ISSR "Giovanni Duns Scoto" - Nola Percorso di formazione per laici, religiosi e operatori pastorali INTRODUZIONE ALLA SACRA SCRITTURA Per ognuno dei tre classici trattati dell'Introduzione generale alla Sacra Scrittura vengono qui presentati solamente gli argomenti indispensabili a una prima comprensione della materia. Per questo motivo invito i partecipanti al Corso a non tralasciare nulla di quanto è scritto in queste pagine. *** • I nomi dei libri che compongono la Bibbia vanno imparati servendosi dell'apposita tavola che si trova all'inizio della Bibbia. Si ricordi che per designare i libri biblici si usano sigle (e non abbreviazioni) 1. • Le lingue della Bibbia: ebraico (Antico Testamento) e greco (Nuovo Testamento). Alcune parti (pochissime) dell'Antico Testamento sono in aramaico (Gen 31, 47; Ger 10, 11; Dn 2, 4b-7, 28; Esd 4, 8-6, 18; 7, 12-26). Sette libri dell'Antico Testamento ci sono giunti solamente in lingua greca nella traduzione chiamata "dei Settanta" (LXX, o Septuaginta, o "la Settanta") 2. • La Bibbia è divisa in due parti: Antico Testamento (AT) e Nuovo Testamento (NT). Spartiacque tra le due sezioni del libro è Cristo. Gli ebrei accettano solo l'AT (non riconoscendo, peraltro, il carattere ispirato e canonico di sette libri, in greco, accettati invece dai cattolici, come vedremo in seguito). La dizione AT / NT è ambigua, perché fa pensare ad una disposizione testamentaria (il "testamento" comunemente inteso). Tale espressione nasce, probabilmente, dalla traduzione latina del testo greco di 2Cor 3, 14 ("Sed obtusi sunt sensus eorum; usque in hodiernum enim diem idìpsum velàmen in lectione veteris testamenti manet non revelatum; quoniam in Christo evacuatur")3 che rende il vocabolo greco diathḕkē 1 "Mt", ad es., non può essere una abbreviazione, perché la parola "Matteo" alla quale sappiamo che si riferiscono le due lettere andrebbe segnata "Matt." col puntino al posto delle due ultime lettere mancanti, qualora fosse una abbreviazione. Invece "Mt" non è abbreviazione ma è una sigla, perché è un mero simbolo del nome "Matteo", in quanto presenta scritte solo la prima e la terza lettera di quelle che compongono il nome. L'abbreviazione, che è tale quando un puntino sostituisce le lettere mancanti (come ad es. Dott., Ing., Avv.), rimanda immediatamente al nome abbreviato; la sigla no, perché, per restare nel nostro caso, chi non ha familiarità con i libri biblici non saprebbe mai risalire dalla sigla "Mt" al nome del primo evangelista. 2 Del Siracide, che è uno di questi sette libri (chiamati "deuterocanonici"), sono stati ritrovati tra il 1896 e il 1982 diversi frammenti che, sommati, costituiscono il 70% del testo greco. 3 "Ma le loro menti furono accecate; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, sulla lettura dell'antica alleanza (tēs palaiâs diathḕkēs), perché è in Cristo che esso viene abolito". 2 (alleanza) con "testamentum", donde la dizione AT e NT per significare le due alleanze e, conseguentemente, le due parti della Bibbia che ad esse si riferiscono. • I libri biblici ricevono varie designazioni (in parentesi il nome in greco) 4: - scritture sante (graphài hàghiai): Rm 1, 3 - sacre lettere (ta hierà gràmmata): 2Tm 3, 15 - il libro sacro (he hierà biblos): 2Mac 8, 23 - i libri santi (ta biblìa ta hàghia): 1Mac 19, 9 - scrittura, scritture (he graphè, hai graphài): Gv 10, 35; Mt 21, 42 - i libri (ta biblìa), designazione più rara, che si trova in Clemente Alessandrino, Origene, Giovanni Crisostomo. Essa però diverrà comune tra gli scrittori ecclesiastici latini. Il plurale neutro greco (Biblia) si è trasformato nel sostantivo femminile singolare "Bibbia". L'ISPIRAZIONE • CONCILIO VATICANO II, Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum: da studiare attentamente, perché ad essa faremo continuamente riferimento. • Il trattato dell'Ispirazione si interessa non dell'ispirazione in generale (come potrebbe essere, genericamente, quella profetica o il particolare aiuto accordato all'uomo dallo Spirito Santo, ieri come anche oggi), ma esclusivamente dell'ispirazione a scrivere, e quindi dell'influsso esercitato dallo Spirito Santo sulla 4 Per facilitare la lettura delle parole traslitterate dal greco (discostandomi dall'uso comune), segno l'accento sulla sillaba su cui effettivamente cade in italiano. Il dittongo greco ου, trascritto con ou, si legge u. 3 volontà dell'uomo, che lo porta a scrivere5. Essa dunque riguarda da vicino i singoli libri e la Bibbia nel suo complesso. Poiché il testo sacro dice poco a proposito dell'ispirazione a scrivere 6, il trattato ha un carattere più marcatamente speculativo, che potremmo definire deduttivo e induttivo ad un tempo: deduttivo, perché procede dall'universale al particolare (nel nostro caso, dall'esistenza della Rivelazione storica di Dio in opere e parole alla sua fissazione in un testo); induttivo, perché, partendo da singoli casi particolari, cerca di stabilire una legge universale (nel nostro caso, dall'esistenza de facto dei libri biblici e dalla personalità degli agiografi che da essi emerge, a un modello che, almeno nella sua generalità, possa definire il "fatto" dell'ispirazione a scrivere, in armonia con tutti gli altri insegnamenti presenti nella Scrittura). In nessun libro sacro, infatti, è descritta in modo particolareggiato l'opera dell'agiografo, eccezion fatta (benché parzialmente) per il "Prologo" del Siracide e per la "Prefazione" a 2Mac (2, 19-32), testi nei quali l'autore (nel caso del Siracide, il traduttore; per 2Mac, il compendiatore) parla in prima persona e presenta ai lettori la sua opera. • Del carattere ispirato della Scrittura parlano, ex professo, 2Tm 3, 15-17 e 2Pt 1, 19-21, benché in riferimento all'AT. • Il NT, invece, parla del suo carattere ispirato nei seguenti passi: Ap 1, 1-3, che invoca per sé una origine divina («Rivelazione di Gesù Cristo: a lui Dio la consegnò per far sapere ai suoi servi le cose che debbono accadere fra breve, ed egli la trasmise, con l'invio del suo angelo, al suo servo Giovanni, il quale attesta la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo, secondo quanto vide. Beato chi legge e beati quelli che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono ciò che vi è scritto»); 5 Il lessico stesso dell'ispirazione fa riferimento allo Spirito (spiritus; gr. pnèûma): inspirare / inspiratio /pneumatikòs / theòpneustos/ theopneustìa. 6 Ma non è solo il testo sacro a dire poco circa l'ispirazione; anche il magistero fa registrare solo pochissimi testi a riguardo. 4 1Tm 5, 18 in cui, sotto la medesima formula "la Scrittura dice...", Paolo cita Dt 25, 4 ("Non metterai la museruola al bue che trebbia"), dunque un brano dell'AT, e Lc 10, 7 (" L'operaio è degno della sua mercede"), un brano del NT. Non bisogna dimenticare che gli apostoli, affermando le loro prerogative, fanno capire che i loro scritti meritano lo stesso rispetto della Tôrāh e dei Profeti, perché possiedono lo stesso carattere sacro. Come Mosè e i Profeti, essi si percepiscono quali «ambasciatori di Dio» (2Cor, 5, 20). Avendo ricevuto luce e forza dallo Spirito Santo per espletare la loro missione (cfr Gv 14, 16.26; 15, 26; At 1, 8) godono di un carisma più elevato di tutti (cfr 1Cor 12, 28; Ef 4, 11), parlano con autorità assoluta ed esigono che le loro parole siano accettate come parola di Dio. Molto chiaro, a tal proposito, è 1Ts 2, 13 «avendo ricevuto da noi la parola della predicazione di Dio, l'avete accolta non quale parola di uomini ma, come è realmente, quale parola di Dio, che è potenza in voi credenti»; lo stesso Dio, infatti, lo stesso Cristo parla in loro, come è detto in 2Cor 5, 20 («... per mezzo nostro è Dio stesso che esorta»). Da questo punto di vista, gli apostoli non ammettono alcuna distinzione tra il loro insegnamento orale e quello scritto: entrambi costituiscono la regola della fede, come è detto in 2Ts 2, 15: «state saldi e mantenete le tradizioni che avete appreso sia dalla nostra viva voce, sia dalla nostra lettera». È dunque difficile dubitare che la grazia dell'apostolato non rechi con sé, come conseguenza, la grazia dell'ispirazione: sia che l'apostolo parli, sia che scriva. • DIO «AUTORE DEI LIBRI ISPIRATI» La manualistica definiva Dio autore principale e l'agiografo7 autore secondario, o letterario, o strumentale. Questa terminologia è, però, va chiarita. Se, infatti, un elemento è qualificabile come "secondario" potrebbe, a rigore, anche scomparire senza che per questo la struttura patisca danni; così, la dizione "autore letterario" fa pensare all'agiografo come a colui che ha, semplicemente, rivestito di parole idee altrui. La qualifica di "autore strumentale" (che risale a San Tommaso d'Aquino 8) è la meno pericolosa. San Tommaso d'Aquino, infatti, affermò che Dio si serve, sì, dello scrittore umano come di uno strumento, ma in misura pienamente conforme alla sua natura di essere libero, responsabile e intelligente. 7 8 Si chiama agiografo l'autore, o scrittore sacro. Quodlibet, VII a. 14, ad 15; a. 16. 5 Due importanti affermazioni si trovano in Dei Verbum 11: a) «Le verità divinamente rivelate, che nei libri della Sacra Scrittura sono contenute ed espresse, furono scritte per ispirazione dello Spirito Santo (Spiritu Sancto afflante)»; b) tutti interi i libri dell'AT e del NT con tutte le loro parti «hanno Dio per autore (Deum habent auctorem) e come tali sono stati consegnati alla chiesa». Dio è definito autore non perché abbia materialmente scritto i libri biblici, bensì in ordine all'influenza esercitata in modo prossimo sugli agiografi. La formula «Dio autore dei libri dell'Antico e del Nuovo Testamento» ricorre in Gregorio Magno, Isidoro di Siviglia e negli Statuta Ecclesiae Antiqua (redatti probabilmente in Francia, durante il V sec.) in un marcato contesto antimanicheo. Il Manicheismo infatti attribuiva l'economia dell'AT (con i libri corrispondenti) al principio del male. Contro di esso la tradizione ecclesiastica riaffermava l'origine dal medesimo Dio, che ci ha donato la salvezza, anche dell'economia che essa salvezza aveva preparata, con i libri che le corrispondevano. Dunque, Dio non ha scritto, materialmente, un libro in cui fissare la sua volontà. In che modo allora la sua parola può essere significata agli uomini? In che modo può essere custodita in modo efficace e permanente? Per mezzo di un libro. Ma solo gli uomini possono scrivere dei libri; e tuttavia, se mettono per iscritto i propri pensieri, saranno unicamente essi gli effettivi autori del libro, e non Dio. E allora bisogna vedere in che modo Dio e uomo possano lavorare insieme per la confezione di un libro che sia realmente Parola di Dio, pur essendo scritto da un uomo pensante (e, dunque, non in trance), in una lingua parlata dagli uomini e con categorie umane, comprensibili e condivise. È un difficile rapporto, data la abissale distanza/differenza tra i due autori. • IL PROBLEMA DEGLI AGIOGRAFI QUALI "VERI AUCTORES". L'esistenza, per così dire, del tandem Spirito Santo-agiografo in ordine alla scrizione di un libro sacro è già testimoniata dalla Bibbia stessa. Pur senza operare illegittime divisioni tra brani ispirati e brani non ispirati (tutta la Bibbia, infatti, è ispirata, dalla prima all'ultima parola!), i libri dell'AT non attribuiscono mai (in 6 modo diretto, s'intende) a Dio l'intero contenuto di un libro o di tutti i libri della Bibbia ebraica, ma riferiscono a lui direttamente solo quanto è presentato come effettiva parola di Jahwè ai patriarchi, a Mosè o ai profeti. Questi ultimi, a loro volta, distinguono accuratamente gli oracoli ricevuti da Dio dalle esortazioni con cui li hanno proclamati al popolo9. Anche i libri del NT, quando citano testi dell'AT, attribuiscono a Dio solo quanto effettivamente fu detto da lui ai patriarchi, a Mosè o attraverso i profeti. Le altre affermazioni della Scrittura, pur conservando tutta la loro grande autorità (cfr le formule: «la Scrittura dice»; «come sta scritto»), mai gli sono riferite direttamente. È, piuttosto, l'intero messaggio salvifico dell'AT, che viene ripetutamente attribuito a Dio. Fu solo più tardi, dopo il 70 d.C., che presso il giudaismo s'incominciò a pensare che Dio avesse dettato a Mosè, parola per parola, tutto il Pentateuco, rendendo così molto stretto il rapporto di Dio con ogni affermazione e parola dei testi sacri. Questa tesi rabbinica (che, ripetiamolo, non ha alcun solido fondamento biblico), per custodire l'assolutezza e la genuinità della parola di Dio, finì per ridurre a zero il ruolo dell'agiografo, considerato implicitamente come un semplice scrivano o amanuense, fino ad essere, moralmente, annullato 10. Collocandosi invece nell'alveo della genuina tradizione, la Dei Verbum (n. 11) definisce gli agiografi "veri autori" dei libri ispirati: «Per la composizione dei libri sacri Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità (facultatibus ac viribus suis utentes) affinché, agendo Egli in essi e per loro mezzo, scrivessero, come veri autori (ut veri auctores) tutte e soltanto quelle cose che Egli voleva fossero scritte». L'espressione "veri auctores" compare solo nella seconda rielaborazione del testo della Dei Verbum, in seguito ai suggerimenti e alle proposte espresse dai Padri conciliari durante il dibattito, per sottolineare il ruolo attivo degli agiografi nella composizione dei libri sacri, durante la quale essi misero in atto i loro talenti e le loro facoltà, come veri autori, appunto, e non come passivi scrivani, come invece pretendeva il domenicano spagnolo Domingo Bañez (1528-1604) 11, propugnatore della teoria che prende il nome di "dettatura" (dictatio). Nel suo commento a San Tommaso (Commentarium in Primam Partem Summae Theologicae, q. 1 a. 8) asseriva infatti che tutto nella Bibbia, anche le singole parole, era stato dettato all'agiografo direttamente da Dio: «lo Spirito Santo non ispirò 9 Cfr le formule: «Così dice il Signore» e «Oracolo del Signore», molto frequenti negli scritti dei Profeti. Celebre è il detto di San Gregorio (Moralia in Job, Praef. c. 1, 2: PL 75, 517): «Ipse igitur haec scripsit, qui scribenda dictavit» (Colui che ha scritto queste cose è lo stesso che le ha insegnate). 11 Il teologo spagnolo fu anche confessore di Santa Teresa d'Avila. 10 7 soltanto i contenuti della Scrittura, ma dettò e suggerì (dictavit atque suggessit) anche le singole parole (etiam singula verba) mediante le quali quei contenuti venivano scritti». La teoria, che intendeva garantire la trascendenza assoluta della Parola, incontrò il favore anche dei Protestanti, i quali accentuavano ancora di più la passività dell'agiografo, che avrebbe trascritto, anche senza capire, il libro, che gli era stato dettato, o presentato alla mente, da Dio 12. Non è possibile immaginare esattamente, nella sua concretezza, un simile lavoro di composizione in tandem, essendo sempre in agguato la tendenza ad accentuare il ruolo di uno dei due autori (lo Spirito Santo e l'uomo) a scapito dell'altro, come infatti è accaduto nella storia della teologia. Una immagine equilibrata di siffatta cooperazione/collaborazione nella scrizione di un testo sacro, lontana da pericolose derive, la offre già l'enciclica Providentissimus Deus (18. XI. 1893) di Leone XIII nella quale, a proposito degli agiografi, si dice: «Infatti egli stesso (lo Spirito Santo) così li stimolò e li mosse a scrivere con la sua virtù soprannaturale, così li assisté mentre scrivevano, di modo che tutte quelle cose e quelle sole che egli voleva, le concepissero rettamente con la mente, e avessero la volontà di scrivere fedelmente e le esprimessero in maniera atta con infallibile verità: diversamente non sarebbe egli stesso l'autore di tutta la Sacra Scrittura». 13 In altre parole, Dio innalza tutte le facoltà umane e spirituali dell'agiografo perché egli, pensando e scrivendo da uomo, possa essere non solo uno strumento efficace nelle sue mani, ma sia egli stesso vero autore del libro sacro. • Un libro ispirato è di per se stesso Parola di Dio ed è, parimenti, normativo per la fede e i costumi (ossia la morale), a differenza di qualsiasi altro testo. Il Concilio Vaticano I (Cost. dogm. Dei Filius, cap. II: DS 3006) 14 chiarisce che i libri dell'AT e del NT sono considerati sacri dalla Chiesa «non perché, composti per opera dell'uomo, siano stati posteriormente approvati dalla sua autorità, e neppure perché contengano senza errore la rivelazione ma perché, scritti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo (Spiritu Sancto inspirante), hanno Dio per autore e come tali sono stati trasmessi alla Chiesa». Dunque, va rigettata come contraria alla fede cattolica l'idea di una approvazione conseguente, ovvero successiva alla scrizione del libro (posizione, questa, sostenuta nel sec. XVI dal gesuita belga Leonardo Lessio, che poi ritrattò). Si tratterebbe, infatti, di riconoscere o attribuire a un testo qualcosa (nel 12 In ambito cattolico la teoria fu abbandonata nel sec. XIX. DS 3293. La posizione dell'enciclica circa gli agiografi è nota come «modello leonino», dal nome del papa Leone XIII che ne fu l'estensore. 14 La Costituzione fu solennemente confermata da Pio IX nella III sessione del Concilio, il 24 aprile 1870. 13 8 nostro caso: il carattere ispirato) che prima non c'era o non veniva riconosciuto. Per cercare una possibile soluzione a un problema indubbiamente complesso, bisogna fare, necessariamente, due considerazioni: 1. Non bisogna immaginare gli agiografi come dei genî teologici isolati i quali, a un certo momento e per motivi i più disparati, hanno scritto questo o quel libro sacro senza ben sapere a chi sarebbe stato destinato. Questo perché quasi tutti i libri della Sacra Scrittura rappresentano, molto spesso, il punto di arrivo di tradizioni (orali o documentarie, ossia scritte) talora molto antiche. Il libro, dunque, deve essere inteso, almeno per la maggioranza dei casi, come punto di coagulo, e non come fondamento di tradizioni. 15 2. Occorre riflettere sulla preistoria del libro biblico, e dunque su un prima, costituito dall'insegnamento di un profeta, di un apostolo, di un legislatore (come ad es. Mosè), di un sapiente o, meglio ancora, di un determinato circolo sapienziale, insegnamento che già possedeva, a causa della sua origine, una riconosciuta autorità; solo successivamente si potrà riflettere su di un dopo, costituito dalla messa per iscritto di quegli insegnamenti e dalla sua accettazione sempre più ampia da parte delle comunità. Una eccezione, almeno parziale, sembrerebbe costituita ralle Lettere di San Paolo che sembrano invocare una approvazione successiva alla loro scrizione. Ma, anche qui bisogna chiedersi: come mai le Lettere di San Paolo sono state accolte nel canone dei libri ispirati? Perché sono state considerate testi ispirati e non lettere occasionali, determinate da questa o quella urgenza? Evidentemente, il contenuto delle Lettere non era, in alcun modo, disgiunto dalla personalità dell'apostolo, certamente nota alle comunità (o almeno ai loro capi), dalla sua singolarissima conversione e dalla sua divina elezione all'apostolato. Diversamente, le 13 Lettere sarebbero state soltanto dei testi sublimi, ma nulla di più. Poiché, invece, oltre alla sublimità ne è stata riconosciuta l'ispirazione e, dunque, la normatività, bisogna necessariamente postulare un quid diversificante, costituito, appunto, dalla auctoritas di Paolo, autorità che precede ed eccede il contenuto delle Lettere e che, in certo senso, ne autentica il carattere ispirato. Le argomentazioni testé esposte fanno concludere che la religione cristiana non è una "religione del Libro". E infatti, tanto per gli ebrei quanto per i cristiani, non è il libro a fondare la religione ma, in certo senso, l'esatto contrario: è la 15 Anche se poi non pochi insegnamenti contenuti nei libri biblici hanno costituito, a loro volta, il fondamento di successivi sviluppi teologici. 9 comunità (Israele o la Chiesa) che nel libro riconosce, messa per iscritto, la parola di Dio rivolta ai padri, ai patriarchi, ai profeti, agli apostoli; riconosce le opere meravigliose del Signore (creazione, alleanza, pasqua...); riconosce la autentica predicazione di Gesù Cristo, autentica proprio per l'autorità (unanimemente riconosciuta) di quanti la hanno trasmessa: ché se ci fossero stati dubbi sulla veridicità degli apostoli e degli evangelisti, difficilmente la predicazione di Gesù e i suoi miracoli sarebbero stati creduti veri e sarebbero giunti fino a noi. Poiché, dunque, la Bibbia non è un libro auto-referenziale, è la Chiesa che lo riconosce e accoglie come libro ispirato 16. • L'ispirazione non va considerata come un carisma permanente, ma rientra nel novero delle grazie "attuali": essa, perciò, non si radica permanentemente nell'agiografo ma nasce e finisce con la scrizione del libro sacro17. • L'INERRANZA 16 Nel lasso di tempo intercorso tra i fatti e la loro scrizione (il Pentateuco, ad esempio, è stato pubblicato nella forma che conosciamo solo verso il V sec. a. C., all'epoca di Esdra, fondendo diversi documenti anteriori; i vangeli furono pubblicati tra il 70 e il 100) i fatti sono stati riletti, verosimilmente, alla luce di altri eventi, con il conseguente approfondimento della loro natura teologica e con una maggiore intelligenza del loro legame con altri fatti della storia della salvezza. Questo processo di ri-lettura teologica si rivela, macroscopicamente, nella storia di Israele e in quella di Gesù di Nazareth. Per chiarire questa dinamica (più complessa di quanto non sembri), sono utili alcuni schemi esemplificativi: A) AZIONI DI DIO NELLA STORIA DI ISRAELE (ad esempio: la Pasqua; l'Alleanza con Abramo...) → RICORDO «CULTUALE» DI 12, 24-27: «Voi osserverete questo comando come un rito fissato per te e per i tuoi figli per sempre. Quando poi sarete entrati nel paese che il Signore vi darà, come ha promesso, osserverete questo rito. Allora i vostri figli vi chiederanno: che significa questo atto di culto? Voi direte loro: È il sacrificio della Pasqua per il Signore, il quale è passato oltre le case degli Israeliti in Egitto, quando colpì l'Egitto e salvò le nostre case»)→SCRIZIONE DI QUESTE AZIONI DIVINE. QUESTE AZIONI (Es B) PREDICAZIONE DEI PROFETI →SCRIZIONE DELLE PROFEZIE. C) PREDICAZIONE SAPIENZIALE→RICONOSCIMENTO DEL VALORE DI QUESTA PREDICAZIONE IN CUI SI RIFLETTE FEDELMENTE LA FEDE E L'ETHOS DI ISRAELE→MESSA PER ISCRITTO DELLA PREDICAZIONE. D) FEDE DI ISRAELE (ad esempio: la fede nella creazione del mondo da parte di un solo Dio; la caduta dei progenitori Adamo ed Eva; il diluvio)→MESSA PER ISCRITTO DEI DATI DI FEDE (si pensi al libro della Genesi). E) DETTI E FATTI DI GESÙ→PREDICAZIONE ORALE DEGLI APOSTOLI→RACCOLTE PARZIALI (orali e documentarie)→VANGELI. F)AUTORITÀ DI UN APOSTOLO RICONOSCIUTA DA UNA O PIÙ COMUNITÀ→PRODUZIONE SCRITTA DELL'APOSTOLO→RICONOSCIMENTO IN ESSA DELLA STESSA VOCE E DELLA STESSA AUTORITÀ DELL'APOSTOLO E ATTRIBUZIONE AD ESSA DEL CARATTERE NORMATIVO. 17 Ad es.: Paolo ha scritto per influsso dell' ispirazione le 13 Lettere, così come Giovanni il suo vangelo. Qualunque altra cosa essi abbiano potuto scrivere al di fuori di questi testi, non è ispirata. 10 Si definisce "inerranza" quella proprietà della Scrittura per la quale essa è priva di errori: una affermazione giusta ma che va attentamente definita. Il Concilio Vaticano II, per evitare una dizione "al negativo" (in-erranza = mancanza di errore), usa, nella Dei Verbum (n. 11) una espressione diversa, questa volta in positivo, e parla, perciò, di "verità" della Scrittura, una nozione certamente meno gretta, più ampia e luminosa: «Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, è da ritenersi anche, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore (firmiter, fideliter et sine errore) la verità che Dio, per la nostra salvezza (nostrae salutis causa), volle fosse consegnata nelle sacre Lettere». In passato, dato il carattere sacro del libro, si riteneva che ogni asserzione biblica fosse esente da errore, comprese le affermazioni di tipo scientifico (che sono, sì, contenute materialmente nella Bibbia, ma non sono formalmente insegnate), le quali rispecchiano il grado di cultura delle diverse epoche. Quando, ad es., Giosuè impone al sole di fermare il suo corso (Gs 10, 12-13), mostra di condividere la cosmologia del suo tempo, che immaginava la terra ferma al centro dell'universo e il sole che le ruotava intorno, né avrebbe potuto fare altrimenti, magari proclamando: «Fermati, o terra!». C'è un errore scientifico nel passo biblico in questione? Sì, ma si tratta di un errore solo materiale, nel senso che esso è, sì, presente nel testo, ma non vi è insegnato come verità. In altre parole, non è detto essere insegnamento veniente da Dio il dover ritenere che il sole giri e la terra sia ferma al centro dell'universo, secondo la vecchia teoria tolemaica: questo sarebbe stato un errore vero e proprio, un errore formale; nel passo citato si esprime, invece, solo una concezione del cosmo propria di quel tempo. Peraltro, tutti gli errori scientifici della Bibbia si spiegano con il fatto che essa è un testo che parla a uomini concreti e in epoche precise. Essa dunque non è l'enciclopedia dei diversi saperi, né, tantomeno, si propone di rettificare le errate cognizioni scientifiche delle diverse culture all'interno della quali vennero alla luce i libri che la compongono. Questa concezione fu messa seriamente in crisi dal progresso delle scienze e, in modo eclatante, dal "caso Galilei", vale a dire dal processo con relativa condanna che lo scienziato Galileo Galilei subì a Roma nel 1633 a motivo della sua teoria eliocentrica, che contrastava con la vecchia dottrina geocentrica, fatta propria dalla Chiesa, e che si basava, a livello biblico, su un passo del libro di Giosuè (10, 12-13): «Fermati, sole, su Gabaon, e tu, luna, sulla valle di Aialon! Si fermò il sole e la luna rimase immobile finché il popolo non si vendicò dei nemici». Ma se molte affermazioni scientifiche contenute nella Bibbia sono in disaccordo con la scienza moderna, altre ve ne sono, nell'AT, in stridente contrasto 11 addirittura con l'insegnamento di Gesù, il che è ancor più sconcertante: basti pensare, ad es., al ḥerem, ossia il voto di sterminare un popolo o un gruppo nemico (cfr Dt 20, 10-20; Gs 11, 14-15) o alle espressioni contenute in alcuni Salmi, come il 109 (108) o il 137 (136), 8-9, animate da un feroce spirito di vendetta. Queste, e altre consimili espressioni, vanno valutate non (anacronisticamente) secondo il nostro modo di pensare ma, piuttosto, vanno inquadrate nell'orizzonte della cultura semitica antica e nella sua ancor primitiva morale, ricordando che l'ethos (dei singoli e del popolo) è una realtà in evoluzione, e dunque una realtà nella quale si registra un affinamento che troverà il suo vertice nella morale evangelica proposta da Gesù Cristo. Per intendere rettamente le espressioni bibliche che spiacciono alla nostra sensibilità va ricordato, inoltre, che per l'uomo dell'AT il nemico di Dio era anche il suo nemico personale, e viceversa, donde la virulenza delle sue affermazioni. E ancora: poiché la nozione di una vita oltre la morte, con la conseguente retribuzione dei buoni e dei malvagi, era ancora dottrina oscura e incerta, si riteneva che l'ambito in cui Dio manifestava la sua giustizia fosse ristretto, necessariamente, alla vita presente, che diventava, quindi, lo scenario della giustizia divina. Il testo di Dei Verbum 11, senza entrare nei particolari, sottolinea che la Bibbia contiene e insegna con certezza, fedelmente e senza errore, le verità salvifiche, ossia quelle verità che conducono alla salvezza (ad es., la fede in Gesù Cristo figlio di Dio). Se possono essere presenti errori di tipo scientifico, cosmologico, o anche paradigmi morali passibili di successivi sviluppi (dalla morale imperfetta dell'AT a quella perfetta del NT) e se, per la presenza di questi elementi, si può parlare di Bibbia come di un libro che riflette la cultura del suo tempo (del tempo, cioè, in cui fu pubblicato ogni singolo testo), non è consentito qualificare egualmente come "provvisoria" o riformabile l'antropologia presentata nel libro della Genesi, o la morale del Nuovo Testamento. Esse, infatti, godono di perenne validità esemplare, una validità che è stata unanimemente e ininterrottamente riconosciuta dalla Chiesa. • L'UNITÀ DEI DUE TESTAMENTI IN DEI VERBUM NN. 14-20 Abbiamo visto come la Chiesa, in solenni documenti del magistero, si sia preoccupata di evidenziare che Dio è l'autore tanto dell'Antico quanto del Nuovo 12 Testamento, contro ogni dualismo di tipo manicheo 18. L'unità di autore, tuttavia, non è un dato puramente materiale ma fonda anche l'intrinseca unità delle due sezioni della Bibbia che, nonostante macroscopiche diversità e, talora, stridenti contrasti (si pensi alla differenza tra la morale dell'AT, ancora rozza, e quella perfettissima del NT), sono tra loro intimamente congiunte. L'AT va considerato, dunque, una preparazione del NT. Ma questo suo carattere non deve far ritenere superato l'AT, e infatti : «L'economia della salvezza (Oeconomia ...salutis), poi, preannunziata, narrata e spiegata dai sacri autori, si trova come vera parola di Dio (ut verum Dei verbum) nei libri dell'Antico Testamento; perciò questi libri divinamente ispirati conservano valore perenne: "Infatti tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza (Rm 15, 4)"» (Dei Verbum 14). Il Concilio parla di oeconomia salutis, di una "economia" non di tipo monetario, ovviamente ma, piuttosto, di un "ordine", di una "struttura" della salvezza, ove regna il principio della gradualità, chiamata dal nostro documento "pedagogia divina" (paedagogia divina) che proprio i libri biblici dimostrano (Dei Verbum 15). Dio, infatti, ha parlato agli uomini usando categorie proprie del tempo, con un linguaggio ad essi comprensibile, abbassandosi sino al loro livello, con una ammirabile condiscendenza (condescensio), sicché le sue parole «si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell'eterno Padre, avendo assunto la carne dell'umana debolezza, si fece simile agli uomini» (Dei Verbum 13). L'AT, tuttavia, non ha una importanza solo come documento storico, ma possiede una validità perenne. In esso infatti sono racchiusi «sublimi insegnamenti su Dio e una sapienza salvifica sulla vita dell'uomo (salutaris de vita hominis sapientia) nonché mirabili tesori di preghiera, nei quali infine sta nascosto il mistero della nostra salvezza» (Dei Verbum 15): qui il documento si riferisce alla nozione di Dio veicolata dall'AT, alla irreformabile antropologia insegnata specialmente nel libro della Genesi, all'infinità di testi profetici e sapienziali che ancor oggi mantengono la loro importanza sociale, pedagogica e formativa, e, infine, ai Salmi (ma non solo) che sono, per così dire, la più alta scuola di preghiera di tutti i tempi. Questi insegnamenti, queste realtà, sono intrinsecamente differenti da qualunque altro insegnamento umano, non solo per la trascendenza della loro 18 Già il Libellus in modum symboli del 447 affermava: «Se qualcuno crederà...che il Dio dell'antica Legge sia diverso da quello degli Evangeli, sia anàtema» (DS 198). Ancora più chiaro il Concilio di Firenze (Bolla Cantate Domino - Decr. pro Iacobitis - 4 febbraio 1442): «La chiesa condanna con anatema la demenza dei manichei, che ammettevano due principii primi, uno delle cose visibili, l'altro di quelle invisibili e dicevano che altro è il Dio del nuovo Testamento, altro quello dell'antico» (DS 1336). 13 origine ma perché sono parola di Dio rivolta hic et nunc al credente, al pari del vangelo e di tutto il NT. Il credente, dunque, deve conoscere, amare e venerare l'AT come il Nuovo, perché in esso è lo stesso Dio a parlare. Peraltro, lo studio scientifico dell'AT chiarisce tanti aspetti e problemi del NT che, altrimenti, rischierebbero di rimanere insoluti o riceverebbero inadeguata soluzione. Questa interdipendenza delle due sezioni della Bibbia - interdipendenza storica, logica, teologica - è chiaramente significata dal nostro documento: «Dio...ha sapientemente disposto che il Nuovo fosse nascosto nell'Antico e l'Antico diventasse chiaro nel Nuovo (ita sapienter disposuit ut Novum in Vetere lateret et in Novo Vetus pateret» (Dei Verbum 16) 19. IL TESTO BIBLICO • MATERIALE SCRITTORIO, FORMA DEI MANOSCRITTI, SCRITTURA ECC. DEI MANOSCRITTI EBRAICI a) La tradizione conosce due forme di manoscritti: il rotolo e il codice (corrispondente al nostro libro). Il rotolo è designato con la parola meghillah (cfr Ger 36, 36; Ez 2, 9-10; Sal 40, 8; Zc 5, 1) o con kepher «missiva, brano scritto» (cfr Is 34, 4; Gb 31, 35-36). La Lettera dello pseudo-Aristea e 1Mac 3, 48 fanno intendere che la Tôrāh era scritta su un rotolo. È difficile dire esattamente quando gli Ebrei si siano serviti della forma del codice per i loro manoscritti biblici. Una testimonianza di Teodoreto constata che nel V secolo d. C. l'uso del rotolo è ancora corrente presso gli Ebrei (PG 82, 853). Anche il Talmud suppone l'uso del rotolo. È dunque probabile che il codice sia stato impiegato in maniera generalizzata per i testi biblici a partire dal VI-VII secolo, mai comunque per la lettura sinagogale. b) I manoscritti biblici portano alla fine un colofone (gr. kolophṑn) ossia una legenda indicante il titolo del libro, il nome dello scriba, il nome del luogo dove il libro è stato trascritto e altre notizie ancora. 19 La frase, giustamente celebre, risale ad Agostino (Quaestiones in Heptateuchum, II, q. 73: PL 34, 623). 14 • IL TESTO EBRAICO ED ARAMAICO DELL'AT 1) Lingue dell'AT L'AT fu scritto originariamente in tre lingue: direttamente in ebraico quasi tutto l'AT; in aramaico Gen 31, 47; Ger 10, 11; Dn 2, 4b-7, 28; Esd 4, 8-6, 18; 7, 12-26; direttamente in greco furono scritti Sap e 2Mac. Attualmente, possediamo soltanto in traduzione greca: Bar, le sezioni deuterocanoniche di Est e Dn, Tb, Gdt, Sir (di questo libro, però, nel sec. XIX furono scoperti nel deposito di una sinagoga del Cairo circa i tre quinti del testo ebraico; nuovi frammenti furono scoperti e pubblicati nel XX secolo). Bar, le sezioni greche di Est e 1Mac furono scritti originariamente in ebraico o aramaico. Tb, Gdt e le sezioni greche di Dn furono scritti originariamente in ebraico. 2) Lingua e scrittura ebraica L'ebraico appartiene al ramo nord-occidentale delle lingue semitiche, insieme con l'aramaico, l'antico cananeo, l'ugaritico, il fenicio e il moabitico. Decadde come lingua parlata al tempo dell'esilio babilonese (VI sec. a. C.) e fu sostituito dall'aramaico, rimanendo però la lingua liturgica e dotta, e anche in seguito i libri biblici furono composti in ebraico. La scrittura adoperata fin dai tempi antichi è quella detta fenicia, che si serve dell'alfabeto fenicio di 22 lettere: i libri biblici antichi furono quindi scritti e ricopiati con questi caratteri, alcuni dei quali, avendo una forma simile spiegano non poche corruzioni del testo masoretico (i libri protocanonici ebraici) o differenze tra il testo masoretico e la LXX. Dopo l'esilio fu adottata una scrittura derivata dalla scrittura aramaica corsiva, in uso fino ai giorni nostri, chiamata quadrata per la forma delle lettere. La lingua aramaica, usata in taluni passi della Bibbia, viene chiamata «aramaico antico», per distinguerla da forme linguistiche più recenti come il «palestinese», parlato ai tempi di Gesù, il nabateo, il palmireno e l'aramaico cosiddetto «orientale», cui appartiene la lingua siriaca. • LA CRITICA TESTUALE Come per la maggior parte delle opere dell'antichità, non possediamo l'originale di alcun libro biblico. Per "originale" si intende il testo scritto direttamente dall'autore 15 o, comunque, da lui riveduto. Si tenga presente che nell'antichità le opere venivano, generalmente, dettate a uno scriba, perché la scrittura era considerata esercizio servile. Fino all'invenzione della stampa a caratteri mobili (tra il 1436 e il 1440) la Bibbia, come tutti i testi antichi, veniva copiata e ricopiata. In questo modo il testo era, sì trasmesso, ma in esso si introducevano i più svariati errori 20, dovuti alla vista, all'udito, alla distrazione, o alla poca comprensione, da parte dello scriba, del testo da copiare, che poteva essere tanto l'originale, quanto una copia (antigrafo). A questi errori si aggiungano le cosiddette "variazioni intenzionali", che possono avere una molteplice origine (preoccupazioni ortografiche 21, preoccupazioni armonistiche 22, scrupoli religiosi 23, dottrine ereticali ecc.). A causa della molteplicità di copie del testo biblico (solo per il NT possediamo, al presente, circa 5745 manoscritti) e degli errori in esso accumulatisi, occorre, come per ogni opera letteraria dell'antichità, ricostruire il perduto testo originale, con un'operazione filologica quanto mai delicata (la restitutio textus). È questo il compito della critica testuale, una branca della filologia, che, con metodiche delicate e complesse cerca, dalla molteplicità dei testimoni di un testo, di ricostituire il perduto originale. Il filologo che materialmente esegue questa operazione viene chiamato editore (da non confondere con la "casa editrice"). Il prodotto del suo lavoro filologico si chiama edizione critica24. Essa è sempre bipartita, cioè presenta nella parte alta della pagina 20 Circa l'entità di questi errori bisogna da subito sapere che, quasi sempre, essa è minima, nel senso che sono pochissimi gli errori che mutano radicalmente il senso del testo. 21 In certi manoscritti, ad es., le desinenze ellenistiche sono sostituite con le desinenze del greco classico. Altrove sono stati corretti certi semitismi. 22 Nascono dal desiderio di mettere maggiormente d'accordo passi paralleli o, comunque, di completarli e assimilarli vicendevolmente. Così il testo di Mt 5, 44 («Io invece vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano») è tramandato da alcuni codici in questa forma: «Io invece vi dico: amate i vostri nemici, benedite quelli che vi maledicono, fate del bene a quelli che vi odiano e pregate per quelli che vi maltrattano», aggiungendo alcune espressioni che si trovano in Lc 6, 27-28. La preoccupazione armonistica ha pure l'effetto di conformare al testo della LXX le citazioni libere che il NT fa dell'AT. Così, mentre Mt 15, 8 cita liberamente Is 29, 13, alcuni manoscritti riportano letteralmente il testo della LXX. 23 A scrupolo dottrinale (per evitare l'impressione di scienza limitata in Cristo) va ascritta, in alcuni codici, la soppressione in Mc 13, 32 («Quanto a quel giorno o all'ora, però, nessuno ne sa niente, neppure gli angeli del cielo (e) neppure il Figlio, se non il Padre») delle parole "neppure il Figlio". Un caso inquietante è costituito dall'omissione, in 75 qualche papiro (P ) e in codici anche importanti, dell'invocazione di Gesù morente al Padre: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Come alcuni studiosi ritengono, la caduta di Gerusalemme e la distruzione del Tempio nel 70 d. C. avrebbero potuto costituire una dimostrazione che la preghiera di Gesù al Padre non era stata esaudita: il Padre, infatti, non aveva perdonato ai Giudei l'uccisione del Figlio, consentendo la fine di Gerusalemme e del Tempio. Da qui la decisione di cancellare questo versetto. È facile intuire quanto di ideologico (di perversamente, stoltamente, empiamente ideologico) ci sia dietro questa omissione. 24 Edizione "critica" perché basata sul confronto dei diversi manoscritti che veicolano il testo e sul giudizio di valore su di essi. Si ricordi che in greco il verbo krìnein (donde l'agg. "critico/a") significa, appunto, giudicare. 16 il testo stabilito criticamente, mentre nella parte bassa è ospitato l'apparato critico (o lectiones variae) che registra le varianti scartate dall'editore nella costituzione del testo. Nelle edizioni critiche i codici, quasi sempre, sono citati non per esteso ma per mezzo di una sigla (un numero o una lettera alfabetica). Il risultato della restituzione critica di un testo non sarà, ovviamente, il testo originale (come se esso potesse essere ritrovato intatto sotto la coltre degli errori che su di esso si sono accumulati nel corso della tradizione manoscritta) ma un testo che dovrebbe/potrebbe avvicinarglisi il più possibile. Che un testo non possa identificarsi con un qualunque manufatto sepolto sotto strati di terra, per cui basti una semplice pulitura o lavaggio per riportarlo allo stato in cui era prima di essere sepolto, è dovuto al fatto che la critica testuale non è una operazione meccanica, né è soggetta ad automatismi di sorta. Il filologo, infatti, non è l'operaio che deve, semplicemente, scavare per riportare alla luce un manufatto antico non più visibile. Egli è chiamato, invece, a fare delle scelte, a dare dei giudizi sul valore dei manoscritti e delle diverse lezioni, guidato, in questo, da una erudizione necessariamente vastissima e finissima, ma anche da personali convincimenti critici che, in linea teorica, potrebbero essere anche sbagliati (e infatti ci sono edizioni critiche di una medesima opera, fatte da filologi diversi, che non offrono il medesimo testo critico, perché alcune lezioni che per un filologo erano giuste, non lo erano per un altro). Nessuna metodica, dunque, può con certezza assoluta ridare ai lettori ciò che, di fatto, non esiste più, vale a dire il testo originale. Questa semplice, ovvia constatazione non deve generare, tuttavia, un pessimismo critico o uno scetticismo nei confronti della critica testuale e delle sue risorse e possibilità: una cosa, infatti, è affermare formalmente la non-esistenza di un testo, altra cosa, invece, è ritenere che le copie non lo veicolino più. Sono due ordini di giudizi su due diverse realtà. Di fatto, le copie, seppure non sono il testo originale (nel senso che non sono state scritte dall'autore o da lui rivedute) non potrebbero mai essere altro dal testo, da quel testo. Con errori, sì, ma anche - ed è appunto il caso dei manoscritti biblici - con ammirevole esattezza, ben spesso i codici presentano una stupefacente uniformità testuale: lo scriba, cioè, ha copiato con la massima diligenza, e senza mutare nulla, anche testi difficili o poco comprensibili. Eliminando, dunque, gli errori (il che, spesso, è facilissimo, altre volte lo è meno) si avrà un testo che, sebbene non sia il testo, pure può avere la presunzione di avvicinarglisi il più possibile. 17 • I PIÙ IMPORTANTI MANOSCRITTI DEL TESTO EBRAICO DELL'AT È estremamente difficile catalogare i manoscritti ebraici dell'AT, numerosissimi. Ricordiamo qui soltanto i tre più importanti codici pergamenacei: Codex Cairensis (o dei Profeti), proveniente dalla sinagoga del Cairo e scritto nell'895 da Moshe ben Asher. Codex Aleppensis, scritto da Aaron ben Moshe ben Asher verso il 910. Codex Leningradensis B19a, del 1008, conservato presso la Biblioteca Nazionale Russa di San Pietroburgo. Nelle edizioni a stampa della bibbia ebraica 25 viene riprodotto il Codex Leningradensis, considerato "codex optimus", cioè il codice che è il miglior testimone del testo. A differenza delle edizioni del NT greco, non si tratta di una edizione critica ma, piuttosto, di una edizione "storica", perché riproduce il testo di un solo manoscritto, benché corredato, a piè pagina, delle varianti tratte da altri manoscritti e dalle versioni antiche. • I MANOSCRITTI DEL NT GRECO: MATERIALE SCRITTORIO, FORMA DEI MANOSCRITTI, SCRITTURA ECC. a) Il materiale scrittorio dei manoscritti del NT è costituito dal papiro (gr. pàpyros, lat. charta), fabbricato col midollo del Cyperus papyrus, una pianta acquatica, e dalla pergamena (pērgamenḕ/membrana), prodotta dalle pelli dei bovini, delle pecore e delle capre, raschiate per asportarne il pelo, conciate e ridotte in fogli, usata a partire dal I sec. d. C. b) La forma dei manoscritti poteva essere il «rotolo» (kýlindros/volumen) o il codice (codex). Il rotolo era, di solito, molto lungo (ce ne sono arrivati di quelli lunghi anche più di 10 metri), ma non molto largo (si andava dai 24 cm dei migliori agli 11 cm dei peggiori). Su di esso si scriveva in colonne di circa 35 lettere (15 sillabe). Al fondo del rotolo si faceva il calcolo delle linee scritte (stìchoi/versus), cioè la sticometria, in base alla quale si pagava lo scriba: nel 301 Diocleziano fissò la 25 Come la Biblia Hebraica Stuttgartensia (Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 1967ss), molto usata in ambito accademico. 18 retribuzione dei copisti a 25 denarii per 100 stìchoi di prima qualità e a 20 denarii per scritti di seconda qualità. Generalmente si scriveva sulla parte interna del rotolo (recto), più protetta e con le fibre del papiro in orizzontale. Se un rotolo risulta scritto anche sulla parte esterna (verso) è chiamato «opistografo» (da òpisthen «dietro»). Il bastoncino attorno a cui si arrotolava il rotolo, e che veniva fissato sull'ultimo foglio, era chiamato omphalòs (lat. umbilìcus). I volumina non erano facili da leggere: bisognava usare entrambe le mani, la destra per tenere il rotolo, la sinistra per tener ferma la parte iniziale srotolata e per arrotolarla via via che la lettura procedeva; arrivati alla fine bisognava riavvolgerlo in senso opposto. I fogli di pergamena, invece, venivano piegati e davano origine al quaternione (tetràdion/quaternio): più quaternioni rilegati insieme formavano il codex, la seconda forma dei manoscritti antichi, vero antenato del libro moderno. La forma del codex fu usata già per i papiri, soprattutto in ambiente cristiano, ma trovò più larga applicazione con la pergamena, più comoda per la lettura, più solida del papiro (che si conserva solo in luoghi caldi e secchi) e più economica, perché il papiro doveva essere importato dall'Egitto, dove cresceva abbondantissimo sul Nilo. Benché il codex sia associato, generalmente, alla pergamena, vi sono anche codici papiracei e, all'inverso, rotoli pergamenacei. I manoscritti del NT sono tutti a forma di codice, siano essi di papiro o pergamena. c) Sia sul papiro che sulla pergamena si scriveva con una canna chiamata calamus (in greco kàlamos), tagliata ed appuntita con un temperino. Dal VI sec. d. C. si usarono penne di oca, anche se nel medioevo i termini calamus e penna si confondono volentieri. L'inchiostro (mèlasma/atramentum) era prodotto con ingredienti vegetali e si cancellava con una spugna bagnata. Si usavano fuliggine delle lampade, fondi di vino e neri di seppia, mescolati con sostanze gommose vegetali diluite con acqua. Ci sono anche inchiostri a base metallica, dal III sec. d. C. d) Viene chiamato «palinsesto» (palìmpseston/palimpsestus), dal greco pàlin psàō («nuovamente raschio»), un manoscritto nel quale la scrittura è stata raschiata, o lavata, per far posto alla scrittura di un nuovo testo, donde il nome di codex rescriptus. Questa pratica, diffusa tra l'VIII e il IX sec., veniva compiuta per motivi economici (onde reimpiegare i codici), e non per motivi ideologici (per cancellare i manoscritti pagani), dal momento che vi sono anche codici «cristiani» reimpiegati per scrivervi altre opere di autori cristiani, come il celebre Codex Ephraemi Syri rescriptus, un palinsesto del V sec. La scrittura cancellata, che, 19 comunque, lascia pur sempre una traccia, può essere letta grazie a vari sistemi: nell'antichità si usava il ferrocianuro di potassio (che però anneriva irrimediabilmente la pagina), attualmente si ricorre alla lampada di Wood o ad altri sistemi. e) La scrittura utilizzata nell'antichità, tanto per i codici latini quanto per quelli greci , era la cosiddetta «onciale», così chiamata perché in origine era forse di grandi dimensioni (oncia = 2 cm e mezzo). Si scriveva senza divisione di parole, senza spiriti e senza accenti (scriptio continua), sicché un testo come At 1, 1a, risultava scritto così: ΤΟΝΜΕΝΠΡΩΤΟΝΛΟΓΟΝΕΠΟΙΗΣΑΜΕΝΠΕΡΙΠΑΝΤΩΝ (Ton men prōton logon epoiēsàmēn perì pàntōn): ovviamente la lettura era più difficoltosa della nostra e potevano anche ingenerarsi dubbi circa l'esatta divisione delle parole, come per Mc 10, 40 (ΑΛΛΟΙΣ), in cui alcuni codici recano la lezione all'òîs e altri àllois. A complicare la consultazione dei testi antichi si aggiungevano la mancanza dei titoli nei capitoli e la mancanza degli indici. 26 f) Molto frequenti erano le abbreviazioni, come quelle usate per i nomina sacra, ossia i nomi molto ricorrenti nei testi biblici (Dio, Gesù, Cristo, Signore, Croce, Spirito, Padre, Israele, Gerusalemme, Salvatore, Cielo, Davide). Per segnalare la presenza dell'abbreviazione lo scriba vi poneva sopra una lineetta: ad es. ΠΝΕΥΜΑ (pnèuma) veniva abbreviato con ΠΝΑ. L'abbreviazione variava, ovviamente, a seconda del caso in cui il nome veniva a trovarsi nel corso della sua declinazione: ad es. ΘΕΟΣ (theòs, «Dio»), al nominativo si abbreviava con ΘΣ; ΘΕΟΥ (theoû, «di Dio»), genitivo, si abbreviava con ΘΥ, e così via. g) Un fenomeno importante fu quello del metacharaktērismòs (traslitterazione), che intervenne a partire dal sec. VIII, quando i codici greci in maiuscola furono ricopiati in minuscola per risparmiare sul materiale scrittorio, essendo le lettere più piccole. Dal sec. IX si diffuse gradualmente il sistema di separare le parole; tale scrittura, più comoda, provocò la scomparsa di molti codici antichi. h) Generalmente, alla fine dei manoscritti del NT c'è, come in quelli dell'AT, il colofone, contenente notizie sulla data della copiatura, sui committenti, o altro ancora. Più ricchi di notizie sono i colofoni dei manoscritti ebraici. 26 La scriptio continua, comunque, era una pratica comune a tutti i popoli con scrittura alfabetica. 20 • I più importanti manoscritti del testo greco del NT papiri (II-V sec.) codici onciali (IV-X sec.) codici minuscoli (IX-XVI sec.) lezionari Possediamo attualmente 5745 manoscritti (118 papiri; 317 onciali; 2877 minuscoli; 2433 lezionari) 27. Nelle edizioni critiche i papiri sono citati con una P gotica (P) seguita da un numero in esponente (ad es. P7 P52...); i codici onciali sono citati con una lettera dell'alfabeto maiuscolo latino e greco 28 o con un numero arabo preceduto da zero (ad es. A B Θ Λ 01 02 03 ecc.) 29; i codici minuscoli sono citati con un numero arabo (1 2 3 4 ecc.); i lezionari sono citati con una l seguita da un numero (l2 l10 ecc.). Queste quattro categorie di manoscritti costituiscono i testimoni diretti del testo, mentre le antiche versioni e le citazioni dei Padri della Chiesa costituiscono i testimoni indiretti del testo. Il più importante papiro biblico è il P52 (P. Ryl. 457) conservato alla John Rylands Library di Manchester. Fu acquistato in Egitto nel 1920 da Bernard P. Grenfell. È, con molta probabilità, il più antico testimone del testo del NT, essendo stato scritto tra il 100 e il 150 30. Il frammento, che appartiene chiaramente a un codice, contiene sul recto Gv 18, 31-33, e sul verso Gv 18, 37-38. Testimonia che nella prima metà del II sec. il vangelo secondo Giovanni era già giunto in Egitto: nessun'opera dell'antichità ha reperti manoscritti così vicini all'originale. Sono databili al II secolo anche P90 (Gv 19, 2-7; 18, 36-19, 1), P104 (Mt 21, 34-37) 31, P98 (Ap 1, 13-20). Tra i codici onciali vanno ricordati per la loro importanza in ordine alla ricostruzione del testo del NT almeno tre: 27 Si tenga presente che in critica testuale anche un solo foglio manoscritto costituisce un codice. Poiché nei due alfabeti latino e greco alcune lettere maiuscole sono identiche (A B E Z I K M N O T X), esse saranno la sigla di un solo codice, per evitare confusioni. Ad es.: esiste un solo codice siglato con la A (il Codex Alexandrinus), un solo codice siglato con la B (il Codex Vaticanus) e così via. 29 A differenza del sistema alfabetico, che si esaurisce con le lettere dell'alfabeto, il sistema numerico è infinito. 30 Fino a pochi anni fa i papirologi concordavano nel datare al 125 questo frammento. Attualmente si propende per una data un po' più alta. 31 Sicuramente della fine II sec. 28 21 Codex Sinaiticus ( אopp. 01), del IV sec., scoperto tra il 1844 e il 1859 da Constantin Tischendorf nel Monastero di Santa Caterina al Sinai. È composto da 347 fogli, di cui 148 per il NT. È l'unico manoscritto del NT ad essere scritto su quattro colonne per pagina. È custodito al British Museum di Londra. Codex Alexandrinus (A opp. 02), del V sec. È composto da 773 fogli, di cui 144 per il NT. È scritto su due colonne. È custodito al British Museum di Londra. Codex Vaticanus (B opp. 03), del IV sec. È composto da 768 fogli, di cui 142 per il NT. È scritto su tre colonne. È custodito nella Biblioteca Apostolica Vaticana. • ANTICHE VERSIONI La Settanta (LXX o anche Septuaginta) 32 31F È così chiamata la prima traduzione dell'AT dall'ebraico in greco, avvenuta in Egitto a cominciare dal III sec. a.C. Rappresenta la più colossale attualizzazione del messaggio biblico da parte degli ebrei, vale a dire la trasposizione della religione di Israele in categorie ellenistiche. Lo stile letterario dei vari libri è differente: si passa da traduzioni di tipo servile, tese a riprodurre in greco la stessa disposizione delle parole del testo ebraico, a traduzioni-parafrasi, molto più libere, nelle quali si nota un più o un meno (talora macroscopico) rispetto al testo ebraico ufficiale (chiamato comunemente "Testo Masoretico"): evidentemente i traduttori avevano davanti un testo differente dal Testo Masoretico pervenutoci. La LXX ha, rispetto alla Bibbia ebraica, sette libri in più (chiamati, in seguito, deuterocanonici): Tobia, Giuditta, 1Maccabei, 2Maccabei, Baruc con l'epistola di Geremia (Bar 6), Siracide (detto Ecclesiastico) e Sapienza. Ad essi vanno aggiunte le cosiddette "sezioni greche" di due libri scritti in ebraico (Ester e Daniele). Nel corso del tempo la LXX, che frattanto era diventata l'AT dei cristiani, subì varie revisioni, tese, specialmente, a minimizzare, a livello letterario, quei passi che venivano invocati dai cristiani come 32 Septuaginta. Id est Vetus Testamentum graece iuxta LXX interpretes edidit Alfred Rahlfs (Duo volumina in uno), Stuttgart, Deutsche Bibelgesellshaft, 1935ss. 22 profezia di Cristo e della Chiesa 33. Ricordiamo le revisioni di Aquila, Teodozione e Simmaco. La Vetus latina 34. È chiamato così un insieme eterogeneo di traduzioni della Bibbia dal greco in latino, caratterizzate da uno stile di traduzione molto servile e talora anche scorretto. La Vetus latina ha inventato, per così dire, il latino cristiano, vale a dire la lingua che è stata usata dalla liturgia e dalla teologia cristiana in Occidente. La Vulgata È così chiamata la versione latina della Bibbia curata da San Girolamo. Per l'AT Girolamo tradusse direttamente dal testo ebraico (a differenza della Vetus latina, che traduceva dalla versione greca della LXX)35. In effetti, il Santo ha tradotto solo l'AT (ad eccezione dei Salmi, che sono quelli tradotti dalla Vetus latina, e di qualche altro libro), mentre il NT è una semplice revisione della Vetus latina. Grandissimo è stato il prestigio di questa versione che ha avuto il posto d'onore nella liturgia e nella teologia fino al sec. XX. IL CANONE Se un libro è ispirato, per ciò stesso farà parte del canone (ossia elenco) biblico, e viceversa36. • LIBRI PROTOCANONICI E DEUTEROCANONICI Secondo una equivoca definizione di Sisto da Siena (1566) vengono detti protocanonici quei libri della Bibbia accettati come ispirati sempre e ovunque. Si 33 E così il parthènos (vergine) di Is 7, 14 diventa in una susseguente revisione del testo neânis (giovane fanciulla) per chiudere la porta a ogni idea di profezia sulla concezione verginale di Gesù. 34 Letteralm.: "La antica (traduzione) latina". 35 Girolamo, che aveva appreso l'ebraico dai rabbini ebrei, nutriva grande venerazione per il testo in lingua ebraica, definito da lui come hebraica veritas (una espressione che doveva essergli molto cara, tanto da servirsene per ben 85 volte nelle sue opere). 36 La parola canone deriva dal greco kanōn che significa "canna" e, per derivazione, "regolo per misurare, misura". 23 chiamano invece deuterocanonici i libri dei quali per qualche tempo è stata messa in dubbio l'ispirazione. Già il Decretum Damasi (382), tuttavia, li includeva nel canone, così come farà il Concilio di Trento nella solenne definizione magisteriale (Sessione IV, 8 aprile 1546. Decretum de libris sacris et de traditionibus recipiendis: DS 15011505). I deuterocanonici dell'AT sono sette: Tobia - Giuditta - 1 e 2 Maccabei - Baruc con l'epistola di Geremia (Bar 6) - Siracide (detto anche Ecclesiastico) - Sapienza. Ad essi si aggiungono le "aggiunte greche", ossia quelle che si trovano solo nella LXX ma non nel Testo Masoretico, ai libri di Ester 37 e di Daniele (3, 24-90; 13-14). I deuterocanonici del NT sono egualmente sette: Lettera agli Ebrei - Lettera di Giacomo - II Lettera di Pietro - II e III Lettera di Giovanni - Lettera di Giuda Apocalisse. In base alla presenza, o meno, dei libri deuterocanonici dell'AT si distinguono due canoni, un Canone palestinese38 e un Canone greco (detto anche Canone alessandrino)39. Il canone palestinese è tripartito (legge - profeti - scritti)40; quello greco è diviso, invece, in quattro sezioni: pentateuco - libri storici - libri poetici - libri profetici. Da un canone all'altro i libri a volte subiscono degli spostamenti di sezione: ad es., il libro del profeta Daniele si trova tra i libri profetici nel canone greco ma si trova tra gli Scritti nel canone palestinese. Gli ebrei riconoscono solo l'ispirazione dei libri del canone palestinese. I cristiani accettano il canone greco, che comprende anche i sette libri deuterocanonici. • IL DECRETO DEL CONCILIO DI TRENTO (IV SESSIONE, 8 APRILE 1546) L'elenco (index) dei libri biblici viene dato in aggiunta al Decretum de libris sacris et de traditionibus recipiendis : «Per evitare dubbi circa i libri riconosciuti da questo concilio, esso ha creduto opportuno aggiungerne l'elenco a questo decreto. 37 Seguendo la numerazione della Bibbia CEI: 1, 1a-r; 3, 13a-g; 4, 17a-z; 5, 1a-2b; 8, 12a-v; 10, 3a-k; 10, 31. Canone "breve". 39 Canone "lungo". 40 e e In ebraico: Tôrâh - N bî'îm - K tûbîm, da cui l'acronimo Tanak per indicare la Bibbia. I profeti, a loro volta si dividono e in n bî'îm rishonìm (Profeti anteriori): Giosuè, Giudici, Samuele (1 e 2 ma considerati un libro unico), Re (1 e 2 ma e considerati un libro unico) e n bî'îm 'aharonìm (Profeti posteriori): Isaia, Geremia, Ezechiele, Libro dei dodici profeti (Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia). 38 24 Essi sono i seguenti...(segue l'enumerazione dei singoli libri divisi tra AT e NT) 41». Dopo il canone, il Concilio aggiunge: «Se qualcuno poi non accetterà come sacri e canonici questi libri nella loro integrità e con tutte le loro parti (cum omnibus suis partibus), come si è soliti leggerli nella chiesa cattolica e come si trovano nell'antica edizione della volgata latina e disprezzerà consapevolmente le predette tradizioni: sia anàtema». Con il termine "parte" il Concilio intendeva tre passi del NT la cui genuinità era stata revocata in dubbio da Erasmo da Rotterdam: Mc 16, 9-20 (la cosiddetta "finale lunga"); Lc 22, 43-44 (il sudore di sangue); Gv 7, 53 - 8, 11 (la pericope dell'adultera). I tre brani, effettivamente, sono male attestati, nel senso che mancano in codici importanti. La Chiesa, tuttavia, accettandoli, ne ha sancito la canonicità e, di conseguenza, l'ispirazione. A questi brani vanno aggiunte le sezioni greche di Ester e Daniele e tutte le piccole aggiunte che si trovano nella Vulgata. • IL PROBLEMA DEI DUE CANONI È doveroso chiedersi perché nel canone ebraico non figurino i sette libri deuterocanonici che, pure, erano ritenuti sacri almeno presso gli ebrei grecofoni. Che gli ebrei di Palestina si siano rifiutati (non si sa bene da quando) di inserire nel canone i libri greci lo si deduce dalle varie trascrizioni della Bibbia ebraica (che li omettono), dall'apocrifo IV libro di Esdra (I-II sec. d.C.) 14, 44 e da Flavio Giuseppe (Contra Apionem I, 8) che, seguendo la sentenza dei farisei, elenca solo i protocanonici in un canone di 22 libri 42. Tra i testi rinvenuti a Qumran ci sono, tuttavia, le prove che anche gli ebrei di Palestina si siano serviti di Tobia e del Siracide (che, ricordiamolo, sono deuterocanonici): ma li hanno ritenuti sacri? Non lo si può decidere in modo assoluto. Per spiegare la non-presenza dei deuterocanonici nel canone palestinese (la cui "fissazione" è avvenuta in una data incerta, ma comunque non prima dell'inizio del III secolo d.C.) 43 si possono solo fare delle 41 C'è sempre una certa confusione nel totale dei libri che Trento riconosce ispirati: 71 o 72. In effetti, enumerando i libri dell'AT il Decreto cita "Ieremias cum Baruch" (Geremia con Baruch), questo perché il cap. 6 del libro di Baruch costituisce la "Lettera di Geremia". Se si conteggiano separatamente i due libri Geremia e Baruch si raggiunge il numero di 72 libri complessivi; altrimenti i libri diventano 71. Nell'elenco dei libri dell'AT non figura il libro delle Lamentazioni, perché, essendo ritenuto di Geremia, veniva inglobato nel suo libro profetico. 42 Pentateuco (5 libri) - 13 profeti - 4 libri contenenti «inni a Dio e precetti morali per gli uomini». Si discute ancora sull'identificazione dei 17 libri che, col Pentateuco, costituirebbero questo canone. 43 Fino a qualche tempo fa si pensava che il canone palestinese comprendente i soli protocanonici fosse stato formulato nel cosiddetto «Sinodo di Jamnia» (località sulla costa mediterranea ad ovest di Gerusalemme, sede di una 25 ipotesi, come quella secondo cui i rabbini avrebbero ritenuto sacri solo i libri scritti in ebraico, e sul suolo palestinese e non dopo una certa data (V sec a.C.?) 44. • IL PERIODO DEI DUBBI SULL'ISPIRAZIONE DEI DEUTEROCANONICI DELL'AT E DEL NT Nei secoli III-V si ha un gruppo non molto numeroso di autori (tra i quali figurano anche nomi di grande prestigio) che, almeno in teoria, non ammette l'ispirazione dei deuterocanonici dell'AT (i dubbi, in genere, non riguardano l'intero corpus dei deuterocanonici, ma solo qualche libro): Origene, Cirillo di Gerusalemme, Ilario, Atanasio, Gregorio di Nazianzo, Girolamo (e pochi altri). Dal sec. V in avanti ci sarà l'unanimità morale degli scrittori ecclesiastici in loro favore 45. La posizione di San Girolamo nei confronti dei deuterocanonici dell'AT è molto ambigua e merita un breve approfondimento. Da un lato egli non esita a definirli, addirittura, "apocrifi" (come nel cosiddetto Prologus galeatus, "Prologo armato", ossia la prefazione alla traduzione dei libri di Samuele e dei Re: PL 28, 556); altre volte (almeno 200), invece, li cita con la formula: «Sta scritto», o «La Scrittura divina dice» normalmente utilizzata per i libri protocanonici. Anche in questo caso emerge la non risolta tensione tra un Girolamo cultore della latinità ciceroniana e un Girolamo cristiano. Per meglio capire e giustificare la posizione di Girolamo va ricordata la grande stima che egli nutriva per la cultura ebraica e per i dottori ebrei, suoi maestri di lingua ebraica. Tuttavia, e con grande umiltà, egli finirà col riconoscere «Melius esse iudicans pharisaeòrum displicère iudicio et episcoporum iussionibus deservìre» (PL 29, 25). Tra le due posizioni ne esiste una terza, più sfumata, che fa dire a Girolamo, in ordine ai deuterocanonici e al loro uso: «si cui placet volumen recipere», oppure «quamvis non habeatur in canone...usurpatur ab ecclesiasticis viris». Per i deuterocanonici del NT, invece, il periodo dei dubbi va dal 175 ca. al 450 ca. Testimoni dei dubbi sono: fiorentissima scuola rabbinica) verso il 90-100 d.C. Ma non vi sono prove sufficienti per affermarlo. A Jamnia si discusse, sicuramente, dell'ispirazione del Qoelet e del Cantico dei Cantici. 44 Si tenga anche presente che la LXX, la bibbia "greca", era diventata un po' la Bibbia dei cristiani, che volentieri se ne servivano per il marcato sapore messianico di certe sue lezioni. 45 Qualche voce isolata, contraria ancora all'ispirazione dei deuterocanonici: Gregorio Magno (sec. VIII), Antonino da Firenze (sec. XV), il Cajetano (Tomaso de Vio, sec. XVI). 26 Il Canone Muratoriano (Roma, prima del 180: forse la più antica lista dei libri del NT) nel quale mancano Eb, Gc, 1 e 2Pt, 3Gv. Tuttavia la Chiesa di Roma non ignorava questi libri, perché li cita Clemente. Eusebio di Cesarea (H.E., III, 25: PG 20, 268-272), che elenca tra i libri discussi (amphiballòmenoi) Gc, Gd, 2Pt, 2 e 3Gv; è incerto sull'esatta collocazione dell'Apocalisse (se tra gli homologoùmenoi, «accettati da tutti», o tra i notha «gli spurii». Il Canone Claromontano (sec. IV), in cui manca Eb. Cirillo di Gerusalemme, nel cui catalogo riferito in Catech., IV 36 (PG 33, 500s.) manca Ap: omissione che è una vera e propria negazione. Le chiese siriaca e antiochena. Il periodo dell'unanimità va dal 450 ca. in poi. In Oriente ci sono poche voci isolate a negare l'ispirazione di questo o quel libro deuterocanonico; in Occidente si ricorda il Cajetano (sec. XVI) il quale metteva in dubbio la canonicità di Eb, Gc, 2 e 3Gv, Ap. • I CRITERI PER LA DETERMINAZIONE DELLA CANONICITÀ (NOTAE CANONICITATIS) Gli antichi autori ecclesiastici non precisano i criteri per i quali un libro è stato percepito come ispirato e canonico. Abbiamo visto dei criteri che forse hanno guidato il rabbinismo a compilare il canone cosiddetto palestinese, criteri che hanno condotto all'esclusione dei sette deuterocanonici. Per il canone del NT possiamo enuclearne tre: a) APOSTOLICITÀ: non qualifica, semplicisticamente, un libro proveniente dalla cerchia dei dodici apostoli (e infatti, già i vangeli di Marco e Luca non potrebbero godere di questa prerogativa, essendo attribuiti a due scrittori che non ne facevano parte) o, solo, scritto in età apostolica (vale a dire sino al 100 d.C.). L'apostolicità che autentica un testo va intesa, infatti, nel senso di autorità riconosciuta all'interno della primitiva comunità, come fu, per es., l'autorità di Paolo, che gli derivava tanto dalla singolarissima relazione spirituale con il Signore (cfr At 9, 3-6; 22, 6-10; Gal 1, 12. 16), quanto dall'approvazione ricevuta dal collegio dei Dodici (At 9, 27; Gal 2, 9), nonostante tutta la problematicità legata alla figura di un apostolo sui generis qual era Paolo, e che traspare dal testo stesso degli Atti (cfr ad es. 9, 26: «Giunto a 27 Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli; ma tutti lo temevano, non credendo che fosse un discepolo»). Il diffuso fenomeno della pseudepigrafia (lett. «con falso titolo», ossia l'attribuzione di un testo a un autore diverso da quello che materialmente lo ha scritto), frequente nella Bibbia e particolarmente rilevante a proposito della apostolicità di un testo, va interpretato non secondo la nostra sensibilità moderna, per la quale essa è, semplicemente, un falso, ma secondo la mentalità antica, che riconosceva volentieri nella voce dei discepoli la stessa voce dei maestri, uso attestato dalla posteriore letteratura rabbinica. Gli Ebrei, ad esempio, pur sapendo che il libro di Isaia non poteva, materialmente, essere opera di un solo profeta (il Proto-Isaia vissuto nella seconda metà dell'VIII sec. a. C.), non hanno, tuttavia, distinto i capitoli genuinamente isaiani dal resto del libro, ma hanno riunito le tre sezioni di cui esso si compone sotto il nome di colui che consideravano, di fatto, l'ispiratore spirituale anche dei cc. 40-66. Lo stesso vale per quegli scritti del NT che, per ragioni di critica letteraria, risulta difficile attribuire all'autore sotto il cui nome sono stati conosciuti. Essi infatti, pur essendo stati scritti materialmente da discepoli o da collaboratori degli apostoli, poiché ne riportano fedelmente il pensiero, sono stati tramandati non con il nome del reale estensore (peraltro sconosciuto) ma con il nome, comunque più prestigioso, di un apostolo. b) CONFORMITÀ ALLA REGOLA DELLA FEDE APOSTOLICA: per fede apostolica si deve intendere sia la predicazione di Cristo trasmessa nelle varie comunità dagli apostoli e dai loro collaboratori, vale a dire il primo fondamentale annuncio (kḗrygma) salvifico, sia quella «auto-rappresentazione ecclesiale» (K. Rahner) che proprio nei vari scritti poi ritenuti canonici chiaramente emergeva. In questa prospettiva, un testo ispirato era, né più né meno, lo specchio che rifletteva tale auto-coscienza in modo immediato ed inequivocabile. La fede apostolica, tuttavia non va immaginata come una sorta di monolite o, meglio, di enciclopedia teologica, dal momento che sembra legittimo supporre una certa diversificazione contenutistica della predicazione già in epoca apostolica. Tale differenza di sensibilità nel declinare il messaggio cristiano, accentuandone questa o quella parte, emerge vistosamente nei vangeli, nei quali, ad esempio, risalta subito la differenza che passa tra i sinottici e il quarto vangelo, testo destinato a una comunità che possedeva sensibilità ed esigenze diverse da quelle delle comunità destinatarie (o generatrici) dei vangeli sinottici. Sensibilità diverse spiegano testi apparentemente in contrasto tra loro come Gc 2, 14-16 (un deuterocanonico), in cui si afferma che la fede senza le opere 28 è morta, e i testi di Paolo che parlano della giustificazione in virtù della fede 46. In effetti, tanto Paolo quanto Giacomo non stanno tradendo la genuina predicazione di Cristo ma, semplicemente, ne stanno accentuando un aspetto che non necessariamente esclude l'altro, come del resto appare, sempre in riferimento alla presunta antitesi fede/opere, nello stesso epistolario paolino. c) USO LITURGICO DI UN LIBRO: il fatto che i testi del NT venissero usati nella liturgia insieme con quelli dell'AT facilitò il riconoscimento della loro canonicità. Dalle antiche fonti patristiche e dai documenti del magistero emerge, è vero, che anche altri libri (come la Prima lettera di Clemente, il Pastore di Erma, il Diatessàron di Taziano) per qualche periodo vennero letti nelle assemblee liturgiche, ma quest'uso ben presto venne vietato, consentendo ai soli libri canonici la lettura liturgica. • TRADIZIONE E CANONE BIBLICO La Costituzione Dei Verbum al n. 8 afferma che «è la stessa Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l'intero canone dei Libri sacri», inserendo, dunque, il canone nel lungo e complesso processo storico che ha portato la Chiesa a definirne l'estensione e sottraendo i libri sacri a qualunque aura di magica auto-referenzialità. Essi infatti, pur possedendo una intrinseca oggettiva sacralità, non possono, evidentemente, imporsi come libri sacri se non è una autorità a riconoscere (non ad attribuire posteriormente!) il loro carattere ispirato, il loro essere Parola di Dio, normativa per la fede e i costumi. Come si è visto, il canone è stato una realtà fluida, di cui la scrizione dei libri sacri costituisce semplicemente un primo, benché necessariamente imprescindibile, momento. A confermare quanto si è detto contribuisce lo stesso dibattito sui deuterocanonici, che dimostra la non-univocità di atteggiamento nei confronti di alcuni libri, non da subito (almeno per un certo numero di comunità) considerati ispirati a motivo di alcune particolarità che sembravano militare contro la loro conformità al depositum fidei della Chiesa. E questo dato dimostra che il depositum (o regula) fidei risentiva, più o meno profondamente, delle diverse sensibilità dei primi predicatori (o delle comunità alle quali si rivolgevano) che, di fatto, accentuavano questo o quel punto di dottrina in 46 Cfr Rm 3, 20.26.28; 4, 3.5.6; 5, 1; 10, 6. 29 modo tale da far ritenere eterodosse altre posizioni. È stata dunque la progressiva, illuminante riflessione sul depositum fidei, un processo animato dallo Spirito Santo, che ha portato alla formazione del canone dei libri biblici, primo atto solenne del magistero della Chiesa post-apostolica nei confronti del deposito della Rivelazione. In quei testi la Chiesa ha riconosciuto una corrispondenza con la sua natura e di essa li ha ritenuti in modo singolarissimo espressivi, attribuendo loro la stessa autorità posseduta dalla voce degli apostoli. Poiché la Rivelazione, che costituisce l'oggetto della fede cattolica, si ritiene conclusa (cfr PIO X, Decr. Lamentabili, 3 Luglio 1907: DS 3421), sicché «non è da aspettarsi alcun'altra rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo» (Dei Verbum 4), e poiché di questa Rivelazione la Bibbia è memoria scritta, si deve ritenere, di conseguenza, chiuso anche il canone dei libri ispirati. Con la morte dell'ultimo apostolo, infatti, la Rivelazione è stata completata e, quindi, anche al canone (che rende sempre viva e risonante tale predicazione apostolica) non potrà aggiungersi alcun altro testo. A corollario di quanto affermato, si deve rilevare che, quand'anche si scoprissero altri testi di chiara origine apostolica, come ad es. la perduta lettera ai Laodicesi di San Paolo (cfr Col 4, 16) o la lettera cui si fa riferimento in 1Cor 5, 9, essi non potrebbero, comunque, costituire una postuma aggiunta al canone. D'altronde, se il loro valore dottrinale o, più verosimilmente, non-occasionale, fosse stato chiaramente riconosciuto, essi non si sarebbero perduti, così come non si sono perduti testi anche brevi o brevissimi, come Fm o 2 e 3Gv. Lo stesso criterio, con le debite mutazioni, vale e dunque si applica per i libri citati dall'AT (Il libro delle guerre del Signore [Nm 21, 14], Il libro del Giusto [Gs 10, 13; 2Sam 1, 18], Il libro delle gesta di Salomone [1Re 11, 41] ecc.) che, seppur conosciuti e utilizzati, non entrarono mai nel canone ebraico. • IL COSIDDETTO "CANONE NEL CANONE" (KANON IM KANON) Già l'eretico Marcione (ca. 85-ca. 165) aveva operato una macroscopica selezione nel canone biblico, escludendone tutto l'AT e presentando un NT fortemente mutilato e privo di qualunque aggancio all'Antico. Martin Lutero (1483-1546), a sua volta, aveva attribuito un ruolo secondario a Eb, Gc, Gd e Ap, distinguendo questi scritti da quelli che egli definiva «i veri, sicuri e più importanti libri» del NT e operando, perciò, una selezione all'interno del canone neotestamentario. Questa volontà di discernere, per così dire, un nucleo originale, rappresentativo della genuina predicazione di Cristo e degli apostoli si ripropose, al principio del XX secolo, all'interno del protestantesimo. Il luterano Adolf von Harnack (1851-1930), storico 30 del cristianesimo, intese distinguere l'autentico «evangelo di Gesù Cristo» dalla degenerazione da lui denominata Frükatholizismus («Proto-cattolicesimo», termine che ricorre la prima volta nel 1908 in Ernst Troeltsch, benché in ambito sociologico), che sarebbe nata nel II secolo, quando la Chiesa, dovendo combattere lo gnosticismo, costituì un rigido "corpus" dogmatico ed etico, escludendo chi ad esso non si fosse adeguato. In questa teoria non si ravvisa soltanto una precomprensione negativa nei riguardi del cattolicesimo, ma anche un'arbitraria lettura del cristianesimo delle origini, qual è quello che emerge dagli scritti del NT, interpretato con unilaterale accentuazione dell'aspetto pneumatico che, pure, lo caratterizzava, ma nel quale esso, certamente, non si esauriva. Il Proto-cattolicesimo con cui Harnack qualificava la Chiesa del II secolo fu rintracciato da Rudolf Bultmann (18841976) nelle lettere pastorali (1 e 2 Tm, Tt), in 2Pt, nell'opera lucana (Luca/Atti) e nella redazione finale del vangelo secondo Giovanni, nei quali sono già presenti una gerarchia ecclesiastica, i ministeri ordinati, il sacramentalismo, nonché gli stadi iniziali del dogma e della morale. Il convincimento di Bultmann fu ripreso dal suo discepolo Ernst Käsemann (1906-1998), che postulò la necessità di individuare all'interno del canone un «cristianesimo puro», vale a dire l'autentico nucleo normativo e obbligante, distinguendolo da ciò che non lo è a causa della sua difformità col centro autoritativo del NT, costituito, per Käsemann, dal concetto di giustificazione in virtù della fede, il cavallo di battaglia di Lutero il quale in esso risolveva l'ampia e complessa teologia di Paolo. Altri teologi (Kümmel, Braun, Marxen, Harbsmeier, Vielhauer) hanno, di volta in volta, individuato il «centro» genuino della Scrittura, e dunque, della tradizione apostolica, in altri libri o sezioni del NT. Qualificare queste teorie, fortemente criticate (e non solo in ambito cattolico) come forme rinascenti di marcionismo, è legittimo. L'ingenuo quanto arbitrario tentativo di stabilire un "cuore" all'interno del canone, ha avuto, infatti, il suo unico fautore nell'eretico Marcione, e non ha mai costituito argomento di ortodossa e condivisa speculazione teologica. E inoltre, la Chiesa vagheggiata da questi studiosi, una chiesa tutta "pneumatica" e "liberale", senza strutture o gerarchie, non ha alcun fondamento storico, e si presenta unicamente come una proiezione di personali e arbitrari convincimenti (un tentativo di retrodatare l'urgenza e l'insorgenza del Protestantesimo?...), i quali enfatizzano un dato a discapito di altri egualmente presenti nel NT ed egualmente importanti, in quanto inseriti in libri ispirati. Peraltro, proprio il dogma dell'ispirazione generale della Scrittura risulta minato alle fondamenta da queste opinioni, che considerano alcuni libri meno «parola di Dio», ravvisandovi addirittura germi di degenerazione (il 31 Frükatholizismus, appunto). Ora, se è vero, come già rilevato, che all'interno degli scritti del NT si ravvisano sensibilità e accentuazioni diverse del kḗrygma originario (specialmente in relazione al giudaismo), è vero anche che è quanto mai illegittimo operare mutilazioni all'interno del canone, trascurando la logica che presiede a tutta intera la Scrittura, logica congiuntiva (et...et) e mai disgiuntiva o esclusiva (aut...aut), che garantisce la molteplicità nell'unità di una sola Chiesa guidata dall'unico Spirito di Dio. DALLA TRADIZIONE SU GESÙ AI VANGELI I detti e i miracoli di Gesù, prima che fossero messi per iscritto nei vangeli, costituirono l'oggetto di una tradizione orale e documentaria (cioè scritta)47. A questi perduti documenti scritti sembra riferirsi il vangelo secondo Luca nel prologo (1, 1-4): «Poiché molti hanno posto mano a esporre una narrazione (diḕghēsin) circa gli eventi che si sono compiuti tra noi, come ce li trasmisero dall'inizio i testimoni oculari i quali divennero ministri della parola, è sembrato giusto anche a me, che ho indagato accuratamente su ogni cosa fin da principio, scrivertene con ordine, illustre Teofilo, affinché tu abbia esatta conoscenza di quelle cose intorno alle quali sei stato catechizzato». Dunque esistevano delle tradizioni documentarie, ossia delle raccolte (parziali certamente) delle parole e dei fatti relativi a Gesù48. Di esse si è servito Luca nella stesura del suo vangelo. E poiché ai tempi di Gesù non esistevano i mezzi attuali di registrazione sonora o visiva, tutto ciò che egli ha detto e fatto è stato messo per iscritto solo dopo la sua risurrezione in questi perduti documenti, essendo stato prima affidato alla tenace memoria degli orientali (non si può provare, infatti, che al seguito di Gesù ci sia stato un segretario-stenografo che abbia annotato di volta in volta le sue parole e le vicende della sua vita terrena). Nel 47 Queste e consimili affermazioni si basano su motivi di critica letteraria e sulle poche testimonianze (spesso frammentarie e oscure) di antichi scrittori ecclesiastici. Purtroppo, negli antichi Padri della Chiesa c'è un inspiegabile silenzio sulla nascita dei vangeli e sulle tradizioni pre-canoniche. 48 Gli studiosi parlano di tradizione delle parole e tradizione dei fatti. Alla tradizione delle parole appartengono: sentenze profetiche (come ad es. Lc 12, 32), sentenze sapienziali (come ad es. Mt 6, 34b), detti sulla sequela (come ad es. Mt 8, 18-22), detti sulla venuta (come ad es. Mt 10, 35), parabole. Alla tradizione dei fatti appartengono: paradigmi ed esempi (come ad es. Mc 1, 16-20), discussioni sulla Legge (come ad es. Mc 12, 28-34), racconti di miracoli, racconti biografici (come ad es. Mc 6, 1-6), storia della passione, teofanie (come ad es. Mc 9, 2-8). Entrambe le tradizioni hanno avuto quasi sicuramente una fase orale e un'altra documentaria. 32 prologo del suo vangelo Luca, usando l'avverbio katexếs "con ordine" per qualificare lo stile della sua narrazione sembra alludere a quello che i moderni esegeti chiamano redazione 49. Questo concetto è di particolare importanza nello studio dei vangeli, perché esprime, sinteticamente, una importante verità: che gli evangelisti, cioè, non sono stati dei compilatori spersonalizzati o meri accumulatori di tradizioni su Gesù ma, al contrario, che essi hanno assunto la tradizione - orale e documentaria - mettendola, però, al servizio di un personale progetto teologico che chiarisce, almeno in parte, il perché di certe scelte operate nei confronti della tradizione (accentuazioni di qualche particolare, spostamenti geografici o cronologici, aggiunte, omissioni). Si può giungere al riconoscimento di un programma-progetto teologico non basandosi su inesistenti affermazioni programmatiche degli evangelisti ma solo mettendo in relazione i vangeli tra loro. Da questo confronto si traggono conclusioni importantissime e tra loro strettamamente collegate: 1) I vangeli secondo Matteo, Marco e Luca, a motivo dell'ampia concordanza della loro materia possono essere disposti in colonne parallele per un confronto. Questa disposizione si chiama sinossi50. Per questa ragione Mt Mc e Lc sono diventati noti come i "vangeli sinottici"51. La somiglianza del materiale, evidenziata da questo tipo di disposizione, e le differenze notevoli che si riscontrano all'interno dei tre vangeli dànno origine al cosiddetto problema sinottico. In generale, i primi tre vangeli riportano le stesse parole e azioni di Gesù: miracoli, parabole, discussioni e eventi principali sono identici. Quando una pericope è riportata da tutti e tre gli evangelisti si parla di "tradizione triplice"; quando si trova solo in due (generalmente Mt e Lc), si parla "tradizione duplice"; se invece una pericope si trova in uno solo dei tre vangeli sinottici si parla di "tradizione unica". 2) Il più breve e il più antico dei tre vangeli è Mc 52. Quasi tutto il suo materiale si trova anche in Mt o in Lc o in entrambi; solo pochissimo materiale è peculiare a Mc (per es. 7, 33-36; 8, 22-26) e non è stato ripreso da Mt e Lc. 49 Gli esegeti parlano di Redaktionsgeschichte ("Storia della Redazione"). Storicamente essa nasce alla metà del XX secolo con le opere fondamentali di W. Marxen (per Marco), W. Trilling (per Matteo) e H. Conzelmann (per Luca). 50 Dal gr. sýnopsis "vista complessiva". 51 Il vangelo secondo Giovanni, per indole e struttura, costituisce un fatto a sé e va studiato con metodiche, almeno in parte, differenti da quelle utilizzate per lo studio dei vangeli sinottici. 52 La "priorità marciana" rispetto agli altri vangeli fu messa in luce (con pochi elementi probanti) da G. C. Storr (Über den Zweck der evangelische Geschichte, Tübingen 1786, 274-278; 287-295). Nonostante il suo successo, essa non è unanimemente accettata dalla critica. 33 3) Spessissimo un racconto è riportato da Mt e Lc ma non da Mc. Ciò ha fatto ritenere che essi abbiano attinto a una seconda fonte (differente da Marco). Questa fonte ipotetica è conosciuta col nome di "fonte Q" 53 dall'iniziale della parola ted. Quelle 54 (pron. kwelle "fonte"). Essa è conosciuta anche come logionQuelle ossia "fonte dei detti", perché, per la grandissima parte, è costituita da parole di Gesù, che essa veicolava senza una cornice storico-geografica: per questo motivo alcuni passi di fonte Q ricevono una diversa ambientazione da Mt a Lc. Ad es. le Beatitudini (Mt 5, 1-12), che in 5, 1 sono pronunciate su un monte («vedendo le folle, Gesù salì sul monte»), in Lc (6, 20b-22) fanno parte di insegnamenti che Gesù impartisce «in un luogo pianeggiante» (6, 17). Mc e Q, dunque, costituiscono le due fonti cui avrebbero attinto Mt e Lc ("Teoria delle due fonti") per il loro vangelo55. A queste due fonti si devono aggiungere le "fonti proprie" di Mt e Lc alle quali avrebbero attinto per quegli episodi che sono peculiari a uno solo dei vangeli e non agli altri due. Ad es.: sono tratti dalla fonte propria di Mt l'episodio dei magi, il "Tu es Petrus", la morte di Giuda e altri ancora. Sono tratti dalla fonte propria di Lc, il vangelo dell'infanzia, le parabole della misericordia, il buon ladrone ecc. 56 4) Benché, in generale, ci sia concordanza nella disposizione del materiale, va rilevato che ci sono anche vistose discrepanze. Dove, ad es., un evangelista raggruppa il materiale in un unico punto, l'altro lo distribuisce in più parti. La sezione delle parabole è comune a tutti e tre, ma ciascuno ha un numero differente di parabole. In Mt i detti di Gesù sono raggruppati in cinque grandi discorsi 57, mentre in Lc molto di questo materiale è spostato nella sezione del viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9, 51-18, 14). Ci sono discrepanze anche nelle singole pericopi e le migliori esemplificazioni sono il numero delle petizioni presenti nel "Padre nostro" (Mt 6, 9-15; Lc 11, 2-4) 58 e il numero delle beatitudini (Mt 5, 3-11; Lc 6, 20b-22) 59. Comunque, Lc segue l'ordine di Mc molto più da vicino di quanto lo faccia Mt. 53 L'idea di una fonte di logia risale a F. D. E. Schleiermacher (Ueber die Zeugnisse des Papias von unsern beiden ersten Evangelien, ThStKr 5 [1832] 735-740) il quale, interpretando una sentenza di Papia di Hierapolis, riteneva che fosse stata scritta in aramaico da Matteo e fosse servita da fonte per il vangelo tramandato sotto il suo nome. 54 La sigla apparve la prima volta in una dissertazione di E. Simons a Strasburgo nel 1880. 55 La prima formulazione della teoria delle due fonti risale a F. Holtzmann (Die synoptischen Evangelien, Leipzig 1863). 56 Nonostante la diffusione, causata anche della sua indubbia praticità, la teoria delle due fonti, comunque, non è l'unica teoria proposta come spiegazione del "fatto" sinottico, e può prestare il fianco a varie obiezioni. 57 Discorso della montagna (5, 1-7, 29) - Discorso missionario (9, 3-11, 1) - Discorso parabolico (13, 1 - 52) - Discorso ecclesiale (18, 1-35) - Discorso escatologico (24, 1-25, 46). 58 Il "Padre nostro" nella redazione matteana ha sette petizioni (o domande); nella redazione lucana ne ha 5. 59 Otto in Mt; quattro in Lc. 34 35
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