Cor tona Cortona C en ntro C onv veg e ni S, Agostino Agostin ino Centro Convegni 18 1 8 19 19 20 20 settembre set tembre contro nazionale naziiona alle e di di sttudi udi 2 2014 014 1 47°° inncontro 47 UN’ECONOMIA U N’ECONOMIA A PER P ER R CREARE CREAR R E L LAVORO AVORO AV BUONO GIUSTO B UO ONO E G IUSTO Matteriale per Materiale per l’approfondimento l’approfondiimento a cu cura ra d della elll a ffunzione un nzione Studi St udi d delle elll e Ac A Acli cli INDICE Il lavoro non è finito, di Gianni Bottalico p. 5 Tra Cortona 2013 e Cortona 2014 Da dove veniamo: Cortona 2013, a cura di Ufficio Studi Cortona 2014. Il tema, a cura di Ufficio Studi 9 13 Suggestioni e scenari Una nuova forma di solidarietà, di Roberto Rossini Dalla cooperazione alla comunità, di Piero Bargellini Mutamento sociale, capitalismo e crisi, di Andrea Casavecchia e Fabio Cucculelli 21 27 30 Il senso del lavoro Il lavoro nello scorrere del tempo. Un’analisi socio-storica, di Andrea Casavecchia Lavorare in gratuità. Un’analisi biblica, di Marco Bonarini Il bene nel lavoro. Un’analisi dottrinaria, di p. Elio della Zuanna 37 45 51 La realtà del lavoro Il lavoro presente… e assente, a cura di Iref Lavoro e vulnerabilità sociale: un inedito binomio, a cura di Giuseppe Marchese Famiglia e lavoro: fra vulnerabilità e opportunità, di Santino Scirè Il lavoro e il sindacato europeo, di Simonetta De Fazi 59 92 98 104 Le Acli e il lavoro I servizi al mutare del lavoro: il Patronato, di Marco Calvetto I servizi al mutare del lavoro: il Caf, di Paolo Conti I servizi al mutare del lavoro: Enaip, di Tino Castagna La forza (del) lavoro: una campagna per dimostrare che il lavoro non è finito, di Stefano Tassinari 111 118 121 128 Appendice Bibliografia e filmografia, a cura di Simone Cittadini, Storico Acli Repository, a cura della redazione di BeneComune.Net 3 147 150 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto IL LAVORO NON È FINITO Gianni Bottalico Presidente Nazionale sicurezza sul lavoro, della salute dei consumatori. I Paesi emergenti hanno approfittato della globalizzazione per avviare la loro industrializzazione, ma adesso invocano un sistema finanziario internazionale più equilibrato ed il riconoscimento del loro ruolo politico sulla scena globale. Un unico centro politico e finanziario oppure diversi centri. È questo l'oggetto del conflitto del nostro secolo. In questa partita l'Europa rappresenta l'ago della bilancia ma rischia di divenire il teatro dello scontro se anziché ricercare il bene comune si dovesse lasciare sopraffare dagli altrui interessi. Da dove ripartire, allora, per costruire un'economia che crea lavoro buono e giusto? Da una grande iniziativa politica che scaturisce da una capacità di lettura e di progetto adeguata alle sfide non semplici che questo tempo ci presenta. E da una capacità di cogliere le difficoltà sociali ed economiche che si manifestano sui territori: la deindustrializzazione, l'aumento della disoccupazione, l'impoverimento dei ceti lavoratori, il dilagare della povertà. Su queste emergenze dobbiamo rimodulare la nostra vita associativa e l'intero sistema dei servizi, sia in termini di capacità di lettura dei nuovi bisogni sociali, sia in termini di nuove offerte che puntino a subentrare alle sempre più numerose lacune lasciate dal ritiro e dal ridimensionamento dello stato sociale. Ancora una volta, come in altre epoche, per le Acli il compito principale ed il maggior servizio che possono rendere al bene comune, è quello di cercare di tradurre in progetto politico coerente quanto suggerito dall'esperienza e dal contatto diretto con le difficoltà dei nostri associati e dei concittadini che incrociamo, con le nostre iniziative e con i nostri servizi. Mentre assistiamo a movimenti della storia sempre più intensi, spesso violenti, alla ricerca di un nuovo equilibrio globale capace di sostituire quello impostosi nel ventesimo secolo, a quasi settant'anni dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, e nel centenario dell'inizio della Grande Guerra, le Acli tornano a Cortona per interrogarsi sul ruolo che possono esercitare nell'attuale complicata fase di transizione e di crisi. Il lavoro continua ad essere il termometro della stabilità sociale e politica di un'epoca. Quando questo è ridotto a merce e la giustizia sociale è sacrificata sull'altare dell'idolatria del profitto e di un sistema finanziario basato sulla speculazione, si va incontro a tempi convulsi. Per questo il tempo attuale è così denso di incognite. Oggi tutto congiura contro il lavoro. Le scelte strategiche fondamentali lo penalizzano e sempre meno lo tutelano. Gli stati non trovano le risorse per politiche di sviluppo, ma trovano copiose risorse per soccorrere gli istituti finanziari. Da anni i legislatori sono sottoposti ad una pressione continua e martellante da parte degli organi di stampa per più deregolamentazione e flessibilità, ma nel contempo le istituzioni accettano, senza significative resistenze, le rigidità della politica europea di austerità, e paiono già pronte ad accettare quelle ancor più gravi che si profilano, derivanti dalla stipula in segretezza e senza controllo democratico, di trattati internazionali come il Trattato transatlantico di libero scambio (Ttip) e l'Accordo di Commercio sui Servizi (Tisa). Il quadro giuridico e istituzionale che si va costruendo non ha al centro né il lavoro, né la persona, ma il profitto, una sua ulteriore centralizzazione nelle mani di pochi operatori globali a scapito dei diritti sociali, della 5 TRA CORTONA 2013 E CORTONA 2014 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto DA DOVE VENIAMO: CORTONA 2013 Partecipazione e democrazia per abitare la storia a cura di Ufficio Studi un lato la riduzione della quota di umanità che versa in stato di povertà: se negli anni Settanta del Novecento la metà delle persone viveva con meno di un dollaro al giorno, oggi si trova nella stessa situazione un settimo della popolazione globale. Dall’altro lato abbiamo assistito alla separazione della coppia capitale-democrazia: se nel recente passato la crescita economica era legata a doppio filo con la sorte della democrazia di un Paese, oggi i destini si separano: anzi, assistiamo a un “blocco” delle democrazie. In Cina la crescita economica non è affiancata dalla maturazione di una società garante del pluralismo democratico; così come nei paesi europei la difesa dell’economia ha ampliato le disuguaglianze sociali e solo alcuni hanno beneficiato degli effetti della globalizzazione. Quando Filippo Andreatta concentra la sua analisi sull’Italia, emergono due indicatori di crisi: il primo riguarda l’autoreferenzialità politica, che è emersa in tutta la sua forza nelle ultime elezioni, dove l’astensionismo è stato imponente e il Movimento 5 Stelle ha catalizzato il consenso delle categorie più deboli (giovani, autonomi, disoccupati). Il secondo indicatore riguarda la frattura generazionale: l’Italia è un paese dove chi lavora controlla meno della metà della ricchezza complessiva, dove i giovani sono poco valorizzati e l’investimento nell’istruzione è scarso: se pensiamo che sono quasi solo i figli dei laureati a laurearsi, prendiamo atto che alle nuove generazioni sono offerte scarse opportunità di lavoro e scarsi investimenti per il loro futuro. E allora, ecco il problema politico: quali sono le domande di futuro su cui costruire la storia del nostro Paese? Quali forze politiche e civili avranno il coraggio di sceglierle? L’economista Leonardo Becchetti ha aggiunto alla Potremmo sintetizzare con un interrogativo l’esigenza da cui è nato l’incontro di Studi 2013: Come possiamo abitare il nostro tempo? Quale tipo di presenza ci chiede la storia? Il tempo non è neutro o astratto, ma è un tempo calato in una storia ben precisa e delineata, che presenta due grandi sfide, la crisi economico-culturale e la (conseguente) crescita delle disuguaglianze. Le nostre società democratiche si sono sempre distinte (ma ora non più) per la forza della partecipazione con le opportunità da essa create, e per la ricchezza dei diritti di cittadinanza con il loro bagaglio di potenzialità per lo sviluppo integrale della persona. Questo tempo interroga la fedeltà alla democrazia che è una caratteristica genetica delle Acli: appartiene al loro DNA e si declina nell’attenzione alla dimensione popolare e nella proiezione verso un ideale di giustizia. Confermare la nostra fedeltà lungo la storia acquista nuovi significati da esplorare per gettare le basi di una cultura politica capace di costruire un nuovo modello di convivenza civile, che consideri la dignità della persona umana nella vita e nelle sue relazioni. Proporci la questione di come abitare la storia significa anche per noi, riscoprire un compito, una vocazione: quali Acli vogliamo per abitare il nostro tempo? Quale missione? Dentro questa cornice inquadriamo i contenuti proposti a Cortona nel 2013, provenienti dai relatori, dagli interlocutori politici, dal confronto delle esperienze nei laboratori tematici. Contesto: quale mondo viviamo? Il politologo Filippo Andreatta ci ha introdotto nel contesto mondiale. Sono segnalati due elementi: da 9 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento scaturisce una modifica dei rischi e dei bisogni sociali: destandardizzazione del lavoro; trasformazioni demografiche; contrazione delle reti familiari; trasformazioni culturali di impronta individualistica. I cambiamenti tendono a favorire l’autonomia dei cittadini, la loro indipendenza a scapito della loro sicurezza e della loro socialità. Così attecchisce la vulnerabilità caratterizzata per la scarsa stabilità dei meccanismi di acquisizione delle risorse. Rosangela Lodigiani cita Robert Castel, quando parla di individui per difetto: quelli privi delle risorse e delle capacità necessarie per essere autonomi, quelli per i quali un evento negativo o una normale transizione del corso di vita diventa un ostacolo insormontabile. Tale situazione espone tutti alla vulnerabilità; soprattutto chi si trova nelle posizioni intermedie della società. cornice altre tre coordinate: la crisi di senso, la crisi ambientale e la crisi finanziaria. Dentro di esse si origina la decrescita italiana. Bisogna prendere atto che la delocalizzazione industriale non si può fermare, finché non sarà colmato il divario Nord-Sud del mondo. Inoltre siamo impigliati in un rigorismo autistico che non permette di modificare il rapporto tra il debito pubblico e il Pil. C’è infine un problema culturale che domina il sistema economico: si privilegia la produzione di beni di comfort - che creano una dipendenza del consumatore - invece di produrre beni di stimolo - che creerebbero una crescita del cittadino (si preferisce inondare il mercato di Suv tutti uguali, ma personalizzabili, piuttosto di investire su trasporti ecologici, integrare tecnologie ibride e piste ciclabili). Le proposte di Leonardo Becchetti toccano due livelli: il primo livello richiede un cambio di paradigma, che superi l’ideologia del Pil per andare verso un’economia civile, nella quale si combinino mercato, istituzioni pubbliche e cittadinanza. Il secondo livello è strategico: per uscire dalla congiuntura avversa è importante investire su fattori competitivi non delocalizzabili. L’economista ne individua alcuni, dove l’Italia parte avvantaggiata: i siti segnalati dall’Unesco come patrimonio dell’Umanità; il luogo di maggior concentrazione di biodiversità in Europa; la leadership mondiale per i beni culturali e religiosi. Certo ci sarebbe bisogno infine di investimenti per creare un habitat al sistema economico: efficienza della Pubblica Amministrazione, giustizia civile, banda larga, istruzione... La sociologa Rosangela Lodigiani ha allargato la riflessione sul tema della vulnerabilità sociale che, nell’ultimo periodo storico, è diventata la categoria interpretativa delle disuguaglianze e della stratificazione sociale. Attraverso il concetto di vulnerabilità sociale si comprende il senso di instabilità, fragilità e incertezza che colpisce in modo trasversale la popolazione. Si introduce una dimensione di disuguaglianza che coinvolge diversi fattori di rischio: precarizzazione del lavoro, instabilità reddituale, corrosione delle reti di prossimità, inerzia istituzionale. Nel corso degli ultimi decenni anche in Italia il contratto sociale, incentrato su lavoro, famiglia e welfare ha segnato il passo: la nostra società perde la capacità di provvedere al benessere e alla sicurezza dei cittadini. Ne Lo stato della partecipazione e della democrazia La partecipazione sociale è in bilico nella nostra storia. Ma la partecipazione è uno dei possibili modi di abitare la storia in modo collettivo. Per descriverne lo stato attuale, il sociologo Paolo Ceri ha distinto tre dimensioni. La prima riguarda i compiti e il ruolo che un soggetto svolge all’interno di un’attività comune: aver parte nel raggiungere un obbiettivo. La seconda riguarda la capacità e la possibilità di influenzare le decisioni collettive: sentirsi parte di un gruppo, della famiglia, di un’impresa, di un’associazione. La terza dimensione, sostiene Ceri, si inserisce nel quadro del cambiamento di regole e finalità di una comunità: consiste quindi nel prender parte ad un’azione di trasformazione collettiva. Oggi sono principalmente due le vie privilegiate di partecipazione per le persone: il mondo digitale e l’associazionismo. Entrambe presentano problematicità. La prima via per ora sembra essere “sostitutiva” più che trasformativa delle forme tradizionali: diventa uno sfogo individuale, un segnale di protesta, ma manca di collante e di forza propositiva. La seconda, l’associazionismo, sembra avvitarsi su se stessa; stimola alla partecipazione interna e alle finalità di servizio dell’organizzazione, piuttosto che promuovere la cittadinanza tout court. 10 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto uguaglianza, giustizia e legalità sono dentro il patto di delega democratica: cosa succede se non sono rispettate? Infine il sociologo segnala un rischio: stiamo abbandonando la democrazia associativa e deliberativa, accantonate insieme al federalismo... Per verificare le forme di partecipazione, Paolo Ceri, individua una strategia d’azione. Innanzitutto occorre ricostruire la rete della fiducia tra le persone e nel rapporto cittadini e istituzioni. Perciò si propone di operare su tre piani: legalità, giustizia sociale, connessioni tra sfere vitali e culturali. L’operazione chiama in causa alcune minoranze attive: dirigenti con visione internazionale; associazioni non corporative; movimenti sociali per i diritti e la democrazia. Infine per riattivare la partecipazione secondo il sociologo bisogna alimentare un collante etico che ruoti attorno all’appello per la dignità umana, ancora oggi capace di mobilitare azioni di protesta e proposta. Una seconda modalità dell’abitare la storia in modo collettivo è la democrazia, che il politologo Ilvo Diamanti segnala nella sua specificità temporale: la democrazia non esiste se non la collochiamo nell’oggi lungo un percorso tra passato e futuro. Il rapporto con la storia è una prima questione da affrontare: nel nostro sistema democratico non garantiamo una previsione di breve e tanto meno di lungo periodo. Nel primo caso è sufficiente considerare l’attuale situazione: come si può governare quando non si è a conoscenza della data delle prossime elezioni, quali saranno le alleanze, quali partiti esisteranno? Nel secondo caso è sufficiente osservare le prospettive della condizione giovanile: la fascia adulta della popolazione ha bloccato il tempo e detiene il potere; i giovani non entrano in conflitto, non ne avrebbero la forza economica né demografica, semplicemente se ne vanno. Una seconda questione, per Ilvo Diamanti, attiene al significato della democrazia. L’astensionismo mette in crisi la dimensione della rappresentanza e della rappresentatività, che è la forma di democrazia attualmente conosciuta. Si è passati da una democrazia dei partiti alla democrazia dello spettatore, dalla partecipazione alla comunicazione, dall’identità agli slogan. Il voto – infatti - non riesce a esprimere una vera e propria maggioranza politica e per questo, da tre anni, ricorriamo a governi tecnici composti da saggi. Dentro una fase di eccezione assumono importanza altre figure: la magistratura, l’università. Oltre alla dimensione procedurale c’è una paralisi contenutistica: Lo stile dell’abitare Nella situazione di crisi, come appare la speranza dei cristiani? Fratel Massimo Fusarelli, a partire dal Salmo 37, indica la peculiarità del vivere nel margine, descritto nella Sacra Scrittura: nel momento della persecuzione, al credente è proposto di coltivare la fedeltà e il bene, di non cedere al male. Ne emerge la differenza tra lo stolto e il saggio: il primo si chiude in sé stesso, si sente protagonista assoluto, invade lo “spazio” e aspira al possesso esclusivo. Il saggio, invece, rimane ancorato all’alleanza e vive la storia dentro la categoria del pellegrino, in continua ricerca della verità, con i piedi ancorati alla terra e gli occhi fissi verso il cielo. Il saggio è capace di vedere l’ingiustizia e ascoltare il lamento di chi vive nella sofferenza. Monsignor Riccardo Fontana, vescovo di Arezzo e Cortona, evidenzia la necessità di trovare un posto nella storia per attraversare la “palude” in cui siamo impantanati. L’invito richiede un discernimento attraverso il recupero di uno stile di vita secondo lo Spirito. Il richiamo vale per i singoli, come per le associazioni e la Chiesa stessa. Per abitare la storia dobbiamo fare memoria della nostra tradizione. Il vescovo provoca quindi con due domande: com’è possibile traghettare l’esperienza del cattolicesimo democratico? Come si concretizza oggi l’appello di don Luigi Sturzo rivolto agli uomini liberi e forti? Dentro questo perimetro è possibile ricavare lo spazio politico dell’azione locale, che si caratterizza per alcuni elementi: l’amore per gli ultimi, la cultura della legalità e il dialogo per superare la cultura dell’assedio. Spiega il vescovo: l’unico nemico nel Vangelo è il diavolo, non bisogna crearsi fortini. Le sfide per abitare la storia Dal confronto con gli esperti e dal dibattito avvenuti nei laboratori tematici è possibile individuare alcune sfide: 11 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento sfida che attende i sistemi di welfare è quella dello sviluppo delle capacità personali e comunitarie per superare la logica dell’emergenza. Le politiche sociali dovrebbero adottare una logica dell’integrazione istituzionale (Stato, Regioni, province, comuni), di integrazione tra pubblico/privato e di integrazione tra le diverse politiche (sanitarie, abitative, fiscali, del lavoro). Per le Acli si tratta di tradurre in opere l’obiettivo di sviluppare un modello sociale che crei reti e costruisca cittadinanza a partire dai giovani e dalle donne. Esempi di questo sono i Punti Famiglia o iniziative di conciliazione vita lavoro. 4. Gli stili di vita mostrano la possibilità di costruire nuovi modi di convivenza. Una novità antropologica sorge nella nostra convivenza umana, in particolare nella famiglia e tra le famiglie: l’assopirsi e la difficoltà a svolgere il normale lavoro di cura delle relazioni, tra adulti e con i non-ancora-adulti, l’afasia educativa, la corsa a rinchiudersi in cittadelle fortificate da dove guardare il mondo cattivo e pericoloso, la difficile convivenza fisica ed emozionale con il diverso da me e tra generazioni. Viviamo frequentemente la solitudine. L’appartenenza non basta a farci riconoscere e vivere buon relazioni buone, in quanto queste nascono se sono generative: lo sottolinea Franco Floris, direttore di Animazione Sociale, nel suo intervento di approfondimento. Per promuovere stili di vita creativi e praticabili è necessario uscire dalla tentazione egocentrica che pervade le persone e i gruppi, per rivolgerci verso le relazioni con gli altri e verso i beni comuni. Dobbiamo cominciare a immaginarci come un gruppo jazz dove non c’è un maestro che assembla gli spartiti e i diversi strumenti musicali, ma sono i diversi musicisti che annusano le strade che odorano di fritto misto e che collettivamente costruiscono e producono musica locale. Per le Acli vanno valorizzati percorsi si attivazione della cittadinanza attraverso la promozione di stili di vita responsabili: gruppi di acquisto solidali, Distretti di economia civile, pratiche di educazione civica, iniziative di integrazione dei cittadini immigrati sono esempi da perseguire. 1. La democrazia non può prescindere dalla realtà del sociale e non può rinunciare alla trasparenza del suo discorso pubblico. La crisi della democrazia, spiega il politologo Luigi Ceccarini, si individua nell’incapacità di unire la dimensione istituzionale a quella sociale. Le persone sono in ricerca di nuovi canali partecipativi per trasmettere le domande sociali che provengono dalla loro vita. I soggetti tradizionali, come i partiti, i sindacati le associazioni, faticano a intercettare questi nuovi modelli partecipativi, a tradurli in istanze concrete a ricondurli nel quadro di una progettualità più ampia. Per le Acli questo si traduce nell’impegno a sostenere coesione anche attraverso la costituzione di comitati civici o forme di circolo che rilancino l’impegno politico sul territorio. 2. Il lavoro presenta due urgenze: le difficoltà di inserimento e l’erosione della socialità. Massimiliano Colombi, l’esperto della Cisl, intervenuto al laboratorio, ha sostenuto che c’è una vasta area della popolazione che non partecipa al mercato del lavoro si tratta degli esclusi: gli esodati, i giovani, e in particolare i giovani adulti, i disoccupati over 50. Prendiamo atto che i servizi, le cooperative, i progetti sono occasioni di incontro per sostenere le fasce deboli, poi il ruolo dei nostri operatori fornisce una grande varietà di relazioni tra le persone. Nasce l’esigenza di occuparsi di lavoro e di economia per essere cittadini e non sudditi. Per e Acli si presenta un ruolo di informazione e di educazione: come alfabetizzare su questioni per l’orientamento ai contratti lavorativi, nelle tutele; come creare iniziative di mutualità e sostegno tra persone e tra famiglie; come formare alla costruzione di profili previdenziali e alla finanza. 3. Il sostegno sociale subisce una mutazione genetica. Di fronte ai cambiamenti del welfare e alla costante riduzione della spesa pubblica, destinata ai servizi sociali, è necessario per chi opera nel sociale adottare una prospettiva della cura della relazioni personali, vedendo il singolo soggetto inserito in un sistema di legami (familiari, sociali, comunitarie). Secondo una logica sussidiaria va ripresa un’azione che sia capace di tessere reti di protezione sociale, come ha ricordato Fabio Vando della Caritas. La 12 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto CORTONA 2014. IL TEMA Le Acli negli anni 2020. Per una nuova società del lavoro a cura di Ufficio Studi «[…] un lavoro che, in ogni società, sia l’espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna: un lavoro scelto liberamente, che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità; un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli, senza che questi siano costretti essi stessi a lavorare; un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire la loro voce; un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa» (Caritas in Veritate, 63) «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» (Costituzione Italiana, art. 4). Come inquadrare il tema del lavoro oggi? È superato lo schema che contrappone il capitale al lavoro, in una lotta che oggi registrerebbe una clamorosa regressione della componente lavoratrice (contemplando in essa il lavoro salariato, il lavoro dipendente, il lavoro falsamente dipendente in realtà precario, dalla classe operaia al cosiddetto “quinto stato”, passando dai piccoli commercianti)? Quale direzione prendere per meglio proteggere i diritti dei lavoratori? Possiamo anche noi confermare che alle conquiste sindacali degli anni Settanta, è amaramente corrisposta una stagione di contrazione dei diritti dei lavoratori? Per rispondere a queste domande poniamo qualche frammento di realtà, proponiamo un nostro punto di vista per circoscrivere il lavoro attorno a tre poli. La nostra prospettiva parte dalla persona che lavora, si interroga sull’organizzazione del sistema produttivo, per arrivare al ruolo del Paese e del territorio. La persona che lavora 1. Il senso del lavoro: il lavoro subisce profonde trasformazioni. Sono molteplici le ricadute sulle persone e sulle loro relazioni. L’interrogativo è rivolto alle condizioni future del nostro convivere perché, come recita il dettato costituzionale all’art. 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Il lavoro contribuisce a disegnare un progetto di vita. Oggi la logica di quello che alcuni chiamano capitalismo tecno-nichilista propone il lavoro come strumento per il consumo e per la soddisfazione dei desideri suggeriti-imposti dalle innovazioni del mercato. Questa idea svuota il significato del lavoro perché lo individualizza e lo marginalizza all’interno del sistema produttivo. Il lavoro diventa essenzialmente 13 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento di Pil nei Paesi a economia avanzata non produce un corrispettivo aumento dei tassi di occupazione, anzi nei Paesi dell’Unione europea, e in particolare in Italia, si assiste all’aumento dei tassi di disoccupazione e di inattività. Non c’è un automatismo diretto tra lavoro e cittadinanza, ma il legame tra diritti sociali e lavoro è strettissimo e l’assenza di lavoro rischia di produrre anche la contrazione dei diritti di cittadinanza. Anche a livello culturale si perde un legame prima presente e fortemente radicato tra lavoro e cittadinanza. Se si erodono i diritti, allora le persone sono schiacciate dal bisogno di lavorare e si aprono vie per trascurare le norme, per rendere accettabili condizioni precarie, lavoro nero, lavoro sommerso. I costi si caricano sull’individuo, sulla famiglia e sulla comunità. Lo stesso se passiamo dalla civiltà del lavoro alla civiltà del non-lavoro, dove le persone inoccupate rimangono imprigionate dal bisogno di lavorare. Siamo in presenza di una deriva, che finisce per non considerare il lavoro come un diritto di cittadinanza esigibile da tutti, ma solo come una possibilità a cui non è necessario che tutti accedano. C’è uno stretto legame tra lavoro e coesione sociale, lavoro e relazioni con altri, lavoro e costruzione della polis: la mancanza di lavoro da una parte alimenta un vuoto sociale, dall’altra parte influisce su spazi e tempi di vita (famiglia su tutti), ricchi di significato ma diseconomici nel breve periodo. Il legame tra lavoro e cittadinanza ci ricorda la stretta e intima connessione tra la fedeltà al lavoro e la fedeltà alla democrazia delle nostre Acli. fonte di guadagno e di autosostentamento, diventa luogo di competizione dove sopraffare l’altro, il più debole, per ottenere successo. Così il lavoro consuma le persone: “questa economia uccide” (EG 53) e incentiva la cultura dello scarto (EG 53). Invece il lavoro non si può circoscrivere al suo mero significato materiale ed economico, perché è actus personae (LE, 6) e come espressione della persona acquista un significato antropologico: “la persona è il metro della dignità del lavoro” (Compendio DSC, 271). Attraverso il loro lavoro le donne e gli uomini realizzano un prodotto, perfezionano se stessi, entrano in relazione con gli altri, compiono la loro vocazione di lavorare e custodire il creato (Genesi 2,15), contribuiscono a generare bene comune. Quando si pone al centro la persona il lavoro diviene un bene plurale, perché considera i genitori, i figli, le donne e gli uomini in carne e ossa con le loro età e le loro condizioni di vita, con la loro cultura e le loro diverse abilità e competenze. Per promuovere un realistico senso del lavoro è necessario agire su tre dimensioni. Anzitutto stabilire un rapporto sano con il tempo: la dimensione biblica della festa è il luogo nel quale si attribuisce il senso del proprio lavoro, nel quale si valuta se è “bello e buono”; il nostro tempo è aggredito dalla logica dell’usa e getta e i compiti lavorativi si esauriscono nella prigione del presente e non aprono a una visione progettuale. In secondo luogo ricostruire una socialità del lavoro richiede di investire nelle relazioni, non solamente quelle interne all’impresa, ma anche quelle tra impresa e territorio, tra impresa e comunità locale, tra impresa e società civile. Abbiamo bisogno di riappropriarci di un umanesimo del lavoro che chiede l’attenzione alle relazioni nella giustizia e nella solidarietà anche con la promozione dei valori di mutualità e cooperazione. Infine fondare una res pubblica, perché occorre un’etica del lavoro orientata al bene comune: lavorare è sensato quando ci si interroga sulle conseguenze dei risultati di ciò che si produce, per conciliare sviluppo economico con l’innovazione, con la crescita sociale e la compatibilità ambientale. 2. Il lavoro e la cittadinanza: l’attuale scenario ci induce a riflettere su una svalutazione del lavoro. Accenniamo ad alcuni aspetti: la crescita degli indicatori 3. Il lavoro e la vulnerabilità: la nuova ripartizione del lavoro, tra lavoratori forti e strategici per i processi produttivi e lavoratori deboli e periferici, intacca le posizioni occupazionali intermedie sia con una riduzione della domanda di lavoro, sia con una riduzione salariale. L’effetto poi si riproduce nella società con la crisi dei ceti medi. La vulnerabilità è percepita soprattutto dai lavoratori autonomi, da quelli subordinati a medio e basso reddito, dai piccoli artigiani. Tutti vedono da una parte peggiorare il proprio tenore di vita, dall’altra parte percepiscono maggiori insicurezze relative alle condizioni lavorative, alla stabilità del lavoro, alle tutele nei rapporti di lavoro. Si aggiunge poi un processo di individualizzazione degli ambienti di lavoro 14 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto Non c’è più una “catena di montaggio” tra un lavoro e un altro, ma i lavori diventano più indipendenti tra loro. Si costituiscono nuclei di knowledge worker iperpagati e sovraoccupati e nuclei di working poor, che sono la contraddizione vivente dell’ipotesi per cui il lavoro conferisce (tra le altre cose) l’autonomia e la libertà dall’indigenza. Secondo alcuni autori si sta generando una società scissa tra queste due polarità, con i primi a governare la produzione e i secondi che operano a loro servizio. Ma emerge un’ulteriore figura che si distacca dalle due polarità: i “lavoratori artigiani”, che cercano nella qualità e nella dimensione relazionale il senso del proprio lavoro, quelli che investono su una produzione cooperativa piuttosto che competitiva. Tra gli esempi citiamo il ritorno all’agricoltura o all’allevamento (biologica); l’esperienza del coworking; l’esperienza dei giovani che si giocano su un doppio lavoro ( uno remunerativo, uno espressivo) e le molte start up che investono sulle capacità di mettere insieme intelligenze e idee con sogni e bisogni. In tutte queste diversità organizzative, sarà possibile sostenere un lavoro dignitoso? Saranno immaginabili adeguate misure di protezione sociale? alimentato dal clima competitivo che contribuisce a sgretolare la dimensione socializzante e all’isolamento dei singoli lavoratori. 4. Il lavoro e la virtù: si tratta di una visione poco esplorata, a causa della prevalenza di una visione più astratta (che colloca il lavoro in un quadro di valori morali o di morale politica) oppure più funzionalista (la competenza, l’abilità). Tutti e tre i livelli sono evidentemente necessari, ma ci pare che il tema delle virtù - ovvero di quando il valore assume anche una declinazione di “bene” sul piano pratico - sia centrale. Si pensi a virtù come il sacrificio, la lealtà, il coraggio, la perseveranza, la pazienza, l’attenzione, la cura. Il lavoro va compreso nella sua dimensione etica che si evidenzia nelle relazioni e nelle finalità del suo prodotto o servizio. Se perdiamo questa dimensione perdiamo la misura della qualità del nostro lavoro. Non riusciamo a provare i nostri risultati e non comprendiamo quale sia il frutto del lavoro, quali effetti abbia sul benessere delle persone e della comunità. Il lavoro è una questione strettamente relazionale e se ne valuta la qualità sulla base delle alleanze che costruisce, sulla forza dei legami che consolida e sulle dimensioni che lo caratterizzano dalla passione alla gratuità, dalla responsabilità alla cura per la società, dall’apertura verso le generazioni, presenti e future. Un’etica del lavoro vede l’impresa come comunità di persone fortemente radicata sul suo territorio, con il quale stringe legami di senso, condivide sogni per il futuro e sente la responsabilità di progettare uno sviluppo sostenibile. 6. Il lavoro e i giovani: ogni generazione intende il lavoro a seconda delle esperienze che fa e che vede (nel lavoro degli altri) negli anni che precedono l’ingresso nel mondo del lavoro. Ma questa generazione rischia di essere la prima a diventare adulta senza passare attraverso l’esperienza lavorativa. La generazione dei ventenni e trentenni che sta faticosamente cercando di entrare si caratterizza per aver conformato il proprio modo di vedere attraverso una significativa espansione spaziale (sia sul piano virtuale, ovvero il web e i social network, sia sul piano fisico, la mobilità, l’Erasmus, i viaggi low cost, la contaminazione dei linguaggi ecc.) e temporale (più tempo passato in ambienti scolastici e formativi). Le conseguenze di questi modelli formativi influenzeranno il modo di concepire la produzione e il lavoro: non sarà remoto affermare - come già sostiene qualcuno che una parte assai cospicua delle professioni del futuro prossimo venturo non sono ancora pensabili perché non sono ancora nate. Dobbiamo investire sulla capacità di creare innovazione, nuove idee per L’organizzazione che produce 5. L’organizzazione del lavoro: il mondo produttivo ha abbandonato una visione omogenea del lavoro, che veniva sostenuta dal taylor-fordismo: l’idea del one best way conteneva una forte impronta razionalistica e ingegneristica che strutturava e gerarchizzava il lavoro di fabbrica come quello delle amministrazioni. Le organizzazioni, inserite in un nuovo contesto di tecnologie informatiche, portano a dividere il lavoro all’interno di reticoli più o meno estesi più o meno importanti, portano a privilegiare unità locali all’interno di connessioni globali. L’immagine del lavoro si articola. 15 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento zione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”. Questa norma è rimasta a lungo disattesa. Promuovere partecipazione significa stimolare democrazia, ma anche aumentare la produttività, perché quando le persone sono coinvolte in un progetto sentono il loro lavoro utile per un obiettivo, che va oltre la mera sussistenza verso una dimensione creativa. Le forme di partecipazione sono diverse: operativa, organizzativa, strategica. Vanno da un livello minimo che riguarda le modalità di lavoro, a uno medio che tocca le corde organizzative, fino a uno massimo che attiene alla visione strategica dell’impresa. La strada della democrazia economica è fondamentale per realizzare una vera democrazia in quanto favorisce lo sviluppo di forme di partecipazione dei dipendenti ai processi decisionali dell’impresa e alla distribuzione degli utili prodotti dalla stessa. Ad oggi gli strumenti tecnici che possono costituire i pilastri necessari alla realizzazione della democrazia economica sono i fondi pensione e l’azionariato collettivo; ci sono poi esperienze dove i lavoratori condividono le scelte di gestione aziendale mediante partecipazione dei rappresentanti eletti dai lavoratori o designati dalle organizzazioni sindacali. sostenere un’economia che non può pensare di riprodurre gli schemi e i prodotti del passato. Innovazione è una parola chiave. 7. Il lavoro e la rappresentanza: è una questione bloccata e problematica. Il modello italiano di sindacato non sembra rispondere adeguatamente alle sfide attuali. I due principali poli sindacali si muovono lungo un asse che a un polo colloca una visione prevalentemente antagonista e all’altro una visione prevalentemente trattativista secondo il principio del male minore; a un polo un sindacato fortemente tentato dal protagonismo politico, all’altro un sindacato che cerca di non farsi coinvolgere troppo dalla politica senza disdegnare il dialogo con le diverse maggioranze politiche. Entrambi i poli, comunque, “fanno politiche sociali”: si occupano non solo di diritto del lavoro ma anche di welfare e di politiche economiche, cercando di condizionare l’agenda politica. Nel frattempo si rileva la riduzione della percentuale di lavoratori sindacalizzati (anche per il fatto che oltre il 90% delle imprese è inferiore ai 15 lavoratori, e pertanto il clima sociale è informale e probabilmente ostile verso il sindacato, per cui si preferisce rinunciare ad una rappresentanza istituzionalmente formata). Una scarsa rappresentatività però può indurre alla formazione di un’idea asettica di uguaglianza che finisce per produrre una falsa contrapposizione tra chi è garantito e chi non lo è. Forse sarebbe necessario evolvere vero un modello sindacale che privilegi la contrattazione. In tal senso diventa sempre più centrale la contrattazione di secondo livello anche sul piano della tutela e del riconoscimento di vecchi e nuovi diritti. Non mancano esperienze di welfare contrattuale innovativo ma è assente una prassi diffusa capace di cambiare la cultura delle relazioni industriali. A questo “secondo livello” deve corrispondere un’adeguata e coerente partecipazione delle forze lavoro a alla governance delle imprese come i consigli di sorveglianza o strumenti analoghi. 8. Il lavoro e la partecipazione: L’esigenza di favorire i meccanismi di partecipazione e di collaborazione dei lavoratori nell’azienda era indicata nostra Costituzione che all’articolo 46: “Ai fini della eleva- Lo Stato e la comunità che si assumono una responsabilità 9. Lavoro e modello economico: la qualità e la stabilità del lavoro derivano dal modello di economia che si sceglie, sono una variabile dipendente del modello economico. In Germania è prevalso e si è stabilizzato il modello dell’economia sociale di mercato; in Italia ci si è per molti anni ispirati al Codice di Camaldoli, un modello di economia mista. È stato per almeno quattro decenni un modello vincente: inclusivo e remunerativo. Poi i cambiamenti internazionali (ma non solo: anche una degenerazione interna dell’applicazione del modello) hanno indebolito un modello che non ha aggiornare l’intuizione ai tempi che correvano rapidi e inesorabili. L’assenza di una precisa politica economica e industriale ci ha portato ad essere assoggettati a flussi del mercato globale 16 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto inserita; la comunità locale deve molto all’impresa, ma anche l’impresa deve saper di dover molto alla comunità locale all’interno della quale è nata; il bene dell’impresa non si riduce al profitto: sarebbe una visione miope anche sul piano economico e finanziario; c - la concreta alleanza tra lavoro, impresa, natura, cultura e territorio (istituzioni comprese) fondata sulla creazione di maggior benessere, pace sociale e sostenibilità ambientale; d - la valorizzazione della conoscenza, la forte spinta verso la formazione delle persone, di competenze, di ricerca e innovazione per migliorare la qualità del prodotto, della produzione e della produttività, ma anche la responsabilità sociale dell’impresa e la crescita del senso civico; e - la creazione di welfare comunitario che mette in connessione i soggetti attivi del territorio: azienda, amministrazione pubblica, associazioni di promozione sociale, realtà della società civile, terzo settore, anche a partire dal sostegno al welfare aziendale (con la messa in atto di strumenti di sostegno sociale e familiare per i lavoratori), come una sorta di “secondo livello” rispetto al welfare universale rivolto a ogni cittadino; f - una politica orientata all’equa distribuzione dei redditi; g - l’investimento sul lavoro diffuso e utile per impegnare le persone in una sorta di lavoro civile per il benessere socio-ambientale, per curare la bellezza del territorio e quindi la qualità della vita in cui nascono e crescono i figli. e ai capricci della speculazione finanziaria, gestita esclusivamente dagli interessi privati, senza l’argine di istituzioni regolative mondiali. Ma un modello economico che parta dal lavoro, dai lavoratori, dai cittadini ha invece bisogno di istituzioni sovranazionali. Per questo anche l’Europa avrà senso se riconoscerà tra i sui compiti la costituzione di un cartello di protezione degli interessi dei Paesi membri verso un sistema di sviluppo giusto, sostenibile e solidale. Nella consapevolezza che «non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato. La crescita in equità esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga, richiede decisioni, programmi, meccanismi e processi specificamente orientati a una migliore distribuzione delle entrate, alla creazione di opportunità di lavoro, a una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo» (EG, 203). Proponiamo allora di collocare il lavoro dentro un modello di economia civile, all’interno di esso è recuperabile una dimensione collettiva di lavoro che depotenzi una visione individualistica a favore di una dinamica persona-comunità. Si tratta di affiancare al binomio lavoro-competizione il binomio lavoro-cooperazione. L’economia civile, dentro un modello italiano, propone una strada che noi riconosciamo come possibile. La comunità, il territorio il distretto… Alla tendenza globalizzante si contrappone l’attenzione alle dinamiche dei territori che promuovono la biodiversità delle economie, nelle quali fare sistema, in cui riscoprire vocazioni antiche e nuove, in cui costruire con chi sente una responsabilità sociale e civile. Questa pensiamo sia anche la strada privilegiata per radicare una coesione territoriale che consideri le peculiarità regionali e le questioni complesse come lo sviluppo del Mezzogiorno, dove la marginalità va trasformata in tipicità, ovvero in elemento di alta qualità. Dentro tale modello vorremo concretizzate le seguenti caratteristiche: a - la forte partecipazione dei lavoratori ai destini dell’impresa (utili compresi); b - il principio dell’azione responsabile, per radicare la consapevolezza che il destino dell’impresa ha a che fare con la comunità locale, nella quale è 10. Ripartire il lavoro e ripartire il reddito: perché sia possibile rilanciare il lavoro è necessario condividere le risorse e i beni a partire da due nuclei basilari: la ricchezza e il lavoro. È inaccettabile lo squilibrio dei guadagni che si sta realizzando tra dirigenti e operai, tra manager e impiegati, tra rendite e redditi da lavoro. Si generano sacche di opulenza e altrettante di indigenza. Si tratta di un fenomeno pericoloso anche per il capitalismo in sé, che non può funzionare in assenza di una buona pace sociale fondata sull’assenza di clamorosi squilibri. 17 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento golo e come membro delle comunità all’interno delle quali si sviluppa il suo percorso umano, la sua opera e la sua vocazione. Un lavoro buono e giusto contribuisce realmente sia al progresso materiale sia al progresso sociale sia al progresso spirituale. Un lavoro buono e giusto non è mai semplicemente individualistico perché è sempre sociale:. Il vero plusvalore è il bene comune. Cerchiamo di raccogliere l’invito di Papa Francesco a dare priorità al tempo piuttosto che allo spazio. Questo «significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici» (EG 223). Allora, per un lavoro buono e giusto, le Acli s’impegneranno a restituire spessore alla cultura del lavoro, costituita di parole e di idee popolari, capaci di rappresentare la realtà e non l’astrazione della realtà; è importante ridare spazio e tempo alle esperienze concrete, attraverso analisi e studio delle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici nei diversi ambiti professionali. Sarà altrettanto fondamentale ridisegnare le nostre attività ponendole “a servizio” delle persone che lavorano: il lavoro è il centro della nostra iniziativa politica, sociale, culturale ed ecclesiale; la fedeltà al lavoro conferisce piena identità alla nostra storia e alla nostra progettualità sociale, attuale. Le Acli vogliono immaginare nuovi modi per sostenere i lavoratori e le lavoratrici nella loro ricerca di senso: progetti reti, sportelli, circoli, cooperative, start up… Tutto quanto rimetterà in circolo una creatività sociale capace di sostenere, promuovere e tutelare le comunità territoriali e i cittadini. Nella nostra tradizione abbiamo sempre coniugato pensiero e azione. È questo modo di agire che continua a qualificarci: un lavorare critico, capace di discernere ciò che è buono e giusto, sarà anche ciò che servirà per ricostruire l’Italia. Allo stesso tempo è inaccettabile assistere alla polarizzazione tra il non lavoro e l’iperlavoro, a volte anche scarsamente remunerato. Una società del lavoro cresce dentro un’idea di uguaglianza e di libertà: occorre ripartire i redditi perché tutti abbiano il necessario e occorre ripartire il lavoro perché ognuno possa contribuire alla vita della comunità. In questo senso, in termini minimali, si può incentivare il part time e aumentare il costo orario del lavoro straordinario (attualmente più basso di quello ordinario), se non prevedere - in termini più progettuali - forme di cooperazione tra lavoratori. Conclusione: creare lavoro buono e giusto L’Italia attraversa un momento difficile che richiede di impostare scelte efficaci per il suo futuro. Il lavoro è una risorsa strategica e irrinunciabile, fondativa per la nostra Costituzione, la nostra società è una repubblica democratica fondata sul lavoro (art. 1). Se manca il lavoro, manca l’humus della nostra coesione, cede il patto che cementa la nostra alleanza di cittadini. Ci muoviamo all’interno di un contesto europeo e non possiamo leggere le sorti del nostro paese al di fuori dell’Unione, come istituzione che chiediamo sia sempre più vicina ai cittadini. Sosteniamo che le trasformazioni del mondo del lavoro, causate dai mutamenti dei sistemi economici, non possano stravolgerne il senso. Pensiamo quindi che dal lavoro riparte l’Italia e a partire dal lavoro si crea un solido sistema economico, sociale e democratico. Per questo riteniamo essenziale la creazione di lavoro buono e giusto attraverso il contributo dei diversi soggetti: cittadini e imprese, sindacati e istituzioni, comunità locali e società civile perché sia possibile un’economia equa sostenibile radicata sulla vocazione dei variegati territori del nostro paese. Per “buono” intendiamo dire un lavoro che produca beni utili, innovativi, rispettosi dell’ambiente e del territorio, capaci di risolvere bisogni e non di creare dipendenze; per “giusto” intendiamo dire un lavoro che consenta lo sviluppo integrale della persona umana come sin18 SUGGESTIONI E SCENARI IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto UNA NUOVA FORMA DI SOLIDARIETÀ di Roberto Rossini e persone più semplici e osservato la quotidiana realtà... sarà anche ora, nel convegno 2014, di dare qualche risposta. Ma prima di arrivare ad una proposta vocazionale, ecco qualche spunto sulla realtà e qualche chiarimento: di quali intensità e qualità stiamo parlando? Papa Francesco – nel corso della GMG 2013 – ha affermato che siamo di fronte non tanto ad un’epoca di cambiamento, ma ad un cambiamento d’epoca. E padre Bartolomeo Sorge dà un nome, argomentando che siamo di fronte ad uno scenario talmente nuovo da essere paragonato ai grandi mutamenti storici come la caduta dell’Impero romano, la scoperta dell’America, la Rivoluzione francese, la Rivoluzione industriale. Oggi viviamo la rivoluzione elettronica, che cambia le relazioni sociali perché modifica gli strumenti con i quali agiamo nella realtà: l’enfasi sugli strumenti e sulle infinite possibilità garantite dalla scienza e dalla tecnica sta rivoluzionando il modo con cui usiamo il tempo, lavoriamo, conversiamo, ci relazioniamo, raccogliamo idee, gestiamo processi. Sono mutamenti solo apparentemente strumentali, perché coinvolgono i valori e i modi con cui leggiamo il mondo. Un cambiamento d’epoca è difficile da descrivere, per quanto molti studiosi riescano a farci afferrare e capire alcuni frammenti di realtà: da Bauman a Bonomi, da Zoja a Recalcati, da Sen a Stiglitz, da Fitoussi a Moretti... (a questi e molti altri intellettuali sarebbe utile affiancare l’opera di artisti e scienziati, perché anch’essi percepiscono con acutezza alcuni segni dei tempi: per esempio tutta l’enfasi sulla dimensione materica, sull’installazione temporanea, sull’uso divergente dei dettagli, sull’assemblaggio di cose diverse...). Ma come mettere insieme tutti que- Introduzione: Dove eravamo rimasti? Dove siamo esattamente? L’Incontro nazionale di studi 2013 poneva una questione: come abitare la storia che stiamo vivendo? Non è solo una questione di spazi sociali o virtuali da occupare (da arredare), semmai è il saper stare nei processi del nostro tempo per portare il nostro contributo al bene comune: è l’abitare tenendo conto dei progetti di vita delle persone e delle comunità nelle quali si abita, dei tempi, del saper entrare col giusto tempo e col giusto movimento. Le Acli vivono in questo contesto: le città e i piccoli comuni, pensano e fanno, scrivono e progettano... Ma oggi, di fronte alla straordinarietà di una crisi che prelude ad un tempo nuovo, c’è un compito particolare da darci? Quali priorità nel nostro agire per usare bene il tempo e le (poche) risorse che abbiamo a disposizione? Insomma: quale vocazione per le Acli degli anni ‘10 e ‘20 del XXI secolo? A Cortona i relatori intervenuti hanno portato temi e idee, problemi e progetti per stare nella realtà, senza fuggirla. E noi, nei laboratori, abbiamo dichiarato cosa facciamo nelle nostre realtà locali per accompagnare noi e i nostri concittadini. Abbiamo preso atto che non sempre traduciamo le nuove domande in possibili risposte: il lavoro, la casa, l’assistenza, la formazione, la democrazia, il dialogo sociale... Tutti questi problemi non sono nuovi, ma si esprimono con intensità e qualità nuove, con codici e linguaggi e tempi che vanno interpretati con una nuova grammatica. Anche i soggetti non sono nuovi, dai giovani agli anziani, dai lavoratori alle famiglie, dai partiti allo Stato: ma si presentano intensità e qualità nuove. E allora, dopo aver celebrato il convegno 2013, riflettuto insieme, ascoltato esperti 21 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento fatti. Il primo è l’impossibilità di porre una visione unica e valida per tutti. Il secondo è l’aumento della quantità: più popolazione, più informazioni, più prodotti, più anni di vita, più parole, più esperienze, più reti, più relazioni, più lingue e linguaggi: dall’universo al pluriverso. Visibile. È l’enfasi sulla comunicazione. L’occupazione degli spazi per mezzo della seduzione della bellezza. In attesa di cogliere il senso delle cose, ci si concentra sui sensi delle cose: la bellezza, l’equilibrio, la lucentezza. L’enfasi su ciò che è bello supera la razionalità del discorso ed entra “direttamente in vena”, senza passare da schemi e dogmi. L’esperienza è “bella o brutta”: non si usano altri termini per definire ciò che si è vissuto. Per questo è naturale curare la propria immagine, fisica o virtuale. La visibilità è però un bel passo avanti anche per la democrazia: lo sforzo verso la maggiore trasparenza, controllabilità, disponibilità all’uso e al giudizio (si pensi ai dati statistici). La visibilità non esaurisce lo sforzo democratico (che si concentra sulla sostanza dei rapporti interni). Ma il criterio della visibilità e della bellezza pone dei canoni che rischiano di influenzare anche la sostanza delle cose: dall’etica all’estetica. Leggero. L’adeguatezza s’identifica nella leggerezza. Le cose s’alleggeriscono (dalle bibite light ai sottili tablet, le diete leggere e l’alleggerimento delle regole), così come le cose della politica: lo Stato leggero, il partito leggero, il programma leggero. Dall’immagine d’acciaio metalmeccanico si passa all’elettronica delle reti e dei flussi: una leggerezza “orizzontale” che può coincidere con la superficialità e la frivolezza, senza “presa in carico”, senza responsabilità. Ma può anche garantire un funzionamento sostenibile, compatibile con la limitatezza delle risorse disponibili. L’organizzazione non si limita a coprire gli spazi in modo insostenibilmente dispendioso, perché contratta con i nodi che già esistono per garantire una rete più vasta e sostenibile con più cose (multitasking). Ecco perché le reti sono le risorse principali: dalla struttura all’architettura (di rete). Rapido. Tutto scorre: è liquido, fluido, flessibile. Se lo spazio moltiplica le sue dimensioni e diventa sti “frammenti di realtà” collocandoli in una sintesi condivisa che spieghi a tutti – con semplicità – i cambiamenti che viviamo e gli esiti che vivremo? Manca una sintesi condivisa, ma due reazioni (alle troppe culture e alle troppe suggestioni) esistono. La prima è di chi si arrocca sul mondo antico (sperando di riprodurlo). Si descrive il mondo attuale attraverso la distanza tra le proprie convinzioni e ciò si osserva: come se si potesse modellare la realtà alle nostre convinzioni sulla realtà (è la realtà sbagliata, non le nostre idee sulla realtà...). L’altra è di chi accetta qualunque novità che dichiari una rottura col passato (anche con idee estreme). Si descrive il mondo attuale attraverso la debolezza di un pensiero che muta con rapidità, che a volte è spacciato per progresso civile. Insomma sembra di vivere di reazioni e di buone intenzioni, che derivano da un confronto e poi da un giudizio sul passato. E se, invece, iniziassimo a descrivere gli esiti della realtà, prima di giudicarla? Un criterio di lettura in cinque parole chiave Magari non avremo una teoria compiuta ma, da aclisti, abbiamo un punto di vista, un occhio allenato a cogliere alcuni dettagli e, con essi, alcuni mutamenti sociali. È un punto di vista formato alla “scuola della quotidianità”. Ecco allora alcune parole che cercano di spiegare ciò vediamo (prendendo spunto dalle parole chiave che Italo Calvino usa in Lezioni americane). Molteplice. È il movimento che conduce dall’uno al più di uno, alla distinzione o alla moltiplicazione dei fenomeni, delle possibilità. Si pensi alla diffusione di suffissi come multi o pluri: multietnico, multimediale, multiuso, multitasking, multinazionale, multilaterale, multidisciplinare... È lo stesso fenomeno che declina al plurale ciò che era al singolare. Lo fa per moltiplicazione: lavoro in lavori, sapere in saperi, famiglia in famiglie, educazione in educazioni, tenore di vita in stili di vita. Lo fa per divisione: il corso in step o in moduli, la patente a punti, i crediti formativi... perfino le persone “tutte d’un pezzo” non funzionano più. L’idea della molteplicità deriva da due 22 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto forme contrattuali, di competenze, di percorsi formativi, di lauree, di lavori), visibile (la rappresentazione di alcune professioni, ormai anche televisiva, si pensi a RealTime), rapidità (la temporaneità del lavoro, il fatto che il lavoro scelto non sarà più quello “di una vita”), la coerenza (...mancata con la propria formazione). In sintesi: si assiste ad un poderoso allargamento della possibilità (un movimento più orizzontale e spaziale), ma non adeguatamente compensato sul versante del senso, del significato, della salvezza (un movimento più verticale e temporale). La condizione dello studente di quinta liceo che non sa quale facoltà universitaria scegliere per le troppe possibilità non mediate da un criterio personale ben definito, rappresenta una potente immagine che riassume l’impasse in cui viviamo: troppe possibilità ma con minori capacità di discernimento della propria condizione di sé e del mondo intorno. Forse Massimo Recalcati definirebbe questa condizione come un’assenza di desiderio: oppure una condizione impersonale – con le parole del rapporto Censis 2012 – di chi non ha coscienza di sé e di quello che avviene intorno a sé ma vive tutto come fosse un paesaggio (bello o brutto), che non chiede partecipazione né azione... Occorre passare dalle possibilità alla scelta, cioè alla vocazione che dà senso al nostro stare nella storia. Noi invece – crediamo – una vocazione ci si ripresenta, per le Acli: ed è proprio il lavoro che, crediamo, si debba scegliere. Oggi i segni dei tempi ci dicono così. La storia associativa ci dice questo, la quotidianità di persone e famiglie senza lavoro, che interpellano i nostri servizi e i nostri circoli dice questo. Perfino l’assenza di giovani ci dice questo, perché il lavoro, in una società molteplice e frammentata, è ancora il primo fondamento di coesione sociale: il lavoro non frammenta, riunisce. Le Acli possono (ri)trovare attorno al lavoro una spinta per (ri)generarsi. D’altra parte l’utilità economica è un potente fattore di integrazione sociale, ed è anche la base essenziale per legittimare un discorso politico: per questo potremmo anche affermare che, oggi, occuparsi di lavoro è far politica. E lo è davvero – se ci molteplice, visibile e leggero, l’invisibile tempo diventa invece breve. Le esperienze tendono a durare poco, a passare più in fretta. L’instabilità e la precarietà indicano che non si possono assumere impegni a lunga scadenza: i rapporti di lavoro divengono precari e a tempo determinato, i legami umani si assumono in condizioni di costante reversibilità. L’importante è cambiare: abbigliamento, linguaggio, gusti, prodotti (con data di scadenza incorporata). Cosi vale anche per i partiti politici e i loro leader. Per questo si perde l’idea di futuro: non è più possibile programmare, immaginare gli stessi soggetti nel futuro. Forse, più che cambiare, è importante re-iniziare ogni volta, riprovare l’emozione della prima volta: dallo stabile al temporaneo, dal lento al veloce (come la connessione internet). Coerente. La coerenza sostituisce la verità. In assenza di un elemento regolatore, la capacità di tenere insieme, di garantire logicità e funzionalità tra un passaggio e l’altro diventa la questione principale. Date le premesse di uguaglianza, allora coerentemente ne derivano una serie di altre uguaglianze. Di una persona si apprezza la coerenza di ciò che dice, senza discutere sul fatto che siano giuste o sbagliate. Ognuno ha la sua verità, l’importante è essere coerenti. L’assenza di coerenza, per esempio tra il dire e il fare, è ciò che più si teme. La coerenza può generare coesione tra gli elementi, ovvero solidarietà. Ma una coerenza astratta può generare anche relatività, ovvero l’idea che non ci sia un valore valido di per sé: dall’assoluto al relativo. La vocazione è un “lavoro”: il lavoro è una vocazione Se proiettiamo queste parole in ambiti più specifici osserviamo che tengono perché otteniamo qualche risultato in termini di lettura della realtà. Ad esempio la politica: molteplice (troppi partiti, troppe questioni aperte, troppi organi dello Stato), visibile (la cura del messaggio e della comunicazione), rapida (partiti che durano poche stagioni, il “tutto adesso”), leggera (la digitalizzazione della pubblica amministrazione e le relazioni nel web 2.0), coerente (si pensi alle radici cristiane, celtiche, illuministe ecc.). Si pensi anche al lavoro: molteplice (pluralità di 23 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento nel mondo. Dovremo farlo anche in modo generativo, nuovo, aperto, capace di mettere al mondo e capace di “tradire” i vecchi metodi perché le fedeltà che ci siamo dati possano continuare ad esistere. Dobbiamo farlo con lo stesso entusiasmo e la stessa intelligenza che porta Mauro Magatti e Chiara Giaccardi (la virtuosità dell’incontro tra uomini e donne) a dichiarare Generativi di tutto il mondo, unitevi!, per una libertà che libera, per riformare il modello di sviluppo e rinnovare la democrazia. credessimo veramente – sul piano morale e simbolico: i valori, più che da un’astratta identità statale – sono condizionati più dalle campagne marketing di alcune imprese, che legano i prodotti a stili di vita e a seducenti e luccicanti filosofie utilitariste e individualiste. È più facile “prendere la tessera” di qualche multinazionale che di un partito... Il nostro sguardo sul lavoro è caratterizzato da una fedeltà al lavoro che vede anche la fedeltà alla democrazia e alla fede: non siamo specializzati, noi siamo generalizzati, chiediamo la compatibilità tra il lavoro, la democrazia e la dimensione spirituale dell’uomo. Il “nostro uomo” non si ferma alle 8 ore lavorative, ne contempla 24. Non a caso la nostra fedeltà, più che al lavoro, è verso i lavoratori. Il nostro punto di vista non si limita alla tecnicalità delle condizioni dei lavoratori o alle opportunità per creare impiego o ai progetti per sostenere le politiche attive. Ecco allora la necessità di riscoprire un senso del lavoro, per rinnovare una cultura più umana del lavoro. Il lavoro non è un fatto solo sociale e politico, è anche culturale e antropologico. È sociale e politico perché pone la questione dei diritti, dei doveri, del giusto salario ( fattori che incidono sui progetti personali e familiari e sulle politiche sociali). Ma il lavoro ha a che fare anche col conseguimento di una vocazione. La professionalità, la competenze, il talento, il mestiere sono parte della vocazione umana. Come ben esprime la parola tedesca (Beruf), il lavoro è molto vicino alla vocazione: il lavoro è un modo per rispondere alla vita, a ciò per cui siamo chiamati, al nostro desiderio. E allora non si può non operare per creare le condizioni affinché le persone possano realizzare le loro vocazioni. Il lavoro guarda più al benessere, ma non meno all’essere. Per questo sarà decisivo ripensare l’orientamento e la formazione professionale, anche perché, allo stesso modo, è tempo di connettere la dimensione tecnica della formazione a quella etica e civile (Bildung). L’educazione, l’istruzione e la formazione non possono più trascurare la dimensione vocazionale del lavoro: non è più tempo di astratta teoria. Il lavoro è concretezza. Si tratta di riscoprire il lavoro come intuizione generativa: per le Acli il lavoro costituisce una parte importante del modo di essere Una solidarietà economica Il lavoro dovrebbe essere una naturale vocazione per la nostra Repubblica: la Costituzione (e non solo l’art. 1) lo fa trasparire con chiarezza. Allora anche l’assetto politico deve modificare il suo punto di vista, perché è cambiato il contesto: lo scambio tra welfare e libertà d’impresa non basta più. Il conflitto di classe continua ad esistere, ma non è più il motore della storia. Gli esiti sono pesanti: vi è una massa di lavoratori che, pur di lavorare, accetta qualche (o tanta) tutela in meno e una parte dei lavoratori che accetta lavoro nero e illegale: l’apparente fine del conflitto tra capitale e lavoro ha lasciato sul campo un modello deregolamentato che aumenta la diseguaglianza. Si può tornare a pensare ad un altro modello di sviluppo? Il rischio è ridurre anche la coesione sociale: cosa terrà insieme la società? Quale solidarietà? Al momento si vive immersi in una condizione che racconta l’imbrunire di una storia di conquiste sindacali, una storia ruggente di battaglie e conquiste, culminate con lo Statuto dei lavoratori del 1970 e tradito dalle leggi che hanno lentamente smantellato tali conquiste: dagli anni 90 in poi. Si tratta di un tradimento che “alcuni profeti” continuano a denunciare. Ma quali vie d’uscita ci possono essere? Quale modello possiamo postulare per non disperdere una storia e, semmai, poterla rinnovare? È dunque possibile pensare di creare un nuovo paradigma del rapporto tra i soggetti che responsabilmente si occupano di lavoro e società (ovvero le imprese, i lavoratori e i sindacati, i cittadini, gli enti pubblici e gli enti associativi)? Perché insieme all’impresa c’è tutta una società. Anch’essa si chiede quale solidarietà la terrà in24 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto crea diseconomie e minaccia il corretto funzionamento sia del mercato sia della comunità; 3) la leggerezza ci fa immaginare una partecipazione di più livelli e di più soggetti. Una rete flessibile tra soggetti privati e pubblici, tra proprietà (sempre più multipla) e lavoro: i lavoratori devono condividere i destini dell’impresa anche in termini di amministrazione. Il sindacato può offrire modelli virtuosi di partecipazione all’amministrazione. Il senso di una economia civile è anche questo: il lavoro non è un problema dello Stato, è un problema della polis tutta. 4) la coerenza ci convince che non possiamo più procedere “senza” un progetto, un piano industriale di sviluppo, un’idea che tenga conto degli effetti: la politica non è solo reazione, emozione e buone intenzioni, ma responsabilità verso gli esiti (ragionevolmente prevedibili); 5) la rapidità – ossia la variabile del tempo – è la sfida più grande, nella duplice eccezione del “far presto” nonché del cogliere il tempo giusto, ovvero la crisi. E dunque: più democrazia, più relazione, più soggetti. Il lavoro è il motore che può dare unità a questa straordinaria differenziazione: il lavoro crea unità nella differenza, il lavoro valorizza la differenza e riduce la diseguaglianza. Per questo occorrerà coinvolgere più soggetti a rilanciare una cultura del lavoro che dia spazio alla cooperazione, e non solo al conflitto sociale e sindacale; alla formazione, e non solo all’istruzione; alla partecipazione, e non solo alla netta differenziazione tra lavoro e proprietà; all’innovazione, e non solo all’esasperante concorrenza al ribasso sugli stessi prodotti. La collaborazione tra impresa, scuola (centri di formazione e università comprese), sindacati, enti pubblici (in particolare quelli più vicini al territorio), consentirebbe di creare le condizioni per porre il lavoro al centro della preoccupazioni di ogni ente pubblico rappresentativo. Il conflitto tra capitale e lavoro è irriducibile, ma va compreso in una logica cooperativa, dove i molti soggetti cooperano sul piano locale connettendosi alle filiere globali, per sostenere il confronto con un mondo complesso e internazionalizzato. sieme. Émile Durkheim sosteneva che la modernità nasceva nel passaggio dalla solidarietà meccanica alla solidarietà organica. La prima era tipica delle società semplici, fondate sui legami “di sangue” (parentali), senza grandi differenze sociali tra gli individui che la componevano, uniti da una coscienza collettiva forte e sacra. La seconda è invece tipica delle società complesse, fondate sugli obblighi contrattuali, caratterizzate dalle forti differenze tra individui dovute all’ampliarsi della divisione del lavoro. La società che viviamo oggi è ancora più complessa: oltre alla differenziazione delle competenze professionali e lavorative, osserviamo la differenziazione dei valori, che non rispondono più ad un bene comune legittimamente accettato. Si ha dunque l’impressione di vivere una solidarietà disorganica, priva di una regolazione. Sarà possibile ricostruire una organicità nella molteplicità sociale? Nella temporaneità di ogni progetto? Nella ossessiva ricerca di visibilità? Nella frammentazione individualistica? Non sarà facile, in assenza di un ente regolatore autorevolmente accettato come tale. Non indugiamo sulle ragioni per le quali lo Stato non è in grado di assolvere questo compito, ma rimane abbastanza evidente che la complessità (anche internazionale) della società attuale – che Durkheim non poteva neppure minimamente immaginare – non dà alcuna garanzia ad alcun livello amministrativo e politico di poter governare ordinatamente la situazione. Se però ripercorriamo gli aggettivi utilizzati per descrivere questo tempo, possiamo affermare che: 1) la molteplicità e la pluralità ci dicono che è bene si sviluppino più esperienze e più percorsi, più conoscenze che garantiscono più innovazione; anche in termini di modelli economici, non siamo dichiaratamente contro un modello economico profit, siamo a favore di un modello ibrido che contenga profit e non profit: una democrazia economica capace di modellarsi su più esperienze (privilegiando quelle esperienze che tutelano le parti deboli e di eccellenza); 2) la visibilità ci permette di affermare che la trasparenza è un potente elemento di onestà. Il lavoro che intendiamo è un lavoro visibile, rispettoso della legge, non sommerso. Il lavoro non visibile 25 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento La valorizzazione di tutti questi soggetti diviene una forma inclusiva di solidarietà. Per questo riteniamo che sia auspicabile una terza forma di solidarietà, un terzo passaggio dopo il meccanico e l’organico, verso una solidarietà economica, intesa nel suo etimo di regole della casa (così come ben spiegato da Silvano Petrosino). La solidarietà economica è alla base di una sana società e di una sana moralità. L’economia – in questa visione - non è una tecnica, ma è il punto d’incontro tra la regolazione (il diritto, l’amministrazione) e la casa (il popolo con le sue diverse fragilità e condizioni, le risorse, il patrimonio). L’aggettivo “economico”, dunque non è distinto dal “politico” o dall’”etico”: è ciò che concerne il giusto rapporto, la giusta regola, quella che non fa parti uguali tra diseguali. Ecco: occorre ricostruire una solidarietà non astratta, non uguale per tutti indipendentemente da tutto, ma una solidarietà di “giusto peso”, fondata sulla cura e gestita con cura, conforme al vero, puntuale, leggera, visibile: giusta. Si può auspicare una solidarietà civile, ovvero di tutti quei soggetti che sono disposti a sentire un legame con la civitas, col territorio: i patti tra associazioni, imprese ed enti locali sono una strada che valorizza la molteplicità, orientandola però ad un senso chiaro e condiviso, il lavoro per tutti (nella pluralità dei generi, delle condizioni di vita, di etnia, di cultura, di abilità). In questo senso anche il richiamo ad una economia “in chiaro”, non sommersa e onesta non sarebbe un richiamo moralistico, ma il risultato di un processo in cui tutti gli attori sono (in qualche misura) “costretti” ad agire in chiarezza e reciproca responsabilità. Conclusione: niente finisce Le regole della casa servono per abitarla correttamente e per far sì che essa funzioni, sia sorvegliata nelle sue crepe, nelle sue fragilità, sia manutenuta, sia il luogo dove tutti sono rispettati per ciò che sono. Questo per noi è abitare. Per noi delle Acli, abitare la storia significa stare dove ci sono i lavoratori: il lavoro è la nostra casa. Il lavoro non è finito (diversamente da quanto pensava Jeremy Rifkin). Abbiamo bisogno della forza creativa, generativa, ordinativa, normativa, coesiva del lavoro, per ricostruire una società dalla sue fondamenta. Non per renderla “indifferenziata”, ma proprio per valorizzare le sue diversità. La diseguaglianza è un dato ineliminabile nella storia dell’uomo. È ineliminabile anche la differenza. Lo sforzo della politica sta nell’aumentare la differenza (che è innovazione, conoscenza... anche di codici e linguaggi nuovi e molteplici, come si è visto) e nel ridurre la diseguaglianza ad un livello accettabile. Il lavoro è lo straordinario strumento che garantisce questo passaggio. È dunque nel lavoro, è nella quotidianità che salva il nostro orizzonte, perché è la quotidianità ad essere in crisi. Una sana ferialità, tra l’altro, è la migliore garanzia affinché si senta e si viva la festività come una naturale “necessità”. La fede non è qualcosa di posticcio messo al termine di una serie di giorni, semmai è il culmine di una quotidianità che contempla la bellezza del giornaliero saper vivere insieme, secondo lo spirito della fraternità. Il lavoro è ciò che caratterizza la condizione umana: il lavoro è per definizione mai finito. Ci pensa Qualcun altro a portarlo a compimento. Appunto di domenica. 26 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto DALLA COOPERAZIONE ALLA COMUNITÀ TERRITORIALE di Piero Bargellini d’onore” non tollera il minimo sgarbo dal picciotto della sua stessa “famiglia”. Questo complesso sociale aveva due funzioni precise: la gestione della giustizia sociale al proprio interno e la mediazione culturale e politica dei propri aderenti finalizzata al consenso. Nell’insieme le famiglie italiane si pongono come snodo tra il cittadino e lo Stato, per questo sono riconosciute sia a livello giuridico che politico con un potere reale di contrattazione. Il tutto rendeva solida la struttura sociale italiana, anche se i tempi di realizzazione di un qualunque cambiamento erano molto più lunghi rispetto alle altre democrazie, però molto meno traumatici; basta comparare la riconversione industriale italiana e inglese degli anni ottanta. Tuttavia da allora qualcosa è cambiato nel profondo e le due principali funzioni sopra descritte (giurisdizionale e mediazione politica) si sono andate via via appannando fino a scomparire in taluni casi. L’affermarsi poi della globalizzazione e l’avvento della società “liquida”, hanno ridotto di molto le capacità delle singole corporazioni di risposte efficaci di fronte ai nuovi problemi. Anzi, esse si sono chiuse ancora di più; nell’ultimo ventennio del secolo scorso hanno abbandonato progressivamente la funzione giurisdizionale interna, trasferendo ai tribunali il compito di dirimere le controversie interne; hanno difeso oltre ogni buon senso i loro aderenti; hanno perso la funzione di mediazione nei confronti dello Stato difendendo strenuamente quelli che consideravano diritti mentre erano privilegi per gli altri; infine hanno cessato la funzione di mediazione politica e di elaborazione culturale, indispensabile per uno Stato democra- Il passaggio dalla cooperazione alla comunità territoriale non è un fatto volontaristico, ma ha precise regole sociali e dinamiche economiche. L’Italia è un paese di famiglie sociali, di corporazioni visibili e non, ma tutte ben strutturate. Esse hanno fatto il bello e il cattivo tempo del nostro paese in epoca moderna e contemporanea. Si deve alla loro capacità di mediazione culturale e politica se il trapasso dal fascismo alla democrazia sia avvenuto in modo, tutto sommato, indolore al contrario di quanto avvenne in Germania. Si deve alla loro capacità di innovazione tecnica e sociale del secondo dopoguerra, se abbiamo avuto prima la “ricostruzione” e poi il “boom” economico degli anni sessanta. Corpi intermedi dello Stato, esse hanno sempre avuto un ruolo determinante nella vita sociale, economica e politica. Il sig. Mario Rossi (l’italiano medio) prima di essere cittadino è sempre stato un affiliato a qualcosa o a qualcuno: la categoria economica, l’ordine professionale, il sindacato, la loggia o la parrocchia. Nella sua famiglia sociale il sig. Rossi è accolto e si sente protetto, partecipa alla vita della sua corporazione, e da essa ne ricava status sociale e benefici economici. Sa qual è il suo posto e osservava le regole interne che sono precise e di immediata applicazione per tutti gli aderenti, mentre il capo della corporazione ha uno status e poteri particolari superiori a quelli dei singoli aderenti. Vige una doppia morale, ferrea all’interno, e molto elastica verso l’esterno: il commerciante o l’artigiano che occupa un posto non suo è subito punito, ma può tranquillamente evadere il fisco, anzi è addirittura giustificato, così è dell’avvocato per una parcella più bassa di quella fissata, e “l’uomo 27 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento palazzi anonimi delle città per andare ad abitare in piccole comunità fuori da essa, ma anche al suo stesso interno, dove però c’è un legame sociale del tutto nuovo e più forte. Anche se è avvenuto in un lasso di tempo più lungo, questo processo ha coinvolto molte più persone della stessa migrazione dal Sud al Nord avvenuta a cavallo degli anni cinquanta e sessanta. I media non si sono accorti di nulla perché, per loro struttura, sono da sempre attrezzati a leggere la città e non l’intero paese; quello che succede nel “borgo” non fa notizia perché non può nemmeno essere registrato. L’Italia ha un tasso di inurbamento del 67%, il più basso d’Europa, segue la Spagna con il 77 e poi troviamo tutti gli altri paesi. Questo significa che il trasferimento dalla città al “borgo” è stato un fenomeno che ha accentuato una situazione già presente ma con una sua specificità: la città non solo perde abitanti ma inizia a perdere anche la centralità politica e culturale che comunque aveva avuto per oltre due secoli. Il nostro signor Rossi, non più “cittadino solitario”, si è inserito in una comunità apparentemente molto piccola, ma anche più reale della precedente. Con internet egli comunica con tutto il mondo, ma ha rapporti sociali molto stretti con i suoi vicini di casa. In città il denaro era l’elemento che scandiva le sue settimane, nel “borgo” sono i rapporti solidali che emergono come fattori dominanti. Il tempo libero non è più separato dal suo vissuto, egli è occupato nei lavori di manutenzione della casa con l’ausilio dei vicini. Non è più sottoposto e vittima dei meccanismi delicati dei grandi sistemi collettivi (trasporti, distribuzione, sistema creditizio, organizzazione del tempo libero ecc.). Egli ha aumentato moltissimo l’autoproduzione e il baratto come legna da ardere e prodotti dell’orto, ma anche l’autoproduzione di energia, per cui gode di una elusione fiscale molto conveniente: non deve più produrre 100 per poter spendere 50, dato che il prelievo fiscale rappresenta l’altro 50%. Dunque si è creato un nuovo legame con la comunità e il suo territorio: è un legame di natura sociale ed economica assieme e per questo è ben saldo. tico. Infatti queste funzioni sono prerogative di coloro che esercitano effettivamente il potere del trasferimento del consenso, non ad altri. E’ rimasta solo la difesa a oltranza delle prerogative economiche. Il risultato è stato un progressivo ingessamento della struttura dello Stato incapace di varare la ben più piccola riforma perché la classe politica, sempre più screditata, era posta sempre sotto il ricatto del ritiro del consenso, argomento quanto mai sensibile per qualunque politico. Siamo dunque entrati in una spirale perversa perché tanto più la situazione richiedeva riforme (leggi ristrutturazione dei rapporti sociali), tanto più le corporazioni ne impedivano l’attuazione. In molte circostanze i partiti sono diventati ostaggio delle stesse famiglie sociali. La crisi economica che imperversa dal 2008 ha soltanto accelerato questa dinamica: la necessità del cambiamento contrapposta alla volontà di non perdere i privilegi acquisiti. Dunque la crisi è stata l’elemento che ha accelerato un processo sociale che però già da molto tempo si manifestava sotto traccia e che ha portato ad un cambiamento profondo nel tessuto sociale italiano. Nonostante l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, le imprese hanno chiuso e hanno licenziato; commercianti e artigiani marginali hanno chiuso i battenti; le banche hanno dovuto ristrutturarsi; la legislazione europea ha tagliato le unghie ai monopoli; troppi avvocati hanno fatto sì che si determinasse una frattura insanabile tra i prìncipi del foro e gli emergenti. In una parola ogni corporazione si è dimostrata incapace di proteggere i propri affiliati nonostante tutti i regolamenti e leggi che in questi anni sono stati prodotti a difesa delle categorie. Così questo modello sociale non ha più retto e la crisi sociale ha avuto una forte accelerazione. Nel corso degli ultimi trenta anni la popolazione italiana ha abbandonato la grande città ed è andata ad abitare in un luogo che per ora definiamo “borgo”, cambiando strutturalmente le relazioni sociali, il pensiero, la cultura, i rapporti economici, e per ultima, la formazione del consenso del nostro signor Rossi. Il fenomeno ha riguardato ben otto milioni di persone, che progressivamente hanno svuotato i 28 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto Da questo punto di vista la comunità territoriale gode di una maggiore equità al suo interno appianando così le spinte che invece lacerano la città. Concludendo, possiamo dire che siamo in presenza di un nuovo soggetto sociale portatore di interessi economici, culturali e politici che silenziosamente stanno soppiantando i precedenti; ha legami forti al proprio interno ed è un fenomeno in crescita costante. Fino ad oggi abbiamo pensato la decrescita come un fatto volontaristico e individuale per una migliore qualità della vita del singolo: da oggi dovremmo leggere questo fenomeno come un miglioramento economico collettivo che produce un cambiamento sociale forte. La ricchezza, che abbiamo sempre considerata sinonimo di ricchezza monetaria, si va sempre più trasformando come ricchezza di benefici ottenuti e rappresenta un netto miglioramento della massimizzazione economica a cui tutti tendono. L’efficienza complessiva del sistema, che in città stava declinando, trova una nuova prospettiva anche se è molto più complicato riuscire a contabilizzarla perché la moderna economia “curtense” non usa più la moneta come unico strumento di scambio. Riconoscere per tempo i mutamenti sociali strutturali è da sempre il compito storico delle Acli che in questa occasione hanno un vantaggio strategico non indifferente perché le strutture del movimento sono prevalentemente sul territorio ed ad esse è affidato il compito di capire meglio questa linea di tendenza, poi di riuscire a interferire con essa e nel migliore dei casi guidarla; sul territorio non esiste altra struttura sociale in grado di svolgere questo compito. Tocca a noi, alle Acli, far comprendere alla Chiesa stessa nel suo complesso l’importanza e la natura di questo mutamento che si va affermando perché essa riesca a declinarlo in forme di pastorali nuove, più aderenti alle mutate condizioni storiche. Dalla parte dei produttori, si è verificato un fenomeno diverso ma che si sviluppa quasi in simbiosi con la mutata condizione del signor Rossi. La tecnica e una legislazione più aderente hanno consentito lo sfruttamento di fonti di energia locale proprie del territorio e hanno legato indissolubilmente la fabbrica ad esso, così come è cresciuto il capitale umano specializzato che in varie forme collabora alla “sua” azienda, dunque una nuova forma di legame con territorio, come nel caso della Power One di Terranuova Bracciolini ad Arezzo. Il vertiginoso aumento dei prodotti consumati a “kilometri zero” ha privilegiato le aziende locali restituendole al mercato, mentre la globalizzazione, in un primo momento, le aveva marginalizzate. Il turismo, ormai non più di massa, si lega sempre più strettamente all’offerta di vivibilità del nostro paese e costituisce un ulteriore elemento di rafforzamento del vincolo economico tra una comunità e il suo territorio: non a caso il nostro sig. Rossi spesso destina una parte della sua abitazione come Bed & Breakfast, assumendo anche la figura dell’albergatore e sfugge a tutte le rilevazioni statistiche in proposito. Quello che abbiamo descritto sta diventando un modello economico strutturato e bilanciato nel quale tutti i soggetti, consumatori e produttori, si fondono e ottengono un forte miglioramento paretiano rispetto al modello urbano che avevano utilizzato fino a pochi anni fa. La moneta non è più il parametro di misura di ogni atto economico; ad essa si è sostituito il concetto di “beneficio” che comprende la moneta ma non si esaurisce in essa. Si appanna sempre più la figura del venditore e del compratore in quanto tale. La piccola comunità territoriale ha un ulteriore vantaggio di natura economica ma anche di equità sociale. Secondo il concetto di “equilibrio di Nash” (John Nash è stato il Nobel per l’economia del 1994) nel piccolo gruppo il singolo ha una convenienza oggettiva a partecipare alle spese della comunità quando sono state decise. Al contrario nel grande gruppo (la società complessiva) il singolo ha il massimo di interesse a usufruire dei benefici collettivi senza partecipare alle spese: è una spinta oggettiva all’evasione fiscale. 29 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento MUTAMENTO SOCIALE, CAPITALISMO E CRISI di Andrea Casavecchia e Fabio Cucculelli alcune dinamiche delle società occidentali a capitalismo avanzato proponiamo di seguire l’analisi di due autori che riteniamo particolarmente illuminanti. Alain Touraine perché ci spiega che la crisi porta ad una decomposizione del sociale tradizionale e indica la possibilità di costruire una nuova società attraverso la nascita di nuovi attori sociali, capaci di promuovere democrazia; Mauro Magatti perché descrive una nuova forma di capitalismo che emerge dalla crisi e suggerisce di rinnovare l’azione sociale attraverso un nuovo modo di pensare la libertà. La crisi in una società può essere una esperienza tragica di dissoluzione dell’esistente, così come l’opportunità di una nuova nascita e la possibilità di rilanciare un sistema. I tempi di mutamento sono tempi di crisi durante i quali si passa da sistemi sociali abituali e tradizionali a sistemi sociali nuovi. Karl Mannheim descriveva questo passaggio come una brusca sterzata di fronte alla storia, quando «dobbiamo cercare di ri-orientarci, consultare la mappa e chiederci, dove portano queste strade, dove vogliamo andare» (Mannheim, 1976). La brusca sterzata indica una svolta che deriva da una serie di cambiamenti in diversi campi. Mannheim nell’ultimo dei suoi lavori, pubblicato postumo, univa la diffusione delle innovazioni tecnologiche, giuridico-amministrative e organizzative alle nuove tecniche sociali che tendono a condizionare il comportamento umano e scardinano l’organizzazione sociale precedente (ivi). Alcuni autori parlano di società dell’incertezza (Bauman, 1999), di società del rischio (Beck, 2013) perché evidenziano la caduta di categorie sociali importanti che ci hanno aiutato a orientare la nostra vita quotidiana e la nostra progettualità, e che hanno anche rafforzato i nostri legami: le classi sociali, la famiglia, il welfare state, il taylor-fordismo… Altri autori hanno addirittura parlato di postsociale (Touraine, 2008) per evidenziare la difficoltà di costruire legami nelle nostre comunità che vedono crescere i fondamentalismi identitari a scapito delle istituzioni e dei valori novecenteschi: solidarietà, emancipazione, uguaglianza… Infine altri ancora, come Manuel Castells, evidenziano i flussi e le reti che indicano le caratteristiche di una società mobile sempre più orizzontale e meno verticale: una società che non significa più egualitaria, ma che guarda più al binomio dentro-fuori, piuttosto che al binomio alto-basso. Per collocarci oggi dentro il mutamento e segnalare Dopo la crisi un nuovo sociale possibile Alain Touraine nel suo libro Dopo la crisi. Una nuova società possibile colloca la concezione del mutamento sociale nell’attuale contesto dominato da una crisi senza precedenti. Quel che è più inquietante nella crisi è indubbiamente la portata globale, ovvero la capacità di travalicare i confini nazionali e le aree geopolitiche. Secondo Touraine la crisi economica non è solo causa di dolorosissimi problemi sociali, bensì conseguenza di una più ampia crisi – o meglio di una decomposizione – delle istituzioni, degli attori e degli equilibri raggiunti a partire dai conflitti della società industriale e post-industriale del XX secolo. «L’idea principale è che (…) si forma una situazione post-sociale. Anche se questo mutamento e una crisi economica non hanno la stessa temporalità e lo stesso tipo di conseguenze, devono essere messi in relazione l’uno con l’altra. Non è certo la crisi a generare un nuovo tipo di società, ma contribuisce a distruggere il vecchio tipo; come può anche impedire la formazione di un nuovo tipo di società o favorire l’intervento di attori autoritari durante il periodo di difficile transizione» (Touraine, 2012, 13-14). La crisi ci porta a definire la nostra società in termini diversi. Scompare la qualificazione di società 30 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto assoluto del capitalismo, è necessario ritornare al sociale: «Il problema da risolvere consiste nel ricreare una vita sociale in cui ogni volta che tale manipolazione diventa probabile, possa non solo essere fronteggiata da una diga giuridica, ma soprattutto si faccia sentire il richiamo al soggetto e ai suoi diritti» (ivi, p. 145). Per il sociologo francese è possibile costruire una nuova società che chiama “post-sociale” in cui gli attori assumono una piena autonomia nei confronti del sistema. La sfida futura è quella di ricostruire uno scenario che vede la presenza di attori creativi di orientamenti diversi che agiranno per migliorare, mantenere e realizzare un’idea moderna di democrazia attraverso il ricorso a forme di democrazia diretta, intesa come democrazia partecipativa. Bisogna essere consapevoli che, per guardare con fiducia al futuro dell’economia e della società dopo la crisi, non esistono scorciatoie: occorrono movimenti culturali in grado di riattivare la circolazione sanguigna e il “sistema nervoso” delle nostre democrazie dando voce alla parte più debole, a chi oggi non viene rappresentato nei processi decisionali. Secondo Touraine la risposta più efficace a una crisi «è la ricostruzione dei rapporti tra gli attori economici, la formulazione di loro valori comuni e di nuovi interventi pubblici. Quel che rende questa ricostruzione possibile è che gli attori, nella loro grande maggioranza, non sono retti soltanto dalla ricerca dei loro interessi (…). Ma è giunto finalmente il tempo di riconoscere che una crisi è molto più di un guasto temporaneo, e che è lo stato generale della vita sociale che contribuisce o all’aggravamento della crisi o al rilancio della vita sociale ed economica» (ivi, 183). Lo studioso conclude il suo ragionamento in modo chiaro ed inequivocabile: «Bisogna innanzitutto affermare che la democrazia, che trasforma i lavoratori in cittadini responsabili, è la condizione prima del rilancio economico e sociale, almeno nei Paesi che hanno scelto la libertà politica contro il totalitarismo» (ibidem). Le soluzioni proposte da Touraine per uscire dalla crisi, per ritornare ad un sociale capace di recuperare gli spazi perduti sia sul piano economico che politico sono suggestive, fondate su un presupposto chiaro: la capacità dei singoli cittadini di mobilitarsi, di trovare forme nuove che rappresentino le loro istanze. della produzione, perché non sono più le dinamiche dei rapporti tra lavoratori e imprenditori a scandire i tempi e i ritmi della vita sociale. Sono invece i mercati finanziari a dettare le regole - con i loro effetti sulle banche e sugli Stati - che incidono sul nostro quotidiano. «I dirigenti nazionali hanno anche perso la loro capacità d’azione dal momento in cui l’economica è divenuta largamente globale, tanto che v’è una maggiore prossimità tra i banchieri di Londra, New York e Tokyo (…) che all’interno di uno stesso Paese tra dirigenti economici e finanziari che agiscono in virtù di criteri differenti, a velocità differenti e su terreni differenti gli uni dagli altri» (ivi, p.41). In sostanza il potere non è più gestito dalle classi sociali e dall’equilibrio dei loro rapporti. Touraine critica la teoria economica neo liberale con i suoi due fondamenti: la razionalità degli attori in competizione e il principio dell’autoregolazione dei mercati. Il capitalismo ha mostrato in questi anni una grande capacità di trasformazione e adattamento ai mutamenti sociali ed economici. Touraine è costretto ad ammettere che il capitalismo pur avendo subito un colpo grave non ne esce indebolito. La finanza globale si è risollevata e rilanciata, mentre «ad essere in rovina sono gli attori, i modi di dominio, i conflitti tradizionali e gli interventi dello Stato; in breve la società capitalistica classica» (ivi, p. 43). Con grande lucidità il sociologo francese sottolinea l’incapacità degli attori sociali e attori politici tradizionali – partiti e sindacati in primis – nel riuscire a contrapporre alla logica del profitto anonimo e in alcuni casi criminale, orientamenti rivendicativi degli interessi e dei diritti delle popolazioni. La crisi di rappresentatività dei partiti e dei sindacati è una questione cruciale che evidenzia come il processo di decomposizione del sociale sia giunto ad un punto estremo. Dobbiamo chiederci: il capitalismo ha vinto? Ha decomposto il sociale, le istituzioni e gli attori che in qualche modo contrastavano la sua egemonia e che rivendicavano i diritti dei lavoratori e di altri attori sociali? Nuove possibilità sociali Secondo Touraine per reagire a questa deriva che genera un deficit democratico e di rappresentanza senza precedenti, e che favorisce il dominio pressoché 31 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento dimenticare il proprio passato e non interessarsi al futuro). In questo modo il nuovo capitalismo agisce sulla promozione dei desideri. Si combinano Capitalismo globale, Tecnica, Nichilismo. CTN, appunto. Con questo nasce un nuovo equilibrio basato sulla mobilità e lo spostamento, sull’innovazione tecnica diffusa a tutti gli ambiti della vita e continuamente rielaborata, sul desiderio nichilista che rende malleabili i significati e tende sistematicamente a demolirli lasciando un vuoto sempre da riempire: «Il nichilismo stringe un’alleanza con la tecnica e con il capitalismo. Per potersi sostenere una realtà imbevuta di nichilismo (…) deve essere assoggettata a una logica di cambiamento continuo, in modo tale da garantire, senza alcun intervallo, il cambiamento di scena. In un mondo nel quale i significati sono altamente volatili, solo a questa condizione è possibile riprodurre (…) la certezza di quella realtà nella quale noi conduciamo la nostra vita quotidiana, anche se ciò non cancella la consapevolezza che non c’è nulla di duraturo, nulla per cui valga davvero la pena di vivere» (Magatti, 2013, p 106). Ecco perché si parla di libertà immaginaria: si aprono infinite opportunità, ma si è imprigionati dentro l’indeterminazione. Se ne scegliessimo veramente una poi le altre opzioni non sarebbero più a nostra disposizione. Si producono tre cortocircuiti, con l’irruzione del reale. Il primo è che le decisioni si basano sulle emozioni e non sulla razionalità; in questo modo si scontra il potenziale illimitato dei desideri possibili e la dura realtà delle opportunità concrete. Ciò provoca una insoddisfazione permanente. Il secondo è che se le nostre vite sono costrette a cercare un’autonomia senza vincoli relazionali, allora saremo chiamati ad un continuo sradicamento; ma senza legami non riusciamo a costruire un’identità personale e sociale. Infine il terzo cortocircuito è che tutto è coniugato al tempo presente e rimaniamo prigionieri dell’immanenza mentre senza la prospettiva storica perdiamo sia la dimensione del futuro sia la dimensione del trascendente che offre senso. L’avvento del capitalismo tecno-nichilista La lettura della società nel tempo della crisi di Mauro Magatti in Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista (2009) ci aiuta a esplorare le potenzialità che il singolo individuo possiede per contrastare il capitalismo oggi dominante. Anche l’analisi di Magatti parte dalla considerazione che tutti sono coinvolti in una crisi globale: partiti, imprenditori, movimenti sindacali, organizzazioni della società civile, istituzioni religiose e amministrazioni statali. Per orientarci il sociologo italiano offre una prima mappa del nuovo spazio in cui viviamo, per poi proporre dei suggerimenti per abitarlo. L’autore descrive le dinamiche centrali della vita sociale degli ultimi anni con l’obiettivo di lasciar emergere la sua logica interna e si sofferma sulle caratteristiche del capitalismo, descritto come tecnonichilista (CTN): un fenomeno che esprime un nuovo rapporto tra individui sempre più liberi e mondi sociali sempre più potenti. Magatti illustra le trasformazioni del capitalismo che estende i suoi confini sulle ali della libertà, promossa dal progresso tecnico e dalla secolarizzazione delle idee, dalla caduta delle grandi ideologie, tra le quali emerge vincente quella utilitaristica. Ma questa libertà disancora l’individuo dal gruppo. Solo fino a pochi anni fa la società-nazione riusciva a tenere insieme democrazia e mercato, garantendo una via di liberazione ad ogni cittadino rispetto alle loro possibilità progettuali, in particolare rispetto a due assi portanti, la famiglia e il lavoro. Ma nell’epoca della globalizzazione gli obiettivi dell’individuo vanno oltre. L’autonomia dei singoli diventa elemento decisivo, con la conseguenza che le relazioni assumono caratteri intensi e fugaci, e il lavoro diventa flessibile e precario. L’autore individua tre elementi determinanti che producono tali effetti. Il primo è l’affermazione del relativismo che sposta l’accento dalla verità condivisa alle verità dei singoli fondate sull’esperienza piuttosto che sulla ragione, sull’emozione piuttosto che sul confronto dialettico. In secondo luogo l’aumento delle possibilità tecnologiche sposta l’attenzione verso le “infrastrutture” ossia le modalità pratiche della vita sociale, lasciando nel cassetto i suoi significati. Infine l’accettazione della logica nichilista, riesce a superare i limiti insiti nel suo carattere distruttivo. Infatti affermare oggi che “nulla ha valore” significa creare spazio per la novità (a patto di Immaginare una nuova azione sociale Insoddisfazione, sradicamento, mancanza di senso aprono una breccia nel sistema del CTN. Si tratta per l’autore di ripartire sfruttando le potenzialità del nuovo sistema e modificando il nostro immaginario. Il sugge32 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto pienamente sotto il proprio controllo, ma che gli è anche antecedente e successivo» (ivi, p. 396). rimento iniziale è di ricalibrare il nostro agire a partire dalle irruzioni del reale che portano istanze fondamentali: il senso della vita, la ricchezza dell’alterità, l’apertura al trascendente. A tal fine Magatti propone l’agire depotenziato, ispirandosi al verbo deponente dei latini, che si coniuga in forma passiva ma ha significato attivo: «il soggetto è immerso nell’azione che compie, ne partecipa attivamente e passivamente» (ivi, p. 384). La nuova forma d’azione «indica il modello di un soggetto libero, capace e responsabile ma al tempo stesso consapevole di non poter pretendere di controllare o di “fare e costruire” il mondo, gli altri e nemmeno se stesso» (ibidem). L’agire depotenziato «è appassionato, coinvolto e profondamente incarnato», consapevole che «la liberà di agire ricerca i suoi spazi in relazione alla libertà di altri e alle condizioni nelle quali essa si dà» (ivi, p. 385). Attraverso questo agire forte e controllato si potrà recuperare la frattura con il reale. L’azione deponente segue tre assi: fiducia, responsabilità, generatività. Si aprono così le tracce per un nuovo immaginario. La prima segnala il passaggio dal desiderio alla nuda fede. Se il CTN ha messo in scacco i valori e i sistemi di credenza delle religioni, l’insostenibile leggerezza dell’essere tende a far prevalere l’attivismo insensato o la depressione radicale. Invece un’azione sociale forte può nascere dalla nuda fede, perché in essa si agisce per una ricerca della trascendenza, che nutre il desiderio senza renderlo effimero, depotenziata dai valori dei sistemi di credenza. La seconda traccia sposta il baricentro dall’autonomia nel movimento alla libertà responsabile: al soggetto de-istituzionalizzato è chiesto di garantire la sua autonomia attraverso il movimento. Recuperare la responsabilità come condizione della libertà permette alla persona di assumere le conseguenze della propria azione e lo aiuta a ricomporre narrativamente evento e senso. L’ultima traccia per il nuovo immaginario attiene al generare. Il CTN amplia lo spettro delle azioni e moltiplica il ventaglio degli scopi. La sfida per l’autore è quella di «ripensare la libertà comunque aperta e creativa, ma capace di mantenere legami di continuità e di senso» (ivi, p. 396). Un’azione generante, scrive l’autore «riconosce e valorizza la volontà creatrice del soggetto a cui chiede, però la disponibilità ad essere attraversato e ad accompagnare un processo che non solo non è mai Una nuova occasione Viviamo in un altro mondo. La crisi ci ha introdotto dentro una nuova realtà, le coordinate della società capitalistica precedente non sono più in grado di aiutarci. Touraine ci dice che sono decomposte, Magatti spiega che sono superate. Abbiamo allora bisogno di nuovi strumenti. I due autori suggeriscono alcune interessanti proposte. In primo luogo occorre interpretare il ruolo di un nuovo attore sociale, capace di interagire in un mondo diverso che stimoli la partecipazione con l’ambizione di coniugare democrazia e lavoro all’interno di forme di coinvolgimento completamente diverse dal passato. In secondo luogo occorre impostare una nuova strategia di azione sociale che non può più procedere sul calcolo razionale fini-mezzi, ma deve tenere presente un sistema umano più complesso, che comprende capacità di conferire senso, di rispondere all’altro, di raccontare il futuro. Allora la crisi non si presenterà ai nostri occhi solo come fenomeno disgregante, ma anche come tempo del kairos, come un’occasione nuova per metterci in cammino. Bibliografia BAUMAN, Z., La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999. BECK, U., La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma, 2013. CASTELLS, M., La nascita della società in rete, Università Bocconi, Milano, 2008. MAGATTI, M., Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano, 2009. MANNHEIM, K., Potere, Libertà e pianificazione democratica, Armando editore, Roma 1976. TOURAINE, A., Dopo la crisi Una società possibile, Armando Editore, Roma, 2012. TOURAINE, A., La globalizzazione e la fine del sociale, Il Saggiatore, Milano, 2008. 33 IL SENSO DEL LAVORO IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto IL LAVORO NELLO SCORRERE DEL TEMPO UN’ANALISI SOCIO-STORICA di Andrea Casavecchia le attività dell’agorà e dei fori, per gestire gli affari della polis, per l’amministrazione del governo e la formulazione delle leggi. Recita un detto attribuito a Cicerone: «Non mi sembra un uomo libero quello che non ozia di tanto in tanto». Al lavoro non si riconosce un carattere di nobiltà ed esserne svincolati indica una posizione di superiorità nei confronti degli altri (Roncaglia, 1996). Come spiega Luigino Bruni «questo sguardo ignobile sul lavoro dipende anche dal fatto che ogni cultura antica o tradizionale poggia su un ordine sacrale o gerarchico del cosmo e della vita sociale, dove esiste un’interdipendenza tra esseri e attività inferiori (normalmente considerati impuri) ed esseri e attività superiori più puri» (Bruni, 2014). Proprio da tale discriminazione quei popoli giustificavano la schiavitù. Ovviamente la maggioranza della popolazione lavora, ma le condizioni sono spesso proibitive: per gli schiavi si tratta sovente di una condanna fino alla morte, trascorsa nella fatica; per gli strati bassi della popolazione il salario è sufficiente alla sopravvivenza e al mantenimento delle forze per continuare il lavoro. Nell’antica Roma per integrare il proprio reddito il cittadino diventava clientes di un signore, il dominus, che guadagna rispetto, consenso sociale e politica attraverso le concessioni elargite ai suoi protetti. In caso di necessità i suoi clienti divenivano un’aggregazione di concittadini pronti a servire, appoggiare e/o sostenere il loro protettore. Il significato del lavoro cambia con il tempo e non è sempre compreso dagli uomini e dalle donne in modo univoco. L’idea che l’umanità ne aveva in passato non è quella attuale e nel futuro sarà un’altra ancora. Il pensiero sul lavoro muta insieme alle modalità di eseguire i compiti, insieme alle organizzazioni che coordinano i sistemi di produzione, insieme ai rapporti tra i membri e le aggregazioni che formano una società. In questo testo proponiamo una breve riflessione che prima ripercorre otto periodi storici per indicare come il modo di intendere il lavoro cambia, per poi concentrarsi sull’attuale periodo e cercare di offrirne un punto di osservazione. Il mondo greco-romano: lavoro tra schiavitù e ozio creativo Dal mondo classico proviene la prima formulazione del concetto di economia, letteralmente: leggi per il governo della casa, come spiega Senofonte. In origine il concetto è utilizzato per l’amministrazione domestica e un ruolo peculiare è assegnato alla donna – moglie, paragonata ad un’ape regina che vigila affinché nessuno rimanga inattivo e che assegna e coordina i compiti per tutti i componenti. In seconda battuta il concetto si apre all’amministrazione dei beni e alla divisione del lavoro. Aristotele attribuisce una misura etica allo scambio che distingue tra naturale, che serve alla soddisfazione dei bisogni, e innaturale, che serve all’arricchimento, mentre la prima è approvata, la seconda è deplorata. Nel mondo classico il lavoro manuale (agricolo e artigiano o quello commerciale) sono disprezzati. Gli antichi greci e gli antichi romani lo delegano alla plebe e agli schiavi, mentre i patrizi e le aristocrazie si dedicano all’otium, che considerano condizione creativa per le arti, per la politica, per la retorica e per L’influenza del cristianesimo: lavoro come preghiera e libertà Con l’affermazione del cristianesimo cambia la prospettiva. Con i viaggi di san Paolo, la nuova religione penetra nell’impero romano e porta con sé 37 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento una visione diversa di lavoro: «chi non lavora neppure mangi» richiama alla responsabilità e maturità di vivere il proprio tempo nell’impegno quotidiano. Paolo, come ogni giudeo, come Gesù, è un lavoratore: ha un mestiere, lo esercita e se ne vanta, perché attraverso di esso non è di peso a nessuno e perché il frutto del suo lavoro gli permette di essere libero da vincoli verso altri, in modo che nessuno possa influenzare o condizionare il suo pensiero – la sua fede – e lui possa manifestarlo senza condizionamenti. Inoltre per l’apostolo delle genti il lavoro procura le possibilità per «venire in aiuto ai deboli» (At. 20,35). Emergono alcune indicazioni sul valore del lavoro: è strumento per la soddisfazione dei bisogni; libera da condizionamenti del potere; crea ricchezza da offrire ai poveri. San Benedetto apre un nuovo campo di significato. Si conferma il concetto del dovere e della responsabilità di lavorare per ogni uomo, per guadagnare l’indipendenza senza pesare alla comunità. Si inverte il rapporto tra lavoro e ozio: leggiamo nel capitolo su Il lavoro quotidiano della regola benedettina: «l’ozio è nemico dell’anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della Parola di Dio». Si aggiungono due ulteriori contributi. In primo luogo il monachesimo conferisce importanza al lavoro come tempo che ordina, al pari della preghiera, la giornata delle persone. In secondo luogo si sottolinea il valore del lavoro come contributo del singolo alla comunità (il monastero). «Il monaco benedettino che lavorava e pregava, era un enorme passo avanti rispetto al lavoro per pura necessità, o come attività servile… quel lavorare e pregare mostrava uno spirito di servizio che costituiva una forma di elevazione attraverso le opere, e non semplicemente attraverso la sola fede o la preghiera» (Accornero, 1997). Il monachesimo introduce e diffonde, inoltre, la ripartizione del tempo, che scandisce attraverso l’hora canonicas, con la quale si pianifica la giornata: preghiera, lavoro, studio, riposo… Nel tempo i campanili diventeranno i primi orologi popolari, e con i loro rintocchi permetteranno l’orientamento durante lo scorrere della giornata. Il Medio evo: lavoro artigiano come attività creativa e l’economia di mercato Le società medievali presentano un sistema di lavoro più articolato e con maggior distinzione tra città e campagna. Nelle campagne si afferma il sistema feudale, legato a rapporti servili tra padrone, feudatario, e bracciante, servo della gleba. Quest’ultimo è ancorato alla terra dove nasce, ma a differenza degli schiavi almeno può organizzare autonomamente il proprio lavoro. In città si sviluppano commercio e artigianato. Per la prima volta l’attività manifatturiera si svincola dall’agricoltura. Proliferano i mestieri: dai fornai ai fabbri, dai sarti ai falegnami, dagli orafi agli speziali… La bottega diventa un rinnovato spazio produttivo, legato alla casa e con un forte coinvolgimento familiare. L’artigiano, il maestro, è affiancato da alcuni lavoratori, dagli apprendisti, dai garzoni: i loro rapporti sono regolati da contratti, non più o non solo da legami familiari. Nella bottega che diventa laboratorio, dove sono installati gli strumenti di lavoro, si trasmettono le abilità e si impara il mestiere, attraverso l’esperienza e l’accompagnamento. Si costituiscono le corporazioni, che associano persone sulla base della loro arte specifica: sono riconosciute dalle istituzioni di governo; garantiscono gli standard qualitativi dei prodotti; fissano i prezzi; vigilano sulla concorrenza. Dalle corporazioni nascono confraternite per il mutuo soccorso e alcuni primi esempi di assistenza sociale, come le doti assegnate agli orfani dei soci. I loro statuti e contratti rafforzano un nuovo tipo di rapporto di lavoro, che si definisce tra persone libere. Allo stesso tempo le corporazioni diventano luoghi di governo della città e, attraverso alleanze, luoghi di gestione e di conflitto per il potere. Si affaccia l’economia di mercato che cerca l’incontro tra domanda e offerta, che facilita la libertà negli scambi e una manodopera libera. E inizia la riflessione sulla buona amministrazione del tempo e sul corretto uso del denaro; così come inizia la riflessione sull’etica del giusto prezzo: quale prezzo è moralmente lecito per vendere e/o acquistare merci? 38 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto perde la complessità di una visione unitaria. Le mansioni richieste sono limitate e concentrate su una parte del processo produttivo. Inizia la sua ascesa la divisione del lavoro che assume due dimensioni: una tecnica, legata all’assegnazione dei compiti, delle mansioni e dei ruoli all’interno del sistema produttivo; l’altra sociale, legata alla divisione tra classi produttive e improduttive prima, tra borghesi e operai poi. Un contributo per la costruzione della cultura borghese è offerto dall’illuminismo scozzese,che valorizza il self made man e legittima gli investimenti per interessi individuali. L’homo oeconomicus agisce per il bene privato, per il suo profitto, per mezzo del quale contribuirebbe anche alla soddisfazione dei bisogni altrui. Infatti esisterebbe, secondo Adam Smith, una mano invisibile che guiderebbe gli interessi privati ad agire involontariamente, ma provvidenzialmente, per il bene pubblico. Ancora Smith, in La Ricchezza delle nazioni, marca la differenza tra lavoro produttivo e improduttivo fino a disprezzare non solo i ceti aristocratici, ma anche quelli che lavorano al loro servizio, perché impiegati in attività inutili al progresso. Nel tempo si rafforza l’imperativo borghese che vuole gli uomini autosufficienti e quindi industriosi, onesti, frugali; in parallelo si elabora e si diffonde, soprattutto negli Usa con Benjamin Franklin, una morale per il lavoratori, perché coltivino il risparmio, la sobrietà, la puntualità, l’obbedienza: virtù indispensabili ai nuovi meccanismi della fabbrica e dell’industria. Dalla società industriale emerge il movimento operaio che acquisisce lentamente consapevolezza di essere un soggetto collettivo. Le prime associazioni assumono le caratteristiche di società di mutuo soccorso che offrono assistenza per gli infortuni e per le malattie e, più tardi, iniziano a richiedere un ruolo nelle contrattazione per discutere le condizioni di lavoro e i tempi di una giornata lavorativa, per organizzare le proposte e le proteste a favore di un riconoscimento sociale del valore del loro lavoro. Il movimento avanza le prime richieste di inclusione sociale attraverso il riconoscimento dell’uguaglianza sociale e della partecipazione alla vita poli- La riforma protestante: lavoro come salvezza La religione porta ancora un contributo con la riforma protestante che si affianca all’introduzione dell’economia di mercato, stimolando una nuova riflessione culturale. Il lavoro diventa forma di riscatto individuale e sociale. Calvino introduce la dimensione della salvezza all’interno dell’esperienza lavorativa. Lavoro e preghiera si fondono: il fedele è invitato a essere homo faber e artefice di sé stesso. Lavorare non è più considerata un’azione per espiare il peccato originale; diventa, invece, uno stimolo per la vita interiore. Il successo professionale è una garanzia della grazia ricevuta da Dio, un’anticipazione dell’ingresso nel regno dei cieli. L’operosità contro l’ozio, la sobrietà contro lo sperpero, la disciplina contro il disordine diventano le virtù puritane che alimentano un’ascesi mondana, capaci non solo di legittimare l’interesse individuale, ma anche di cementare l’apprezzamento sociale. L’indicazione dell’agiatezza terrena come misura della salvezza dell’anima diventa uno stimolo culturale per l’affermazione del capitalismo nei paesi del nord Europa (Weber, 1991). Il Calvinismo stimola un discernimento sulla ricchezza, che non viene più in astratto deplorata, ma valutata in base al suo utilizzo: se essa è investita in modo produttivo è buona, se è sperperata è cattiva. La rivoluzione industriale e le società capitalistiche: lavoro come fatica e condizione sociale La rivoluzione industriale favorisce l’affermazione delle società capitalistiche, che consolidano una cultura borghese, mentre concepiscono la nascita del movimento operaio. Con il sorgere delle prime fabbriche e l’attivazione delle prime macchine a vapore si cambiano le abitudini di vita: appaiono la settimana lavorativa, i turni giornalieri e notturni, scompaiono i ritmi legati ai tempi delle stagioni. Con l’ingresso dei macchinari le azioni dei lavoratori si specializzano e si frammentano. Si pone una distanza tra l’attività quotidiana e la produzione della merce: l’operaio non è più artigiano; si allontana, si aliena dal prodotto finito e 39 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento cercare consenso si concedono alcune forme di protezione sociale come gli istituti assicurativi e pensionistici, le indennità di disoccupazione, le ferie pagate, si fissa un massimo di otto ore lavorative giornaliere. Anche il nazionalsocialismo pone il lavoro al centro della sua politica interna per conservare il consenso delle masse: uno dei suoi obiettivi è l’eliminazione della disoccupazione e il miglioramento delle condizioni economiche degli strati sociali mediobassi. Il regime elimina la libertà di scelta del lavoro e istituisce il lavoro obbligatorio; avvia lavori pubblici per assorbire manodopera; vieta tutte le associazioni sindacali e il diritto di sciopero; concede libertà illimitate agli industriali tedeschi, per raggiungere gli obiettivi fissati dallo Stato. Il socialismo sovietico, che si costituisce in Russia a seguito della Rivoluzione d’ottobre del 1917, attribuisce al lavoro e ai lavoratori la centralità fondativa della nascente URSS. Un ruolo essenziale è assegnato ai soviet, che avrebbero dovuto essere dei veicoli di partecipazione democratica, coinvolgendo operai, contadini, ecc., ma che diventeranno poi gli organi di gestione del potere del partito sul territorio. La figura del lavoratore è esaltata come pietra angolare del sistema e l’ideologia ne promuove il valore e lo status sociale. Un simbolo diventa il minatore Stakanov, che fissa tempi record per l’estrazione, taglio e trasporto del carbone, aumentando la produttività di 14 volte. Anche il socialismo sovietico si contrappone al libero mercato. La regolazione del sistema economico e della produzione è affidata ai piani quinquennali, che fissavano gli obiettivi di sviluppo per ogni settore produttivo. Con le prime pianificazioni l’Unione Sovietica favorisce l’industria pesante e converte il suo sistema che era basato principalmente sull’agricoltura. tica per le fasce più povere della popolazione. Con Robert Owen in Inghilterra si promuovono le prime associazioni di lavoratori che sostengono un’armonia tra gli interessi dei borghesi e degli operai, ma che diventano punto di riferimento per le rivendicazioni sindacali. In Francia Pierre Joseph Proudhon pone il problema di conciliare la libertà individuale e la giustizia sociale anche attraverso una democratizzazione del credito. Dopo la metà del 1800 si radica il pensiero di Karl Marx e Friedrich Engels che analizza il rapporto tra capitale e lavoro, tra profitto e salario, e che descrive la creazione di plusvalore, generatore della differenza tra la retribuzione dell’operaio e il valore delle merci. Sul rapporto tra capitale e lavoro Marx fonda la sua elaborazione della struttura del processo produttivo che giustifica la richiesta di emancipazione del proletariato. Infatti «il lavoro salariato è concepito in Marx come l’ultima e più produttiva forma di organizzazione del lavoro, al di là della quale si prospetta il libero sviluppo delle forze produttive umane e il comunismo, in cui cessa ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il lavoro diventa libera attività e scompaiono anche le strutture di dominio esterno dello Stato» (Illuminati, 2004). I totalitarismi: lavoro come consenso Nel 1900 dopo la crisi del ’29, l’Europa conosce la nascita di regimi totalitari che sostengono una cultura del lavoro, alimentata dalle ideologie che giustificano il loro potere. Fascismo, nazismo e comunismo sovietico vedono nel lavoro, ognuno a proprio modo, un elemento fondamentale per la crescita dello Stato e per il controllo delle forze sociali (Mannheim, 1968). Il fascismo, con la Carta del Lavoro del 1927, favorisce la costituzione dello Stato corporativo che cerca di assorbire le classi sociali dentro corporazioni di settore, le quali però finiscono per sopraffare i più deboli. Si tenta di uscire dalle regole del libero mercato, mentre si attribuisce allo Stato il compito di fissare prezzi e salari. Ovviamente vengono sciolte tutte le associazioni dei lavoratori se non quelle legate al partito fascista. Attraverso il controllo dei lavoratori si consolida il radicamento del regime. Per Il taylorismo e fordismo: lavoro come attività razionale Nel 1900 avviene anche una rivoluzione nel metodo di lavoro. Nelle fabbriche degli Stati Uniti si introduce un nuovo modo di gestire e produrre. Due personaggi sono i protagonisti del cambiamento 40 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto le classi: quella operaia, il ceto medio e l’alta borghesia. La divisione del lavoro finisce per essere divisione sociale. Ma il taylor-fordismo democratizza il consumo. Il sistema moltiplica la possibilità di produrre merci: automobile, frigorifero, lavatrice, radio, televisione (per citare alcuni esempi) cambiano la vita nelle società occidentali, anche quella dei ceti popolari. che introdurrà la catena di montaggio, l’economia di scala, il consumo di massa: l’ ingegnere Frederick W. Taylor e l’imprenditore Henry Ford. La One best way è l’idea guida di Taylor: per compiere un lavoro c’è solo una modalità migliore di tutte le altre. Trovarla significa evitare di perdere tempo e migliorare l’efficienza della produzione. A tale scopo introduce lo Scientific management, cioè l’organizzazione scientifica del lavoro. Ai sistemi produttivi si inizia così ad applicare una logica razionale per evitare gli sprechi. Nel XX secolo il lavoro diventa solido, duro e sezionato, perde di creatività e varietà a favore di una logica che lo vede asservito della tecnica. Il taylorismo contiene quattro principi: osservare e analizzare il lavoro compiuto per individuare e d eliminare i movimenti in eccesso e poi ricomporre gli atti in modo più semplice e lineare con lo scopo di fissare il tempo ottimale; selezionare e addestrare la manodopera, perché possa essere assegnata al compito specifico: scegliere l’uomo giusto al posto giusto; sviluppare un clima di collaborazione attraverso l’aumento delle retribuzioni, la capacità di ascolto dei dipendenti, il sistema premiante; riorganizzare i compiti con la costituzione di una gerarchia aziendale tra gli operai, tra gli impiegati e tra i dirigenti (Bonazzi, 1993). Le fabbriche si riordinano al loro interno. Un sistema simile si applicherà anche nelle burocrazia delle amministrazioni pubbliche. Alla tempistica, scandita da Taylor, Ford aggiunge la linea di un rullo trasportatore davanti al quale si programma la sequenza delle operazioni per semplificare le mansioni ed evitare l’addestramento e la formazione; gli operai avrebbero dovuto soltanto eseguire. Contemporaneamente si impone il rispetto dei tempi con la velocità del nastro che scorre. Il lavoro si de-professionalizza e le mansioni diventano elementari, standardizzate e cicliche. La razionalizzazione che porta a un’esecuzione meccanica implica il progressivo distacco tra il lavoratore e la sua opera e la mancanza di creatività e di libertà nel raggiungere lo scopo genera un clima sempre più opprimente. L’influenza di questo procedimento agisce in modo così radicale e pervasivo che si rispecchia anche nella società dove si costituiscono Oggi: lavoro come flusso e come rete Assistiamo, spiega Marco Revelli, a una svolta strutturale, che coniuga innovazione tecnologica e organizzativa a una trasformazione dei mercati, resa possibile dal modello pervasivo della rete, dai nuovi canali comunicativi, che permettono di riorganizzare tempo e spazio su scala globale, rompendo i vecchi tempi e spazi della produzione. I cambiamenti costituiscono un nuovo habitat molto fluido. La svolta può essere osservata attraverso tre chiavi di lettura. a) Riorganizzazione produttiva per la fluidità Siamo di fronte ad un continuo processo di re-engignering aziendale. Si passa da una produzione su scala ad una produzione rispetto allo scopo, quasi su ordinazione. Tutto questo grazie al just in time, un´invenzione nipponica. Prima iniziano a circolare, da un’azienda all’altra come da un continente all’altro, le merci, poi i loro componenti e ora circolano i servizi e addirittura le persone. Il movimento invita a non accumulare qualcosa (o a non mantenere qualcuno) se non strettamente necessario al presente. Le trasformazioni della Fiat nell’era Marchionne lo dimostrano chiaramente. Con l’archiviazione del fordismo si riparte dal modello Toyota e dalla qualità totale (Bonazzi, 1993) che diversifica e personalizza l’offerta in modo che le scelte del cliente incidano direttamente sui flussi di produzione «creando una variabilità della domanda e un’elasticità operativa senza precedenti» (Accornero, 2005). Con la globalizzazione dei mercati la produzione si regola su una logica di flussi: i luoghi sono molto meno importanti, interessa la possibilità di movimento. «E il movimento è il movimento di sostanze 41 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento si ripercuotono per la manodopera delle imprese subappaltatrici attraverso la flessibilità degli orari e degli organici impiegati» (Gorz, 1998). Infine saltano i tempi di vita. La riorganizzazione produttiva prevede la continua connessione in rete che rende meno standardizzabile il tempo. La maggiore estensione ed intensità degli orari lavorativi è rintracciabile sia nelle forme tradizionali sia nelle forme innovative, in questo modo si diffondono calendari e orari anomali, aumenta il lavoro nelle ore antisociali e notturne. Il lavoro invade la vita quotidiana e cambiano i ritmi: il riposo e la festa non sono per tutti gli stessi. Per accorgersene è sufficiente andare la domenica in un centro commerciale per vedere quante persone lavorano durante un giorno teoricamente dedicato al riposo. leggere, è il movimento di denaro (e quindi i flussi finanziari), è il movimento dell’informazione (e quindi sono i flussi della comunicazione in rete, i flussi delle immagini, delle tecnologie dei saperi e così via)» (Revelli, 2004). La riorganizzazione produttiva progetta l’impresa virtuale, «che può operare su più continenti avvalendosi di un esiguo nucleo stabile di lavoratori intorno a cui ruotano collaboratori e aziende satelliti gestiti da reti telematiche» (Accornero, 1997). Richard Sennett, illustrando gli eccessi dei processi di re-engignering, parla di strutture aziendali che cambiano a prescindere dai profitti ottenuti, perché le quotazioni dei mercati finanziari premiano più le razionalizzazioni dei costi, che i risultati ottenuti. La flessibilità delle strutture produttive e dei loro processi incide anche sui ritmi di lavoro: «Le aziende di oggi stanno infatti sperimentando diverse suddivisioni cronologiche chiamate “tempo flessibile”. Invece di turni fissi che rimangono immutati da un mese all’altro, la giornata lavorativa è formata da un mosaico di persone che lavorano secondo tempi diversi e più individualizzati» (Sennett, 2003). Dalla riorganizzazione per la flessibilità competitiva possiamo trarre tre conseguenze. Innanzitutto il lavoro esplode. La fabbrica omogenea, uniforme e monolitica si disperde, spezzettandosi ed esternalizzando i processi, sfruttando le innovazioni tecnologiche, le reti informatiche. I luoghi di lavoro sono più piccoli e meno aggreganti, si compone una ragnatela interattiva; i nuovi tablet e palmari aprono una nuova fase, ancora embrionale, dove si realizza l’ufficio mobile «animato da lavoratori individuali dotati di potenti dispositivi portatili di trasmissione/elaborazione delle informazioni» (Castells, 2003). Poi cambiano i principi gerarchici. Tra datori di lavoro e lavoratori gli equilibri regolatori del potere divengono più sottili: «l’azienda madre, infatti, esternalizza tutti i lavori specializzati che altre imprese possono assumere altrettanto bene e a miglior prezzo. La dipendenza in cui essa mantiene le sue aziende subappaltatrici le permette di imporre loro dei ribassi continui di prezzo e di far sopportare loro le fluttuazioni della domanda. Queste fluttuazioni b) La pluralità dei contenuti del lavoro La seconda chiave di lettura riguarda i contenuti del lavoro. Nel modello fordista la quota più ampia dei lavoratori si occupava di assolvere mansioni semplici, il più velocemente possibili, poi, attraverso i processi di automazione degli anni ‘70-80, i compiti si fanno più complessi, ma sempre previsti e prefissati. La meccanizzazione scambiava le perdite di professionalità e di capacità nella gestione dei processi con la sicurezza del posto e una certa prevedibilità di carriera: in uno scambio di doppia fedeltà azienda-dipendente. Le tipologie lavorative con mansioni semplici non scompaiono come si legge nella descrizione dei compiti degli occupati nel Mc world (Ritzer, 1997), o come si verifica osservando la continua richiesta di operatori di call center, sfogliando un qualsiasi giornale di orientamento al lavoro. A queste figure occupazionali unskills se ne affiancano e sovrappongono altre come i programmatori informatici “i nuovi metalmeccanici”, fino ad arrivare ai knowledge workers (lavoratori della conoscenza), figure che hanno visione dei risultati e responsabilità sul prodotto. Ma nel nuovo modello si rompe la routine: i compiti del lavoro nelle industrie come negli uffici sono meno ripetitivi e prestabiliti. Sul lavoro si riduce la manualità, contano di meno le abilità (skill) e di più 42 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto bordinati e più autonomi (perfino nel lavoro dipendente); inoltre meno durevoli, data la crescita dei contratti a tempo determinato e il calo di quelli a tempo indeterminato; e infine meno uniformi giacché l’ambito dei contratti di lavoro si avvia a essere più circoscritto e assai più articolato, perfino individualizzato» (Accornero, 2001). Inoltre in alcune situazioni i tratti distintivi tra le diverse figure appaiono difficilmente identificabili. La diversificazione dei contratti porta all’instabilità lavorativa che diventa un elemento portante e distintivo delle figure professionali, specie nel periodo di inserimento. Molti hanno parlato della possibile cronicizzazione dell’instabilità lavorativa. Ulrich Beck intravede il pericolo di una possibile brasilianizzazione del lavoro europeo, segnalando la forte possibilità dell’avvento di un lavoro in massima parte precario che trasformerebbe la società del lavoro in società del rischio dove «uno stato di insicurezza endemica sarà l’elemento distintivo che in futuro caratterizzerà la vita e le basi di sussistenza della maggioranza degli esseri umani anche di quel ceto medio all’apparenza ancora benestante» (Beck, 2000). La moltiplicazione delle figure professionali nasconderebbe una dualità economica. Secondo Gorz il sistema attuale porterebbe alla formazione di un gruppo di persone iperattive nella sfera economica, incluse nel cuore dei processi produttivi ed una massa marginalizzata, che vive in subalternità alla prima. Infatti la ricerca di tempo libero degli iperattivi procurerebbe posti di lavoro per lo più precari e mal pagati a una parte delle masse espulse (Gorz, 1992). Il pericolo di polarizzazione è rilevato anche da Luciano Gallino che sottolinea una distribuzione degli occupati che assume la forma di una clessidra: in un’ampolla si trovano quelli con un lavoro di buona qualità, che apre nuove prospettive e permette molte esperienze. Nell’altra ampolla, quella in basso, ci sono i lavoratori che fluttuano da un subappaltatore all’altro, da un sistema produttivo ad un altro. La qualità del lavoro è bassa, se non infima, le mansioni sono ripetitive e il guadagno è relativo al tempo impiegato per eseguire il proprio compito (Gallino, 2004). le competenze di base, perché si lavora maggiormente per gruppi e le gerarchie sono più informali e vengono sfoltite. Al lavoratore è chiesto di assolvere compiti complessi, governare processi, assumere uno stile collaborativo all’interno di una rete produttiva più o meno ampia. Chi cerca lavoratori non punta più sulla forza della massa, ma sulle qualità della persona da assumere, diventano importanti le attitudini dei singoli e meno il loro know-how (Accornero, 2004). Allo stesso tempo il lavoro è più flessibile diventa sempre meno maschile, rigido, esecutivo, performativo e sempre più femminile, fluido, cognitivo, relazionale (Accornero, 1997). I contenuti aumentano la dimensione soggettiva rispetto a quella oggettiva: «Il risultato generale è una maggiore autonomia anche per chi lavora alle dipendenze. Se ne ha riscontro nella discrezionalità operativa, che oggi offre maggiori gradi di libertà perfino nell’esecuzione di lavori manuali standardizzati. Ma se ne ha riscontro soprattutto nella richiesta al singolo lavoratore di individuare gli intoppi e di risolvere i problemi che sorgono, mentre prima gli si vietava ogni iniziativa» (Accornero, 2004). Ne deriva che il lavoro è più individualizzato: negli inconvenienti della produzione i singoli vengono chiamati in causa. A loro è chiesto di intervenire come meglio credono e di rispondere dell’errore. c) La moltiplicazione delle figure lavorative La terza chiave consiste nella moltiplicazione delle figure lavorative. Con una produzione a misura di consumatore, con contenuti del lavoro assai diversificati si assiste ad una pluralizzazione delle professionalità ed un’eterogeneità dei contratti, come appare quando si osserva lo scenario del mercato del lavoro. Lo scenario plurale e mutevole se da una parte apre ai percorsi professionali più impensabili, dall’altra rende imprevedibili le prospettive del futuro marcando una netta differenza con il passato. Inoltre non si ha più un’immagine unica di lavoratore: prima il dipendente «era posto in condizioni di lavoro relativamente standardizzate e fungibili, sostituibili, regolate da normative e contratti di lavoro collettivi» (Revelli, 2004). Ora i rapporti di lavoro diventano: «meno su43 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento GORZ, A, Le miserie del presente, le ricchezze del possibile, ManifestoLibri, Roma, 1998. GORZ, A., Le metamorfosi del lavoro, Bollati Boringhieri, Torino, 1992. ILLUMINATI, A., “Lavoro nel marxismo”, in Enciclopedia delle Scienze sociali, www.treccani.it, 2004. MANNHEIM, K., Libertà, potere e pianificazione democratica, Armando editori Roma, 1968. REVELLI, M., “La grande trasformazione”, in Libertà, sviluppo, lavoro, G. 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Questa riflessione iniziale è uno stimolo ad approfondire altri elementi e per comprenderne il senso: le relazioni di potere all’interno della società, che influiscono sui rapporti dentro il mondo produttivo; l’impatto delle innovazioni tecnologiche e sociali nei processi, che caratterizzano le condizioni lavorative e la ripartizione dei compiti e delle mansioni; l’apporto culturale che determina la finalità dell’operare. Bibliografia ACCORNERO, A., “L’individualismo di mercato e il lavoro post-fordista”, in Quaderni di rassegna sindacale, n. 1 gennaio-marzo 2004, pp. 9-20. ACCORNERO, A., “Dal fordismo al postfordismo”, in Quaderni di rassegna sindacale, n. 1 gennaio aprile 2001. ACCORNERO, A., Era il secolo del lavoro, il Mulino, Bologna, 1997. ARISTOTELE, Politica, Laterza, Roma, 2007. BECK, U., Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, Einaudi, Torino, 2000. BENEDETTO, Ora et labora, in www.ora-et-labora.net BONAZZI, G., Il tubo di cristallo, Il Mulino, Bologna, 1993. 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La benedizione che Dio fa scendere sull’uomo, subito dopo la sua creazione, è il trasferire all’uomo la capacità di moltiplicare la vita attraverso un dominio che si caratterizza come mite: «Dio li benedisse e Dio disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra”» (Gen 1,28) La rivelazione biblica è focalizzata sul rapporto d’amore che il Signore ha per la creazione e per gli uomini e le donne, che si configura come creazione e custodia della vita, delle creature e del cosmo. Il lavoro è una delle attività umane più quotidiane, accanto alle funzioni vitali come il mangiare, il bere e il dormire e come tale sembra essere sullo sfondo della rivelazione biblica. Solo qua e là, ma in punti strategici e significativi, c’è una rivelazione sapienziale e simbolica del significato del lavoro umano, mettendolo a confronto con il lavoro di Dio, fin dalle prime pagine della Genesi. La rivelazione biblica svolge quindi sia una riflessione antropologica che teologica sul lavoro dell’uomo. I due aspetti sono strettamente intrecciati e la loro relazione rimanda e illumina con sapienza la realtà - a volte opaca come la crisi che stiamo vivendo - che coinvolge milioni di uomini, donne e bambini. Questo è il primo comandamento di Dio agli uomini. Il secondo comandamento è dato all’uomo come segno della sua condizione creaturale e non di creatore: «Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire”» (Gen 2,16-17) In questa parola del Signore la prima parte, che spesso non prendiamo in considerazione, mostra la sovrabbondanza d’amore di Dio per l’uomo: è possibile mangiare di tutti gli alberi, tranne che di uno. Questo limite è quello proprio della creatura che non può accedere completamente al mistero della propria origine. Infatti l’uomo non conosce fino in fondo il mistero del male e quando vi si accosta, e lo accoglie in qualche modo, produce solo che morte, come la storia ci mostra in modo inequivocabile. Il racconto di Genesi 3, è un racconto simbolico sulla dinamica che abita l’intimo dell’uomo. Il progetto buono di Dio L’uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio: «Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”» (Gen 1,26) C’è in questo dire di Dio una somiglianza e una differenza tra l’uomo e Dio. La differenza sta tutta nel fatto che l’uomo è creatura e Dio è creatore. La somiglianza sta nel fatto che l’uomo è chiamato a vivere secondo il modo di vivere di Dio, si potrebbe dire che è chiamato a vivere come Dio. Infatti il dominio che Dio vuole che l’uomo eserciti sulla creazione è un dominio mite, un dominio di amore, un 45 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento vare e custodire la terra (Gen 2,15) che gli dà la vita, in un rapporto di alleanza reciproca tra l’uomo e la terra: se coltivata e custodita con mitezza la terra dà ciò che è necessario per vivere, altrimenti muore e con essa anche l’uomo. La qualità del rapporto con l’origine simbolica dell’uomo è dunque il criterio di discernimento del suo agire. L’origine simbolica dell’uomo è la terra con cui è stato plasmato (Gen 2,7): «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente») e a cui ritornerà nella morte (Gen 3,19): «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!». La qualità del rapporto con l’origine simbolica si qualifica nella Bibbia come giustizia. Il verbo creare ha solo Dio come soggetto, il verbo lavorare ha solo l’uomo come soggetto, il verbo fare ha sia Dio che l’uomo come soggetto. Nell’articolazione di questi tre verbi si sostanzia la somiglianza e la differenza tra l’uomo e il Signore suo creatore. Questa prima riflessione biblica ci mostra il lavoro dell’uomo nei confronti della terra, quindi delle cose, la produzione di ciò che serve a vivere, ma non ci parla del lavoro come relazione con gli altri uomini e del lavoro di coloro che hanno autorità su altri uomini. La voce del serpente è il simbolo del male che si insinua con astuzia nel cuore dell’uomo per mettere in dubbio la bontà di Dio e quindi separare (questo significa diavolo, il separatore) la creatura dal suo creatore. Il non accogliere la parola di Dio che è di salvaguardia per l’uomo, ma accogliere invece la voce del serpente, vuol dire disconoscere il legame vitale che ci unisce a colui che ci ha dato la vita. Il Signore quindi deve trovare un altro modo per ricordare all’uomo la sua condizione di similitudine e differenza con lui e lo fa tramite il dolore del parto delle donne e il dolore con cui trarre dalla terra i suoi frutti per gli uomini (Gen 3,16-17): «Alla donna disse: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà”. All’uomo disse: “Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: “Non devi mangiarne”, maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita»), proprio per aiutarlo a ricordare che non è padrone della vita, ma che essa è un dono da accogliere con gratitudine. Il dolore non è quindi una punizione, ma un segno per aiutare l’uomo a ricordarsi di Dio, che si rivela come autore della vita e che si manifesta nella nascita di un nuovo uomo e nel cibo necessario per vivere. Questa riflessione sapienziale non è esaustiva della rivelazione, ma essendo posta all’inizio di essa ci aiuta ad orientare la nostra ricerca sul senso della vita e anche del lavoro dell’uomo. Noè, colui che obbedirà alla parola del Signore e salverà l’umanità dalla distruzione causata dal proprio peccato, è così chiamato perché «costui ci consolerà del nostro lavoro e della fatica delle nostre mani, a causa del suolo che il Signore ha maledetto» (Gen 5,29). I racconti dell’origine ci indicano simbolicamente non tanto l’inizio come una caduta, ma come la condizione esistenziale in cui ogni uomo e donna si trovano a vivere, esposti all’amore sovrabbondante di Dio e alla tentazione di voler fare a meno di lui. Il lavoro è dunque essenziale alla vita dell’uomo, perché in esso si manifesta la sua capacità di colti- Lavorare sotto lo Spirito che dà la sapienza Nella descrizione dei lavori per costruire l’arca del Signore in cui sono custodite le tavole della legge, i comandamenti che indicano la via della vita per gli uomini, si racconta che gli artigiani che lavorano alla sua costruzione sono sotto l’influsso dello Spirito del Signore: Mosè disse agli Israeliti: “Vedete, il Signore ha chiamato per nome Besalèl, figlio di Urì, figlio di Cur, della tribù di Giuda. L’ha riempito dello spirito di Dio, perché egli abbia saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per ideare progetti da realizzare in oro, argento, bronzo, per intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno ed eseguire ogni 46 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto nome del Signore. Essa si vive simbolicamente nel tempio. La terza riguarda le relazioni con i fratelli che si sostanzia nel rispetto della loro vita fino a guidare il desiderio del cuore a non bramare ciò che è necessario per la vita del fratello. Esse si vivono simbolicamente alla porte della città dove si amministra la giustizia. Al centro ci sono due comandamenti positivi che riguardano il primo l’osservanza del sabato e il secondo il rispetto per i genitori, coloro che ci hanno dato la vita e ci hanno istruito nella legge. Essi si vivono in casa, luogo dove si impara a vivere nella giustizia. Il comandamento della santificazione del sabato riguarda la sospensione dal lavoro delle proprie mani per onorare il Signore della vita. È la prima volta nella storia dell’uomo che ci si astiene un giorno a settimana dal lavoro. È il padre che chiama a raccolta la famiglia, i servitori e gli animali, affinché, astenendosi dal lavoro, si ricordino che la vita non è il frutto del lavoro delle loro mani, ma viene dal Signore che l’ha creata. Astenendosi dal lavoro riconoscono con fiducia che il Signore continua a dare loro il necessario per vivere. Nella prima versione del decalogo, in Esodo 20, la giustificazione è data dall’imitare il Signore che si è riposato il settimo giorno della creazione: ««8Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. 9Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 10ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. 11 Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato» (Es 20,8-11) Nella versione di Deuteronomio 5 la giustificazione del comandamento del sabato riguarda la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto: «12Osserva il giorno del sabato per santificarlo, come il Signore, tuo Dio, ti ha comandato. 13Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 14ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non sorta di lavoro artistico. Gli ha anche messo nel cuore il dono di insegnare, e così anche ha fatto con Ooliàb, figlio di Achisamàc, della tribù di Dan. Li ha riempiti di saggezza per compiere ogni genere di lavoro d’intagliatore, di disegnatore, di ricamatore in porpora viola, in porpora rossa, in scarlatto e in bisso, e di tessitore: capaci di realizzare ogni sorta di lavoro e di ideare progetti”» (Es 35,30-35) L’uomo che realizza lavori creativi lo fa perché lo Spirito di Dio gli infonde la sapienza nel trattare le cose per ordinarle a scopi buoni e giusti. Inoltre gli dà anche la capacità di insegnare, cioè di trasmettere ad altri la sapienza ricevuta in dono. È il rispetto per l’artigiano che con il suo lavoro si avvicina alla sapienza creatrice di Dio. Questo è un altro aspetto della somiglianza dell’uomo con Dio, frutto di ascolto e obbedienza alla parola del Signore che si dà con gratuità, perché scopo della parola di Dio è quello di indicare all’uomo la via della vita che si realizza nella giustizia. Il fine del lavoro è quello di ordinare le cose del mondo perché servano al benessere dell’uomo, al suo stare bene e avere ciò che è necessario per la propria vita senza che questo sia a discapito della vita degli altri. Il decalogo via della vita giusta Al centro del decalogo c’è un comandamento che riguarda il lavoro dell’uomo. Il decalogo ha una premessa senza la quale non si comprende il significato dei comandamenti che indica. La premessa è l’autopresentazione di Dio come colui che salva dalla schiavitù del lavoro: «“Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Dt 5,6) Dio si presenta come il Dio della vita e della libertà coerentemente con il suo essere creatore. Nella liberazione dell’uomo Dio continua a creare le condizioni per una vita giusta. Il decalogo si presenta diviso in tre parti: la prima (vv. 7-11) e la terza (vv. 17-21) sono istruzioni in forma negativa: ciò che non si deve fare. La prima riguarda la relazione con Dio, il rispetto che si deve portare per il creatore che si sostanzia nel non farsi idoli e nel non pronunciare invano il 47 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento re come tutte le nazioni che mi stanno intorno”, 15 dovrai costituire sopra di te come re colui che il Signore, tuo Dio, avrà scelto. Costituirai sopra di te come re uno dei tuoi fratelli; non potrai costituire su di te uno straniero che non sia tuo fratello. 16Ma egli non dovrà procurarsi un gran numero di cavalli né far tornare il popolo in Egitto per procurarsi un gran numero di cavalli, perché il Signore vi ha detto: “Non tornerete più indietro per quella via!”. 17Non dovrà avere un gran numero di mogli, perché il suo cuore non si smarrisca; non abbia grande quantità di argento e di oro. 18Quando si insedierà sul trono regale, scriverà per suo uso in un libro una copia di questa legge, secondo l’esemplare dei sacerdoti leviti. 19 Essa sarà con lui ed egli la leggerà tutti i giorni della sua vita, per imparare a temere il Signore, suo Dio, e a osservare tutte le parole di questa legge e di questi statuti, 20affinché il suo cuore non si insuperbisca verso i suoi fratelli ed egli non si allontani da questi comandi, né a destra né a sinistra, e prolunghi così i giorni del suo regno, lui e i suoi figli, in mezzo a Israele». Il re, scelto all’interno del popolo, deve governare con mezzi sobri: pochi soldi, poco esercito, poche alleanze, perché confida in Dio di cui è chiamato a meditare la legge tutti i giorni per non insuperbirsi a causa della posizione di autorità sui fratelli e per imparare la sapienza dell’arte di governare: custodire ed accrescere la vita e la giustizia in mezzo al popolo che governa. Il rischio per il popolo è che il re, per poter avere gli strumenti necessari per governare, può ridurlo in schiavitù, come dice chiaramente il profeta Samuele al popolo che gli chiede un re per essere simile a tutti gli altri popoli: «10Samuele riferì tutte le parole del Signore al popolo che gli aveva chiesto un re. 11Disse: “Questo sarà il diritto del re che regnerà su di voi: prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, li farà correre davanti al suo cocchio, 12li farà capi di migliaia e capi di cinquantine, li costringerà ad arare i suoi campi, mietere le sue messi e apprestargli armi per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri. 13 Prenderà anche le vostre figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie. 14Prenderà pure i vostri farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. 15Ricòrdati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto e che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore, tuo Dio, ti ordina di osservare il giorno del sabato». (Dt 5,12-15) Nell’uno e nell’altro caso l’uomo è chiamato a compiere le stesse azioni di Dio: il suo riposo nel settimo giorno e la liberazione dal lavoro servile per orientare, nella libertà ritrovata, la propria vita all’incontro con il Signore creatore e liberatore. Il lavoro è quindi un atto relativo, non è il compimento dell’uomo, pur essendo necessario per buona parte della vita come partecipazione alla costruzione di una società giusta. Infatti oggi, molto più che al tempo antico, il lavoro di ciascuno di noi è in necessaria relazione con quello di tutto gli altri uomini e donne. La relazione con gli altri, tramite la distribuzione del lavoro, ci è necessaria per poter godere dei beni necessari alla vita. Nessuno è autosufficiente, da questo punto di vista, con il proprio lavoro e anche gli uomini più ricchi del mondo non si sottraggono a questa realtà. Questo è un bene per tutti, perché ci ricorda come siamo liberamente legati ai fratelli: liberamente perché possiamo scegliere la qualità della relazione da intrattenere con ciascuno che incontriamo quotidianamente, legati perché senza i fratelli moriamo, in senso sia simbolico che letterale. L’autorità sugli altri Nella società moderna, più che in quelle antiche, sono sempre più le persone che svolgono un lavoro di tipo dirigenziale e che hanno alle proprie dipendenze altri lavoratori. Nella Bibbia la persona che incarna simbolicamente questa funzione di governo su altri è quella del re in Israele. L’ideale del re è presentato in Dt 17,14-20, come parallelo della figura del padre nel decalogo: «14Quando sarai entrato nella terra che il Signore, tuo Dio, sta per darti e ne avrai preso possesso e l’abiterai, se dirai: “Voglio costituire sopra di me un 48 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto a predicare con il potere di scacciare i demoni» (Mc 3,14-15); - apprende dall’esperienza dell’annuncio della venuta del regno di Dio dell’opposizione che si sviluppa da parte dei capi del popolo e della incostanza del popolo; - protegge i suoi discepoli dalle conseguenze del suo agire; - conferma i suoi discepoli come testimoni privilegiati dell’agire salvifico di Dio, nonostante il loro abbandono durante la sua passione e morte. Inoltre l’agire missionario di Gesù è compreso da Gesù stesso come un operare che realizza nella storia l’opera di Dio. Leggiamo nel Vangelo di Giovanni a riguardo di una controversia tra Gesù e i Giudei perché aveva guarito un infermo in giorno di sabato, che Gesù afferma: «Il Padre mio agisce ora e anch’io agisco» (Gv 5,17) e subito dopo: «Il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare al Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa allo stesso modo» (Gv 5,19). È proprio nel giorno di sabato che siamo chiamati, come Dio, a liberare i fratelli da tutte le schiavitù: malattia, morte, oppressione, ingiustizia, ecc. È così che Gesù onora il sabato, secondo la richiesta del decalogo. Gesù compie l’opera del Padre: l’annuncio della vicinanza del Regno, sotto la guida del suo Spirito, con l’aiuto di compagni, per il bene di tutti. In questo diventa il modello di come compiere ogni lavoro che gli uomini realizzano quotidianamente. campi, le vostre vigne, i vostri oliveti più belli e li darà ai suoi ministri. 15Sulle vostre sementi e sulle vostre vigne prenderà le decime e le darà ai suoi cortigiani e ai suoi ministri. 16Vi prenderà i servi e le serve, i vostri armenti migliori e i vostri asini e li adopererà nei suoi lavori. 17Metterà la decima sulle vostre greggi e voi stessi diventerete suoi servi. 18Allora griderete a causa del re che avrete voluto eleggere, ma il Signore non vi ascolterà”» (1Sam 8,10-18). Il rischio è che il re, al contrario di Dio che dà in abbondanza, prenda in abbondanza da coloro su cui governa. Questo però non perché il re sia avido o cattivo, ma semplicemente per le necessità del governo centralizzato del regno. Vediamo così che tra l’ideale del re, che deve governare con mezzi sobri, e il rischio concreto che nella realtà accada il contrario, si realizza una dinamica che richiede a colui che esercita un ruolo di autorità un discernimento spirituale continuo e profondo, che viene presentato come la lettura quotidiana della parola di Dio per entrare in comunione sincera con la volontà del Dio creatore di custodire ed accrescere la vita di tutti gli uomini e le donne. Gesù e il lavoro Nella sua vita a Nazaret Gesù ha vissuto del proprio lavoro, facendo così esperienza delle dinamiche relazionali del lavoro umano. Per questo ne ha potuto parlare con sapienza nelle parabole utilizzandolo come esperienza di vita che illumina il mistero del regno di Dio che viene. Solo come esempi prendiamo la parabola del seminatore che illustra la dinamica del cuore umano che accoglie la parola di Dio (Mc 4,1-20) o la parabola degli operai chiamati all’ultima ora a lavorare nella vigna (Mt 20,1-16) in cui a tutti è dato il necessario per vivere, indipendentemente da quante ore abbiano lavorato. Possiamo riflettere anche sull’annuncio missionario del regno di Dio come il vero lavoro di Gesù: - Gesù ha un messaggio da annunciare: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete nel vangelo» (Mc 1,15); - associa a sé alcuni discepoli che sceglie tra il popolo: «perché stessero con lui e per mandarli Il lavoro come possibile relazione gratuita di libertà Il lavoro dell’uomo ha una dimensione costitutivamente relazionale, poiché è l’uomo che è relazione. Nessuno lavora solo per sé e senza l’aiuto necessario di altri. Ogni relazione ha un aspetto di libertà, quella di scegliere quale qualità di relazione - che la Bibbia chiama giustizia - instaurare con chi incontriamo. Il lavoro, in particolare, è una relazione mediata dal compito da realizzare. 49 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento Certo sappiamo bene come a fronte ad un’ingiustizia la prima reazione sia quella di ritirarci e sottrarci alla relazione opprimente o addirittura di compiere violenza verso colui che ci opprime. Ma non così ha fatto Gesù, anzi! Egli ha scelto di andare avanti nella propria missione evangelizzatrice fino al dono di sé nel mistero pasquale di passione, morte e resurrezione, nonostante l’opposizione che ha incontrato. Così facendo ha realizzato il bene di tutti: per sé, perché è rimasto fedele alla sua missione; per gli uomini, perché ha realizzato la salvezza dell’umanità; per Dio, perché ne ha manifestato la vera intenzione: la custodia della vita di tutti, a partire da quella di Gesù nella resurrezione, anticipazione della resurrezione per tutti. La Bibbia ci presenta il lavoro come attività importante per l’uomo, in cui si gioca gran parte della vita di ciascuno e in cui ognuno è chiamato a dare il meglio di sé, nonostante il peccato collettivo e personale, per rendere possibile nella storia la presenza salvifica di Dio. Il lavoro ha una gerarchia di componenti: - il fine sociale - il compito particolare da realizzare - la relazione con altri per realizzarlo, che può essere di parità o di autorità-esecuzione - la propria realizzazione personale - il ricevere un compenso oppure no - l’utilizzo di strumenti. In ogni componente è in gioco la libertà dell’uomo, più o meno condizionata dalla sua posizione sociale e di potere contrattuale. In ogni caso in ogni lavoro c’è una dimensione di dono gratuito di sé, indipendentemente da un corrispettivo in denaro (o altro) o meno (ad esempio il necessario lavoro domestico), perché il dono di sé, in ogni relazione, e quindi anche nel lavoro, è ciò che caratterizza il lavoratore. Il peso del peccato dell’uomo, nella relazione lavorativa, è presente come in ogni attività umana, ma siamo tutti chiamati a convertirci dal nostro peccato, a ridurlo il più possibile e ad aiutare gli altri a fare altrettanto. 50 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto IL BENE NEL LAVORO UN’ANALISI DOTTRINARIA di p. Elio della Zuanna dalla parte di quanti sono meno protetti e più esposti alla precarietà. Tutto ciò domanda non soltanto la conoscenza dei problemi, ma anche una visione illuminata delle priorità, dei valori, e la capacità di renderli operativi nei contesti sociali e politici. Gli orientamenti sull’operosità umana che scaturiscono dal messaggio sociale del Vangelo non sono da considerarsi alla stregua di una teoria, ma prima di tutto sono il fondamento e la motivazione per l’agire. Antichi e nuovi problemi si agitano di fronte al tema lavoro, da sempre questione cruciale, ambito privilegiato per monitorare la condizione sociale del paese, delle famiglie e, insieme, del Magistero sociale della chiesa, che si è andato a consolidare, nel corso dei decenni, attorno alla “questione sociale”, dando vita a un patrimonio di pensiero e di orientamenti. Senza mai perdere di vista la coerenza di questo corpus dottrinale, cogliamo la definizione che offre il Compendio della dottrina sociale della chiesa. «Il lavoro è un diritto fondamentale ed è un bene per l’uomo - si legge nel - un bene utile, degno di lui perché adatto appunto ad esprimere e ad accrescere la dignità umana. La chiesa insegna il valore del lavoro non solo perché esso è sempre personale, ma anche per il carattere di necessità. Il lavoro è necessario per formare e mantenere una famiglia,per avere diritto alla proprietà, per contribuire al bene comune della famiglia umana» (n. 287). Tale visione consente di riflettere sul senso dell’operare umano e sulle sue connessioni con i problemi della società e della politica e di mostrare come il lavoro sia da considerare un bene primario per cui sì è lottato per farlo riconoscere come diritto fondamentale. Grazie all’evento conciliare del Vaticano II, abbiamo compreso, che l’impegno sociale e lavorativo del cristiano è parte costitutiva della sua vocazione come uomo e come credente. Nel suo operare dentro le vicissitudini storiche e lavorative il laico cristiano si trova di fronte problemi sempre nuovi, da affrontare in maniera coerente alla luce della fede, stando accanto ad altri uomini di buona volontà, e quanti hanno a cuore la passione per la libertà e la giustizia sociale con l’intento di costruire una società più degna dell’ uomo, stando La comprensione cristiana del lavoro Il lavoro viene inteso come partecipazione dell’essere umano, alla costruzione del mondo e contributo all’opera creatrice di Dio. Questo pensiero espresso dal domenicano M. D. Chenu, venutosi a maturare nella costrizione dei campi di lavoro forzato dell’ultimo grande conflitto mondiale del secolo scorso, sarà ripreso ed espresso nel testo conciliare Gaudium et Spes: «gli uomini e le donne che lavorano devono essere convinti che con il loro lavoro essi prolungano l’opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli e donano un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia» (Gs 34ss). Il concilio insegna così, a guardare soprattutto la dignità dell’essere umano e alla convivenza solidale tra tutti gli uomini. Al centro di questa visione teologica ci sono gli aspetti creatori e benefici del lavoro. Ad esempio, quando si afferma: «Con il lavoro, l’uomo provvede abitualmente al sostentamento proprio e dei suoi familiari, comunica con gli altri, rende un servizio agli uomini suoi fratelli e può praticare una vera carità e collaborare attivamente al completamento della divina creazione. Ancor più sappiamo per fede che l’uomo, offrendo a Dio il proprio lavoro, 51 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento denziato il nesso tra povertà e disoccupazione, in particolare nel testo della Caritas in veritate si legge: «Nella considerazione dei problemi dello sviluppo, non si può non mettere in evidenza il nesso diretto tra povertà e disoccupazione. I poveri in molti casi sono il risultato della violazione della dignità del lavoro umano, sia perché ne vengono limitate le possibilità (disoccupazione, sotto-occupazione), sia perché vengono svalutati i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia». Ma già in occasione del Giubileo dei lavoratori dell’anno 2000, Giovanni Paolo II, aveva lanciato un appello per una coalizione mondiale in favore del lavoro decente, incoraggiando la strategia messa in moto dall’Organizzazione internazionale del lavoro, in maniera tale da conferire un forte riscontro morale a questo obiettivo, quale aspirazione delle famiglie in tutti i Paesi del mondo. Oggi sono in molti a chiedersi cosa significhi la parola «decenza» applicata al lavoro?. «Significa un lavoro - risponde Benedetto XVI nella Caritas in veritate - che, in ogni società, sia l’espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna: un lavoro scelto liberamente, che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità; un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli, senza che questi siano costretti essi stessi a lavorare; un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire la loro voce; un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa» (CV 63). Pensiero che nasce dalla fiducia della chiesa di essere “esperta in umanità”, che portò a suo tempo, Paolo VI a credere di poter continuare a proporre con forza, il metodo di lettura indicato da papa Giovanni XXIII con la categoria dei “segni dei tempi”: ovvero affrontare e interpretare i problemi legati all’attività umana nel loro sviluppo storico. Si tratta infatti di categorie di analisi che provocano il credente a giudicare e ad impegnarsi nella storia attraverso una testi- si associa all’opera stessa redentiva di Cristo, il quale ha conferito al lavoro una elevatissima dignità, lavorando con le proprie mani a Nazareth». La concezione cristiana del lavoro trova espressa la grandezza dell’uomo e l’immagine di Dio in ciò che sembra destinato ad essere soltanto il mezzo per guadagnarsi di che vivere, segno della contingenza e della fragilità umana. Salvaguardare la prospettiva comunitaria Una fondamentale importanza, soprattutto in questo tempo in cui i legami sociali si fanno più fragili, e la coesione sociale tende a disgregarsi - da sempre sostenuta dall’Insegnamento sociale della Chiesa deriva dall’ovvia constatazione che non si lavora mai da soli. Pur essendo un atto eminentemente personale, il lavoro è insieme un atto cooperativo sia in ragione delle limitate energie del singolo uomo, sia in ragione della grandiosità del fine. «Il lavoro - ricorda la Laborem exercens -, prima di tutto, unisce gli uomini e in ciò consiste la sua forza sociale: la forza di costruire una comunità. In questa comunità devono in qualche modo unirsi sia coloro che lavorano sia coloro che dispongono dei mezzi di produzione o ne sono i proprietari» (n. 20). Mediante il lavoro l’uomo costruisce socialità, scopre l’altro, si rende conto delle interdipendenze e comprende il valore della solidarietà. In una parola, attraverso il lavoro l’uomo fa la storia, cioè dà senso e orientamento alle cose e agli eventi. In tal modo trova il senso della sua stessa vita, sia in quanto risponde alla vocazione originaria ricevuta nell’atto stesso della creazione, sia in quanto collabora all’opera della salvezza e della redenzione del mondo. Il lavoro come spazio privilegiato in cui favorire l’incontro generazionale, dove i giovani e il lavoro siano un futuro da costruire insieme. La precarietà del lavoro giovanile, flagello drammatico che percuote comunità e famiglie, domanda nuove prese di coscienza e di denuncia contro quei sistemi di pensiero che teorizzano l’interesse di alcuni e l’impoverimento di altri. Lavoro un pane da spartire Il più recente pensiero magisteriale, anche quello episcopale nelle singole diocesi, ha fortemente evi52 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto sviluppare la virtù della sobrietà, indispensabile soprattutto in circostanze di difficoltà e economica e sociale. Lo stile di vita di politici e sindacalisti deve essere più che mai credibile, e perciò sobrio e disinteressato. Ad essi per primi è giusto chiedere di fare sacrifici e di rinunciare a vantaggi personali, mentre si impegnano a servire il bene comune e a promuovere il lavoro di tutti. Di fronte alla sfida della crisi, al fine di organizzare la speranza occorre poter sviluppare il senso della solidarietà insieme alla sussidarietà - coordinate che fanno da trama lungo tutto il pensiero sociale in tema di lavoro -, in maniera tale da tradurle in scelte di corresponsabilità e di concertazione fra lavoratori e imprese. Saper tradurre, il coraggio della lungimiranza, nell’elaborazione di progetti e avviare iniziative a breve, medio e lungo termine. È dato di vedere, prendendo tra le mani i testi magisteriali, come la sollecitudine pastorale, non tralasci suggerimenti e aspetti concreti su cui far convergere interventi e attenzioni, invitando a non lasciare nulla di intentato. Ad esempio vi si legge l’urgenza di promuovere e fare tavoli di incontro fra le varie agenzie imprenditoriali, sindacali e formative - con speciale attenzione alla formazione scolastica e universitaria per individuare settori nuovi di intervento, atti a promuovere l’occupazione. Occorre aiutare le imprese attraverso interventi mirati nel settore della formazione e dell’innovazione tecnologica. Va sostenuta e promossa la produzione dell’economia locale, puntando sulla qualità dei prodotti e scoraggiando ogni intenzione di delocalizzazione, finalizzata a far “emigrare il lavoro” dove più conviene al solo scopo di trarre un maggior profitto. monianza della carità, adeguata alle sfide poste dall’odierna società complessa. In tale prospettiva, vanno visti alcuni pronunciamenti magisteriali sulle questioni sociali odierne, affrontate da Benedetto XVI, in cui si ravvede il recupero del pensiero dei suoi predecessori, l’ansia di “uno sviluppo per la vita”, e di non lasciare nulla di intentato per renderla più umana. In particolare recuperando la visione della Populorum progressio, il pontefice tedesco osa affermare parole e pensieri che sembrano utopici. E tuttavia sono conseguenti alle riflessioni e alle responsabilità che egli riconosce all’umanità, ai capi delle nazioni, alle realtà più ricche. Non teme di dover dire che sono necessarie ricercare soluzioni totalmente nuove. «Le grandi novità, che il quadro dello sviluppo dei popoli oggi presenta, pongono in molti casi l’esigenza di soluzioni nuove. Esse vanno cercate insieme nel rispetto delle leggi proprie di ogni realtà e alla luce di una visione integrale dell’uomo, che rispecchi i vari aspetti della persona umana, contemplata con lo sguardo purificato dalla carità». Si scopriranno allora singolari convergenze e concrete possibilità di soluzione, senza rinunciare ad alcuna componente fondamentale della vita umana. Di conseguenza «la dignità della persona e le esigenze della giustizia richiedono che, soprattutto oggi, le scelte economiche non facciano aumentare in modo eccessivo e moralmente inaccettabile le differenze di ricchezza e che si continui a perseguire, quale priorità, l’obiettivo dell’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti» (CV 32). Lavoro e virtù del tempo di crisi Certo non di solo reddito si può vivere. Ma un lavoro dignitoso domanda di poter vedere salvaguardati alcuni diritti per sé e la propria famiglia. Di fronte alle ragioni di preoccupazione o addirittura di negazione della speranza, occorre più che mai non solo offrire motivi per sperare, ma anche attivare processi personali e collettivi per organizzare la speranza. richiede un forte ritorno all’esercizio delle virtù e all’educazione ad esse. In primo luogo, se a tutti è chiesto di stringere la cinghia nel tempo della crisi come si sente dire -, occorre che tutti si impegnino a Il lavoro e le religioni Oggi un fatto nuovo, degno di nota, è il poter constatare la nascita di un percorso comune denominato Convergenze: lavoro dignitoso e giustizia sociale nelle tradizioni religiose. È il frutto di un confronto “interreligioso” con i rappresentanti delle diverse religioni della tradizione cattolica, protestante, islamica, ebrea e buddista, che stanno imparando a parlarsi sui temi del lavoro e della giustizia sociale. 53 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento eliminazione della discriminazione. Il tavolo di dialogo intrapreso a Ginevra si pone l’intento di restaurare gli equilibri persi e a creare ponti affinché i valori umani tornino a contare nelle scelte politiche. Il primo tema trattato in questo percorso è il significato del lavoro. In filigrana si ravvede il contributo del pensiero maturo della riflessione cattolica e il suo sforzo di inculturarsi dentro i nuovi contesti divenuti mondiali. Per i cattolici e per i protestanti l’immagine di Dio si può trovare in ogni persona, per questa ragione ognuno deve essere trattato con dignità e così il suo lavoro. Uomini e donne collaborano con Dio in una relazione in cui fanno parte della creazione, della natura, dell’ambiente e di ciò che “si vede e non si vede”. Tutte le attività umane, dall’agricoltura all’industria, dai servizi alla pubblica amministrazione, sono parti di questa relazione. Il soggetto del lavoro è l’essere umano per cui, citando le parole di papa Giovanni Paolo II, non si può pensare al lavoro come a un prodotto o a una “merce”. In modo particolare si pone di estrema attualità l’incontro con la cultura islamica. L’equivalente arabo del lavoro è “camal” ed il Corano dice che «con chi ha creduto e lavorato davvero con rettitudine, Allah sarà più benevolo». Per comprendere la prospettiva islamica della società bisogna considerare che la condizione di ogni individuo corrisponde esattamente a quello che Dio sa essere il meglio per il suo sviluppo spirituale, in base alla conoscenza intima che il Creatore ha di ogni creatura. Perciò la vera giustizia si pone al di là di demagogiche parificazioni, nella ricerca della conformità agli imperscrutabili piani divini dove tutto ha una sua perfezione e ragion d’essere. L’unica gerarchia concepita tra gli uomini è quella basata sulla taqwa, la pietà spirituale, mentre tutto il resto è concepito come strumento della maieutica divina per condurre gli uomini alla perfezione e alla conoscenza e non possono divenire fonte di inorgoglimento personale. L’accettazione della propria condizione costituisce dunque il punto di partenza per ogni fedele che deve innanzitutto essere grato a Dio per il dono della vita ricevuto e partendo da questa consapevolezza operare per migliorare il proprio e l’altrui statuto, con generosità e senza attaccamenti particolari. Si tratta di una proposta che potrebbe essere promossa all’interno delle realtà associative del nostro Paese, attivare percorsi, accogliere “nuovi lavoratori” dentro la nostra tradizione: siamo dentro a dinamiche globali che non possono più essere ignorate. Emerge, qui, il valore prezioso della comunicazione fra le persone, nella quale gli uni rivelano agli altri la verità che hanno scoperto o che ritengono di avere scoperto. Ne deriva - affermano i padri conciliari - che «tutto quello che abbiamo detto a proposito della dignità della persona umana, della comunità degli uomini, del significato profondo della attività umana, costituisce il fondamento del rapporto tra chiesa e mondo, come pure la base del dialogo fra loro» (GS 40; DH 10). Il lavoro accomuna tutti gli uomini, ed oggi è divenuta questione primaria di equità e dignità, in maniera inedita ci si ritrova tutti simili, figli di un mondo precario. Ciò I punti centrali di questo ritrovato dialogo interreligioso sono il lavoro dignitoso e la giustizia sociale, principi già contenuti nella visionaria costituzione dell’International Labour Organization (ILO) del 1919, dove vi si legge: «Una pace universale e duratura può essere stabilita solo se fondata sulla giustizia sociale». Una prospettiva che trova ulteriore radicamento proprio nel concetto di lavoro dignitoso e assunto a tutto campo dalla nuova fase del magistero sociale. Questo concetto si è trasformato in più di novant’anni di storia seguendo i ritmi frenetici dell’economia di mercato, la globalizzazione, l’impatto delle nuove tecnologie e l’ondata d’internazionalizzazione di aziende e processi. In particolare in quest’ultimo decennio il mondo ha vissuto le ripercussioni di questo sistema: le persone percepiscono di essere troppo piccole per poter contare qualcosa, che anche la dignità umana conta poco e che la globalizzazione non riconosce una dimensione etica. La dimensione interreligiosa costituisce un importante strumento per costruire la pace e la giustizia sia a livello nazionale che internazionale. Il testo messo a punto affronta il significato del lavoro, la solidarietà, la sicurezza e la giustizia sociale, insieme agli obiettivi dell’Agenda del lavoro dignitoso quali occupazione, protezione e dialogo sociale, lotta al lavoro forzato e minorile, libertà di associazionismo ed 54 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto Uno dei cinque pilastri su cui si fonda l’Islam è proprio la Zakat, l’elemosina rituale, che prevede che il fedele, ogni anno, debba versare in attività benefiche una parte dei suoi guadagni per promuovere quella giustizia sociale che insegna, prima di tutto, che non siamo noi i veri padroni di noi stessi e dei nostri beni. Nella tradizione ebraica il lavoro è sia un privilegio che un dovere. Il lavoro è un diritto fondamentale per assicurarsi l’auto-sostentamento, contribuire al mondo di oggi e anche un modo per servire e glorificare Dio. Mentre i Buddisti riconoscono diverse funzioni al lavoro: la prima è l’atto di generosità verso i figli riconosciuto nel rendersi economicamente indipendenti e anche un mezzo indispensabile per lo sviluppo e la crescita personale. Solo attraverso la tensione che si trova nel lavoro, nella famiglia, nell’economia e nella politica è possibile conoscere la verità degli insegnamenti di Buddha. Tutte le religioni esigono che alla base del nostro agire, ci sia un orientamento ai valori. L’orientamento nel quotidiano è fornito da un semplice principio conduttore, noto nella sapienza popolare: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. «Ciò che non ti è gradito, non farlo neanche al prossimo. Questa è la Tòrah per intero e tutto il resto è soltanto la spiegazione». Si pensi a quante cose cambierebbero se le persone nelle aziende e nelle organizzazioni si sforzassero di rispettare questa indicazione che troviamo nelle religioni monoteiste. Il lavoro risulta massimamente proficuo se è inserito in un comportamento morale, in un orientamento ai valori. Una guida a come realizzare tutto ciò ci è data da un testo molto citato del Tàlmud ebraico: Bada ai tuoi pensieri, perché diventano parole; Bada alle tue parole, perché diventano azioni. Bada alle tue azioni perché diventano abitudini; Bada alle tue abitudini, perché diventano il tuo carattere; Bada al tuo carattere, perché diventa il tuo destino. Questo “Bada a” ripetuto cinque volte corrisponde all’indicazione centrale di tutte le scuole spirituali, secondo cui l’evoluzione umana, intellettuale, caratteriale, incomincia con l’attenzione. Attenzione non significa altro che diventare consapevole di quello che faccio, essere vigile e concentrare tutta la mia attenzione su quello che faccio, ovviamente in funzione di un bene condiviso. Bisogno e cura della spiritualità nel lavoro In un’epoca finalmente libera da pregiudizi ideologici, per offrire ragioni di vita e di speranza occorre favorire la crescita della formazione alla spiritualità, inseparabile da quella culturale e umana. Per il cristiano questo vuol dire tenere desta nella mente e nel cuore la sua “riserva escatologica”, quel potenziale cioè di attesa, di carica profetica, di speranza della fede, che impedisce di arrendersi di fronte alle esigenze - spesso brutali - degli interessi di corto raggio degli egoismi personali o collettivi. La speranza dei grandi orizzonti di giustizia e di pace per tutti, il desiderio dello “shalom” che riecheggia nei testi sacri, è la prima e profonda molla di un credente che voglia impegnarsi al servizio degli altri. Se il rischio dei tempi di tranquillità e di relativa sicurezza è quello della presunzione - nell’illusione di poter cambiare facilmente il mondo e la vita -, il rischio opposto - proprio dei tempi di prova - è di vivere la paura del domani in maniera più forte della volontà e dell’impegno di prepararlo e di plasmarlo. In realtà, «ansietà, il timore dell’avvenire, sono già delle malattie. La speranza, al contrario, è, prima di tutto, una distensione dell’io…Essa entra nella situazione più profonda dell’uomo. Accettarla o rifiutarla è accettare o rifiutare di essere uomo» (E. Mounier). La fede domanda di accogliere la sfida della speranza per intraprendere un percorso per diventare veramente umani. Non possiamo tuttavia non chiederci: che cosa possiamo sperare? Si tratta di un interrogativo largamente umano, che ci riguarda tutti, in virtù del quale poter affrontare il nostro presente. Nella luce della fede, vivere la speranza è dire: avanzare e accogliere l’avvenire di Dio nel presente del mondo. La differenza fra l’utopia e la speranza della fede è insomma la stessa che c’è fra l’uomo solo davanti al suo domani, e l’uomo che ha creduto nell’avvento di Dio e aspetta il suo ritorno, andandogli incontro con inequivocabili segni di preparazione e d’attesa. Un atteggiamento, sine qua non, il più delle volte estromesso in quanto ritenuto ininfluente sul piano operativo, ma ribadito in maniera cristallina da Benedetto XVI nei suoi testi: «Lo sviluppo ha bisogno di cristiani 55 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento Nelle strutture di peccato si annidano la sete di profitto, l’egoismo e, in risposta, la violenza della lotta di classe, atteggiamenti che spezzano il sistema delle interdipendenze e contrastano il valore della solidarietà. Non basta, dunque, un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine e lontane, che invoca la solidarietà. Al contrario essa richiede: «la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti. Tale determinazione è fondata sulla salda convinzione chele cause che frenano il pieno sviluppo siano quella brama del profitto e quella sete del potere, di cui s’è parlato» (SRS, n. 38). Questi atteggiamenti si vincono solo con l’impegno per il bene del prossimo con la disponibilità. In senso evangelico significa: un perdersi a favore dell’altro invece di sfruttarlo e i far prevalere il servirlo invece che l’opprimere per il proprio tornaconto. Tutto ciò non è facile. Trattasi di una sfida audace e faticosa di ieri, di oggi, di sempre. A suo tempo Simone Weil scriveva «la società è diventata una macchina per comprimere il cuore» e noi oggi, dobbiamo dire, ne sentiamo tutta la fatica. La posta in gioco diviene una fede incarnata nella vita sapendo stare dentro gli ambiti della vita medesima: lavoro, famiglia, società. La tenacia di ripartire trova ragione: «con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo qual modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo. Ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo. Ha amato con cuore d’uomo» (GS 22). con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l’autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. Perciò anche nei momenti più difficili e complessi, oltre a reagire con consapevolezza, dobbiamo soprattutto riferirci al suo amore» (CV, 79). Invito a ripercorre il sentiero della solidarietà È ritornato in maniera cogente il dovere di fare spazio fattivo al concetto di solidarietà che sembra essersi smarrito e «rischia di essere escluso dal dizionario» come afferma papa Francesco. «Chi è disoccupato o sottoccupato - diceva di recente, in uno dei tanti suoi interventi sul tema, incontrando gli operai delle Acciaierie di Terni -, rischia di essere posto ai margini della società, di diventare una vittima dell’esclusione sociale. Tante volte capita che le persone senza lavoro, in particolare i tanti giovani disoccupati, scivolino nello scoraggiamento cronico o peggio nell’apatia. Il gravissimo problema del lavoro non è una fatalità, è la conseguenza di un sistema economico che ha messo al centro un idolo, che si chiama denaro!». Il papa nell’Evangelii Gaudium afferma con chiarezza «Dà fastidio che si parli di etica, dà fastidio che si parli di solidarietà mondiale, dà fastidio che si parli di distribuzione dei beni, dà fastidio che si parli di difendere i posti di lavoro, dà fastidio che si parli della dignità dei deboli, dà fastidio che si parli di un Dio che esige un impegno per la giustizia» (EG 203). 56 LA REALTÀ DEL LAVORO IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto IL LAVORO PRESENTE… …E ASSENTE a cura di Iref1 Quando si affronta un tema complesso e multidimensionale come quello del lavoro si tende spesso a circoscrivere gli ambiti di significato. Tale complessità si mostra in modo evidente nella produzione di formule verbali in cui il termine “lavoro” è associato ad un aggettivo che rimanda ad una particolare dimensione d’analisi. Il lavoro flessibile, non standard, atipico, precario sono espressioni che rinviano alla dimensione normativa e, in particolare, alle riforme del mercato del lavoro che, dal pacchetto Treu in poi, hanno creato nuove forme contrattuali a tempo determinato e alleggerite nelle tutele. Nondimeno, il lavoro parcellizzato, standardizzato, autonomo sono espressioni che si ritrovano spesso nelle analisi di organizzazione del lavoro, in cui, dagli anni Settanta in poi (si veda lo storico accordo della Pirelli del 1977), hanno alimentato il dibattito sul superamento di modelli di produzione di stampo tayloristico. Infine, il lavoro professionalizzante, dequalificato, high skilled sono modi di dire per indicare quegli aspetti che riguardano l’ambito della formazione e delle competenze, anche alla luce del loro livello d’inquadramento nell’azienda. Tuttavia, la frammentarietà di significati che connota il tema del lavoro può essere ricomposta e reinterpretata dentro spazi di significato più ampi che aprono a prospettive d’analisi non settoriali. In tale prospettiva, il tema del lavoro può essere affrontato considerando tre punti di osservazione: - le persone, i lavoratori e le lavoratrici che nei luoghi di lavoro svolgono attività dal diverso grado di professionalità e competenza, e che per mezzo del lavoro strutturano il loro personale progetto occupazionale e di vita. Accanto a chi è nel mercato del lavoro, c’è anche chi invece ne è escluso: disoccupati, giovani in cerca di primo impiego e inattivi sfiduciati che hanno perso le speranze di collocarsi nel mercato del lavoro. Infine ci sono gli imprenditori e, in generale, la classe dirigente e manageriale, con i propri stili di governo d’impresa e le personali culture aziendali; - l’azienda, il luogo della produzione, ma anche delle relazioni interpersonali e sindacali. È nell’azienda, nel suo essere radicata in un particolare contesto socio-economico e normativo, nella sua capacità di innovarsi e nel sue scelte d’investimento ed imprenditoriali che si creano le premesse per la crescita di ambienti produttivi e professionali di qualità, di promozione delle persone e di sviluppo territoriale; - il contesto, il terreno su cui si muovono e interagiscono tra loro sistemi produttivi, comunità locali e istituzioni pubbliche. Spazi dalla diversa consistenza normativa e di risorse, connotati da una propria storia produttiva. Su questi terreni si gioca la partita dello sviluppo economico e della coesione sociale delle comunità presenti in essi, all’interno di un sistema di vincoli ed opportunità che vede da anni il nostro Paese spaccato in due, lungo una frattura che divide il Nord dal Sud resa ancor più marcata dal persistere della crisi economica. Guardando da più prospettive si ha modo di cogliere e valorizzare la ricchezza di significati connessi al concetto di lavoro. In più, un approccio multi-prospettico introduce, nelle analisi sul mercato del lavoro, elementi di valutazione che consentono di contestualizzare e qualificare le forme in esso presenti. Allora, il lavoro flessibile può essere visto come “buono” o “cattivo”, “giusto” o “ingiusto” in riferimento ad un dato con- 1 Presidente, Antonio Ziglio; Direttore, Marco Livia; ricercatori senjor: Danilo Catania, Alessandro Serini, Gianfranco Zucca. 59 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento testo aziendale, territoriale, sociale, normativo, etc. In breve, qualificare il lavoro come buono e giusto ci costringe a guardare al tema del lavoro da una prospettiva di analisi valutativa. In quali circostanze un lavoro può dirsi buono e giusto? Quali sono i nostri riferimenti valoriali con cui qualifichiamo un lavoro come buono e giusto? Qual è il discrimine, gli indicatori, tra un lavoro buono e uno cattivo, tra uno giusto e uno ingiusto? Per rispondere a queste domande occorre, di fatto, esprimere una valutazione, nel senso di sposare una particolare concezione del lavoro che si ritiene migliore di altre. Per fare ciò è necessario analizzare, lungo la linea del tempo, le tendenze che hanno caratterizzato i principali indicatori connessi al tema del lavoro. L’analisi longitudinale ci consentirà, peraltro, di evidenziare i problemi e le contraddizioni insite nel nostro sistema Paese, per poi, nelle conclusioni, proporre soluzioni coerenti con la nostra idea di lavoro buono e giusto. Grafico 1 - Tasso di disoccupazione per sesso, dal 1977-2013 (%) Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat Le persone: tra precarietà occupazionale e rischio di emarginazione sociale Sul fronte delle persone, un primo elemento su cui riflettere è l’impennata iniziata nel 2007. In quell’anno il tasso di disoccupazione ha toccato il suo minimo, da quando nel 1977 l’Istat ha iniziato a rilevare in modo sistematico i principali indicatori strutturali del lavoro. Dal 2007 il numero di disoccupati è cresciuto costantemente fino a toccare lo scorso anno il 12,2%. Sono soprattutto le donne a pagare il prezzo più salato: nel 2013 il tasso di disoccupazione femminile ha toccato il 13,1%, a soli due punti percentuali dai valori record di metà anni Novanta (vedi grafico 1). Un aspetto “curioso” della crisi economica è che in un paese dove il gender gap è in ambito lavorativo assai rilevante (retribuzioni, accesso alle posizioni apicali, carriera, etc.), sul fronte del non lavoro il divario di genere tende ad assottigliarsi. Come si può osservare dal grafico 1 dal 2007 le linee della disoccupazione maschile e femminile tendono a convergere: nel 2013 la differenza tra disoccupati e disoccupate è dell’1,6%; nel 2007 era del 3% mentre ad inizio serie (1977) era del 6,4%. 60 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto Se il divario di genere tende ad una saldatura nell’area della disoccupazione, ciò non avviene per quanto riguarda la dimensione generazionale, anzi: l’andamento tra giovani disoccupati (25-34 anni) e le altre classi anagrafiche prese in considerazione (35-44 anni e 45-54 anni) tende a divergere nel tempo (vedi grafico 2). Sono i giovani a far registrare i saggi di crescita più consistenti: dal 2011 al 2013 la percentuale di disoccupati con età compresa tra 25 e 34 anni è cresciuta del 6% (dall’11,7% al 17,7%); nello stesso periodo le altre classi d’età hanno segnato una crescita più contenuta: +3,2% per i disoccupati 35-44 anni e +3,9 per i disoccupati 45-54 anni. Va sottolineato che per tutte le classi anagrafiche i tassi di disoccupazione del 2013 rappresentano valori record di una serie lunga vent’anni. Grafico 2 - Tasso di disoccupazione per classi anagrafiche, 1993-2013 (%) Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat La gravità dell’attuale situazione diviene ancor più palpabile dal confronto tra le macroripartizioni (vedi grafico 3). Nelle regioni del Mezzogiorno il tasso di disoccupazione sfiora il 20%: mai nella storia delle rilevazioni sulle Forze di Lavoro dell’ISTAT il si è arrivati a tanto. Nondimeno, tra il 2012 e il 2013 il Mezzogiorno ha fatto registrare il differenziale di crescita più alto con un più +2,5%, il doppio rispetto al dato nazionale. 61 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento Grafico 3 - Tasso di disoccupazione per ripartizione geografica, 1977-2013 (%) Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat Il dramma occupazionale del Sud dell’Italia è enfatizzato da un altro indicatore, spesso non preso in considerazione dai mass media: il tasso di inattività2 (grafico 4). Osservando il trend del tasso di inattività salta agli occhi l’andamento discordante del Mezzogiorno rispetto alle altre ripartizioni geografiche. Se nel Centro e nell’Italia settentrionale il tasso di inattività ha segnato una tendenza complessiva al ribasso, nelle regioni meridionali il valore è rimasto fino al 1997 simile a quello iniziale del 1977 (46,7%), per poi decrescere dal 1998 al 2002, scendendo in quest’ultimo anno al suo minimo storico (43,9%) e infine risalire in modo brusco fino a toccare nel 2011 l’apice (49%). La singolarità del Mezzogiorno può essere interpretata se si considera il fenomeno degli sfiduciati. Tra gli inattivi sono comprese anche quelle persone che hanno perso le speranze di trovare un posto di lavoro. La loro non è una scelta personale, come quella di chi intende studiare o di chi si dedica alla cura dei propri figli e della casa, ma è una condizione imposta da un contesto privo di opportunità. Una zona grigia che nel corso degli ultimi si è estesa in modo rilevante, coinvolgendo soprattutto i giovani, in prevalenza donne. 2 È il rapporto tra gli inattivi e la corrispondente popolazione di riferimento. Gli inattivi sono le persone che non fanno parte delle forze di lavoro, ovvero quelle non classificate come occupate e disoccupate. A differenza del tasso di inattività, il tasso di occupazione e disoccupazione sono rapporti che hanno al denominatore il numero delle forze di lavoro e come numeratori rispettivamente il numero degli occupati e quello dei disoccupati. 62 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto Grafico 4 - Tasso di inattività per ripartizione geografica, dal 1977 al 2013 (%) Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat Dentro l’area della rassegnazione, un gruppo su tutti sembra rappresenta l’emblema di una condizione di vita senza futuro e, al contempo, l’immagine più nitida della debolezza di un intero paese: i neet. Stando ai dati ISTAT del 2013, i giovani che non cercano lavoro, né investono sull’istruzione e sulla formazione ammontano ad oltre 3,5 milioni: le donne tra i 15-34anni sono il 31,1%, mentre tra i giovani l’incidenza dei neet scende al 23,6% (vedi grafico 5). Se si considerano i giovani residenti nelle regioni del Mezzogiorno, la quota dei neet sale in media di dieci punti percentuali per entrambi i sessi: 41,9% donne e 35,3% uomini. Quest’ultimi dal 2004 al 2013 hanno fatto segnare tassi di crescita alquanto sostenuti, con un aumento nel periodo considerato di oltre il 12% (dal 22,9% al 35,3%); mentre per le donne l’andamento nel corso degli anni è stato pressoché costante (dal 40,9% del 2004 al 41,9% del 2013). I dati sui neet portano alla luce un paradosso: il divario di genere che, a diverse latitudine del nostro paese, puntualmente caratterizza ogni statistica del lavoro, nel caso dei neet questa “consuetudine” statistica viene messa in discussione, mettendo a nudo lo stato di profonda deprivazione materiale e sociale che attanaglia oggi il Sud Italia. 63 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento Grafico 5 - Incidenza dei giovani 15-34 anni sulla popolazione corrispondente che non lavorano né studiano per sesso (periodo 2004-2013; focus Mezzogiorno; %) Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat Altro aspetto, figlio anch’esso di un futuro negato, è il dato di quanti emigrano alla ricerca di un lavoro. In un articolo del 6 aprile 2013 il Sole24ore titolava: «La crisi spinge gli italiani all’estero. Nel 2012 è boom di emigrati (+30%). La Germania resta il Paese preferito». L’articolo analizza i dati dell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), ponendo l’accento sul forte aumento del numero di emigranti che si è avuto nel 2012, anno in cui sono espatriate 78.941 persone alla ricerca di un lavoro, contro le 60.635 del 2011. Si tratta di flussi in uscita che per numero ricordano le grandi migrazioni degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Anche le migrazioni interne, lungo la direttrice Nord-Sud, sono state consistenti. Lo Svimez, nell’ultimo rapporto sull’economia del Mezzogiorno afferma: «Negli ultimi venti anni sono emigrati dal Sud circa 2,7 milioni di persone. Nel 2011 si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Centro-Nord circa 114 mila abitanti. Questo dà la cifra di quanto il contesto nel meridione sia avaro di possibilità» (Svimez 2013: 10). Ad andarsene dal Mezzogiorno sono le risorse migliori, giovani, istruiti e qualificati. L’emorragia di capitale umano impoverisce oltremodo un contesto già di per sé debole, innescando un processo di deterioramento del tessuto sociale ed economico che rischia di essere insanabile, se non si interviene con delle misure urgenti di riqualificazione territoriale. Ma il tratto ancor più drammatico e nuovo dell’attuale storia migratoria è raffigurato dagli immigrati giunti in Italia negli ultimi trent’anni. Molti di loro hanno trovato in Italia lavoro e con esso la possibilità di strutturare un progetto familiare. La perdita del posto di lavoro, se in generale rappresenta un dramma individuale e sociale, nel caso dei lavoratori stranieri rappresenta un vero e proprio fallimento dell’intero progetto migratorio, che rischia di far cadere la persona interessata e la sua famiglia ad una situazione di esclusione sociale. Se si analizzano le dinamiche della disoccupazione straniera (vedi grafico 6) appare evidente che il rischio di marginalizzazione sociale per questa componente di lavoratori è una prospettiva alquanto concreta: il tasso di disoccupazione della popolazione straniera nel biennio 2012-2013 è cresciuto di oltre tre punti per64 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto centuali (+3,2%), arrivando al 17,3% su base nazionale; nello stesso periodo il tasso di disoccupazione della popolazione italiana è aumentato del 1,2%, attestandosi all’11,5%. Grafico 6 - Tasso di disoccupazione dei lavoratori stranieri ed italiani, dal 2004 al 2013 (%) Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat Per un immigrato, la perdita del posto di lavoro può coincidere con la perdita del diritto a risiedere legalmente nel nostro paese. Inoltre, a differenza di chi è nato in Italia, i cittadini stranieri possono contare su reti parentali circoscritte al più al nucleo della famiglia d’origine, che limitano le loro funzioni di protezione, di sostegno economico e di ricerca di una nuova occupazione. Su quest’ultimo versante poi c’è da evidenziare che trovare un nuovo lavoro per i disoccupati immigrati è assai arduo, poiché l’offerta è limitata ad occupazioni di basso contenuto professionale e in settori tra i più bersagliati dalla crisi economica: nei servizi alla persona, nell’industria manifatturiera e nel commercio. È soprattutto nelle regioni del Nord Italia che la crisi di occupazione ha colpito la manodopera immigrata, mettendo a repentaglio progetti migratori consolidati nel tempo. Non è dunque solo il Sud a sentire i morsi di una condizione economica preoccupante; anche il Nord sta pagando un prezzo salato, in particolar modo con i suoi cittadini più deboli, sul piano dell’assistenza e delle protezioni sociali, con i lavoratori stranieri, ma anche con i lavoratori autonomi. Negli ultimi dieci anni il numero di lavoratori indipendenti è diminuito di 745mila unità, passando dai 6,2milioni del 2004 ai 5,5milioni del 2013, con un calo del 12%. Dentro questa popolazione, il cosiddetto popolo delle partite IVA e nello specifico i lavoratori in proprio (artigiani, commercianti, agricoltori), etc. senza dipendenti, ha fatto segnare una riduzione ancor più marcata (vedi grafico 7): se si considerano come base di partenza 100 lavoratori in proprio presenti nel 2004, nell’arco di un decennio il numero è sceso a 84 lavoratori in proprio, con una perdita del 16% equivalente, in valori assoluti, a 355mila lavoratori in meno. A livello territoriale, sono le regioni del Nord Italia a registrare la maggior contrazione di occupati in proprio, con un calo di quasi il 20%. 65 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento Grafico 7 - Numero indice del totale degli occupati indipendenti, dei lavoratori in proprio senza dipendenti e dei liberi professionisti, dal 2004 al 2013 (base indice: 2004=100) Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat Di segno opposto è l’andamento dei liberi professionisti. Dal 2004 al 2013 il numero dei liberi professionisti è aumento di 162mila unità, con una crescita di quattordici punti percentuali. La spinta maggiore alla crescita dei liberi professionisti si è avuta negli anni della crisi (dal 2008 in poi). Un dato questo che, se letto con gli altri indicatori occupazionali, è contro intuitivo. I liberi professionisti sono cresciuti ad un ritmo sostenuto proprio negli anni in cui la disoccupazione, specie quella giovanile, ha segnato valori record e si è registrata una contrazione significativa dei lavoratori indipendenti. Tuttavia, tale “anomalia” trova una spiegazione plausibile se si considera l’irrompere del fenomeno delle false Partite IVA. Fra i liberi professionisti si annidano partite IVA che nella realtà svolgono un lavoro alle dipendenze, percependo compensi non assimilabili alla fatturazione. Su questo piano, assistiamo ad una trasformazione dei rapporti di lavoro e dei significati ad essi connessi. In passato, questo tipo di partita IVA era sinonimo di alte professionalità, libere dai vincoli di subordinati; oggi l’apertura di una partita IVA è la spia di un mascheramento contrattuale di un lavoro a basso costo e a bassa professionalità che costringe migliaia di persone, soprattutto giovani, ad aprirsi una posizione fiscale per poter lavorare. Secondo le stime dell’ISFOL, risalenti al 2006, le false partite IVA oscillavano tra le 300mila e le 400mila, un dato questo che, stando alla recente crescita dei liberi professionisti, potrebbe essere ancor più consistente. A spingere verso un aumento delle false Partite IVA sono gli effetti perversi di una crisi di lavoro che ha colpito i soggetti più storicamente più deboli dal lato occupazionale (giovani, donne e stranieri). Non è un caso che nel 2012 su circa 549mila nuove partite IVA, 211mila sono state aperte da giovani (fonte CGIA: http://www.cgiamestre.com ). A tal proposito il commento del segretario della CGIA di Mestre Giuseppe Bortolussi al report CGIA sul lavoro autonomo e la micro impresa rende evidente il ruolo delle finte Partite IVA nella crescita del numero dei liberi professio66 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto nisti «verosimilmente (...) la tendenza positiva fatta segnare dai liberi professionisti potrebbe essere riconducibile sia all’aumento del numero di coloro che hanno deciso di mettersi in proprio non avendo nessun’altra alternativa per entrare nel mercato del lavoro, sia all’incremento delle cosiddette false partite Iva. In riferimento a quest’ultimo caso, ci si riferisce, ad esempio, a quei giovani che in questi ultimi anni hanno prestato la propria attività come veri e propri lavoratori subordinati, nonostante fossero a tutti gli effetti dei lavoratori autonomi. Una modalità, quest’ultima, molto praticata soprattutto nel Pubblico impiego» (ivi). Il fenomeno delle false partite IVA è solo un’altra conferma della trasformazione del mercato del lavoro sempre più connotato dai tratti del precariato occupazionale. Per molti disoccupati, aspirare ad un posto “fisso” è, allo stato attuale, un’ambizione difficile da coronare per la minor disponibilità dei datori di lavoro ad attivare contratti di lavoro a tempo indeterminato, perché troppo costosi ed eccessivamente rigidi. A riguardo, l’ultimo rapporto sul mercato del lavoro 2012-2013 del CNEL evidenzia la difficoltà dei lavoratori con contratti atipici a stabilizzare la loro posizione contrattuale con l’ottenimento di un contratto a tempo indeterminato: «Se prima della crisi quasi il 29 per cento degli occupati a termine diventava permanente l’anno successivo, ora questo vale solo per il 17 per cento dei temporanei3. Il lavoro a termine, oltretutto, ha sempre più come esito la non occupazione, verso la quale il tasso di uscita è salito dal 16 al 20 per cento. Infine (...) il tasso di permanenza nel lavoro a termine da un anno all’altro tende ad aumentare. L’occupazione a termine sembrerebbe quindi aver ridimensionato negli ultimi anni il suo ruolo di trampolino (stepping stone) o comunque passaggio per entrare nell’occupazione permanente; si è così creato un segmento a sé stante di occupati» (CNEL 2013: 146-5). Anche nella Pubblica Amministrazione il mito del posto si sta sgretolando sotto i colpi di un bilancio dello Stato che, per contenere le passività, ha imposto il blocco del turnover, l’uso di forme contrattuali atipiche per tappare i buchi d’organico e l’attivazione di subappalti con cooperative e altre strutture d’impresa per garantire l’erogazione di servizi primari. A riguardo, si pensi a due ambiti essenziali come quello dell’istruzione e della sanità, dove operano numerosi lavoratori atipici, in cooperative di servizio che ogni giorno garantiscono l’apertura delle scuole e l’igiene e la manutenzione degli ospedali. Insomma, il nuovo corso occupazionale, avviato negli anni Novanta, ha introdotto forme di lavoro leggere nelle tutele e negli oneri economici e sociali, flessibili ai ritmi di produzione e deboli nella rappresentanza dei lavoratori. Una concezione del lavoro che se da un lato, quello dell’economia, consente alle imprese private e pubbliche di stemperare le oscillazioni della domanda di beni e servizi prendendo forza lavoro durante i picchi di produzione, dall’altro, quello dei lavoratori, ha prodotto una diffusa precarizzazione dei corsi di vita delle persone. Dal grafico 8 si coglie il tratto discontinuo dell’occupazione a termine. L’indice di variazione degli occupati a tempo determinato da un anno all’altro mostra un andamento irregolare. Sale dal 2004 al 2006, scende nei tre anni successivi, per poi risalire dal 2009 al 2011 e, infine, nell’ultimo biennio torna a scendere. Viceversa l’indice di variazione del numero degli occupati a tempo indeterminato ha un andamento regolare, con delle piccole oscillazioni da un anno all’altro. 3 Tale probabilità scende all'11,9% per le donne e al 9,7% per chi risiede nel Mezzogiorno. 67 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento Grafico 8 - Indice a base mobile del numero degli occupati a tempo determinato e indeterminato (2004=100) e tasso di occupazione (%) Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat Se si legge l’andamento con le lenti dell’attuale crisi economica emerge come agli inizi della crisi (20072009) i primi ad essere espulsi dal mercato del lavoro siano stati i lavoratori a tempo determinato. In quest’ultimi anni, però, le aziende hanno impiegato in modo più intenso lavoratori inquadrati con contratti atipici, mentre il tasso di occupazione dei lavoratori a tempo indeterminato ha registrato una contrazione. Nelle aziende è in atto un turnover contrattuale in cui la probabilità di assumere un nuovo dipendente a tempo indeterminato è minore di quella di assumere un lavoratore offrendogli un contratto atipico: «Nel primo trimestre 2012 l’incidenza delle forme non standard di occupazione tra i nuovi occupati cresce di 5 punti percentuali rispetto ad un anno prima: su 100 individui circa 53 trovano un impiego atipico, 16 un lavoro parzialmente standard e soltanto 31 un lavoro standard» (ISTAT 2013a: 102-3). In breve, il precariato sta ormai assumendo i contorni di una condizione occupazionale permanente. Si va avanti di contratto in contratto con livelli retributivi che, a parità di condizioni, sono di norma più bassi di chi ha un contratto a tempo indeterminato. Instabilità lavorativa ed economica sono tratti comuni di un ampio numero di occupati. Anche tra i lavoratori più tutelati con contratti di lavoro standard è in atto un processo d’impoverimento economico. Aumenta il numero dei lavoratori a rischio di povertà. Nel 2012 i lavoratori poveri (working poor) ammontavano al 11% - oltre 2milioni di occupati vivono in equilibrio lungo la linea di povertà - un valore questo ben al disopra della media dei paesi dell’area euro (vedi grafico 9). 68 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto Grafico 9 - Percentuale di occupati di 18 anni e più a rischio di povertà sul totale degli occupati (Eurostat 2005-2012) Fonte: Eurostat La debolezza economica dei lavoratori è anche il riflesso di retribuzioni decurtate per la messa in cassa integrazione di un numero sempre più crescente di lavoratori e, in generale, per una crescita dei redditi che non è al passo dell’aumento del costo della vita, comportando una perdita del potere d’acquisto degli occupati e delle loro famiglie. A riguardo il grafico 10 mostra l’andamento del reddito disponibile e del potere d’acquisto delle famiglie [INPS 2012: 25]: dal 2008 al 2012 il potere d’acquisto delle famiglie si è ridotto di quasi dieci punti percentuali (9,4%) e il reddito familiare e sceso, fino a contrarsi nel 2012 di due circa due punti percentuali (1,8%). 69 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento Grafico 10 - Variazioni percentuali annue del reddito e del potere d’acquisto delle famiglie (elaborazioni INPS su dati ISTAT; 2001-2012) Fonte: INPS Sono soprattutto le famiglie del Sud dell’Italia le più esposte al rischio di povertà. L’alta disoccupazione nelle regioni del Mezzogiorno ha prodotto un ampliamento dell’area dell’indigenza: nel 2012, le famiglie del Mezzogiorno sotto la soglia delle povertà relativa sono arrivate al 26,2% contro il 6,2% del Nord Italia (ISTAT 2013b). Da questo contesto avaro di opportunità e di futuro, si spiega la scelta di molti giovani di emigrare all’estero o nelle aree del paese più produttive. Chi rimane trova sempre più spesso nell’economia sommersa una fonte di reddito. Nel Mezzogiorno, dall’inizio della crisi (2008), l’incidenza del lavoro nero è aumentata in modo costante, passando dal 18,7% del 2008 al 20,9% del 2012 (vedi grafico 11): in Calabria quasi un lavoratore su tre è irregolare; nel Trentino Alto Adige il lavoro nero interessa il 7,6% degli occupati e, a differenza delle regioni meridionali, la tendenza è in costante diminuzione. 70 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto Grafico 11 - Incidenza del lavoro irregolare (2001-2012;%) Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat Sui dati del lavoro irregolare, la CGIA di Mestre ha elaborato delle stime per quantificare il potenziale economico del lavoro nero: l’economia sommersa vale oggi 6,5% del PIL, che equivale a 99,2miliardi di euro e un totale di imposte evase di 42,8 miliardi di Euro. Con questi numeri e si potrebbero realizzare politiche efficaci di sostegno al reddito e di sviluppo economico dando impulso ad un tessuto micro-imprenditoriale oggi grandi in difficoltà; ma combattere il lavoro nero senza abbinare politiche di rilancio economico potrebbe comportare per molte aree del Paese una lacerazione irreversibile del tessuto sociale ed economico. Nell’arco di dieci anni il numero di imprenditori è sceso del 37,6%, con una perdita di 151mila posizioni imprenditoriali: da 402mila (2004) a 251mila (2013). In tutte le ripartizioni territoriali si è registrato un calo progressivo degli imprenditori (vedi grafico 12). 71 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento Grafico 12 - Numero indice del numero degli imprenditori dal 2004 al 2013 (base indice: 2004=100) Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat Nelle regioni del Centro Italia la forte contrazione del tessuto imprenditoriale è iniziata nel 2006 e ha toccato il suo minimo nel 2009 con una diminuzione del 47%. Nelle regioni del Sud la riduzione del numero di imprenditori è stata meno intensa: dal 2007 è iniziata una diminuzione costante del numero degli imprenditori, arrivando nell’ultimo anno a marcare il punto più basso, con una diminuzione del 36%. Più intensa invece è stata la discesa degli imprenditori del Nord Italia: dal 2004 al 2011 si è registrato un significativo decremento degli imprenditori settentrionali, nel 2011 la riduzione è stata del 45% rispetto al 2004. viceversa negli ultimi due anni della serie si avuta una flessione al rialza degli imprenditori, segnando nel 2013 una riduzione del 38%. Le aziende e la fine di un’epoca: tra tensioni e opportunità La crisi di lavoro è il sintomo più evidente della profonda debolezza del nostro tessuto produttivo che, dal 2008 in poi, è stato investito dai colpi di una recessione di portata storica. La tempesta, prima finanziaria poi occupazionale, del 2008 ha sconquassato gli equilibri strutturali della nostra economia. Il grafico 13 illustra bene il cambiamento di pagina nella storia del sistema produttivo nazionale. Nell’arco di nove mesi. da giugno 2008 a marzo 2009, l’indice di produzione industriale è precipitato di quasi 30 punti. 72 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto Grafico 13 - Indice della produzione industriale (marzo 2000 - marzo 2014; base indice 2010=100) Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat I numeri sono ancora più preoccupanti se si considerano i fattori di competitività italiana nel periodo 20082011 (vedi tabella 1). In quattro anni 74mila imprese hanno chiuso, il volume complessivo d’affari dell’economia italiana è diminuito di quasi 120miliardi di euro, si sono persi un milione di posti di lavoro, mentre i dipendenti sono diminuiti di 509mila unità. Il sistema industriale, compreso il comparto delle costruzioni, ha subito i contraccolpi maggiori: le imprese sono diminuite del 6,7%, in termini assoluti 74mila aziende. Il fatturato complessivo si è ridotto del 6,8% (-101miliardi di euro) con una contrazione della base occupazionale del 12,3% (-823mila occupati), mentre i dipendenti hanno registrato un decremento del 10,9% (-564mila). Anche il commercio ha segnato un ripiegamento nei fattori presi in considerazione: 42mila imprese in meno, 16milardi di mancato fatturato, -117mila occupati con un lieve aumento dei lavoratori alle dipendenze dovuto, soprattutto ad una migliore performance economica del commercio al dettaglio (vedi tabella 2). Il settore dei servizi è quello che più degli altri ha contenuto i danni e, in alcuni casi, è anche riuscito a crescere in competitività. Sono aumentate le imprese di servizio (+2%; +42mila imprese), il fatturato è rimasto pressoché invariato (-0,1%; -785milioni), gli occupati sono, invece, diminuiti (-1,3%; -90mila occupati), ma sono aumentati i dipendenti (1,1%; 49mila dipendenti). 73 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento Tabella 1 - Fattori di competitività dell’economia italiana: macro settori economici (confronto 2008-2011) Settori Anni Differenza 2008-2011 2008 2011 n % Industria 1.108.148 1.033.989 -74.159 -6,7 Commercio 1.215.042 1.172.143 -42.899 -3,5 Servizi 2.111.633 2.154.519 42.886 2,0 Totale 4.434.823 4.360.651 -74.172 -1,7 1.492.534.660 1.390.901.910 -101.632.750 -6,8 Commercio 982.407.808 965.934.045 -16.473.763 -1,7 Servizi 647.598.407 646.813.144 -785.263 -0,1 3.122.540.875 3.003.649.099 -118.891.776 -3,8 Industria 6.712.793 5.889.521 -823.272 -12,3 Commercio 3.557.898 3.440.408 -117.490 -3,3 Servizi 7.035.262 6.944.406 -90.856 -1,3 Totale 17.305.953 16.274.335 -1.031.618 -6,0 Industria 5.195.302 4.630.408 -564.894 -10,9 Commercio 1.985.710 1.991.198 5.488 0,3 Servizi 4.453.392 4.503.255 49.863 1,1 Totale 11.634.404 11.124.861 -509.543 -4,4 Imprese Fatturato (in migliaia di €) Industria Totale Occupati Dipendenti Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat La perdita di competitività del sistema industriale è dovuta per lo più ai risultati negativi del settore manifatturiero e di quello delle costruzioni. Nel periodo di riferimento le imprese manifatturiere sono diminuite del 7,4% (-34mila imprese vedi tabella 2), con un calo del fatturato del 5,8% (-57 miliardi di euro) e un assottigliamento della base occupazionale del 10,8% (-474mila occupati). Ancor più marcata è la riduzione di competitività del comparto delle costruzioni: le imprese di costruzione sono diminuite del 7% (-44miila imprese), nell’arco di quattro anni il giro d’affari ha avuto una contrazione del 26,5% (-72,5milardi di euro) e il numero di occupati si è abbassato del 17,5% (-352mila occupati). Invece il settore industriale del comparto energia nel quadriennio in esame ha fatto registrare saldi di crescita positiva. Le imprese di fornitura elettrica e delle altre fonti d’energia sono cresciute del 164,8%, con un aumento di fattura complessivo pari all’11,2% e un ampliamento della base occupazione dell’1,3%. In particolare, le aziende della green economy hanno avuto un notevole sviluppo che testimonia i margini di espansione di un settore che potrebbe rappresentare nell’immediato futuro un bacino importante per la creazione di posti di lavoro e di crescita economica. Le imprese che operano nel campo del commercio all’ingrosso si sono ridotte di oltre 15mila unità (-3,7%), producendo un calo di fatturato di 8miliardi di euro (-1,5%) e una diminuzione del numero degli occupati di 56mila unità (-4,6%). Anche nel commercio al dettaglio la crisi si è fatta sentire, sebbene in modo meno virulento rispetto al commercio all’ingrosso: in percentuale il calo dell’occupazione è stato più contenuto (-1,9%), mentre la diminuzione delle imprese è stata d’intensità simile a quella fatta registrare nel commercio all’ingrosso (-3,5%) e il fatturato 2011 è rimasto sui livelli del 2008 (0,1%). Infine, nel settore del terziario i servizi d’informazione e comunicazione e le attività ad alto contenuto tecnico e scientifico sono stati i comparti più indeboliti dal perdurare della crisi economica. Dal 2008 al 2011, il segmento produttivo dell’informazione ha perso 74 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto più di 5mila imprese, poco meno di 29mila posti di lavoro e 4 miliardi di fatturato. In modo analogo, le attività di natura tecnica e scientifica si sono ridotte dello 0,4%, a fronte di un calo di fatturato di circa 8 miliardi di euro e una riduzione del numero degli occupati del 3,8%. In senso contrario vanno i dati della competitività dei servizi di ristorazione e alloggio e dei servizi riguardanti la sanità e l’assistenza sociale. In quest’ultimo c’è stata una crescita significativa dei diversi fattori di competitività: imprese (+9,6%), fatturato (+11,2%) e occupazione (+9%). Tabella 2 - Fattori di competitività dell’economia italiana per alcuni settori produttivi (confronto 2008-2011) Differenza 2008-2011 Imprese n Fatturato Occupati % Migliaia di € % n % Industria Attività manifatturiere -34.247 -7,4 -57.107.635 -5,8 -474.402 -10,8 Costruzioni -44.433 -7,0 -72.542.239 -26,5 -352.511 -17,5 4.075 164,8 17.501.838 11,2 1.067 1,3 Commercio all’ingrosso -15.748 -3,7 -8.260.128 -1,5 -56.225 -4,6 Commercio al dettaglio -23.270 -3,5 283.356 0,1 -36.094 -1,9 Servizi di informazione e comunicazione -5.055 -4,9 -4.278.132 -3,7 -28.991 -5,0 Attività professionali, scientifiche e tecniche -2.801 -0,4 -8.262.893 -7,0 -46.231 -3,8 Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione 12.698 4,4 3.539.594 5,3 16.959 1,3 Sanità e assistenza sociale 22.213 9,6 4.635.324 11,2 61.953 9,0 Fornitura di energia elettrica, gas Commercio Servizi Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat Le attività economiche più colpite dalla crisi sono quelle connesse agli andamenti del mercato interno e, in particolare, alla capacità di spesa delle famiglie. Nello specifico, i sotto settori industriali che hanno segnato un rilevante calo della produzione sono quelli dell’abbigliamento, degli elettrodomestici e dei mobili (grafico 14). Dal 2005 al 2013 la produzione di elettrodomestici è crollata di 80 punti indice; quella tessile di quasi 50 punti e la fabbricazione di mobili di circa 40 punti indice. Viceversa, Il settore alimentare nel periodo di riferimento ha mantenuto un andamento regolare intorno ai 100 punti indice. 75 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento Grafico 14 - Indice della produzione industriale nel settore dell’abbigliamento, degli elettrodomestici e dei mobili (periodo 2005-2013; medie annue) Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat Ancor più negativi sono i numeri di un altro settore di punta del mercato interno, quello delle costruzioni. Da febbraio 2008 ad oggi l’indice di produzione in questo comparto ha segnato una costante discesa, passando dai 122,7 punti di febbraio 2008 ai 68,3 punti di febbraio 2014 (vedi grafico 15). Grafico 15 - Indice della produzione nelle costruzioni (marzo 2000 - marzo 2014; base indice 2010=100) Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat 76 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto In generale, dunque, sono le attività artigianali, gli esercizi commerciali e le imprese edili a subire gli effetti più gravi della crisi economica. In alcune aree del paese è in atto un processo di desertificazione imprenditoriale, con la cessazione di migliaia di attività artigianali: si pensi, ad esempio, al settore tessile nella provincia di Prato o ancora il settore del legno e del mobile delle province del Nord-Est (in primis, Treviso e Pordenone) e di Pesaro. Queste imprese si trovano a dover fronteggiare le ricadute di una domanda interna assai debole. Il potere d’acquisto delle famiglie è crollato. Molte spese sono rimandate a tempi migliori, badando all’acquisto del necessario: come nel caso dei servizi collegati alla salute e assistenza delle persone. Segnali di vitalità economica arrivano dalle imprese che operano sui mercati esteri. Dopo la forte contrazione del 2009, l’indice dei nuovi ordinativi per l’estero ha avuto un andamento crescente (vedi grafico 16). Da febbraio 2011 ad oggi, gli ordinativi dall’estero hanno superato quelli del mercato interno. Si tratta di una novità: dall’inizio della serie storica (marzo 2000) non era mai accaduto che l’indice “estero” fosse maggiore dell’indice “interno”, e ciò conferma la profonda debolezza della domanda interna. Grafico 16 - Indice dei nuovi ordinativi dei prodotti industriali (marzo 2000 - marzo 2014; base 2010=100) Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat Per rilanciare la nostra economia occorre, dunque, intervenire sul mercato interno, sostenendo il potere d’acquisto delle famiglie attraverso misure che diano impulso ai consumi domestici. Accanto a ciò, occorre intervenire sull’offerta attraverso la ridefinizione delle strategie aziendali. A riguardo, sono utili le analisi sviluppate dall’Istat nell’ultimo report sulla competitività in cui si tratteggiano quattro profili d’impresa (ISTAT 2014a: p. 38): • imprese “vincenti” che, anche negli anni di crisi 2011-2013, hanno visto aumentare il proprio fatturato sia in Italia sia all’estero. Si tratta di oltre 4.600 unità (pari al 18,1 per cento del totale), che spiegano il 20 per cento del valore aggiunto complessivo; • imprese “crescenti all’estero”, che nello stesso periodo hanno aumentato il fatturato estero ma ridotto quello interno. L’insieme comprende circa 8.500 imprese (il 33 per cento del totale), che spiegano circa il 38 per cento del valore aggiunto complessivo; 77 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento • imprese “crescenti in Italia”, che hanno realizzato una buona performance all’interno, ma hanno registrato un fatturato estero in diminuzione. Si tratta di poco più di 3.400 unità (il 13,3 per cento del totale), che spiegano l’11 per cento del valore aggiunto complessivo; • imprese “in ripiegamento”, il cui fatturato è diminuito sia in ambito nazionale sia sui mercati internazionali. A questa classe appartengono oltre 9.100 unità produttive (il 35,6 per cento del totale), che spiegano il 30,6 per cento del valore aggiunto complessivo. Le aziende che dalla crisi hanno tratto opportunità di crescita attraverso la realizzazione di strategie espansive hanno puntato sullo sviluppo della connettività d’impresa e infrastrutturale, sull’innovazione dei processi di lavoro, sull’ampliamento della gamma di prodotti e sulla formazione del personale (vedi tabella 3). Di contro, le imprese che hanno subito la crisi si caratterizzano per strategie difensive, volte a contenere i danni: ridimensionamento delle attività, mantenimento della quota di mercato, innovazione di prodotto e delocalizzazione delle strutture di produzione. Queste strategie hanno prodotto disoccupazione e un abbassamento complessivo di ricchezza e di competitività del sistema produttivo nazionale. L’aspetto che più dovrebbe far riflettere è che solo nelle aziende in ripiegamento la formazione non è contemplata tra le strategie; in tutti gli altri casi, la formazione del personale è un fattore strategico, soprattutto per le aziende che sono cresciute di fatturato nel mercato interno. La formazione quindi rappresenta una leva fondamentale per la crescita della nostra economia, al pari di altre misure di tipo economico-fiscale. Tabella 3 - Strategie correlate positivamente ai quattro profili d’impresa dell’Istat (elencate in ordine d’importanza) Vincenti Crescenti all’estero Alta connettività Delocalizzazione Innovazione di processo Difesa quota di mercato Ampliamento gamma prodotti Innovazione di prodotto Formazione Formazione Crescenti all’interno In ripiegamento Formazione Ridimensionamento attività Alta connettività Mantenimento quota di mercato Innovazione di processo Innovazione di prodotto Ampliamento gamma prodotti Delocalizzazione Fonte: Istat - Report sulla competitività Nelle micro imprese con meno di 10 dipendenti la formazione del personale si attesta al 32% sul totale delle imprese (ISTAT 2013c). Tale percentuale cresce all’aumentare della dimensione aziendale. Dal 2005 al 2010 il peso della formazione aziendale nel nostro paese è aumentata di 24 punti percentuali: nel 2010 il 56%, delle imprese italiane ha realizzato corsi di formazione per il proprio personale; nel 2005 meno di un terzo delle aziende (32%) ha investito nella formazione (vedi grafico 17). 78 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto Grafico 17 - Incidenza della formazione nelle imprese dei paesi dell’Unione Europea (Eurostat; anni: 2005 e 2010; %) Fonte: Eurostat La crescita e l’aggiornamento delle professionalità presenti nelle aziende rappresentano leve irrinunciabili per la tenuta del sistema produttivo. La forte accelerazione impressa dalle aziende sul fronte della formazione testimonia quanto lo strumento sia decisivo per competere nei mercati globalizzati. Su questo terreno le nostre aziende hanno fatto passi da giganti se si pensa che nel 2005 l’Italia aveva un ritardo di 28 punti percentuali rispetto alla media europea (32% contro il 60%) e che nel 2010 il divario si è ridotto di diciotto punti percentuali (56% Italia, 66% media UE). Nonostante i progressi, però, le imprese italiane sono ancora in posizioni di retrovia frenate, peraltro, da stili imprenditoriali resistenti allo sviluppo di strategie fondate sul binomio innovazione-ricerca. A riguardo, una leva decisiva per tornare a crescere sarà la capacità del management e, in particolare, dell’imprenditore di “aprire” l’azienda all’esterno, rendendola più ricettiva ed interconnessa, per captare i cambiamenti e le novità dei mercati e, al contempo, più riflessiva ed analitica, per elaborare i segnali in azioni e strategie d’impresa. A tal proposito, in un recente documento della Presidenza del consiglio dei ministri, dipartimento politiche europee, si traccia un identikit delle PMI ad elevata crescita: alti tassi d’investimento in ricerca e sviluppo, elevato livello di competenze interne e alta qualità della forza lavoro. Inoltre, il documento evidenzia come tutte queste caratteristiche da sole non garantiscono il successo dell’impresa, che dipende, in ultima battuta, dal ruolo dell’imprenditore «che si pone dunque come soggetto di importanza strategica cruciale, in specie per quanto riguarda la propensione al rischio e all’innovazione» (Renda, Lucchetta 2011,p. 19). La crescita di una cultura d’impresa aperta a partnership strategiche e ad alto tasso d’innovazione è il prerequisito per rendere più competitive le nostre aziende nei mercati internazionali. Tuttavia il cambiamento degli stili imprenditoriali da solo non garantisce il successo delle imprese italiane. Occorre, intervenire anche sul terreno in cui operano le imprese, con misure ad hoc per rimuovere i freni e gli ostacoli allo sviluppo economico nel nostro paese. Va in questa direzione il varo della legge 212 del 2012 che ha introdotto, per la prima 79 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento volta, nel nostro ordinamento giuridico la definizione di nuova impresa innovativa, riconoscendo alle start up innovative un ruolo strategico per la crescita dell’economia nazionale: «Nelle economie moderne la presenza di un ambiente innovativo che promuova la ricerca scientifica ed un tessuto imprenditoriale in grado di valorizzarne i risultati e le competenze è una condizione necessaria per la competitività dell’intero sistema Paese (...). Creare le condizioni di sistema favorevoli alla nascita e allo sviluppo delle startup innovative - siano esse legate alla manifattura, ai servizi, all’agricoltura o ad altri settori - consente quindi di fornire un contributo rilevante alla crescita economica e all’occupazione, specie quella giovanile, favorendo uno spill-over di conoscenza su tutto il tessuto imprenditoriale e sostenendo, in particolare, lo sviluppo di una nuova manifattura italiana orientata all’high-tech e alle high skill promuove una maggiore propensione all’assunzione di rischio imprenditoriale» (Guidi 2014, p. 3). La legge 2012 del 2012 prevede un ampio ventaglio di agevolazioni e di facilitazioni per le imprese innovative che hanno permesso la nascita di 1.719 imprese innovative (dati aggiornati a febbraio 2014), concentrate in prevalenza nelle regioni del Nord Italia e nei grandi centri metropolitani (Milano, Roma e Torino). La dinamica di crescita delle startup innovative resta però ancora al disotto dagli standard europei, frenata da una riforma complessiva dei sistemi che concorrono all’ammodernamento e alla crescita del tessuto produttivo: giustizia, pubblica amministrazione, formazione/istruzione, credito, etc. Il contesto: percorso ad ostacoli per la crescita del Paese Molte delle PMI italiane già oggi sono attrezzate per competere a pieno titolo sui mercati internazionali: la crescita di quest’ultimi mesi del made in Italy sta lì a confermarlo. Tuttavia, soprattutto nel mercato interno la tenuta delle aziende mostra segnali di debolezza dovuti ad un contesto avverso, che ostacola e talvolta rende impossibile fare impresa in Italia: eccessivi oneri amministrativi e normativi, difficoltà ad eccedere al credito, elevata fiscalità, carenza di qualifiche, concorrenza sleale, corruzione, etc. Si tratta di problemi non nuovi, a cui si è risposto con provvedimenti spot, slegati da una visione d’insieme. Le riforme della giustizia, della pubblica amministrazione, del sistema infrastrutturale, per citarne alcune, sono enunciate da molto tempo, se ne ravvisa l’urgenza, ma non sono state ancora realizzate, suonando, di fatto, come delle mere petizioni di principio. Il sistema delle imprese italiane e, più in generale, l’intero sistema Italia si muove sulla scena dell’economia internazionale gravato dal ritardo nell’attuazione di riforme che l’attuale congiuntura economica rende non più procrastinabili. Per sintetizzare le difficoltà che gli imprenditori incontrano nel tentativo di fare impresa in Italia, il report 2014 della Banca Mondiale colloca il nostro paese al 65esimo posto nel Mondo per facilità di fare impresa: dei paesi europei soltanto Grecia e Romania hanno una classifica peggiore della nostra (World Bank 2014°). Il fattore che più penalizza la nostra economia è l’eccessivo carico fiscale che grava sulle aziende italiane: su 100 euro a disposizione delle imprese poco meno di 66 euro (65,8%) se ne vanno in tasse e oneri contributivi, nei paesi dell’Unione europea il dato scende al 41,1%. Siamo la 138esima economia su 189 per carico fiscale (World Bank 2014b). La maggior parte del prelievo fiscale alle imprese italiane è dovuto alla tassazione sul lavoro (43,4% contro il 26,6% dell’UE), mentre le tasse sui profitti ammontano al 20,3%, la media dei paesi UE è del 12,9%. In breve, a parità di volume d’affari le imprese italiane hanno una disponibilità economica minore rispetto alle principali concorrenti europee e mondiali. Altre due classifiche della Banca mondiale consentono di mettere a fuoco i limiti della nostra economia nel panorama internazionale. Dal 2013 al 2014 la nostra posizione circa la facilità di accedere al credito e di avviare una nuova impresa è peggiorata: nel primo caso siamo scesi dal 105esimo al 109esimo posto; nel secondo caso, dall’84esima posizione alla 90esima posizione. L’ostacolo principale per la nascita di nuove imprese è l’eccessivo costo di start-up. Aprire un’azienda a Milano o Roma costa tre volte di più rispetto all’avvio di un’attività in Germania (16,8% di costi sul reddito pro-capite contro il 4,9% della Germania) ed è 80 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto 16 volte superiore alle spese sostenute da un imprenditore francese (World Bank 2013, p. 25). Peraltro, negli ultimi anni, le banche hanno adottato una politica di accesso al credito più restrittiva che ha di fatto inciso sulla tenuta del tessuto produttivo nazionale. La contrazione dei finanziamenti ha riguardato anche realtà imprenditoriali sane e di successo, come nel caso delle imprese ad alta crescita di fatturato: per le imprese giovani, dal 2007 al 2010, la concessione di prestiti da parte delle banche è scesa dal 70% al 59,7%. Anche per gli altri tipi d’imprese (imprese ad alta crescita e altre imprese) c’è stata una restrizione dei prestiti bancari dell’ordine di dieci punti percentuali (vedi tabella 4). Tabella 4 - Richiesta di prestiti delle imprese alle banche e percentuale di successo delle richieste (anni: 2007 e 2010) 2007 2010 Richiesta Successo di prestiti della richiesta Diff. Richiesta Successo di prestiti della richiesta Diff. Imprese giovani ad alta crescita 94,7 70,0 -24,7 98,4 59,7 -38,6 Imprese ad alta crescita 96,2 85,0 -11,1 95,7 73,1 -22,6 Altre imprese 93,8 86,8 -7,0 92,9 78,8 -14,1 Totale imprese 94,0 86,6 -7,4 93,0 78,4 -14,6 Fonte: Istat - Report accesso al credito PMI Se per le aziende migliori e più attrezzate a concorrere nei mercati internazionali è diventato difficile ottenere un prestito, allora, non si fa fatica ad immaginare, quanto sia ancor più arduo per le aziende normali o, addirittura, in deficit di crescita. La riduzione del credito d’impresa e l’eccessivo peso della burocrazia e del carico fiscale spiegano il basso punteggio dell’Italia nell’indice di attrattività dell’AIBE4: il livello di attrattività del nostro paese presso gli investitori stranieri si attesta al 41%, alquanto al di sotto dei valori di paesi leader come Germania (77%) e Stati Uniti (91%), ma anche di paese emergenti come Brasile (50%), India (59%) e Cina (73%). Il documento dell’AIBE è interessante perché gli esperti danno indicazioni su dove intervenire per aumentare il livello d’interesse della nostra economia all’estero, cito le quattro misure più urgenti da realizzare: sfoltire il carico normativo e burocratico, abbreviare i tempi della giustizia civile, aumentare la flessibilità del lavoro; ridurre il carico fiscale. Il fattore che più dissuade gli investitori esteri a puntare sull’Italia è l’ingombro eccessivo della burocrazia nella vita delle imprese e, in generale, degli individui. Troppe leggi e adempimenti amministrativi frenano lo sviluppo del sistema paese e alimentano la corruzione e l’economia sommersa. Allo stesso modo, l’eccessiva lungaggine dei processi pone più di un motivo di perplessità a chi intende fare impresa in Italia. Un aspetto su tutti evidenzia le difficoltà che incontrano le aziende nel fare impresa in Italia ed è connesso al numero di fasi processuali, ai tempi e ai costi necessari per risolvere davanti ad un giudice una disputa di natura commerciale (World Bank 2013, p. 25). 4 L'indice di attrattività è stato promosso dall'AIBE, l'associazione fra le banche estere italiane, per misurare il grado di attrattività dell'Italia presso gli investitori esteri. L'indice AIBE è costruito dall'unione dei punteggi dati da un panel di rispondenti che operano nei settori dell'economia e della finanza internazionale. La prima edizione dell'indice è stata dall'agenzia ISPO tra febbraio e marzo 2014 [ISPO 2014]. 81 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento Figura 1 - Fasi, tempi e costi della giustizia civile Fasi processuali (numero) Tempi (giorni) Costi (% del valore della controversia) Fonte: World Bank 82 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto Dai grafici in figura 1 emerge con chiarezza quanto sia gravoso il peso (di costi e di tempo) della burocrazia nel confronto con alcuni paesi europei di riferimento. Per chiudere una controversia di natura commerciale occorrono 41 passaggi processuali, in Germania il numero scende a 30 e in Francia a 29. I tempi medi della giustizia italiana per questo tipo di controversie oscillano tra gli 855 giorni di Torino e i 2022 di Bari, con una media nazionale di 1400 giorni. Se si guarda all’Europa, i tempi della giustizia civile italiana appaiono ancor più eclatanti: sono più del doppio rispetto alla media europea (547 giorni) e triplicano nel confronto con la giustizia francese e tedesca. La lungaggine dei processi e la farraginosità della burocrazia fa levitare anche i costi che le aziende dei sostenere in giudizio. Per un contenzioso di 100 euro le aziende italiane pagano in media 26 euro di spese legali, in Germania per una causa di pari importo l’imprenditore spende meno di 15 euro, mentre in Francia e Spagna la spesa sale a 17 euro. Il groviglio di leggi, procedure e adempimenti amministrativi imbriglia la crescita economica e rende l’Italia un paese poco appetibile per gli investitori stranieri. Avviare un’azienda da noi costa in media di più rispetto alla maggior parte dei paesi europei. Quando poi l’azienda è avviata, l’imprenditore si trova a dover sopportare un carico fiscale che supera la media dell’Unione Europa di oltre venti punti percentuali. Infine, se questa azienda dovesse intentare causa per la riscossione di un credito sarà costretta ad aspettare quasi 4 anni per l’esecuzione della sentenza e pagare un prezzo per le spese legali di norma superiore rispetto agli altri paese dell’Unione europea. Non sono solo i report internazionali a mettere nudo i limiti della nostra economia, essi sono evidenziati anche in un recente documento della Banca d’Italia Bianco: «Restano, tuttavia, ostacoli significativi all’operare dei meccanismi concorrenziali. Essi sono riconducibili a due fronti: il contesto istituzionale che fa da sfondo all’attività delle imprese e la regolamentazione economica dei settori in cui siano presenti fallimenti del mercato. Sul primo fronte le debolezze sono da rinvenire in un approccio - influenzato dalla tradizione giuridica, specie amministrativa, italiana - nel complesso poco attento alle esigenze del sistema produttivo e alla rilevanza della concorrenza. Le politiche di semplificazione normativa e amministrativa hanno, in passato, prodotto risultati limitati. Tra le ragioni della scarsa efficacia vi sono la frammentarietà degli interventi e la presenza di più livelli di governo, che non sempre adottano un approccio omogeneo e coerente. Restano prioritari interventi sulla qualità delle nuove leggi. Per l’efficacia delle misure di semplificazione è necessario, nel contempo, che prosegua e si intensifichi il processo di riforma della pubblica amministrazione. Affrontare i problemi della giustizia civile è ugualmente rilevante. I provvedimenti adottati recentemente incidono su alcuni dei problemi. È necessario che le riforme procedano rapidamente e con un approccio “integrato”, attento alle molteplici cause di inefficienza» (Giacomelli, Rodano 2012, p. 37). La sollecitazione che arriva dalla Banca d’Italia è chiara: occorre realizzare un piano di riforme per consentire al nostro paese di essere più efficiente e dinamico. Non più, dunque, interventi settoriali slegati da una visione complessiva, ma azioni integrali che nascono da un’idea generale di società, tenendo insieme, con coerenza, i diversi piani dell’agire, pianificando strategie d’intervento multi prospettiche. L’ambito dell’istruzione e della formazione rappresenta un elemento cruciale per ridisegnare una nuova configurazione di società. Sulla questione educativa l’Italia è indietro: gli studenti che abbandonano gli studi sono il 17% (vedi grafico 18), la media europea si ferma al 12,9%. Si tratta di persone giovani, 18-24 anni, che interrompono che, vista l’attuale crisi di occupazione, con molta probabilità va a rinfoltire le file dei neet. 83 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento Grafico 18 - Persone di 18-24 anni che abbandonano la scuola o corsi di formazione (%) Fonte: Eurostat L’abbandono scolastico è la manifestazione più evidente di un disagio. Le transizioni da un livello educativo all’altro sono spesso disomogenee. I passaggi dalla scuola elementare alle medie, dalle medie alle superiori, fino ad arrivare all’università, possono rivelarsi traumatici nella crescita educativa e culturale degli alunni. Tagli di risorse5, interventi legislativi settoriali e disarticolati, lento ammodernamento degli strumenti didattici (in primis, la digitalizzazione delle aule) sono fattori che rappresentano delle variabili di contesto negative per il successo scolastico delle persone. A rimanere indietro sono soprattutto gli alunni che provengono da famiglie con una dotazione esigua di capitale economico, sociale e culturale. Non solo: anche gli studenti più meritevoli sono penalizzati da un sistema d’incentivi (borse di studio e agevolazioni) che, dopo dieci anni di tagli alla scuola, oggi è assai ridotto. Questa condizione lede il diritto allo studio e ci riporta ad un’idea di scuola in cui la riuscita è legata alle condizioni socio-economiche e culturali della famiglia di origine. La debolezza della scuola si riflette sui livelli di apprendimento degli studenti e, in generale, sugli standard di qualità dell’offerta formativa: i risultati dell’indagine PISA-OCSE collocano gli alunni italiani di sotto alla media OCSE in tutte le prove oggetto di valutazione (INVALSI 2013). Terminati i percorsi scolastici molti giovani si trovano nella difficile condizione di entrare in un mercato del lavoro asfittico. Per la ricerca di un lavoro, il canale principale attivato dalle persone di età compresa tra i 15 e i 29 anni è quello dei contatti informali: Il 77,6% dei giovani si rivolge ad amici e parenti (Istat 2013d). La ricerca attraverso canali informali è cresciuta di quattro punti percentuali nel periodo compreso tra 2008 e il 2012. Ancor più sostenuta è stata la crescita di chi usa internet: nel 2012 il 62,2% ha dichiarato di affidare 5 Secondo i dati dell'OCSE (http://stats.oecd.org) l'Italia dal 2007 al 2012 ha segnato un taglio dei finanziamenti all'istruzione dell'8%. Dei paesi più industrializzati solo il Giappone ha ridotto i finanziamenti per la scuola, tutti gli altri, nel periodo in esame, li hanno incrementati: Stati Uniti +12,5%; Francia +18,7% e Germania +20,9%. 84 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto alla rete le speranza di trovare un lavoro, con un aumento di venti punti percentuali rispetto al valore del 2008. Con meno frequenza ci si rivolge al centro per l’impiego territoriale: il 29,9% dei giovani va nei centri per l’impiego per la ricerca di un posto di lavoro. In Europa l’uso dei centri per l’impiego è molto più frequente, per citare due casi spesso presi ad esempio: in Germania i giovani che si rivolgono ad un centro per l’impiego arriva all’81,2%, in Francia la percentuale è del 57%. Il sottoutilizzo dei centri per l’impiego in Italia si spiega dal grafico 19. Il 43,9% dei giovani occupati ha trovato lavoro grazie agli aiuti di genitori, amici e parenti; viceversa, soltanto l’1,4% è riuscito a lavorare per mezzo dei centri per l’impiego. Grafico 19 - Occupazione attraverso i centri per l’impiego e dei canali informali (Istat 2012; %) Fonte: Istat - Indagine conoscitiva sulle misure per fronteggiare l’emergenza occupazionale Il sistema di collocamento pubblico si mostra inefficace nel favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. I centri per l’impiego scontano ritardi sia nella messa in rete delle strutture che fanno parte del ciclo formazione-lavoro (istruzione-formazione-altri soggetti di collocamenti-impresa) sia nella raccolta, organizzazione e diffusione del flusso d’informazioni. I limiti sono accentuati dalla penuria di risorse (economiche e di personale) destinate ai centri per l’impiego: in Italia lo 0,03% del PIL è destinato ai centri per l’impiego, la media europea è all’incirca dieci volte superiore (0,25%). In termini monetari, nel 2011, l’Italia ha investito 500milioni di euro per il funzionamento dei centri per l’impiego, in Spagna si è speso il doppio, in Germania si sono stanziati 8,8miliardi e in Francia poco più di 5miliardi (Bergamante, Marocco 2013 - ISFOL). Anche le agenzie di lavoro private mostrano problemi di tenuta organizzativa ed economica e la fruizione dei cittadini di queste agenzie risulta più bassa di quella dei centri per l’impiego. C’è quindi da ripensare all’intera rete di collocamento al lavoro, iniziando da un piano d’investimenti per il potenziamento dei raccordi dei diversi nodi e per il miglioramento dei sistemi di gestione dei flussi informativi. Da questo punto di vista il Decreto Legge 76 del 2013 ha istituito presso il Ministero del Lavoro una struttura di missione che ha vari compiti: proporre iniziative per integrare i diversi sistemi informativi, definendo le linee-guida per la Banca dati delle politiche attive e passive; avviare l’organizzazione della rilevazione sistematica e la pubblicazione in rete, per la formazione professionale 85 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento finanziata in tutto o in parte con risorse pubbliche, del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi; promuovere l’accessibilità, da parte dei soggetti autorizzati, alle banche dati sugli studi compiuti e sulle esperienze lavorative o formative. La speranza è che la nascita di questa commissione e i risultati che produrrà possano tradursi in azioni che sappiano coniugare scuola-formazione-lavoro-imprese, avvicinando così il nostro paese ai livelli di paesi come la Germania e la Francia. Un altro aspetto che frena la ricerca di lavoro nel nostro paese è legato alla bassa dotazione di asili nido e, in generale, strutture pubbliche che erogano servizi di cura. La copertura del servizio di asili nido6 è tra la più bassa in Europa. La copertura è del 6,5% a livello nazionale, con un massimo del 15,2% in Emilia Romagna e un minimo dello 0,9% in Calabria (vedi grafico 20), molto distante dall’obiettivo fissato in sede europea al 33%. Grafico 20 - Copertura potenziale del servizio di asilo nido e tasso di occupazione femminile (Fonti: cittadinanza attiva e Istat; 2012; %) Fonte: Cittadinanzattiva (Copertura del servizio) - Istat (Tasso di occupazione femminile) La bassa dotazione di strutture per l’infanzia è correlata con i livelli di occupazione femminile: nelle regioni in cui la presenza di asili nido è più consistente il tasso di occupazione femminile è di solito superiore alla media nazionale; all’opposto nelle regioni in cui c’è una minore dotazione di asili nido, i relativi tassi di occupazione femminile sono inferiori alla media. In quest’ultima condizione si collocano le regioni del Mezzogiorno: la mancanza di servizi di cura si riflette in modo negativo sui livelli di accesso delle donne nel mercato del lavoro. L’Unione europea ha più volte sollecitato il nostro paese ad attuare politiche per il potenziamento dei servizi per l’infanzia. Tuttavia, ad oggi, su questo fronte poco è stato fatto: la spesa che l’Italia spende per le famiglie con bambini è circa l’1,4% del PIL, contro una media dell’OCSE del 2,2%. Peraltro, su 100 famiglie che fanno domanda per l’asilo nido 23,5 rimangono in lista di attesa: in Calabria e Campania la percentuale 6 Numero di posti disponibili su numero di bambini di età 0-3 anni. 86 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto delle famiglie in lista di attesa arriva rispettivamente al 39% e al 37%. La retta media mensile è in media di 302 euro, con punte di 403 in Lombardia e 413 euro Valle d’Aosta (Cittadinanzattiva 2012). Il divario tra Nord e Sud sugli asili nido si conferma anche per gli altri servizi di cura e assistenza alle persone. Strutture di residenza per anziani, centri per la disabilità e consultori familiari, tutte queste strutture sono sottodimensionate nelle regioni del Sud Italia rispetto alla domanda potenziale. Anche la sanità pubblica e i presidi socio-sanitari confermano la spaccatura del Paese. Un dato su tutto aiuta a dare il senso del divario tra Nord e Sud: nelle regioni del Sud l’11,1% della popolazione per curarsi deve migrare in un ospedale di un’altra regione, il dato scende al 4,4% nelle regioni del Nord Italia (I.stat - ISTAT). Conclusioni Al termine di questa lunga incursione nelle statistiche sul e del lavoro abbiamo qualche elemento in più per rispondere alle domande poste in premesse e che, in estrema sintesi, si possono condensare in un quesito di fondo: Cosa è per noi il lavoro buono e giusto? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo innanzitutto partire da cosa siamo: dall’identità e dai valori che guidano il nostro operato nella società. La radice di senso della nostra idea di lavoro buono affonda nell’intimo rapporto tra Dio e l’uomo. Dai tempi della Creazione siamo stati concepiti ad immagine e somiglianza di Dio e in virtù di questo la nostra primaria funzione, l’essenza ultima del nostro rispecchiarci in Dio, è che Egli ci ha conferito il potere di far crescere la vita. Partendo da qui, senza indugiare troppo nella saggistica sociologia e teologica, ogni cristiano nell’esprimere un giudizio sulle questioni sollevate in questo documento deve porsi una domanda: la situazione fotografata in quella tabella o in quel particolare grafico contribuisce a far crescere la vita? Oppure, al contrario, è un fattore che la inibisce? Il lavoro buono e giusto esprime la nostra valutazione e, al contempo, il nostro personale punto di vista sul lavoro. In esso si condensano le componenti dell’operosità umana che favoriscono la vita: le buone relazioni con i colleghi e il datore di lavoro, l’attenzione alla sicurezza e alla salute nei luoghi di lavoro e, in generale, alla qualità del lavoro, un giusto compenso, la valorizzazione e la crescita delle competenze, il riconoscimento del merito, la fine della flessibilità occupazionale sinonimo di precarietà, la denuncia e la lotta di ogni forma di vessazione e discriminazione nei posti di lavoro, il diritto ad un lavoro stabile e il dovere delle istituzioni a renderlo esigibile, il potenziamento degli strumenti di conciliazione dei tempi di vita e tempi di lavoro. Non si tratta di un elenco di buone intenzioni e di desideri. Parliamo di lavoro buono e giusto a ragion veduta, giacché per ogni punto indicato abbiamo detto la nostra e, soprattutto, ci siamo impegnati a renderli concreti. Penso, ad esempio, alle iniziative promosse per il lavoro dignitoso - ricordate in un recente articolo di Andrea Casavecchia (2014) che hanno portato alla pubblicazione del Manifesto per la flessibilità sostenibile (2002), due anni più tardi all’uscita dell’Agenda del lavoro (2004) in cui si è messo a tema il lavoro dignitoso nel nostro paese e infine il documento dal titolo Verso uno Statuto dei lavori (2009) in cui sono state avanzate proposte, con tanto di indicazioni operative sul come e dove recuperare risorse per attuarle, in materia di ammortizzatori sociali, pensioni, salute e alla sicurezza nei luoghi di lavoro, formazione e certificazione delle competenze, partecipazione dei lavoratori alla vita dell’azienda e alla conciliazione fra vita lavorativa e vita familiare. Queste iniziative di riforma e di riflessione fanno da cornice all’impegno che ogni giorno dispensiamo per la tutela degli ultimi, per le famiglie in difficoltà, per i lavoratori e le lavoratrici. I punti famiglia, le sedi di patronato, i circoli, le associazione sportive e le Acli service sono realtà presenti in oltre 2mila comuni. Questa rete di strutture non sono soltanto centrali di servizio, ma luoghi di elaborazione di proposte ed iniziative che nascono dall’ascolto e dalle risposte che diamo ai molteplici bisogni di migliaia di persone che ogni giorno arrivano da noi. Sono nate in questo modo le iniziative nazionali come Diritti in Piazza (2007) per sensibilizzare le persone sugli infortuni nei luoghi di lavoro e, di recente, il Primo rapporto delle Acli sui red87 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento diti dei lavoratori e delle famiglie (2013) per analizzare la situazione economica delle famiglie e avanzare proposte per una fiscalità più equa. E poi ci sono le tante iniziative locali, promosse dai circoli e dalle strutture territoriali, che spaziano da gesti concreti di sostegno alle famiglie all’organizzazione di convegni su temi caldi dell’economia; dall’organizzazione di manifestazioni di piazza per la promozione e la difesa dei diritti alla realizzazione di attività d’informazione e formazione sociale e culturale. Ora, chiarito qual è il nostro punto di partenza, proviamo a rileggere le statistiche illustrate in questo documento con il metro dell’essere uomini e donne in Dio Padre. Negli andamenti degli indicatori del non lavoro (disoccupazione e inattività) abbiamo incrociato la sofferenza di un pezzo consistente di persone che è fuori dal mercato del lavoro. Colpisce la situazione di 3,5 milioni di giovani cittadini condannati all’inutilità, poiché non lavorano né studiano o, ancora, la desolazione di una moltitudine di giovani, soprattutto donne e meridionali, che ha interrotto qualsiasi azione per la ricerca di lavoro. Persone rassegnate all’idea che per loro un lavoro non ci sarà mai. Per chi entra in queste statistiche, che la crisi ha reso ancor più verticali, la possibilità di concorrere a far crescere la vita si affievolisce a causa di un contesto avaro di prospettive. Allo stesso modo, sposandoci dal lato di chi è oggi nel mercato del lavoro, i milioni di lavoratori atipici vivono la loro condizione occupazionale in termini di precarietà occupazionale e di frammentarietà dei corsi di vita. Sono spesso lavoratori e lavoratrici che, dentro i luoghi di lavoro, si collocano ai livelli più bassi nella scala della qualità del Lavoro (Gualtieri 2014 - ISFOL) e, fuori dai luoghi di lavoro, gli è negato l’accesso al credito bancario. Per questo tipo di occupati, che le statistiche danno in crescita, il futuro è incerto e il presente è costellato da una vita lavorativa intermittente, che si snoda negli spazi “vuoti” - perché assenti gli strumenti di protezione sociale - che dividono le ansie per la cessazione di un lavoro e la speranza di trovarne un altro. Una condizione analoga è subita dalle cosiddette false partite IVA, ovvero la versione “indipendente” dei lavoratori atipici con la differenza che nel caso delle finte partite IVA viene meno quel poco di tutele e diritti comunque garantiti dai contratti atipici. Anche per questi lavoratori vulnerabili, atipici e false partite IVA, il diritto-dovere di farsi promotori di vita è svilito da un contesto economico e normativo che fa della precarietà occupazionale, dipendente o indipendente che sia, uno strumento per contenere i costi, non solo monetari, del lavoro. Nondimeno, il nostro impegno cristiano alla vita è mortificato dall’ampliamento di quella fascia di lavoratori che, pur percependo un reddito, vivono in una condizione di povertà. Queste persone sovente vivono in famiglie con figli in cui il loro è il solo reddito disponibile. Per far quadrare i conti nelle case di questi lavoratori si fa economia su tutto, rinunciando anche alle cure mediche e odontoiatriche. Su questo terreno, fatto di vulnerabilità socio-economica e precarietà occupazionale, cresce il numero di lavoratori stranieri che per la crisi ha visto cadere in frantumi il personale progetto migratorio: sono 100mla gli stranieri che hanno lasciato il nostro paese per una nuova emigrazione verso i paesi del Nord Europa (Istat 2014). Un lavoro che non consente di poter vivere degnamente o una vita, a cui è negata la speranza di un lavoro, è in antitesi con la nostra concezione di lavoro buono e giusto. Quest’ultimo è tale quando consente di guardare al futuro con serenità, con risorse e strumenti che permettano a ciascuno di costruire il personale progetto di vita e coronare le proprie aspirazioni. Da questo punto di vista, la proposta avanzata dalle Acli con la Caritas di un reddito d’inclusione sociale (Acli e Caritas 2013) va nella direzione auspicata per la costruzione di una società del lavoro buono e giusto. Ma un ruolo importante per virare verso un orizzonte di crescita e promozione della vita dovrà essere giocato dalle aziende. Nei mesi a cavallo tra il 2008 e il 2009 la crisi economica ha avuto un impatto devastante sul tessuto produttivo nazionale. Più di un analista economico si è affrettato a sottolineare che la tempesta economica del 2008 abbia scavato un solco profondo e incolmabile nella nostra economia. Intere comunità produttive sono state decimate dalla crisi. La chiusura di migliaia di micro imprese, espressione di una particolare vocazione manifatturiera, non rappresenta solo una perdita economica, ma un danno per un’intera comunità. Molte imprese sopravvivono alla recessione adottando strategie difensive: ridimensionamento e delocalizzazione 88 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto delle attività; alcune altre, però, reagiscono alla crisi investendo nella formazione e crescita professionale dei lavoratori, nell’innovazione di prodotto e in tecnologie ad alta connettività. Le imprese che investono nella formazione e nell’innovazione hanno tratto beneficio dalla crisi. Si è sottolineato, commentando la tabella 4, come i tipi d’impresa che crescono condividano il fatto di aver investito nella formazione del personale. La cultura manageriale per un lavoro buono e giusto è un fattore di crescita economica. Ci sono imprenditori consapevoli che per stare da protagonisti nei mercati occorra valorizzare e far crescere i talenti dei propri dipendenti. È, dunque, l’investimento nell’uomo che crea il lavoro buono e giusto. È su questa idea d’imprenditorialità che da quasi vent’anni il progetto Policoro, di cui le Acli sono partner storici, crea gesti concreti. Le oltre 400 esperienze d’impresa del progetto Policoro, nei territori difficili del Sud Italia, sono il segno tangibile di un investimento nell’uomo e per l’uomo, fondato sulla fiducia reciproca. Accordare fiducia all’altro genera lavoro buono e giusto: questo è l’insegnamento che si può trarre dall’esperienza di Policoro. Un insegnamento che, scorrendo i dati dell’accesso al credito delle imprese, non sembra abbia avuto seguito nel sistema bancario. Negli ultimi anni le banche hanno dato meno soldi alle imprese, anche a quelle con i conti in regola. In generale, da oltre un decennio le fotografie del sistema-Italia, scattate dai vari istituti pubblici di analisi socio-economica (Istat, Banca d’Italia, Isfol, Svimez, Uffici statistici dei ministeri, etc.), ritraggono un paese avvitato su se stesso. La crisi ha solo impresso in modo più vivido i freni che impediscono all’Italia di crescere e ammodernarsi. Il sistema dell’istruzione sconta ritardi nell’ammodernamento strutturale e infrastrutturale7 e la progressione dei cicli educativi appare disarmonica. In questa situazione l’impegno d’insegnanti, genitori e operatori è straordinario. Malgrado i limiti summenzionati, infatti, i risultati dell’ultima indagine PISA-OCSE ci dicono che non siamo arretrati nei livelli di apprendimento, pur rimanendo al di sotto della media OCSE. Chi esce dalla scuola e dall’università, con la legittima aspirazione di trovare un’occupazione, si scontra con un sistema di collocamento pubblico e privato incapace di dare risposte adeguate. La rete di collocamento andrebbe riformata e potenziata con risorse umane ed economiche. Rispetto alla media europea, in Italia si spende un decimo per il servizio di collocamento. Così come sono inferiori alla media europea i soldi investiti in servizi di asilo nido. Nel Sud gli asili nido pubblici sono insufficienti a soddisfare la domanda e ciò crea un’ulteriore barriera all’accesso delle donne al mercato del lavoro. Scuola, lavoro, impresa, credito, giustizia e welfare in questi ambiti d’intervento abbiamo evidenziato alcuni nodi che imbrigliano lo sviluppo di un ambiente socio-economico che accolga e favorisca la buona occupazione. In questa direzione, come accennato prima, le Acli hanno dato il loro fattivo e concreto apporto. Tuttavia, oggi c’è bisogno di aprire una fase di riforme, con il coinvolgimento di tutti, dalla società civile ai corpi intermedi, per la costruzione di una società nuova che sappia coniugare meglio sviluppo economico, coesione sociale e buona occupazione. A spingere per un cambiamento è la massa di persone che oggi vive nell’area del disagio occupazionale (disoccupati, inattivi involontari, cassa intergrati, lavoratori atipici, etc.) che ha raggiunto cifre considerevoli: sono 9,3milioni che sono in questa condizione (Centro studi CGIL 2014). Occorre dunque ripensare il nostro modello di sviluppo, partendo da un’idea di società che fa del lavoro uno degli strumenti principali per la crescita della vita, oggi vilipesa per causa di una crisi che ha segnato nel nostro paese un nuovo record: «Dal 2008, con l’avvio della crisi economica si inverte il trend di crescita della natalità e della fecondità in atto dal 1995: nel 2013 si stima che saranno iscritti in anagrafe per nascita poco meno di 515 mila bambini, circa 64 mila in meno in cinque anni e inferiori di 12 mila unità al minimo storico delle nascite del 1995» (ISTAT 2014b, p. 143). 7 Il Censis tratteggia un quadro desolante sullo stato delle scuole italiane. Su 41mila scuole il 60%, 24mila istituti, ha problemi alle strutture e agli impianti di diversa natura e, di questi, 9mila non sono a norma [Censis 201]. 89 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento Bibliografia ACLI E CARITAS (2013) Reddito d’inclusione sociale http://www.redditoinclusione.it BIANCO M., Giacomelli S. e Rodano G. (2012) Concorrenza e regolamentazione in Italia, Banca d’Italia, Questioni d’Economia, n.123, 4/2012. www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/QF_123/QEF_123.pdf CASAVECCHIA A. 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IX Censimento industria e servizi. http://censimentoindustriaeservizi.istat.it/istatcens/sala-stampa/ (2013d) Indagine conoscitiva sulle misure per fronteggiare l’emergenza occupazionale, con particolare riguardo alla disoccupazione giovanile. Audizione alla Commissione “Lavoro Pubblico e Privato” della Camera dei Deputati di Emanuele Baldacci e Laura Linda Sabbaddini. www.istat.it/it/archivio/94753 (2011) L’accesso al credito delle piccole e medie imprese in Statistiche Report www.istat.it/it/archivio/48889 LUCIFORA C. (2013) I working poor: un’analisi dei lavoratori a bassa remunerazione dopo la crisi in CNEL (a cura del gruppo di lavoro REF) Rapporto sul mercato del lavoro 2012-2013. www.cnel.it/53?shadow_documenti=23234. RENDA A., LUCCHETTA G. (2011), L’Europa e le piccole e medie imprese. Come rilanciare la sfida della competitività. 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L’area della vulnerabilità, infatti, è quella ove si situano le persone che si trovano progressivamente in situazione di precarietà, hanno una vita incerta ed una posizione sociale che non è garantita, finendo per ingrossare le fila del disagio sociale. Costoro sono i soggetti più a rischio di deprivazione e le loro traiettorie possono evidenziare cosa non funziona a livello individuale o sociale nella gestione delle crisi e se ciò porta o meno ad un impoverimento più radicale. La condizione della vulnerabilità genera smarrimento del presente e paura del futuro. È definita da incertezza e perdita di controllo, anche se non in presenza di un disagio conclamato. Soprattutto attraverso di essa è visibile il cambiamento nella natura dei rischi sociali: oggi i rischi tradizionali, che avevano meccanismi di correzione, sono sostituiti da altri tipi di rischio che diventano uno stato stabile della vita quotidiana. Come sostiene Nicola Negri, «la vita quotidiana è diventata “normalmente” insicura». Questo segna una potente frattura col passato. Nella società di tipo fordista la condizione di rischio tendeva ad essere associata prevalentemente all’assenza o alla perdita di lavoro. Di conseguenza, era la condizione di povertà e di deprivazione materiale a meritare attenzione e forme di protezione, che intorno ad esse vengono progettate ed istituite. La povertà era, quindi, soprattutto, se non esclusivamente, di natura economica, determinando la convinzione diffusa che il miglioramento degli indicatori economici Di cosa parliamo quando parliamo di vulnerabilità Ormai da tempo la realtà sociale ci pone davanti a fenomeni di incertezza ed insicurezza, caratterizzati da livelli differenti di disuguaglianza, povertà ed esclusione, non sovrapponibili a quelli del passato. Dunque, per meglio comprendere il contesto in cui ci troviamo ed agiamo, abbiamo necessità di approfondire questi temi e questi concetti. Occorre, in altri termini, aggiornare le categorie, ampliare le prospettive, allargare il campo di riflessione per meglio aderire al contesto sociale odierno. Nel quadro dell’attuale società della complessità si tratta sicuramente di rivisitare alcuni concetti problematizzandoli e risignificandoli almeno nella direzione della multidimensionalità. Al contempo è anche un problema di interpretazione, per cui si compiono scelte metodologiche fondate su presupposti di ricerca teorica ed empirica (che tengono conto del quadro di profonde trasformazioni sociali intervenute), in base ai quali alcuni aspetti e alcune dinamiche vengono in primo piano mentre altre sono meno considerate. Per tali ragioni si propone di adottare uno slittamento semantico maggiormente in grado di rappresentare la realtà odierna: dalla prospettiva della povertà a quella della vulnerabilità. La vulnerabilità definisce meglio di altri concetti le condizioni sociali, economiche e psicologiche che interessano ampi strati della popolazione nella società contemporanea, dominata da un’incertezza diffusa. Diverse sfere della vita degli individui sono attraversate oggi da fenomeni e condizioni di vulnerabilità, che finiscono per intaccare ed indebolire la cittadi1 Hanno collaborato Cristina Morga, David Recchia, Federica Volpi. 92 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto Il concetto di vulnerabilità si presenta come una risposta critica ai problemi sollevati. Come l’esclusione sociale tiene conto della dilatazione dell’area del rischio, e del moltiplicarsi di situazioni che anche se non riferibili alla povertà, generano sofferenza, insicurezza, paura, difficoltà ad affrontare i problemi quotidiani, ecc. Indica la natura pluridimensionale e processuale di tali situazioni, ma ha il vantaggio di non riferirsi a soggetti e dinamiche ai margini della società, bensì mette a fuoco problemi che riguardano i processi della riproduzione sociale stessa e che stanno pertanto al centro delle dinamiche evolutive della società nel suo complesso (Ires, 2005). Così definita, la vulnerabilità affianca alle condizioni soggettive di fragilità la rilevanza dei sistemi di relazione: dipende da quanto avviene nel cuore delle trasformazioni di ambiti centrali della vita collettiva. La ricerca sociologica sul disagio e sull’esclusione sociale ha nel tempo sedimentato una mole di riflessioni teoriche e di evidenze empiriche sul ruolo che nella determinazione dei processi di impoverimento svolgono i sistemi di relazione all’interno dei quali gli attori sociali sono compresi e che tuttavia, al tempo stesso, contribuiscono a strutturare e definire. Amplia la portata ed il significato del concetto di disuguaglianza. Secondo il sociologo francese Castel, la vulnerabilità comporta un indebolimento dell’inserimento dell’attore sociale nei principali sistemi di integrazione che corrispondono alla famiglia, al lavoro e al welfare state (Castel, 2007). Il lavoro, con la sua incapacità, rispetto a prima, di assicurare l’integrazione sociale dei cittadini; le reti sociali (primarie e secondarie) interessate da profondi mutamenti, corrose da logiche strumentali che ne alterano le finalità, appesantite da porzioni crescenti di rischio di cui gli individui devono farsi carico. Ma anche le ricerche sul campo condotte in Italia confermano la crescente insicurezza delle condizioni di vita e disegnano “un triangolo del rischio” di vulnerabilità costituito da: la disponibilità limitata di risorse di base (reddito, patrimonio, casa), la scarsa integrazione nelle reti sociali (relazioni occupazionali, familiari o amicali), le carenti capacità di fronteggiare delle situazioni difficili (istruzione, informazione, partecipazione sociale e politica, uso dei servizi pubblici) (Ranci, 2002). rappresentasse la principale protezione, individuale e collettiva, dal rischio povertà. A partire dagli anni ’70 del Novecento il quadro cambia e la logica per cui l’economia avrebbe progressivamente beneficiato la società entra in crisi. L’ambito di integrazione privilegiato è quello che manifesta la più ampia sofferenza: si dilata la zona grigia tra lavoro e non lavoro, l’attività lavorativa si riduce alla prestazione individuale, le carriere professionali diventano frammentate e discontinue… Tutto ciò, peraltro, si salda con altri fenomeni di profonda trasformazione sociale: la partecipazione femminile al mercato del lavoro, la pluralizzazione delle strutture familiari e l’aumento delle coppie a doppia entrata, la fine dei legami sociali tradizionali e percorsi di vita sempre più individuali, ecc. In questo mutato scenario la povertà calcolata solo su parametri di carattere economico risulta poco efficace nel dar conto delle situazioni di difficoltà possibili. Allora emersero altri concetti con i quali si tentava di rispondere all’esigenza di dar conto della pluralità dei fattori che determinano le difficoltà (culturali, sociali, spaziali, istituzionali, ecc.) e per afferrare la natura dinamica dei fenomeni di lacerazione sociale (Borghi, 1999): si diffusero i concetti di esclusione sociale, di matrice francese, e quello di underclass, di stampo anglosassone. I due termini sono utilizzati in ambito scientifico in quanto categorie moderne, poiché presuppongono l’evoluzione del contesto storico moderno e contemporaneo (e, in particolare in Europa, del welfare state), e in quanto categorie sociali e relazionali, hanno avuto il merito di spostare l’attenzione dalle caratteristiche delle persone alla fisionomia della società. Tuttavia non hanno esattamente corrisposto alle attese sia per l’uso improprio che a volte se ne è fatto, sia per le loro stesse ambiguità: entrambi i concetti, infatti, tendono a concentrarsi sul risultato finale, oscurando il processo. Con il rischio di ispirare politiche di semplice gestione della marginalità, centrate non sul problema della disuguaglianza e, quindi, su progetti di emancipazione, quanto piuttosto su un atteggiamento di biasimo sociale verso gli individui svantaggiati che nasconde problemi sociali di natura strutturale, neutralizzandone la valenza intrinsecamente politica (Procacci, 2002). 93 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento Come è noto, tale architettura era basata sull’obiettivo del pieno impiego per i lavoratori maschi (male breadwinner), con contratti di lavoro indeterminato e a tempo pieno, e definiva una società in cui la protezione dal rischio era assicurata dall’ingresso nel lavoro salariato, il quale non prevedeva solo la definizione di una remunerazione per una prestazione di lavoro, ma anche l’accesso a beni comuni quali l’istruzione, l’assistenza sanitaria, la copertura pensionistica, ecc., la cui organizzazione ed erogazione erano funzionali al sostegno e alla riproduzione di quella figura di lavoratore. Tale condizione, ovviamente, garantiva l’accesso indiretto a tali beni per i soggetti esclusi dall’occupazione formale (le donne - per la forte divisione di genere del lavoro esistente in questo modello -, gli anziani, i bambini) e l’accesso al consumo mediante il salario. Il passaggio dall’ “antico” regime lavorativo al nuovo, peraltro non ancora definito, si realizza in un quadro di forte criticità ed instabilità. Profondi mutamenti investono la cosiddetta proprietà sociale, tali per cui i beni ad essa afferenti cominciano a spostarsi sempre più nell’ambito di ciò che deve essere ottenuto attraverso i mercati, con un conseguente impoverimento sostanziale dei lavoratori salariati e di un potenziamento delle disuguaglianze sociali; la famiglia si trasforma, diventa a doppio reddito, scontrandosi con fattori culturali di resistenza, mentre cambia la struttura socio-demografica e aumentano i carichi di cura. A parte tutto questo, acute fibrillazioni si avvertono sul fronte del lavoro. Progressivamente si assiste (nel nostro Paese, così come a livello internazionale) alla riduzione delle forme di lavoro garantito e alla crescita assai rapida dell’area della precarietà lavorativa, dell’incertezza e dell’insicurezza sociale. Aumenta l’occupazione a bassa qualificazione, bassa remunerazione e scarsa protezione e stabilità; aumenta il numero di lavoratori atipici. Incertezza e insicurezza si estendono verso le aree di lavoratori stabili, dipendenti o poco qualificati, e agli strati intermedi e al ceto medio, prima integrati e sicuri, che rischiano lo scivolamento verso il basso: dal 2008 al 2013 in Europa gli occupati sono diminuiti di 5 milioni di unità (500mila solo in Italia). I tassi di oc- Le dimensioni citate concorrono a definire la vulnerabilità: tutti questi aspetti possono rappresentare risorse fondamentali per essere maggiormente protetti dal rischio di disagio, ma possono altresì - all’interno di una visione dinamica - trasformarsi in elementi di vulnerabilità. Indagare su tali indicatori (sociali, oltre che economici) aiuta a definire la capacità delle persone e delle famiglie di raggiungere un livello di vita accettabile, in relazione al proprio contesto territoriale, ad individuare fattori di spinta o di resistenza rispetto ai processi di impoverimento. Il lavoro come fattore di vulnerabilità Secondo Castel, la vulnerabilità è legata soprattutto alle trasformazioni del lavoro. Per un’associazione come la nostra, questa interazione, le sue dinamiche e i suoi esiti, sono di fondamentale importanza. Se, infatti, la vulnerabilità e la diffusione dei rischi possono essere ricondotte alla crisi delle tre grandi istituzioni su cui si era fondata la sicurezza della società industriale nella fase fordista (mercato del lavoro, famiglia, welfare), allora è di grande rilievo indagare come il lavoro intervenga in tali processi. Si è già accennato al fatto che nell’epoca citata il lavoro (con determinate caratteristiche) favoriva un certo modello di famiglia, che poi aveva dato luogo anche ad aspirazioni e pratiche (specialmente nel campo dei consumi), e si affiancava ad un modello di welfare assicurativo che garantiva contro i rischi. Poi sono intervenuti i mutamenti della struttura economica, della struttura demografica, i cambiamenti culturali e comportamentali. Si realizza un passaggio di regime lavorativo, intendendo con quest’ultimo non solo un modello di divisione del lavoro in senso stretto, bensì un vero e proprio modello di organizzazione sociale, che coinvolge simultaneamente l’organizzazione della vita quotidiana degli attori nelle sue diverse articolazioni (lavoro remunerato, lavoro informale, attività non remunerate; ma anche organizzazione dei tempi sociali, delle forme di consumo, ecc.) e le forme di protezione sociale ad essa complementari. Un “regime lavorativo” va infatti inteso come «un insieme coerente e duraturo di regole di vita sociale che consente la mobilitazione delle energie lavorative in forme tipiche» (Mingione, 1997). 94 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto perazione, la trasmissione (anche generazionale), la progettualità, la dimensione collettiva e relazionale ecc., sono negate e rimosse a vantaggio di forme sempre più marcate di competizione, prevaricazione, scarsa valorizzazione, più o meno blando sfruttamento. Le dimensioni profondamente umane del lavoro cedono il passo all’individualismo esasperato, descrivendo il quadro di un’economia dis-umana, il cui solo fine e movente rimane il profitto. Il lavoro, dunque, da fonte di reddito ma anche di identità e dignità, meccanismo di integrazione sociale che configura i diritti di cittadinanza, si tramuta sempre più - nella sua versione odierna - in possibile condizione di vulnerabilità. La mancanza del lavoro, ma anche la sua discontinuità e bassa qualità, si rivela essere uno dei principali fattori di rischio sociale in molte indagini condotte in merito. L’instabilità lavorativa, la precarizzazione dei rapporti di lavoro, l’eventualità di essere poveri malgrado il lavoro sono percepiti e vissuti come fattori di preoccupazione che influiscono sulla possibilità di progettare il proprio futuro e compiere scelte di vita importanti. Questa condizione riguarda particolarmente i giovani, che entrano nel mercato del lavoro con una precarietà lavorativa che tende a dilatarsi nel tempo, spesso senza trasformarsi in occupazioni stabili; ma è anche il caso dei lavoratori over 50 espulsi dal mercato del lavoro o che rischiano di esserlo e che faticano a reinserirsi o a riconvertirsi professionalmente; di lavoratori che sono gli unici percettori di reddito in famiglia, o dei lavoratori immigrati, specie se donne, occupati in mansioni di cura o a bassa qualifica. Le pressioni economiche inducono a non attendere un contratto stabile e ad accettare, spesso, qualunque condizione, dando luogo a carriere segmentate e incoerenti, che alimentano il circolo vizioso. È facilmente intuibile il peso rappresentato da tali condizioni nella vita delle persone, che, non a caso, di fronte a problemi di perdita del lavoro o di rischio conclamato, sviluppano problematiche di ordine psichico, come mostrano molti studi. cupazione italiani, già distanti dalla media Ue27 prima della recessione del 2008, si sono così ulteriormente allontanati. Per quanto concerne il mercato del lavoro scompare la capacità della quasi piena occupazione e la difesa dalla disoccupazione: quest’ultima assume i tratti della lunga durata nel 2013 il 5,1 % della forza lavoro nell’Europa a 28 era disoccupata da più di un anno; più della metà di questa (il 2,9 % della forza lavoro), risultava disoccupata da più di due anni. Entrambi i dati fanno registrare un notevole aumento dal 2012, quando erano del 4,7 % e del 2,6 % rispettivamente. La disoccupazione di lunga durata è più che raddoppiata dal 2008 (in Italia quella di lunga durata rappresenta più della metà della disoccupazione totale)2. Con l’avvento della crisi la situazione si è ulteriormente aggravata. L’aggiustamento dei mercati del lavoro europei è avvenuto, oltre che con la contrazione del numero degli occupati, anche attraverso l’espansione dei contratti ad orario ridotto. Contestualmente si è modificata la propensione a ricorrere al lavoro temporaneo. All’interno dell’occupazione continua a diminuire quella standard (-5,3% tra 2008 e 2012 e -2,3% nel 2013), mentre aumenta quella a tempo parziale e atipica (12,3% nel 2013, con contratti per lo più inferiori ad un anno, anche se si ripetono per anni). In crescita anche il part time involontario e gli orari disagiati3. Si definisce un’ampia area di precarietà e di disagio. Divengono evidenti ovunque le tendenze centrifughe delle «società del lavoro» del capitalismo avanzato (Kronauer, 2002). Tali meccanismi si riflettono, in primo luogo, sui redditi individuali e familiari, ma soprattutto aumentano le disuguaglianze sociali, facendo comparire nuove figure economicamente vulnerabili pur non essendo escluse dai circuiti del lavoro: i cosiddetti working poor, ovvero lavoratori poco qualificati ma spesso anche molto qualificati, con bassi salari e scarse opportunità di migliorare la propria condizione occupazionale. In generale le qualità intrinseche del lavoro, quelle alle quali si associa un valore positivo, come la coo- 2 Fonte dei dati: Eurostat. 3 Fonte dei dati: Istat. 95 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento Se si consente al sistema fondato sul mercato di procedere indisturbato l’esito sarà molto probabilmente una società sempre più polarizzata dal punto di vista del reddito. Non più una società caratterizzata da una stratificazione sociale ampia nella parte centrale come quella industriale tradizionale, con i gruppi intermedi grandi e gli estremi piccoli. «Bensì una società a “clessidra”. Nel triangolo alto di questa clessidra si collocheranno i ceti sociali ricchi, con famiglie a doppia carriera in cui l’elevato reddito e l’auto-realizzazione in carriere professionali si intrecceranno. Saranno questi “vincitori” a comprare i servizi dagli strati che stanno nel triangolo basso della clessidra: i “perdenti” che si arrabattano, mettendo insieme due o più bassi salari precari, e che non potranno mai fruire dei servizi che producono. […] Questo modello, non così dissimile dal modello degli Stati Uniti e non ancora diffuso in Europa, è un modello che produce una forte polarizzazione sociale. In esso il vertice basso della clessidra diventa non già luogo di trasmissione e di recupero di diffuse situazioni di benessere e robustezza economica, ma di riproduzione della precarietà e della vulnerabilità» (Negri, 2006, p. 18). Si pone un problema di uguaglianza e, in ultima istanza, di democrazia. Si pone il problema politico di cosa sia il diritto alla protezione, perché oggi si sta realizzando per molti l’assurdo di trovarsi in una condizione subordinata (quella che nel postfordismo garantiva almeno la sicurezza) e di essere costretti ad assumere rischi. Si pongono, in definitiva, complessi compiti di regolazione che il mercato da solo non è in grado di risolvere. La prospettiva della vulnerabilità sociale e le condizioni lavorative diffuse e prossime all’insostenibilità possono tuttavia creare la consapevolezza che le storie di disuguaglianza e marginalizzazione devono interrogare la sfera pubblica, puntando alla qualità sociale della vita quotidiana, ricreando spazi di confronto e di co-evoluzione tra i gruppi sociali. Guardare le cose da questo approccio può contribuire ad orientare anche in modo diverso le politiche per contenere le disuguaglianze nelle società contemporanee. Costruire certezza del primo impiego, corrispondenza fra ambizioni, competenze e mansioni, continuità lavorativa e contributiva, compensi equi, sono, ad esempio, Tale passaggio avviene, dunque, all’interno di un quadro dove desideri ed aspettative suscitate dal modello precedente entrano in conflitto con la perdita di opportunità e di condizioni non più garantite dagli assetti tradizionali. L’area della vulnerabilità sociale che si viene a creare - con tutte le sue conseguenze -, in cui il lavoro diviene una delle dimensioni principali, rappresenta “il” problema delle società attuali. Osservazioni conclusive L’esperienza di lavoro di milioni di persone negli ultimi anni vive un’invisibilità sociale. Le relazioni che si sviluppano all’interno del mondo del lavoro non emergono a livello sociale e ciò prelude al silenzio politico sulla questione. Tuttavia, la scelta di precarizzare il lavoro è stata pur sempre una scelta. Non si è generata spontaneamente ma è frutto di decisioni (anche politiche) consapevoli. In Italia la strategia è stata quella dell’abbandono del lavoro stabile, con il proliferare di forme contrattuali atipiche o che nascondono lavoro subordinato (come le partite iva), unita ad una politica di contenimento salariale. Per salvare l’economia reale, quella che produce valore e mette al centro le persone e il lavoro, c’è bisogno di un piano diverso a livello europeo e nazionale. L’impressione è che ci si continui a basare su un presupposto ideologico, diffuso nei sistemi ultraliberisti e radicato anche negli organismi della governance economica mondiale. Ma la flessibilità lavorativa, adottata ormai da anni, non ha prodotto maggiore occupazione. Anche perché non accompagnata dalla realizzazione delle promesse della flexsecurity. In compenso sono cresciuti impoverimento e ricattabilità di una parte della popolazione, e si è indebolito il ceto medio gravato da una sperequazione economica insostenibile dopo anni di crisi italiana e globale. Una redistribuzione delle risorse e delle opportunità è essenziale in un Paese in cui il 10% delle famiglie possiede circa la metà della ricchezza nazionale, operazione che, ove compiuta, definirebbe quale modello di società e quali gruppi sociali intendiamo promuovere. Finora il modello economico dominante ha prodotto vulnerabilità, se non voluta, almeno come esternalità negativa di un sistema. 96 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto strategie possibili di riduzione della vulnerabilità. Si può immaginare sia un altro mondo del lavoro, sia un altro sistema di welfare che operi in modo da fornire alle persone - per dirla con Sen - le necessarie capabilities, da dare pari opportunità di partenza. La società stessa può organizzarsi per dare risposte, come nelle prospettive dei cittadini per il bene comune e del welfare di comunità. Non si tratta di vagheggiare il ritorno ad una mitica quanto improbabile età dell’oro (peraltro densa di contraddizioni e non più ripetibile), ma di inaugurare una stagione di uguaglianza, di diritti e di pari opportunità nell’attuale differente contesto, perché questa è la cifra di una civiltà, e anche le relazioni che si svolgono nel mondo del lavoro contribuiscono a strutturarla e a strutturare la società. Bibliografia BORGHI V., Disoccupazione e rischio di esclusione sociale, in “Disoccupazione giovanile ed esclusione sociale”, La Rosa M., Keiseilbach T. (a cura di), Angeli, Milano, 1999. BORGHI V. (a cura di), Vulnerabilità, inclusione sociale e lavoro, Angeli, Milano, 2002. CASTEL R., La metamorfosi della questione sociale, Sellino Editore, Avellino, 2007. IRES, La vulnerabilità sociale in Emilia Romagna, Rapporto di Ricerca 2005. KRONAUER M., “Esclusione sociale” e “underclass”: nuovi concetti per l’analisi della povertà, in V. 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Ciò genera, prima ancora di un impoverimento economico e culturale, soprattutto un impoverimento personale e relazionale, creando una grave questione sociale. Secondariamente, ma i due aspetti sono correlati, i conti si devono fare con un lavoro spesso privo di quelle caratteristiche che lo rendono “dignitoso”, faticando a garantire sostentamento, mobilità, creatività e… libertà. A tal proposito sono parole forti ma condivisibili quelle di Luciano Gallino quando nel sintetico volume Vite rinviate. Lo scandalo del lavoro precario, sostiene che «la flessibilità […] costa rapporti familiari instabili. Costa fatica fisica e nervosa per il continuo riadattamento ad un nuovo contesto. Ma ancor più costa alla persona, per la sensazione rinnovata ogni giorno che la propria esistenza dipenda da altri. Costa la certezza amara che non è possibile guidare la propria vita come si vorrebbe, o come si pensa d’aver diritto di fare. Costa la comprensione che la libertà è alla prova dei fatti una parola priva di senso». La dimensione macro della precarietà e della disoccupazione In Italia, alcuni hanno un “lavoro normale”; molti hanno un lavoro flessibile, precario, nero o malpagato; in troppi il lavoro non ce l’hanno. Se è quindi vero, come afferma Henry Nadel, che “l’esercizio del lavoro comporta delle costrizioni fisiche, mette in opera le attività cognitive del lavoratore ma anche i suoi affetti e la sua psiche personale”, ciò non può non avere effetti dirompenti sulle relazioni familiari: sul fare, sul mantenere e sul vivere la famiglia. In tutta Europa, l’emergenza lavoro, fortemente sentita già prima del 2008, è stata acuita dall’avvento della crisi. Lo sviluppo e la crescita non ripartono: mentre tra il 2000 e il 2013 i volumi produttivi mondiali sono cresciuti del 36% e i maggiori profitti sono finiti in tasca ad un ristretto numero di persone, l’Italia con un -25,5% è in netta controtendenza, passando, nella classifica dei maggiori produttori del mondo, dal settimo all’ottavo posto. Da molti altri noti indicatori emerge che l’Italia, e in modo ancor più marcato il Mezzogiorno, è un Paese di vulnerabilità sociale, di disparità e di deficit di cittadinanza. In tale quadro i consumi stanno precipitando e la disoccupazione continua a salire, mettendo a dura prova soprattutto le giovani generazioni. Secondo l’Istat, nei primi tre mesi del 2014 il tasso di disoccupazione è salito al 13,6%, crescendo di circa un punto percentuale rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Ciò, ancora una volta, in controtendenza con i dati dell’Eurozona, dove rispetto all’anno precedente sono lievemente diminuiti, passando dal 10,9% al 10,5%. Ma la situazione è ben peggiore sul fronte giovanile: il tasso dei senza lavoro tra i 15 e i 24 anni in Italia è ormai arrivato al 46%, nel Mezzogiorno al 60,9%. La dimensione micro della disoccupazione e della precarietà Nell’attuale dibattito psicologico e sociale si sta timidamente inserendo il tema del precariato e della disoccupazione, inteso non solo come condizione lavorativa nella quale l’individuo viene privato delle sicurezze economiche e contrattuali, ma anche come stato di malessere psico-fisico che un numero crescente di persone è costretto ad affrontare in conseguenza di un lavoro incerto o assente. La dimensione psicologica e sociale del precariato e della disoccupazione è stata infatti fino ad ora sot98 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto migranti. Infatti, da una parte, l’uomo sente di perdere il suo ruolo di lavoratore; dall’altra, entra in crisi la sua identità di genere che non è preparata a gestire il nuovo ruolo imposto, un ruolo “meno maschio”. Per il genere femminile il problema della disoccupazione è altrettanto doloroso, ma è diverso. Innanzitutto le donne sono più “abituate”, essendo da sempre, nel mondo del lavoro, relegate ad un ruolo secondario. Ancora un quarto della popolazione femminile, dopo la nascita dei figli, smette di lavorare. In secondo luogo, le donne sono maggiormente protette dal rischio di perdita di autostima in virtù del fatto che assolvono ad una molteplicità di ruoli (cura della casa, degli anziani e dei piccoli) che attutiscono il senso di inutilità. Eppure anche le donne sentono pesantemente la frustrazione di non lavorare. Laddove abbiano invece un’occupazione, per loro è molto più difficile conciliare lavoro-famiglia con tutto ciò che ne consegue: carriera professionale a rischio, violenze sui posti di lavoro (da quelle fisiche alla folle richiesta di firmare in bianco il proprio licenziamento in caso di gravidanza) e gap salariale. Eppure, secondo i risultati di diversi studi sulla womenomics2 (neologismo che definisce la teoria economica secondo cui il lavoro delle donne è oggi il più importante motore di sviluppo), una maggiore occupazione femminile potrebbe accelerare, per diversi motivi, l’uscita dalla crisi; più in particolare, secondo la Banca d’Italia, se l’occupazione femminile raggiungesse in Italia il 60% auspicato dal Trattato di Lisbona (invece dell’attuale 47%) il Pil del Paese aumenterebbe del 7%. La situazione non è migliore per chi un lavoro ce l’ha ma è precario: secondo un’indagine del 2010 condotta dall’Eurodap (Associazione europea disturbi da attacchi di panico), su 300 persone (25-55 anni), il 70% ha dichiarato di trovare sul posto di lavoro la maggiore fonte di stress. Di questi, il 60% teme i colleghi mentre il 40% si definisce “assoggettato al capo” per paura di essere licenziato. L’aria che si respira nei luoghi di lavoro è dunque pesante e conflittuale, seppure spesso in maniera carsica e non espressa. Ciò fa tovalutata da una parte consistente di legislatori, incapaci di comprendere gli effetti che si determinano quando un individuo non intravede un futuro per sé e per la propria famiglia. Eppure, i mass media raccontano quotidianamente i suicidi e i gesti disperati di disoccupati, precari e piccoli imprenditori che non riescono a stare dietro alle attuali leggi di mercato che fanno sopravvivere solo la macro-finanza e le grandi multinazionali. Secondo Duncan Gallie che ha condotto nei Paesi dell’UE la ricerca Resisting marginalization - Unemployment experience and social policy in the European Union, restare privo di lavoro, non averlo o veder fallire la propria azienda è come “perdere il vestito che si porta abitualmente”. In queste situazioni si tende a riflettere sul perché di questa perdita, su chi potrebbe avere la colpa e sulle prospettive future. Le domande che il disoccupato si pone coinvolgono in gran parte la propria identità in un vortice di smarrimento e rabbia. Il disoccupato necessita di molte informazioni su questo suo nuovo “io”, ma quasi mai riesce a trovarle. Da un punto di vista economico, ma soprattutto psicologico, il disoccupato vive una condizione di “dipendenza costretta” che lo rende vulnerabile di fronte agli altri. Tutto ciò comporta un aumento di angoscia e collera che talvolta viene sfogata sull’”altro”1, talaltre su se stessi: dipende dalla personalità delle singole persone, dal contesto in cui si vive e dal genere. Dal II Rapporto EURES Il suicidio in Italia al tempo della crisi (2012), è emerso che l’incidenza dei suicidi maschili è del 78,5% contro il 21,5% di quelli femminili. Tale differenza di genere ha una spiegazione fortemente culturale. Infatti, l’idea che sia l’uomo ad avere il ruolo del breadwinner è ancora molto radicata. Tutto ciò nonostante si parli da anni di pari opportunità, dentro e fuori il mondo del lavoro. Scambiare i ruoli in famiglia crea ancora oggi molti conflitti, generando un aumento di fenomeni di violenza domestica, tanto nelle famiglie italiane, quanto in quelle 1 Numerosi sono i fatti di cronaca nera che hanno come protagonisti vittime ignare come il caso del carabiniere di Montecitorio ferito da Luigi Preiti o il sindaco di Mondragone minacciato con un coltello da Massimo Cirillo. 2 Cfr. Maurizio Ferrera, Il fattore D, Mondadori, Milano, 2008 99 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento sì che nel luogo del lavoro ci si trovi a portare avanti una duplice battaglia: quella contro i colleghi che vengono percepiti come figure ostili da cui difendersi, anziché figure positive con cui collaborare; quella con se stessi, cercando di mettersi continuamente in mostra per apparire “buoni lavoratori”, meritevoli di avere un prolungamento del contratto o nei casi più fortunati il contratto a tempo indeterminato. Inoltre, nel lungo periodo lo stato psico-fisico del precario depotenzia le sue risorse nel cercare nuove o alternative strade alla situazione che si è venuta a creare. Ciò significa che il precario/disoccupato, che deve continuamente rivedere i propri percorsi di attese, bisogni e desideri - inserendoli in una cornice strettamente quotidiana, quindi elementare -, rischia di non trovare più la forza per cogliere le opportunità di crescita e di non vedere più un proprio spazio entro cui costruire un progetto esistenziale di ampio respiro. Insomma, lo spazio vitale dentro cui il precario dà forma e corpo alla propria vita, diventa estremamente angusto, privo di stimoli e di fiducia. Il sociologo francese Alain Ehrenberg, nel suo libro La fatica di essere se stessi, in cui cerca di analizzare le ragioni dell’aumento della depressione della nostra epoca, ipotizza che è proprio l’attuale mercato del lavoro che, mettendo continuamente alla prova i lavoratori, ne rende difficile la gestione delle emozioni. Se nel passato, infatti, il cittadino entrava nel mondo del lavoro e faceva ingresso nella vita del Paese, attraverso specifici e rituali passaggi che avvenivano nell’arco di una vita (formazione, lavoro, pensionamento), nella nostra epoca tutte queste fasi sono fuse e a-temporali: formazione e lavoro si mescolano e rimescolano continuamente e l’individuo è costretto a cambiare registro e mettersi alla prova quotidianamente. In tale quadro, secondo Daniela Casciaro ci troveremmo di “fronte ad un mutamento nelle modalità di strutturazione dell’io”3 che fa sì che le persone, per riuscire a governare emotivamente le continue frustrazioni provenienti dai continui cambiamenti, si costruiscono molteplici personalità, dividendo l’io anziché ricercare un’unità armonica. È facile che le battaglie interiori dei disoccupati/precari provochino una crescente intolleranza nei confronti dell’incertezza e un carico di rancore e aggressività che i più tentano di reprimere nell’ambiente di lavoro ma che di fatto sfogano nelle relazioni della sfera affettiva, familiare e amicale. In particolare, questi momenti di smarrimento tendono a essere sfogati proprio all’interno della vita di coppia e della famiglia, soprattutto nei nuclei con figli, dove il senso di perdita di autorità, dovuto alla consapevolezza delle privazioni che la situazione del disoccupato o del precario ha portato ai figli e alla moglie (soprattutto laddove ci siano figli adolescenti), assume un significato molto particolare. Ma la flessibilità dell’attuale mondo del lavoro ha un impatto sulla famiglia anche da un altro punto di vista: fare famiglia mal si concilia con il concetto di instabilità, in quanto il lavoro può essere intermittente, la vita no. Nel nostro Paese la famiglia rischia di diventare una trappola per quell’alta percentuale di giovani che continua a vivere in casa dei genitori come in nessun altro Paese europeo. Interessante è il dato del Rapporto Annuale Famiglie Lavoro del 2013, sulla composizione percentuale dei giovani (20-29 anni) che vivono con coppie di genitori: ben il 40,7% ha un’occupazione e il 14,7% è in cerca di occupazione, il 13% è inattivo non studente, il 31% è inattivo studente. In questa mutazione di composizione familiare sono coinvolti i giovani che non acquisiranno mai l’autonomia, ma anche i genitori che si preoccupano della mancanza di prospettive per i loro figli e che sono costretti a cimentarsi con nuove dinamiche relazionali derivanti dalla compresenza di due generazioni di adulti che convivono sotto lo stesso tetto. Nella letteratura sulla famiglia è dimostrato come le dinamiche delle relazioni familiari possano essere influenzate da un ambiente sociale più o meno favorevole. Di fronte a pressioni esterne sfavorevoli le relazioni familiari possono prendere due strade: lo sfaldamento, o al contrario, il rafforzamento. In questo senso, la famiglia è definita da Eugenia 3 Cfr. http://news.biancolavoro.it 100 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto Scabini come “un’organizzazione complessa di relazioni di parentela che ha una storia e che crea una storia”. La famiglia si presenta, infatti, come un piccolo gruppo caratterizzato da una storia passata, che nel tempo si trasforma in base ad eventi esogeni (contesto), e endogeni (cambiamenti dei componenti familiari). Nel corso del ciclo di vita familiare si affrontano dunque eventi critici, che producono stress sui singoli e richiedono una ristrutturazione continua della famiglia. Secondo l’autrice gli eventi critici possono essere normativi quando sono prevedibili (nascita, uscita dal nido dei figli, pensionamento, ecc.) o paranormativi, quando sono imprevedibili (fattori stressanti psicosociali e ambientali). Questi ultimi sono altamente logoranti e creano un elevato grado di scompiglio nella famiglia, proprio per l’eccezionalità e la traumaticità dell’evento. Tra gli eventi stressanti imprevedibili della storia familiare sono stati identificati dalla quarta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi Mentali diversi problemi legati al mondo del lavoro come la disoccupazione, la precarietà; l’orario di lavoro stressante; le condizioni di lavoro difficili; l’insoddisfazione per il lavoro; il cambiamento di lavoro; il disaccordo coi superiori o con i colleghi. Ebbene, quando questi ultimi avvengono frequentemente e su un’ampia fetta della popolazione, gli effetti sulla società possono essere dirompenti. La precarietà della condizione professionale dei giovani, per esempio, comporta anche una precarietà degli affetti. Oggi legarsi sentimentalmente a qualcuno è facile, molto più difficile è rendere stabile la relazione, proprio perché spesso non ci sono prospettive economiche accettabili a partire dalle quali è possibile pensare di fondare un futuro solido e sereno. Tutto ciò ha ovviamente un impatto sulla società: l’inverno demografico italiano è sempre più lungo e rigido, avendo uno dei tassi di natalità più bassi del mondo (1,42 figli per donna) e uno dei più alti gap tra figli desiderati (2,1) e figli effettivamente avuti. Come afferma Annalisa Murgia4, rispetto alla stabilità e serenità della coppia, diventa particolarmente interessante prendere in considerazione anche la questione spazio/tempo: «la discussione sulla temporalità non può essere disgiunta dalla comprensione dell’incessante alternarsi quotidiano di presenze e assenze nello spazio da parte degli individui e delle collettività, che si muovono in una miriade di traiettorie spazio-temporali». Infatti, uno dei cambiamenti più importanti del lavoro contemporaneo è proprio quello legato alla destrutturazione degli orari di lavoro, che non comporta, come si tende falsamente ad affermare, una riduzione di orario, quanto piuttosto un’intensificazione e densificazione5 dello stesso, con un impatto devastante sull’organizzazione della vita familiare6. Questa a-temporalità e a-spazialità cambia le relazioni in famiglia, ma anche all’esterno, in quanto i diversi attori (colleghi, sindacati, associazioni) che le persone incontrano nella loro vita diventano spesso meteore o tutt’al più assumono contorni liquidi: si incontrano tanti attori quante sono le realtà lavorative (moltissimi, ma anche nessuno); le relazioni, quindi, non hanno tempo e spazio sufficienti per strutturarsi e liberare energie positive. Per un nuovo umanesimo del lavoro e delle relazioni L’impressione è che ben poco si stia facendo in direzione di un reale cambiamento; si discutono varie proposte ma intanto, a livello macroeconomico, l’impianto generale non cambia: il volume finanziario eccede sempre di molto il volume dell’economia reale e non sono ancora a regime strumenti e regole davvero efficaci per contrastare l’eventualità di un’altra grande fibrillazione. Un ripensamento dei paradigmi può portare a soluzioni adeguate ai tempi nuovi. Ci vuole un cambiamento culturale ancor prima che interventi diretti. Si intuisce che bisogna tornare a condividere un pro- 4 Cfr. Annalisa Murgia, tesi di dottorato, Dalla precarietà lavorativa alla precarietà sociale, 2008. 5 Cfr. Luciano Gallino, ll costo umano della flessibilità, Laterza, Bari, 2001. 6 Ciò accade perché il lavoratore rimane connesso ai propri dispositivi tecnologici anche dopo lʼorario di lavoro generando unʼintrusione continua fra mondo del lavoro e famiglia. 101 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento getto collettivo di Paese e di società, nel quale iscrivere il lavoro quale ambito fondamentale. Occorre gettare le basi per un nuovo umanesimo del lavoro costruito attraverso l’impegno della persona e la cooperazione di tutti gli attori in gioco: Stato, imprese, lavoratori, parti sociali, società civile. Serve soprattutto che la politica (nel senso più alto del termine) torni ad elaborare una visione, orientando l’attività economica verso le relazioni e il bene comune. La vita sociale per l’individuo è qualcosa di essenziale, legato alla sua natura umana. Essa può essere correttamente compresa solo se la si pensa come relazione. Di conseguenza essa trova le sue radici non nell’efficienza, ma nell’eticità. Nessuno di noi esisterebbe se qualcuno non si fosse preso cura di noi. La stessa dinamica dello sviluppo personale e sociale è risposta alle provocazioni che si ricevono dall’esterno. Vi è qui una certa fondazione etica della vita sociale. In quanto sono valori sociali quelli che permettono e favoriscono le relazioni. È il principio dell’interazione in base al quale un attore sociale produce sempre qualche cosa di concreto, che costituisce un riflesso delle sue relazioni con gli altri. L’attuale assetto economico ha creato un mondo ad alto rischio: crack finanziari, disoccupazione, fame; crisi della distribuzione, del clima, dell’energia, del consumo, dei valori, della democrazia. Tutte queste crisi sono legate tra di loro da un filo comune: la ricerca del profitto e la competizione. Quest’unica motivazione promuove un comportamento egoista e spietato che distrugge i rapporti umani, minacciando la pace mentale, sociale, ed ecologica. L’economia potrebbe invece operare in maniera umana ed anche più efficiente. In questo senso si può parlare di un nuovo modello di sviluppo che mette al centro la persona in relazione. L’economia del bene comune condivide e valorizza le stesse qualità comportamentali e gli stessi valori che rendono i rapporti umani ed ecologici soddisfacenti: fiducia, rispetto, cooperazione, solidarietà, condivisione. Il sistema del mercato libero si ispira invece alla mera ricerca del guadagno “senza se e senza ma” favorendo l’egoismo, l’avidità, la mancanza di rispetto e di responsabilità. Non è solo un difetto estetico ma in un mondo complesso e multivalente è una catastrofe culturale che divide le persone e la società nel profondo e in maniera corrosiva, minando i valori che sono le fondamenta dell’umana convivenza. In base ai valori si impostano gli obiettivi e si orientano le azioni. In questo senso, occorre un cambio di prospettiva, un ri-orientamento dello sviluppo che faccia della qualità sociale, della sostenibilità ambientale, della valorizzazione delle risorse immateriali, della logica bottom-up e partecipativa i suoi punti di forza e una risorsa per innovare radicalmente il modello attuale. In tale orientamento assume un’importanza fondamentale scendere sul piano micro-sociale. È ormai chiaro che la deregolamentazione del lavoro non ha ridotto i tassi di disoccupazione giovanile, né ha migliorato la situazione economica delle persone. Anzi, ci troviamo di fronte ad una segmentazione del mercato ancora più marcata, che ha prodotto ulteriori disuguaglianze, a danno, soprattutto, dei giovani e delle donne. La storia di una persona non è tracciata soltanto nel solco della sua biografia, ma anche in quello della società e delle istituzioni in cui vive. Attualmente il contesto di lavoro italiano richiede flessibilità ma non offre un welfare capace di proteggere le persone e le loro famiglie dai momenti di difficoltà che essa produce. Ecco perché occorre che la politica riparta dall’individuo, non pensando semplicemente ad una gestione burocratica del disoccupato quanto piuttosto alla dimensione umana delle persone, sviluppando misure e politiche del lavoro capaci di incidere sugli svantaggi di questo mercato e, in modo più generico, sull’esclusione sociale. Il passaggio dal “mercato” al “mondo” del lavoro è possibile se i legislatori avranno la capacità di prestare attenzione non solo agli uomini e alle donne in quanto lavoratori, quanto piuttosto ai diritti di cittadinanza che dovrebbero essere loro riconosciuti, a prescindere dalla loro presenza o meno nel mondo del lavoro. Come al solito è una questione di scelte. Quale modello di società vogliamo: un modello basato sulla rendita o sul lavoro? Un modello in cui si alimentano i grandi capitali a vantaggio di poche persone, con relazioni improntate unicamente al profitto o una società in cui il lavoro, in quanto giusto e dignitoso, crea un valore aggiunto nella famiglia e nella società? 102 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto BIBLIOGRAFIA AAVV, Rapporto annuale Famiglie e lavoro 2013, Italia Lavoro, 2014. BONICA L., Cardano M. (a cura di), Punti di svolta. Analisi del mutamento biografico, Il Mulino, Bologna, 2008. REYNERI E., PINTALDI F., Dieci domande su un mercato de lavoro in crisi, Il Mulino, 2013. BARBIER J.C., NADEL H., La flessibilità del lavoro e dell’occupazione, Donzelli editori, Roma, 2003. EHRENBERG A., La fatica di essere sé stessi, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2010. FERRERA M., Il fattore D, Mondadori, Milano, 2008. GALLIE D., Resisting marginalization - Unemployment experience and social policy in the European Union, Oxford University Press, Oxford, 20014. 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I sempre più allarmanti dati sulla disoccupazione, la straordinaria accelerazione dei processi di globalizzazione con i conseguenti flussi migratori, l’avanzare della precarizzazione del lavoro che non risparmia niente e nessuno, l’indebolimento dello stato sociale… sono realtà a tutti note. A fronte delle quali, assistiamo ad una progressiva riduzione del ruolo dei sindacati1 e insieme degli stati nazionali. Il trionfo delle dottrine neoliberiste che dagli anni ’80 ad oggi - senza soluzione di continuità - ha assegnato il primato delle ragioni di mercato sui diritti e la politica, hanno profondamente mutato la dinamica delle relazioni industriali, di cui - per fare appello ad una esperienza nota - la “vicenda Fiat” è stata, nel nostro Paese ma non solo, grandemente emblematica2. Nel nostro Paese si torna a parlare di lavoro - non solo di quello che non c’è - di diritto del lavoro, di par- tecipazione e di rappresentanza, di dialogo sociale e di democrazia. E si impone con urgenza ineludibile la necessità di ri-pensare - insieme ad un nuovo modello di sviluppo - nuove forme di tutela e nuovi, più sistemici e solidali, modelli sociali, adeguati al venir meno di riferimenti ideal-tipici di epoca fordista e keynesiana. Fino ad una ventina di anni fa, infatti, il lavoro ha rappresentato la molla per sviluppare titolarità e esercizio dei diritti sociali, ovvero ha funzionato - sostanzialmente e non formalmente - da fondamento della cittadinanza. Il nesso tra lavoro e cittadinanza, tra lavoro e diritti, basato su un “modello di lavoratore”3, oggi residuale, è allo stato attuale saltato. A questo salto - così radicale e definitivo - iscritto nell’esperienza concreta e quotidiana di uomini e donne al lavoro non è corrisposto un conseguente adeguamento dei sistemi di protezione sociale, un nuovo modello di cittadinanza e di rappresentanza, e perfino una riscrittura del diritto del lavoro, a livello nazionale e quantomeno - europeo. La tenuta di alcuni Paesi - per tutti, la Germania e la Svezia - a fronte delle crisi economica pure comune, ha fatto sì che si tornasse a guardare ad altri e diversi modelli di relazioni industriali e di organizzazione sindacale. Molto si è parlato del “modello tedesco”, anche in ragione delle straordinarie performance che occupa- 1 Si tratta di una rappresentatività non solo legata ai “numeri”, ma certo a quelli non indifferente, dato che negli ultimi venticinque anni il sindacato ha subito in tutto il mondo più industrializzato una consistente riduzione della sua rappresentatività sociale di cui sono prova i saldi negativi sui tassi di sindacalizzazione rilevati dalle statistiche internazionali e dagli studi comparati. 2 Fiumi di inchiostro sono stati scritti sulla vicenda, ciò che qui è importante rilevare è quanto le implicazioni degli accordi FIAT di Pomigliano e Mirafiori, pur condizionate da alcune specificità, vadano oltre le particolarità del contesto italiano perché “investono la capacità di tutti i sistemi contrattuali e sindacali, costruiti in contesti nazionali e sostenuti da attori pure nazionali, di funzionare nel contesto dei mercati globalizzati e di reggere le pressioni che tale nuovo contesto esercita sugli attori del sistema, le parti sociali e lo stato nazionale... Nel contempo si sono moltiplicati i segnali di criticità degli stessi sistemi, a cominciare dalle spinte al decentramento delle strutture contrattuali e dalla rottura dei quadri di regolazione nazionale in molti ordinamenti europei, emblematizzati dai contratti di concessione e dalle clausole in deroga…” (Tiziano Treu, “Le relazioni industriali nellʼera della globalizzazione: gli accordi in deroga in Europa e la sfida ai sistemi contrattuali”, in Rassegna sindacale, 2011). 3 Salariato, maschio, adulto, assunto con contratto a tempo pieno e indeterminato, per lo più tutta la vita nella stessa organizzazione. 104 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto zione e sviluppo hanno avuto in Germania, mentre il resto dell’Europa - con qualche rara eccezione nei Paesi nordici - precipitava nella recessione o in qualcosa ad essa molto simile. Andiamo dunque a vedere i due modelli di relazioni industriali che in Europa hanno “resistito” alla crisi, per conoscerne le caratteristiche, le condizioni di realizzabilità e gli eventuali elementi di riproducibilità. Modelli di relazioni industriali e di organizzazioni sindacali in Germania e in Svezia riferimento cioè ai lavoratori iscritti ad un sindacato all’interno dell’impresa; l’altro di tipo elettivo, con riferimento a tutti i lavoratori dell’impresa, siano essi iscritti o meno al sindacato. La rappresentanza di tipo associativo ha normalmente una funzione di contrattazione a livello aziendale; mentre la rappresentanza di tipo elettivo ha soprattutto compiti di informazione e consultazione in determinate materie. Germania A grandi linee, si possono individuare almeno due diverse tipologie sindacali nazionali in base ai riferimenti prevalenti. Si parla allora di “sindacalismo di origine ideologica”, rispetto alle ideologie politiche (liberale, socialista, cristiana), come è ad esempio il caso di Italia e Francia. C’è poi un sindacalismo nato in riferimento alla controparte, di tipo contrattualista, detto anche “di mestiere”, come quello che si è sviluppato nel Regno Unito. Essenzialmente le relazioni tra le parti sociali nell’UE fanno riferimento a due modelli, anche se variamente nominati: - il modello conflittuale (o pluralistico-conflittuale o della corporate governance), di matrice anglosassone - e con sue proprie caratteristiche - diffuso nei Paesi latini e anche in Italia, anche se qui negli ultimi anni ha ceduto il passo o convissuto con il modello concertativo; - e il modello partecipativo o della co-gestione, diffuso in Germania, nei Paesi scandinavi e in alcuni del nord Europa. Naturalmente, sia le tipologie che i modelli - facendo riferimento a tipizzazioni - non si presentano quasi mai “puri”. Lo stesso vale per i due sistemi monistico e duale - attraverso cui prende forma la rappresentanza sindacale. Il modello del canale unico implica la presenza di una sola forma di rappresentanza dei lavoratori all’interno dell’impresa; il modello duale invece implica la presenza di due canali: uno di tipo associativo, con In Germania ci sono circa 7,4 milioni di lavoratori iscritti al sindacato, il 19% dei lavoratori del paese, un dato che dall’inizio degli anni novanta è crollato, con un calo di quasi 5 milioni di iscritti. La principale confederazione sindacale è la DGB (Deutscher Gewerkschaftsbund), che attraverso i suoi 8 sindacati di categoria rappresenta 6,15 milioni di iscritti, ovvero l’80% dei lavoratori sindacalizzati, la gran parte dei quali provenienti dal settore metalmeccanico4. Il sistema tedesco è a doppio canale: sono dunque previste forme di rappresentanza diretta dei lavoratori (Betriebsrat, comitati aziendali) in ogni azienda con più di 5 dipendenti. I Betriebsrat godono di diversi diritti e hanno delle funzioni specifiche rispetto alle rappresentanze sindacali. Essi svolgono un ruolo di confronto costante con l’azienda, godendo di diversi diritti di co-determinazione, nonché di consultazione e di informazione. È proprio la co-determinazione (Mitbestimmung) a costituire il cuore del “modello tedesco”, basato sulla negoziazione e cooperazione tra le parti. Il concetto di co-determinazione in Germania è stato introdotto già a partire dal 1951 a seguito di un referendum proposto dalla DGB che mise in luce come il 95% dei lavoratori del settore siderurgico e minerario erano disposti a scioperare per ottenere diritti di codeterminazione. Il governo fu così costretto ad intervenire introducendo per legge alcuni meccanismi che permettessero una partecipazione diretta dei lavoratori alle scelte aziendali. Il modello di governance delle imprese retto dalla Mitbestimmung non implica 4 La fonte utilizzata, rispetto ai dati e alla struttura organizzativa sindacale qui riportati, è il Dipartimento Internazionale della Cgil Lombardia. 105 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento che i rappresentanti dei lavoratori co-gestiscano l’impresa - come spesso impropriamente si legge - ma che certi progetti debbano avere il loro consenso. Questo processo di partecipazione dei lavoratori alle decisioni dell’impresa passa per due canali principali: i comitati aziendali e la presenza di rappresentanti dei lavoratori negli organismi dirigenti delle società. Questo secondo pilastro è la vera specificità del modello tedesco. In Germania, infatti, tutte le grandi imprese sono dotate di un consiglio di sorveglianza e di comitato di direzione, in cui siedono tanto i dirigenti dell’impresa quanto i rappresentanti dei lavoratori, che hanno così la possibilità di incidere sulle decisioni aziendali e di controllare l’operato del management. In linea generale, la misura di partecipazione dei lavoratori al board delle imprese è variabile dal 50% al 33%. Come molti analisti hanno evidenziato, i lavoratori e i sindacati hanno un potere limitato e minoritario rispetto a quello della proprietà, tuttavia possono esercitare un vero controllo dal basso in termini di informazione e di consultazione e il loro diritto di veto importantissimo nei casi di localizzazioni all’estero, chiusure di impianti, fusioni e acquisizioni aziendali è effettivo. La contrattazione collettiva, regolata per legge, è compito specifico delle rappresentanze sindacali e registra un tasso di copertura del 62% dei lavoratori del paese. Sono previsti due diversi tipi di contrattazione: salariale, che è quella più diffusa, e normativa, che stabilisce il numero delle ore di lavoro, il sistema dei benefit e le misure sociali che l’azienda deve garantire ai suoi dipendenti. La legge sulla contrattazione collettiva del 1969, oltre ai termini e alle condizioni entro cui il sindacato e le organizzazioni datoriali possono agire, stabilisce i periodi in cui è possibile scioperare, ovvero il periodo di pace sindacale da osservare durante la fase di negoziazione degli accordi. Il dibattito sulla partecipazione dei lavoratori all’impresa, la democrazia industriale e la democrazia economica. La confindustria tedesca tenta costantemente di restringere la co-determinazione, affermando che frena la competizione5. Smentita da una recente ricerca condotta dall’Etui (European Trade Union Institute) - che confronta le performance di Paesi che hanno adottato forme di co-gestione e quelle di Paesi che ne sono privi, assegnando solo ai primi il raggiungimento dei cinque principali obiettivi del programma Europa 2020. La questione sembra trovare ulteriori smentite. Da una parte la Germania è riuscita ad incrementare la capacità competitiva sul mercato mondiale, imponendo strategie di politica industriale basate sull’esportazione, ciò è dovuto proprio al modello di condivisione grazie al quale lavoratori e sindacati collaborano allo sviluppo dell’impresa. D’altra parte, questo modello ha caratterizzato la Germania anche su un altro versante del mercato del lavoro. Se nel 2006 la Commissione europea ha inteso rispondere alle sfide del XXI secolo “modernizzando il diritto del lavoro” e proponendo la flexicurity come chiave di volta di quel processo, il modello seguito dalla Germania è stato affatto particolare: «ha infatti scelto di puntare non sulla flessibilità “ai margini” e/o “in uscita”, nell’ottica dell’adeguamento numerico della forza-lavoro al fluttuare delle esigenze produttive, ma sulla flessibilità nell’ambito del rapporto standard, al fine di assecondare sì l’adattamento quantitativo e/o qualitativo della forza-lavoro ma, al contempo, anche di mantenere saldo il legame tra lavoratori e imprese, valorizzando il capitale umano. Non è dunque il continuo turnover dei lavoratori, ma le modifiche di contenuto della relazione contrattuale in essere che permette all’impresa di adattarsi alle mutevoli richieste del mercato»6. Si tratta dunque di un modello con luci e ombre, in cui le possibilità non riescono ad esprimersi compiutamente e diffusamente, con il rischio che si moltiplichino invece fenomeni di «dumping sociale e la formazione di aristocrazie operaie contrapposte al resto del mondo del lavoro nel continente» (Alfonso, 2013). 5 La Confindustria italiana, nellʼaudizione alla Camera dei Deputati del 20/06/2012, ha sottolineato “il fermo dissenso rispetto alla previsione in materia di “democrazia economica” e “assolutamente contraria ad ogni imposizione per legge di forme di cogestione o codecisione…”. 6 Maria Teresa Carinci, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi, wp. 106 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto Un modello che fa dire a Bernadette Ségol, Segretaria generale della CES (Confederazione europea dei sindacati), che «se la Germania ha resistito meglio rispetto ad altri paesi è perché il suo sistema di contrattazione funziona… Non vogliamo però un sistema che precarizzi l’occupazione come è accaduto in Germania. Siamo interessati invece al suo modello di dialogo e di contrattazione, dal quale vogliamo prendere esempio…»7. Al modello tedesco della co-gestione si fa dunque riferimento e quasi appello per rispondere alla domanda di “democrazia industriale” e di “democrazia economica” che oggi più che mai sembra necessaria all’Europa - e agli stati nazionali - per uscire dalla crisi. Torna in campo la partecipazione dei lavoratori come elemento strategico, ma anche come garanzia democratica dei processi di sviluppo. Si tratta di un dibattito assai ampio che parte dalla contraddizione tra “la volatilità del capitale e la stanzialità del lavoro”, fino ad interrogare il ruolo e i meccanismi di governance dell’Unione europea, l’azione suppletiva e però impositiva delle Corte di Giustizia, accusata da molti di far sì che - in materia di lavoro - la legge dell’impresa sopravanzi e mortifichi quelle degli Stati nazionali e, con ciò, metta in atto la “liquidazione” del modello sociale europeo. Economia senza democrazia? Svezia La realtà svedese ben si presta a rendere evidente quanto i modelli di co-gestione siano nati - e presuppongono per il loro funzionamento - all’interno di sistemi istituzionali orientati “al contenimento delle disuguaglianze sociali e alla moderazione del conflitto sociale in nome di un’idea condivisa di interesse generale”, tanto che, a proposito della Svezia, si parla di “democrazia economica”. Autonomia delle parti sociali, partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali, politiche attive del lavoro e a sostegno della famiglia, un forte e universalistico sistema di sicurezza sociale sono gli ingredienti alla base del modello svedese. All’interno del sistema di relazioni industriali questo modello determina: monopolio della rappresen- tanza associativa degli interessi, alti livelli di affiliazione, centralizzazione delle politiche contrattuali, solidi legami fra associazioni degli interessi e partiti politici, orientamento cooperativo fra le parti, poteri sindacali di co-determinazione nei luoghi di lavoro (sanciti per legge nel 1976). L’essere il sindacato un soggetto centrale nello sviluppo dello stato sociale ha fatto sì che i lavoratori in Svezia godano di alcune tra le più alte prestazioni al mondo in termini di ferie, assistenza sanitaria, tutela dell’occupazione e formazione continua. I tassi di sindacalizzazione sono molto elevati: con il 70,4% la Svezia è il paese con il tasso più elevato d’Europa dopo la Finlandia. Non è però solo la bontà del modello a determinare la misura dell’affiliazione sindacale. In Svezia infatti si iscrivono al sindacato non solo i lavoratori, ma anche gli studenti e le persone in cerca di lavoro. Ciò è dovuto in buona sostanza al fatto che nel Paese vige il cosiddetto sistema Ghent, ovvero un meccanismo che consente al sindacato di gestire i fondi per l’assicurazione contro la disoccupazione. Questa modalità di gestione degli ammortizzatori sociali prende il nome dalla cittadina belga dove, già a partire dal 1901, venne introdotta per la prima volta. Tale meccanismo vige tuttora in Belgio oltre che in Danimarca e Finlandia. Questi paesi, sono gli unici in Europa che, negli ultimi tempi, hanno visto accrescere il numero degli iscritti al sindacato, in quanto il sistema Ghent incentiva fortemente l’iscrizione sindacale, specialmente nei periodi dove aumenta il rischio per i lavoratori di perdere la propria occupazione. Dal 1934 i sindacati svedesi amministrano una quarantina di fondi assicurativi contro la disoccupazione, finanziati pressoché integralmente dallo Stato. Il tasso di rimpiazzo del reddito è oggi del 75%; era del 90% fino al 1993. Coloro che decidono di prendere la tessera sindacale vengono automaticamente iscritti a uno dei fondi assicurativi contro la disoccupazione, le cui provvidenze sono accessibili previa osservanza di alcuni obblighi, come iscriversi al col- 7 Intervento al Congresso nazionale della CGIL, 6 maggio 2014. 107 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento locamento e rendersi disponibili a definire con essi piani di riqualificazione e reinserimento lavorativo. Tre sono le principali confederazioni sindacali, costituite su base occupazionale e professionale, che si rivolgono a tipologie di iscritti ben distinti: operai, “colletti bianchi” e professionisti. La più grande centrale sindacale del paese è la Confederazione dei sindacati svedesi (LO, Landsorganisationen i Sverige), che raggruppa 14 organizzazioni sindacali e rappresenta 1.502.285 lavoratori manuali, ha avuto fino a pochi anni fa e per quasi cento anni - come alcune Unions inglesi - uno strettissimo rapporto con il partito social-democratico svedese, con il quale vigeva un regime di doppia affiliazione. La legge sulla codeterminazione (Medbestämmandelagen, MBL) è il principale strumento normativo a garanzia della partecipazione dei lavoratori alla vita aziendale. La legge prevede che il datore di lavoro possa introdurre cambiamenti nella struttura societaria solo dopo aver avviato i negoziati con la rappresentanza sindacale. Stesso discorso vale per ogni tipo di decisione relativa alla determinazione delle condizioni di lavoro e al caso di licenziamenti collettivi. L’azienda è inoltre obbligata ad informare periodicamente le rappresentanze sindacali rispetto alla situazione finanziaria aziendale e sulle linee guida di politica del personale. La contrattazione collettiva in Svezia ha un ruolo cruciale nella regolazione del mercato del lavoro e un tasso di copertura che si aggira intorno all’88% dei lavoratori. L’idea di fondo è che le parti sociali siano in grado di regolare in maniera autonoma le condizioni di lavoro attraverso la contrattazione collettiva. Per questa ragione le relazioni tripartite non sono sviluppate. L’attore governativo ha solo un ruolo di garante non traduce i contratti in legislazione, come invece è prassi in molti altri Paesi. Sistema Ghent: condizioni e rischi Il coinvolgimento del sindacato nella gestione di un istituto fondamentale di welfare come l’assicurazione contro la disoccupazione - osservano molti analisti conferisce ai sindacati indubitabili rendite di posi- zione, esponendoli al contempo a qualche rischio di ordine sia politico che associativo. Il rischio che l’elevato grado di istituzionalizzazione possa portare a forme di svuotamento e di burocratizzazione, nonché d’appannamento dell’autonomia è segnalato da più parti, così come il paradossale verificarsi della situazione di voltare a proprio vantaggio una delle più devastanti minacce che possono incombere su un lavoratore dipendente e - conseguentemente - sul sindacato che lo affilia in quanto forza produttiva: la disoccupazione. Il sistema si regge sulla precisa volontà politica di salvaguardare quote rilevanti di potere sociale in favore delle organizzazioni sindacali, cui lo Stato attribuisce indirettamente il compito di incanalare il conflitto sociale. Oltre ad esporre i sindacati ai rischi di cui sopra, si inserisce qui il rischio di un ripensamento e dunque di un ritiro delle prerogative para-pubbliche riconosciute all’attore sindacale. In ogni caso, il sistema Ghent costituisce un cardine del modello di welfare svedese e le sue performance sono ritenute abbastanza soddisfacenti da parte di tutti gli attori coinvolti. Per i lavoratori innanzitutto, che hanno goduto di tutele sconosciute - in quelle proporzioni - dalla maggior parte dei loro colleghi europei; dai sindacati perché hanno accresciuto quasi ininterrottamente la loro forza associativa e con essa quella finanziaria, negoziale e politica; per i governi, che attraverso questo sistema hanno da un lato decentrato all’autorganizzazione sociale l’amministrazione di un segmento importante del welfare, dall’altro hanno indotto il sindacato - che gestisce l’amministrazione e la contabilità dei fondi - a rendersi politicamente più responsabile in materia di politiche sociali e del mercato del lavoro. Bibliografia CARINCI M.T., Il rapporto di lavoro al tempo della crisi, wp. ALFONSO G., Capitalismo europeo, nuova governance e movimenti sindacali, MicroMega, maggio 2013. TREU T., “Le relazioni industriali nell’era della globalizzazione: gli accordi in deroga in Europa e la sfida ai sistemi contrattuali”, in Rassegna sindacale, 2011. 108 LE ACLI E IL LAVORO IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto I SERVIZI AL MUTARE DEL LAVORO: IL PATRONATO di Marco Calvetto Le trasformazioni del lavoro sono il mantra di cui si nutrono da anni i convegni, i dibattiti e le proposte di legge di tutti coloro che sul lavoro hanno definito e costruito la propria identità. Le molteplici analisi, però, non sempre sono state accompagnate da altrettante proposte capaci di intercettare i bisogni emergenti: le persone hanno così tentato di rispondere in maniera autonoma e spesso sorprendente, rivolgendosi anche a strutture e servizi che di lavoro si occupavano spesso solo indirettamente, ma che godevano di un tasso di fiducia superiore rispetto ai tradizionali luoghi deputati alla tutela del lavoro o alla gestione delle politiche del lavoro. A tale processo può essere ascritta la progressiva strutturazione, ad opera del Patronato, dell’Ufficio Lavoro Acli e dal 2012 dello Sportello Incontra Lavoro. Se la domanda crescente è stata una delle ragioni fondative dell’Ufficio Lavoro, alla promulgazione della legge di riforma degli enti di patronato (l. 152/2001) si deve attribuire il progressivo cambiamento di prospettiva di un ente che fino ad allora si occupava prevalentemente di previdenza. A partire dal 2004, quindi, nasce il cosiddetto “Progetto Lavoro” con la duplice finalità di offrire tutela ai lavoratori a fronte dei cambiamenti produttivi, sociali ed economici in atto e di dare un’opportunità di riflessione al sistema Acli sul mondo del lavoro. A partire dagli anni ’80 i cambiamenti del lavoro cessavano di essere un motore della trasformazione sociale e sempre più il lavoro veniva ridotto alla dimensione privatistica delle persone. Le molteplici riforme succedutesi hanno aumentato l’incertezza e la confusione dei lavoratori senza però incidere sui problemi strutturali del mercato del lavoro, mentre le organizzazioni di rappresentanza perdevano progressivamente di rilevanza fra i lavoratori: la solitudine dei singoli si è sostituita ai progetti collettivi. Questi fattori, ampiamente analizzati, raramente hanno visto l’evolversi di una nuova visione del lavoro. Gli attuali 35 Uffici Lavoro del Patronato, dislocati in maniera omogenea sull’intero territorio nazionale, registrano quotidianamente le conseguenze dei cambiamenti del lavoro sulle singole persone, le paure, le aspettative, gli aspetti di fragilità aggravati oggi dalla situazione economica del Paese. In tal senso l’Ufficio Lavoro (in origine “Progetto Lavoro”) rimane sicuramente un osservatorio privilegiato, seppure ancora in una fase di sperimentazione da due punti di vista: il primo, interno al Patronato, riguarda l’organizzazione dell’attività in sinergia con l’attività istituzionale e la capacità del Patronato di organizzare un’attività commerciale no profit; il secondo, più di sistema, attiene alla capacità di inserirsi maggiormente, integrandosi, nella realtà associativa delle Acli. Da questo specifico punto di vista riportiamo di seguito alcune analisi e suggestioni derivanti dai dati dell’attività svolta nel corso del 2013. Le attività dell’Ufficio Lavoro Nel corso del 2013 circa 9000 persone hanno usufruito dei servizi dell’ufficio lavoro. Pur risultando ancora un’attività non diffusa capillarmente sull’intero territorio nazionale, resta il dato di fatto che settimanalmente circa 200 persone si recano presso gli sportelli del Patronato Acli per una consulenza relativa al loro lavoro: un elemento che testimonia come il Patronato Acli si stia trasformando in un Patronato di lavoratori 111 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento più che di pensionati, soprattutto se a questo dato si aggiungono le oltre 200.000 pratiche di ASPI (ex disoccupazione), le 140.000 pratiche in materia di immigrazione, le 80.000 in materia di lavoro domestico e le oltre 10.000 in materia di intermediazione di manodopera. Un primo sguardo d’insieme alle attività conferma in buona sostanza la situazione del lavoro in Italia: diminuisce la richiesta di tutela in costanza di contratto di lavoro, aumenta la domanda tesa a veder riconosciuti, per lo meno, gli ultimi crediti di lavoro. I sintomi di tale situazione sono ravvisabili nell’assistenza in caso di fallimento dell’azienda, triplicata nel 2013, e nell’aumento progressivo della richiesta di tutela in caso di licenziamento sempre più determinato da motivi economici. Tab. 1 - Andamento pratiche aperte 2011-2013 2011 2012 2013 2.948 3.065 2.867 Fallimenti 187 169 474 Licenziamento e cessazioni 582 660 673 Tutela contrattuale 4.497 5.601 4.975 Totale 8.214 9.495 8.989 Crediti di lavoro Le pratiche più rilevanti dell’ufficio riguardano l’attività di consulenza sul contratto di lavoro e sulla cessazione dello stesso. In totale le consulenze rappresentano oltre il 40% delle pratiche aperte, precisamente il 44% nel 2011, il 49% nel 2012 ed il 47% nel 2013. In termini assoluti l’attività di informazione e consulenza nel corso del 2013 è sensibilmente diminuita. Ma tale diminuzione è da iscriversi all’avvio dello sportello Incontra Lavoro che ha assorbito la consulenza relativa all’informazione sulla costituzione del rapporto di lavoro e sul collocamento che risultano essere, infatti, le pratiche che hanno avuto una maggior diminuzione nel corso del 2013. A fronte di questa specifica diminuzione, il 70% dell’attività di consulenza del 2013 ha riguardato l’informazione generale sul contratto di lavoro: un dato cresciuto percentualmente di 7 punti, così come cresciuta percentualmente è la consulenza sull’interruzione del rapporto di lavoro. Anche osservando questo aspetto, quindi, si ribadisce che diminuiscono i nuovi contratti di lavoro, aumentano le cessazioni, ma soprattutto si evidenzia che chi ha un lavoro prova faticosamente a conservarlo anche a scapito del rispetto dei propri diritti. La grande richiesta di informazioni che non si trasformano in attività di tutela più specifica evidenzia per lo meno due situazioni particolarmente significative: da un lato la difficoltà delle persone ad andare oltre una prima informazione per ottenere un eventuale rispetto dei propri diritti a fronte della precaria situazione lavorativa, con la conseguente scelta di non voler rischiare di perdere ulteriore denaro, dall’altro un’esigenza, ormai diffusissima, di informazioni di base sul diritto del lavoro e sui contratti di lavoro. Le riforme succedutesi negli anni, infatti, hanno aumentato l’ignoranza e la confusione delle persone sul diritto del lavoro: le tradizionali agenzie che garantivano la sensibilizzazione e la formazione sul tema (sindacati; partiti; associazioni; circoli…) hanno cessato di essere un riferimento per i lavoratori o hanno spostato il loro asse di interesse. La domanda crescente di una prima informazione lascia trasparire che sarebbe quanto mai opportuno rilanciare un’attività di alfabetizzazione e di aggregazione sul tema del lavoro per tutte le fasce della popolazione, ma in particolare per i giovani e le fasce deboli della nostra società (donne, immigrati fra i primi). Il secondo gruppo di pratiche più significative è rappresentato, come detto, dal controllo delle buste paga e dal trattamento di fine rapporto. L’informazione e il controllo delle buste paga e del TFR rappresentano complessivamente oltre il 70% del totale dei servizi erogati. 112 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto Graf.1 - Principali tipologie di pratiche aperte 2011-2013 - v.a. Informazioni e consulenze Controllo buste paghe e TFR Altro La strutturazione progressiva dello sportello, con la conseguente crescita del tasso di fiducia nella competenza dei nostri operatori, va ricercata non tanto nel numero delle pratiche quanto nell’analisi dell’attività di tutela prestata. A riguardo, oltre la crescita delle consulenze di alto profilo, va ricordato il consolidamento delle vertenze avviate, cresciute nell’ultimo anno di un 10%. Tab. 2 - Andamento “servizi di tutela” - pratiche aperte anni 2011-2013 - v.a. 2011 2012 2013 Totale Consulenze 1.244 1.049 1.205 3.498 Conteggi 1.414 1.691 1.526 4.631 Vertenze 365 351 396 1.112 L’Utenza La nostra utenza è giovane, donna ed italiana. Prendendo in considerazione i dati degli ultimi 3 anni, la fascia d’età maggiormente rappresentata agli sportelli dell’Ufficio Lavoro è quella fra i 31 e i 40 anni. Un altro quarto è rappresentato dalla fascia d’età compresa fra 40 e 50 anni (24,45%). Gli under 30 sono passati nel giro di 3 anni dal 12% al 15% dell’utenza del servizio. Gli stessi 3 punti sono quelli persi dalla fascia degli over 60, passati da oltre il 16%, al 13% fra il 2011 e il 2013. La fascia 50-60 si mantiene costante intorno al 20% dell’utenza. I dati sull’età in conclusione non fanno altro che confermare che in Italia le riforme del lavoro sono state realizzate attraverso la riforma delle pensioni e che le riforme del mercato del lavoro hanno indebolito le tutele previdenziali dei lavoratori. Le donne rappresentano la maggioranza degli utenti, con un valore percentuale costante che si assesta fra il 58,60% ed il 60% del totale. Il 70% delle persone che si rivolgono all’Ufficio Lavoro sono italiane. Un dato che sottolinea ulteriormente come gli immigrati rimangono un soggetto debole anche fra i più deboli, accedendo meno a servizi di tutela: per una minor consapevolezza dei diritti, per una scarsa conoscenza del servizio, ma soprattutto per una maggior percezione del rischio cui sarebbero soggetti di questi tempi a fronte di un’eventuale vertenza di lavoro. Peggiorano le condizioni di lavoro e i più esposti al rischio sono anche i meno protetti. Infatti, gli immigrati che si sono rivolti allo sportello sono diminuiti nel 2013 del 5% rispetto all’anno precedente, mentre gli italiani sono cresciuti anche in termini assoluti. Entrando nel merito delle pratiche aperte, si può notare che, se il 70% degli utenti sono italiani, tale percentuale sale addirittura intorno all’85% per i fallimenti e all’80% circa per quanto riguarda la tutela contrattuale. 113 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento Graf. 2 - Tipologie di pratiche per nazionalità 2011-2013 (dato complessivo) - v.a. Interazione con pratiche istituzionali Fra i molteplici punti di vista idonei ad analizzare l’attività dell’Ufficio Lavoro, abbiamo scelto di fare un approfondimento rispetto alla sua integrazione con l’attività istituzionale, osservando in particolare quelle pratiche connesse ad una situazione lavorativa in essere. Il primo dato ha riguardato il numero di pratiche di disoccupazione/aspi che si sono poi trasformate in pratiche dell’Ufficio Lavoro nelle sedi in cui è presente il servizio. Il valore complessivo è in netto aumento, passando dalle 393 del 2011, alle 647 del 2012, alle 1.124 del 2013. Graf. 3 - Aperture di pratiche Ufficio Lavoro dopo Ds e Aspi 2011-2013 Nel complesso degli ultimi tre anni, gli utenti transitati dall’attività istituzionale all’ufficio lavoro sono stati oltre 10.000. Dei circa 10.000 utenti totali che in 3 anni sono transitati dall’istituzionale al progetto lavoro, 2.164 (pari al 21%), come detto, hanno richiesto una pratica di disoccupazione e 3.961 (quasi il 40%) un estratto contributivo. Un dato che attesta l’elevato numero di persone che si trovano con estratti non corretti e nella condizione di dover verificare ed, eventualmente, richiedere ai datori di lavoro (o ex datori di lavoro) spettanze retributive e contributive. Un fenomeno diffuso, che la crisi, tende a nascondere e a far tollerare e cioè l’elevata presenza di lavoro nero e grigio che continua a caratterizzare l’economia italiana. 114 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto L’esperienza dello Sportello Incontra Lavoro A partire dal 28 ottobre 2011 il Patronato Acli è anche un’agenzia di intermediazione autorizzata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Ai sensi della normativa vigente un’agenzia di intermediazione si occupa di raccolta dei curricula e delle vacancy, di orientamento, di preselezione, di matching, di promozione di percorsi formativi e di tutti gli adempimenti necessari per l’instaurazione del rapporto di lavoro. Attività che possono essere svolte in tutti i settori produttivi. La previsione legislativa compresa nella Legge n.111/2011, che ha individuato anche nei patronati, i soggetti idonei all’intermediazione lavorativa, si fonda sulla considerazione che in un mercato del lavoro sostanzialmente inefficace in cui l’informalità e le conoscenze personali rimangono le uniche chiavi di accesso al lavoro, può risultare vincente estendere la platea delle realtà che si occupano di mercato del lavoro coinvolgendo in particolare quei soggetti più diffusi sul territorio e che godono di un buon livello di fiducia presso la cittadinanza. Per quanto riguarda l’attività, nel corso del 2013 sono state realizzate circa 8.500 pratiche, il 75% delle quali riguardanti la raccolta di curricula (offerta di lavoro) e il 14% riguardante la raccolta di vacancy e quindi di domande provenienti da potenziali datori di lavoro (domanda di lavoro). Un dato interessante, che testimonia l’efficacia dello sportello è la percentuale di offerte di lavoro intermediate. Nel 2013 il tasso di collocamento del Patronato Acli si attesta intorno al 13%, tre volte superiore alla percentuale di collocamento dei centri per l’impiego pubblico. L’attività, svolta gratuitamente, a favore dei lavoratori, quale la raccolta dei curricula, l’orientamento e la promozione di percorsi di riqualificazione, rappresenta oltre il 75% del lavoro dei nostri sportelli. L’attività e l’utenza I dati sull’utenza confermano quanto ampiamente risaputo sul lavoro di cura anche se lo Sportello Incontra Lavoro registra alcuni segnali importanti di cambiamento, diretta conseguenza della trasformazione di questa tipologia di lavoro e della crisi economica del Paese: cambiamenti che al solito colpiscono i più deboli. Il lavoro di cura, come già detto, è un lavoro prevalentemente immigrato e femminile. Desta curiosità però rilevare come ai nostri sportelli tra chi cerca lavoro il 16% sia uomo, ma soprattutto che fra gli uomini 1 su 5 sia stato collocato attraverso il Patronato, contro 1 donna su 9. Altro elemento, che conferma questa lieve inversione di tendenza, riguarda il fatto che i contratti di lavoro stipulati attraverso lo Sportello Incontra Lavoro hanno riguardato per il 75% donne e per il 25% uomini, a fronte del dato sui nuovi contratti di lavoro stipulati attraverso lo Sportello Mondo Colf (e quindi non preceduti da una nostra attività di matching) che per il 92% ha riguardato donne. Graf. 4 - Attività dello Sportello Incontra Lavoro in base al sesso dell’utenza - 2013 115 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento Osserviamo che la crisi sta spingendo nuovamente anche gli italiani verso il lavoro domestico e di cura; si segnala che oltre il 22% dei curricula raccolti ha riguardato italiani. Gli italiani, tornando a rendersi disponibili nel mercato del lavoro domestico, hanno un vantaggio competitivo enorme nei confronti degli immigrati, alimentando la disoccupazione di questi ultimi anche in questo settore o costringendoli, spesso, al lavoro nero. L’aumento dell’offerta di manodopera italiana unita alla crisi economica delle famiglie che spinge verso il lavoro ad ore rappresentano il combinato disposto della crescita del lavoro italiano nel settore domestico dopo anni di diminuzione costante. Per quanto riguarda l’età di coloro che cercano lavoro circa il 60 % dell’offerta ha un’età compresa fra i 40 e i 60 anni d’età. Gli Italiani arrivano al 63% dell’offerta in queste fasce d’età. Dati che ancora una volta confermano quanto ampiamente risaputo e cioè che il lavoro di cura diventa l’unica possibilità di occupazione per le donne immigrate, ma anche per le donne espulse dal mercato del lavoro o che hanno intenzione di tornarci, magari dopo un periodo dedicato alla cura della propria famiglia. Non può lasciare indifferenti che esista una percentuale rilevante di persone al di sotto dei 40 anni disponibili a svolgere lavoro di cura o domestico e le oltre 1.000 persone al di sotto dei 30 che si sono rese disponibili al nostro Sportello Incontra Lavoro. Il ritorno dei cittadini italiani a rendersi disponibili nel mercato dei servizi alla persona e del lavoro domestico non rappresenta un cambiamento culturale e un positivo trend di qualificazione del settore, ma segnala che il settore, nonostante la rilevanza numerica e il valore sociale, continui ad essere percepito come “ultima spiaggia” e che la sua scelta risieda esclusivamente nel grado di necessità. L’attività del solo 2013 non permette elaborazioni ulteriori sul trend del fenomeno, conferma però i dati su quanto la crisi stia trasformando il mercato del lavoro, e il mercato dei servizi alla persona in particolare, e fornisce alcune suggestioni importanti per il Patronato e per il sistema Acli. Alcuni possibile percorsi Il Patronato svolge un ruolo fondamentale di mediazione sociale, di tutela e di promozione dei diritti di cittadinanza, ma non vi è alcun dubbio che la complessità della nostra società ha visto anche un positivo proliferare di soggetti che svolgono attività analoghe. Dentro un “mercato della tutela”, diventa fondamentale affiancare la “scontata” competenza con una proposta politico - culturale con la quale gli utenti possano identificarsi e riconoscersi. In quest’ottica si inseriscono alcune questioni che sarebbe opportuno tornassero ad essere tema di confronto e discussione sui territori. • La questione della cittadinanza. Rappresenta un nuovo campo su cui misurarsi con maggiore attenzione sia a livello locale, pubblicizzando l’attività dei servizi, sia a livello nazionale trovando modalità di dialogo e di possibile collaborazione con la Direzione specifica istituita presso il Ministero dell’Interno. • La questione lavoro. I contorti e contraddittori interventi legislativi che hanno accompagnato le trasformazioni del lavoro hanno contribuito in maniera notevole a ridurlo a materia “sconosciuta”. Se promuovere percorsi di conoscenza e di sensibilizzazione nelle nostre strutture, nei circoli, nelle scuole è una premessa fondamentale, non si può prescindere però dal tornare ad avere un pensiero forte di carattere politico e aggregativo sul significato del lavoro oggi. • La previdenza dei lavoratori domestici. La fotografia delle anagrafiche, le storie lavorative e la situazione contributiva dei lavoratori domestici aprono uno scenario terrificante sulle loro prospettive previdenziali e sulla questione sociale che si presenterà fra una decina d’anni. La promozione della cultura previdenziale obbligatoria operata dai nostri sportelli rischia così di diventare inutile, quando non offensiva, se non accompagnata da una prospettiva di futuro dignitoso che forse va cercata anche con nuove strategie. 116 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto • I servizi alla persona. L’attività dello Sportello Incontra Lavoro, oltre ad evidenziare le criticità delle famiglie e dei lavoratori, fa emergere con forza la mancanza di una politica pubblica nel settore. Politica in grado di razionalizzare le molteplici risorse oggi messe a disposizione dallo Stato, dagli Enti Territoriali, dalle famiglie e di far cooperare in maniera integrata e coordinata i servizi forniti dal pubblico, dal privato sociale e dall’assistente familiare. Oggi, una proposta del sistema Acli, integrato in una rete di soggetti, potrebbe rappresentare un impulso importante alla discussione, spesso rallentata da pregiudizi e progettualità poco aderenti alla situazione concreta del Paese. 117 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento I SERVIZI AL MUTARE DEL LAVORO: IL CAF di Paolo Conti Il lavoro è uno dei temi più urgenti su cui si gioca, o si tenta di giocare, la partita del rilancio economico dell’Italia. L’altro tema che con altrettanta frequenza riempie colonne di quotidiani, pagine web e approfondimenti televisivi è il Fisco, o in termini più pratici: le tasse. La crisi ha indubbiamente tracciato un solco emotivo profondo nella percezione, filtrata o meno dalle fonti dei media, dell’impoverimento della vita quotidiana, della mortificazione delle fasce deboli, della difficoltà di accesso al credito, degli scandali finanziari, dello spezzettamento e al tempo stesso della personalizzazione del lavoro, e della moria di aziende (anche sane) che talvolta, nel loro declino, accompagnano anche la scomparsa, in senso fisico, di chi fino a quel momento le aveva possedute (e magari create). Tutta questa “geografia” umana che si muove tra la porta di casa, le file ai Caf e alla posta, le scrivanie delle aziende e i reparti dei supermercati alla ricerca dell’offerta più vantaggiosa, la si può dunque sintetizzare nei due aspetti più complessi che rappresentano da un lato quello che lo Stato esige dal cittadino, cioè il pagamento delle tasse, e dall’altro lo strumento principe che dovrebbe permettere, fra le altre cose, anche il rispetto di un tale adempimento, vale a dire il lavoro. È condivisibile il principio secondo il quale la flessibilità nel lavoro non necessariamente comporta degli aspetti di negatività: la stessa mansione svolta dal lavoratore all’interno dell’azienda può essere di per sé flessibile nel senso di “versatile”, “dinamica”, esattamente come le diverse occupazioni possono essere cucite su misura del lavoratore. La tendenza, dunque, a personalizzare la “grammatica” delle prestazioni lavorative, o al tempo stesso a crearne di nuove nella scia di quello che offre il mercato della società in rete, è essa stessa un sintomo dinamico di flessibilità, in contrapposizione agli standard granitici del lavoro in serie. Tuttavia ci sono anche le ombre. A fine 2013 l’Istat rilevava in Italia un tasso di disoccupazione generale al 12,7%, con un incremento di 1,4 punti rispetto all’anno precedente. Il numero complessivo dei disoccupati era superiore ai 3 milioni, in aumento del 12,1% su base annua (in pratica oltre 350mila disoccupati in più). Oltretutto, assieme alla disoccupazione generale è cresciuta anche quella giovanile (fascia d’età tra i 15 e i 24 anni) toccando il tasso del 41,6%, in aumento di quattro punti rispetto al 2012 (il dato peggiore mai rilevato). Ma ciò da cui emerge la complessiva condizione di ristagno del mondo occupazionale è certamente la scia negativa prolungatasi nei sei anni dal 2007 al 2013, durante i quali gli occupati sono diminuiti di 1,1 milioni, mentre i disoccupati sono più che raddoppiati passando da 1 milione e mezzo a più di 3 milioni; anni in cui il calo dell'occupazione è stato esclusivamente maschile, mentre per le donne si è registrato un aumento di 65.000 unità. Rispetto a tutto questo i Caf possono essere - e in effetti sono - degli osservatori privilegiati, saggiando in prima linea le voci e le preoccupazioni di chi si rivolge agli sportelli operativi in cerca di una risposta. Voci rappresentative (in questo caso domande inviate al portale myCAF.it) possono essere ad esempio questa: “Sono dipendente di una società privata con contratto a progetto da settembre 2008 in scadenza a fine mese. Alla scadenza del contratto a progetto posso fare domanda di disoccupazione ordinaria? Ho i requisiti?”; oppure quest’altra: “Sono una ragazza madre di 32 anni, sono stata licenziata lo scorso mese di novembre dopo 2 anni di servizio. Ho chiesto la disoccupazione e gli assegni familiari, avendo il mio bambino da poco compiuto un anno, e mi sono stati rifiutati perché lo scorso anno ho aperto una partita iva per un progetto che di fatto non si è mai sviluppato. Non so più 118 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto che fare. Mi è stato infatti risposto che anche chiudendo la partita iva non ci sarebbe nessun effetto. Mi potete aiutare? Non riesco a trovare lavoro e penso che per un problema burocratico stiano negando dei diritti sacrosanti a me e al mio bimbo”. Su questo “panorama”, quindi, ha tentato di agire in un primo momento la Riforma Fornero, e tenterà adesso di agire il Jobs Act di Renzi. Cuore pulsante di quest’ultima riforma sono le nuove regolamentazioni in materia di contratti acausali a tempo determinato, smantellando di fatto quanto previsto dalla precedente riforma: infatti laddove la legge Fornero stabiliva una durata massima di 12 mesi per la stipula dei contratti senza causale, ecco che il testo di Renzi “rilancia” la durata da uno a tre anni, con la possibilità, in questi 36 mesi, di prorogare lo stesso contratto fino a cinque volte (il testo originario prevedeva addirittura otto proroghe). D’altro canto, l’elasticità conferita ai datori di lavoro nella stipula di questa particolare tipologia di contratti, presuppone una soglia massima del 20% rispetto al resto del personale in azienda, fatta eccezione per settori delicati e vitali come quello della ricerca scientifica. Dal lavoro passiamo così al Fisco. Anche quest’ultimo, come il primo, cambia pelle molto rapidamente. Mai come in questi ultimi anni, attraversati da manovre, contro-manovre e decreti Casa-Imu-Lavoro, la presenza del Fisco ha assunto uno spessore così ingombrante e incisivo nello scambio tra la pubblica amministrazione e il cittadino. Ora, considerando la percezione normalmente diffusa di un Fisco tutt’altro che agevole e molto poco “amico”, ecco che i Caf possono essere visti come una sorta di “banca dati” alla quale ricorrere per avere risposte sicure, semplificando così i propri doveri di contribuente. Proprio perché l’applicazione delle regole cambia in base alle situazioni di ognuno, i Caf, “terra di mezzo” fra Stato e cittadini (non a caso definiti “intermediari”), si inseriscono nella scia mutevole delle normative traducendo in prassi quotidiana il loro linguaggio ufficiale. Lasciando ora da parte il nutrito capitolo immobiliare, per il quale servirebbe un approfondimento specifico (dall’Imu alla Tasi, passando per il disegno del nuovo Catasto tratteggiato dalla delega fiscale), nel merito delle numerose novità che sono apparse in questi anni di crisi, alcune di esse hanno nella loro na- tura una predisposizione agevolativa nei riguardi del lavoratore. Quasi sempre i Caf vi ricoprono un ruolo attivo, che talvolta, però, può essere soppiantato dal datore di lavoro. Prima di focalizzare quelle già in essere, possiamo brevemente accennare a uno dei punti programmatici contenuti nella legge delega sulla riforma del Fisco, approvata a febbraio 2014, secondo il quale i maggiori proventi della lotta all’evasione convoglieranno nel cosiddetto “Fondo per la riduzione strutturale della pressione fiscale”, che sarà appunto un fondo duraturo nel tempo, e ne godranno probabilmente i contribuenti collocati nel primo scaglione Irpef (da 0 a 15mila euro), la cui aliquota impositiva dovrebbe ridursi dal 23 al 20 per cento. Veniamo adesso al presente. “Bonus Irpef” è ancora una volta la parola magica. Dalla maggiorazione delle detrazioni per lavoro dipendente introdotte con la manovra di Enrico Letta, che copriva l’ampia fascia di lavoratori compresi tra i 15.000 e i 55.000 euro, per un risparmio in effetti esiguo che poteva arrivare a un massimo di 14/15 euro in più al mese, si è passati al Bonus Renzi da 80 euro in più in busta paga tra maggio e dicembre per i titolari di redditi fino a 24.000 euro, con discesa fino alla soglia dei 26.000 euro. Dopodiché nulla più. Ora, in quella che principalmente è una novità che sortisce effetti soprattutto per i datori di lavoro che svolgono anche la funzione di sostituti d’imposta (visto che sono proprio i sostituti, tramite il ricalcolo delle ritenute, a erogare il credito degli 80 euro direttamente nello stipendio del dipendente), anche i Caf svolgeranno un ruolo di primaria importanza. L’appuntamento in questo caso è spostato alle dichiarazioni 2015 sul 2014, dal momento che fra i soggetti beneficiari del bonus Renzi figurano anche quelli che hanno perso il lavoro prima di maggio, o comunque tra maggio e dicembre 2014. Non solo, ma vi sono anche quei soggetti titolari di un reddito da lavoro dipendente che però, in assenza di un sostituto d’imposta tenuto a effettuare il conguaglio, non hanno potuto goderne nei mesi da maggio a dicembre. Se lo faranno quindi applicare richiedendolo nella dichiarazione dei redditi presentata agli intermediari con modalità specifiche ancora da stabilire. E in tema di contribuenti titolari di reddito da lavoro dipendente, ma comunque sprovvisti di un datore di la- 119 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento voro al momento della consegna della dichiarazione (perché licenziati), è logico richiamare l’attenzione su un’altra importante novità che già dallo scorso anno ha cominciato a essere operativa, vale a dire la presentazione del 730 senza sostituto d’imposta. Nel 2014, infatti, le porte del 730 senza sostituto si sono aperte anche per i contribuenti a debito (mentre nel 2013 tale opportunità era prevista solo per quelli a credito), completando così l’operatività di un’agevolazione chiaramente “lenitiva” nei confronti di soggetti che, trovandosi in possesso di redditi dichiarabili col 730, ed eventualmente di spese e oneri detraibili/deducibili, non avrebbero comunque potuto avvalersi dell’assistenza fiscale proprio perché non più occupati. Spostandoci invece dal 730 all’Isee, ritroviamo anche in questo caso una novità sostanziale che, fra le molte altre applicate nell’ambito della riforma dell’indicatore, contiene - analogamente alla dichiarazione senza sostituto - le medesime finalità agevolative nei confronti di chi dall’oggi al domani potrebbe trovarsi senza un lavoro. Fra gli aspetti peculiari del nuovo indicatore vi è infatti un’elasticità di fondo che permetterà di modificarlo in tempo reale sulla base degli eventi contingenti. Praticamente, a differenza di quanto permesso finora, sarà possibile ottenere una certificazione economica in funzione del reddito “corrente”, quindi più veritiera e aggiornata rispetto a quella che si otterrebbe facendo riferimento ai redditi dell’anno passato. Tale soluzione è stata evidentemente introdotta considerando tutti quei soggetti che pur avendo perso il lavoro, o subìto dei cambiamenti significativi nella propria situazione, avrebbero dovuto comunque rifarsi ai redditi e al patrimonio in corso al 31 dicembre dell’anno prima, secondo quanto stabilito dalle vecchie norme. Al contrario col nuovo Isee, laddove il patrimonio del soggetto sia effettivamente cambiato, sarà possibile aggiornare i vecchi valori e “scattare” una foto più aderente alla realtà. Infine, questa panoramica sui servizi fiscali connessi al lavoro può concludersi ponendo il lavoratore sotto una luce di positività. Facciamo quindi un accenno finale alla detassazione dei salari di produttività. Introdotto per la prima volta col Dl 93/2008, tale beneficio prevede l’applicazione di un’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle relative addizionali con un’aliquota fissa pari al 10%. Ora, se in relazione al 2013 l’importo massimo agevolabile era di 2.500 euro, e per poter applicare la detassazione era necessario non aver dichiarato nel 2012 un reddito superiore a 40.000 euro, nel 2014 la soglia per la detassazione è stata innalzata a 3.000 euro, ma il limite di reddito pari a 40.000 è rimasto invariato. Anche in questo caso, come nell’esempio del bonus Renzi, i Caf talvolta potrebbero fare le veci del sostituto d’imposta, laddove il reddito di produttività non sia stato già detassato nel Cud. Normalmente, infatti, la tassazione sostitutiva viene applicata dal sostituto d’imposta. Vi sono però alcuni casi in cui il lavoratore è obbligato, o comunque ha la possibilità di dichiarare il reddito di produttività nel 730, correggendo eventuali detassazioni non conformi oppure recuperando detassazioni non godute. Emerge dunque da questo, come dagli altri aspetti menzionati, la costante permeabilità dei servizi Caf nel solco delle normative. In buona sostanza i Caf sono chiamati (e non potrebbe essere diversamente) ad avere tempi di reazione immediati, proprio perché altrettanto immediata è la percezione del pubblico spesso mista a preoccupazione - riguardo alle novità che irrompono. Chiudendo idealmente il cerchio, potremmo allora riprendere il discorso, già accennato in apertura, sul pressing mediatico con cui giornali e televisioni hanno affrontato l’argomento Fisco. Il flusso delle informazioni è ormai capillare, se non ossessivo, e di fronte a questo il lavoro dei Caf non è altro che l’assorbimento di una forza d’urto che a fasi alterne riversa dubbi e necessità sull’onda emotiva dei cambiamenti in atto. Anche il timore acuito delle sanzioni è un elemento da non sottovalutare. L’immagine ambigua di Equitalia che è emersa in questi ultimi anni avrà forse contribuito a diffondere un sentimento di preoccupazione, rabbia o insofferenza rispetto agli obblighi fiscali. Questo per dire che il contesto di apertura al pubblico nel quale operano i Caf è soggetto inevitabilmente ai riflussi psicologici di tutto quello che i contribuenti assorbono fino a un attimo prima di varcare la soglia dell’ufficio. Sta quindi ai Caf essere pronti ad anticipare, incanalare e far defluire pacificamente la spinta della corrente prima che questa trabocchi. 120 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto I SERVIZI AL MUTARE DEL LAVORO: ENAIP - FORMAZIONE & LAVORO di Tino Castagna L’oggetto di cui si tratta, formazione e lavoro, è anche il nome della rivista dell’Enaip che dal 1963 accompagna la riflessione delle Acli su questo binomio, ragione d’essere dell’Enaip, ma anche uno degli elementi costitutivi e fondativi dell’anima delle Acli. Il titolo, quindi, è anche un omaggio a quell’esperienza e a quella rivista che, nei primi decenni, hanno prodotto una pregiata elaborazione culturale, intrecciata con importanti nuove pratiche didattiche e con la sperimentazione di una innovativa proposta formativa, impronta identificativa ancora effettiva nell’Enaip di oggi. Ma il risultato non si esaurì solo all’interno dell’Enaip, poiché la ricchezza dell’esperienza di quegli anni contribuì in modo rilevante a creare il primo strutturato sistema italiano di formazione professionale, definito nella legge quadro del 1978 e, in seguito, solo parzialmente realizzato principalmente a causa delle non sempre felici dinamiche delle autonomie regionali e della storica e generale disattenzione italiana al rapporto tra sistemi educativi e lavoro. Il richiamo alla storia, a partire dalla – per le Acli scontata, ma ugualmente geniale e anticipatrice – congiunzione di formazione e lavoro, serve a stabilire un’analogia tra due stagioni della storia italiana. In quella stagione di modernizzazione del Paese si affermarono, con il contributo decisivo dell’Enaip, le basi di un sistema di formazione professionale moderno. Oggi la sfida lunga della crisi obbliga a una nuova fase (ri)fondativa di molti dei sistemi che dovrebbero reggere la società e l’economia, tra i quali sicuramente quelli educativi e, specificamente, quello della formazione professionale. E, quando parliamo di formazione professionale, non intendiamo solo uno specifico ordinamento formativo particolarmente trascurato dalla politica, ma l’orientamento dell’insieme del sistema educativo. In gioco non ci sono l’adde- stramento a uno specifico impiego e una qualsiasi occupazione, ma anche e soprattutto il significato e il valore del lavoro, di tutti i lavori, che riguardano sia lo studente del liceo classico, sia l’allievo dell’Enaip, i quali dovrebbero ricevere un’educazione di uguale valore, come dovrebbero essere di uguale valore il riconoscimento sociale del loro futuro lavoro professionale e della loro cittadinanza. E con il valore del lavoro è in gioco non solo la coesione sociale, ma anche l’idea di umanizzazione della convivenza e dello sviluppo fissata nel primo articolo della Costituzione. In questa stagione è necessario fare quello che dopo il 1978 non fu possibile, creare un forte sistema di formazione professionale collegato al sistema produttivo e integrato nel complessivo sistema educativo, dentro una comune cornice disegnata anche dal valore – economico e non - e dalle virtù civili del lavoro professionale e della conoscenza, declinando il tutto in relazione ai cambiamenti globali da affrontare. È necessario fare anche delle scelte di priorità strategiche: la prima è quella che riguarda i giovani. In un Paese che ne ha pochi - e per fortuna ci sono i figli degli immigrati (non c’entra con la formazione, ma anche sì, ma è utile ripetere in ogni occasione che devono essere cittadini italiani) - e li tratta male nell’istruzione e nel lavoro, non c’è futuro, anche nel medio/breve termine, se non si inverte la rotta, a cominciare da quella dell’educazione, della formazione e del lavoro. Ovviamente l’educazione e la formazione devono prolungarsi lungo tutto il corso della vita, ma la formazione continua ha il suo fondamento in una buona formazione iniziale e in una transizione scuola-lavoro intesa come avvio di una carriera professionale, aperta a tutte le transizioni future, ma solida. Lo dimostra anche il fatto che a fruire delle non molte opportunità di 121 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento educazione permanente e di formazione continua siano i più forti dal punto di vista della scolarità e della posizione professionale. L’Enaip è in campo anche in questa stagione con il “solito” - ma aggiornato ai tempi - bagaglio di pensiero e pratiche che tengono assieme conoscenza, professione, lavoro, economia e società, soprattutto nell’ordinamento dell’Istruzione e Formazione Professionale (IeFP), ma non solo, perché l’Enaip partecipa anche al nuovo sistema dell’Istruzione Tecnica Superiore (ITS e IFTS) e continua anche a fare formazione rivolta ai lavoratori e ai disoccupati, oltre a offrire servizi per il lavoro per i disoccupati giovani e adulti Per tornare alla priorità giovani, l’Enaip forma nei corsi IeFP triennali e quadriennali, in circa 700 corsi, 14.000 allievi ogni anno, con esiti occupazionali lusinghieri. Purtroppo questa attività è concentrata nel Nord. La domanda di IeFP è molto più grande, ma la costante riduzione dei finanziamenti e il processo di desertificazione, che ha cancellato la formazione professionale regionale in molte regioni del Centro-Sud, privano molti giovani di un’opportunità unica. Questa mancanza non è certo compensata dall’offerta degli istituti professionali, prima fonte di abbandono scolastico nella secondaria superiore. Il circolo vizioso degli squilibri dei sistemi educativi e formativi e delle politiche del lavoro Le dinamiche delle complicate relazioni tra conoscenza, professione e lavoro, da una parte, ed economia e società, dall’altra, sono antiche come l’uomo organizzato in comunità, indotto – fin dalla convivenza nelle prime aggregazioni urbane - non solo a ingegnerizzare tecniche, ma anche a inventare tecnologie, a creare conoscenza per mantenere e sviluppare la comunità umana e a organizzare funzioni di trasmissione e sviluppo di saperi e pratiche. Ma non si è mai trattato solo di relazioni tecniche. L’uomo ha sempre avuto anche la necessità di dare senso e riconoscimento al suo sapere e al suo fare, inizialmente in un trascendente magico, poi spirituale ed etico, talvolta ideologico, al quale affidare la garanzia della riproduzione e dello sviluppo dell’organizza- zione sociale ed economica e, con essi, delle forme del potere e della coesione sociale, diverse a seconda del maggiore o minore tasso di centralizzazione della proprietà e dell’amministrazione pubblica. Nel tempo queste dinamiche si sono articolate, specificate e sviluppate attraversando graduali e lente evoluzioni e intensi momenti di accelerazione rivoluzionaria, lasciando sempre aperte le dinamiche tra lavoro, professione, organizzazione sociale ed economica e visioni spirituali, filosofiche ed etiche mettendo a dura prova i sistemi di trasmissione dei saperi e delle pratiche professionali; questi ultimi sistemi, per lo più, tendono a seguire, adeguandovisi, i cambiamenti economici e sociali, raramente riescono ad anticiparli o ad accompagnarli, come avviene invece nella ricerca scientifica e nell’arte più capaci di essere veicoli di anticipazione e di innovazione. Negli ultimi decenni le dinamiche delle relazioni tra conoscenza, professione, lavoro, economia e società sono state ulteriormente amplificate e in parte sconvolte da rivoluzioni tecnologiche prima impensabili, e da fenomeni come la globalizzazione dell’economia e della finanza. In Italia, più che in altri Paesi, queste rivoluzioni hanno, già prima della crisi, indebolito il lavoro e l’occupazione – soprattutto quella giovanile – attraverso il deficit di qualificazione in uscita dai sistemi formativi, il disancoramento dell’occupazione e della disoccupazione dalla qualificazione professionale, la frequente frammentazione della professionalità in tecnicalità e la fragilità del sistema delle imprese. È anche successo che alcune posizioni professionali si siano arricchite di saperi e competenze, ma più frequentemente il poco lavoro offerto ai giovani è di bassa qualità, soprattutto a seguito dell’attitudine difensiva assunta da gran parte delle imprese italiane di fronte alla crisi. E, infine, si misconoscono il valore e lo statuto etico, sociale e culturale del lavoro. Non sono molto diverse le opinioni, non certo sospette, espresse dalla commissione Europea nell’ultimo “esame” fatto all’Italia, all’allora nuovo governo Renzi, a fine marzo, raccolte nell’Occasional Paper 182 | March 2014 - Macroeconomic Imbalances Italy 2014. 122 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto La Commissione ha evidenziato non solo, come invece hanno fatto i media italiani, gli squilibri di bilancio e di debito pubblico. Ha dedicato lunghi passaggi a L’accumulo di capitale umano, così riassunti nelle conclusioni di quello stesso Paper: «L’accumulazione di capitale umano dell’Italia non è in grado di adattarsi alle esigenze di un’economia moderna e competitiva. L’Italia ha la quarta percentuale più elevata di popolazione con soltanto un’istruzione di base e la percentuale più bassa con istruzione terziaria nell’UE. La segmentazione del mercato del lavoro, un passaggio difficoltoso dalla scuola al lavoro e una struttura salariale favorevole ai lavoratori anziani sono indice del fatto che la crescita e l’aggiustamento a rilento gravano in larga misura sui giovani e determinano scarsi rendimenti degli studi rispetto al resto dell’UE. Le carenze strutturali del sistema di istruzione, tra cui l’elevato tasso di abbandono scolastico durante i primi anni di istruzione sia secondaria che terziaria, nonché la scarsa partecipazione ai programmi di apprendimento permanente contribuiscono ulteriormente al divario di competenze dell’Italia. L’elevata proporzione di settori economici con un livello di tecnologia medio-basso è sia un’ulteriore causa che un risultato di tale situazione». Dopo le criticità dei sistemi formativi e del mercato del lavoro, in altri passaggi “l’accusa europea” si occupa del deficit di produttività, così denunciato nelle conclusioni: «Nonostante il miglioramento della regolamentazione dei mercati del lavoro e del prodotto, gli ostacoli rimanenti alla concorrenza, le inefficienze della pubblica amministrazione e del sistema giudiziario e le carenze in materia di governance impediscono la riallocazione delle risorse verso imprese e settori produttivi. L’insufficiente sviluppo dei mercati dei capitali rallenta ulteriormente l’assorbimento e l’innovazione tecnologica”, senza dimenticare il deficit di competitività internazionale “ostacolata da una specializzazione merceologica sfavorevole e da un’elevata percentuale di piccole imprese con una posizione competitiva debole sui mercati internazionali». Ce n’è anche per chi pensa che i lavoratori italiani siano iperprotetti: «L’indice sintetico dell’OCSE relativo alla legislazione a alla tutela dell’occupa- zione (Index for Employment Protection Legislation - EPL) mostra che la normativa italiana in materia di occupazione è ora meno rigida di quella francese e tedesca». C’è quindi un doppio deficit, quello di istruzione e formazione (la qualificazione professionale dell’offerta di lavoro) e quello di innovazione delle imprese (la domanda di qualificazione professionale delle imprese), tra loro collegati che nel nostro caso si sono avviluppati in un circolo vizioso. Ovviamente non sono la scuola e la formazione per se stesse a creare occupazione; le politiche economiche e industriali, gli investimenti e il rafforzamento del sistema delle imprese sono fattori necessari per l’occupazione. La loro efficacia, però, è piena solo se accompagnata da strategie di sviluppo – sostenibile e partecipato – di innovazione, di sincero spirito imprenditoriale e dalla valorizzazione del capitale umano. Gli investimenti puramente tecnologici non sono infatti sufficienti e l’innovazione tecnologica non produce conseguenze sostenibili sui risultati aziendali se non si accompagna ad un investimento sulla comunità professionale. Quanto al deficit di qualificazione dell’offerta di lavoro, il primo riferimento è all’alfabetizzazione della popolazione con un accenno alle radici lontane dei problemi, ai tempi lunghi di resa degli investimenti formativi e al confronto obbligato con la Germania. Nel 1861, al momento dell’Unità, il 78% della popolazione italiana era costituita da analfabeti totali e il 19,5% da semianalfabeti. Nello stesso periodo nella Prussia gli analfabeti totali erano solo il 20%. Ma è il caso di citare anche il 10% di analfabeti totali della Svezia di allora, per la comune influenza luterana. Per non abusare di citazioni illustri circa l’”etica protestante”, basta ricordare la rivoluzione dell’accesso alla lettura della Bibbia in lingua per cogliere le origini della differenza. Gli esiti dei confronti sono migliorati, ma l’Italia resta in fondo alle classifiche della dispersione scolastica, ancora attorno al 18% e ha squilibri educativi insopportabili tra le Isole e il Sud, che eccellono soprattutto nella produzione di intelligenze “da esportazione”. Impietosi sono anche i risultati di tutti i confronti 123 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento internazionali fatti dall’OCSE sulle competenze alfabetiche e matematiche. Nel 2011 l’Italia registrava la quarta percentuale più elevata di popolazione attiva (il 45%) in possesso del solo diploma di istruzione di base, con incidenza rilevante dello stesso basso livello anche per le generazioni più giovani, e la percentuale più bassa di popolazione titolare di un diploma di istruzione terziaria nell’UE. Più recentemente l’indagine PIAAC dell’OCSE, del 2013, ha collocato l’Italia all’ultimo posto dei Paesi considerati per l’alfabetizzazione e al penultimo per le competenze matematiche degli adulti, tra l’altro con risultati molto polarizzati. Solo il 3,3% degli italiani si attesta sui valori più alti della scala delle competenze per quanto riguarda l’alfabetizzazione (media OCSE dell’11,8%) e il 4,5% per la matematica (media OCSE del 10% circa). All’estremo inferiore della scala, il 27,7% degli italiani registra competenze di alfabetizzazione pari o inferiori al livello minimo (media OCSE del 15,5%). E i bassi tassi tra i giovani dicono che continua l’alimentazione del deficit di conoscenze anche per il futuro: il 19,5% dei quindicenni non comprende sufficientemente l’italiano e il 24,5% la matematica di base. Il secondo riferimento è alla formazione professionale per il lavoro, che deve essere anche educazione generale. In Germania nel 2011 il 79,2% della popolazione tedesca con più di 25 anni possedeva un titolo professionale, per il 69,1% conseguito nella formazione professionale del sistema duale. Il restante 30,9% possedeva titoli professionali di istruzione terziaria, universitaria e non. L’incidenza della formazione professionale è ancora più rilevante, se si considera che il 20% degli immatricolati all’Università ha alle spalle una formazione professionale nel sistema duale e il 20% di chi entra nel sistema duale viene da un diploma di maturità. La qualificazione nel sistema duale non è storia del passato, poiché l’incidenza dei qualificati nel sistema duale è relativamente stabile per le diverse classi di età. Circa due terzi di ogni classe di età continuano a passare attraverso la formazione professionale nel sistema duale, che contribuisce in modo decisivo ai buoni livelli generali di scolarità della popolazione. Nel confronto, comunque relativo e difficile per la diversa struttura dei sistemi formativi, la situazione italiana risulta debole in termini di formazione orientata al lavoro. Nell’anno scolastico 2013-14 i nuovi iscritti alla secondaria superiore si sono così distribuiti: 45% nei licei, 29% negli istituti tecnici, solo in parte assimilabili a percorsi professionalizzanti, 17% negli istituti professionali, luoghi educativi fragili e raramente professionalizzanti e solo il 9% (il 17% nelle regioni del Nord) nella formazione professionale vera e propria, compresi gli Istituti Professionali che adottano il modello IeFP. Quanto all’Istruzione Tecnica Superiore il confronto con la Germania tra allievi formati non ha senso, perché il rapporto è 1 a 100. Con ciò si segnala un buco nero nel sistema formativo italiano, quello della formazione tecnica di livello terziario, buco lasciato dalla mancata valorizzazione della formazione professionale, dalla interruzione della sperimentazione delle lauree triennali professionalizzanti della Riforma Berlinguer e dalla sostanziale mancanza di effettività dell’attuale formula 3+2 del Processo di Bologna cucinato in salsa italiana. Resta comunque certo che il livello terziario sarà il livello standard minimo di qualificazione dell’immediato futuro. Inoltre resta la necessità di assicurare ai giovani della formazione professionale una progressione formativa verso qualificazioni di livello terziario. Ma questo richiederà qualche evoluzione del sistema educativo generale anche a monte, considerando che l’Italia resta tra i pochi paesi europei ad avere ancora un’istruzione generale comune di soli otto anni, mentre altrove è di nove o dieci anni, con l’aggravante che i nostri giovani, provengono da un triennio di scuola media inferiore molto fragile. Sui deficit sul lato della domanda di lavoro qualificato resta da dire che spesso le imprese sembrano ricercare lavoratori addestrati per specifiche mansioni e tecnologie e, solo occasionalmente, desiderare giovani qualificati per professioni e per carriere professionali, probabilmente per le ragioni indicate nelle valutazioni della Commissione Europea. Questa attitudine delle imprese - soprattutto di quelle che nella crisi, vivendo alla giornata, hanno assunto atteggiamenti puramente difensivi per criticità strutturali o per intenzioni speculative - ha a che fare anche con 124 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto la richiesta di un’estrema flessibilità nell’impiego del lavoro. Lo ricordava recentemente Luciano Gallino in una sua pubblicazione: «oltre la metà del milione circa di contratti di lavoro co.co.co. o co.co.pro, che al 2010 risultavano lavorare di fatto come lavoratori dipendenti, aveva un titolo di studio non superiore alla licenza media» e «tra i 515.000 lavoratori che hanno compiuto missioni in somministrazione ovvero in affitto nel 2011, quasi la metà non andava oltre la licenza media e due terzi erano operai». Lo testimoniano anche gli operatori Enaip che interrogano le imprese sul loro bisogno di manodopera qualificata, ricevendo spesso risposte sconfortanti La qualificazione professionale nella transizione scuola/lavoro Nella comunicazione pubblica si parla soprattutto dei disoccupati più giovani, quelli fino a 24 anni, che, però, rappresentano una piccola quota della popolazione di riferimento e che, tra l’altro, almeno in parte, dovrebbero essere in formazione, a scuola o all’università. In realtà l’impatto della disoccupazione è più devastante nelle fascia di età 25-34 anni: nell’età attiva per eccellenza lavorano solo sei persone su dieci a livello nazionale, otto maschi su dieci al Nord e tre donne su dieci al Sud. Dal 2010 gli occupati della fascia di età 25-34 anni sono diminuiti di circa 800.000 unità e il tasso di occupazione è sceso al 60%. Era il 65% nel 2010 e il 70% nel 2007. Circa la metà dei quasi sette milioni di italiani senza lavoro (disoccupati e inattivi scoraggiati) hanno meno di 35 anni. Inoltre, non sempre chi è occupato svolge mansioni professionalmente qualificate e, in generale, non sempre occupazione e qualificazione combaciano. E questa situazione, se non affrontata con misure risolutive, è destinata a peggiorare, perché arriveranno nella fascia di età 25-34 anni i sempre più numerosi rincalzi di disoccupati delle precedenti classi di età. Ridare centralità alla cura della qualificazione professionale nella transizione scuola/lavoro è condizione per fare della transizione la fase nella quale i giovani avviano la loro carriera professionale. Da sole le usuali politiche e misure di sostegno all’occupazione – quelle a sostegno sia della ricerca di un lavoro da parte dei giovani sia alla propensione delle imprese alla loro assunzione in una qualche forma, di solito precaria – risultano insufficienti. Anche l’apprendistato risulta scarsamente efficace in termini di stabilizzazione quantitativa e qualitativa dell’occupazione giovanile, perché disancorato da un processo di qualificazione. Del resto il sistema italiano delle imprese è costituito per più del 90% da microimprese, spesso non in grado di investire sul loro futuro e di assicurare ai giovani strutturati percorsi di sviluppo professionale. Delle politiche per l’occupazione si usa enfatizzare allo stesso modo limiti e aspettative irrealistiche, non considerando le caratteristiche del tutto straordinarie della disoccupazione giovanile italiana. Anche il confronto con le analoghe politiche e misure di altri Paesi viene impostato in modo improprio: la differenza non consiste nella quantità degli addetti ai servizi per l’impiego, ma nelle funzioni messe in campo, in particolare formazione professionale e reddito per giovani in formazione. Con la Garanzia Giovani (Youth Guarantee) sembrerebbe affermarsi un dispositivo più integrato, che sistematizza un catalogo di servizi per il lavoro per i giovani. Ma, almeno all’inizio, anch’essa sembra non considerare molto la formazione e la qualificazione professionale. L’esperienza conferma che misure incentivanti tirocini e simili occasioni di contatto con il mercato del lavoro, persino assunzioni, non collegate alla qualificazione professionale sono poco efficaci per l’occupazione soprattutto nel medio-lungo periodo. Restare attivi sul mercato del lavoro dipende soprattutto dalla qualificazione professionale e da misure che mantengano attive le carriere professionali. Per questo la Garanzia Giovani rischia di essere la riedizione ricca (di finanziamenti europei) di misure già provate e finite nella palude dei “lavoretti” riservati ai giovani. Bisogna mettere in campo anche misure formative per i giovani disoccupati, nel quadro di un sistema di sécurisation, come dicono i nostri amici francesi, di “messa in sicurezza” dei loro percorsi, difficili , almeno dal punto di vista dello sviluppo di una carriera professionale e delle competenze. La disoccupazione giovanile colpisce più duramente chi è privo di qualificazione e il suo prolungarsi porta a perdere la qualificazione di chi l’ha. I dispositivi da mettere in atto non possono ridursi a procedure burocratiche, ma as- 125 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento sicurare la crescita professionale in un sistema di alternanza rafforzato da dispositivi di certificazione della qualificazione. È l’idea stessa di transizione da rivedere, perché non sia periodo di vuota attesa. Per questo la sécurisation deve integrare misure di continuità di sicurezza sociale, anche con forme di reddito di transizione attiva. La sintesi potrebbe essere costituita da un contratto di formazione work based per giovani disoccupati: formazione in alternanza, nella logica di sistema duale, tra imprese e istituzione formativa, per un periodo sufficiente a rafforzare o a recuperare una qualificazione professionale, sufficiente anche per le imprese a selezionare i propri futuri collaboratori. Mettere al centro il contratto di formazione per giovani disoccupati consente anche di valorizzare al meglio le misure di sostegno all’occupazione. Formazione work based A maggior ragione un contratto di formazione work based può fungere da ponte diretto tra sistema formativo e lavoro. Per rendere possibile una transizione diretta scuola/lavoro serve una formazione più orientata al lavoro, work based, come tutti, da Bruxelles e da Berlino, ci raccomandano. Ma sappiamo già dall’esperienza, pur limitata, dell’IeFP che a distinguere maggiormente la formazione professionale dalla scuola tradizionale sono la stabile cooperazione con le imprese del territorio e l’interazione con il mondo del lavoro. La formazione work based per eccellenza – perché più efficace - è quella praticata nella forma del sistema duale in Germania, in Austria e in Svizzera, dove circa due terzi dei giovani in formazione passano senza soluzione di continuità dal contratto di formazione al contratto di lavoro con la stessa impresa che ha partecipato alla loro formazione. È una ispirazione da accogliere e da tradurre in dispositivi praticabili nei nostri contesti, poiché il sistema duale non può essere tout court introdotto in Italia. L’ipotesi principale da considerare è quella di integrare nella fase conclusiva dei precorsi triennali e quadriennali IeFP (ma ciò potrebbe valere anche per gli Istituti professionali e Tecnici) un contratto di formazione duale. Per questo è utile ricordare gli elementi che definiscono strutturalmente il sistema duale, anche per recuperarne il più possibile di spirito e di soluzioni concrete nel nostro ipotizzato contratto di formazione duale e di transizione diretta scuola/lavoro: a) anzitutto “duale” significa che la formazione si svolge in due luoghi, nell’istituzione formativa e in azienda e non si riferisce ad una mera alternanza di momenti di formazione e momenti di lavoro, b) tra il giovane e l’azienda si stipula un contratto di formazione, non di lavoro, e il salario dell’apprendista è un reddito di formazione, c) l’azienda deve essere certificata come impresa formativa e avere formatori aziendali, tecnici che hanno ricevuto una formazione pedagogica, la stessa qualificazione dei docenti dell’istituzione formativa, d) spesso la formazione in piccole aziende è integrata da una struttura terza, normalmente un centro di formazione sovra aziendale del settore di riferimento, quindi con una configurazione a tre poli, invece che a due, e) la formazione è basata su un sistema di qualifiche che descrive in modo dettagliato il profilo professionale per competenze, la qualifica perseguita, il curriculum, i contenuti della formazione, le prove d’esame e le modalità di certificazione della qualifica, f) l’interesse dell’impresa di formazione consiste, oltre che nel prestigio sociale, nella selezione, formazione e fidelizzazione dei futuri dipendenti, g) in generale le parti sociali svolgono un ruolo essenziale in tutti i passaggi del sistema duale. Gli elementi sopra descritti non solo forniscono spunti per la nostra ipotesi contratto di formazione duale e di transizione diretta, ma anche inducono più in generale a rafforzare l’orientamento al lavoro della nostra formazione professionale. Nell’ipotesi italiana di contratto di formazione si potrebbe considerare la possibilità di un contratto a tre, allievo, impresa e istituzione formativa. Soprattutto si dovranno fare i conti anche con i noti limiti del sistema italiano delle imprese, solitamente lontane da tradizioni formative. Per questo toccherà alle istituzioni formative supportare le imprese nella loro nuova funzione formativa, che dovrà trovare opportune forme di certificazione. 126 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto La formazione per una conoscenza e per una competenza comprensiva È vero che in Italia bisogna cominciare tout court dall’invocare l’esistenza di un sistema di formazione professionale, nazionale e forte. È vero anche che, per essere efficace in termini di esiti occupazionali e per accompagnare gli attesi processi di innovazione nelle imprese, la formazione deve essere più work based e che tutto il sistema educativo deve essere più orientato al mondo del lavoro. Ma il valore e le virtù del lavoro professionale richiedono qualcosa di più della produzione di atti professionali e la formazione non solo arricchisce il bagaglio di metodi e strumenti per accompagnare i percorsi professionali, ma anche proietta, attraverso la sua funzione educativa, linee di umanizzazione del lavoro e dello sviluppo. E a queste linee che possono essere riferiti I sette saperi necessari all’educazione del futuro che Edgar Morin ritiene debbano integrare le discipline esistenti e stimolare lo sviluppo di una conoscenza atta a raccogliere le sfide della nostra vita professionale, culturale e sociale. Il primo è quello della conoscenza della conoscenza: bisogna insegnare che cosa è conoscere. Lo scopo è quello di evitare la cecità della conoscenza, fonte di errori e illusioni, insegnando a conoscere, mettendo alla base di ogni processo formativo l’imparare a imparare. Il secondo riguarda la pertinenza della conoscenza, contrapposta alla sua frammentazione nelle diverse discipline, «facendo posto a un modo di conoscere capace di cogliere gli oggetti nei loro contesti, nei loro complessi, nei loro insiemi». Il terzo sapere ha come oggetto la condizione umana: «a partire dalle discipline attuali, riconoscere l’unità e la complessità dell’essere umano riunendo e organizzando le conoscenze disperse […] mostrare il legame indissolubile tra l’unità e la diversità di tutto ciò che è umano». Insegnare l’identità terrestre è il quarto sapere e riguarda la conoscenza degli sviluppi della globalizzazione e il riconoscimento dell’identità terrestre dell’umanità, che vive una stessa comunità di destino, tutta esplicitamente messa a confronto con gli stessi problemi di vita e di morte. Il quinto sapere riguarda l’affrontare le incertezze e si esprime nell’apprendimento di strategie che permettono di affrontare i rischi, l’inatteso e l’incerto e di modificarne l’evoluzione nel corso dell’azione. «Bisogna apprendere a navigare in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezza». La comprensione come mezzo e fine della comunicazione umana è il sesto sapere fondamentale e costituisce una delle basi più sicure dell’educazione alla pace. Infine, settimo, c’è il sapere dell’etica del genere umano. «L’insegnamento deve produrre una antropo-etica» basata sul potenziamento congiunto delle autonomie individuali, delle partecipazioni comunitarie e della coscienza di appartenere alla specie umana. Non mancano altri elenchi e altre descrizioni di saperi, competenze e capacità (life skills, soft skills, competenze chiave, di base, traversali, sociali, personali….) che dovrebbero accompagnare l’attività (anche professionale) umana al di là delle tecniche. Tutto ci riporta sempre ad una formazione che non può che essere formazione personale e collettiva dell’uomo e essere intesa nel senso del pensiero filosofico e pedagogico tedesco della Bildung, “cultura animi”, una categoria dell’essere. 127 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento LA FORZA (DEL) LAVORO: UNA CAMPAGNA PER DIMOSTRARE CHE IL LAVORO NON È FINITO di Stefano Tassinari Vice Presidente Nazionale ACLI, Responsabile Lavoro Come dimostrano i pensieri e le esperienze che danno vita alle pagine di questo libro: il lavoro non è finito. Possiamo ancora dire e vedere che, pur essendo il grande malato di questa crisi, il lavoro è ancora una grande forza: civile e popolare, spirituale e materiale, di solidarietà e di sviluppo. Il lavoro da forza al progresso che la nostra Costituzione (art 4) ci chiede di costruire insieme, ognuno con le proprie attività o funzioni, con la propria azione sociale. Il problema è semmai sprigionare questa forza per vedersi insieme contro la crisi e per tirare fuori quella creatività che può farci valorizzare appieno le vocazioni e le prospettive di questo Paese. La forza (del) lavoro è la nostra campagna: - Vogliamo tornare a parlare con i cittadini, reimparare a convocarli per confrontarsi e provare a sostenere insieme lo sguardo pietrificante di questa crisi. - Vogliamo lanciare le nostre proposte, che non sono ricette magiche, ma cercano di dimostrare che per sconfiggere povertà e diseguaglianze, per riconciliarci con il futuro, occorre lavorare su più fronti ricreando una alleanza tra qualità dell’economia, qualità del lavoro, qualità della vita. Non esiste un primo tempo della crescita e poi potremo avere più lavoro e più solidarietà, ma esiste una comunità in cui crescono insieme, aiutandosi reciprocamente, la cittadinanza (senso civico, legalità, servizi che funzionano..) e la capacità di produrre ancora, con cose nuove e in modo nuovo (di produrre e redistribuire ricchezza, ricchezza sostenibile). - Vogliamo rimettere a tema la nostra capacità di riunire le persone per affrontare insieme i problemi, di promuovere i diritti e il lavoro attraverso tante esperienze di informazione e accompa- gnamento nei territori, che realizzano i nostri servizi, i circoli e le nostre associazioni specifiche. Il lavoro non è finito, così come non è scomparso il futuro come orizzonte di un mondo migliore, meno sazio e sprecone di quello che, nella nostra minoritaria parte di mondo, ci stiamo lasciando alle spalle. Un mondo che come un moderno re Mida ha voluto provare a trasformare tutto in oro, rendendo in ultimo la nostra esistenza collettiva più sterile. Ma certo la situazione è più drammatica, forse servono strategie e approcci meno magici, ma più profondi delle tante solite ricette che alla fine si appellano alla crescita come soluzione di tutti i mali. Anche le presunte locomotive dello sviluppo economico dove la crescita è presente, paiono rallentare. In diversi casi preoccupa la loro insostenibilità sociale e civile, nonché ambientale. I nodi vengono al pettine e anche loro devono confrontarsi con la difficoltà di quadrare il cerchio, per riuscire, come ricordava (o profetizzava) vent’anni fa Ralf Dahrendorf, a generare insieme nelle nostre società: benessere economico, coesione sociale e libertà politica. E visto che tra meno di mezzo secolo, di questo passo, rimarremo pure senz’acqua ai piedi dei nostri monti, ci aggiungerei la sostenibilità ambientale. Forse per affrontare in modo nuovo queste sfide dobbiamo mettere a tema almeno tre profondi interrogativi. Il primo è: di che cosa vogliamo vivere e come vogliamo vivere? Una economia sana e di qualità promuove una società sana e di qualità. E viceversa una società sana e di qualità promuove una economia sana e di qualità. Questa alleanza che ha radici antiche, e che annovera tra le migliori esperienze l’idea di Comunità di 128 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto Adriano Olivetti, passa per un lavoro di qualità, che punta a creare occupati stabili perché nella stabilità si costruisce professionalità e senso di appartenenza. Serve guardare a un’economia più orientata alla custodia, alla cura, alla valorizzazione di ciò di cui si dispone, superando una economia basata tutta sul consumismo, e con esso sullo spreco e tante volte sulla speculazione e sulla “rapina” del saper fare, che sovente ha impoverito le singolarità delle culture del lavoro e le produzioni tipiche dei nostri territori a vantaggio dell’asservimento alla grande economia di massa. Oggi sia i consumatori che le istituzioni hanno meno soldi da spendere, e quello che possono lo tirano fuori cercando di spendere meglio. Ecco un orientamento che potenzialmente va nella direzione di una economia nuova, non a caso i settori o le innovazioni che ancora creano o possono creare lavoro vanno in questo senso: green economy, nuove tecnologie, servizi alla persona e nuovo welfare, cultura e agricoltura. Si tratta per ogni comunità e per il Paese di dirsi che cosa vogliamo produrre e come vogliamo produrlo. Serve fare delle scelte di politiche industriale che non significa solo riscoperta del talento della nostra manifattura, ma dell’intero made in Italy, e del potenziale di attrazione del quadrante turismo e cultura – tipicità alimentare e artigiana – qualificazione e sviluppo dei servizi. Serve chiedersi se vogliamo continuare a scommettere sulla precarietà e su una flessibilità imposta dalla globalizzazione che invece di affrontare insieme, come sistema istituzionale, abbiamo scaricato sulle spalle dei ceti più popolari, e in particolare dei più giovani e delle donne. Della tanto celebrata flexsecurity abbiamo visto solo la flex. La partita la dobbiamo giocare sulla ricerca e sull’innovazione, sull’istruzione e sulla formazione, per tutta la vita, non solo come proposta per chi perde il lavoro: questa è la carta vincente, è la nostra assicurazione per il futuro. Nel nostro futuro il valore aggiunto deriverà sempre meno dallo spendere e produrre di più e sempre più dal fare meglio per spendere meglio. Questo Paese, e non solo, questa scelta non l’ha ancora fatta. Si tratta di darsi una visione e un programma tangibile eliminando le politiche che danno risorse a tutti in favore di scelte chiare che riconvertano laddove bisogna riconvertire. Serve un progetto “Italia 2020” che dica su cosa e dove vogliamo arrivare, che tocchi i nodi nevralgici, quelli che scontentano chi ha fatto i soldi e le grandi rendite di potere. Il secondo è: come redistribuire rischi e opportunità del nostro tempo? Non si tratta solo di questa crisi. Una società è solida laddove non ci si vede gli uni contro gli altri, ma insieme, dove insieme, nell’intera società si sente concretamente di essere legati, promessi gli uni agli altri, anche nella crisi quando nonostante tutto ci si possa sentire solidali. Senza questa tangibile e diffusa promessa la società si frammenta e su questa frammentazione si indebolisce anche la fertilità delle nostre vocazioni produttive, di quel campo fertile che è il nostro stivale. Cede alla zizzania e finisce per doversi svendere a qualche salvifico investitore internazionale. Nella crisi vediamo che la ricchezza soffre soprattutto di accumulo, di come è stata concepita, gestita e mal distribuita. Così le famiglie sono sempre più vulnerabili, le disuguaglianze sempre più ampie e il futuro è una minaccia. Quale redistribuzione, allora? Questa domanda passa certamente da un nuova fiscalità e da un moderno e più reattivo sistema di welfare, che però siano universali anche nel senso di sempre più globali. Redistribuzione, come scriviamo nelle nostre proposte significherà sempre più saper ripartire il lavoro che c’è. Non basta immaginarne di nuovo. Già oggi in Italia se lavorassimo in media quanto in Germania avremmo qualche milione di lavoratori in più. Il terzo interrogativo è: come non farsi governare dalla ricchezza? Nel mondo una massa di prodotti finanziari derivati si muove spesso senza regole e senza trasparenza. Poche grandi banche, troppo grandi (più del pil di intere nazioni) ne controllano la gran parte, muovendoli con la rapidità di millesimi di secondo attraverso algoritmi che in pochissimi conoscono e sanno manovrare. Buttiamo in media mezzo chilo di cibo al giorno mentre un miliardo di persone è in povertà 129 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento estrema. Poche potenti multinazionali decidono e influiscono su trattati intercontinentali di libero scambio che ai parlamenti non è dato conoscere prima della loro conclusione. Questi sono solo alcuni elementi di un quadro più ampio e più diffuso che anche nel piccolo alimenta sempre più l’idea che non siamo proprio tutti uguali, ma che di fronte alle grandi decisioni ancora una volta, come nella Fattoria degli animali di Orwell, qualcuno sia più eguale degli altri. C’è un oggettivo incrinarsi della sovranità popolare quasi come se la democrazia per poter fare i conti con la complessità della globalizzazione avesse scelto di venire a patti con l’aristocrazia moderna, invece di procedere a una propria estensione. È una domanda forse un po’ forte, ma che deve trovare una risposta in una Europa unita più forte, più democratica e sociale, per affacciarsi con dignità e responsabilità in un Mediterraneo possibile punto di incontro di aspirazioni civili e di progresso autentico, oggi troppo spesso accantonate. La domanda deve trovare una risposta anche localmente dove troppo spesso i soldi sembrano dettare nuove regole civili. Fa scandalo la corruzione nostrana, ma fa scandalo anche una società dove la concorrenza troppo spesso non si basa sulle pari opportunità ma sulle posizioni di potere e di ricchezza acquisita, e il merito non è utilizzato come criterio di scelta. Non si tratta di diventare antagonisti di un presunto astratto sistema, ma neanche di far finta di non vedere che abbiamo bisogno di tornare sovrani delle nostre vite e del nostro lavoro riscoprendo e ridandoci insieme un orizzonte di senso e di comune vivere civile. Probabilmente non torneremo al benessere che in tanti casi sembravano averci lasciato i nostri genitori, ma possiamo ancora osare insieme un futuro più giusto e consapevole. E fare associazione vuol essere questo: provare a partire da ciascuno di noi per tornare ad essere insieme sovrani delle nostre vite, nella nostra società, e sempre più del lavoro che ognuno di noi può offrire. 130 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto LA FORZA (DEL) LAVORO PER SCONFIGGERE POVERTÀ E DISEGUAGLIANZE La triplice crisi e il Jobs Act I) ITALIA 2020: FAR EMERGERE IL PAESE DELLA BELLLEZZA: 1. UN PAESE CHE PRODUCE COSE BUONE E BEN FATTE a. Mobilità sostenibile e dignitosa, e infrastrutture 2.0 b. INDUSTRIA 2020: un piano per ricerca, innovazione e investimenti c. Green economy d. Nuovo welfare per nuovo lavoro, che riconcili vita e lavoro e. Il Mediterraneo al centro del mondo, il Mezzogiorno centrale per un co-sviluppo umano II) PARTIRE DAL LAVORO, DALLA BUONA OCCUPAZIONE 1. DOVE TROVARE LE RISORSE a. No austerità, ma un piano Marshall per l'Europa b. Una Responsabilità Sociale della Pubblica Amministrazione c. Sostituirsi alle Regioni o Enti Locali nelle parti mal amministrate d. Tassare le transazioni finanziarie e. Quasi eliminazione del contante per abbattere evasione e illegalità f. Ridurre le spese per armamenti 2. INVESTIRE DOVE PUÒ CRESCERE IL LAVORO a. Nuovi settori e imprenditorialità sociale b. Tagliare il cuneo fiscale creando lavoro c. Fare reti di imprese: un fondo nazionale 2. È UN PAESE CIVILE, BELLO E LIBERO a. Uno Stato degli Stati Uniti d'Europa per promuovere la dignità della persona e del lavoro b. Riformare la finanza c. Sconfiggere le concentrazioni di interessi e potere d. La bellezza come patrimonio civile e. Una politica sobria e trasparente f. Leggi leggibili e una Pubblica Amministrazione promotrice di innovazione 3. DOVE SI VIVE E SI LAVORA BENE E INSIEME! a. Una occupazione di qualità: istruzione e formazione professionale b. Una fisco equo e stop a mega stipendi e mega pensioni c. una cittadinanza non fondata sul diritto di sangue e diritti e tutele portatili 3. INVESTIRE NELLA QUALITÀ DEL LAVORO a. Istruzione e formazione professionale permanente: prima politica attiva b. Contratto UNICO a tutele progressive, tutele dei nuovi lavori e delle partite Iva, ammortizzatori e politiche attive per tutti e forme di partecipazione dei lavoratori c. Proteggere e re-includere chi rischia la povertà d. Pensare alla pensione dei giovani 4. INVESTIRE PER REDISTRIBUIRE IL LAVORO a. Part time verso la pensione e part time di ingresso dei giovani b. Detassare il part time dei giovani c. Investire nei contratti di solidarietà, anche con reti di imprese 131 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento Nè sprechi nè austerità, ma dialogo con le forze sociali per una politica economica indirizzata a creare occupazione di qualità con uno sviluppo nuovo, sostenibile e aperto al mondo Sempre più spesso la crisi dell’occupazione e l’impoverimento delle fasce più popolari si diffondono come un profondo senso di oppressione, che radica l’idea che non si possa fare nulla. Una vera e propria depressione che colpisce tutti, ma che vediamo inasprirsi tra i soggetti meno tutelati i giovani, le donne, gli stranieri, i lavoratori espulsi. Ma la fase che viviamo non deriva da una assenza di risorse e anche di ricchezza, ma prevalentemente da sprechi, speculazioni e da una assenza di una politica di sviluppo, di uno sviluppo nuovo, sostenibile e aperto al mondo; anche alla luce dei drammatici allarmi sulle variazioni climatiche che senza un cambio di rotta avranno effetti sempre meno contenibili. La speranza e le possibilità hanno bisogno per riemergere che riemerga e venga rivalutato il lavoro, cominciando dalle nostra capacità di riconoscere che il lavoro è sì il grande malato del momento, ma nel contempo è la forza che un popolo ha per cambiare insieme le cose, per darsi, come ricorda la nostra Costituzione, un progresso materiale e spirituale. La forza lavoro, l’essere lavoratori, in tanti modi, anche chi il lavoro lo cerca, è la nostra forza civile più grande: la volontà, la dignità, i diritti, la responsabilità, la fatica, la creatività, l’operosità, l’ingegno, il talento di milioni di persone e comunità attraverso le quali possiamo riconciliarci con il futuro La triplice crisi del lavoro Abbiamo la sensazione che questo momento storico abbia bisogno di essere preso un po’ più sul serio di quanto faccia una democrazia sempre più “del pubblico”, in cui imperano i tempi televisivi, le ricette in tre punti, le battute azzeccate, l’esigenza di ridurre tutto a pochi ed efficaci progetti salvifici, salvo poi fare i conti con una perenne assenza di reali cambiamenti. Eppure se si incontrano i lavoratori di una azienda che chiude o chi non riesce più a curare i propri figli è sempre più difficile e più imbarazzante tirar fuori slogan, anzi si resta senza parole. È più difficile dire la verità alle persone e ai cittadini. Dire che la notte sarà dura da passare, e che serve un grande salto di responsabilità e di coinvolgimento da parte di tutti, ognuno secondo le proprie possibilità. Ci sembra allora importante rilevare che il lavoro è sottoposto a una triplice prova di forza che forse troppo frettolosamente chiamiamo crisi. La crisi finanziaria ed economica Una prima prova di forza è sicuramente quella della crisi prima finanziaria e poi economica che non è stata una fatalità, bensì un momento di verità. Una crisi originata, vale la pena ricordarlo, da una finanza senza regole, e che ancora è senza regole, e da una crescita delle diseguaglianze che negli ultimi decenni, hanno indebolito e reso più vulnerabile la fiducia e la stabilità economica dei cittadini. Quella fiducia e quella stabilità senza le quali investimenti e ricchezza smettono di circolare e prima o poi anche la ricchezza virtuale sbatte il naso. Come si può pensare mettessero in cantiere progetti di vita, quei progetti che fan marciare veramente l’economia? Si è iniziato a vivere alla giornata. La rivoluzione tecnologica e la riduzione di manodopera Siamo solo all’inizio di una rivoluzione tecnologica, che sempre più ridurrà l’apporto diretto del ruolo del lavoratore e sempre più lo sostituirà con le macchine, imponendoci di rideclinare lo stesso significato del lavoro, riscoprendo e valorizzando anche il lavoro fuori dall’occupazione (lo studio, la genitorialità, la cura familiare o di un vicino, il volontariato, l’auto produzione e l’auto consumo, le piccole produzioni locali, l’economia solidale….). Anzi se saremo capaci di innovare la nostra idea di lavoro, troveremo che questa liberazione del tempo potrebbe promuovere un ruolo più autonomo e meno standardizzato del lavoratore. È successo prima nell’industria e ora avviene nei servizi: Amazon crea sì posti di lavoro, ma per ogni posto creato ne cancella 8 o 9. È successo nel no- 132 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto stro Occidente, dove oggi si prospetta che i robot sostituiscano anche i colletti bianchi, ma si estende anche al resto del mondo. Anche se altri paesi in Europa sono più avanti. Infatti da noi si lavora in media il 20% in più all’anno di paesi europei dove l’occupazione è più alta, come la Germania - quasi 1800 ore contro 1500 -. E si dispone di orari diversi secondo le proprie necessità nel corso della vita1. Da grandi in un mondo piccolo a piccoli in un mondo grande Nell’arco di un paio di decenni abbiamo smesso di essere grandi in un mondo piccolo e ci scopriamo piccoli in un mondo più grande. Fino a pochi anni fa quando parlavamo del mondo, ci riferivamo prevalentemente all’Occidente, vero motore e regista della globalizzazione. Oggi il mondo è quasi veramente unico e le distanze anche economiche tra tutte le nazioni si riducono, mentre invece crescono le diseguaglianze all’interno degli stessi. La povertà estrema (1,2 dollari al giorno, mentre restano circa 870 milioni le persone che soffrono la fame) di quei paesi quasi si dimezza e la povertà assoluta e relativa da noi raddoppia, e le persone sempre più migrano facendo fatica a portare con se diritti e tutele, mentre invece i soldi circolano alla velocità con cui si preme un tasto. È un po’ come se ieri fossimo stati seduti in dieci al banchetto del mondo e ora, anche per la crescita demografica, fossimo diventati venti, con i nuovi ospiti molto più affamati di futuro di noi, che invece del futuro abbiamo spesso solo paura. È sciocco pensare di poter affrontare questi scenari da soli, senza una governance globale, democratica, senza che come Europa si passi definitivamente il guado nel quale siamo rimasti incastrati, nei vincoli reciproci dei differenti Stati e delle rendite di posizione dei loro ceti politici, verso un vera unità politica, all’altezza dei tempi. Il Jobs act: prime riflessioni sugli interventi annunciati Ci torneremo. Ma oggi prima di tutto occorre concentrarsi soprattutto sulla crescita dell’occupazione, di buona occupazione ancor di più della crescita economica. Infatti anche una pur importante immissione di denaro nelle tasche dei cittadini meno agiati rischia di dare solo una boccata d’aria se non si investe prioritariamente nel creare nuovo lavoro e non si redistribuisce quello esistente. I recenti provvedimenti (un decreto e un annunciato disegno di legge delega) dicono della volontà del nuovo Governo di intervenire rapidamente a favore del lavoro e rimettono a tema una serie di questioni importanti. In particolare il disegno di legge delega intende trattare aspetti fondamentali: ammortizzatori che coprano effettivamente tutti i lavoratori; affiancamento e definizione di un quadro pubblico e privato di quelle politiche attive, con l’introduzione di una Agenzia nazionale; semplificazione delle procedure; misure di conciliazione innovative e universali; ridefinizione di un testo chiaro sui contratti, con gli intenti di definire un compenso minimo (che ormai in Europa manca solo in Italia, dopo le recenti scelte della Germania) ed elaborare un contratto di ingresso a tutele progressive. Bene anche l’annuncio di uno stanziamento di mezzo miliardo per l’impresa sociale. 1 Sostiene l'economista Nicola Cacace: "I paesi che hanno fatto politiche redistributive - straordinari costosi o aboliti, contratti di solidarietà a sostegno di orari ridotti, pensionamento progressivo, etc.- sono quelli con tasso di occupazione più alti: Olanda, Germania, Danimarca, Austria, Svezia, Gran Bretagna, paesi con durata annua del lavoro media intorno alle 1500 ore, hanno tutti tassi di occupazione (occupati su popolazione in età da lavoro) superiore al 70%, al contrario dell'Italia che, con una durata annua di 1778 ore, ha un tasso di occupazione del 56%, inferiore di 9 punti alla media europea del 65%. Dieci punti in meno della media europea (media, con Grecia, Spagna, noi, etc., non primati nordici), significa almeno 4 milioni di lavori in meno, quelli che ci servono per tirare fuori dal buco nero i nostri 3 milioni di disoccupati e qualche milione di scoraggiato. Esiste una legge semplicissima che tutti conoscono o dovrebbero conoscere.. Il lavoro si crea se la produzione cresce più della produttività. Oggi che la crescita media del Pil nei paesi industriali arriva con difficoltà al 2%, mentre la produttività oraria continua ad aumentare con tassi intorno al 2%, grazie all'elettronica ed ai nativi digitali, l'occupazione si mantiene alta solo nei paesi che riducono gli orari di lavoro. I paesi europei che hanno fatto politiche in favore di orari annui più corti, legge delle 35 ore in Francia con annualisation des oraires, Kurzarbeit (lavoro corto), contratti di solidarietà e banca delle ore in Germania, part time volontario incentivato in Olanda, flexsecurity in Danimarca e paesi scandinavi, pensionamento progressivo, sono quelli a più bassa disoccupazione, 5% in Austria e Germania, paesi con orari di lavoro più bassi. In Italia l'orario annuo è del 23% superiore a quello medio di Francia, Germania ed Olanda, che significa 4 milioni di posti lavoro in meno. L'assurdo rifiuto sancito nella legge Fornero di consentire la "progressive pension", uscita anticipata dal lavoro a scelta del singolo con pensione ridotta, unita all'altra assurda scelta di innalzare l'età pensionabile a livelli record - nel 2015, con 67 anni, l'Italia avrà il record europeo dell'età pensionabile - ha peggiorato la condizione italiana di lavoro per i giovani e gli altri, esodati inclusi". 133 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento Sono tutti temi importanti, ai quali si affianca un decreto che semplifica e rende più flessibili i contratti a tempo determinato e l’apprendistato. Su questi ultimi ci pare che fosse necessaria una semplificazione, ma ci chiediamo se le colpe della burocrazia debbano sempre essere colmate dalla maggiore flessibilità dei lavoratori. Forse ci possono essere strade intermedie per non appesantire le imprese e nel contempo premiare il lavoro che gradualmente tende a qualificare e stabilizzare. Così come crediamo vada reinserito il ruolo della formazione nell’apprendistato, anche per non essere nuovamente redarguiti dall’Europa. Infine occorre chiedersi se sia il vincolo all’assunzione di una percentuale di apprendisti la vera causa frenante le imprese visto che nel periodo precedente la crisi questo accordo era già previsto in alcuni contratti. Forse le imprese non assumono o assumono meno non per i vincoli, ma semplicemente perché non c’è lavoro da dare, perché l’economia è bloccata dalla debole domanda interna. Il che significa che siamo bloccati dalla sfiducia delle famiglie e delle persone, sulle quali forse si è troppo scaricato il tema della flessibilità e della assenza di competitività del sistema Paese. Nell’insieme crediamo serva soprattutto ritornare a un clima di dialogo sociale con il mondo del lavoro proprio perché si possa dare efficacia ai molti intenti e principi proposti dal Governo dentro un ridisegno di una politica di sviluppo che ridia un progetto al Paese. Proviamo a delineare in modo più ampio alcuni aspetti attorno ai quali promuovere un Patto tra le forze sociali per rilanciare lo sviluppo e la creazione di lavoro, di buon lavoro • un orizzonte di senso e di futuro da percorrere e verso il quale mobilitare le energie (ITALIA 2020) • subito alcune scelte e proposte strategiche (PARTIRE DAL LAVORO) I) ITALIA 2020: UNA IDEA DI PAESE E UNA IDEA DI ECONOMIA CIVILE, INNANZITUTTO In Europa ci si è dati un orizzonte strategico, discutibile, meno consistente di quanto servirebbe, ma lo si è fatto, con Europa 20202, In Italia invece si continua a parlare di cosa fare con un po’ di soldi, ma senza porsi degli obiettivi e dei risultati che si possono, si vogliono e si devono raggiungere nel giro di qualche anno. Anzi di un piano Italia 2020 per ora non ne parla nessuno. Ci pare grave: un Paese che non ha una visione di se stesso nel futuro, di che cosa vuole fare da grande, è un Paese che si prepara a vendere, a lasciare che siano altri a fare shopping delle nostre aziende (oltre 140 aziende già acquistate in questi anni), delle nostre competenze ed eccellenze, ora che costiamo un po’ meno e gli investimenti guardano sempre, ma con meno interesse ai Paesi emergenti che cominciano a fare i conti con qualche difficoltà. L’Italia rischia di essere simile a un campo fertile, nel quale non abbiamo scelto cosa coltivare, lasciandoci invece crescere le sterpaglie. E ora qualcuno ne compra dei lotti a buon prezzo. Per affrontare con serietà e non con aspirine questa fase occorre innanzitutto avere una idea di Paese e di una economia non onnivora e sprecona, ma che punti sull’alleanza economia di qualità-società di qualità, che passa attraverso la qualità del lavoro e la ricerca della persona giusta al posto giusto, e non di qualsiasi lavoro. Noi ne abbiamo una: un Paese che produce cose buone e ben fatte è un Paese civile, bello e libero dove si vive e si lavora bene e insieme È una lezione che ricaviamo dal meglio della nostra storia, del nostro tessuto economico e civile. Potremmo scomodare Olivetti e la sua ideologia della Comunità che gli faceva collocare la sua idea di impresa dentro e al servizio di una visione di società nella quale tempi e investimenti per la vita so- 1 Un piano per la crescita intelligente (agenda digitale; Unione dell'innovazione; Youth on the move), sostenibile (Europa efficiente; una politica industriale per l'era della globalizzazione), inclusiva (Agenda per nuove competenze e nuovi lavori; Piattaforma europea contro la povertà), con specifici obiettivi (75% del tasso di occupazione; investimenti in ricerca e sviluppo al 3% del pil; riduzione del 20% dei gas serra rispetto al 1990/ 20% di rinnovabili/aumento del 20% dell'efficienza energetica; riduzione abbandono scolastico sotto il 10%; 40% di laureati tra 30-34enni; 20 milioni in meno di poveri o a rischio povertà ed esclusione). 134 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto ciale restituivano qualità e ricerca del bello alla stessa produzione aziendale (e inventarono il primo computer al mondo!). Ma è una immagine concretamente incarnata in quelle aziende e quei territori che cercano l’eccellenza, che riescono ad internazionalizzare ed innovare proprio riscoprendo valori e relazioni con il proprio contesto e con i propri lavoratori. È nella storia del Paese questa vocazione ad una economia civile, che nasce e si alimenta in uno scambio reciproco con il tessuto culturale, ambientale e sociale nel quale si colloca. È una Storia che ci dice che se vogliamo riconciliarci con il futuro dobbiamo riconciliare vita e occupazione, società e economia, aspetti che il prevalere della civiltà dei consumi prima e del turbo capitalismo poi hanno messo in secondo piano, affamati dell’utilità e della funzionalità immediata. 1. UN PAESE CHE PRODUCE COSE BUONE E BEN FATTE a. Mobilità sostenibile e dignitosa, e infrastrutture 2.0 Innanzitutto all’Italia per la sua conformazione serve un investimento in un grande piano per una mobilità sostenibile e dignitosa e infrastrutture anche immateriali (l’Unione Europea ci chiede di arrivare nel 2020 alla banda ultralarga, noi stentiamo ancora a partire su quella larga). Bisogna innanzitutto mettere la società nelle condizioni di funzionare e di funzionare a costi dignitosi: solo per fare un esempio, la pessima organizzazione del sistema dei porti commerciali costa al Paese più dell’Irap, ed è (a differenza dell’Irap) in parte risolvibile con scelte politiche e di riorganizzazione, come quella di ridurre a 4 o 5 le autorità portuali. Oltre a ciò il tema della mobilità sostenibile è una visione attorno alla quale si possono rilanciare investimenti e lavoro in diversi campi laddove oggi si chiude (costruzione treni, navi, logistica) e in una diversa e più sensata organizzazione delle metropoli e delle città (smart cities). Senza considerare la salvezza di tante vittime della strada e il risparmio di decine di miliardi spesi per gli incidenti, che deriverebbero da un sistema di mobilità più sicuro e intelligente, già possibile con la tecnologia attuale. Bisogna però avere il coraggio di fare i conti con dei cambiamenti che certamente una parte di economia e di società legata al trasporto su gomma o a tanti interessi localistici e di parte, preferirebbe non vedersi affermare. b. INDUSTRIA 2020: un piano per ricerca, innovazione e investimenti in particolare in manifattura, nel made in Italy, nell’industria agroalimentare, nella alleanza cibo/cultura/artigianato locale/turismo, nelle nuove tecnologie per la vita… Superando la logica dell’austerità, ma mirando le risorse in modo selettivo serve un piano industriale per dirsi quali settori e come svilupparli, così come si tentò di fare con Industria 2015 nel 2007. Sono tante le eccellenze italiane, in particolare segnaliamo la necessità di una re-industrializzazione selettiva (siamo la seconda industria europea) che riscopra la manifattura (così come prevede anche Europa 2020), così come il comparto che sempre più vede la connessione tra cibo-cultura-artigianato locale-turismo-rilancio dell’aree interne (anche contro i rischi del dissesto idrogeologico), e senza dimenticare i comparti ad alta intensità di conoscenza e ricerca come le bio e nano tecnologie. c. Green economy La nostra “deficienza” energetica (così la potremmo chiamare) ci obbliga a spendere 50 miliardi per acquistare altrove energia, un risparmio che possiamo pianificare investendo da tanti punti di vista. Si stima per esempio che le detrazioni per ristrutturazioni e l’efficienza energetica (che vanno rese più puntuali) abbiamo comunque salvato l’equivalente di 200.000 posti di lavoro. Senza considerare gli investimenti che si possono fare per la tutela del territorio (ripagati da minori danni) investendo per esempio in nuovo lavoro sociale giovanile e in agricoltura sociale. d. Nuovo welfare per nuovo lavoro Un Welfare europeo e comunitario, che riconcili vita e lavoro, solidarietà e sviluppo A essere duramente colpita negli ultimi decenni e ancor più in questa crisi è la dimensione della soli- 135 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento darietà e della lotta alle diseguaglianze. Spesso il sistema di welfare tampona, quando non fotografa le diseguaglianze, mentre solo nelle esperienze più positive, dimostra di poterle ridurre. Anche in questo caso serve guardare a un welfare europeo, nel quale le politiche sociali in senso lato non si rivolgono solo ai singoli, ma attivano responsabilità, reti familiari, esperienze di mutuo aiuto, cooperazione, città, aziende, in una vivacità che in parte era stata vitalizzata dalla legge 328 di riforma delle politiche sociali di inizio secolo, in parte è stata boicottata e bloccata dal quasi azzeramento dei finanziamenti. Serve rilanciare una progettualità che in questi anni tanti hanno sostenuto e continuato a coltivare. Inoltre il welfare può contribuire alla crescita di posti di lavoro. La necessità e la possibilità di realizzare un welfare sempre più personalizzato e impostato sulla promozione e la prevenzione e non solo sull’emergenza può, come dimostra la crescita del Terzo Settore e dell’imprenditorialità sociale, consentire di migliorare la qualità dei servizi e nel contempo far crescere l’occupazione. Per esempio, in particolare a fianco del rilancio del primo Welfare col rifinanziamento di fondi nazionali e la definizione di livelli essenziali delle prestazioni è possibile favorire (attraverso incentivi, detrazioni o sistema di voucher per servizi) per famiglie e imprese lo sviluppo locale dentro una regia pubblica di un secondo welfare che veda crescere nuova mutualità e servizi alla persona (dall’infanzia, alla formazione permanente, all’assistenza gli anziani, all’abitare..) anche facendo emergere lavoro grigio e precario in un orizzonte di qualificazione e migliore organizzazione anche grazie alle nuove tecnologie e alla telemedicina. Si creerebbe lavoro risparmiando per esempio su un sistema sanitario spesso ancora troppo legato all’emergenza e alle strutture e poco domiciliare e si favorirebbe quella conciliazione dei tempi che consente alle nostre città e comunità locali di essere particolarmente accoglienti per una economia di qualità che punti molto più sull’ingegno e la competenza delle persone, che si nutra della qualità dei contesti locali e dei loro servizi. e. Il Mediterraneo al centro del mondo, il Mezzogiorno centrale per un co-sviluppo umano Ultimo aspetto strategico da citare ci sembra il tema del Mediterraneo e la posizione strategica che assume il nostro Paese e in particolare il nostro Mezzogiorno. Sono soprattutto i Paesi e i territori che si affacciano sul Mediterraneo che devono raccogliere e rilanciare una domanda di co-sviluppo, insieme ai popoli delle altre sponde, prima ancora civile che economica facendo leva sulla valorizzazione della propria storia e del proprio patrimonio culturale. Il rilancio innanzitutto civile del nostro sud è condizione fondamentale per non mancare ancora una volta l’appuntamento con la Storia. È soprattutto al sud che si concentrano le nostre potenzialità e la necessità di liberare il lavoro. E più complessivamente come Europa occorre capire che si realizzerà nel Mediterraneo una nuova frontiera foriera di futuro se si misurerà meno questi contesti sulla base di parametri da centro-nord del continente, e si cercherà invece di scoprire e valorizzare una via originale e specifica alla sviluppo. 2. È UN PAESE CIVILE, BELLO E LIBERO a. Uno Stato degli Stati Uniti d’Europa per promuovere la dignità della persona e del lavoro Serve innanzitutto fare passi avanti sul processo di unificazione europea verso la realizzazione degli Stati Uniti d’Europa, senza la quale rischiamo che il confronto globale si giochi sulla dignità del lavoro e sul mancato rispetto dei diritti umani. Il vero governo della globalizzazione rischia di non avere un volto democratico, non ci vede veramente cittadini sovrani, iniziando dal poter scegliere il proprio Governo europeo, ma di essere appannaggio di interessi esclusivamente economici come quelli di banche più grandi, per i propri attivi, dell’economia reale di intere nazioni, e delle multinazionali che attraverso gli accordi di libero scambio intercontinentali possono mettere in discussione la stessa sovranità popolare. Dalla ripresa del sogno europeo si può ripartire per riaffermare la centralità della persona, della sua dignità, del lavoro, e agire per debellare il “lavoro schiavo” cominciando dal prevedere una certificazione sociale europea per il la- 136 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto voro decente che attesti che le merci introdotte nel mercato comune siano state realizzate nel rispetto dei lavoratori in ogni tappa della loro filiera. Basta ricordare le tragedie di aziende dove i lavoratori sono schiavi, come nel sudest asiatico, o a Prato. E non possiamo perseverare con una Europa che spesso si muove nel mondo come i capponi di Renzo Tramaglino ne “I Promessi Sposi”, che incapaci di vedere il loro comune destino, la pentola di Azzeccagarbugli, si beccavano l’un l’altro. Le stesse chiusure aziendali, i costi del lavoro, le tutele, hanno bisogno non solo di una armonizzazione delle politiche nazionali, ma di una politica comune, dal punto di vista fiscale, economico, monetariao, dei sistemi di welfare, del lavoro, della politica estera e di difesa. Ne deriverebbero anche miliardi di risparmi. Serve a partire dalle prossime elezioni dare al nuovo Parlamento un potere costituente che riavvii il cammino dell’Europa Unita. La scelta non sarà tra si o no all’Europa o all’euro, sprofonderemmo nella crisi, ma tra un’Europa che rischia di restare ostaggio della conservazione e dell’austerità e un’Europa che riprende in mano il proprio destino e il proprio cammino di pace e democrazia. b. Riformare la finanza Una riforma di cui non si parla quando si parla di riformismo è quella della finanza. Eppure dopo tutto quello che è successo dovrebbe essere la prima e dovrebbe prevedere, come propone la campagna Zerozerocinque: - una tassa sulle transazioni finanziarie, la separazione tra banche d’affari e banche commerciali, la lotta ai paradisi fiscali e all’evasione ed elusione fiscale, un tetto ai compensi di manager e finanzieri, la regolamentazione dei derivati. Certamente è un campo di difficile definizione, e serve soprattutto una politica europea, ma questo non può essere un alibi. c. Sconfiggere le concentrazioni di interessi e potere: dal Paese delle conoscenze al Paese della conoscenza. Non possiamo inoltre non constatare che il nostro Paese e il suo sviluppo sono fortemente soggiogati da una tendenza ad alte concentrazioni di interessi e di rendite di posizione che minano la libertà di iniziativa e di lavoro, il cambiamento e favoriscono l’idea che la concorrenza e la professionalità si giochino spesso più sulle conoscenze che sulla conoscenza, intesa come effettiva capacità e merito. Ci pare questa la radice che favorisce la crescita di un tessuto dove si diffonde la corruzione e cresce la forza delle mafie. La necessità in troppi campi di doversi far proteggere o anche solo aiutare, spesso per far valere i propri diritti o meriti rappresenta certamente il costo più alto da affrontare, per sbloccare e liberare veramente il lavoro. Un fardello spesso agevolato dall’inefficienza amministrativa e da troppa burocrazia, nonché da scarsa trasparenza, oltre che da un piano di riforme da far ripartire sulle liberalizzazioni (con esclusione dei beni comuni come l’acqua) e sul conflitto di interessi. d. La bellezza come patrimonio civile La bellezza, il patrimonio artistico e paesaggistico, sono in senso lato un patrimonio civile, un tesoro a cielo aperto, il nostro petrolio, per altro non inquinante. Eppure anche qui siamo più orientati a sprecarlo. Occorre una maggiore capacità di far rete, ma occorre fin dalla scuola rilanciare il valore della cultura. Certamente serve anche pensare a una gestione pubblica capace di aprirsi ai privati. Lo stesso mondo dell’imprenditorialità sociale potrebbe in alcuni casi essere valorizzato per mettere in rete interessi pubblici e privati legandoli però a una logica pubblica e a una visione di sviluppo locale. e. Una politica sobria e trasparente Certamente soprattutto in questa fase serve vedere risultati tangibili sui tagli ai costi della politica, ma soprattutto se non vogliamo solo rincorrere gli scandali occorre addivenire a un ruolo della politica più sobrio e trasparente. Serve infatti limitare l’invasione di campo della politica in campi che non le appartengono, con società partecipate spesso gestite per il consenso e non per dare dei servizi. Anche nei campi di servizi essenziali come l’acqua, si dovrebbe addivenire a forme di controllo che coinvol- 137 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento gono magari in forma sociale i cittadini. Inoltre la riduzione dei costi della politica ha senso se si addiviene a una legge che regolamenti l’attività di lobby e a una legge che vincoli i partiti a rendere conto delle proprie spese e della propria democrazia interna, per evitare che si riducano ad essere comitati elettorali facilmente scalabili dalle lobbies. Certo non aiuta ancora una volta un sistema elettorale dove i candidati non li scelgono i cittadini. f. Leggi leggibili e una Pubblica Amministrazione promotrice di innovazione E ad essere più civili e liberi concorre certamente innanzitutto lo scrivere leggi leggibili e chiaramente interpretabili, e possibilmente uniche, come pare si voglia fare per un nuovo codice del lavoro, per evitare non solo i costi di tanti contenziosi e consulenze, ma che tutto resti sempre nel vago. Allo stesso tempo occorre però che la Pubblica Amministrazione sia rilanciata nella propria capacità di sostenere le energie che nella società si muovono e non sia ancorata a un sistema di leggi troppo rigido in cui la responsabilità è relegata più al rispetto dei cavilli che al fare delle scelte, rischiando così di premiare la conservazione e l’inazione. La stessa digitalizzazione della PA e un suo processo di riforma possono essere leve per un cambiamento significativo che la veda meno accentratrice e gestrice e più capace di promuovere e far crescere il Paese nella capacità di innovare. 3. DOVE SI VIVE E SI LAVORA BENE E INSIEME! a. Una occupazione di qualità e non qualsiasi occupazione: istruzione e formazione professionale per incontrare il mondo del lavoro Occorre fin dalla Scuola puntare su una idea di qualità dell’occupazione e su una graduale capacità di trovare per ciascuno la propria strada. Certamente soprattutto da giovani serve anche cominciare facendo lavori molto diversi e non aspettare il posto dei sogni, ma ciò non deve distogliere dalla necessità di individuare e sostenere la crescita professionale delle singole persone lungo tutto il corso della vita, cercando di favorire la persona giusta al posto giusto, perché far crescere e valorizzare appieno il valore delle persone è un presupposto indispensabile di una economia realmente di qualità. Al contrario l’idea di proporre qualsiasi lavoro rischia di favorire la ricerca dell’occupazione non come un progetto individuale, ma come un azzardo, di fatto lasciando sul terreno carriere di cittadinanza intermittenti e di fragilità professionale difficili da affrontare in età adulta se non in senso assistenziale, con notevoli costi. Centrale è immaginare la Scuola come sistema di Istruzione e Formazione professionale che non mette in alternativa scuola e lavoro, crescita culturale e specializzazione, ma le integra consentendo di incontrare e fare esperienza prima del mondo del lavoro e di accompagnare e sostenere una crescita e patrimonializzazione di competenze formali e informali lungo tutto il corso della vita. La professionalità è la migliore assicurazione contro la disoccupazione. Inoltre questa impostazione facilita l’incontro del mondo del lavoro, la specializzazione e la lotta alla dispersione scolastica. Anche per quanto riguarda l’apprendistato e le politiche attive del lavoro se vogliamo prendere a riferimento il modello tedesco ma tenendo in considerazione le differenze italiane legate soprattutto a diverso tessuto economico, possiamo trovare in molte di queste positive esperienze di integrazione tra istruzione e formazione professionale per interpretare l’apprendistato non come un mero contratto, ma come un processo di apprendimento che necessità di una dimensione laboratoriale intermedia che colleghi formazione e azienda. b. Una fisco equo e attento alle responsabilità familiari, ridurre il divario delle retribuzioni, favorire i ceti medio bassi, promuovere una politica del lavoro europea Occorre addivenire a una politica comune europea sia dal punto di vista fiscale, che dei redditi che del lavoro. Nel nostro Paese urge una riforma fiscale che faccia giustizia di una situazione profondamente diseguale riscrivendo una nuovo fisco alla luce dei cambiamenti avvenuti in questi ultimi 40 anni, che tenga anche maggiormente conto dei carichi familiari, anche introducendo una imposta negativa che 138 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto permetta agli incapienti di recuperare il valore delle detrazioni. Va inoltre ridato fiato al ceto medio-basso con la riduzione del cuneo fiscale sia per le imprese che per i lavoratori, insieme alla necessità di porre per legge un limite alle sperequazioni delle retribuzioni (i compensi più alti devono essere al massimo 12 volte il salario medio) Dal punto di vista del lavoro vanno rafforzate misure comuni che impediscano una concorrenza giocata sul dumping sociale, come la previsione di un salario minimo, misura che, ora in cantiere anche in Germania, diviene determinante anche da noi per impedire soprattutto lo sfruttamento in tanti lavori non stabili. c. una cittadinanza non fondata sul diritto di sangue e diritti e tutele portatili In un mondo in cui persone e lavoratori sempre più si muovono è assurdo che la cittadinanza sia ancora un fatto di sangue e che le persone non possano portarsi dietro tutele e diritti, che rischiano invece di fermarsi ad ogni confine. Per questo occorre un welfare sempre più europeo e serve addivenire a una cittadinanza europea aperta a chi nasce e cresce qui (campagna L’Europa sono anch’io). II) PARTIRE DAL LAVORO DALLA CRESCITA DELL’OCCUPAZIONE, DI UNA BUONA OCCUPAZIONE In questo momento, guardando all’orizzonte che abbiamo cercato di tratteggiare occorre concentrarsi soprattutto sulla crescita dell’occupazione, di buona occupazione ancor di più della crescita economica. Infatti anche una pur importante immissione di denaro nelle tasche dei cittadini rischia di dare solo una boccata d’aria se non si investe prioritariamente in nuovo lavoro e non si redistribuisce quello esistente. L’aumento dei consumi difficilmente si tradurrebbe in posti di lavoro perché negli anni di crisi, mentre la produzione calava la produttività cresceva comunque, quindi le aziende hanno una capacità produttiva in qualche modo contratta al punto che anche se aumentasse la produzione dif- ficilmente tornerebbero ad assumere. Quindi è importante concentrarsi innanzitutto su proposte per far ripartire il lavoro, a quel punto si aprirebbe la strada per uno sviluppo consistente. 1. DOVE TROVARE LE RISORSE Senza dimenticare la necessità tutta italiana non solo di fermare la crescita del nostro debito pubblico, ma di ridurlo, perché rappresenta un pesante fardello per le generazioni future, occorre trovare ingenti risorse per rilanciare il lavoro. Dove? a. No austerità, ma un piano Marshall per l’Europa: raddoppiare, anticipare e utilizzare meglio i fondi europei e usare le riserve auree Innanzitutto sosteniamo le posizioni promosse dall’iniziativa dei cittadini europei lanciata da diverse organizzazioni (Movimento Federalista Europeo e altri) per un Piano europeo straordinario per uno sviluppo sostenibile, così come l’idea di un piano Marshall europeo, lanciata dai sindacati tedeschi. Serve uno sforzo straordinario di investimenti in nuovo lavoro. A questo fine i diversi Stati dovrebbero raddoppiare il bilancio dell’Unione (che lo ha ridotto) passando dall’1% (150 miliardi) al 2% del Pil. In Italia intanto si dovrebbe imparare a spendere le risorse disponibili, anche se dall’esperienza del ministro Barca in poi e con la programmazione 2014 -2020 (1000 miliardi in Europa) ci sono stati netti miglioramenti. Anzi occorrerebbe chiedere di poter anticipare i fondi per spenderli già prima del 2020, per consentire di mettere subito miliardi di liquidità nell’economia. Ma in particolare va rilanciata l’idea (EuroUnionBond) di Alberto Quadrio Curzio e Romano Prodi di utilizzare le riserve auree, senza venderle, per un fondo finanziario europeo che sostenga gli investimenti. b. Una Responsabilità Sociale della Pubblica Amministrazione e della Politica per pagare in tempo, per promuovere una concorrenza leale non giocata sulla precarietà Un contributo importante potrebbe venire non solo da una accelerazione dei pagamenti della Pub- 139 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento blica Amministrazione, ma da una normalizzazione secondo legge dei tempi di pagamento. Stessa cosa vale per il precariato che spesso cova nell’indotto della Pa e delle sue partecipate. E troppo spesso per spendere poco si lasciano crescere affaristi e organizzazioni che nulla hanno a che vedere coll’etica di impresa, o finte cooperative, all’ombra di assessorati, enti di Stato o cda di aziende di servizi pubblici, che però magari si dimostrano grandi elettori e possono anche aspettare di essere pagati dopo anni. Servirebbe introdurre una sorta di Responsabilità Sociale della Pubblica Amministrazione e della Politica: chi paga in ritardo o consente compensi non regolari o sotto soglie decenti, va punito e ne risponde anche personalmente. Il valore del lavoro non può essere negato, è un furto, ai danni dell’imprenditore serio che aspetta a sue spese di essere pagato, e a danno dei lavoratori. E se il buon esempio non viene dall’alto é più difficile la battaglia per la legalità. accertati) reati si può impunemente continuare ad amministrare? c. Sostituirsi alle Regioni o Enti Locali nelle parti mal amministrate, come da art 120 della Costituzione Del famoso Titolo V della Costituzione da riformare, per l’entità di costi dovuti alle sovrapposizioni tra livelli diversi e ai conflitti di competenza, si è dimenticato l’articolo 120 laddove recita che “il Governo può sostituirsi a organi” di Regioni, Province, Città.. “..quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica e dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali..”. C’è da chiedersi se di fronte a Regioni mal amministrate, spesso teatro di scandali e spese fuori controllo, dove i livelli essenziali delle prestazioni fanno acqua, se non sarebbe il caso per tutelare i diritti dei cittadini di provvedere a un intervento di sostituzione. Si eviterebbero probabilmente anche profonde emorragie economiche e funzionerebbe da deterrente per le cattive amministrazioni. Possibile che tanta cattiva amministrazione debba rimanere immune da interventi finché non emergono scandali e non interviene la magistratura? Se si spreca senza compiere (o che vengano e. Passare gradualmente in 4 anni all’uso di carte prepagate gratuite e alla quasi eliminazione del denaro contante per abbattere evasione, corruzione e illegalità La tecnologia anche in questo caso ci può venire in aiuto, per assestare un profondo colpo all’evasione fiscale (si stimano 120 miliardi l’anno di mancate entrate e tra i 100 e i 150 miliardi nascosti nella sola Svizzera), nonché alla corruzione e all’illegalità, che governa il territorio con denaro liquido. Nel giro di pochi anni, con una forte campagna soprattutto a favore degli anziani sarebbe possibile favorire da parte dei cittadini e dei commerciati il passaggio all’uso quasi esclusivo di carte prepagate o di portafogli elettronici su telefonino (che anche gli anziani hanno imparato ad usare) definendo così un quadro economico di completa tracciabilità della moneta, e aiutando anche a prevenire e disincentivare rapine e furti. Si tratterebbe di accompagnarne e di incentivarne l’uso e nel contempo di arrivare a prevedere negli anni una progressiva tassazione del contante. È una scelta forte, ma nel tempo, ormai con generazioni che sempre più usano quotidianamente pc e telefonini ci si abituerebbe. d. Tassare le transazioni finanziarie Occorre mettere mano alla tassazione del capital gain (plusvalenza finanziaria generata dalla differenza tra prezzo di acquisto e prezzo di vendita di uno strumento finanziario), oggi al 20% (persone fisiche). Inoltre, anche per spronare il percorso di cooperazione rafforzata che coinvolge 11 Stati, in Italia sosteniamo l’estensione della Tassa sulle Transazioni Finanziarie (emendamento di Luigi Bobba) a ogni transazione eccetto i titoli di stato, riducendola a 0,01 per cento come primo passo verso una tassa minima per chi, per esempio, acquista effettivamente un derivato per coprirsi da un rischio, più forte per chi invece scambia, vende e rivende in pochi secondi, favorendo così il risparmio più orientato all’economia e sfavorendo quello orientato alla speculazione. 140 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto f. Ridurre le spese per armamenti La difesa del futuro sarà europea, con un risparmio di decine di miliardi. Un risparmio ancor più consistente se ci si rende conto che la difesa vera è un concetto molto diverso dalla corsa agli armamenti. Senza contare il triste episodio dei costosi F35. 2. INVESTIRE DOVE PUÒ CRESCERE IL LAVORO tratta di una proposta già presentata come Acli (grazie al contributo delle Acli Colf, del Caf Acli e del Patronato Acli) con il Forum del Terzo Settore che prevede di poter detrarre fino ad un limite massimo di 14000 € (che renderebbe vantaggioso dichiarare i rapporti di lavoro) una spesa per assistenza familiare a favore di una persona non autosufficiente. Con questa misura si potrebbe sostenere le difficoltà di chi è oppresso dal peso di un problema di assistenza molto oneroso e nello stesso tempo si favorirebbe l’emersione di una buona fetta di lavoro nero facendo così crescere l’occupazione di almeno 1 punto percentuale. E la spesa sarebbe quasi completamente ripagata da contributi ora non versati e anche da un aumento decimale del pil. a. Nuovi settori e imprenditorialità sociale: investimenti e comodato gratuito di immobili pubblici inutilizzati Occorre innanzitutto favorire una politica di favore per la crescita di lavoro nei settori, tra i quali quelli che abbiamo indicato, che possono far crescere l’occupazione, con uno sguardo particolarmente attento alle esperienze di impresa sociale, al centro di una opportuna politica di promozione europea. A questo proposito stante un consistente patrimonio immobiliare pubblico non utilizzato, ed essendo difficile pensare che possa essere facilmente messo in vendita (Monti stimava una vendita per 100 miliardi) per il protrarsi della crisi immobiliare, potrebbe essere significativo immaginare, accanto a fondi appositi, forme, attraverso i comuni, di comodati gratuiti a favore di iniziative di imprenditorialità sociale giovanile e di auto-imprenditorialità o coworking tese soprattutto a realizzare servizi per la comunità insieme ad attività commerciali e di impresa, o a interventi di housing sociale, in un ottica di sviluppo locale e di valorizzazione e non decadenza degli stessi patrimoni edilizi. 3. INVESTIRE NELLA QUALITÀ DEL LAVORO b. Tagliare il cuneo fiscale cominciando a far emergere e promuovere il lavoro di cura e il nuovo welfare Già con l’ultima legge di stabilità si è creato un fondo finanziato in automatico dalla tassazione sul rientro dei capitali a favore del taglio del cuneo fiscale. Sulla parte di taglio che queste o altre risorse finanzieranno a favore di lavoratori e pensionati, si potrebbe fare una operazione che da un lato garantisca un uso più equo dei fondi e dall’altro permetta di far emergere e promuovere il lavoro di cura. Si a. Scuola come istruzione e formazione professionale permanente, e investimenti in ricerca e sviluppo L’avvento di un sistema di istruzione e formazione professionale è uno dei primi provvedimenti fondamentali per incentivare un modello nuovo più capace di far incontrare prima il lavoro e di superare vecchie logiche che vedono separatamente specializzazione, innovazione e lavoro manuale. Andrebbe previsto poi un piano per l’accrescimento delle competenze dei lavoratori: così come avvenne con le 150 ore oggi occorre anche con chi già lavora c. Fare reti di imprese: un fondo nazionale I contratti di rete tra imprese, dopo le recenti agevolazioni, hanno avuto una certa espansione, ma serve un solido fondo nazionale che consenta di rafforzare questa esperienza. Per internazionalizzarsi, per innovare, accrescere le competenze, abbassare i costi di gestione, e tante altre attività strategiche spesso molte piccole imprese pur creative e dinamiche non riescono a fare quanto vorrebbero per la loro dimensione ridotta. Strumenti e opportunità per fare rete, anche più in generale, sono essenziali laddove, come riscontrato anche nelle analisi sui nostri distretti, il nostro tessuto imprenditoriale è molto capace e creativo, ma fatica appunto per le proprie piccole dimensioni. 141 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento elevare il livello di competenze, per esempio portando chi ha solo l’obbligo a una qualifica e chi ha una qualifica a un diploma. Un intervento su una vasta platea di lavoratori li renderebbe meno vulnerabili in caso di crisi e più protagonisti e portatori di innovazione nelle aziende. Inoltre vanno rilanciati, seguendo gli obiettivi europei, gli investimenti in ricerca e sviluppo anche collegandoli al sostegno della messa in rete delle imprese. b. Contratto unico a tutele progressive, tutela dei nuovi lavori, ammortizzatori e politiche attive per tutti e forme di partecipazione dei lavoratori Il contratto a tutele progressive è una delle proposte che le Acli sostengono da tempo Va chiarito subito che non può trattarsi di un contratto da applicare in seguito ad altri. Un lavoratore non può fare tre anni di collaborazione a progetto, poi tre a tempo determinato e poi il contratto di inserimento con la stessa azienda. In secondo luogo bisogna capire come partite iva, collaboratori a progetto e altre forme a progetto vengono ricondotte ad alcune situazioni e non se ne abusa. Qui le sole norme non bastano. Inoltre la “Fornero” ha dimostrato che aumentarne il costo facendo salire gli oneri sociali e previdenziali rischia di far cadere il costo sui lavoratori stessi che all’aumentare delle percentuali si vedono ridurre i compensi netti. Serve che almeno questo aumento di costo sia immediatamente utilizzabile nei periodi di non lavoro. E serve addivenire a uno Statuto dei lavoratori autonomi che effettivamente li tuteli e consenta a loro forme di rappresentanza. A ciò si affianca la necessità con apposite norme di tutelare e professionalizzare molti lavori spesso seminascosti che coinvolgono migliaia di giovani nella cultura, nello sport, nell’arte, nello spettacolo, nel tempo libero. Infine bisogna capire come incentivare, oltre all’apprendistato, il ricorso al contratto unico a tutele progressive, anche tenuto conto della scarsità di risorse. Diventa inoltre fondamentale allargare a tutti i lavori gli ammortizzatori prevedendo una forma di collegamento con percorsi di riqualificazione e politiche attive del lavoro che aiutino a ricollocarsi, ma anche ad intervenire sulle piccole e medie aziende per aiutarle a riorganizzarsi prima delle chiusure o a valutare in taluni casi la trasformazione in cooperative di lavoratori. Da questo punto di vista va ripresa quella parte della legge Fornero che prevedeva un percorso verso la partecipazione dei lavoratori agli indirizzi delle aziende, perché anch’essa è una forma non solo di tutela, ma di migliore prevenzione delle situazioni di crisi. In questo contesto non va dimenticato il bisogno di politiche dove il lavoro c’è, ma è in condizione di sofferenza o di sfruttamento, nonché la necessità di risolvere il nodo di chi è stato o viene espulso dal proprio impiego molto prima dell’età pensionabile. Sulle politiche attive serve un investimento anche in una migliore organizzazione tra Stato, Regioni, enti locali, anche prevedendo l’Agenzia nazionale per il lavoro. In questo campo molti soggetti di Terzo settore hanno dimostrato di avere competenze ed esperienze positive, ma anche di poter abbinare gli interventi individuali a forme di promozione di nuovi lavori nel sociale e di nuova imprenditorialità, come tra l’altro testimonia l’esperienza della cooperazione di inserimento lavorativo, che va valorizzata soprattutto per vincolare le aziende all’inclusione di persone diversamente abili. c. Proteggere e re-includere chi rischia la povertà: un reddito di inclusione sociale Spiace vedere che anche quando si pensa alle fasce più basse ci si dimentichi spesso di chi non entra neanche nel computo dei redditi perché in povertà relativa o assoluta, che negli ultimi anni ha toccato quasi l’8% della popolazione. Il primo finanziamento giusto che vorremmo vedere è quello che garantisce anche in Italia una misura universale contro la povertà assoluta, collegata a percorsi di reinserimento, così come all’interno dell’Alleanza contro la povertà, da noi promossa insieme alla Caritas, la stiamo definendo nei particolari. 142 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto d. pensare alla pensione dei giovani Per i giovani oggi si pone in prospettiva un problema di povertà anche perché molti avranno carriere lavorative spezzettate. Questa condizione diffonde una sempre minore fiducia nelle istituzioni e nella previdenza pubblica. Occorre un trattamento minino finanziato anche da una perequazione tra contribuzioni alte e contribuzioni basse. 4. INVESTIRE PER REDISTRIBUIRE IL LAVORO L’occupazione è ciò che redistribuisce fiducia, più ancora del denaro stesso, perché consente di impostare un progetto di vita e di famiglia. Per questo in un periodo così difficile soprattutto, ma anche guardando alle trasformazioni del lavoro occorrono misure che puntino a redistribuire anche il lavoro che c’è. a. Part time verso la pensione e part time di ingresso dei giovani Una prima misura che sarebbe già possibile praticare senza particolari interventi legislativi, magari facendo ricorso ai contrati di solidarietà espansivi (lavorare meno per fare nuove assunzioni) riguarderebbe la possibilità di andare in pensione in modo graduale prima, in cambio dell’assunzione a par time di un altro lavoratore. Va infatti detto che la riforma Fornero bloccando le pensioni ha bloccato anche il ricambio tra uscite e nuovi ingressi soprattutto di giovani. b. Detassare il part time dei giovani Inoltre invece di detassare gli straordinari (che certo non stimolano ad assumere giovani) occorre rivolgere gli incentivi per l’assunzione verso i part time dei giovani così da raggiungere più persone e comin- ciare in prospettiva a promuovere una organizzazione dei tempi di lavoro più in linea con i paesi del centro e nord Europa dove appunto si lavora in media meno del 20 % rispetto al nostro mondo del lavoro. c. Investire nei contratti di solidarietà, anche con reti di imprese Infine andrebbe agevolato il ricorso maggiore ai contratti di solidarietà anche prevedendone l’utilizzo da parte di imprese messesi in rete tra loro magari proprio per affrontare periodi di crisi, ma anche la riduzione dell’apporto di manodopera (o la propria estensione con contratti di solidarietà espansivi). Al ricorso ai contratti andrebbero poi affiancati percorsi di riqualificazione, sul modello tedesco. Nella Evangelii gaudium Papa Francesco sostiene che “l’inequità è la radice dei mali sociali”, nella nostra Costituzione l’art 4 ci ricorda che il lavoro è una attività o una funzione con la quale concorriamo al progresso materiale o spirituale della società. Oggi cerchiamo attraverso le nostre braccia e le nostre teste di cittadini e lavoratori di realizzare un progresso che sconfigga questa iniquità per riscoprirci insieme di fronte alle risorse e ai problemi. Confidiamo che tutti i lavoratori e i cittadini, il lavoro, i lavori di oggi, possano essere ancora, nonostante tutto, protagonisti di quel cambiamento, e di quella conversione che ci apre a un mondo nuovo. Documento approvato dalla Presidenza nazionale Acli, 26 marzo 2014 143 APPENDICE IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto Bibliografia per approfondire di Simone Cittadini ZUCCHETTI EUGENIO, La disoccupazione. Letture, percorsi, politiche, Vita e Pensiero, 2005 PACI MASSIMO, Nuovi lavori, nuovo welfare. Sicurezza e libertà nella società attiva, Il Mulino, 2005 ACCORNERO ARIS, San Precario lavora per noi. Gli impieghi temporanei in Italia, Rizzoli, 2006 MANZONE Gianni, Il lavoro tra riconoscimento e mercato, Queriniana, 2006 CANTARO ANTONIO, Il diritto dimenticato. Il lavoro nella costituzione europea, Giappichelli, 2007 PICCONE STELLA SIMONETTA (a cura di), Tra un lavoro e l’altro. Vita di coppia nell’Italia postfordista , Carocci, 2007 CASELLI LORENZO, Globalizzazione e bene comune, Edizioni Lavoro, 2007 COLASANTO MICHELE, Lodigiani Rosangela, Welfare possibili. Tra workfare e learnfare, Vita e Pensiero, 2008 FERRERA MAURIZIO, Il fattore D. Perché il lavoro delle donne farà crescere l’Italia, Mondadori, 2008 BAGLIONI GUIDO, L’accerchiamento. Perché si riduce la tutela sindacale tradizionale, Il Mulino, 2008 TOTARO FRANCESCO, Il lavoro come questione di senso, Edizioni Università Macerata, 2009 MAGATTI MAURO, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, 2009 LORETO FABRIZIO, L’unità sindacale (1968-1972). Culture organizzative e rivendicative a confronto, Ediesse, 2009 STIGLITZ JOSEPH, SEN AMARTYA, FITOUSSI JEAN-PAUL, La misura sbagliata delle nostre vite. Perché il PIL non basta più per valutare benessere e progresso sociale, Etas, 2010 NATOLI SALVATORE, Il buon uso del mondo, Mondadori, 2010 RULLANI ENZO, Modernità sostenibile. Idee, filiere e servizi per uscire dalla crisi, Marsilio, 2010 CARRIERI MIMMO, DAMIANO CESARE (a cura di): Come cambia il lavoro. Insicurezza diffusa e rappresentanza difficile, Ediesse, 2010 ICHINO PIETRO, Inchiesta sul lavoro. Perché non dobbiamo avere paura di una grande riforma, Mondadori, 2011 GEMINELLO ALVI, Il capitalismo. Verso il modello cinese, Marsilio, 2011 BOERI TITO, GARIBALDI PIETRO, Le riforme a costo zero. Dieci proposte per tornare a crescere, Chiarelettere, 2011 NALDINI MANUELA, SARACENO CHIARA, Conciliare famiglia e lavoro. Vecchi e nuovi patti tra sessi e generazioni, Il Mulino, 2011 PAIS IVANA, La rete che lavora. Mestieri e professioni nell’era digitale, Egea, 2012 BELLOFIORE RICCARDO, La crisi capitalistica, la barbarie che avanza, Asterios, 2012 FAIOLI MICHELE, Introduzione allo studio del diritto europeo delle relazioni industriali, Giappichelli, 2012 RAMPINI FEDERICO, Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo. Manifesto generazionale per non rinunciare, Strade Blu, 2012 TOURAINE ALAIN, Dopo la crisi. Una nuova società possibile, Armando, 2012 FITOUSSI JEAN-PAUL, Il teorema del lampione o come mettere fine alla sofferenza sociale, Einaudi, 2013 BAUMOL WILLIAM J., LITAN ROBERT, SCHRAMN CARL J., Capitalismo buono. Capitalismo cattivo. L’imprenditorialità e i suoi nemici, Università Bocconi, 2013 NEGRELLI SERAFINo, Le trasformazioni del lavoro. Modelli e tendenze nel capitalismo globale, Mondadori, 2013 PETROSINO SILVANO, Elogio dell’uomo economico, Vita e Pensiero, 2013 ZAGREBELSKY GUSTAVO, Fondata sul lavoro. La solitudine dell’articolo 1, Einaudi, 2013 D’ORAZIO COSTANTINO, Caravaggio segreto, Sperling & Kupfer, 2013 SENNET RICHARD, Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli, 2014 BIANCHI PATRIZIO, LABORY SANDRINE, Le nuove politiche industriali dell’Unione Europea, Il Mulino, 2014 PASSERINI WALTER, MARINO IGNAZIO, La guerra del lavoro, Rizzoli, 2014 BRUNI LUIGINO, Fondati sul lavoro, Vita e Pensiero, 2014 147 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento RAMPINI FEDERICO, Vi racconto il nostro futuro. Storia di un nomade della globalizzazione in viaggio verso l’Occidente estremo, Mondadori, 2014 MAGATTI MAURO, GIACCARDI CHIARA, Generativi di tutto il mondo unitevi! Manifesto per la società dei liberi, Feltrinelli, 2014 Filmografia Sciopero! (1925) di Sergej Ejzenštejn La prima opera del maestro Ejzenštejn, di stampo dichiaratamente didattico e propagandistico. Un operaio è ingiustamente accusato di furto dai suoi padroni. Disperato per l’ingiustizia subita, si impicca sul posto di lavoro. I lavoratori della fabbrica organizzano clandestinamente uno sciopero di solidarietà e protesta che non è solo un atto di accusa alla durezza padronale, ma anche un esempio di fraternità tra lavoratori. Metropolis (1926) di Fritz Lang La storia si svolge in una metropoli del XXI secolo tiranneggiata da Frederson, un uomo che schiavizza gli operai, costringendoli a vivere nel sottosuolo. I proletari sono guidati nella riscossa da Maria, di cui si innamora l’ignaro figlio del dittatore. Frederson, per controllare gli operai, fa costruire da uno scienziato un cyborg sosia di Maria. Tempi moderni (1936) di Charlie Chaplin I gesti ripetitivi, i ritmi disumani e spersonalizzanti della catena di montaggio minano la ragione del povero operaio Charlot, che finisce col perdere il posto di lavoro. Satira sociale in difesa della dignità dell’uomo contro il dominio della macchina. Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica Un operaio disoccupato trova un posto d’attacchino municipale, ma per lavorare ci vuole una bicicletta e la sua è al monte di pietà. La moglie la riscatta ma un ragazzo la ruba. L’attacchino pensa di rivalersi rubando a sua volta una bicicletta incustodita, ma viene preso e solo il pianto del suo bambino lo salva dall’arresto. Padre e figlio tornano a casa esausti e disperati. Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti La famiglia Parodi arriva dalla Basilicata a Milano, dove i quattro fratelli cercano, con alterne fortune, di trovare un lavoro per sottrarsi alla misera condizione in cui vivono. In questo film, in cui si riflette il dramma dell’emigrazione meridionale, Visconti riesce a farci vedere Milano attraverso gli occhi di questi uomini costretti allo sradicamento per sopravvivere. È una città fredda, dura, ma anche disponibile e pronta ad offrirsi a chi arriva per lavorare. Pane e cioccolata (1973) di Franco Brusati Nell’affannosa ricerca di un lavoro dignitoso un cameriere ciociaro emigrato in Svizzera decide infine di farsi passare per cittadino svizzero, ma è scoperto ed espulso. Continuerà a lottare per conciliare lavoro e dignità. Commedia agrodolce sull’emigrazione. Impiegati (1984) di Pupi Avati Un giovane e timido neolaureato entra a lavorare in banca, dove si trova a confrontarsi con il mondo del lavoro e i suoi nuovi colleghi, tutti impiegati squallidi senza nessun altro obiettivo che quello di far soldi e primeggiare sugli altri a qualunque costo. Avati individua il fenomeno degli yuppies, giovani professionisti rampanti, mettendolo alla berlina. 148 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto Donne in carriera (1988) di Mike Nichols Negli anni Ottanta le donne iniziano a imporsi nel mondo del lavoro. La protagonista di questo film è una segretaria trentenne ambiziosa, che vuole sfondare nel mondo dell’alta finanza e non è disposta ad accettare le regole classiste del settore. Ingannata dalla propria capoufficio, alla prima occasione si vendicherà, e allo stesso tempo realizzerà i propri sogni. Riff Raff (1991) di Ken Loach Loach ci offre uno spaccato della vita del proletariato nella Gran Bretagna dell’era Thatcher. Lo fa attraverso le vicende dello scozzese Stevie, un ex detenuto per furto che sotto falso nome lavora come operaio in un cantiere edile della Londra della ristrutturazione economica, della sua ragazza disoccupata e degli altri protagonisti costantemente impegnati a sbarcare il lunario. Il posto dell’anima (2003) di Riccardo Milani È una storia dei giorni nostri: una multinazionale americana decide di chiudere la filiale italiana, a Vasto, per tagliare sui costi e spostare la produzione in zone economicamente in crescita. Gli operai iniziano una lotta serrata con iniziative di ogni genere. Nascono contrasti tra di loro, i responsabili sindacali e anche all’interno delle mura domestiche. La comparsa di alcuni gravi casi di malattia del lavoro, dovuta alle condizioni di produzione, li farà ritornare uniti nel tragico epilogo del film. Il cacciatore di teste (2005) di Costantin Costa Gavras Il protagonista è un manager del settore della carta di mezza età che ha perso il lavoro a causa di una ristrutturazione della sua azienda. Convinto di trovare immediatamente un altro lavoro all’altezza del suo curriculum, dopo due anni di ricerche si ritrova ancora disoccupato. Decide così di mettere in atto un piano destinato a restituirgli il lavoro presso la principale azienda del settore. Il piano consiste nell’eliminazione fisica di tutti i suoi principali concorrenti, altri manager che come lui hanno perso il posto e vivono di espedienti partecipando ad umilianti colloqui di lavoro. L’industriale (2011) di Giuliano Montaldo Il quarantenne Nicola è proprietario di una fabbrica sull’orlo del fallimento, immersa nella grande crisi economica che soffoca tutto il paese. Ma è orgoglioso, rifiuta anche l’aiuto economico della ricca suocera che potrebbe salvarlo. Assediato dagli operai che lo pressano per conoscere il loro destino, Nicola avverte che qualcosa sta turbando l’unica certezza che gli è rimasta: il matrimonio. Disperato Nicola tira fuori il peggio di sé. Quando,infine, tutto sembra tornare a posto: l’azienda, il matrimonio, il successo sociale, emergeranno i terribili segreti che Nicola pensava di aver celato. Montaldo fotografa impietosamente il terremoto sociale e finanziario degli ultimi anni. L’intrepido (2013) di Gianni Amelio Antonio è un uomo speciale. Vive a Milano e ogni giorno, pur di non risvegliarsi la mattina senza sapere cosa farà, pratica un lavoro “particolare”, il rimpiazzo: lui in pratica sostituisce, anche per poche ore, lavoratori di qualsiasi tipo che si assentano dal lavoro per cause più o meno valide. Fa di tutto, lavora in qualsiasi luogo, pur di essere pagato, anche per molto poco, ma non si arrende mai. Il capitale umano (2014) di Paolo Virzì Dino agente immobiliare in crisi immagina di risolvere i suoi problemi investendo centinaia di milioni di euro (che non ha) nel fondo azionario del potente e spregiudicato Berneschi. Sua figlia è la fidanzata del figlio del finanziere e questo a Dino sembra una garanzia sufficiente per l’investimento. Il film, che si svolge nella fastosa villa dei Berneschi dove un giorno Dino arriva con la figlia per concludere l’investimento, si sviluppa verso un epilogo drammatico, in cui si intrecciano interessi economici, crisi finanziaria ed egoismi. 149 47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento REPOSITORY Redazione BeneComune.Net BENE COMUNE. La banca culturale che mette in COMUNE le tante idee per fare il BENE Cosa ti serve per approfondire un’idea? Vorresti leggere dei libri significativi? Pensi che anzitutto dovresti comprendere il vero significato di alcune parole? Ti piacerebbe disporre di dossier ben organizzati tema per tema? Visita allora il sito web www.benecomune.net. Lì troverai la sintesi di testi di particolare rilievo, con citazioni e brevi riflessioni; troverai parole-chiave complesse spiegate in modo semplice; troverai articoli e interviste di docenti, esperti e appassionati che cercano di interpretare la realtà... Nel 2014 su www.benecomune.net ci siamo occupati di... ...DOSSIER 2014 1 . Gennaio. Stato di necessità. L’Italia non dispone di una misura di contrasto alla povertà 2 . Febbraio. Che casinò! Quando l’economia è ridotta a casinò vuol dire che le cose non vanno bene 3 . Marzo. Diverso come me. Lo straniero è qualcosa d’altro? 4 . Aprile. Non gioco più... Cittadini mobilitati contro il gioco d’azzardo 5 . Maggio. Testa o croce? L’euro tra buone ragioni e contestazioni 6 . Giugno. Qualcosa del genere. Per non essere approssimativi sulle differenze tra maschi e femmine 7 . Luglio/Agosto. Start me up. Innovare, creare e generare lavoro ...PAROLE-CHIAVE 1 . Capacitazione 2 . Democrazia digitale 3 . Democrazia deliberativa 4 . Democrazia economica 5 . Flexicurity 6 . Lavoro dignitoso (decent work) 7 . Working poor OPERE di Geminello Alvi, Chiara Canta, Maddalena Colombo, Luca Diotallevi, Luciano Gallino, Adriano Olivetti, Mauro Magatti, Marco Marzano e Nadia Urbinati, Enrico Moretti, Silvano Petrosino, Ivana Pais, Papa Francesco, Thomas Piketty, Mauro Pini, Massimo Recalcati, Giuseppe Rossi e Salvatore Leonardi, Nicholas Shaxson, Richard Sennet, Francesco Valerio Tommasi, Carlo Trigilia. Hanno collaborato per BeneComune.Net... Vincenzo Antonelli, Simona Bartolini, Piero Bargellini, Leonardo Becchetti, Marco Bonarini, Marco Burgalassi, Chiara Canta, Tonino Cantelmi, Lorenzo Caselli, Andrea Casavecchia, Tino Castagna, Stefano Ceccanti, Francesco Clementi, Michele Consiglio, Fabio Cucculelli, Maurizio Drezzadore, Maria Rita Falco, Oliviero Forti, Arianna Frisina, Paolo Frusone, Lorenzo Gaiani, Claudio Gentili, Laura Gentili, Silvano Ghilardi, Osea Giuntella, Alessandro Giuliani, Giovanni Grandi, Luca Grion, Marco Guzzi, Luca Jahier, Luigi Janiri, Antonio La Spina, Fabio Mazzocchio, Mauro Meruzzi, Giuseppe Mulas, Antonio Nanni, Cristiano 150 IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto Nervegna, Giuseppe Notarstefano, Marco Olivetti, Ivana Pais, Walter Passerini, Filippo Pizzolato, Luca Raffaele, Salvatore Rizza, Mariagrazia Rodomonte, Roberto Rossini, Enzo Rullani, Antonio Russo, Vincenzo Satta, Stefano Semplici, Stefano Tassinari, Monica Vacca, Paola Villa, Rosanna Virgili. 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