Wes Anderson è stato definito un regista di culto per giovani cinefili: forse perché nei suoi film c'è sempre un personaggio, qualunque sia la sua età, che manifesta i capricci, le bizzarrie, la creatività, l'energia e le risorse di un adolescente finito, per un motivo o per l'altro (o per sua scelta) in gravi pasticci. O forse perché Anderson è un grande “costruttore di mondi” divertenti ed eccessivi, nei quali tra fughe e rincorse i valori di amicizia, giustizia e libertà trionfano sempre.E a tanti piacerebbe viverci... scheda tecnica tit. orig.: durata: nazionalità: anno: regia: soggetto: sceneggiatura: fotografia: montaggio: costumi: scenografie: musiche: distribuzione: THE GRAND BUDAPEST HOTEL 100 MINUTI GERMANIA, FRANCIA 2014 WES ANDERSON WES ANDERSON, HUGO GUINNESS WES ANDERSON ROBERT YEOMAN BARNEY PILLING MILENA CANONERO ADAM STOCKHAUSEN ALEXANDRE DESPLAT 20th CENTURY FOX interpreti: RALPH FIENNES (M. Gustave), TONY REVOLORI (Zero Moustafa, giovane), SAOIRSE RONAN (Agatha), BILL MURRAY (M. Ivan), EDWARD NORTON (Henckels), F. MURRAY ABRAHAM (Zero Moustafa, anziano), HARVEY KEITEL (Ludwig), JUDE LAW (Giovane scrittore), TILDA SWINTON (Madame D.), JASON SCHWARTZMAN (M. Jean), WILLEM DAFOE (Jopling), LÉA SEYDOUX (Clotilde), OWEN WILSON (M. Chuck), ADRIEN BRODY (Dmitri). premi e riconoscimenti: BERLINO 2014, GRAN PREMIO DELLA GIURIA; DAVID DI DONATELLO, NOMINATION COME MIGLIOR FILM STRANIERO Wes Anderson Texano, Wes Anderson è il secondo di tre fratelli. A Houston, Texas, studia prima alla Westchester High School e successivamente alla St. John's School, un istituto privato che poi sarà usato come set per alcune scene del suo secondo lungometraggio, Rushmore. Come il protagonista del film, Max Fischer, Anderson scrisse e diresse alcune opere al teatro della scuola, l'Hoodwink Theatre, oggi demolito. In seguito ha studiato filosofia all'Università del Texas, dove ha conosciuto l'amico/attore Owen Wilson, co-sceneggiatore dei primi tre film. Nel cinema esordisce nel 1994 con il corto in 16 mm Bottle Rocket, diventato poi grazie al laboratorio del Sundance Film Festival un lungometraggio dal titolo Un colpo da dilettanti (1996). Nel 1998 ha attirato l'attenzione della critica con Rushmore, ritratto dolceamaro e in parte autobiografico di un adolescente ipercreativo, immaturo e capriccioso. Nel 2001 è uscito invece il pregevole e ricercato I Tenenbaum, ritratto di una bizzarra ed eccentrica famiglia newyorkese di ex bambini prodigio. Nel 2005 ha presentato un'esilarante commedia, sullo stile de I Tenenbaum, con un cast di tutto rispetto capeggiato dal laconico Bill Murray, Le avventure acquatiche di Steve Zissou, divertente parodia delle avventure "vere" di Jacques Cousteau (scritta insieme a Noah Baumbach e girata in Italia), mentre nel 2007 ha presentato al Festival di Venezia Il treno per il Darjeeling , un viaggio di formazione di tre fratelli in India a bordo del Darjeeling Limited. La sua galleria di personaggi eccentrici e stralunati popola in ogni film un mondo originale e lontano da ogni ricerca di realismo. Nello stile di Anderson sono importanti i riferimenti musicali e il rapporto immagine-musica, i colori e le caratterizzazioni irrealistiche e ispirate ai disegni infantili e ai fumetti (in particolare i Peanuts, che ispirano anche storie e personaggi), i rapporti complessi, mai di semplice antagonismo, tra i protagonisti, la presenza di famiglie problematiche che riflettono in parte la stessa biografia del regista, il frequente ricorso a complessi piani sequenza, il ritmo incalzante di rincorse e inseguimenti rocamboleschi, l'utilizzo frequente di opere pittoriche (il più delle volte realizzate dal fratello), l’amore per i personaggi disadattati o strani, il senso di fratellanza che si stabilisce tra i protagonisti, il senso del paradosso che intride personaggi e contesti non senza continui riferimenti ironici a strutture e modelli sociali e culturali dell'Occidente. La ricchezza dei suoi film, curati in ogni minimo dettaglio, dipende anche dalla quantità di riferimenti e citazioni visive, cinematografiche ma non solo, oltre che letterarie e musicali, che Anderson sa centrifugare in insiemi che diventano come per magia totalmente “andersoniani”. Alla fine, non è importante decifrare le citazioni, ma assaporare il piacere determinato dal magico e divertito collage di elementi visivi e narrativi che Anderson dispiega abilmente sotto i nostri occhi, pur se talvolta con una sensazione di 'senza capo né coda' tipica delle narrazioni frenetiche ma anche volutamente ingenue e prevedibili che ama mettere in scena. Dopo il tuffo nella stop motion con il racconto di Roal Dahl Fantastic Mr. Fox, Wes Anderson racconta col suo tocco inconfondibile una storia di adolescenti ambientata negli anni Sessanta in Moonrise Kingdom, film girato in 16mm a Rhode Island che ha aperto il Festival di Cannes 2012 e che tocca vertici decisivamente alti grazie alla perfetta coerenza di ogni suo elemento e alla compattezza dell'insieme, divertente, tenero e graffiante nello stesso tempo, come in un concerto che fonde armoniosamente decine di strumenti musicali diversi. La parola ai protagonisti Intervista al regista All'inizio del film una ragazza in un cimitero ammira il busto di uno scrittore, di cui sta leggendo un libro. Attraverso tre salti nel tempo all'indietro finiamo nel 1932, dove inizia la vicenda. È l'anno prima del rogo dei libri di Stefan Zweig ad opera dei nazisti, e il film è ispirato alle sue opere. Come ti è venuto in mente questo inizio a 'cornici nidificate'? L'inizio del film lo abbiamo immaginato più o meno così, il mio amico Hugo e io, già alcuni anni fa, mentre stavamo cominciando a pensare a una storia basata su un nostro amico. Poi non riuscivamo più ad andare avanti. C'era solo un film di un quarto d'ora, mancava tutto il resto. Ma avevamo un personaggio. Mentre finivo di montare Moonrise Kingdom mi è venuta questa idea. Ho scoperto Zweig negli ultimi anni e mi è venuta voglia di fare un film che gli rendesse omaggio. Zweig mi ha fornito contesti, spunti narrativi e anche il suo romanzo L'impazienza del cuore inizia con dei salti all'indietro che introducono vicende molto intime e psicologiche. Nel film il salto all'indietro è ovviamente funzionale a trasportarci tutti in questa specie di belle epoque invernale, in questo paese delle meraviglie. La storia non è legata a nessuna storia di Zweig, ma la sua visione fa da cornice al nostro film. Inoltre, anche Un Gioco da Ragazzi e altre storie di Roald Dahl ha le stesse stratificazioni narrative. Quali altre fonti di ispirazioni hai avuto? I film degli anni Trenta. Lubitsch, Hitchcock, Bergman. Gli scritti di Zweig sono seri e il film inizia con il suo passo lento. Ma mi serviva qualcosa di leggero e anche qualcosa che provenisse dal cinema europeo di quegli anni, come Max Ophuls. In particolare mi sono poi ispirato a un film in cui aveva recitato proprio Ralph Fiennes: Sunshine del regista ungherese Istvan Szabo. Un film meraviglioso che ha molto in comune col nostro. È stato sorprendente vedere un Ralph Fiennes così divertente e bravo in una parte di commedia Lo avevo visto nel film In Bruges, e anche lì è molto divertente. Cioè, fa paura ma è anche molto divertente. E lo avevo visto anche in una commedia, a Londra, God of Carnage, una versione molto diversa da quella americana, che è stata trasposta a New York. Nella versione inglese la città è quella della pièce originale, Parigi, e vi si riconoscono tipici comportamenti francesi, che Ralph sapeva rendere alla perfezione, ed era davvero divertente. Lo avevo visto anche in Bernard and Doris, un film diretto da Bob Balaban, nel quale ha alcuni aspetti del mio personaggio. Ho sentito dire che avevi l'abitudine di far vedere film ogni sera al cast e che cenavate tutti insieme tutte le sere. Fa parte del tuo metodo di lavoro? Beh, Owen Wilson mi diceva sempre che ad ogni film sembro meno rilassato. È vero e in un certo senso mi sta bene. Quando si gira un film non è il momento di essere rilassati. Possiamo divertirci, ma dobbiamo rimanere concentrati. Lavoriamo molto velocemente, il che non mi dispiace, ma quando la giornata finisce torniamo tutti insieme allo stesso albergo e quello è il luogo del relax. Era un albergo molto piccolo, il nostro, l'Hotel Börse, e lo occupavamo tutto. Lì avevamo gli spazi per il trucco e i costumi, e lo spazio per rilassarci nelle pause, le camere dove farci una doccia, il lounge dove bere qualcosa e le salette dove andare a cena. Siamo tutti amici, ci conosciamo tutti, e anche il cuoco è un mio amico italiano che era venuto a cucinare per noi insieme alla sua moglie tedesca. Era una situazione di totale relax che ci serviva a preparaci per il giorno successivo. E nello stesso tempo ci permetteva di rimanere uniti e concentrati, senza disperderci in alberghi diversi ciascuno con i suoi amici e le sue distrazioni. Penso che sia servito molto e che sia piaciuto a tutti perché tutti gli attori di questo film sono molto seri e legati al loro lavoro. Tieni molto alla ’convivenza fisica’ del cast durante la lavorazione Credo nel valore di stare assieme durante una produzione, tanto ben presto il film finisce e si torna ognuno a casa propria: un film non dura per sempre. In realtà gli unici che sono rimasti davvero per tutta la durata sono stati Ralph Fiennes e Tony Revolori. Gli altri più o meno andavano e venivano a seconda del loro impegno, Tilda Swinton ad esempio è stata con noi solo per un paio di giorni – ma quando erano là si abitava e si viveva assieme. Mi piace quando si forma una piccola compagnia. Come hai scelto gli attori? Ralph Fiennes era l’attore che sapevo di volere sin dall’inizio. Sono stato fortunato che lui abbia accettato malgrado fosse impegnato nella regia di un altro film, ma la sceneggiatura l’avevo scritta per lui. Per gli altri personaggi invece ho aspettato che il copione fosse finito prima di pensare a possibili interpreti. Alcuni alla fine sono stati subito evidenti, altri meno. Adrien Brody per esempio avrebbe potuto interpretare almeno tre personaggi diversi. Jeff Goldblum era un altro che ho trovato perfetto per il suo ruolo. Come Ralph, Jeff è il tipo di attore che ha una vera padronanza del testo parlato, di quelli che magari, mentre stai lavorando alle luci, li vedi sul set che provano diverse versioni di una scena che si gira fra tre giorni. Sono sempre al lavoro. Come utilizzi lo storyboard? È uno strumento per delineare la storia. Dopo l’esperienza di Fantastic Mr. Fox ho deciso di usare una tecnica di animazione rudimentale per visualizzare il film. È un modo per assicurarmi di non dimenticare nessuna scena o inquadratura, aiuta nella preparazione delle riprese. Poi uso l’iPhone per registrare le voci, niente di definitivo, una semplice traccia. Per le riprese hai usato tecniche miste. Lo potremmo definire un progetto ’ibrido’? C’è una parte del film in cui ho utilizzato lo stop-motion, durante le scene della rincorsa sugli sci, verso la fine. Non vorrei rivelare i miei segreti ma penso che non sia una sorpresa se dico che nessuno è andato sulle Alpi per girare quella sequenza.… Avevo visto alcune cartoline vittoriane, dove le famiglie si facevano fotografare su sfondi dipinti di montagne innevate. Era il tipo di effetto che cercavo più che una vera scena alla James Bond. Così in quella sequenza Willem Dafoe in realtà è un pupazzo alto pochi centimetri, su un set in miniatura – con qualche effetto digitale certo, ma sempre in base a modellini. Come ti sei avvicinato alle opere letterarie di Stefan Zweig? Il primo suo libro che ho letto circa sei anni fa è stato L’Impazienza del Cuore. Prima di allora non ne avevo mai sentito parlare. So che per gli Europei è incredibile che sia così poco conosciuto in America, in realtà è solo da pochi anni che i suoi lavori sono stampati da noi. Dopo Impazienza ho letto molti suoi racconti e poi Il Mondo di Ieri, il suo grande memoriale, soprattutto quei libri sono stati l’impulso per fare qualcosa legato a lui. Molti definiscono i tuoi film nostalgici, sei d’accordo? Non credo sia una cattiva definizione anche se non posso dire che corrisponda alla mia vita. Posso dire che quando stavo preparando Budapest ho guardato migliaia di vecchie foto di paesaggi e città, poi siamo andati a ritrovare quei luoghi e vederli come sono oggi e spesso è stato un po’ deprimente. Concettualmente c’è sempre un che di tragico nel constatare l’irrevocabilità del cambiamento. ;a la mia esperienza di viaggiatore è stata molto diversa: per me è sempre un’avventura viaggiare in Europa. Il suo cinema è la prova tangibile che si può utilizzare la tecnologia in maniera poetica, visionaria, sorprendente: come ci riesce? Sono un grande amatore del disegno a mano, adoro le miniature, i modellini e tutte le tecniche antiche di creazione visiva. Non a caso in Grand Budapest Hotel ho voluto inserire dipinti e affreschi sullo sfondo, accanto ad animazioni elementari. È il modo con cui metti insieme tutti questi elementi che fa la differenza. Potere del digitale? Certo. Ogni film, essenzialmente, è un grande file digitale. Oggi nell’utilizzo di queste tecnologie c’è un’enorme libertà, inimmaginabile ai tempi in cui ho iniziato a lavorare io. Da allora c’è stata una rivoluzione radicale nel mondo del montaggio, ad esempio: ora lavoriamo direttamente sui fotogrammi, possiamo montare metà di una ripresa con un pezzo di un’altra a nostro piacere, sovvertirne il ritmo, modificare un segno sullo sfondo che non ci convince. È stato un cambiamento gigantesco, come scoprire una nuova dimensione. Tutto senza che lo spettatore se ne accorga, mentre la computer grafica, che pure consente risultati estremi, è più riconoscibile”. Per questo preferisci lo stop-motion quando si tratta di animazione? È una tecnica che mi affascina da sempre, come tutte le tecniche “vecchio stile”. Non che richiedano meno tempo, tutt’altro: credo di aver impiegato sul set di Fantastic Mr. Fox lo stesso tempo che James Cameron passò su Avatar, e con risultati economici ben differenti, però resto molto soddisfatto del risultato. Recensioni Paolo D'Agostini. Repubblica A vedere 'Grand Budapest Hotel', lasciandosi incantare dalle sue assurdità, viene voglia di pensare che un autore dalla cifra personale e inimitabile è quello che se avesse sottoposto a chiunque un progetto come questo, quando ancora non era famoso, sarebbe stato trattato come un eccentrico svitato, accompagnato alla porta e invitato a cambiare strada. Nella peggiore delle ipotesi, sbattuto fuori a calci assieme alla sua strampalata sceneggiatura con l'intimazione di non farsi vedere mai più. Siamo davanti al miracolo della creazione di una cosa che prima non c'era, prodotta dalla fantasia eccezionale di un artista. (...) Nessuno degli aggettivi che salgono spontanei nel vedere il film è inappropriato: delizioso, squisito. Garbo e grazia sono di casa. Profilo non nuovo per l'autore di 'Moonrise Kingdom' e 'Fantastic Mr. Fox'. Tuttavia qui la consistenza di monumento all'inconsistenza, al superfluo, surclassa caratteristiche già largamente espresse nei precedenti 'Il treno per Darjeeling' e 'Le avventure acquatiche di Steve Zissou'. Mentre, senza perdere in leggerezza, ci si riavvicina alla solidità del primo exploit, 'I Tenenbaum'. I luoghi, i tempi, i modi. La storia violenta del Novecento europeo, filtrata da una sensibilità, da una modalità, da una vaghezza un po' da operetta un po' da feuilleton. Nel gusto, nello stile che Anderson riversa in quest'opera è difficile sfuggire alla tentazione di riconoscere un devoto tributo - non banale citazionismo - al più grande degli inconsistenti, il Lubitsch di 'To Be or Not to Be' ('Vogliamo vivere'). Non senza soffermarci sulla ricchezza e sulla cura di questo lussureggiante giocattolo - oggetti, colori, scenografie da favola di cui sarebbe interessante poter discernere tra artificio e location reali, tra modellini e aiuto tecnologico - un capitolo a sé è la passerella dei personaggi/interpreti. (...) Ciascuno con ben incisi i caratteri del Grande Romanzo. E ciascuno portatore dell'invisibile ma percettibile sorriso - anche i perfidi - di chi sente il privilegio di partecipare a una festa. Resta il mistero del perché un autore che del tenue e dell'esile ha fatto la sua cifra, emisfero opposto rispetto a Tarantino, si sia imposto tra i giovani come un fenomeno super cool. Interrogativo stimolante. Giancarlo Zappoli. Mymovies.it (…) Per occuparsi di questo film di Wes Anderson (presentato in apertura alla 64^ Berlinale) è necessaria una premessa di carattere letterario. Il film è dedicato a Stefan Zweig, scrittore austriaco tra i più universalmente noti tra gli anni Venti e Trenta. Animato da un convinto pacifismo si vide bruciare nel 1933 ciò che aveva scritto dai nazisti. È alle sue opere (tra cui un solo romanzo) che il regista ha dichiarato di ispirarsi per questo ennesimo viaggio in un mondo tanto immaginario quanto affollato di riferimenti alla realtà. A partire da quella che potrebbe sembrare solo una raffinata scelta tecnica e che invece diviene una precisa indicazione di senso. La ratio del film (cioè il formato della proiezione) cambia tre volte e finisce con lo stabilizzarsi sulla cosiddetta "academy ratio" che è stata quella della storia del cinema classico fino a quando arrivarono il CinemaScope e il VistaVision. Questo ci rivela come Anderson abbia voluto rifarsi alle opere dei Lubitsch e dei Wilder innervandolo con il suo ormai classico caleidoscopio di situazioni e di attori. Perché in questa occasione ai quasi immancabili Bill Murray ed Owen Williams si aggiungono new entries che vanno da Ralph Fiennes a Murray Abraham passando per l'esordiente Tony Revolori che non solo si carica del ruolo di coprotagonista ma finisce con il rappresentare l'immigrato costantemente nel mirino di tutti i razzismi grazie anche al suo volto che è quasi un coacervo di etnie (figlio di guatemaltechi sembra talvolta arabo e talvolta ebreo). Come il Chaplin de Il grande dittatore e il già citato Lubitsch di Vogliamo vivere Anderson vuole farci sorridere delle innumerevoli avventure a cui sottopone i suoi protagonisti. Questo però non cancella, anzi accentua, la riflessione su quelle frontiere che troppo a lungo in Europa hanno costituito punti di non ritorno per decine di migliaia di persone arrestate e fatte sparire e oggi si ripresentano con altre modalità meno tragicamente evidenti ma sempre fondamentalmente ostili. Questo film però vuole essere anche, fin dal suo tanto astratto quanto acutamente lieve inizio, una riflessione sull'arte del narrare. Un'arte che può permettersi di parlare della realtà profittando di quanto di meno realistico si possa escogitare. Le stanze del Grand Budapest Hotel sono innumerevoli quanti i personaggi che le abitano o vi entrano anche solo per un'inquadratura. L'instancabile e vivace fantasia di Anderson possiede la chiave di ognuna di esse. Maurizio Porro. Corriere della Sera All'ottavo round, il 45enne Wes Anderson, uno dei pochi registi impossibili da imprigionare in un aggettivo, firma il suo film più personale e fiabesco, colto e snob, raffinato e ironico verso i generi stessi del cinema, dalla commedia sofisticata di Lubitsch e soci (Wyler, Mamoulian, Bornage, Wilder...) nell'ovattato clima di un grand hotel d'operetta fino alla spy story. Commedia mitteleuropea, ambientata nello stupore Art Nouveau anni 30, flash back biografico del padrone di un hotel glorioso ora decaduto in quel crocevia di mondo al confine di Germania, Austria e Polonia, tra le due guerre mondiali, luogo immaginario chiamato Zubrowka, in realtà la cittadina di Gorlitn con interni a Potsdam. (...) In un incrocio ideale non solo di storia e geografia ma anche di cultura, colore e grafica, con mutazioni di formato dello schermo, ironia e senso favolistico ma sempre con la finzione super star, Anderson brucia a fiamma altissima la sua idea di cinema fulcro di periodi e sentimenti, sogni e incubi. Come in un giro dell'oca solo per adepti, Anderson iscrive nella sua famiglia ideale (Tenenbaum allargati) molti attori feticci, una compagnia ricchissima di tic, talenti e personalità radical chic al comando di Murray Abraham, Ralph Fiennes, Jude Law che ci portano in giro nel Tempo del Bon Ton. Ma sono indispensabili anche Bill Murray, Edward Norton, Adrien Brody, Willem Dafoe, Jeff Goldblum, il picassiano Owen Wilson e Tilda Swinton, mentre Saoirse Ronan e Tony Revolori si assumono il peso delle rivelazioni, i minorenni in una fiaba di adulti che volentieri retrocedono allo psico gioco per bambini mai così sicuri che la vita è sogno. Valerio Caprara. Il Mattino S'intitola 'Grand Budapest Hotel' l'ennesimo sogno anticato-cinéfilo di Wes Anderson, uno degli autori più meravigliosamente disimpegnati del panorama contemporaneo. Se si è in grado di rinunciare al sostegno di una storia scritta e diretta con ogni bullone al suo posto, quest'ora e quaranta di stravaganti schermaglie comunicano, infatti, un'euforia di rara eleganza, particolari toni di sensibilità surrealista e soprattutto il gusto di quel voluto artificio che stava alla base dell'ingresso in una sala cinematografica. È notorio come l'albergo sia stato da sempre un luogo d'elezione per i voyeur con la cinepresa, tanto è vero che ogni cinefilo potrebbe farsi la propria classifica scorrendo l'interminabile elenco che va da 'Grand Hotel' a 'L'anno scorso a Marienbad', da 'Barton Fink' a 'Pretty Woman': il texano meno texano che si possa immaginare Wes, però, insegue da sempre un 'altrove' favolistico privato in cui potere spostare a piacimento le sue stralunate persone/pedine su scacchiere sociali e familiari altrettanto imprevedibili. Così accade in questa chicca per affezionati, strappata alla sua spontanea ritrosia dal Gran Premio della Giuria all'ultimo festival di Berlino (...) Non si contano i personaggi bizzarri, misteriosi, commoventi, sfuggenti che sembrano prendere per mano lo spettatore per raccontargli tutto e poi lo abbandonano nelle braccia del narratore seguente; tanto è vero che ne scaturisce una passerella interminabile d'interpreti (Fiennes, Law e Murray Abraham in testa) celebri, però ligi allo spazio che gli è concesso. Ci sarebbero anche i fatti tra il giallo, il noir e il rocambolesco, ma non è certo in questi passaggi un tantino slabbrati che si può trovare conferma del talento da operetta dell'ineffabile Anderson. Paolo Mereghetti. Corriere della Sera Con un giallo raccontato come una commedia (e un dramma raccontato come una favola) Wes Anderson ha inaugurato con i suoi colori pastello questa 64esima Berlinale. Il suo 'The Grand Budapest Hotel' sembra uno dei dolci che prepara nel film la dolce Agatha (Saoirse Ronan) dove panne, spumoni e variopinte meringhe si impilano sostenuti da un miracoloso equilibrio. Anche il suo film mescola elementi eterogenei, dai formati di proiezione-panoramico per le scene ambientate oggi, wide screen (più stretto e lungo, tipo CinemaScope) per quelle negli anni Sessanta e il classico Academy (quasi quadrato) per gli anni Venti e Trenta - alle epoche temporali ai riferimenti storici, per costruire un mondo che sappia coniugare il piacere della fantasia e l'ambizione del racconto morale (ispirato agli scritti di Stefan Zweig). Al centro di tutto, a fare da calamita e insieme motore, la figura di Gustave H. (Ralph Fiennes), leggendario concierge del Budapest Hotel nell'immaginario stato europeo di Zubrowka, depositario dei segreti e dei desideri dei ricchi ospiti dell'albergo, soprattutto di sesso femminile. Al suo fianco, apprendista e insieme protégé, il fattorino Zero (Tony Revolori), senza famiglia e identità, che seguirà e aiuterà Gustave nel momento più difficile della sua vita, quando verrà accusato di aver avvelenato la facoltosa Madame D. (una Tilda Swinton quasi irriconoscibile sotto una turrita e candida parrucca), per impossessarsi di un suo prezioso quadro. L'ambizione dichiarata di Anderson era quella di ritrovare la leggerezza e la grazia delle commedie «alla Lubitsch», dove le più sorprendenti delle situazioni sapevano affascinare e divertire nonostante la loro dichiarata falsità. Operazione rischiosa e complicata che Anderson non sempre riesce a controllare perfettamente. Dalla sua (e del suo cosceneggiatore Hugo Guinness) ci sono le continue invenzioni narrative che prendono la forma (e il volto) di personaggi inaspettati (Harvey Keitel calvo e tatuato detenuto, Bill Murray baffuto membro del «club delle chiavi incrociate», Willem Dafoe sadico killer paranazista). Ci sono le improbabili ma divertenti location, tra piste di bob e salvifici conventi. E c'è il piacere tutto estetico dei colori saturi e delle scenografie trompe l'oeil. Ma alla fine la storia rischia di girare a vuoto. O meglio: non riesce a trovare quella forza e quella necessità che nei film di Lubitsch sapevano trasformare lo stile in qualcosa capace di parlare al cuore e all'intelligenza insieme. Simone Buttazzi. Indie-eye Ogni film di Wes Anderson è un libro illustrato: sfondi gravidi di dettagli, figurine buffe che si muovono da uno scenario all’altro come in un videogioco a piattaforme. La macchina da presa agevola questa fruizione ludica ed esplorativa ricorrendo all’ormai classica sintassi wesandersoniana: improvvise panoramiche a novanta gradi (whip pan), carrellate illustrative, zoom ironici, stop motion. The Grand Budapest Hotel non fa eccezione, anzi, ci si può immaginare il capitolo dedicato al film nella prossima edizione del colossale, orgasmico tomo The Wes Anderson Collection di Matt Zoller Seitz, must di cellulosa per tutti i fanatici del fanatico, altoborghesissimo, ossessivo autore texano di Rushmore e Steve Zissou. The Grand Budapest Hotel non fa eccezione, no. Si apre come un libro, e i primi minuti sono un gioco di scatole cinesi indietro nel tempo. (…) Il film vero e proprio, diviso in cinque capitoli, inizia qui. E prosegue, rocambolesco, per un’ora e mezza di puro godimento, senza cali di tensione e soprattutto senza mai trasformare il delizioso in stucchevole, il geniale in pretenzioso. Riuscendo persino a introiettare alcuni elementi nuovi nel cinema di Wes Anderson. A cominciare dal ruolo della famiglia: in The Grand Budapest Hotel i protagonisti non appartengono a un clan disfunzionale, bensì, come Zero Moustafa… partono da zero. Sono soli, o con un passato traumatico dal quale li separa una netta cesura. L’unica famiglia biologica è quella dei villain, tutti di nero vestiti, tra i quali spicca un Willem Dafoe che sembra riprendere il ruolo di Max Schreck virandolo alla nazisploitation postmoderna. Basti dire che appartiene alle ZZ (Zig Zag Divisions), versione favolistica delle SS. Un altro elemento originale è lo spunto letterario del film, dichiarato in apertura dei titoli di coda: nientemeno che Stefan Zweig e il suo «Mondo di ieri», incarnato dalla figura affettata e ribalda di M. Gustave (Ralph Fiennes al suo meglio). Zubrowka è molto di più di un semplice teatrino per scorribande a firma Wes Anderson: è un universo mitteleuropeo come l’avrebbe immaginato Erich von Stroheim, un mondo orgoglioso al tramonto, minacciato dalla guerra e destinato a restare nella memoria di pochi, nei libri. A sottolinearne la carica evocativa, gli esterni mozzafiato girati a Görlitz (tutto il resto, a Babelsberg). Se tutto questo non bastasse, c’è il cast. Sconfinato, impeccabile, calibrato con tale cura da evitare camei e comparsate: neanche da questo punto di vista la pellicola scantona nella strizzata d’occhio. Vale la pena citare almeno il «novellino» Tony Revolori, vero protagonista del film, che parrebbe quasi la reincarnazione araba di Kumar Pallana, il celebre Pagoda dei Tenenbaum venuto a mancare nel 2013. Revolori e Fiennes formano una strana coppia irresistibile, a tratti commovente. Infine, i dettagli. Gioia per gli occhi e per le sinapsi, e tutti funzionali alla narrazione. Uno solo, a mo’ di assaggino: un quadro seicentesco di un fantomatico maestro fiammingo rubato e sostituito con quello che parrebbe uno Schiele e invece, scorrendo i titoli di coda, è l’opera di Rich Pellegrino Two Lesbians Masturbating. In due parole, come dire(bbe il Mereghètti), The Grand Budapest Hotel è un capolavoro. Roy Menarini. Mymovies.it Il talento innegabile di Wes Anderson, giunto ormai a quel punto di consapevolezza e maestria che ci fa parlare di "fase matura" di un artista, ha da sempre generato una sacca di resistenza. Essa, visibile anche sui profili Facebook di alcuni critici militanti in questi giorni, individua in Wes Anderson un pubblicitario più che un regista, e - citando una battuta circolata proprio sui social network - un "magnifico arredatore di interni" più che un autore nel pieno senso del termine. Di contro studiosi, e persino superstar dell'accademia americana come David Bordwell, proprio a Grand Budapest Hotel hanno dedicato di recente saggi corposi, con tanto di analisi dei formati e delle inquadrature, comparazioni con scene del cinema classico e attente disamine del rapporto (autorizzato dallo stesso Anderson) tra questo film e le pellicole di Lubitsch dei primi anni Trenta. Tra i fan (la maggioranza) e i detrattori (la minoranza), chi ha ragione? Grand Budapest Hotel sembra fatto apposta per acuire le tensioni. Formalmente esasperato, cromaticamente accesissimo, stilisticamente denso e postmoderno, appare svagato, scherzoso e fortemente ironico nei confronti della materia narrativa. La farsa avventurosa è raccontata per generare spasso erudito, sia pure temperato da una diffusa malinconia, e difficilmente un film come questo potrà cambiare le carte in tavola, come invece aveva fatto Moonrise Kingdom (a tutt'oggi la vetta del cinema di Anderson, attraversato da una vena straziante e da una rilettura storica degli anni Sessanta di grande intelligenza). La maggioranza, in ogni caso, ci sembra (consapevolmente o meno) aver tutte le ragioni di amare Wes Anderson: il cinema contemporaneo è ormai un catalogo, un archivio di opzioni stilistiche e narrative, la gestione eclettica e talentuosa di questo infinito patrimonio è un orizzonte del tutto legittimo esteticamente, e i rapporti di Anderson con la pubblicità, la moda (si veda il bel corto girato per Prada), il design e il mondo "hipster" e fashion californiano possono essere criticati solo partendo da posizioni militanti e ideologiche, nulla più. Ma (...) bisogna pur ammettere che in alcuni casi questo regista ce la mette tutta per far venire i nervi. Laddove gli accenti più sofferti e le malinconie più surreali accendono opere ormai classiche come Rushmore, Le avventure acquatiche di Steve Zissou o appunto Moonrise Kingdom, invece in Il treno per il Darjeeling o Grand Budapest Hotel sembra prevalere un compiacimento smaccato, un perfezionismo formale così accentuato e una fiducia così autoreferenziale verso (per esempio) la parata di attori in gara per il cameo di lusso, da suscitare più di un dubbio. Detto questo, il personaggio-chiave ovviamente non è né il narratore né lo scrittore che incornicia la storia, bensì Gustave, uomo gentile e raffinato che non può vivere senza la sua acqua di colonia. Che lascia la scia negli ambienti in cui passa e non accetta di essere umiliato rinunciando ai modi del dandy. Sembra quasi di annusarlo, Grand Budapest Hotel. E sembra quasi di percepirlo, il cinema profumato di Wes Anderson. Questa volta con il rischio che evapori dopo un giorno o due.
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