativo. Note 1. T. Fenn, D. Fleet, L. Garrett, E. Daly, C. Elding, M. Hartman, J. Udo, Study on Economic and Social Benefits of Environmental Protection and Resource Efficiency, Related to the European Semester, (ENV.D.2/ETU/2013/0048r), Final Report, prepared for DG Environment, February 2014; D. Hogg, M. Skou Andersen, Elliott T., C. Sherrington, T. Vergunst, S. Ettlinger, L. Elliott, J. Hudson, Study on Environmental Fiscal, Reform Potential in 12 EU Member States, No 07.0307/ETU/2013/ SI2.664058/ENV.D.2, Final Report to DG Environment of the European Commission, February 2014. 2. J. Potocnik, European Commissioner for the Environment at the opening of the Greening the European Semester workshop on 28.11.2013. 3. Schønherr, BIG, Rambøll, Klimatilpasning Kokkedal. http://www.schonherr.dk/ projekter/772/. 4. City of Copenhagen, Technical And Environmental Administration, CPH 2025 Climate Plan, www.kk.dk/climate, June 2012. 5. Tredje Natur, Indre By Skybrudsplan. http://tredjenatur.dk/portfolio/indre-byskybrudsplan/. 6. Tredje Natur, Det Første Klimakvarter. http://tredjenatur.dk/portfolio/klimakvarter/. 7. Tredje Natur, ACO Nordic, Wewers, Teknologisk Institut, Kollision, Orbicon, Klimaflise. http://tredjenatur.dk/portfolio/ klimaflise/. 208 ORDITURE DEL TERZO SPAZIO FABBRICARE L'AGRICOLTURA 209 Le trasformazioni sociali della cultura rurale hanno caratterizzato la forma stessa del paesaggio agrario. E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano Come spesso accade nel gap tra la ricerca teorica sul paesaggio urbano e la realtà delle trasformazioni del territorio, il fenomeno di abbandono del suolo agricolo ha innescato un processo di riappropriazione "spontaneo" dell'uso della terra con attività economiche più redditizie, caratterizzate da progetti il più delle volte estranei alla cultura architettonica. Il progetto Re-cycle viene inteso come opportunità per riportare al centro della questione il ruolo del progetto come strumento di reinterpretazione della funzione agricola che seppur declassata ad un ruolo secondario rispetto alle dinamiche economiche urbane, possa continuare ad essere strumento di salvaguardia del territorio sia come sostentamento economico che ecologico. Le dualità della tesi: Economico crisi dell’agricoltura agricoltura “fai da te”: sostentamento familiare; sfondo di supporto ad una attività urbana primaria VS agricoltura come macchina per la grande distribuzione: esportazione immagine Italia; cicli produttivi “esatti” e continui Ecologico agricoltura come progetto strategie di trasformazione diffusa degli spazi pubblici: la campagna in città; riappropriazione dell’attività agricola nelle aree rurali abbandonate negli interstizi del territorio urbanizzato VS centralità architettoniche: abitare le serre: riciclo delle strutture industriali agricole dismesse come potenzialità di sviluppo urbano; salvaguardia del suolo Immagine Coltivazioni in serra - Almeria Paola Misino >UNICH 210 Per riattivare paesaggi agrari abbandonati è necessario puntare su progetti di riciclo in grado di intrecciare nuove relazioni di reciprocità tra l'urbano e il rurale, a livello economico, ecologico, sociale. Sperimentare forme di agricoltura ecocompatibili per generare economie, garantire la produzione di ambiente e territorio, offrire la fruizione sociale di servizi, riportare la Comunità a vivere e ad occuparsi dei propri territori. Re-cycle è dunque economico, ed ecologico. RICONESSIONI AGROURBANE 211 Elisabetta Nucera >UNIRC 212 ECONOMIA-ECOLOGIA 213 «Noi costruiamo la nostra immagine del mondo con le informazioni che ci vengono dai nostri sensi» (Lynch 1977, 197): per questo riciclare vuole dire riposizionare lo sguardo, ridefinire la scala dei valori rispetto a materiali e contesti in un dialogo non oppositivo tra economia ed ecologia. Non possono più darsi le condizioni di una crescita illimitata, perché in un contesto come quello ecologico – limitato per definizione – ciò produce una conflittualità senza soluzioni. Senza rinunciare agli obiettivi collettivi di crescita come benessere, resilienza e abitabilità delle nostre città, nel contemporaneo è necessario orientare le strategie diversamente. Verso la valorizzazione delle risorse non riproducibili; verso nuove attitudini culturali, per interpretare/comprendere/prefigurare sequenze di cicli di vita capaci di creare una nuova armonia tra spazio, tempo e società. Riciclare vuol dire ripensare contesti in chiave ecologica, per produrre una nuova economia del benessere. Michelangelo Russo, Danilo Capasso >UNINA 214 Finito di stampare nel mese di giugno del 2014 dalla « ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. » 00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15 per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma
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