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Storia delle idee e interdisciplinarità. Giovani studiosi a confronto
GiSi
Torino, 26 marzo 2014
«This kind of work should be left to Warburgers». La Kulturgeschichte
e l’interdisciplinarità nella storia dell’arte in un difficile confronto
metodologico tra Italia e Stati Uniti
JENNIFER COOKE
In questo intervento – cui riflessioni sono maturate durante le ricerche della tesi di
dottorato – intendo prendere in esame il caso specifico del testo Pittura a Firenze e
Siena dopo la Morte Nera pubblicato nel 1951 dallo storico dell’arte statunitense
Millard Meiss. Le reazioni a questo studio, infatti, restituiscono uno spaccato
significativo del dibattito critico che in quegli anni divise gli storici dell’arte tra i
sostenitori del formalismo, appartenenti al filone della connoisseurship, e coloro che,
invece, guardarono all’opera d’arte all’interno del suo contesto culturale come
espressione e prodotto di una società1.
Meiss riuscì a coniugare la scienza del conoscitore, che caratterizzò la sua prima
formazione accanto a Richard Offner, con lo studio dell’iconologia derivato dalla
conoscenza e lunga amicizia con Erwin Panofsky, in una prospettiva metodologica in
cui il “significato” dell’opera trova una spiegazione nel «contemporary cultural and
social pattern», ovvero nel contesto intellettuale, storico ed estetico di produzione e
fruizione2. Questo multiforme approccio si ritrova nel testo in esame dedicato alla
pittura toscana nella seconda metà del XIV secolo, un momento stilistico dalla critica
considerato di forte regressione e privo di personalità artistiche di rilievo, come
testimoniato da quanto nello stesso 1951 Pietro Toesca scriveva nella sua monografia
1
MEISS 1982 [1951]
2
MEISS 1944, p. 85.
1
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sul Trecento3. Da una parte, il recupero di schemi figurativi che scardinavano la
conquistata spazialità giottesca, tornando alla bidimensionalità e ieraticità
dugenteschi, e, dall’altra, la ricorrenza di iconografie fortemente orientate alla
magnificazione di Dio e del potere della Chiesa furono interpretati da Meiss, invece,
non già come involuzione, ma come intenzionale espressione di una religiosità
misticheggiante diffusasi in risposta alla forte crisi economico-politico-sociale
culminata nella Peste del 1348. In questa «perfect illustration of the interdisciplinary
approach»4 – come si legge nel giudizio della Medieval Academy che gli conferì la
Charles Haskins Medal nel 1954 – Meiss intendeva ricostruire la Weltanschauung che
informava quelle immagini, ricomponendo in un unico quadro la storia artistica,
filosofica, spirituale, economica, politica e sociale. Il superamento della dicotomia tra
stile e contesto, muovendosi sul filo tra connoisseurship e storia della cultura,
parafrasando il giudizio espresso da James S. Ackerman riguardo al testo di Meiss5,
non fu sicuramente un tentativo isolato ma risponde a quello studio dell’immagine
come «forme de la pensée» – per citare il recente contributo di Viviane Huys e Denis
Vernant6 –, che contemporaneamente anche Panofsky con Architettura gotica e filosofia
scolastica e Pierre Francastel con Lo spazio figurativo dal Rinascimento al Cubismo
intrapresero (entrambi del 1951), mettendo in relazione l’architettura e l’arte con la
società del tempo7. Accanto agli studi che proseguirono nel solco della
Kulturgeschichte, ovvero della storia della cultura avviata da Jacob Burckhardt, Aby
3
4
TOESCA 1951, p. 596.
AAA, MMP. Commento dattiloscritto di Roger S. Loomis, Charles R. Morey, Joseph Strayer al
conferimento a Millard Meiss della Charles Haskins Medal per Painting in Florence and Siena after the
Black Death il 12 maggio 1954.
5
ACKERMAN, CARPENTER 1963, p. 224.
6
HUYS VERNANT 2012, p. 31.
7
PANOFSKY 1951 [1986]; FRANCASTEL 1951 [1957]
2
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Warburg e Johan Huizinga, negli anni Cinquanta si fece strada anche un approccio
più marcatamente sociologico di matrice marxista nei lavori di alcuni storici di orbita
inglese, come Francis Klingender, Frederick Antal e Arnold Hauser8.
Come ha in più occasioni sottolineato Peter Burke, la “storia della cultura” presenta
una congenita difficoltà di definizione e delimitazione del proprio ambito e ciò trova
conferma nella sovrapposizione tra iconologia e storia sociale a opera dei loro
detrattori, di cui la diversa risposta italiana e anglosassone al volume di Meiss fu un
chiaro esempio9.
Appena nel 1948, infatti, Frederick Antal aveva pubblicato La pittura fiorentina e il suo
ambiente sociale, in cui la compresenza di tendenze stilistiche diverse nella
produzione figurativa fiorentina da Giotto a Masaccio era spiegata stabilendo un
parallelismo con la diversa composizione sociale della classe committente, adottando
una chiave di lettura sociologica che fu subito tacciata dalla critica coeva di «rigido
determinismo storico» e di «riduzione schematica dei fenomeni artistici a un
bipolarismo semplificato»10. Millard Meiss recensì il testo dettagliatamente sulle
pagine dell’«Art Bulletin», evidenziando i limiti di un simile schematismo
determinista che, benché avesse il merito di superare il formalismo wölffliniano, non
poteva costituire l’unica prospettiva su fenomeni stilistici e di committenza tanto
complessi11. Nonostante il collega ungherese avesse fatto appello alla comune linea
teorica in una lettera a Meiss, quest’ultimo precisò il proprio diverso orientamento,
forse proprio per il sospetto con cui la storia sociale era vista negli Stati Uniti in
8
KLINGENDER 1947 [1972]; ANTAL 1948 [1960]; HAUSER 1951 [1957]
9
BURKE 2000 [1997], pp. 9-33, 173-206.
10
SCIOLLA 1995, p. 241.
11
MEISS 1949, pp. 147-149.
3
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piena Guerra Fredda, come ha recentemente suggerito Julian Gardner12. Del resto, le
osservazioni di Meiss sulla ‘struttura’ economico-politica delle due città toscane a
metà Trecento costituivano unicamente un corollario a un discorso di più ampio
respiro interessato principalmente alla produzione letteraria, filosofica e, soprattutto,
religiosa. Ciononostante, la presa di distanza di Meiss fu vanificata dall’appello di
Antal stesso a un comune schieramento metodologico. Infatti, nello stesso anno lo
storico dell’arte ungherese pubblicò il fortunato articolo Remarks on the Method of Art
History, in cui cercò di stemperare le derive marxiste e rivendicare una scuola di
appartenenza, cui radici teoriche affondavano negli studi sul milieu di Comte e Taine
ed erano proseguite con la Geistesgeschichte di Riegl e Dvořák, per giungere a una
pletora di studiosi europei e americani contemporanei legati da indirizzi postformalisti. Tra i «todos caballeros» – come li definì ironicamente Castelnuovo13 –
figurava
anche
Meiss,
cui
ricerche
avevano,
secondo
Antal,
portato
indipendentemente agli stessi risultati14.
I Remarks di Antal ebbero un’immediata risonanza in Italia, auspice la puntuale
traduzione
pubblicata
su
«Società»
da
Corrado
Maltese,
sicché
prevalse
sostanzialmente la voce di Antal e Meiss, con Pittura a Firenze e Siena dopo la Morte
Nera, divenne uno di quei Marxisti onorari, ovvero uno di quegli studiosi
forzosamente eletti a esempi di critica marxista, come ammonì, all’indomani
dell’intervento di Antal su «Società», il filosofo Valentino Gerratana dalle colonne del
«Contemporaneo»15.
Al contempo, la presunta “deriva sociologica” di Meiss si scontrò con l’ostracismo
12
GARDNER 2007. Cfr. anche ORWICZ 1985
13
CASTELNUOVO 1985, p. 5.
14
ANTAL 1949 [1975]
15
GERRATANA 1954.
4
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che la forte tradizione neoidealista crociana oppose – più in generale – alle letture
‘contestuali’ che mettevano in secondo piano la personalità artistica16. In questo senso,
il giudizio espresso da Carlo L. Ragghianti è molto significativo, in quanto,
conducendo una riflessione sul rapporto tra arte e ambiente sociale, partì dalla
«storia chiusa» di Johan Huizinga per giungere alla «psicologia storica» di Antal e
Meiss. È altresì degno di nota che, nonostante la rigida impostazione, Ragghianti
riconoscesse almeno un merito storiografico all’opera di Antal, mentre di Meiss
criticasse aspramente quelle «impressioni soggettive, immediatezze naturalisticopsicologiche, interpretazioni iconologiche e illazioni culturali»17. Questo accomunare
letture iconologiche e sociologiche è indice, da un lato, proprio di quella confusa
delimitazione metodologica stigmatizzata da Burke, dall’altro, del fronte unico di
opposizione degli ambienti critici italiani nei confronti della storia della cultura,
dell’iconologia e della storia sociale, tanto che, ancora negli anni Ottanta, Ragghianti
ricordava quel «candido iconologo» di Meiss in una stroncatura dell’iconologia e del
suo versante americano18.
Fu forse proprio a causa di questa non organicità con letture sociologiche strictu
sensu che lo studio di Meiss non fosse nemmeno nelle corde di quell’editoria di
sinistra bisognosa di “nutrirsi” di sociologia dell’arte – per citare le parole di
Giovanni Previtali – la quale nel giro di pochi anni tradusse sia il testo di Antal sulla
pittura fiorentina che quello di Francastel sulla spazialità19. La traduzione einaudiana
della Morte Nera, invece, giunse con molto ritardo solo nel 1982, nonostante i
numerosi tentativi di Meiss nel corso degli anni Sessanta, e proprio all’ennesima
16
COLETTI 1953, pp. 40-42; GANDOLFO 1956, p. 53.
17
RAGGHIANTI 1956, pp. 78-79.
18
RAGGHIANTI 1987, p. 4.
19
PREVITALI 1961, p. 49.
5
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impasse con la casa editrice torinese, lo studioso americano lamentò le sorti più
fortunate di Antal, come si legge in una lettera a Lamberto Vitali:
Einaudi published a few years ago an Italian edition of a book by Antal of which
almost a half is devoted to the same art. Antal reads the art from a rigid Marxist
point of view, rather different from the interpretation offered in my book, which
originally followed Antal’s two years later. What is at stake transcends the interests of
specialists – it is historical outlook and method20.
A questi fraintendimenti sembrava alludere Roberto Salvini, che, nella laudatio
pronunciata all’Università di Firenze per il conferimento della laurea honoris causa a
Meiss nel 1968, parlava dello studio sulla peste come di un «esempio eminente di
ricerca interdisciplinare» affatto deterministica, che sarebbe stato utile «non soltanto
per gli storici dell’arte, ma anche per i cultori di quelle diverse storie la cui sintesi ha
nome da più di un secolo “Kulturgeschichte”»21. Non era un caso che nel 1969 Enrico
Castelnuovo iniziasse a sgombrare il campo dai pregiudizi critici, occupandosi di
storia sociale dell’arte, proprio sulle pagine del longhiano «Paragone», e percorrendo
negli anni successivi temi di “microstoria” insieme a Carlo Ginzburg22.
Al contempo, l’ibridazione metodologica di Meiss subì la resistenza della critica
italiana a quegli iconologi «camerlenghi della storia dell’arte» – come li definiva nel
1962 Roberto Longhi23. Proprio nei Festschrift dedicati a Longhi nel 1961 – cui Meiss
pure partecipò ma con un intervento unicamente giocato sull’analisi stilisticoformale –, l’allievo Stefano Bottari si scagliava con virulenza contro l’iconologia e la
storia sociale dell’arte, che allora si proponevano come superamento della tradizione
20
AAA, MMP. Copia della lettera di Millard Meiss a Lamberto Vitali, 18 marzo 1964.
21
AAA, MMP. Discorso dattiloscritto pronunciato da Roberto Salvini in occasione del conferimento
della laurea honoris causa a Millard Meiss dall’Università di Firenze il 16 maggio 1968.
22
CASTELNUOVO 1969; CASTELNUOVO, GINZBURG 1979.
23
LONGHI 1962, p. 70.
6
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filologico-formalista italiana, sancendo ancora una volta il rifiuto della critica di
questo paese nei confronti dei “nuovi” approcci metodologici24.
La critica internazionale, seppur talvolta in disaccordo su alcune tesi sostenute dallo
studioso americano, al contrario di quella italiana, nella sua ricostruzione del milieu
di fine Trecento, vide anzi un superamento delle visioni sociologiche o marxiste,
attraverso l’analisi in senso più marcatamente pluridisciplinare delle “forme
simboliche” che Panofsky aveva mutuato da Cassirer25. Infatti, in una lettera a Meiss,
il conoscitore americano Bernard Berenson – come riportato nel titolo dell’intervento
– invitava a lasciare questo tipo di ricerca ai warburghiani, ovvero agli «adepts of
metafussics, icononsense and superanalysis»26. Dunque l’attenzione per quei
caratteri che Berenson avrebbe definito illustrativi dell’opera d’arte risaliva
direttamente al Warburg Kreis ed era proseguita in una declinazione anglosassone. In
quegli stessi anni, infatti, anche Erwin Panofsky usciva dalle “guardie confinarie” –
come amava chiamarle Warburg stesso – delle discipline strettamente storicoartistiche, per indagare il rapporto tra le forme del pensiero scolastico e il linguaggio
architettonico gotico nell’«opera polimorfa» – secondo la definizione di Heinich27 –
Architettura gotica e filosofia scolastica28. La ricostruzione dell’habitus mentale degli
architetti in relazione al pensiero filosofico contemporaneo era erede di
quell’attenzione per la Mentalität che risaliva al proprio mentore Wilhelm Vöge e allo
storico della cultura Karl Lamprecht. Nonostante non fosse certamente un approccio
sociologico, raccolse comunque il plauso di Arnold Hauser, il quale lo definì
24
BOTTARI 1962
25
FERGUSON 1952; ROWLAND 1952; POPE-HENNESSY 1952; STECHOW 1952.
26
BB, Bernard and Mary Berenson Papers (1880-2002). Lettera di Bernard Berenson a Millard Meiss, 7
marzo 1953
27
HEINICH 2004 [2001], p. 25.
28
PANOFSKY 1986 [1951]
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«l’ultimo tentativo degno di nota di un’interpretazione dei processi stilistici ispirato
alla storia delle idee»29. Sebbene questo testo fosse stato considerato «sovvertitore
dell’iconologia» più classica, per ricalcare le parole di Castelnuovo30, e in Francia
fosse tradotto nel 1967 con una lunga postfazione del sociologo Pierre Bourdieu31,
Panofsky si dimostrò sempre piuttosto scettico rispetto alla tendenza moderna a
leggere le opere d’arte in chiave sociologica, come si legge in una lettera datata 1957,
in cui pure lodava l’eccellente lavoro di Meiss sulla peste32. Non era casuale allora
che anche André Chastel, nel recensire la Morte Nera, mettesse in relazione agli
insegnamenti di Panofsky l’elegante intreccio di analisi formale e iconologica tessuto
da Meiss, puntualizzando sulla distanza che lo separava dalla visione deterministica
di Antal33. Lo storico dell’architettura James S. Ackerman, ancora, affermò che Meiss
aveva battuto i marxisti al loro stesso gioco, senza indebolire la tradizione della
connoisseurship, tanto che in un profilo storico della disciplina artistica da lui scritto
nel 1963 il libro in questione compariva sia tra i prodotti della scienza del conoscitore
quanto della storia sociale. Ackerman si fece promotore di un superamento di
approcci unilaterali alla
disciplina,
auspicando
una
rinnovata
prospettiva
metodologica che mettesse in campo la storia del pensiero in senso più lato,
indicandone i modelli, oltre che nello studio di Meiss, nei coevi Caravaggio Studies
(1955) di Walter Friedländer e Lorenzo Ghiberti (1956) di Richard Krautheimer, nei
quali gli autori misero in relazione lo stile degli artisti con il clima religioso e
29
HAUSER 1969 [1958], p. 215.
30
CASTELNUOVO 1985, p. 23.
31
BOURDIEU 1967
32
PANOFSKY 2008, pp. 46-47.
33
CHASTEL 1952
8
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filosofico34.
L’allora direttore del Warburg Institute Ernst H. Gombrich, in quegli anni impegnato
in pungenti attacchi alla sociologia dell’arte35, ebbe un confronto con Meiss –
testimoniato oltre che dalla recensione anche dalla corrispondenza tra i due –, e
rimproverò al collega un’analisi che prescindeva troppo dall’ineludibile criterio
qualitativo. Inoltre, da un punto di vista metodologico, secondo lo storico dell’arte
austriaco, non necessariamente l’arte doveva esprimere e riflettere gli eventi e i
mutamenti di ordine culturale e sociale36. Queste resistenze di Gombrich erano
alimentate, come è stato recentemente osservato, dal proprio credo politico liberale,
ulteriormente acuito dalla Guerra Fredda, un punto di vista che trovava piena
espressione nello stile come principio di libertà in opposizione ai regimi totalitari,
teorizzato nel suo The Story of Art (1950)37.
L’attenzione per il contesto della produzione figurativa portò Meiss ad avere un
dialogo privilegiato con il fronte degli storici, come d’altronde acutamente aveva
messo in luce André Chastel nella già citata recensione, rilevando la forte affinità con
il concetto di outillage mental38. Lo storico della Scuola delle Annales Yves Renouard –
che aveva analizzato proprio le conseguenze dell’epidemia del 1348 – s’interessò, in
particolare, al lavoro del collega americano, apprezzando la sua impostazione «plus
nuancée» rispetto all’eccessivo schematismo determinista di Antal e accostando il
34
ACKERMAN 1958; ID. 1960, p. 262; ID. 1963, p. 224; ID. 1973
35
GOMBRICH 1953; ID. 1954
36
ID. 1991 [1953], pp. 51-52: «Dato per scontato che gli eventi possono e debbono avere un certo
influsso sull’arte, è davvero indispensabile che l’arte li “esprima”? Gli effetti di simili traumi sulla
personalità dell’individuo non sono forse molto meno prevedibili di quanto ci possiamo aspettare di
primo acchito?»
37
38
AZATYAN 2010; GOMBRICH 1950 [1966]
CHASTEL 1966.
9
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discorso dello studioso americano alla propria nozione di generazione storica39. Un
altro riferimento in ambito statunitense fu invece il tedesco trapiantato Hans Baron
che in quegli anni scriveva sul clima filosofico-religioso dopo la Peste Nera tra
stoicismo e pauperismo, il quale peraltro riconobbe il proprio debito storiografico
nei confronti di Meiss in una risposta epistolare alla richiesta di una recensione della
Morte Nera che poi non fece40. Inoltre, anche lo storico dell’economia di origine
italiana Roberto S. Lopez, a distanza di vent’anni dall’uscita del libro, sottolineò
come anche gli studiosi del proprio ambito avessero molto da imparare dalla sua
ricostruzione41. Lopez, a sua volta, aveva fatto una simile invasione di campo,
studiando la committenza artistica della classe mercantile e osservando come questa
fiorisse proprio nei momenti storici di forte recessione economica42.
Il dato che emerge da queste osservazioni incrociate è, quindi, innanzitutto, un
generale convergere della storia dell’arte – soprattutto anglosassone – intorno alla
metà del XX secolo verso un orizzonte metodologico aperto alle altre discipline
storiche, filosofiche o economiche volto a illuminare il rapporto tra parola e
immagine, sotto l’egida del motto di Warburg “Das Wort zum Bild”. Verso questa
direzione non si mosse unicamente la storia sociale dell’arte di matrice marxista di
Antal e Hauser, ma anche gli studiosi più affini all’iconologia, tra cui appunto Meiss
e Panofsky. Questa storia culturale dell’arte continuò certamente nei decenni
successivi, dando i suoi frutti più maturi nello studio della committenza di Francis
Haskell e nella ricostruzione di Michael Baxandall della forma mentis estetica che va
sotto la felice espressione di period eye.
39
RENOUARD 1950, p. 365; ID. 1952, p. 476; ID. 1953, p. 21.
40
BARON 1939; ID. 1970 [1955].
41
AAA, MMP. Lettera di Roberto S. Lopez a Millard Meiss, 6 settembre 1970.
42
LOPEZ 1952a; ID. 1952b
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La diversa percezione anglosassone e italiana rispetto al caso specifico del testo di
Meiss bene esemplifica la distanza che nel Dopoguerra separava la storia dell’arte
italiana rispetto al contesto internazionale, nel suo radicamento formalista opposto al
superamento dei confini disciplinari, visto ancora nel 1966 da Cesare Brandi come
«un tentativo di avvicinamento antropologico invece che estetico all’opera d’arte»43.
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43
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11
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Storia delle idee e interdisciplinarità. Giovani studiosi a confronto
GiSi
Torino, 26 marzo 2014
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BB : Biblioteca Berenson, Villa I Tatti – The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies
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