Schema di tutti i verbi in latino

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INDICE
Il lavoro non è finito, di Gianni Bottalico
p. 5
Tra Cortona 2013 e Cortona 2014
Da dove veniamo: Cortona 2013, a cura di Ufficio Studi
Cortona 2014. Il tema, a cura di Ufficio Studi
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Suggestioni e scenari
Una nuova forma di solidarietà, di Roberto Rossini
Dalla cooperazione alla comunità, di Piero Bargellini
Mutamento sociale, capitalismo e crisi, di Andrea Casavecchia e Fabio Cucculelli
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Il senso del lavoro
Il lavoro nello scorrere del tempo. Un’analisi socio-storica, di Andrea Casavecchia
Lavorare in gratuità. Un’analisi biblica, di Marco Bonarini
Il bene nel lavoro. Un’analisi dottrinaria, di p. Elio della Zuanna
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La realtà del lavoro
Il lavoro presente… e assente, a cura di Iref
Lavoro e vulnerabilità sociale: un inedito binomio, a cura di Giuseppe Marchese
Famiglia e lavoro: fra vulnerabilità e opportunità, di Santino Scirè
Il lavoro e il sindacato europeo, di Simonetta De Fazi
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Le Acli e il lavoro
I servizi al mutare del lavoro: il Patronato, di Marco Calvetto
I servizi al mutare del lavoro: il Caf, di Paolo Conti
I servizi al mutare del lavoro: Enaip, di Tino Castagna
La forza (del) lavoro: una campagna per dimostrare che il lavoro non è finito, di Stefano Tassinari
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Appendice
Bibliografia e filmografia, a cura di Simone Cittadini, Storico Acli
Repository, a cura della redazione di BeneComune.Net
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150
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
IL LAVORO NON È FINITO
Gianni Bottalico
Presidente Nazionale
sicurezza sul lavoro, della salute dei consumatori. I
Paesi emergenti hanno approfittato della globalizzazione per avviare la loro industrializzazione, ma
adesso invocano un sistema finanziario internazionale più equilibrato ed il riconoscimento del loro
ruolo politico sulla scena globale. Un unico centro
politico e finanziario oppure diversi centri. È questo
l'oggetto del conflitto del nostro secolo. In questa
partita l'Europa rappresenta l'ago della bilancia ma
rischia di divenire il teatro dello scontro se anziché
ricercare il bene comune si dovesse lasciare sopraffare dagli altrui interessi.
Da dove ripartire, allora, per costruire un'economia che crea lavoro buono e giusto? Da una grande
iniziativa politica che scaturisce da una capacità di
lettura e di progetto adeguata alle sfide non semplici che questo tempo ci presenta. E da una capacità di cogliere le difficoltà sociali ed economiche
che si manifestano sui territori: la deindustrializzazione, l'aumento della disoccupazione, l'impoverimento dei ceti lavoratori, il dilagare della povertà.
Su queste emergenze dobbiamo rimodulare la nostra vita associativa e l'intero sistema dei servizi,
sia in termini di capacità di lettura dei nuovi bisogni sociali, sia in termini di nuove offerte che puntino a subentrare alle sempre più numerose lacune
lasciate dal ritiro e dal ridimensionamento dello
stato sociale. Ancora una volta, come in altre epoche, per le Acli il compito principale ed il maggior
servizio che possono rendere al bene comune, è
quello di cercare di tradurre in progetto politico
coerente quanto suggerito dall'esperienza e dal
contatto diretto con le difficoltà dei nostri associati
e dei concittadini che incrociamo, con le nostre iniziative e con i nostri servizi.
Mentre assistiamo a movimenti della storia sempre più intensi, spesso violenti, alla ricerca di un
nuovo equilibrio globale capace di sostituire quello
impostosi nel ventesimo secolo, a quasi settant'anni dopo la conclusione del secondo conflitto
mondiale, e nel centenario dell'inizio della Grande
Guerra, le Acli tornano a Cortona per interrogarsi sul
ruolo che possono esercitare nell'attuale complicata
fase di transizione e di crisi.
Il lavoro continua ad essere il termometro della
stabilità sociale e politica di un'epoca. Quando questo è ridotto a merce e la giustizia sociale è sacrificata sull'altare dell'idolatria del profitto e di un sistema finanziario basato sulla speculazione, si va
incontro a tempi convulsi. Per questo il tempo attuale è così denso di incognite. Oggi tutto congiura contro il lavoro. Le scelte strategiche fondamentali lo penalizzano e sempre meno lo tutelano.
Gli stati non trovano le risorse per politiche di sviluppo, ma trovano copiose risorse per soccorrere gli
istituti finanziari. Da anni i legislatori sono sottoposti ad una pressione continua e martellante da parte
degli organi di stampa per più deregolamentazione
e flessibilità, ma nel contempo le istituzioni accettano, senza significative resistenze, le rigidità della
politica europea di austerità, e paiono già pronte ad
accettare quelle ancor più gravi che si profilano, derivanti dalla stipula in segretezza e senza controllo
democratico, di trattati internazionali come il Trattato transatlantico di libero scambio (Ttip) e l'Accordo di Commercio sui Servizi (Tisa). Il quadro
giuridico e istituzionale che si va costruendo non ha
al centro né il lavoro, né la persona, ma il profitto,
una sua ulteriore centralizzazione nelle mani di pochi operatori globali a scapito dei diritti sociali, della
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TRA CORTONA 2013 E CORTONA 2014
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
DA DOVE VENIAMO: CORTONA 2013
Partecipazione e democrazia per abitare la storia
a cura di Ufficio Studi
un lato la riduzione della quota di umanità che versa
in stato di povertà: se negli anni Settanta del Novecento la metà delle persone viveva con meno di un
dollaro al giorno, oggi si trova nella stessa situazione
un settimo della popolazione globale. Dall’altro lato
abbiamo assistito alla separazione della coppia capitale-democrazia: se nel recente passato la crescita
economica era legata a doppio filo con la sorte della
democrazia di un Paese, oggi i destini si separano:
anzi, assistiamo a un “blocco” delle democrazie. In
Cina la crescita economica non è affiancata dalla
maturazione di una società garante del pluralismo democratico; così come nei paesi europei la difesa dell’economia ha ampliato le disuguaglianze sociali e
solo alcuni hanno beneficiato degli effetti della globalizzazione. Quando Filippo Andreatta concentra la
sua analisi sull’Italia, emergono due indicatori di crisi:
il primo riguarda l’autoreferenzialità politica, che è
emersa in tutta la sua forza nelle ultime elezioni, dove
l’astensionismo è stato imponente e il Movimento 5
Stelle ha catalizzato il consenso delle categorie più
deboli (giovani, autonomi, disoccupati). Il secondo indicatore riguarda la frattura generazionale: l’Italia è un
paese dove chi lavora controlla meno della metà della
ricchezza complessiva, dove i giovani sono poco valorizzati e l’investimento nell’istruzione è scarso: se
pensiamo che sono quasi solo i figli dei laureati a laurearsi, prendiamo atto che alle nuove generazioni
sono offerte scarse opportunità di lavoro e scarsi investimenti per il loro futuro.
E allora, ecco il problema politico: quali sono le domande di futuro su cui costruire la storia del nostro
Paese? Quali forze politiche e civili avranno il coraggio di sceglierle?
L’economista Leonardo Becchetti ha aggiunto alla
Potremmo sintetizzare con un interrogativo l’esigenza da cui è nato l’incontro di Studi 2013: Come
possiamo abitare il nostro tempo? Quale tipo di presenza ci chiede la storia?
Il tempo non è neutro o astratto, ma è un tempo calato in una storia ben precisa e delineata, che presenta
due grandi sfide, la crisi economico-culturale e la
(conseguente) crescita delle disuguaglianze. Le nostre
società democratiche si sono sempre distinte (ma ora
non più) per la forza della partecipazione con le opportunità da essa create, e per la ricchezza dei diritti di cittadinanza con il loro bagaglio di potenzialità per lo sviluppo integrale della persona.
Questo tempo interroga la fedeltà alla democrazia che è una caratteristica genetica delle Acli: appartiene al loro DNA e si declina nell’attenzione alla
dimensione popolare e nella proiezione verso un
ideale di giustizia. Confermare la nostra fedeltà
lungo la storia acquista nuovi significati da esplorare per gettare le basi di una cultura politica capace di costruire un nuovo modello di convivenza
civile, che consideri la dignità della persona umana
nella vita e nelle sue relazioni.
Proporci la questione di come abitare la storia significa anche per noi, riscoprire un compito, una vocazione: quali Acli vogliamo per abitare il nostro
tempo? Quale missione?
Dentro questa cornice inquadriamo i contenuti
proposti a Cortona nel 2013, provenienti dai relatori,
dagli interlocutori politici, dal confronto delle esperienze nei laboratori tematici.
Contesto: quale mondo viviamo?
Il politologo Filippo Andreatta ci ha introdotto nel
contesto mondiale. Sono segnalati due elementi: da
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
scaturisce una modifica dei rischi e dei bisogni sociali:
destandardizzazione del lavoro; trasformazioni demografiche; contrazione delle reti familiari; trasformazioni culturali di impronta individualistica. I cambiamenti tendono a favorire l’autonomia dei cittadini, la
loro indipendenza a scapito della loro sicurezza e
della loro socialità.
Così attecchisce la vulnerabilità caratterizzata per
la scarsa stabilità dei meccanismi di acquisizione
delle risorse. Rosangela Lodigiani cita Robert Castel, quando parla di individui per difetto: quelli privi
delle risorse e delle capacità necessarie per essere
autonomi, quelli per i quali un evento negativo o una
normale transizione del corso di vita diventa un ostacolo insormontabile. Tale situazione espone tutti alla
vulnerabilità; soprattutto chi si trova nelle posizioni intermedie della società.
cornice altre tre coordinate: la crisi di senso, la crisi
ambientale e la crisi finanziaria. Dentro di esse si origina la decrescita italiana. Bisogna prendere atto che
la delocalizzazione industriale non si può fermare,
finché non sarà colmato il divario Nord-Sud del
mondo. Inoltre siamo impigliati in un rigorismo autistico che non permette di modificare il rapporto tra il
debito pubblico e il Pil. C’è infine un problema culturale che domina il sistema economico: si privilegia la
produzione di beni di comfort - che creano una dipendenza del consumatore - invece di produrre beni di
stimolo - che creerebbero una crescita del cittadino
(si preferisce inondare il mercato di Suv tutti uguali,
ma personalizzabili, piuttosto di investire su trasporti
ecologici, integrare tecnologie ibride e piste ciclabili).
Le proposte di Leonardo Becchetti toccano due livelli: il primo livello richiede un cambio di paradigma,
che superi l’ideologia del Pil per andare verso un’economia civile, nella quale si combinino mercato, istituzioni pubbliche e cittadinanza. Il secondo livello è
strategico: per uscire dalla congiuntura avversa è importante investire su fattori competitivi non delocalizzabili. L’economista ne individua alcuni, dove l’Italia
parte avvantaggiata: i siti segnalati dall’Unesco come
patrimonio dell’Umanità; il luogo di maggior concentrazione di biodiversità in Europa; la leadership mondiale per i beni culturali e religiosi. Certo ci sarebbe bisogno infine di investimenti per creare un habitat al
sistema economico: efficienza della Pubblica Amministrazione, giustizia civile, banda larga, istruzione...
La sociologa Rosangela Lodigiani ha allargato la riflessione sul tema della vulnerabilità sociale che, nell’ultimo periodo storico, è diventata la categoria interpretativa delle disuguaglianze e della stratificazione
sociale. Attraverso il concetto di vulnerabilità sociale
si comprende il senso di instabilità, fragilità e incertezza che colpisce in modo trasversale la popolazione. Si introduce una dimensione di disuguaglianza
che coinvolge diversi fattori di rischio: precarizzazione del lavoro, instabilità reddituale, corrosione delle
reti di prossimità, inerzia istituzionale. Nel corso degli ultimi decenni anche in Italia il contratto sociale, incentrato su lavoro, famiglia e welfare ha segnato il
passo: la nostra società perde la capacità di provvedere al benessere e alla sicurezza dei cittadini. Ne
Lo stato della partecipazione
e della democrazia
La partecipazione sociale è in bilico nella nostra
storia. Ma la partecipazione è uno dei possibili modi
di abitare la storia in modo collettivo. Per descriverne
lo stato attuale, il sociologo Paolo Ceri ha distinto tre
dimensioni. La prima riguarda i compiti e il ruolo che
un soggetto svolge all’interno di un’attività comune:
aver parte nel raggiungere un obbiettivo. La seconda
riguarda la capacità e la possibilità di influenzare le decisioni collettive: sentirsi parte di un gruppo, della famiglia, di un’impresa, di un’associazione. La terza
dimensione, sostiene Ceri, si inserisce nel quadro
del cambiamento di regole e finalità di una comunità:
consiste quindi nel prender parte ad un’azione di trasformazione collettiva.
Oggi sono principalmente due le vie privilegiate
di partecipazione per le persone: il mondo digitale
e l’associazionismo. Entrambe presentano problematicità. La prima via per ora sembra essere “sostitutiva” più che trasformativa delle forme tradizionali:
diventa uno sfogo individuale, un segnale di protesta, ma manca di collante e di forza propositiva. La
seconda, l’associazionismo, sembra avvitarsi su se
stessa; stimola alla partecipazione interna e alle finalità di servizio dell’organizzazione, piuttosto che
promuovere la cittadinanza tout court.
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IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
uguaglianza, giustizia e legalità sono dentro il patto di
delega democratica: cosa succede se non sono rispettate? Infine il sociologo segnala un rischio: stiamo
abbandonando la democrazia associativa e deliberativa, accantonate insieme al federalismo...
Per verificare le forme di partecipazione, Paolo
Ceri, individua una strategia d’azione. Innanzitutto occorre ricostruire la rete della fiducia tra le persone e
nel rapporto cittadini e istituzioni. Perciò si propone
di operare su tre piani: legalità, giustizia sociale, connessioni tra sfere vitali e culturali. L’operazione
chiama in causa alcune minoranze attive: dirigenti
con visione internazionale; associazioni non corporative; movimenti sociali per i diritti e la democrazia.
Infine per riattivare la partecipazione secondo il sociologo bisogna alimentare un collante etico che
ruoti attorno all’appello per la dignità umana, ancora oggi capace di mobilitare azioni di protesta e
proposta.
Una seconda modalità dell’abitare la storia in
modo collettivo è la democrazia, che il politologo Ilvo
Diamanti segnala nella sua specificità temporale: la
democrazia non esiste se non la collochiamo nell’oggi
lungo un percorso tra passato e futuro.
Il rapporto con la storia è una prima questione da
affrontare: nel nostro sistema democratico non garantiamo una previsione di breve e tanto meno di lungo
periodo. Nel primo caso è sufficiente considerare
l’attuale situazione: come si può governare quando
non si è a conoscenza della data delle prossime elezioni, quali saranno le alleanze, quali partiti esisteranno? Nel secondo caso è sufficiente osservare le
prospettive della condizione giovanile: la fascia adulta
della popolazione ha bloccato il tempo e detiene il potere; i giovani non entrano in conflitto, non ne avrebbero la forza economica né demografica, semplicemente se ne vanno.
Una seconda questione, per Ilvo Diamanti, attiene
al significato della democrazia. L’astensionismo mette
in crisi la dimensione della rappresentanza e della
rappresentatività, che è la forma di democrazia attualmente conosciuta. Si è passati da una democrazia dei
partiti alla democrazia dello spettatore, dalla partecipazione alla comunicazione, dall’identità agli slogan.
Il voto – infatti - non riesce a esprimere una vera e propria maggioranza politica e per questo, da tre anni, ricorriamo a governi tecnici composti da saggi. Dentro
una fase di eccezione assumono importanza altre figure: la magistratura, l’università. Oltre alla dimensione procedurale c’è una paralisi contenutistica:
Lo stile dell’abitare
Nella situazione di crisi, come appare la speranza dei cristiani?
Fratel Massimo Fusarelli, a partire dal Salmo 37, indica la peculiarità del vivere nel margine, descritto
nella Sacra Scrittura: nel momento della persecuzione, al credente è proposto di coltivare la fedeltà e
il bene, di non cedere al male. Ne emerge la differenza
tra lo stolto e il saggio: il primo si chiude in sé stesso,
si sente protagonista assoluto, invade lo “spazio” e
aspira al possesso esclusivo. Il saggio, invece, rimane ancorato all’alleanza e vive la storia dentro la
categoria del pellegrino, in continua ricerca della verità, con i piedi ancorati alla terra e gli occhi fissi
verso il cielo. Il saggio è capace di vedere l’ingiustizia e ascoltare il lamento di chi vive nella sofferenza.
Monsignor Riccardo Fontana, vescovo di Arezzo e
Cortona, evidenzia la necessità di trovare un posto
nella storia per attraversare la “palude” in cui siamo
impantanati. L’invito richiede un discernimento attraverso il recupero di uno stile di vita secondo lo Spirito. Il richiamo vale per i singoli, come per le associazioni e la Chiesa stessa. Per abitare la storia
dobbiamo fare memoria della nostra tradizione. Il vescovo provoca quindi con due domande: com’è possibile traghettare l’esperienza del cattolicesimo democratico? Come si concretizza oggi l’appello di don
Luigi Sturzo rivolto agli uomini liberi e forti?
Dentro questo perimetro è possibile ricavare lo
spazio politico dell’azione locale, che si caratterizza
per alcuni elementi: l’amore per gli ultimi, la cultura
della legalità e il dialogo per superare la cultura dell’assedio. Spiega il vescovo: l’unico nemico nel Vangelo è il diavolo, non bisogna crearsi fortini.
Le sfide per abitare la storia
Dal confronto con gli esperti e dal dibattito avvenuti nei laboratori tematici è possibile individuare alcune sfide:
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
sfida che attende i sistemi di welfare è quella dello
sviluppo delle capacità personali e comunitarie per
superare la logica dell’emergenza. Le politiche sociali dovrebbero adottare una logica dell’integrazione istituzionale (Stato, Regioni, province, comuni), di integrazione tra pubblico/privato e di
integrazione tra le diverse politiche (sanitarie, abitative, fiscali, del lavoro).
Per le Acli si tratta di tradurre in opere l’obiettivo di
sviluppare un modello sociale che crei reti e costruisca cittadinanza a partire dai giovani e dalle donne.
Esempi di questo sono i Punti Famiglia o iniziative
di conciliazione vita lavoro.
4. Gli stili di vita mostrano la possibilità di costruire
nuovi modi di convivenza. Una novità antropologica sorge nella nostra convivenza umana, in particolare nella famiglia e tra le famiglie: l’assopirsi
e la difficoltà a svolgere il normale lavoro di cura
delle relazioni, tra adulti e con i non-ancora-adulti,
l’afasia educativa, la corsa a rinchiudersi in cittadelle fortificate da dove guardare il mondo cattivo
e pericoloso, la difficile convivenza fisica ed emozionale con il diverso da me e tra generazioni. Viviamo frequentemente la solitudine. L’appartenenza non basta a farci riconoscere e vivere buon
relazioni buone, in quanto queste nascono se
sono generative: lo sottolinea Franco Floris, direttore di Animazione Sociale, nel suo intervento di
approfondimento. Per promuovere stili di vita
creativi e praticabili è necessario uscire dalla tentazione egocentrica che pervade le persone e i
gruppi, per rivolgerci verso le relazioni con gli altri e verso i beni comuni. Dobbiamo cominciare a
immaginarci come un gruppo jazz dove non c’è
un maestro che assembla gli spartiti e i diversi
strumenti musicali, ma sono i diversi musicisti
che annusano le strade che odorano di fritto misto e che collettivamente costruiscono e producono musica locale.
Per le Acli vanno valorizzati percorsi si attivazione
della cittadinanza attraverso la promozione di stili di
vita responsabili: gruppi di acquisto solidali, Distretti di economia civile, pratiche di educazione civica, iniziative di integrazione dei cittadini immigrati sono esempi da perseguire.
1. La democrazia non può prescindere dalla realtà del
sociale e non può rinunciare alla trasparenza del
suo discorso pubblico. La crisi della democrazia,
spiega il politologo Luigi Ceccarini, si individua
nell’incapacità di unire la dimensione istituzionale a
quella sociale. Le persone sono in ricerca di nuovi
canali partecipativi per trasmettere le domande
sociali che provengono dalla loro vita. I soggetti tradizionali, come i partiti, i sindacati le associazioni,
faticano a intercettare questi nuovi modelli partecipativi, a tradurli in istanze concrete a ricondurli nel
quadro di una progettualità più ampia.
Per le Acli questo si traduce nell’impegno a sostenere coesione anche attraverso la costituzione di
comitati civici o forme di circolo che rilancino l’impegno politico sul territorio.
2. Il lavoro presenta due urgenze: le difficoltà di inserimento e l’erosione della socialità. Massimiliano Colombi, l’esperto della Cisl, intervenuto al laboratorio,
ha sostenuto che c’è una vasta area della popolazione che non partecipa al mercato del lavoro si
tratta degli esclusi: gli esodati, i giovani, e in particolare i giovani adulti, i disoccupati over 50. Prendiamo atto che i servizi, le cooperative, i progetti
sono occasioni di incontro per sostenere le fasce deboli, poi il ruolo dei nostri operatori fornisce una
grande varietà di relazioni tra le persone. Nasce
l’esigenza di occuparsi di lavoro e di economia per
essere cittadini e non sudditi.
Per e Acli si presenta un ruolo di informazione e di
educazione: come alfabetizzare su questioni per
l’orientamento ai contratti lavorativi, nelle tutele;
come creare iniziative di mutualità e sostegno tra
persone e tra famiglie; come formare alla costruzione di profili previdenziali e alla finanza.
3. Il sostegno sociale subisce una mutazione genetica. Di fronte ai cambiamenti del welfare e alla costante riduzione della spesa pubblica, destinata ai
servizi sociali, è necessario per chi opera nel sociale
adottare una prospettiva della cura della relazioni
personali, vedendo il singolo soggetto inserito in un
sistema di legami (familiari, sociali, comunitarie).
Secondo una logica sussidiaria va ripresa un’azione
che sia capace di tessere reti di protezione sociale,
come ha ricordato Fabio Vando della Caritas. La
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IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
CORTONA 2014. IL TEMA
Le Acli negli anni 2020.
Per una nuova società del lavoro
a cura di Ufficio Studi
«[…] un lavoro che, in ogni società, sia l’espressione della dignità
essenziale di ogni uomo e di ogni donna: un lavoro scelto liberamente,
che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo
della loro comunità; un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che
consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli,
senza che questi siano costretti essi stessi a lavorare; un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire la loro
voce; un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie
radici a livello personale, familiare e spirituale; un lavoro che assicuri ai
lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa» (Caritas in
Veritate, 63)
«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e
la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso
materiale o spirituale della società» (Costituzione Italiana, art. 4).
Come inquadrare il tema del lavoro oggi? È superato lo schema che contrappone il capitale al lavoro,
in una lotta che oggi registrerebbe una clamorosa regressione della componente lavoratrice (contemplando in essa il lavoro salariato, il lavoro dipendente,
il lavoro falsamente dipendente in realtà precario,
dalla classe operaia al cosiddetto “quinto stato”, passando dai piccoli commercianti)? Quale direzione
prendere per meglio proteggere i diritti dei lavoratori?
Possiamo anche noi confermare che alle conquiste
sindacali degli anni Settanta, è amaramente corrisposta una stagione di contrazione dei diritti dei lavoratori?
Per rispondere a queste domande poniamo
qualche frammento di realtà, proponiamo un nostro
punto di vista per circoscrivere il lavoro attorno a
tre poli. La nostra prospettiva parte dalla persona
che lavora, si interroga sull’organizzazione del sistema produttivo, per arrivare al ruolo del Paese e
del territorio.
La persona che lavora
1. Il senso del lavoro: il lavoro subisce profonde trasformazioni. Sono molteplici le ricadute sulle persone e sulle loro relazioni. L’interrogativo è rivolto alle
condizioni future del nostro convivere perché, come
recita il dettato costituzionale all’art. 3: “È compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese”. Il lavoro contribuisce
a disegnare un progetto di vita.
Oggi la logica di quello che alcuni chiamano capitalismo tecno-nichilista propone il lavoro come
strumento per il consumo e per la soddisfazione dei
desideri suggeriti-imposti dalle innovazioni del mercato. Questa idea svuota il significato del lavoro perché lo individualizza e lo marginalizza all’interno del
sistema produttivo. Il lavoro diventa essenzialmente
13
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
di Pil nei Paesi a economia avanzata non produce un
corrispettivo aumento dei tassi di occupazione, anzi
nei Paesi dell’Unione europea, e in particolare in Italia, si assiste all’aumento dei tassi di disoccupazione
e di inattività. Non c’è un automatismo diretto tra lavoro e cittadinanza, ma il legame tra diritti sociali e lavoro è strettissimo e l’assenza di lavoro rischia di
produrre anche la contrazione dei diritti di cittadinanza. Anche a livello culturale si perde un legame
prima presente e fortemente radicato tra lavoro e cittadinanza. Se si erodono i diritti, allora le persone
sono schiacciate dal bisogno di lavorare e si aprono
vie per trascurare le norme, per rendere accettabili
condizioni precarie, lavoro nero, lavoro sommerso. I
costi si caricano sull’individuo, sulla famiglia e sulla
comunità. Lo stesso se passiamo dalla civiltà del lavoro alla civiltà del non-lavoro, dove le persone inoccupate rimangono imprigionate dal bisogno di lavorare. Siamo in presenza di una deriva, che finisce per
non considerare il lavoro come un diritto di cittadinanza esigibile da tutti, ma solo come una possibilità
a cui non è necessario che tutti accedano. C’è uno
stretto legame tra lavoro e coesione sociale, lavoro e
relazioni con altri, lavoro e costruzione della polis: la
mancanza di lavoro da una parte alimenta un vuoto
sociale, dall’altra parte influisce su spazi e tempi di vita
(famiglia su tutti), ricchi di significato ma diseconomici
nel breve periodo. Il legame tra lavoro e cittadinanza
ci ricorda la stretta e intima connessione tra la fedeltà
al lavoro e la fedeltà alla democrazia delle nostre Acli.
fonte di guadagno e di autosostentamento, diventa
luogo di competizione dove sopraffare l’altro, il più
debole, per ottenere successo. Così il lavoro consuma le persone: “questa economia uccide” (EG 53)
e incentiva la cultura dello scarto (EG 53). Invece il lavoro non si può circoscrivere al suo mero significato
materiale ed economico, perché è actus personae
(LE, 6) e come espressione della persona acquista un
significato antropologico: “la persona è il metro della
dignità del lavoro” (Compendio DSC, 271). Attraverso il loro lavoro le donne e gli uomini realizzano un
prodotto, perfezionano se stessi, entrano in relazione con gli altri, compiono la loro vocazione di lavorare e custodire il creato (Genesi 2,15), contribuiscono a generare bene comune. Quando si pone al
centro la persona il lavoro diviene un bene plurale,
perché considera i genitori, i figli, le donne e gli uomini in carne e ossa con le loro età e le loro condizioni di vita, con la loro cultura e le loro diverse abilità e competenze. Per promuovere un realistico
senso del lavoro è necessario agire su tre dimensioni.
Anzitutto stabilire un rapporto sano con il tempo: la
dimensione biblica della festa è il luogo nel quale si
attribuisce il senso del proprio lavoro, nel quale si valuta se è “bello e buono”; il nostro tempo è aggredito
dalla logica dell’usa e getta e i compiti lavorativi si
esauriscono nella prigione del presente e non aprono
a una visione progettuale. In secondo luogo ricostruire una socialità del lavoro richiede di investire
nelle relazioni, non solamente quelle interne all’impresa, ma anche quelle tra impresa e territorio, tra impresa e comunità locale, tra impresa e società civile.
Abbiamo bisogno di riappropriarci di un umanesimo
del lavoro che chiede l’attenzione alle relazioni nella
giustizia e nella solidarietà anche con la promozione
dei valori di mutualità e cooperazione. Infine fondare una res pubblica, perché occorre un’etica del lavoro orientata al bene comune: lavorare è sensato
quando ci si interroga sulle conseguenze dei risultati
di ciò che si produce, per conciliare sviluppo economico con l’innovazione, con la crescita sociale e la
compatibilità ambientale.
2. Il lavoro e la cittadinanza: l’attuale scenario ci induce a riflettere su una svalutazione del lavoro. Accenniamo ad alcuni aspetti: la crescita degli indicatori
3. Il lavoro e la vulnerabilità: la nuova ripartizione del
lavoro, tra lavoratori forti e strategici per i processi produttivi e lavoratori deboli e periferici, intacca le posizioni occupazionali intermedie sia con una riduzione
della domanda di lavoro, sia con una riduzione salariale. L’effetto poi si riproduce nella società con la crisi
dei ceti medi. La vulnerabilità è percepita soprattutto
dai lavoratori autonomi, da quelli subordinati a medio
e basso reddito, dai piccoli artigiani. Tutti vedono da
una parte peggiorare il proprio tenore di vita, dall’altra parte percepiscono maggiori insicurezze relative
alle condizioni lavorative, alla stabilità del lavoro, alle
tutele nei rapporti di lavoro. Si aggiunge poi un processo di individualizzazione degli ambienti di lavoro
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IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
Non c’è più una “catena di montaggio” tra un lavoro
e un altro, ma i lavori diventano più indipendenti tra
loro. Si costituiscono nuclei di knowledge worker
iperpagati e sovraoccupati e nuclei di working poor,
che sono la contraddizione vivente dell’ipotesi per cui
il lavoro conferisce (tra le altre cose) l’autonomia e la
libertà dall’indigenza. Secondo alcuni autori si sta
generando una società scissa tra queste due polarità,
con i primi a governare la produzione e i secondi che
operano a loro servizio. Ma emerge un’ulteriore figura
che si distacca dalle due polarità: i “lavoratori artigiani”, che cercano nella qualità e nella dimensione relazionale il senso del proprio lavoro, quelli che investono su una produzione cooperativa piuttosto che
competitiva. Tra gli esempi citiamo il ritorno all’agricoltura o all’allevamento (biologica); l’esperienza del
coworking; l’esperienza dei giovani che si giocano su
un doppio lavoro ( uno remunerativo, uno espressivo)
e le molte start up che investono sulle capacità di
mettere insieme intelligenze e idee con sogni e bisogni. In tutte queste diversità organizzative, sarà possibile sostenere un lavoro dignitoso? Saranno immaginabili adeguate misure di protezione sociale?
alimentato dal clima competitivo che contribuisce a
sgretolare la dimensione socializzante e all’isolamento
dei singoli lavoratori.
4. Il lavoro e la virtù: si tratta di una visione poco
esplorata, a causa della prevalenza di una visione più
astratta (che colloca il lavoro in un quadro di valori
morali o di morale politica) oppure più funzionalista
(la competenza, l’abilità). Tutti e tre i livelli sono evidentemente necessari, ma ci pare che il tema delle
virtù - ovvero di quando il valore assume anche una
declinazione di “bene” sul piano pratico - sia centrale.
Si pensi a virtù come il sacrificio, la lealtà, il coraggio,
la perseveranza, la pazienza, l’attenzione, la cura. Il
lavoro va compreso nella sua dimensione etica che
si evidenzia nelle relazioni e nelle finalità del suo prodotto o servizio. Se perdiamo questa dimensione
perdiamo la misura della qualità del nostro lavoro.
Non riusciamo a provare i nostri risultati e non comprendiamo quale sia il frutto del lavoro, quali effetti
abbia sul benessere delle persone e della comunità.
Il lavoro è una questione strettamente relazionale e se
ne valuta la qualità sulla base delle alleanze che costruisce, sulla forza dei legami che consolida e sulle
dimensioni che lo caratterizzano dalla passione alla
gratuità, dalla responsabilità alla cura per la società,
dall’apertura verso le generazioni, presenti e future.
Un’etica del lavoro vede l’impresa come comunità di
persone fortemente radicata sul suo territorio, con il
quale stringe legami di senso, condivide sogni per il
futuro e sente la responsabilità di progettare uno
sviluppo sostenibile.
6. Il lavoro e i giovani: ogni generazione intende il
lavoro a seconda delle esperienze che fa e che vede
(nel lavoro degli altri) negli anni che precedono l’ingresso nel mondo del lavoro. Ma questa generazione
rischia di essere la prima a diventare adulta senza
passare attraverso l’esperienza lavorativa. La generazione dei ventenni e trentenni che sta faticosamente
cercando di entrare si caratterizza per aver conformato il proprio modo di vedere attraverso una significativa espansione spaziale (sia sul piano virtuale, ovvero il web e i social network, sia sul piano fisico, la
mobilità, l’Erasmus, i viaggi low cost, la contaminazione dei linguaggi ecc.) e temporale (più tempo passato in ambienti scolastici e formativi). Le conseguenze di questi modelli formativi influenzeranno il
modo di concepire la produzione e il lavoro: non sarà
remoto affermare - come già sostiene qualcuno che una parte assai cospicua delle professioni del futuro prossimo venturo non sono ancora pensabili
perché non sono ancora nate. Dobbiamo investire
sulla capacità di creare innovazione, nuove idee per
L’organizzazione che produce
5. L’organizzazione del lavoro: il mondo produttivo
ha abbandonato una visione omogenea del lavoro,
che veniva sostenuta dal taylor-fordismo: l’idea del
one best way conteneva una forte impronta razionalistica e ingegneristica che strutturava e gerarchizzava
il lavoro di fabbrica come quello delle amministrazioni.
Le organizzazioni, inserite in un nuovo contesto di tecnologie informatiche, portano a dividere il lavoro all’interno di reticoli più o meno estesi più o meno importanti, portano a privilegiare unità locali all’interno di
connessioni globali. L’immagine del lavoro si articola.
15
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
zione economica e sociale del lavoro e in armonia con
le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce
il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.
Questa norma è rimasta a lungo disattesa. Promuovere partecipazione significa stimolare democrazia,
ma anche aumentare la produttività, perché quando
le persone sono coinvolte in un progetto sentono il
loro lavoro utile per un obiettivo, che va oltre la mera
sussistenza verso una dimensione creativa. Le forme
di partecipazione sono diverse: operativa, organizzativa, strategica. Vanno da un livello minimo che riguarda le modalità di lavoro, a uno medio che tocca
le corde organizzative, fino a uno massimo che attiene alla visione strategica dell’impresa. La strada
della democrazia economica è fondamentale per
realizzare una vera democrazia in quanto favorisce lo
sviluppo di forme di partecipazione dei dipendenti ai
processi decisionali dell’impresa e alla distribuzione
degli utili prodotti dalla stessa. Ad oggi gli strumenti
tecnici che possono costituire i pilastri necessari alla
realizzazione della democrazia economica sono i
fondi pensione e l’azionariato collettivo; ci sono poi
esperienze dove i lavoratori condividono le scelte di
gestione aziendale mediante partecipazione dei rappresentanti eletti dai lavoratori o designati dalle organizzazioni sindacali.
sostenere un’economia che non può pensare di riprodurre gli schemi e i prodotti del passato. Innovazione è una parola chiave.
7. Il lavoro e la rappresentanza: è una questione
bloccata e problematica. Il modello italiano di sindacato non sembra rispondere adeguatamente alle
sfide attuali. I due principali poli sindacali si muovono lungo un asse che a un polo colloca una visione prevalentemente antagonista e all’altro una visione prevalentemente trattativista secondo il
principio del male minore; a un polo un sindacato
fortemente tentato dal protagonismo politico, all’altro un sindacato che cerca di non farsi coinvolgere
troppo dalla politica senza disdegnare il dialogo con
le diverse maggioranze politiche. Entrambi i poli,
comunque, “fanno politiche sociali”: si occupano
non solo di diritto del lavoro ma anche di welfare e
di politiche economiche, cercando di condizionare
l’agenda politica. Nel frattempo si rileva la riduzione
della percentuale di lavoratori sindacalizzati (anche
per il fatto che oltre il 90% delle imprese è inferiore
ai 15 lavoratori, e pertanto il clima sociale è informale
e probabilmente ostile verso il sindacato, per cui si
preferisce rinunciare ad una rappresentanza istituzionalmente formata). Una scarsa rappresentatività
però può indurre alla formazione di un’idea asettica
di uguaglianza che finisce per produrre una falsa
contrapposizione tra chi è garantito e chi non lo è.
Forse sarebbe necessario evolvere vero un modello
sindacale che privilegi la contrattazione. In tal senso
diventa sempre più centrale la contrattazione di secondo livello anche sul piano della tutela e del riconoscimento di vecchi e nuovi diritti. Non mancano
esperienze di welfare contrattuale innovativo ma è
assente una prassi diffusa capace di cambiare la cultura delle relazioni industriali. A questo “secondo livello” deve corrispondere un’adeguata e coerente
partecipazione delle forze lavoro a alla governance
delle imprese come i consigli di sorveglianza o strumenti analoghi.
8. Il lavoro e la partecipazione: L’esigenza di favorire i meccanismi di partecipazione e di collaborazione dei lavoratori nell’azienda era indicata nostra
Costituzione che all’articolo 46: “Ai fini della eleva-
Lo Stato e la comunità che si assumono
una responsabilità
9. Lavoro e modello economico: la qualità e la
stabilità del lavoro derivano dal modello di economia
che si sceglie, sono una variabile dipendente del
modello economico. In Germania è prevalso e si è
stabilizzato il modello dell’economia sociale di mercato; in Italia ci si è per molti anni ispirati al Codice
di Camaldoli, un modello di economia mista. È stato
per almeno quattro decenni un modello vincente: inclusivo e remunerativo. Poi i cambiamenti internazionali (ma non solo: anche una degenerazione interna
dell’applicazione del modello) hanno indebolito un
modello che non ha aggiornare l’intuizione ai tempi
che correvano rapidi e inesorabili. L’assenza di una
precisa politica economica e industriale ci ha portato
ad essere assoggettati a flussi del mercato globale
16
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
inserita; la comunità locale deve molto all’impresa, ma anche l’impresa deve saper di dover
molto alla comunità locale all’interno della quale
è nata; il bene dell’impresa non si riduce al profitto: sarebbe una visione miope anche sul piano
economico e finanziario;
c - la concreta alleanza tra lavoro, impresa, natura,
cultura e territorio (istituzioni comprese) fondata
sulla creazione di maggior benessere, pace sociale e sostenibilità ambientale;
d - la valorizzazione della conoscenza, la forte spinta
verso la formazione delle persone, di competenze, di ricerca e innovazione per migliorare la
qualità del prodotto, della produzione e della
produttività, ma anche la responsabilità sociale
dell’impresa e la crescita del senso civico;
e - la creazione di welfare comunitario che mette in
connessione i soggetti attivi del territorio:
azienda, amministrazione pubblica, associazioni di promozione sociale, realtà della società
civile, terzo settore, anche a partire dal sostegno al welfare aziendale (con la messa in atto di
strumenti di sostegno sociale e familiare per i lavoratori), come una sorta di “secondo livello” rispetto al welfare universale rivolto a ogni cittadino;
f - una politica orientata all’equa distribuzione dei
redditi;
g - l’investimento sul lavoro diffuso e utile per impegnare le persone in una sorta di lavoro civile per
il benessere socio-ambientale, per curare la bellezza del territorio e quindi la qualità della vita in
cui nascono e crescono i figli.
e ai capricci della speculazione finanziaria, gestita
esclusivamente dagli interessi privati, senza l’argine
di istituzioni regolative mondiali. Ma un modello economico che parta dal lavoro, dai lavoratori, dai cittadini ha invece bisogno di istituzioni sovranazionali.
Per questo anche l’Europa avrà senso se riconoscerà tra i sui compiti la costituzione di un cartello
di protezione degli interessi dei Paesi membri verso
un sistema di sviluppo giusto, sostenibile e solidale. Nella consapevolezza che «non possiamo più
confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile
del mercato. La crescita in equità esige qualcosa di
più della crescita economica, benché la presupponga, richiede decisioni, programmi, meccanismi
e processi specificamente orientati a una migliore distribuzione delle entrate, alla creazione di opportunità di lavoro, a una promozione integrale dei poveri
che superi il mero assistenzialismo» (EG, 203).
Proponiamo allora di collocare il lavoro dentro un
modello di economia civile, all’interno di esso è recuperabile una dimensione collettiva di lavoro che
depotenzi una visione individualistica a favore di
una dinamica persona-comunità. Si tratta di affiancare al binomio lavoro-competizione il binomio lavoro-cooperazione. L’economia civile, dentro un
modello italiano, propone una strada che noi riconosciamo come possibile. La comunità, il territorio il distretto… Alla tendenza globalizzante si contrappone
l’attenzione alle dinamiche dei territori che promuovono la biodiversità delle economie, nelle quali fare
sistema, in cui riscoprire vocazioni antiche e nuove,
in cui costruire con chi sente una responsabilità sociale e civile. Questa pensiamo sia anche la strada
privilegiata per radicare una coesione territoriale
che consideri le peculiarità regionali e le questioni
complesse come lo sviluppo del Mezzogiorno, dove
la marginalità va trasformata in tipicità, ovvero in elemento di alta qualità.
Dentro tale modello vorremo concretizzate le seguenti caratteristiche:
a - la forte partecipazione dei lavoratori ai destini
dell’impresa (utili compresi);
b - il principio dell’azione responsabile, per radicare
la consapevolezza che il destino dell’impresa ha
a che fare con la comunità locale, nella quale è
10. Ripartire il lavoro e ripartire il reddito: perché
sia possibile rilanciare il lavoro è necessario condividere le risorse e i beni a partire da due nuclei basilari: la ricchezza e il lavoro. È inaccettabile lo squilibrio dei guadagni che si sta realizzando tra dirigenti
e operai, tra manager e impiegati, tra rendite e redditi da lavoro. Si generano sacche di opulenza e altrettante di indigenza. Si tratta di un fenomeno pericoloso anche per il capitalismo in sé, che non può
funzionare in assenza di una buona pace sociale
fondata sull’assenza di clamorosi squilibri.
17
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
golo e come membro delle comunità all’interno
delle quali si sviluppa il suo percorso umano, la
sua opera e la sua vocazione. Un lavoro buono e
giusto contribuisce realmente sia al progresso
materiale sia al progresso sociale sia al progresso
spirituale. Un lavoro buono e giusto non è mai
semplicemente individualistico perché è sempre
sociale:. Il vero plusvalore è il bene comune. Cerchiamo di raccogliere l’invito di Papa Francesco
a dare priorità al tempo piuttosto che allo spazio.
Questo «significa occuparsi di iniziare processi
più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli
spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si
tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi
dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché
fruttifichino in importanti avvenimenti storici» (EG
223).
Allora, per un lavoro buono e giusto, le Acli
s’impegneranno a restituire spessore alla cultura
del lavoro, costituita di parole e di idee popolari, capaci di rappresentare la realtà e non l’astrazione
della realtà; è importante ridare spazio e tempo alle
esperienze concrete, attraverso analisi e studio
delle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici nei
diversi ambiti professionali.
Sarà altrettanto fondamentale ridisegnare le
nostre attività ponendole “a servizio” delle persone
che lavorano: il lavoro è il centro della nostra iniziativa politica, sociale, culturale ed ecclesiale; la
fedeltà al lavoro conferisce piena identità alla nostra storia e alla nostra progettualità sociale, attuale. Le Acli vogliono immaginare nuovi modi per
sostenere i lavoratori e le lavoratrici nella loro ricerca di senso: progetti reti, sportelli, circoli, cooperative, start up… Tutto quanto rimetterà in circolo una creatività sociale capace di sostenere,
promuovere e tutelare le comunità territoriali e i cittadini.
Nella nostra tradizione abbiamo sempre coniugato pensiero e azione. È questo modo di agire che
continua a qualificarci: un lavorare critico, capace di
discernere ciò che è buono e giusto, sarà anche ciò
che servirà per ricostruire l’Italia.
Allo stesso tempo è inaccettabile assistere alla
polarizzazione tra il non lavoro e l’iperlavoro, a volte
anche scarsamente remunerato. Una società del lavoro cresce dentro un’idea di uguaglianza e di libertà: occorre ripartire i redditi perché tutti abbiano
il necessario e occorre ripartire il lavoro perché
ognuno possa contribuire alla vita della comunità. In
questo senso, in termini minimali, si può incentivare
il part time e aumentare il costo orario del lavoro
straordinario (attualmente più basso di quello ordinario), se non prevedere - in termini più progettuali
- forme di cooperazione tra lavoratori.
Conclusione: creare lavoro buono
e giusto
L’Italia attraversa un momento difficile che richiede di impostare scelte efficaci per il suo futuro.
Il lavoro è una risorsa strategica e irrinunciabile,
fondativa per la nostra Costituzione, la nostra società è una repubblica democratica fondata sul lavoro (art. 1). Se manca il lavoro, manca l’humus
della nostra coesione, cede il patto che cementa la
nostra alleanza di cittadini.
Ci muoviamo all’interno di un contesto europeo
e non possiamo leggere le sorti del nostro paese al
di fuori dell’Unione, come istituzione che chiediamo
sia sempre più vicina ai cittadini.
Sosteniamo che le trasformazioni del mondo
del lavoro, causate dai mutamenti dei sistemi economici, non possano stravolgerne il senso. Pensiamo quindi che dal lavoro riparte l’Italia e a partire dal lavoro si crea un solido sistema economico,
sociale e democratico.
Per questo riteniamo essenziale la creazione di
lavoro buono e giusto attraverso il contributo dei
diversi soggetti: cittadini e imprese, sindacati e
istituzioni, comunità locali e società civile perché
sia possibile un’economia equa sostenibile radicata sulla vocazione dei variegati territori del nostro paese. Per “buono” intendiamo dire un lavoro che produca beni utili, innovativi, rispettosi
dell’ambiente e del territorio, capaci di risolvere
bisogni e non di creare dipendenze; per “giusto”
intendiamo dire un lavoro che consenta lo sviluppo integrale della persona umana come sin18
SUGGESTIONI E SCENARI
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
UNA NUOVA FORMA DI SOLIDARIETÀ
di Roberto Rossini
e persone più semplici e osservato la quotidiana realtà... sarà anche ora, nel convegno 2014, di dare
qualche risposta.
Ma prima di arrivare ad una proposta vocazionale, ecco qualche spunto sulla realtà e qualche
chiarimento: di quali intensità e qualità stiamo parlando? Papa Francesco – nel corso della GMG 2013
– ha affermato che siamo di fronte non tanto ad
un’epoca di cambiamento, ma ad un cambiamento
d’epoca. E padre Bartolomeo Sorge dà un nome, argomentando che siamo di fronte ad uno scenario
talmente nuovo da essere paragonato ai grandi mutamenti storici come la caduta dell’Impero romano,
la scoperta dell’America, la Rivoluzione francese, la
Rivoluzione industriale. Oggi viviamo la rivoluzione
elettronica, che cambia le relazioni sociali perché
modifica gli strumenti con i quali agiamo nella realtà:
l’enfasi sugli strumenti e sulle infinite possibilità garantite dalla scienza e dalla tecnica sta rivoluzionando il modo con cui usiamo il tempo, lavoriamo,
conversiamo, ci relazioniamo, raccogliamo idee, gestiamo processi. Sono mutamenti solo apparentemente strumentali, perché coinvolgono i valori e i
modi con cui leggiamo il mondo.
Un cambiamento d’epoca è difficile da descrivere, per quanto molti studiosi riescano a farci afferrare e capire alcuni frammenti di realtà: da Bauman
a Bonomi, da Zoja a Recalcati, da Sen a Stiglitz, da
Fitoussi a Moretti... (a questi e molti altri intellettuali
sarebbe utile affiancare l’opera di artisti e scienziati,
perché anch’essi percepiscono con acutezza alcuni
segni dei tempi: per esempio tutta l’enfasi sulla dimensione materica, sull’installazione temporanea,
sull’uso divergente dei dettagli, sull’assemblaggio di
cose diverse...). Ma come mettere insieme tutti que-
Introduzione: Dove eravamo rimasti?
Dove siamo esattamente?
L’Incontro nazionale di studi 2013 poneva una
questione: come abitare la storia che stiamo vivendo? Non è solo una questione di spazi sociali o
virtuali da occupare (da arredare), semmai è il saper
stare nei processi del nostro tempo per portare il nostro contributo al bene comune: è l’abitare tenendo
conto dei progetti di vita delle persone e delle comunità nelle quali si abita, dei tempi, del saper entrare
col giusto tempo e col giusto movimento. Le Acli vivono in questo contesto: le città e i piccoli comuni,
pensano e fanno, scrivono e progettano... Ma oggi,
di fronte alla straordinarietà di una crisi che prelude
ad un tempo nuovo, c’è un compito particolare da
darci? Quali priorità nel nostro agire per usare bene
il tempo e le (poche) risorse che abbiamo a disposizione? Insomma: quale vocazione per le Acli degli
anni ‘10 e ‘20 del XXI secolo?
A Cortona i relatori intervenuti hanno portato temi
e idee, problemi e progetti per stare nella realtà,
senza fuggirla. E noi, nei laboratori, abbiamo dichiarato cosa facciamo nelle nostre realtà locali per
accompagnare noi e i nostri concittadini. Abbiamo
preso atto che non sempre traduciamo le nuove
domande in possibili risposte: il lavoro, la casa, l’assistenza, la formazione, la democrazia, il dialogo
sociale... Tutti questi problemi non sono nuovi, ma
si esprimono con intensità e qualità nuove, con codici e linguaggi e tempi che vanno interpretati con
una nuova grammatica. Anche i soggetti non sono
nuovi, dai giovani agli anziani, dai lavoratori alle famiglie, dai partiti allo Stato: ma si presentano intensità e qualità nuove. E allora, dopo aver celebrato il
convegno 2013, riflettuto insieme, ascoltato esperti
21
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
fatti. Il primo è l’impossibilità di porre una visione
unica e valida per tutti. Il secondo è l’aumento della
quantità: più popolazione, più informazioni, più prodotti, più anni di vita, più parole, più esperienze, più
reti, più relazioni, più lingue e linguaggi: dall’universo al pluriverso.
Visibile. È l’enfasi sulla comunicazione. L’occupazione degli spazi per mezzo della seduzione della
bellezza. In attesa di cogliere il senso delle cose, ci
si concentra sui sensi delle cose: la bellezza, l’equilibrio, la lucentezza. L’enfasi su ciò che è bello supera la razionalità del discorso ed entra “direttamente in vena”, senza passare da schemi e dogmi.
L’esperienza è “bella o brutta”: non si usano altri termini per definire ciò che si è vissuto. Per questo è
naturale curare la propria immagine, fisica o virtuale. La visibilità è però un bel passo avanti anche
per la democrazia: lo sforzo verso la maggiore trasparenza, controllabilità, disponibilità all’uso e al
giudizio (si pensi ai dati statistici). La visibilità non
esaurisce lo sforzo democratico (che si concentra
sulla sostanza dei rapporti interni). Ma il criterio della
visibilità e della bellezza pone dei canoni che rischiano di influenzare anche la sostanza delle cose:
dall’etica all’estetica.
Leggero. L’adeguatezza s’identifica nella leggerezza. Le cose s’alleggeriscono (dalle bibite light ai
sottili tablet, le diete leggere e l’alleggerimento delle
regole), così come le cose della politica: lo Stato
leggero, il partito leggero, il programma leggero.
Dall’immagine d’acciaio metalmeccanico si passa
all’elettronica delle reti e dei flussi: una leggerezza
“orizzontale” che può coincidere con la superficialità e la frivolezza, senza “presa in carico”, senza responsabilità. Ma può anche garantire un funzionamento sostenibile, compatibile con la limitatezza
delle risorse disponibili. L’organizzazione non si limita a coprire gli spazi in modo insostenibilmente
dispendioso, perché contratta con i nodi che già
esistono per garantire una rete più vasta e sostenibile con più cose (multitasking). Ecco perché le reti
sono le risorse principali: dalla struttura all’architettura (di rete).
Rapido. Tutto scorre: è liquido, fluido, flessibile.
Se lo spazio moltiplica le sue dimensioni e diventa
sti “frammenti di realtà” collocandoli in una sintesi
condivisa che spieghi a tutti – con semplicità – i
cambiamenti che viviamo e gli esiti che vivremo?
Manca una sintesi condivisa, ma due reazioni
(alle troppe culture e alle troppe suggestioni) esistono.
La prima è di chi si arrocca sul mondo antico
(sperando di riprodurlo). Si descrive il mondo attuale
attraverso la distanza tra le proprie convinzioni e ciò
si osserva: come se si potesse modellare la realtà
alle nostre convinzioni sulla realtà (è la realtà sbagliata, non le nostre idee sulla realtà...). L’altra è di chi
accetta qualunque novità che dichiari una rottura col
passato (anche con idee estreme). Si descrive il
mondo attuale attraverso la debolezza di un pensiero
che muta con rapidità, che a volte è spacciato per
progresso civile. Insomma sembra di vivere di reazioni e di buone intenzioni, che derivano da un confronto e poi da un giudizio sul passato. E se, invece,
iniziassimo a descrivere gli esiti della realtà, prima di
giudicarla?
Un criterio di lettura in cinque parole
chiave
Magari non avremo una teoria compiuta ma, da
aclisti, abbiamo un punto di vista, un occhio allenato
a cogliere alcuni dettagli e, con essi, alcuni mutamenti sociali. È un punto di vista formato alla “scuola
della quotidianità”. Ecco allora alcune parole che
cercano di spiegare ciò vediamo (prendendo spunto
dalle parole chiave che Italo Calvino usa in Lezioni
americane).
Molteplice. È il movimento che conduce dall’uno
al più di uno, alla distinzione o alla moltiplicazione dei
fenomeni, delle possibilità. Si pensi alla diffusione di
suffissi come multi o pluri: multietnico, multimediale, multiuso, multitasking, multinazionale, multilaterale, multidisciplinare... È lo stesso fenomeno che
declina al plurale ciò che era al singolare. Lo fa per
moltiplicazione: lavoro in lavori, sapere in saperi,
famiglia in famiglie, educazione in educazioni, tenore
di vita in stili di vita. Lo fa per divisione: il corso in
step o in moduli, la patente a punti, i crediti formativi... perfino le persone “tutte d’un pezzo” non funzionano più. L’idea della molteplicità deriva da due
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IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
forme contrattuali, di competenze, di percorsi formativi, di lauree, di lavori), visibile (la rappresentazione
di alcune professioni, ormai anche televisiva, si pensi
a RealTime), rapidità (la temporaneità del lavoro, il
fatto che il lavoro scelto non sarà più quello “di una
vita”), la coerenza (...mancata con la propria formazione).
In sintesi: si assiste ad un poderoso allargamento
della possibilità (un movimento più orizzontale e
spaziale), ma non adeguatamente compensato sul
versante del senso, del significato, della salvezza (un
movimento più verticale e temporale). La condizione dello studente di quinta liceo che non sa quale
facoltà universitaria scegliere per le troppe possibilità non mediate da un criterio personale ben definito, rappresenta una potente immagine che riassume l’impasse in cui viviamo: troppe possibilità
ma con minori capacità di discernimento della propria condizione di sé e del mondo intorno. Forse
Massimo Recalcati definirebbe questa condizione
come un’assenza di desiderio: oppure una condizione impersonale – con le parole del rapporto Censis 2012 – di chi non ha coscienza di sé e di quello
che avviene intorno a sé ma vive tutto come fosse
un paesaggio (bello o brutto), che non chiede partecipazione né azione... Occorre passare dalle possibilità alla scelta, cioè alla vocazione che dà senso
al nostro stare nella storia.
Noi invece – crediamo – una vocazione ci si ripresenta, per le Acli: ed è proprio il lavoro che, crediamo, si debba scegliere. Oggi i segni dei tempi ci
dicono così. La storia associativa ci dice questo, la
quotidianità di persone e famiglie senza lavoro, che
interpellano i nostri servizi e i nostri circoli dice questo. Perfino l’assenza di giovani ci dice questo, perché il lavoro, in una società molteplice e frammentata, è ancora il primo fondamento di coesione
sociale: il lavoro non frammenta, riunisce. Le Acli
possono (ri)trovare attorno al lavoro una spinta per
(ri)generarsi.
D’altra parte l’utilità economica è un potente fattore di integrazione sociale, ed è anche la base essenziale per legittimare un discorso politico: per
questo potremmo anche affermare che, oggi, occuparsi di lavoro è far politica. E lo è davvero – se ci
molteplice, visibile e leggero, l’invisibile tempo diventa invece breve. Le esperienze tendono a durare
poco, a passare più in fretta. L’instabilità e la precarietà indicano che non si possono assumere impegni a lunga scadenza: i rapporti di lavoro divengono
precari e a tempo determinato, i legami umani si assumono in condizioni di costante reversibilità. L’importante è cambiare: abbigliamento, linguaggio, gusti, prodotti (con data di scadenza incorporata). Cosi
vale anche per i partiti politici e i loro leader. Per questo si perde l’idea di futuro: non è più possibile programmare, immaginare gli stessi soggetti nel futuro.
Forse, più che cambiare, è importante re-iniziare
ogni volta, riprovare l’emozione della prima volta:
dallo stabile al temporaneo, dal lento al veloce (come
la connessione internet).
Coerente. La coerenza sostituisce la verità. In
assenza di un elemento regolatore, la capacità di tenere insieme, di garantire logicità e funzionalità tra un
passaggio e l’altro diventa la questione principale.
Date le premesse di uguaglianza, allora coerentemente ne derivano una serie di altre uguaglianze. Di
una persona si apprezza la coerenza di ciò che dice,
senza discutere sul fatto che siano giuste o sbagliate. Ognuno ha la sua verità, l’importante è essere
coerenti. L’assenza di coerenza, per esempio tra il
dire e il fare, è ciò che più si teme. La coerenza può
generare coesione tra gli elementi, ovvero solidarietà. Ma una coerenza astratta può generare anche
relatività, ovvero l’idea che non ci sia un valore valido di per sé: dall’assoluto al relativo.
La vocazione è un “lavoro”: il lavoro è una
vocazione
Se proiettiamo queste parole in ambiti più specifici osserviamo che tengono perché otteniamo qualche risultato in termini di lettura della realtà. Ad
esempio la politica: molteplice (troppi partiti, troppe
questioni aperte, troppi organi dello Stato), visibile (la
cura del messaggio e della comunicazione), rapida
(partiti che durano poche stagioni, il “tutto adesso”),
leggera (la digitalizzazione della pubblica amministrazione e le relazioni nel web 2.0), coerente (si
pensi alle radici cristiane, celtiche, illuministe ecc.).
Si pensi anche al lavoro: molteplice (pluralità di
23
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
nel mondo. Dovremo farlo anche in modo generativo, nuovo, aperto, capace di mettere al mondo e
capace di “tradire” i vecchi metodi perché le fedeltà che ci siamo dati possano continuare ad esistere. Dobbiamo farlo con lo stesso entusiasmo e la
stessa intelligenza che porta Mauro Magatti e Chiara
Giaccardi (la virtuosità dell’incontro tra uomini e
donne) a dichiarare Generativi di tutto il mondo, unitevi!, per una libertà che libera, per riformare il modello di sviluppo e rinnovare la democrazia.
credessimo veramente – sul piano morale e simbolico: i valori, più che da un’astratta identità statale –
sono condizionati più dalle campagne marketing di
alcune imprese, che legano i prodotti a stili di vita e
a seducenti e luccicanti filosofie utilitariste e individualiste. È più facile “prendere la tessera” di qualche
multinazionale che di un partito... Il nostro sguardo
sul lavoro è caratterizzato da una fedeltà al lavoro
che vede anche la fedeltà alla democrazia e alla
fede: non siamo specializzati, noi siamo generalizzati,
chiediamo la compatibilità tra il lavoro, la democrazia e la dimensione spirituale dell’uomo. Il “nostro
uomo” non si ferma alle 8 ore lavorative, ne contempla 24. Non a caso la nostra fedeltà, più che al lavoro, è verso i lavoratori. Il nostro punto di vista non
si limita alla tecnicalità delle condizioni dei lavoratori
o alle opportunità per creare impiego o ai progetti
per sostenere le politiche attive.
Ecco allora la necessità di riscoprire un senso del
lavoro, per rinnovare una cultura più umana del lavoro. Il lavoro non è un fatto solo sociale e politico,
è anche culturale e antropologico. È sociale e politico perché pone la questione dei diritti, dei doveri,
del giusto salario ( fattori che incidono sui progetti
personali e familiari e sulle politiche sociali). Ma il lavoro ha a che fare anche col conseguimento di una
vocazione. La professionalità, la competenze, il talento, il mestiere sono parte della vocazione umana.
Come ben esprime la parola tedesca (Beruf), il lavoro
è molto vicino alla vocazione: il lavoro è un modo per
rispondere alla vita, a ciò per cui siamo chiamati, al
nostro desiderio. E allora non si può non operare per
creare le condizioni affinché le persone possano
realizzare le loro vocazioni. Il lavoro guarda più al benessere, ma non meno all’essere. Per questo sarà
decisivo ripensare l’orientamento e la formazione
professionale, anche perché, allo stesso modo, è
tempo di connettere la dimensione tecnica della
formazione a quella etica e civile (Bildung). L’educazione, l’istruzione e la formazione non possono più
trascurare la dimensione vocazionale del lavoro:
non è più tempo di astratta teoria.
Il lavoro è concretezza. Si tratta di riscoprire il lavoro come intuizione generativa: per le Acli il lavoro
costituisce una parte importante del modo di essere
Una solidarietà economica
Il lavoro dovrebbe essere una naturale vocazione
per la nostra Repubblica: la Costituzione (e non solo
l’art. 1) lo fa trasparire con chiarezza. Allora anche
l’assetto politico deve modificare il suo punto di vista, perché è cambiato il contesto: lo scambio tra
welfare e libertà d’impresa non basta più. Il conflitto
di classe continua ad esistere, ma non è più il motore della storia. Gli esiti sono pesanti: vi è una
massa di lavoratori che, pur di lavorare, accetta
qualche (o tanta) tutela in meno e una parte dei lavoratori che accetta lavoro nero e illegale: l’apparente fine del conflitto tra capitale e lavoro ha lasciato
sul campo un modello deregolamentato che aumenta la diseguaglianza. Si può tornare a pensare ad
un altro modello di sviluppo? Il rischio è ridurre anche la coesione sociale: cosa terrà insieme la società? Quale solidarietà?
Al momento si vive immersi in una condizione che
racconta l’imbrunire di una storia di conquiste sindacali, una storia ruggente di battaglie e conquiste, culminate con lo Statuto dei lavoratori del 1970 e tradito
dalle leggi che hanno lentamente smantellato tali conquiste: dagli anni 90 in poi. Si tratta di un tradimento
che “alcuni profeti” continuano a denunciare. Ma quali
vie d’uscita ci possono essere? Quale modello possiamo postulare per non disperdere una storia e, semmai, poterla rinnovare? È dunque possibile pensare di
creare un nuovo paradigma del rapporto tra i soggetti
che responsabilmente si occupano di lavoro e società (ovvero le imprese, i lavoratori e i sindacati, i cittadini, gli enti pubblici e gli enti associativi)?
Perché insieme all’impresa c’è tutta una società.
Anch’essa si chiede quale solidarietà la terrà in24
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
crea diseconomie e minaccia il corretto funzionamento sia del mercato sia della comunità;
3) la leggerezza ci fa immaginare una partecipazione
di più livelli e di più soggetti. Una rete flessibile tra
soggetti privati e pubblici, tra proprietà (sempre
più multipla) e lavoro: i lavoratori devono condividere i destini dell’impresa anche in termini di amministrazione. Il sindacato può offrire modelli virtuosi di partecipazione all’amministrazione. Il
senso di una economia civile è anche questo: il lavoro non è un problema dello Stato, è un problema della polis tutta.
4) la coerenza ci convince che non possiamo più
procedere “senza” un progetto, un piano industriale di sviluppo, un’idea che tenga conto degli
effetti: la politica non è solo reazione, emozione e
buone intenzioni, ma responsabilità verso gli esiti
(ragionevolmente prevedibili);
5) la rapidità – ossia la variabile del tempo – è la
sfida più grande, nella duplice eccezione del “far
presto” nonché del cogliere il tempo giusto, ovvero la crisi.
E dunque: più democrazia, più relazione, più
soggetti. Il lavoro è il motore che può dare unità a
questa straordinaria differenziazione: il lavoro crea
unità nella differenza, il lavoro valorizza la differenza
e riduce la diseguaglianza. Per questo occorrerà
coinvolgere più soggetti a rilanciare una cultura del
lavoro che dia spazio alla cooperazione, e non solo
al conflitto sociale e sindacale; alla formazione, e
non solo all’istruzione; alla partecipazione, e non
solo alla netta differenziazione tra lavoro e proprietà; all’innovazione, e non solo all’esasperante
concorrenza al ribasso sugli stessi prodotti. La collaborazione tra impresa, scuola (centri di formazione e università comprese), sindacati, enti pubblici
(in particolare quelli più vicini al territorio), consentirebbe di creare le condizioni per porre il lavoro al
centro della preoccupazioni di ogni ente pubblico
rappresentativo. Il conflitto tra capitale e lavoro è irriducibile, ma va compreso in una logica cooperativa, dove i molti soggetti cooperano sul piano locale connettendosi alle filiere globali, per sostenere
il confronto con un mondo complesso e internazionalizzato.
sieme. Émile Durkheim sosteneva che la modernità
nasceva nel passaggio dalla solidarietà meccanica
alla solidarietà organica. La prima era tipica delle società semplici, fondate sui legami “di sangue” (parentali), senza grandi differenze sociali tra gli individui
che la componevano, uniti da una coscienza collettiva forte e sacra. La seconda è invece tipica delle società complesse, fondate sugli obblighi contrattuali,
caratterizzate dalle forti differenze tra individui dovute
all’ampliarsi della divisione del lavoro. La società
che viviamo oggi è ancora più complessa: oltre alla
differenziazione delle competenze professionali e lavorative, osserviamo la differenziazione dei valori,
che non rispondono più ad un bene comune legittimamente accettato. Si ha dunque l’impressione di vivere una solidarietà disorganica, priva di una regolazione. Sarà possibile ricostruire una organicità nella
molteplicità sociale? Nella temporaneità di ogni progetto? Nella ossessiva ricerca di visibilità? Nella
frammentazione individualistica? Non sarà facile, in
assenza di un ente regolatore autorevolmente accettato come tale. Non indugiamo sulle ragioni per le
quali lo Stato non è in grado di assolvere questo
compito, ma rimane abbastanza evidente che la
complessità (anche internazionale) della società attuale – che Durkheim non poteva neppure minimamente immaginare – non dà alcuna garanzia ad alcun
livello amministrativo e politico di poter governare ordinatamente la situazione.
Se però ripercorriamo gli aggettivi utilizzati per
descrivere questo tempo, possiamo affermare che:
1) la molteplicità e la pluralità ci dicono che è bene
si sviluppino più esperienze e più percorsi, più conoscenze che garantiscono più innovazione; anche in termini di modelli economici, non siamo dichiaratamente contro un modello economico
profit, siamo a favore di un modello ibrido che
contenga profit e non profit: una democrazia economica capace di modellarsi su più esperienze
(privilegiando quelle esperienze che tutelano le
parti deboli e di eccellenza);
2) la visibilità ci permette di affermare che la trasparenza è un potente elemento di onestà. Il lavoro
che intendiamo è un lavoro visibile, rispettoso
della legge, non sommerso. Il lavoro non visibile
25
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
La valorizzazione di tutti questi soggetti diviene
una forma inclusiva di solidarietà. Per questo riteniamo che sia auspicabile una terza forma di solidarietà, un terzo passaggio dopo il meccanico e l’organico, verso una solidarietà economica, intesa nel
suo etimo di regole della casa (così come ben spiegato da Silvano Petrosino). La solidarietà economica
è alla base di una sana società e di una sana moralità. L’economia – in questa visione - non è una tecnica, ma è il punto d’incontro tra la regolazione (il diritto, l’amministrazione) e la casa (il popolo con le
sue diverse fragilità e condizioni, le risorse, il patrimonio). L’aggettivo “economico”, dunque non è distinto dal “politico” o dall’”etico”: è ciò che concerne
il giusto rapporto, la giusta regola, quella che non fa
parti uguali tra diseguali. Ecco: occorre ricostruire
una solidarietà non astratta, non uguale per tutti indipendentemente da tutto, ma una solidarietà di
“giusto peso”, fondata sulla cura e gestita con cura,
conforme al vero, puntuale, leggera, visibile: giusta.
Si può auspicare una solidarietà civile, ovvero di
tutti quei soggetti che sono disposti a sentire un legame con la civitas, col territorio: i patti tra associazioni, imprese ed enti locali sono una strada che valorizza la molteplicità, orientandola però ad un senso
chiaro e condiviso, il lavoro per tutti (nella pluralità
dei generi, delle condizioni di vita, di etnia, di cultura,
di abilità). In questo senso anche il richiamo ad una
economia “in chiaro”, non sommersa e onesta non
sarebbe un richiamo moralistico, ma il risultato di un
processo in cui tutti gli attori sono (in qualche misura)
“costretti” ad agire in chiarezza e reciproca responsabilità.
Conclusione: niente finisce
Le regole della casa servono per abitarla correttamente e per far sì che essa funzioni, sia sorvegliata
nelle sue crepe, nelle sue fragilità, sia manutenuta,
sia il luogo dove tutti sono rispettati per ciò che
sono. Questo per noi è abitare. Per noi delle Acli,
abitare la storia significa stare dove ci sono i lavoratori: il lavoro è la nostra casa. Il lavoro non è finito
(diversamente da quanto pensava Jeremy Rifkin).
Abbiamo bisogno della forza creativa, generativa, ordinativa, normativa, coesiva del lavoro, per ricostruire una società dalla sue fondamenta. Non per
renderla “indifferenziata”, ma proprio per valorizzare le sue diversità. La diseguaglianza è un dato
ineliminabile nella storia dell’uomo. È ineliminabile
anche la differenza. Lo sforzo della politica sta nell’aumentare la differenza (che è innovazione, conoscenza... anche di codici e linguaggi nuovi e molteplici, come si è visto) e nel ridurre la diseguaglianza
ad un livello accettabile. Il lavoro è lo straordinario
strumento che garantisce questo passaggio.
È dunque nel lavoro, è nella quotidianità che salva
il nostro orizzonte, perché è la quotidianità ad essere
in crisi. Una sana ferialità, tra l’altro, è la migliore garanzia affinché si senta e si viva la festività come una
naturale “necessità”. La fede non è qualcosa di posticcio messo al termine di una serie di giorni, semmai è il culmine di una quotidianità che contempla
la bellezza del giornaliero saper vivere insieme, secondo lo spirito della fraternità. Il lavoro è ciò che caratterizza la condizione umana: il lavoro è per definizione mai finito. Ci pensa Qualcun altro a portarlo
a compimento. Appunto di domenica.
26
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
DALLA COOPERAZIONE ALLA COMUNITÀ
TERRITORIALE
di Piero Bargellini
d’onore” non tollera il minimo sgarbo dal picciotto
della sua stessa “famiglia”.
Questo complesso sociale aveva due funzioni
precise: la gestione della giustizia sociale al proprio
interno e la mediazione culturale e politica dei propri aderenti finalizzata al consenso. Nell’insieme le
famiglie italiane si pongono come snodo tra il cittadino e lo Stato, per questo sono riconosciute sia a
livello giuridico che politico con un potere reale di
contrattazione.
Il tutto rendeva solida la struttura sociale italiana,
anche se i tempi di realizzazione di un qualunque
cambiamento erano molto più lunghi rispetto alle altre democrazie, però molto meno traumatici; basta
comparare la riconversione industriale italiana e inglese degli anni ottanta.
Tuttavia da allora qualcosa è cambiato nel profondo e le due principali funzioni sopra descritte
(giurisdizionale e mediazione politica) si sono andate
via via appannando fino a scomparire in taluni casi.
L’affermarsi poi della globalizzazione e l’avvento
della società “liquida”, hanno ridotto di molto le capacità delle singole corporazioni di risposte efficaci
di fronte ai nuovi problemi.
Anzi, esse si sono chiuse ancora di più; nell’ultimo ventennio del secolo scorso hanno abbandonato progressivamente la funzione giurisdizionale
interna, trasferendo ai tribunali il compito di dirimere le controversie interne; hanno difeso oltre ogni
buon senso i loro aderenti; hanno perso la funzione
di mediazione nei confronti dello Stato difendendo
strenuamente quelli che consideravano diritti mentre erano privilegi per gli altri; infine hanno cessato
la funzione di mediazione politica e di elaborazione
culturale, indispensabile per uno Stato democra-
Il passaggio dalla cooperazione alla comunità
territoriale non è un fatto volontaristico, ma ha precise regole sociali e dinamiche economiche.
L’Italia è un paese di famiglie sociali, di corporazioni visibili e non, ma tutte ben strutturate. Esse
hanno fatto il bello e il cattivo tempo del nostro
paese in epoca moderna e contemporanea. Si deve
alla loro capacità di mediazione culturale e politica
se il trapasso dal fascismo alla democrazia sia avvenuto in modo, tutto sommato, indolore al contrario di quanto avvenne in Germania. Si deve alla loro
capacità di innovazione tecnica e sociale del secondo dopoguerra, se abbiamo avuto prima la “ricostruzione” e poi il “boom” economico degli anni
sessanta.
Corpi intermedi dello Stato, esse hanno sempre
avuto un ruolo determinante nella vita sociale, economica e politica. Il sig. Mario Rossi (l’italiano medio) prima di essere cittadino è sempre stato un affiliato a qualcosa o a qualcuno: la categoria
economica, l’ordine professionale, il sindacato, la
loggia o la parrocchia. Nella sua famiglia sociale il
sig. Rossi è accolto e si sente protetto, partecipa alla
vita della sua corporazione, e da essa ne ricava status sociale e benefici economici. Sa qual è il suo posto e osservava le regole interne che sono precise
e di immediata applicazione per tutti gli aderenti,
mentre il capo della corporazione ha uno status e
poteri particolari superiori a quelli dei singoli aderenti. Vige una doppia morale, ferrea all’interno, e
molto elastica verso l’esterno: il commerciante o
l’artigiano che occupa un posto non suo è subito punito, ma può tranquillamente evadere il fisco, anzi è
addirittura giustificato, così è dell’avvocato per una
parcella più bassa di quella fissata, e “l’uomo
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
palazzi anonimi delle città per andare ad abitare in
piccole comunità fuori da essa, ma anche al suo
stesso interno, dove però c’è un legame sociale del
tutto nuovo e più forte. Anche se è avvenuto in un
lasso di tempo più lungo, questo processo ha coinvolto molte più persone della stessa migrazione dal
Sud al Nord avvenuta a cavallo degli anni cinquanta
e sessanta. I media non si sono accorti di nulla perché, per loro struttura, sono da sempre attrezzati a
leggere la città e non l’intero paese; quello che succede nel “borgo” non fa notizia perché non può
nemmeno essere registrato.
L’Italia ha un tasso di inurbamento del 67%, il più
basso d’Europa, segue la Spagna con il 77 e poi troviamo tutti gli altri paesi. Questo significa che il trasferimento dalla città al “borgo” è stato un fenomeno
che ha accentuato una situazione già presente ma
con una sua specificità: la città non solo perde abitanti ma inizia a perdere anche la centralità politica
e culturale che comunque aveva avuto per oltre due
secoli.
Il nostro signor Rossi, non più “cittadino solitario”,
si è inserito in una comunità apparentemente molto
piccola, ma anche più reale della precedente.
Con internet egli comunica con tutto il mondo,
ma ha rapporti sociali molto stretti con i suoi vicini
di casa. In città il denaro era l’elemento che scandiva
le sue settimane, nel “borgo” sono i rapporti solidali
che emergono come fattori dominanti. Il tempo libero non è più separato dal suo vissuto, egli è occupato nei lavori di manutenzione della casa con
l’ausilio dei vicini. Non è più sottoposto e vittima dei
meccanismi delicati dei grandi sistemi collettivi (trasporti, distribuzione, sistema creditizio, organizzazione del tempo libero ecc.). Egli ha aumentato moltissimo l’autoproduzione e il baratto come legna da
ardere e prodotti dell’orto, ma anche l’autoproduzione di energia, per cui gode di una elusione fiscale
molto conveniente: non deve più produrre 100 per
poter spendere 50, dato che il prelievo fiscale rappresenta l’altro 50%.
Dunque si è creato un nuovo legame con la comunità e il suo territorio: è un legame di natura sociale ed economica assieme e per questo è ben
saldo.
tico. Infatti queste funzioni sono prerogative di coloro che esercitano effettivamente il potere del trasferimento del consenso, non ad altri. E’ rimasta solo
la difesa a oltranza delle prerogative economiche.
Il risultato è stato un progressivo ingessamento
della struttura dello Stato incapace di varare la ben
più piccola riforma perché la classe politica, sempre
più screditata, era posta sempre sotto il ricatto del
ritiro del consenso, argomento quanto mai sensibile
per qualunque politico. Siamo dunque entrati in una
spirale perversa perché tanto più la situazione richiedeva riforme (leggi ristrutturazione dei rapporti sociali), tanto più le corporazioni ne impedivano l’attuazione. In molte circostanze i partiti sono diventati
ostaggio delle stesse famiglie sociali.
La crisi economica che imperversa dal 2008 ha
soltanto accelerato questa dinamica: la necessità del
cambiamento contrapposta alla volontà di non perdere i privilegi acquisiti. Dunque la crisi è stata l’elemento che ha accelerato un processo sociale che
però già da molto tempo si manifestava sotto traccia e che ha portato ad un cambiamento profondo
nel tessuto sociale italiano.
Nonostante l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, le imprese hanno chiuso e hanno licenziato;
commercianti e artigiani marginali hanno chiuso i
battenti; le banche hanno dovuto ristrutturarsi; la legislazione europea ha tagliato le unghie ai monopoli;
troppi avvocati hanno fatto sì che si determinasse
una frattura insanabile tra i prìncipi del foro e gli
emergenti.
In una parola ogni corporazione si è dimostrata
incapace di proteggere i propri affiliati nonostante
tutti i regolamenti e leggi che in questi anni sono stati
prodotti a difesa delle categorie. Così questo modello sociale non ha più retto e la crisi sociale ha
avuto una forte accelerazione.
Nel corso degli ultimi trenta anni la popolazione
italiana ha abbandonato la grande città ed è andata
ad abitare in un luogo che per ora definiamo
“borgo”, cambiando strutturalmente le relazioni sociali, il pensiero, la cultura, i rapporti economici, e per
ultima, la formazione del consenso del nostro signor
Rossi. Il fenomeno ha riguardato ben otto milioni di
persone, che progressivamente hanno svuotato i
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IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
Da questo punto di vista la comunità territoriale
gode di una maggiore equità al suo interno appianando così le spinte che invece lacerano la città.
Concludendo, possiamo dire che siamo in presenza di un nuovo soggetto sociale portatore di interessi economici, culturali e politici che silenziosamente stanno soppiantando i precedenti; ha legami
forti al proprio interno ed è un fenomeno in crescita
costante.
Fino ad oggi abbiamo pensato la decrescita
come un fatto volontaristico e individuale per una migliore qualità della vita del singolo: da oggi dovremmo leggere questo fenomeno come un miglioramento economico collettivo che produce un
cambiamento sociale forte. La ricchezza, che abbiamo sempre considerata sinonimo di ricchezza
monetaria, si va sempre più trasformando come ricchezza di benefici ottenuti e rappresenta un netto
miglioramento della massimizzazione economica a
cui tutti tendono. L’efficienza complessiva del sistema, che in città stava declinando, trova una
nuova prospettiva anche se è molto più complicato
riuscire a contabilizzarla perché la moderna economia “curtense” non usa più la moneta come unico
strumento di scambio.
Riconoscere per tempo i mutamenti sociali strutturali è da sempre il compito storico delle Acli che
in questa occasione hanno un vantaggio strategico non indifferente perché le strutture del movimento sono prevalentemente sul territorio ed ad
esse è affidato il compito di capire meglio questa linea di tendenza, poi di riuscire a interferire con
essa e nel migliore dei casi guidarla; sul territorio
non esiste altra struttura sociale in grado di svolgere
questo compito.
Tocca a noi, alle Acli, far comprendere alla Chiesa
stessa nel suo complesso l’importanza e la natura di
questo mutamento che si va affermando perché
essa riesca a declinarlo in forme di pastorali nuove,
più aderenti alle mutate condizioni storiche.
Dalla parte dei produttori, si è verificato un fenomeno diverso ma che si sviluppa quasi in simbiosi
con la mutata condizione del signor Rossi. La tecnica e una legislazione più aderente hanno consentito lo sfruttamento di fonti di energia locale proprie
del territorio e hanno legato indissolubilmente la
fabbrica ad esso, così come è cresciuto il capitale
umano specializzato che in varie forme collabora alla
“sua” azienda, dunque una nuova forma di legame
con territorio, come nel caso della Power One di Terranuova Bracciolini ad Arezzo.
Il vertiginoso aumento dei prodotti consumati a
“kilometri zero” ha privilegiato le aziende locali restituendole al mercato, mentre la globalizzazione, in un
primo momento, le aveva marginalizzate.
Il turismo, ormai non più di massa, si lega sempre più strettamente all’offerta di vivibilità del nostro
paese e costituisce un ulteriore elemento di rafforzamento del vincolo economico tra una comunità e
il suo territorio: non a caso il nostro sig. Rossi
spesso destina una parte della sua abitazione come
Bed & Breakfast, assumendo anche la figura dell’albergatore e sfugge a tutte le rilevazioni statistiche
in proposito.
Quello che abbiamo descritto sta diventando un
modello economico strutturato e bilanciato nel quale
tutti i soggetti, consumatori e produttori, si fondono
e ottengono un forte miglioramento paretiano rispetto
al modello urbano che avevano utilizzato fino a pochi
anni fa. La moneta non è più il parametro di misura di
ogni atto economico; ad essa si è sostituito il concetto
di “beneficio” che comprende la moneta ma non si
esaurisce in essa. Si appanna sempre più la figura del
venditore e del compratore in quanto tale.
La piccola comunità territoriale ha un ulteriore
vantaggio di natura economica ma anche di equità
sociale. Secondo il concetto di “equilibrio di Nash”
(John Nash è stato il Nobel per l’economia del 1994)
nel piccolo gruppo il singolo ha una convenienza oggettiva a partecipare alle spese della comunità
quando sono state decise. Al contrario nel grande
gruppo (la società complessiva) il singolo ha il massimo di interesse a usufruire dei benefici collettivi
senza partecipare alle spese: è una spinta oggettiva
all’evasione fiscale.
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
MUTAMENTO SOCIALE, CAPITALISMO E CRISI
di Andrea Casavecchia e Fabio Cucculelli
alcune dinamiche delle società occidentali a capitalismo avanzato proponiamo di seguire l’analisi di due autori che riteniamo particolarmente illuminanti. Alain
Touraine perché ci spiega che la crisi porta ad una decomposizione del sociale tradizionale e indica la possibilità di costruire una nuova società attraverso la nascita di nuovi attori sociali, capaci di promuovere
democrazia; Mauro Magatti perché descrive una nuova
forma di capitalismo che emerge dalla crisi e suggerisce di rinnovare l’azione sociale attraverso un nuovo
modo di pensare la libertà.
La crisi in una società può essere una esperienza
tragica di dissoluzione dell’esistente, così come l’opportunità di una nuova nascita e la possibilità di rilanciare un sistema. I tempi di mutamento sono tempi di
crisi durante i quali si passa da sistemi sociali abituali
e tradizionali a sistemi sociali nuovi. Karl Mannheim
descriveva questo passaggio come una brusca sterzata di fronte alla storia, quando «dobbiamo cercare
di ri-orientarci, consultare la mappa e chiederci, dove
portano queste strade, dove vogliamo andare» (Mannheim, 1976). La brusca sterzata indica una svolta che
deriva da una serie di cambiamenti in diversi campi.
Mannheim nell’ultimo dei suoi lavori, pubblicato postumo, univa la diffusione delle innovazioni tecnologiche, giuridico-amministrative e organizzative alle
nuove tecniche sociali che tendono a condizionare il
comportamento umano e scardinano l’organizzazione sociale precedente (ivi).
Alcuni autori parlano di società dell’incertezza (Bauman, 1999), di società del rischio (Beck, 2013) perché
evidenziano la caduta di categorie sociali importanti
che ci hanno aiutato a orientare la nostra vita quotidiana
e la nostra progettualità, e che hanno anche rafforzato
i nostri legami: le classi sociali, la famiglia, il welfare
state, il taylor-fordismo… Altri autori hanno addirittura
parlato di postsociale (Touraine, 2008) per evidenziare
la difficoltà di costruire legami nelle nostre comunità che
vedono crescere i fondamentalismi identitari a scapito
delle istituzioni e dei valori novecenteschi: solidarietà,
emancipazione, uguaglianza… Infine altri ancora, come
Manuel Castells, evidenziano i flussi e le reti che indicano le caratteristiche di una società mobile sempre più
orizzontale e meno verticale: una società che non significa più egualitaria, ma che guarda più al binomio dentro-fuori, piuttosto che al binomio alto-basso.
Per collocarci oggi dentro il mutamento e segnalare
Dopo la crisi un nuovo sociale possibile
Alain Touraine nel suo libro Dopo la crisi. Una nuova
società possibile colloca la concezione del mutamento
sociale nell’attuale contesto dominato da una crisi
senza precedenti. Quel che è più inquietante nella crisi
è indubbiamente la portata globale, ovvero la capacità
di travalicare i confini nazionali e le aree geopolitiche.
Secondo Touraine la crisi economica non è solo causa
di dolorosissimi problemi sociali, bensì conseguenza di
una più ampia crisi – o meglio di una decomposizione
– delle istituzioni, degli attori e degli equilibri raggiunti
a partire dai conflitti della società industriale e post-industriale del XX secolo. «L’idea principale è che (…) si
forma una situazione post-sociale. Anche se questo
mutamento e una crisi economica non hanno la stessa
temporalità e lo stesso tipo di conseguenze, devono
essere messi in relazione l’uno con l’altra. Non è certo
la crisi a generare un nuovo tipo di società, ma contribuisce a distruggere il vecchio tipo; come può anche
impedire la formazione di un nuovo tipo di società o favorire l’intervento di attori autoritari durante il periodo
di difficile transizione» (Touraine, 2012, 13-14).
La crisi ci porta a definire la nostra società in termini diversi. Scompare la qualificazione di società
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IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
assoluto del capitalismo, è necessario ritornare al sociale: «Il problema da risolvere consiste nel ricreare una
vita sociale in cui ogni volta che tale manipolazione diventa probabile, possa non solo essere fronteggiata da
una diga giuridica, ma soprattutto si faccia sentire il richiamo al soggetto e ai suoi diritti» (ivi, p. 145).
Per il sociologo francese è possibile costruire una
nuova società che chiama “post-sociale” in cui gli attori assumono una piena autonomia nei confronti del
sistema. La sfida futura è quella di ricostruire uno scenario che vede la presenza di attori creativi di orientamenti diversi che agiranno per migliorare, mantenere e realizzare un’idea moderna di democrazia
attraverso il ricorso a forme di democrazia diretta, intesa come democrazia partecipativa. Bisogna essere
consapevoli che, per guardare con fiducia al futuro
dell’economia e della società dopo la crisi, non esistono scorciatoie: occorrono movimenti culturali in
grado di riattivare la circolazione sanguigna e il “sistema nervoso” delle nostre democrazie dando voce
alla parte più debole, a chi oggi non viene rappresentato nei processi decisionali.
Secondo Touraine la risposta più efficace a una
crisi «è la ricostruzione dei rapporti tra gli attori economici, la formulazione di loro valori comuni e di nuovi interventi pubblici. Quel che rende questa ricostruzione
possibile è che gli attori, nella loro grande maggioranza,
non sono retti soltanto dalla ricerca dei loro interessi
(…). Ma è giunto finalmente il tempo di riconoscere che
una crisi è molto più di un guasto temporaneo, e che
è lo stato generale della vita sociale che contribuisce
o all’aggravamento della crisi o al rilancio della vita sociale ed economica» (ivi, 183). Lo studioso conclude il
suo ragionamento in modo chiaro ed inequivocabile:
«Bisogna innanzitutto affermare che la democrazia,
che trasforma i lavoratori in cittadini responsabili, è la
condizione prima del rilancio economico e sociale, almeno nei Paesi che hanno scelto la libertà politica
contro il totalitarismo» (ibidem). Le soluzioni proposte
da Touraine per uscire dalla crisi, per ritornare ad un sociale capace di recuperare gli spazi perduti sia sul
piano economico che politico sono suggestive, fondate
su un presupposto chiaro: la capacità dei singoli cittadini di mobilitarsi, di trovare forme nuove che rappresentino le loro istanze.
della produzione, perché non sono più le dinamiche
dei rapporti tra lavoratori e imprenditori a scandire i
tempi e i ritmi della vita sociale. Sono invece i mercati
finanziari a dettare le regole - con i loro effetti sulle
banche e sugli Stati - che incidono sul nostro quotidiano. «I dirigenti nazionali hanno anche perso la loro
capacità d’azione dal momento in cui l’economica è
divenuta largamente globale, tanto che v’è una maggiore prossimità tra i banchieri di Londra, New York e
Tokyo (…) che all’interno di uno stesso Paese tra dirigenti economici e finanziari che agiscono in virtù di
criteri differenti, a velocità differenti e su terreni differenti gli uni dagli altri» (ivi, p.41).
In sostanza il potere non è più gestito dalle classi
sociali e dall’equilibrio dei loro rapporti. Touraine critica la teoria economica neo liberale con i suoi due
fondamenti: la razionalità degli attori in competizione
e il principio dell’autoregolazione dei mercati. Il capitalismo ha mostrato in questi anni una grande capacità di trasformazione e adattamento ai mutamenti sociali ed economici. Touraine è costretto ad ammettere
che il capitalismo pur avendo subito un colpo grave
non ne esce indebolito. La finanza globale si è risollevata e rilanciata, mentre «ad essere in rovina sono
gli attori, i modi di dominio, i conflitti tradizionali e gli
interventi dello Stato; in breve la società capitalistica
classica» (ivi, p. 43).
Con grande lucidità il sociologo francese sottolinea
l’incapacità degli attori sociali e attori politici tradizionali – partiti e sindacati in primis – nel riuscire a contrapporre alla logica del profitto anonimo e in alcuni casi criminale, orientamenti rivendicativi degli interessi e dei
diritti delle popolazioni. La crisi di rappresentatività dei
partiti e dei sindacati è una questione cruciale che evidenzia come il processo di decomposizione del sociale
sia giunto ad un punto estremo. Dobbiamo chiederci:
il capitalismo ha vinto? Ha decomposto il sociale, le istituzioni e gli attori che in qualche modo contrastavano
la sua egemonia e che rivendicavano i diritti dei lavoratori e di altri attori sociali?
Nuove possibilità sociali
Secondo Touraine per reagire a questa deriva che
genera un deficit democratico e di rappresentanza
senza precedenti, e che favorisce il dominio pressoché
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
dimenticare il proprio passato e non interessarsi al futuro). In questo modo il nuovo capitalismo agisce sulla
promozione dei desideri. Si combinano Capitalismo
globale, Tecnica, Nichilismo. CTN, appunto.
Con questo nasce un nuovo equilibrio basato sulla
mobilità e lo spostamento, sull’innovazione tecnica
diffusa a tutti gli ambiti della vita e continuamente rielaborata, sul desiderio nichilista che rende malleabili i
significati e tende sistematicamente a demolirli lasciando un vuoto sempre da riempire: «Il nichilismo
stringe un’alleanza con la tecnica e con il capitalismo.
Per potersi sostenere una realtà imbevuta di nichilismo
(…) deve essere assoggettata a una logica di cambiamento continuo, in modo tale da garantire, senza alcun
intervallo, il cambiamento di scena. In un mondo nel
quale i significati sono altamente volatili, solo a questa
condizione è possibile riprodurre (…) la certezza di
quella realtà nella quale noi conduciamo la nostra vita
quotidiana, anche se ciò non cancella la consapevolezza che non c’è nulla di duraturo, nulla per cui valga
davvero la pena di vivere» (Magatti, 2013, p 106).
Ecco perché si parla di libertà immaginaria: si aprono
infinite opportunità, ma si è imprigionati dentro l’indeterminazione. Se ne scegliessimo veramente una poi le
altre opzioni non sarebbero più a nostra disposizione.
Si producono tre cortocircuiti, con l’irruzione del reale.
Il primo è che le decisioni si basano sulle emozioni e
non sulla razionalità; in questo modo si scontra il potenziale illimitato dei desideri possibili e la dura realtà
delle opportunità concrete. Ciò provoca una insoddisfazione permanente. Il secondo è che se le nostre vite
sono costrette a cercare un’autonomia senza vincoli relazionali, allora saremo chiamati ad un continuo sradicamento; ma senza legami non riusciamo a costruire
un’identità personale e sociale. Infine il terzo cortocircuito è che tutto è coniugato al tempo presente e rimaniamo prigionieri dell’immanenza mentre senza la prospettiva storica perdiamo sia la dimensione del futuro
sia la dimensione del trascendente che offre senso.
L’avvento del capitalismo tecno-nichilista
La lettura della società nel tempo della crisi di Mauro
Magatti in Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista (2009) ci aiuta a esplorare le potenzialità che il singolo individuo possiede per contrastare il capitalismo oggi dominante. Anche l’analisi di
Magatti parte dalla considerazione che tutti sono coinvolti in una crisi globale: partiti, imprenditori, movimenti sindacali, organizzazioni della società civile, istituzioni religiose e amministrazioni statali. Per orientarci
il sociologo italiano offre una prima mappa del nuovo
spazio in cui viviamo, per poi proporre dei suggerimenti
per abitarlo. L’autore descrive le dinamiche centrali
della vita sociale degli ultimi anni con l’obiettivo di lasciar emergere la sua logica interna e si sofferma sulle
caratteristiche del capitalismo, descritto come tecnonichilista (CTN): un fenomeno che esprime un nuovo
rapporto tra individui sempre più liberi e mondi sociali
sempre più potenti. Magatti illustra le trasformazioni del
capitalismo che estende i suoi confini sulle ali della libertà, promossa dal progresso tecnico e dalla secolarizzazione delle idee, dalla caduta delle grandi ideologie, tra le quali emerge vincente quella utilitaristica.
Ma questa libertà disancora l’individuo dal gruppo.
Solo fino a pochi anni fa la società-nazione riusciva a
tenere insieme democrazia e mercato, garantendo una
via di liberazione ad ogni cittadino rispetto alle loro possibilità progettuali, in particolare rispetto a due assi
portanti, la famiglia e il lavoro. Ma nell’epoca della globalizzazione gli obiettivi dell’individuo vanno oltre. L’autonomia dei singoli diventa elemento decisivo, con la
conseguenza che le relazioni assumono caratteri intensi
e fugaci, e il lavoro diventa flessibile e precario. L’autore individua tre elementi determinanti che producono tali effetti. Il primo è l’affermazione del relativismo
che sposta l’accento dalla verità condivisa alle verità dei
singoli fondate sull’esperienza piuttosto che sulla ragione, sull’emozione piuttosto che sul confronto dialettico. In secondo luogo l’aumento delle possibilità tecnologiche sposta l’attenzione verso le “infrastrutture”
ossia le modalità pratiche della vita sociale, lasciando
nel cassetto i suoi significati. Infine l’accettazione della
logica nichilista, riesce a superare i limiti insiti nel suo
carattere distruttivo. Infatti affermare oggi che “nulla ha
valore” significa creare spazio per la novità (a patto di
Immaginare una nuova azione sociale
Insoddisfazione, sradicamento, mancanza di senso
aprono una breccia nel sistema del CTN. Si tratta per
l’autore di ripartire sfruttando le potenzialità del nuovo
sistema e modificando il nostro immaginario. Il sugge32
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
pienamente sotto il proprio controllo, ma che gli è anche antecedente e successivo» (ivi, p. 396).
rimento iniziale è di ricalibrare il nostro agire a partire
dalle irruzioni del reale che portano istanze fondamentali: il senso della vita, la ricchezza dell’alterità, l’apertura
al trascendente. A tal fine Magatti propone l’agire depotenziato, ispirandosi al verbo deponente dei latini, che
si coniuga in forma passiva ma ha significato attivo: «il
soggetto è immerso nell’azione che compie, ne partecipa attivamente e passivamente» (ivi, p. 384). La nuova
forma d’azione «indica il modello di un soggetto libero,
capace e responsabile ma al tempo stesso consapevole
di non poter pretendere di controllare o di “fare e costruire” il mondo, gli altri e nemmeno se stesso» (ibidem). L’agire depotenziato «è appassionato, coinvolto
e profondamente incarnato», consapevole che «la liberà
di agire ricerca i suoi spazi in relazione alla libertà di altri e alle condizioni nelle quali essa si dà» (ivi, p. 385). Attraverso questo agire forte e controllato si potrà recuperare la frattura con il reale.
L’azione deponente segue tre assi: fiducia, responsabilità, generatività. Si aprono così le tracce per un
nuovo immaginario. La prima segnala il passaggio dal
desiderio alla nuda fede. Se il CTN ha messo in scacco
i valori e i sistemi di credenza delle religioni, l’insostenibile leggerezza dell’essere tende a far prevalere l’attivismo insensato o la depressione radicale. Invece
un’azione sociale forte può nascere dalla nuda fede,
perché in essa si agisce per una ricerca della trascendenza, che nutre il desiderio senza renderlo effimero,
depotenziata dai valori dei sistemi di credenza. La seconda traccia sposta il baricentro dall’autonomia nel
movimento alla libertà responsabile: al soggetto de-istituzionalizzato è chiesto di garantire la sua autonomia
attraverso il movimento. Recuperare la responsabilità
come condizione della libertà permette alla persona di
assumere le conseguenze della propria azione e lo
aiuta a ricomporre narrativamente evento e senso.
L’ultima traccia per il nuovo immaginario attiene al generare. Il CTN amplia lo spettro delle azioni e moltiplica
il ventaglio degli scopi. La sfida per l’autore è quella di
«ripensare la libertà comunque aperta e creativa, ma capace di mantenere legami di continuità e di senso» (ivi,
p. 396). Un’azione generante, scrive l’autore «riconosce e valorizza la volontà creatrice del soggetto a cui
chiede, però la disponibilità ad essere attraversato e ad
accompagnare un processo che non solo non è mai
Una nuova occasione
Viviamo in un altro mondo. La crisi ci ha introdotto
dentro una nuova realtà, le coordinate della società
capitalistica precedente non sono più in grado di aiutarci. Touraine ci dice che sono decomposte, Magatti
spiega che sono superate. Abbiamo allora bisogno di
nuovi strumenti. I due autori suggeriscono alcune interessanti proposte.
In primo luogo occorre interpretare il ruolo di un
nuovo attore sociale, capace di interagire in un mondo
diverso che stimoli la partecipazione con l’ambizione
di coniugare democrazia e lavoro all’interno di forme
di coinvolgimento completamente diverse dal passato. In secondo luogo occorre impostare una nuova
strategia di azione sociale che non può più procedere
sul calcolo razionale fini-mezzi, ma deve tenere presente un sistema umano più complesso, che comprende capacità di conferire senso, di rispondere all’altro, di raccontare il futuro. Allora la crisi non si
presenterà ai nostri occhi solo come fenomeno disgregante, ma anche come tempo del kairos, come
un’occasione nuova per metterci in cammino.
Bibliografia
BAUMAN, Z., La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999.
BECK, U., La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma, 2013.
CASTELLS, M., La nascita della società in rete, Università
Bocconi, Milano, 2008.
MAGATTI, M., Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano, 2009.
MANNHEIM, K., Potere, Libertà e pianificazione democratica, Armando editore, Roma 1976.
TOURAINE, A., Dopo la crisi Una società possibile, Armando Editore, Roma, 2012.
TOURAINE, A., La globalizzazione e la fine del sociale, Il
Saggiatore, Milano, 2008.
33
IL SENSO DEL LAVORO
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
IL LAVORO NELLO SCORRERE DEL TEMPO
UN’ANALISI SOCIO-STORICA
di Andrea Casavecchia
le attività dell’agorà e dei fori, per gestire gli affari
della polis, per l’amministrazione del governo e la
formulazione delle leggi. Recita un detto attribuito a
Cicerone: «Non mi sembra un uomo libero quello
che non ozia di tanto in tanto». Al lavoro non si riconosce un carattere di nobiltà ed esserne svincolati
indica una posizione di superiorità nei confronti degli altri (Roncaglia, 1996).
Come spiega Luigino Bruni «questo sguardo
ignobile sul lavoro dipende anche dal fatto che ogni
cultura antica o tradizionale poggia su un ordine
sacrale o gerarchico del cosmo e della vita sociale,
dove esiste un’interdipendenza tra esseri e attività
inferiori (normalmente considerati impuri) ed esseri
e attività superiori più puri» (Bruni, 2014). Proprio da
tale discriminazione quei popoli giustificavano la
schiavitù.
Ovviamente la maggioranza della popolazione
lavora, ma le condizioni sono spesso proibitive: per
gli schiavi si tratta sovente di una condanna fino alla
morte, trascorsa nella fatica; per gli strati bassi della
popolazione il salario è sufficiente alla sopravvivenza e al mantenimento delle forze per continuare
il lavoro. Nell’antica Roma per integrare il proprio
reddito il cittadino diventava clientes di un signore,
il dominus, che guadagna rispetto, consenso sociale
e politica attraverso le concessioni elargite ai suoi
protetti. In caso di necessità i suoi clienti divenivano
un’aggregazione di concittadini pronti a servire, appoggiare e/o sostenere il loro protettore.
Il significato del lavoro cambia con il tempo e non
è sempre compreso dagli uomini e dalle donne in
modo univoco. L’idea che l’umanità ne aveva in passato non è quella attuale e nel futuro sarà un’altra ancora. Il pensiero sul lavoro muta insieme alle modalità di eseguire i compiti, insieme alle organizzazioni
che coordinano i sistemi di produzione, insieme ai
rapporti tra i membri e le aggregazioni che formano
una società. In questo testo proponiamo una breve
riflessione che prima ripercorre otto periodi storici per
indicare come il modo di intendere il lavoro cambia,
per poi concentrarsi sull’attuale periodo e cercare di
offrirne un punto di osservazione.
Il mondo greco-romano:
lavoro tra schiavitù e ozio creativo
Dal mondo classico proviene la prima formulazione del concetto di economia, letteralmente: leggi
per il governo della casa, come spiega Senofonte. In
origine il concetto è utilizzato per l’amministrazione
domestica e un ruolo peculiare è assegnato alla
donna – moglie, paragonata ad un’ape regina che vigila affinché nessuno rimanga inattivo e che assegna
e coordina i compiti per tutti i componenti. In seconda battuta il concetto si apre all’amministrazione dei beni e alla divisione del lavoro. Aristotele
attribuisce una misura etica allo scambio che distingue tra naturale, che serve alla soddisfazione dei bisogni, e innaturale, che serve all’arricchimento, mentre la prima è approvata, la seconda è deplorata.
Nel mondo classico il lavoro manuale (agricolo e
artigiano o quello commerciale) sono disprezzati.
Gli antichi greci e gli antichi romani lo delegano alla
plebe e agli schiavi, mentre i patrizi e le aristocrazie
si dedicano all’otium, che considerano condizione
creativa per le arti, per la politica, per la retorica e per
L’influenza del cristianesimo:
lavoro come preghiera e libertà
Con l’affermazione del cristianesimo cambia la
prospettiva. Con i viaggi di san Paolo, la nuova religione penetra nell’impero romano e porta con sé
37
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
una visione diversa di lavoro: «chi non lavora neppure mangi» richiama alla responsabilità e maturità
di vivere il proprio tempo nell’impegno quotidiano.
Paolo, come ogni giudeo, come Gesù, è un lavoratore: ha un mestiere, lo esercita e se ne vanta, perché attraverso di esso non è di peso a nessuno e
perché il frutto del suo lavoro gli permette di essere
libero da vincoli verso altri, in modo che nessuno
possa influenzare o condizionare il suo pensiero – la
sua fede – e lui possa manifestarlo senza condizionamenti. Inoltre per l’apostolo delle genti il lavoro
procura le possibilità per «venire in aiuto ai deboli»
(At. 20,35).
Emergono alcune indicazioni sul valore del lavoro:
è strumento per la soddisfazione dei bisogni; libera
da condizionamenti del potere; crea ricchezza da offrire ai poveri.
San Benedetto apre un nuovo campo di significato. Si conferma il concetto del dovere e della responsabilità di lavorare per ogni uomo, per guadagnare l’indipendenza senza pesare alla comunità. Si
inverte il rapporto tra lavoro e ozio: leggiamo nel capitolo su Il lavoro quotidiano della regola benedettina: «l’ozio è nemico dell’anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre,
pure prestabilite, allo studio della Parola di Dio». Si
aggiungono due ulteriori contributi. In primo luogo il
monachesimo conferisce importanza al lavoro come
tempo che ordina, al pari della preghiera, la giornata
delle persone. In secondo luogo si sottolinea il valore del lavoro come contributo del singolo alla comunità (il monastero). «Il monaco benedettino che lavorava e pregava, era un enorme passo avanti
rispetto al lavoro per pura necessità, o come attività
servile… quel lavorare e pregare mostrava uno spirito di servizio che costituiva una forma di elevazione
attraverso le opere, e non semplicemente attraverso
la sola fede o la preghiera» (Accornero, 1997). Il
monachesimo introduce e diffonde, inoltre, la ripartizione del tempo, che scandisce attraverso l’hora
canonicas, con la quale si pianifica la giornata: preghiera, lavoro, studio, riposo… Nel tempo i campanili diventeranno i primi orologi popolari, e con i loro
rintocchi permetteranno l’orientamento durante lo
scorrere della giornata.
Il Medio evo: lavoro artigiano come
attività creativa e l’economia di mercato
Le società medievali presentano un sistema di lavoro più articolato e con maggior distinzione tra
città e campagna. Nelle campagne si afferma il sistema feudale, legato a rapporti servili tra padrone,
feudatario, e bracciante, servo della gleba. Quest’ultimo è ancorato alla terra dove nasce, ma a differenza degli schiavi almeno può organizzare autonomamente il proprio lavoro.
In città si sviluppano commercio e artigianato.
Per la prima volta l’attività manifatturiera si svincola
dall’agricoltura. Proliferano i mestieri: dai fornai ai
fabbri, dai sarti ai falegnami, dagli orafi agli speziali… La bottega diventa un rinnovato spazio produttivo, legato alla casa e con un forte coinvolgimento familiare. L’artigiano, il maestro, è affiancato
da alcuni lavoratori, dagli apprendisti, dai garzoni:
i loro rapporti sono regolati da contratti, non più o
non solo da legami familiari. Nella bottega che diventa laboratorio, dove sono installati gli strumenti
di lavoro, si trasmettono le abilità e si impara il mestiere, attraverso l’esperienza e l’accompagnamento.
Si costituiscono le corporazioni, che associano
persone sulla base della loro arte specifica: sono riconosciute dalle istituzioni di governo; garantiscono
gli standard qualitativi dei prodotti; fissano i prezzi;
vigilano sulla concorrenza. Dalle corporazioni nascono confraternite per il mutuo soccorso e alcuni
primi esempi di assistenza sociale, come le doti assegnate agli orfani dei soci. I loro statuti e contratti
rafforzano un nuovo tipo di rapporto di lavoro, che
si definisce tra persone libere. Allo stesso tempo le
corporazioni diventano luoghi di governo della città
e, attraverso alleanze, luoghi di gestione e di conflitto
per il potere.
Si affaccia l’economia di mercato che cerca
l’incontro tra domanda e offerta, che facilita la libertà negli scambi e una manodopera libera. E inizia la riflessione sulla buona amministrazione del
tempo e sul corretto uso del denaro; così come inizia la riflessione sull’etica del giusto prezzo: quale
prezzo è moralmente lecito per vendere e/o acquistare merci?
38
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
perde la complessità di una visione unitaria. Le mansioni richieste sono limitate e concentrate su una
parte del processo produttivo.
Inizia la sua ascesa la divisione del lavoro che assume due dimensioni: una tecnica, legata all’assegnazione dei compiti, delle mansioni e dei ruoli all’interno del sistema produttivo; l’altra sociale, legata
alla divisione tra classi produttive e improduttive
prima, tra borghesi e operai poi.
Un contributo per la costruzione della cultura
borghese è offerto dall’illuminismo scozzese,che
valorizza il self made man e legittima gli investimenti per interessi individuali. L’homo oeconomicus
agisce per il bene privato, per il suo profitto, per
mezzo del quale contribuirebbe anche alla soddisfazione dei bisogni altrui. Infatti esisterebbe, secondo
Adam Smith, una mano invisibile che guiderebbe gli
interessi privati ad agire involontariamente, ma provvidenzialmente, per il bene pubblico. Ancora Smith,
in La Ricchezza delle nazioni, marca la differenza tra
lavoro produttivo e improduttivo fino a disprezzare
non solo i ceti aristocratici, ma anche quelli che lavorano al loro servizio, perché impiegati in attività
inutili al progresso.
Nel tempo si rafforza l’imperativo borghese che
vuole gli uomini autosufficienti e quindi industriosi,
onesti, frugali; in parallelo si elabora e si diffonde, soprattutto negli Usa con Benjamin Franklin, una morale per il lavoratori, perché coltivino il risparmio, la
sobrietà, la puntualità, l’obbedienza: virtù indispensabili ai nuovi meccanismi della fabbrica e dell’industria.
Dalla società industriale emerge il movimento
operaio che acquisisce lentamente consapevolezza
di essere un soggetto collettivo. Le prime associazioni assumono le caratteristiche di società di mutuo soccorso che offrono assistenza per gli infortuni
e per le malattie e, più tardi, iniziano a richiedere un
ruolo nelle contrattazione per discutere le condizioni di lavoro e i tempi di una giornata lavorativa, per
organizzare le proposte e le proteste a favore di un
riconoscimento sociale del valore del loro lavoro.
Il movimento avanza le prime richieste di inclusione sociale attraverso il riconoscimento dell’uguaglianza sociale e della partecipazione alla vita poli-
La riforma protestante:
lavoro come salvezza
La religione porta ancora un contributo con la riforma protestante che si affianca all’introduzione
dell’economia di mercato, stimolando una nuova riflessione culturale. Il lavoro diventa forma di riscatto
individuale e sociale. Calvino introduce la dimensione della salvezza all’interno dell’esperienza lavorativa. Lavoro e preghiera si fondono: il fedele è invitato a essere homo faber e artefice di sé stesso.
Lavorare non è più considerata un’azione per espiare
il peccato originale; diventa, invece, uno stimolo
per la vita interiore. Il successo professionale è una
garanzia della grazia ricevuta da Dio, un’anticipazione dell’ingresso nel regno dei cieli.
L’operosità contro l’ozio, la sobrietà contro lo
sperpero, la disciplina contro il disordine diventano
le virtù puritane che alimentano un’ascesi mondana,
capaci non solo di legittimare l’interesse individuale,
ma anche di cementare l’apprezzamento sociale.
L’indicazione dell’agiatezza terrena come misura
della salvezza dell’anima diventa uno stimolo culturale per l’affermazione del capitalismo nei paesi del
nord Europa (Weber, 1991). Il Calvinismo stimola un
discernimento sulla ricchezza, che non viene più in
astratto deplorata, ma valutata in base al suo utilizzo:
se essa è investita in modo produttivo è buona, se
è sperperata è cattiva.
La rivoluzione industriale e le società
capitalistiche: lavoro come fatica
e condizione sociale
La rivoluzione industriale favorisce l’affermazione
delle società capitalistiche, che consolidano una
cultura borghese, mentre concepiscono la nascita
del movimento operaio.
Con il sorgere delle prime fabbriche e l’attivazione
delle prime macchine a vapore si cambiano le abitudini di vita: appaiono la settimana lavorativa, i
turni giornalieri e notturni, scompaiono i ritmi legati
ai tempi delle stagioni. Con l’ingresso dei macchinari
le azioni dei lavoratori si specializzano e si frammentano. Si pone una distanza tra l’attività quotidiana e
la produzione della merce: l’operaio non è più artigiano; si allontana, si aliena dal prodotto finito e
39
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
cercare consenso si concedono alcune forme di
protezione sociale come gli istituti assicurativi e
pensionistici, le indennità di disoccupazione, le ferie pagate, si fissa un massimo di otto ore lavorative
giornaliere.
Anche il nazionalsocialismo pone il lavoro al centro della sua politica interna per conservare il consenso delle masse: uno dei suoi obiettivi è l’eliminazione della disoccupazione e il miglioramento delle
condizioni economiche degli strati sociali mediobassi. Il regime elimina la libertà di scelta del lavoro
e istituisce il lavoro obbligatorio; avvia lavori pubblici
per assorbire manodopera; vieta tutte le associazioni
sindacali e il diritto di sciopero; concede libertà illimitate agli industriali tedeschi, per raggiungere gli
obiettivi fissati dallo Stato.
Il socialismo sovietico, che si costituisce in Russia a seguito della Rivoluzione d’ottobre del 1917, attribuisce al lavoro e ai lavoratori la centralità fondativa della nascente URSS. Un ruolo essenziale è
assegnato ai soviet, che avrebbero dovuto essere
dei veicoli di partecipazione democratica, coinvolgendo operai, contadini, ecc., ma che diventeranno
poi gli organi di gestione del potere del partito sul
territorio. La figura del lavoratore è esaltata come
pietra angolare del sistema e l’ideologia ne promuove il valore e lo status sociale. Un simbolo diventa il minatore Stakanov, che fissa tempi record
per l’estrazione, taglio e trasporto del carbone, aumentando la produttività di 14 volte.
Anche il socialismo sovietico si contrappone al libero mercato. La regolazione del sistema economico e della produzione è affidata ai piani quinquennali, che fissavano gli obiettivi di sviluppo per
ogni settore produttivo. Con le prime pianificazioni
l’Unione Sovietica favorisce l’industria pesante e
converte il suo sistema che era basato principalmente sull’agricoltura.
tica per le fasce più povere della popolazione. Con
Robert Owen in Inghilterra si promuovono le prime
associazioni di lavoratori che sostengono un’armonia tra gli interessi dei borghesi e degli operai, ma
che diventano punto di riferimento per le rivendicazioni sindacali. In Francia Pierre Joseph Proudhon
pone il problema di conciliare la libertà individuale e
la giustizia sociale anche attraverso una democratizzazione del credito. Dopo la metà del 1800 si radica
il pensiero di Karl Marx e Friedrich Engels che analizza il rapporto tra capitale e lavoro, tra profitto e salario, e che descrive la creazione di plusvalore, generatore della differenza tra la retribuzione
dell’operaio e il valore delle merci. Sul rapporto tra
capitale e lavoro Marx fonda la sua elaborazione
della struttura del processo produttivo che giustifica
la richiesta di emancipazione del proletariato. Infatti
«il lavoro salariato è concepito in Marx come l’ultima
e più produttiva forma di organizzazione del lavoro,
al di là della quale si prospetta il libero sviluppo
delle forze produttive umane e il comunismo, in cui
cessa ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il lavoro diventa libera attività e scompaiono anche le
strutture di dominio esterno dello Stato» (Illuminati,
2004).
I totalitarismi: lavoro come consenso
Nel 1900 dopo la crisi del ’29, l’Europa conosce
la nascita di regimi totalitari che sostengono una cultura del lavoro, alimentata dalle ideologie che giustificano il loro potere. Fascismo, nazismo e comunismo sovietico vedono nel lavoro, ognuno a proprio
modo, un elemento fondamentale per la crescita
dello Stato e per il controllo delle forze sociali (Mannheim, 1968).
Il fascismo, con la Carta del Lavoro del 1927, favorisce la costituzione dello Stato corporativo che
cerca di assorbire le classi sociali dentro corporazioni di settore, le quali però finiscono per sopraffare
i più deboli. Si tenta di uscire dalle regole del libero
mercato, mentre si attribuisce allo Stato il compito
di fissare prezzi e salari. Ovviamente vengono sciolte
tutte le associazioni dei lavoratori se non quelle legate al partito fascista. Attraverso il controllo dei lavoratori si consolida il radicamento del regime. Per
Il taylorismo e fordismo:
lavoro come attività razionale
Nel 1900 avviene anche una rivoluzione nel metodo di lavoro. Nelle fabbriche degli Stati Uniti si introduce un nuovo modo di gestire e produrre. Due
personaggi sono i protagonisti del cambiamento
40
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
le classi: quella operaia, il ceto medio e l’alta borghesia. La divisione del lavoro finisce per essere divisione sociale. Ma il taylor-fordismo democratizza il
consumo. Il sistema moltiplica la possibilità di produrre merci: automobile, frigorifero, lavatrice, radio,
televisione (per citare alcuni esempi) cambiano la
vita nelle società occidentali, anche quella dei ceti
popolari.
che introdurrà la catena di montaggio, l’economia di
scala, il consumo di massa: l’ ingegnere Frederick W.
Taylor e l’imprenditore Henry Ford.
La One best way è l’idea guida di Taylor: per
compiere un lavoro c’è solo una modalità migliore di
tutte le altre. Trovarla significa evitare di perdere
tempo e migliorare l’efficienza della produzione. A
tale scopo introduce lo Scientific management, cioè
l’organizzazione scientifica del lavoro. Ai sistemi
produttivi si inizia così ad applicare una logica razionale per evitare gli sprechi.
Nel XX secolo il lavoro diventa solido, duro e sezionato, perde di creatività e varietà a favore di una
logica che lo vede asservito della tecnica. Il taylorismo contiene quattro principi: osservare e analizzare
il lavoro compiuto per individuare e d eliminare i
movimenti in eccesso e poi ricomporre gli atti in
modo più semplice e lineare con lo scopo di fissare
il tempo ottimale; selezionare e addestrare la manodopera, perché possa essere assegnata al compito
specifico: scegliere l’uomo giusto al posto giusto;
sviluppare un clima di collaborazione attraverso l’aumento delle retribuzioni, la capacità di ascolto dei dipendenti, il sistema premiante; riorganizzare i compiti con la costituzione di una gerarchia aziendale tra
gli operai, tra gli impiegati e tra i dirigenti (Bonazzi,
1993). Le fabbriche si riordinano al loro interno. Un
sistema simile si applicherà anche nelle burocrazia
delle amministrazioni pubbliche. Alla tempistica,
scandita da Taylor, Ford aggiunge la linea di un rullo
trasportatore davanti al quale si programma la sequenza delle operazioni per semplificare le mansioni ed evitare l’addestramento e la formazione; gli
operai avrebbero dovuto soltanto eseguire. Contemporaneamente si impone il rispetto dei tempi
con la velocità del nastro che scorre.
Il lavoro si de-professionalizza e le mansioni diventano elementari, standardizzate e cicliche. La
razionalizzazione che porta a un’esecuzione meccanica implica il progressivo distacco tra il lavoratore
e la sua opera e la mancanza di creatività e di libertà
nel raggiungere lo scopo genera un clima sempre
più opprimente. L’influenza di questo procedimento
agisce in modo così radicale e pervasivo che si rispecchia anche nella società dove si costituiscono
Oggi: lavoro come flusso e come rete
Assistiamo, spiega Marco Revelli, a una svolta
strutturale, che coniuga innovazione tecnologica e
organizzativa a una trasformazione dei mercati, resa
possibile dal modello pervasivo della rete, dai nuovi
canali comunicativi, che permettono di riorganizzare tempo e spazio su scala globale, rompendo i
vecchi tempi e spazi della produzione. I cambiamenti
costituiscono un nuovo habitat molto fluido. La
svolta può essere osservata attraverso tre chiavi di
lettura.
a) Riorganizzazione produttiva per la fluidità
Siamo di fronte ad un continuo processo di re-engignering aziendale. Si passa da una produzione
su scala ad una produzione rispetto allo scopo,
quasi su ordinazione. Tutto questo grazie al just in
time, un´invenzione nipponica. Prima iniziano a circolare, da un’azienda all’altra come da un continente all’altro, le merci, poi i loro componenti e ora
circolano i servizi e addirittura le persone. Il movimento invita a non accumulare qualcosa (o a non
mantenere qualcuno) se non strettamente necessario al presente. Le trasformazioni della Fiat nell’era
Marchionne lo dimostrano chiaramente. Con l’archiviazione del fordismo si riparte dal modello Toyota e
dalla qualità totale (Bonazzi, 1993) che diversifica e
personalizza l’offerta in modo che le scelte del
cliente incidano direttamente sui flussi di produzione «creando una variabilità della domanda e
un’elasticità operativa senza precedenti» (Accornero, 2005).
Con la globalizzazione dei mercati la produzione
si regola su una logica di flussi: i luoghi sono molto
meno importanti, interessa la possibilità di movimento. «E il movimento è il movimento di sostanze
41
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
si ripercuotono per la manodopera delle imprese subappaltatrici attraverso la flessibilità degli orari e
degli organici impiegati» (Gorz, 1998).
Infine saltano i tempi di vita. La riorganizzazione
produttiva prevede la continua connessione in rete
che rende meno standardizzabile il tempo. La maggiore estensione ed intensità degli orari lavorativi è
rintracciabile sia nelle forme tradizionali sia nelle
forme innovative, in questo modo si diffondono calendari e orari anomali, aumenta il lavoro nelle ore
antisociali e notturne. Il lavoro invade la vita quotidiana e cambiano i ritmi: il riposo e la festa non sono
per tutti gli stessi. Per accorgersene è sufficiente andare la domenica in un centro commerciale per vedere quante persone lavorano durante un giorno
teoricamente dedicato al riposo.
leggere, è il movimento di denaro (e quindi i flussi finanziari), è il movimento dell’informazione (e quindi
sono i flussi della comunicazione in rete, i flussi
delle immagini, delle tecnologie dei saperi e così
via)» (Revelli, 2004). La riorganizzazione produttiva
progetta l’impresa virtuale, «che può operare su più
continenti avvalendosi di un esiguo nucleo stabile di
lavoratori intorno a cui ruotano collaboratori e
aziende satelliti gestiti da reti telematiche» (Accornero, 1997).
Richard Sennett, illustrando gli eccessi dei processi di re-engignering, parla di strutture aziendali
che cambiano a prescindere dai profitti ottenuti,
perché le quotazioni dei mercati finanziari premiano
più le razionalizzazioni dei costi, che i risultati ottenuti. La flessibilità delle strutture produttive e dei loro
processi incide anche sui ritmi di lavoro: «Le aziende
di oggi stanno infatti sperimentando diverse suddivisioni cronologiche chiamate “tempo flessibile”. Invece di turni fissi che rimangono immutati da un
mese all’altro, la giornata lavorativa è formata da un
mosaico di persone che lavorano secondo tempi diversi e più individualizzati» (Sennett, 2003).
Dalla riorganizzazione per la flessibilità competitiva possiamo trarre tre conseguenze.
Innanzitutto il lavoro esplode. La fabbrica omogenea, uniforme e monolitica si disperde, spezzettandosi ed esternalizzando i processi, sfruttando le innovazioni tecnologiche, le reti informatiche. I luoghi
di lavoro sono più piccoli e meno aggreganti, si
compone una ragnatela interattiva; i nuovi tablet e
palmari aprono una nuova fase, ancora embrionale,
dove si realizza l’ufficio mobile «animato da lavoratori individuali dotati di potenti dispositivi portatili di
trasmissione/elaborazione delle informazioni» (Castells, 2003).
Poi cambiano i principi gerarchici. Tra datori di lavoro e lavoratori gli equilibri regolatori del potere divengono più sottili: «l’azienda madre, infatti, esternalizza tutti i lavori specializzati che altre imprese
possono assumere altrettanto bene e a miglior
prezzo. La dipendenza in cui essa mantiene le sue
aziende subappaltatrici le permette di imporre loro
dei ribassi continui di prezzo e di far sopportare
loro le fluttuazioni della domanda. Queste fluttuazioni
b) La pluralità dei contenuti del lavoro
La seconda chiave di lettura riguarda i contenuti
del lavoro. Nel modello fordista la quota più ampia
dei lavoratori si occupava di assolvere mansioni
semplici, il più velocemente possibili, poi, attraverso
i processi di automazione degli anni ‘70-80, i compiti si fanno più complessi, ma sempre previsti e prefissati. La meccanizzazione scambiava le perdite di
professionalità e di capacità nella gestione dei processi con la sicurezza del posto e una certa prevedibilità di carriera: in uno scambio di doppia fedeltà
azienda-dipendente. Le tipologie lavorative con
mansioni semplici non scompaiono come si legge
nella descrizione dei compiti degli occupati nel Mc
world (Ritzer, 1997), o come si verifica osservando
la continua richiesta di operatori di call center, sfogliando un qualsiasi giornale di orientamento al lavoro.
A queste figure occupazionali unskills se ne affiancano e sovrappongono altre come i programmatori informatici “i nuovi metalmeccanici”, fino ad arrivare ai knowledge workers (lavoratori della
conoscenza), figure che hanno visione dei risultati e
responsabilità sul prodotto.
Ma nel nuovo modello si rompe la routine: i compiti del lavoro nelle industrie come negli uffici sono
meno ripetitivi e prestabiliti. Sul lavoro si riduce la
manualità, contano di meno le abilità (skill) e di più
42
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
bordinati e più autonomi (perfino nel lavoro dipendente); inoltre meno durevoli, data la crescita dei
contratti a tempo determinato e il calo di quelli a
tempo indeterminato; e infine meno uniformi giacché
l’ambito dei contratti di lavoro si avvia a essere più
circoscritto e assai più articolato, perfino individualizzato» (Accornero, 2001).
Inoltre in alcune situazioni i tratti distintivi tra le diverse figure appaiono difficilmente identificabili.
La diversificazione dei contratti porta all’instabilità lavorativa che diventa un elemento portante e distintivo delle figure professionali, specie nel periodo
di inserimento.
Molti hanno parlato della possibile cronicizzazione dell’instabilità lavorativa. Ulrich Beck intravede il pericolo di una possibile brasilianizzazione del
lavoro europeo, segnalando la forte possibilità dell’avvento di un lavoro in massima parte precario
che trasformerebbe la società del lavoro in società
del rischio dove «uno stato di insicurezza endemica
sarà l’elemento distintivo che in futuro caratterizzerà
la vita e le basi di sussistenza della maggioranza degli esseri umani anche di quel ceto medio all’apparenza ancora benestante» (Beck, 2000).
La moltiplicazione delle figure professionali nasconderebbe una dualità economica. Secondo Gorz
il sistema attuale porterebbe alla formazione di un
gruppo di persone iperattive nella sfera economica,
incluse nel cuore dei processi produttivi ed una
massa marginalizzata, che vive in subalternità alla
prima. Infatti la ricerca di tempo libero degli iperattivi procurerebbe posti di lavoro per lo più precari e
mal pagati a una parte delle masse espulse (Gorz,
1992). Il pericolo di polarizzazione è rilevato anche
da Luciano Gallino che sottolinea una distribuzione
degli occupati che assume la forma di una clessidra:
in un’ampolla si trovano quelli con un lavoro di
buona qualità, che apre nuove prospettive e permette molte esperienze. Nell’altra ampolla, quella in
basso, ci sono i lavoratori che fluttuano da un subappaltatore all’altro, da un sistema produttivo ad un
altro. La qualità del lavoro è bassa, se non infima, le
mansioni sono ripetitive e il guadagno è relativo al
tempo impiegato per eseguire il proprio compito
(Gallino, 2004).
le competenze di base, perché si lavora maggiormente per gruppi e le gerarchie sono più informali e
vengono sfoltite. Al lavoratore è chiesto di assolvere
compiti complessi, governare processi, assumere
uno stile collaborativo all’interno di una rete produttiva più o meno ampia. Chi cerca lavoratori non
punta più sulla forza della massa, ma sulle qualità
della persona da assumere, diventano importanti le
attitudini dei singoli e meno il loro know-how (Accornero, 2004). Allo stesso tempo il lavoro è più flessibile diventa sempre meno maschile, rigido, esecutivo, performativo e sempre più femminile, fluido,
cognitivo, relazionale (Accornero, 1997).
I contenuti aumentano la dimensione soggettiva
rispetto a quella oggettiva: «Il risultato generale è una
maggiore autonomia anche per chi lavora alle dipendenze. Se ne ha riscontro nella discrezionalità operativa, che oggi offre maggiori gradi di libertà perfino
nell’esecuzione di lavori manuali standardizzati. Ma
se ne ha riscontro soprattutto nella richiesta al singolo lavoratore di individuare gli intoppi e di risolvere
i problemi che sorgono, mentre prima gli si vietava
ogni iniziativa» (Accornero, 2004). Ne deriva che il lavoro è più individualizzato: negli inconvenienti della
produzione i singoli vengono chiamati in causa. A
loro è chiesto di intervenire come meglio credono e
di rispondere dell’errore.
c) La moltiplicazione delle figure lavorative
La terza chiave consiste nella moltiplicazione
delle figure lavorative. Con una produzione a misura
di consumatore, con contenuti del lavoro assai diversificati si assiste ad una pluralizzazione delle professionalità ed un’eterogeneità dei contratti, come appare quando si osserva lo scenario del mercato del
lavoro.
Lo scenario plurale e mutevole se da una parte
apre ai percorsi professionali più impensabili, dall’altra rende imprevedibili le prospettive del futuro marcando una netta differenza con il passato. Inoltre non
si ha più un’immagine unica di lavoratore: prima il dipendente «era posto in condizioni di lavoro relativamente standardizzate e fungibili, sostituibili, regolate
da normative e contratti di lavoro collettivi» (Revelli,
2004). Ora i rapporti di lavoro diventano: «meno su43
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
GORZ, A, Le miserie del presente, le ricchezze del
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WEBER, M., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano, 1991.
Conclusione
Il lavoro come evidenziato in queste pagine non
ha mai avuto un significato univoco e a seconda dei
periodi ha assunto diversi significati, oltre a subire rilevanti cambiamenti nei contenuti delle mansioni.
Nell’attuale periodo storico viviamo una sovrapposizione e una commistione legata alla fluidità e alla
moltiplicazione di figure. Questa riflessione iniziale è
uno stimolo ad approfondire altri elementi e per
comprenderne il senso: le relazioni di potere all’interno della società, che influiscono sui rapporti dentro il mondo produttivo; l’impatto delle innovazioni
tecnologiche e sociali nei processi, che caratterizzano le condizioni lavorative e la ripartizione dei
compiti e delle mansioni; l’apporto culturale che determina la finalità dell’operare.
Bibliografia
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44
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
LAVORARE IN GRATUITÀ. UN’ANALISI BIBLICA
di Marco Bonarini
dominio capace di custodire e accrescere la vita,
proprio secondo l’intenzione creatrice di Dio.
La benedizione che Dio fa scendere sull’uomo,
subito dopo la sua creazione, è il trasferire all’uomo
la capacità di moltiplicare la vita attraverso un dominio che si caratterizza come mite:
«Dio li benedisse e Dio disse loro:
“Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra e soggiogatela,
dominate sui pesci del mare e sugli uccelli
del cielo
e su ogni essere vivente che striscia sulla terra”»
(Gen 1,28)
La rivelazione biblica è focalizzata sul rapporto
d’amore che il Signore ha per la creazione e per gli
uomini e le donne, che si configura come creazione
e custodia della vita, delle creature e del cosmo.
Il lavoro è una delle attività umane più quotidiane, accanto alle funzioni vitali come il mangiare,
il bere e il dormire e come tale sembra essere sullo
sfondo della rivelazione biblica. Solo qua e là, ma in
punti strategici e significativi, c’è una rivelazione
sapienziale e simbolica del significato del lavoro
umano, mettendolo a confronto con il lavoro di Dio,
fin dalle prime pagine della Genesi.
La rivelazione biblica svolge quindi sia una riflessione antropologica che teologica sul lavoro dell’uomo. I due aspetti sono strettamente intrecciati e
la loro relazione rimanda e illumina con sapienza la
realtà - a volte opaca come la crisi che stiamo vivendo - che coinvolge milioni di uomini, donne e
bambini.
Questo è il primo comandamento di Dio agli uomini.
Il secondo comandamento è dato all’uomo come
segno della sua condizione creaturale e non di creatore:
«Il Signore Dio diede questo comando all’uomo:
“Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma
dell’albero della conoscenza del bene e del male non
devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire”» (Gen 2,16-17)
In questa parola del Signore la prima parte, che
spesso non prendiamo in considerazione, mostra la
sovrabbondanza d’amore di Dio per l’uomo: è possibile mangiare di tutti gli alberi, tranne che di uno.
Questo limite è quello proprio della creatura che non
può accedere completamente al mistero della propria
origine. Infatti l’uomo non conosce fino in fondo il mistero del male e quando vi si accosta, e lo accoglie
in qualche modo, produce solo che morte, come la
storia ci mostra in modo inequivocabile.
Il racconto di Genesi 3, è un racconto simbolico
sulla dinamica che abita l’intimo dell’uomo.
Il progetto buono di Dio
L’uomo è creato ad immagine e somiglianza
di Dio:
«Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su
tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano
sulla terra”» (Gen 1,26)
C’è in questo dire di Dio una somiglianza e una
differenza tra l’uomo e Dio. La differenza sta tutta nel
fatto che l’uomo è creatura e Dio è creatore. La somiglianza sta nel fatto che l’uomo è chiamato a vivere secondo il modo di vivere di Dio, si potrebbe
dire che è chiamato a vivere come Dio. Infatti il dominio che Dio vuole che l’uomo eserciti sulla creazione è un dominio mite, un dominio di amore, un
45
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
vare e custodire la terra (Gen 2,15) che gli dà la vita,
in un rapporto di alleanza reciproca tra l’uomo e la
terra: se coltivata e custodita con mitezza la terra dà
ciò che è necessario per vivere, altrimenti muore e
con essa anche l’uomo.
La qualità del rapporto con l’origine simbolica
dell’uomo è dunque il criterio di discernimento del
suo agire. L’origine simbolica dell’uomo è la terra
con cui è stato plasmato (Gen 2,7): «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e
soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne
un essere vivente») e a cui ritornerà nella morte (Gen
3,19): «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane,
finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei
stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!». La
qualità del rapporto con l’origine simbolica si qualifica nella Bibbia come giustizia.
Il verbo creare ha solo Dio come soggetto, il
verbo lavorare ha solo l’uomo come soggetto, il
verbo fare ha sia Dio che l’uomo come soggetto.
Nell’articolazione di questi tre verbi si sostanzia la
somiglianza e la differenza tra l’uomo e il Signore suo
creatore.
Questa prima riflessione biblica ci mostra il lavoro
dell’uomo nei confronti della terra, quindi delle cose,
la produzione di ciò che serve a vivere, ma non ci
parla del lavoro come relazione con gli altri uomini e
del lavoro di coloro che hanno autorità su altri uomini.
La voce del serpente è il simbolo del male che si
insinua con astuzia nel cuore dell’uomo per mettere
in dubbio la bontà di Dio e quindi separare (questo
significa diavolo, il separatore) la creatura dal suo
creatore.
Il non accogliere la parola di Dio che è di salvaguardia per l’uomo, ma accogliere invece la voce del
serpente, vuol dire disconoscere il legame vitale che
ci unisce a colui che ci ha dato la vita.
Il Signore quindi deve trovare un altro modo per
ricordare all’uomo la sua condizione di similitudine
e differenza con lui e lo fa tramite il dolore del parto
delle donne e il dolore con cui trarre dalla terra i suoi
frutti per gli uomini (Gen 3,16-17): «Alla donna disse:
“Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con
dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo
istinto, ed egli ti dominerà”. All’uomo disse: “Poiché
hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato
dell’albero di cui ti avevo comandato: “Non devi
mangiarne”, maledetto il suolo per causa tua! Con
dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua
vita»), proprio per aiutarlo a ricordare che non è padrone della vita, ma che essa è un dono da accogliere con gratitudine. Il dolore non è quindi una punizione, ma un segno per aiutare l’uomo a ricordarsi
di Dio, che si rivela come autore della vita e che si
manifesta nella nascita di un nuovo uomo e nel cibo
necessario per vivere.
Questa riflessione sapienziale non è esaustiva
della rivelazione, ma essendo posta all’inizio di essa
ci aiuta ad orientare la nostra ricerca sul senso della
vita e anche del lavoro dell’uomo.
Noè, colui che obbedirà alla parola del Signore e
salverà l’umanità dalla distruzione causata dal proprio peccato, è così chiamato perché «costui ci consolerà del nostro lavoro e della fatica delle nostre
mani, a causa del suolo che il Signore ha maledetto» (Gen 5,29).
I racconti dell’origine ci indicano simbolicamente
non tanto l’inizio come una caduta, ma come la
condizione esistenziale in cui ogni uomo e donna si
trovano a vivere, esposti all’amore sovrabbondante
di Dio e alla tentazione di voler fare a meno di lui.
Il lavoro è dunque essenziale alla vita dell’uomo,
perché in esso si manifesta la sua capacità di colti-
Lavorare sotto lo Spirito
che dà la sapienza
Nella descrizione dei lavori per costruire l’arca del
Signore in cui sono custodite le tavole della legge, i
comandamenti che indicano la via della vita per gli
uomini, si racconta che gli artigiani che lavorano alla
sua costruzione sono sotto l’influsso dello Spirito del
Signore:
Mosè disse agli Israeliti: “Vedete, il Signore ha
chiamato per nome Besalèl, figlio di Urì, figlio di Cur,
della tribù di Giuda. L’ha riempito dello spirito di Dio,
perché egli abbia saggezza, intelligenza e scienza in
ogni genere di lavoro, per ideare progetti da realizzare
in oro, argento, bronzo, per intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno ed eseguire ogni
46
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
nome del Signore. Essa si vive simbolicamente nel
tempio.
La terza riguarda le relazioni con i fratelli che si sostanzia nel rispetto della loro vita fino a guidare il desiderio del cuore a non bramare ciò che è necessario per la vita del fratello. Esse si vivono
simbolicamente alla porte della città dove si amministra la giustizia.
Al centro ci sono due comandamenti positivi che
riguardano il primo l’osservanza del sabato e il secondo il rispetto per i genitori, coloro che ci hanno
dato la vita e ci hanno istruito nella legge. Essi si vivono in casa, luogo dove si impara a vivere nella giustizia.
Il comandamento della santificazione del sabato
riguarda la sospensione dal lavoro delle proprie mani
per onorare il Signore della vita. È la prima volta nella
storia dell’uomo che ci si astiene un giorno a settimana dal lavoro. È il padre che chiama a raccolta la
famiglia, i servitori e gli animali, affinché, astenendosi
dal lavoro, si ricordino che la vita non è il frutto del
lavoro delle loro mani, ma viene dal Signore che l’ha
creata. Astenendosi dal lavoro riconoscono con fiducia che il Signore continua a dare loro il necessario per vivere.
Nella prima versione del decalogo, in Esodo 20,
la giustificazione è data dall’imitare il Signore che si
è riposato il settimo giorno della creazione:
««8Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. 9Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 10ma
il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo
Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua
figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te.
11
Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la
terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il
settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il
giorno del sabato e lo ha consacrato» (Es 20,8-11)
Nella versione di Deuteronomio 5 la giustificazione del comandamento del sabato riguarda la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto:
«12Osserva il giorno del sabato per santificarlo,
come il Signore, tuo Dio, ti ha comandato. 13Sei
giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 14ma il settimo
giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non
sorta di lavoro artistico. Gli ha anche messo nel
cuore il dono di insegnare, e così anche ha fatto con
Ooliàb, figlio di Achisamàc, della tribù di Dan. Li ha
riempiti di saggezza per compiere ogni genere di lavoro d’intagliatore, di disegnatore, di ricamatore in
porpora viola, in porpora rossa, in scarlatto e in
bisso, e di tessitore: capaci di realizzare ogni sorta di
lavoro e di ideare progetti”» (Es 35,30-35)
L’uomo che realizza lavori creativi lo fa perché lo
Spirito di Dio gli infonde la sapienza nel trattare le
cose per ordinarle a scopi buoni e giusti. Inoltre gli
dà anche la capacità di insegnare, cioè di trasmettere ad altri la sapienza ricevuta in dono. È il rispetto per l’artigiano che con il suo lavoro si avvicina
alla sapienza creatrice di Dio.
Questo è un altro aspetto della somiglianza dell’uomo con Dio, frutto di ascolto e obbedienza alla
parola del Signore che si dà con gratuità, perché
scopo della parola di Dio è quello di indicare all’uomo la via della vita che si realizza nella giustizia.
Il fine del lavoro è quello di ordinare le cose del
mondo perché servano al benessere dell’uomo, al
suo stare bene e avere ciò che è necessario per la
propria vita senza che questo sia a discapito della
vita degli altri.
Il decalogo via della vita giusta
Al centro del decalogo c’è un comandamento che
riguarda il lavoro dell’uomo.
Il decalogo ha una premessa senza la quale non
si comprende il significato dei comandamenti che indica. La premessa è l’autopresentazione di Dio
come colui che salva dalla schiavitù del lavoro:
«“Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire
dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Dt 5,6)
Dio si presenta come il Dio della vita e della libertà
coerentemente con il suo essere creatore. Nella liberazione dell’uomo Dio continua a creare le condizioni
per una vita giusta.
Il decalogo si presenta diviso in tre parti: la prima
(vv. 7-11) e la terza (vv. 17-21) sono istruzioni in
forma negativa: ciò che non si deve fare.
La prima riguarda la relazione con Dio, il rispetto
che si deve portare per il creatore che si sostanzia
nel non farsi idoli e nel non pronunciare invano il
47
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
re come tutte le nazioni che mi stanno intorno”,
15
dovrai costituire sopra di te come re colui che il Signore, tuo Dio, avrà scelto. Costituirai sopra di te
come re uno dei tuoi fratelli; non potrai costituire su
di te uno straniero che non sia tuo fratello. 16Ma egli
non dovrà procurarsi un gran numero di cavalli né far
tornare il popolo in Egitto per procurarsi un gran numero di cavalli, perché il Signore vi ha detto: “Non
tornerete più indietro per quella via!”. 17Non dovrà
avere un gran numero di mogli, perché il suo cuore
non si smarrisca; non abbia grande quantità di argento e di oro. 18Quando si insedierà sul trono regale,
scriverà per suo uso in un libro una copia di questa
legge, secondo l’esemplare dei sacerdoti leviti.
19
Essa sarà con lui ed egli la leggerà tutti i giorni della
sua vita, per imparare a temere il Signore, suo Dio,
e a osservare tutte le parole di questa legge e di questi statuti, 20affinché il suo cuore non si insuperbisca
verso i suoi fratelli ed egli non si allontani da questi
comandi, né a destra né a sinistra, e prolunghi così
i giorni del suo regno, lui e i suoi figli, in mezzo a
Israele».
Il re, scelto all’interno del popolo, deve governare
con mezzi sobri: pochi soldi, poco esercito, poche
alleanze, perché confida in Dio di cui è chiamato a
meditare la legge tutti i giorni per non insuperbirsi a
causa della posizione di autorità sui fratelli e per imparare la sapienza dell’arte di governare: custodire
ed accrescere la vita e la giustizia in mezzo al popolo
che governa.
Il rischio per il popolo è che il re, per poter avere
gli strumenti necessari per governare, può ridurlo in
schiavitù, come dice chiaramente il profeta Samuele
al popolo che gli chiede un re per essere simile a tutti
gli altri popoli:
«10Samuele riferì tutte le parole del Signore al popolo che gli aveva chiesto un re. 11Disse: “Questo
sarà il diritto del re che regnerà su di voi: prenderà i
vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli,
li farà correre davanti al suo cocchio, 12li farà capi di
migliaia e capi di cinquantine, li costringerà ad arare
i suoi campi, mietere le sue messi e apprestargli armi
per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri.
13
Prenderà anche le vostre figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie. 14Prenderà pure i vostri
farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né
il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il
tuo asino, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te, perché il tuo schiavo e la tua
schiava si riposino come te. 15Ricòrdati che sei
stato schiavo nella terra d’Egitto e che il Signore, tuo
Dio, ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore, tuo Dio, ti ordina di osservare il giorno del sabato». (Dt 5,12-15)
Nell’uno e nell’altro caso l’uomo è chiamato a
compiere le stesse azioni di Dio: il suo riposo nel settimo giorno e la liberazione dal lavoro servile per
orientare, nella libertà ritrovata, la propria vita all’incontro con il Signore creatore e liberatore.
Il lavoro è quindi un atto relativo, non è il compimento dell’uomo, pur essendo necessario per buona
parte della vita come partecipazione alla costruzione di una società giusta. Infatti oggi, molto più
che al tempo antico, il lavoro di ciascuno di noi è in
necessaria relazione con quello di tutto gli altri uomini e donne. La relazione con gli altri, tramite la distribuzione del lavoro, ci è necessaria per poter godere dei beni necessari alla vita. Nessuno è
autosufficiente, da questo punto di vista, con il proprio lavoro e anche gli uomini più ricchi del mondo
non si sottraggono a questa realtà.
Questo è un bene per tutti, perché ci ricorda
come siamo liberamente legati ai fratelli: liberamente
perché possiamo scegliere la qualità della relazione
da intrattenere con ciascuno che incontriamo quotidianamente, legati perché senza i fratelli moriamo,
in senso sia simbolico che letterale.
L’autorità sugli altri
Nella società moderna, più che in quelle antiche,
sono sempre più le persone che svolgono un lavoro
di tipo dirigenziale e che hanno alle proprie dipendenze altri lavoratori. Nella Bibbia la persona che incarna simbolicamente questa funzione di governo su
altri è quella del re in Israele.
L’ideale del re è presentato in Dt 17,14-20, come
parallelo della figura del padre nel decalogo:
«14Quando sarai entrato nella terra che il Signore,
tuo Dio, sta per darti e ne avrai preso possesso e
l’abiterai, se dirai: “Voglio costituire sopra di me un
48
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
a predicare con il potere di scacciare i demoni»
(Mc 3,14-15);
- apprende dall’esperienza dell’annuncio della
venuta del regno di Dio dell’opposizione che si
sviluppa da parte dei capi del popolo e della incostanza del popolo;
- protegge i suoi discepoli dalle conseguenze del
suo agire;
- conferma i suoi discepoli come testimoni privilegiati dell’agire salvifico di Dio, nonostante il
loro abbandono durante la sua passione e
morte.
Inoltre l’agire missionario di Gesù è compreso da
Gesù stesso come un operare che realizza nella storia l’opera di Dio. Leggiamo nel Vangelo di Giovanni
a riguardo di una controversia tra Gesù e i Giudei
perché aveva guarito un infermo in giorno di sabato,
che Gesù afferma: «Il Padre mio agisce ora e anch’io
agisco» (Gv 5,17) e subito dopo: «Il Figlio da se
stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare
al Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa allo
stesso modo» (Gv 5,19).
È proprio nel giorno di sabato che siamo chiamati, come Dio, a liberare i fratelli da tutte le schiavitù: malattia, morte, oppressione, ingiustizia, ecc. È
così che Gesù onora il sabato, secondo la richiesta
del decalogo.
Gesù compie l’opera del Padre: l’annuncio della
vicinanza del Regno, sotto la guida del suo Spirito,
con l’aiuto di compagni, per il bene di tutti.
In questo diventa il modello di come compiere
ogni lavoro che gli uomini realizzano quotidianamente.
campi, le vostre vigne, i vostri oliveti più belli e li darà
ai suoi ministri. 15Sulle vostre sementi e sulle vostre
vigne prenderà le decime e le darà ai suoi cortigiani
e ai suoi ministri. 16Vi prenderà i servi e le serve, i vostri armenti migliori e i vostri asini e li adopererà nei
suoi lavori. 17Metterà la decima sulle vostre greggi e
voi stessi diventerete suoi servi. 18Allora griderete a
causa del re che avrete voluto eleggere, ma il Signore non vi ascolterà”» (1Sam 8,10-18).
Il rischio è che il re, al contrario di Dio che dà in
abbondanza, prenda in abbondanza da coloro su cui
governa. Questo però non perché il re sia avido o
cattivo, ma semplicemente per le necessità del governo centralizzato del regno.
Vediamo così che tra l’ideale del re, che deve governare con mezzi sobri, e il rischio concreto che
nella realtà accada il contrario, si realizza una dinamica che richiede a colui che esercita un ruolo di autorità un discernimento spirituale continuo e profondo, che viene presentato come la lettura
quotidiana della parola di Dio per entrare in comunione sincera con la volontà del Dio creatore di custodire ed accrescere la vita di tutti gli uomini e le donne.
Gesù e il lavoro
Nella sua vita a Nazaret Gesù ha vissuto del proprio lavoro, facendo così esperienza delle dinamiche
relazionali del lavoro umano. Per questo ne ha potuto parlare con sapienza nelle parabole utilizzandolo
come esperienza di vita che illumina il mistero del regno di Dio che viene.
Solo come esempi prendiamo la parabola del
seminatore che illustra la dinamica del cuore umano
che accoglie la parola di Dio (Mc 4,1-20) o la parabola degli operai chiamati all’ultima ora a lavorare
nella vigna (Mt 20,1-16) in cui a tutti è dato il necessario per vivere, indipendentemente da quante ore
abbiano lavorato.
Possiamo riflettere anche sull’annuncio missionario del regno di Dio come il vero lavoro di Gesù:
- Gesù ha un messaggio da annunciare: «Il tempo
è compiuto e il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete nel vangelo» (Mc 1,15);
- associa a sé alcuni discepoli che sceglie tra il
popolo: «perché stessero con lui e per mandarli
Il lavoro come possibile relazione
gratuita di libertà
Il lavoro dell’uomo ha una dimensione costitutivamente relazionale, poiché è l’uomo che è relazione.
Nessuno lavora solo per sé e senza l’aiuto necessario di altri.
Ogni relazione ha un aspetto di libertà, quella di
scegliere quale qualità di relazione - che la Bibbia
chiama giustizia - instaurare con chi incontriamo.
Il lavoro, in particolare, è una relazione mediata
dal compito da realizzare.
49
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
Certo sappiamo bene come a fronte ad un’ingiustizia la prima reazione sia quella di ritirarci e
sottrarci alla relazione opprimente o addirittura di
compiere violenza verso colui che ci opprime. Ma
non così ha fatto Gesù, anzi! Egli ha scelto di andare avanti nella propria missione evangelizzatrice fino al dono di sé nel mistero pasquale di passione, morte e resurrezione, nonostante
l’opposizione che ha incontrato. Così facendo ha
realizzato il bene di tutti: per sé, perché è rimasto
fedele alla sua missione; per gli uomini, perché ha
realizzato la salvezza dell’umanità; per Dio, perché
ne ha manifestato la vera intenzione: la custodia
della vita di tutti, a partire da quella di Gesù nella
resurrezione, anticipazione della resurrezione per
tutti.
La Bibbia ci presenta il lavoro come attività importante per l’uomo, in cui si gioca gran parte della
vita di ciascuno e in cui ognuno è chiamato a dare
il meglio di sé, nonostante il peccato collettivo e personale, per rendere possibile nella storia la presenza
salvifica di Dio.
Il lavoro ha una gerarchia di componenti:
- il fine sociale
- il compito particolare da realizzare
- la relazione con altri per realizzarlo, che può essere di parità o di autorità-esecuzione
- la propria realizzazione personale
- il ricevere un compenso oppure no
- l’utilizzo di strumenti.
In ogni componente è in gioco la libertà dell’uomo, più o meno condizionata dalla sua posizione sociale e di potere contrattuale.
In ogni caso in ogni lavoro c’è una dimensione di
dono gratuito di sé, indipendentemente da un corrispettivo in denaro (o altro) o meno (ad esempio il
necessario lavoro domestico), perché il dono di sé,
in ogni relazione, e quindi anche nel lavoro, è ciò che
caratterizza il lavoratore.
Il peso del peccato dell’uomo, nella relazione lavorativa, è presente come in ogni attività umana, ma
siamo tutti chiamati a convertirci dal nostro peccato,
a ridurlo il più possibile e ad aiutare gli altri a fare altrettanto.
50
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
IL BENE NEL LAVORO
UN’ANALISI DOTTRINARIA
di p. Elio della Zuanna
dalla parte di quanti sono meno protetti e più esposti alla precarietà.
Tutto ciò domanda non soltanto la conoscenza dei
problemi, ma anche una visione illuminata delle priorità, dei valori, e la capacità di renderli operativi nei
contesti sociali e politici. Gli orientamenti sull’operosità umana che scaturiscono dal messaggio sociale
del Vangelo non sono da considerarsi alla stregua di
una teoria, ma prima di tutto sono il fondamento e la
motivazione per l’agire.
Antichi e nuovi problemi si agitano di fronte al
tema lavoro, da sempre questione cruciale, ambito
privilegiato per monitorare la condizione sociale del
paese, delle famiglie e, insieme, del Magistero sociale
della chiesa, che si è andato a consolidare, nel corso
dei decenni, attorno alla “questione sociale”, dando
vita a un patrimonio di pensiero e di orientamenti.
Senza mai perdere di vista la coerenza di questo
corpus dottrinale, cogliamo la definizione che offre il
Compendio della dottrina sociale della chiesa. «Il lavoro è un diritto fondamentale ed è un bene per
l’uomo - si legge nel - un bene utile, degno di lui perché adatto appunto ad esprimere e ad accrescere la
dignità umana. La chiesa insegna il valore del lavoro
non solo perché esso è sempre personale, ma anche
per il carattere di necessità. Il lavoro è necessario per
formare e mantenere una famiglia,per avere diritto alla
proprietà, per contribuire al bene comune della famiglia umana» (n. 287).
Tale visione consente di riflettere sul senso dell’operare umano e sulle sue connessioni con i problemi della società e della politica e di mostrare come
il lavoro sia da considerare un bene primario per cui
sì è lottato per farlo riconoscere come diritto fondamentale.
Grazie all’evento conciliare del Vaticano II, abbiamo compreso, che l’impegno sociale e lavorativo
del cristiano è parte costitutiva della sua vocazione
come uomo e come credente.
Nel suo operare dentro le vicissitudini storiche e lavorative il laico cristiano si trova di fronte problemi
sempre nuovi, da affrontare in maniera coerente alla
luce della fede, stando accanto ad altri uomini di
buona volontà, e quanti hanno a cuore la passione
per la libertà e la giustizia sociale con l’intento di costruire una società più degna dell’ uomo, stando
La comprensione cristiana del lavoro
Il lavoro viene inteso come partecipazione dell’essere umano, alla costruzione del mondo e contributo all’opera creatrice di Dio. Questo pensiero
espresso dal domenicano M. D. Chenu, venutosi a
maturare nella costrizione dei campi di lavoro forzato
dell’ultimo grande conflitto mondiale del secolo
scorso, sarà ripreso ed espresso nel testo conciliare
Gaudium et Spes: «gli uomini e le donne che lavorano
devono essere convinti che con il loro lavoro essi prolungano l’opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli e donano un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia»
(Gs 34ss).
Il concilio insegna così, a guardare soprattutto la
dignità dell’essere umano e alla convivenza solidale
tra tutti gli uomini. Al centro di questa visione teologica ci sono gli aspetti creatori e benefici del lavoro.
Ad esempio, quando si afferma: «Con il lavoro,
l’uomo provvede abitualmente al sostentamento proprio e dei suoi familiari, comunica con gli altri, rende
un servizio agli uomini suoi fratelli e può praticare una
vera carità e collaborare attivamente al completamento della divina creazione. Ancor più sappiamo
per fede che l’uomo, offrendo a Dio il proprio lavoro,
51
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
denziato il nesso tra povertà e disoccupazione, in
particolare nel testo della Caritas in veritate si legge:
«Nella considerazione dei problemi dello sviluppo,
non si può non mettere in evidenza il nesso diretto tra
povertà e disoccupazione. I poveri in molti casi sono
il risultato della violazione della dignità del lavoro
umano, sia perché ne vengono limitate le possibilità
(disoccupazione, sotto-occupazione), sia perché vengono svalutati i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al giusto salario, alla sicurezza della
persona del lavoratore e della sua famiglia».
Ma già in occasione del Giubileo dei lavoratori dell’anno 2000, Giovanni Paolo II, aveva lanciato un appello per una coalizione mondiale in favore del lavoro
decente, incoraggiando la strategia messa in moto
dall’Organizzazione internazionale del lavoro, in maniera tale da conferire un forte riscontro morale a questo obiettivo, quale aspirazione delle famiglie in tutti i
Paesi del mondo. Oggi sono in molti a chiedersi cosa
significhi la parola «decenza» applicata al lavoro?. «Significa un lavoro - risponde Benedetto XVI nella Caritas in veritate - che, in ogni società, sia l’espressione
della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna:
un lavoro scelto liberamente, che associ efficacemente
i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità; un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le
necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli, senza
che questi siano costretti essi stessi a lavorare; un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire la loro voce; un lavoro che lasci
uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a
livello personale, familiare e spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione
dignitosa» (CV 63).
Pensiero che nasce dalla fiducia della chiesa di essere “esperta in umanità”, che portò a suo tempo,
Paolo VI a credere di poter continuare a proporre con
forza, il metodo di lettura indicato da papa Giovanni
XXIII con la categoria dei “segni dei tempi”: ovvero affrontare e interpretare i problemi legati all’attività
umana nel loro sviluppo storico. Si tratta infatti di categorie di analisi che provocano il credente a giudicare e ad impegnarsi nella storia attraverso una testi-
si associa all’opera stessa redentiva di Cristo, il
quale ha conferito al lavoro una elevatissima dignità,
lavorando con le proprie mani a Nazareth».
La concezione cristiana del lavoro trova espressa
la grandezza dell’uomo e l’immagine di Dio in ciò che
sembra destinato ad essere soltanto il mezzo per
guadagnarsi di che vivere, segno della contingenza e
della fragilità umana.
Salvaguardare la prospettiva comunitaria
Una fondamentale importanza, soprattutto in questo tempo in cui i legami sociali si fanno più fragili, e
la coesione sociale tende a disgregarsi - da sempre
sostenuta dall’Insegnamento sociale della Chiesa deriva dall’ovvia constatazione che non si lavora mai
da soli. Pur essendo un atto eminentemente personale, il lavoro è insieme un atto cooperativo sia in ragione delle limitate energie del singolo uomo, sia in
ragione della grandiosità del fine. «Il lavoro - ricorda
la Laborem exercens -, prima di tutto, unisce gli uomini e in ciò consiste la sua forza sociale: la forza di
costruire una comunità. In questa comunità devono
in qualche modo unirsi sia coloro che lavorano sia coloro che dispongono dei mezzi di produzione o ne
sono i proprietari» (n. 20).
Mediante il lavoro l’uomo costruisce socialità,
scopre l’altro, si rende conto delle interdipendenze e
comprende il valore della solidarietà. In una parola,
attraverso il lavoro l’uomo fa la storia, cioè dà senso
e orientamento alle cose e agli eventi. In tal modo
trova il senso della sua stessa vita, sia in quanto risponde alla vocazione originaria ricevuta nell’atto
stesso della creazione, sia in quanto collabora all’opera della salvezza e della redenzione del mondo.
Il lavoro come spazio privilegiato in cui favorire l’incontro generazionale, dove i giovani e il lavoro siano
un futuro da costruire insieme. La precarietà del lavoro giovanile, flagello drammatico che percuote comunità e famiglie, domanda nuove prese di coscienza
e di denuncia contro quei sistemi di pensiero che teorizzano l’interesse di alcuni e l’impoverimento di altri.
Lavoro un pane da spartire
Il più recente pensiero magisteriale, anche quello
episcopale nelle singole diocesi, ha fortemente evi52
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
sviluppare la virtù della sobrietà, indispensabile
soprattutto in circostanze di difficoltà e economica e
sociale.
Lo stile di vita di politici e sindacalisti deve essere
più che mai credibile, e perciò sobrio e disinteressato.
Ad essi per primi è giusto chiedere di fare sacrifici e
di rinunciare a vantaggi personali, mentre si
impegnano a servire il bene comune e a promuovere
il lavoro di tutti.
Di fronte alla sfida della crisi, al fine di organizzare
la speranza occorre poter sviluppare il senso della
solidarietà insieme alla sussidarietà - coordinate che
fanno da trama lungo tutto il pensiero sociale in tema
di lavoro -, in maniera tale da tradurle in scelte di
corresponsabilità e di concertazione fra lavoratori e
imprese. Saper tradurre, il coraggio della
lungimiranza, nell’elaborazione di progetti e avviare
iniziative a breve, medio e lungo termine. È dato di vedere, prendendo tra le mani i testi magisteriali, come
la sollecitudine pastorale, non tralasci suggerimenti e
aspetti concreti su cui far convergere interventi e attenzioni, invitando a non lasciare nulla di intentato.
Ad esempio vi si legge l’urgenza di promuovere e
fare tavoli di incontro fra le varie agenzie
imprenditoriali, sindacali e formative - con speciale
attenzione alla formazione scolastica e universitaria per individuare settori nuovi di intervento, atti a
promuovere l’occupazione. Occorre aiutare le
imprese attraverso interventi mirati nel settore della
formazione e dell’innovazione tecnologica. Va
sostenuta e promossa la produzione dell’economia
locale, puntando sulla qualità dei prodotti e
scoraggiando ogni intenzione di delocalizzazione,
finalizzata a far “emigrare il lavoro” dove più conviene
al solo scopo di trarre un maggior profitto.
monianza della carità, adeguata alle sfide poste dall’odierna società complessa.
In tale prospettiva, vanno visti alcuni pronunciamenti magisteriali sulle questioni sociali odierne, affrontate da Benedetto XVI, in cui si ravvede il recupero
del pensiero dei suoi predecessori, l’ansia di “uno sviluppo per la vita”, e di non lasciare nulla di intentato
per renderla più umana. In particolare recuperando la
visione della Populorum progressio, il pontefice tedesco osa affermare parole e pensieri che sembrano
utopici. E tuttavia sono conseguenti alle riflessioni e
alle responsabilità che egli riconosce all’umanità, ai
capi delle nazioni, alle realtà più ricche. Non teme di
dover dire che sono necessarie ricercare soluzioni totalmente nuove.
«Le grandi novità, che il quadro dello sviluppo dei
popoli oggi presenta, pongono in molti casi l’esigenza di soluzioni nuove. Esse vanno cercate insieme nel rispetto delle leggi proprie di ogni realtà e
alla luce di una visione integrale dell’uomo, che rispecchi i vari aspetti della persona umana, contemplata con lo sguardo purificato dalla carità».
Si scopriranno allora singolari convergenze e concrete possibilità di soluzione, senza rinunciare ad alcuna componente fondamentale della vita umana. Di
conseguenza «la dignità della persona e le esigenze
della giustizia richiedono che, soprattutto oggi, le
scelte economiche non facciano aumentare in modo
eccessivo e moralmente inaccettabile le differenze di
ricchezza e che si continui a perseguire, quale priorità, l’obiettivo dell’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti» (CV 32).
Lavoro e virtù del tempo di crisi
Certo non di solo reddito si può vivere. Ma un lavoro dignitoso domanda di poter vedere salvaguardati
alcuni diritti per sé e la propria famiglia. Di fronte alle
ragioni di preoccupazione o addirittura di negazione
della speranza, occorre più che mai non solo offrire
motivi per sperare, ma anche attivare processi
personali e collettivi per organizzare la speranza.
richiede un forte ritorno all’esercizio delle virtù e
all’educazione ad esse. In primo luogo, se a tutti è
chiesto di stringere la cinghia nel tempo della crisi come si sente dire -, occorre che tutti si impegnino a
Il lavoro e le religioni
Oggi un fatto nuovo, degno di nota, è il poter constatare la nascita di un percorso comune denominato
Convergenze: lavoro dignitoso e giustizia sociale nelle
tradizioni religiose. È il frutto di un confronto “interreligioso” con i rappresentanti delle diverse religioni
della tradizione cattolica, protestante, islamica, ebrea
e buddista, che stanno imparando a parlarsi sui temi
del lavoro e della giustizia sociale.
53
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
eliminazione della discriminazione. Il tavolo di dialogo
intrapreso a Ginevra si pone l’intento di restaurare gli
equilibri persi e a creare ponti affinché i valori umani tornino a contare nelle scelte politiche.
Il primo tema trattato in questo percorso è il significato del lavoro. In filigrana si ravvede il contributo del
pensiero maturo della riflessione cattolica e il suo
sforzo di inculturarsi dentro i nuovi contesti divenuti
mondiali. Per i cattolici e per i protestanti l’immagine
di Dio si può trovare in ogni persona, per questa ragione ognuno deve essere trattato con dignità e così
il suo lavoro. Uomini e donne collaborano con Dio in
una relazione in cui fanno parte della creazione, della
natura, dell’ambiente e di ciò che “si vede e non si
vede”. Tutte le attività umane, dall’agricoltura all’industria, dai servizi alla pubblica amministrazione, sono
parti di questa relazione. Il soggetto del lavoro è l’essere umano per cui, citando le parole di papa Giovanni Paolo II, non si può pensare al lavoro come a
un prodotto o a una “merce”.
In modo particolare si pone di estrema attualità
l’incontro con la cultura islamica. L’equivalente arabo
del lavoro è “camal” ed il Corano dice che «con chi
ha creduto e lavorato davvero con rettitudine, Allah
sarà più benevolo». Per comprendere la prospettiva
islamica della società bisogna considerare che la
condizione di ogni individuo corrisponde esattamente
a quello che Dio sa essere il meglio per il suo sviluppo
spirituale, in base alla conoscenza intima che il Creatore ha di ogni creatura. Perciò la vera giustizia si
pone al di là di demagogiche parificazioni, nella ricerca della conformità agli imperscrutabili piani divini
dove tutto ha una sua perfezione e ragion d’essere.
L’unica gerarchia concepita tra gli uomini è quella basata sulla taqwa, la pietà spirituale, mentre tutto il resto è concepito come strumento della maieutica divina per condurre gli uomini alla perfezione e alla
conoscenza e non possono divenire fonte di inorgoglimento personale.
L’accettazione della propria condizione costituisce dunque il punto di partenza per ogni fedele che
deve innanzitutto essere grato a Dio per il dono della
vita ricevuto e partendo da questa consapevolezza
operare per migliorare il proprio e l’altrui statuto,
con generosità e senza attaccamenti particolari.
Si tratta di una proposta che potrebbe essere promossa all’interno delle realtà associative del nostro
Paese, attivare percorsi, accogliere “nuovi lavoratori” dentro la nostra tradizione: siamo dentro a dinamiche globali che non possono più essere ignorate.
Emerge, qui, il valore prezioso della comunicazione
fra le persone, nella quale gli uni rivelano agli altri la
verità che hanno scoperto o che ritengono di avere
scoperto. Ne deriva - affermano i padri conciliari - che
«tutto quello che abbiamo detto a proposito della dignità della persona umana, della comunità degli uomini, del significato profondo della attività umana, costituisce il fondamento del rapporto tra chiesa e
mondo, come pure la base del dialogo fra loro» (GS
40; DH 10). Il lavoro accomuna tutti gli uomini, ed oggi
è divenuta questione primaria di equità e dignità, in
maniera inedita ci si ritrova tutti simili, figli di un
mondo precario.
Ciò I punti centrali di questo ritrovato dialogo interreligioso sono il lavoro dignitoso e la giustizia sociale,
principi già contenuti nella visionaria costituzione dell’International Labour Organization (ILO) del 1919, dove
vi si legge: «Una pace universale e duratura può essere
stabilita solo se fondata sulla giustizia sociale». Una prospettiva che trova ulteriore radicamento proprio nel
concetto di lavoro dignitoso e assunto a tutto campo
dalla nuova fase del magistero sociale.
Questo concetto si è trasformato in più di novant’anni di storia seguendo i ritmi frenetici dell’economia di mercato, la globalizzazione, l’impatto delle
nuove tecnologie e l’ondata d’internazionalizzazione
di aziende e processi. In particolare in quest’ultimo
decennio il mondo ha vissuto le ripercussioni di questo sistema: le persone percepiscono di essere
troppo piccole per poter contare qualcosa, che anche
la dignità umana conta poco e che la globalizzazione
non riconosce una dimensione etica. La dimensione
interreligiosa costituisce un importante strumento
per costruire la pace e la giustizia sia a livello nazionale che internazionale.
Il testo messo a punto affronta il significato del lavoro, la solidarietà, la sicurezza e la giustizia sociale, insieme agli obiettivi dell’Agenda del lavoro dignitoso
quali occupazione, protezione e dialogo sociale, lotta al
lavoro forzato e minorile, libertà di associazionismo ed
54
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
Uno dei cinque pilastri su cui si fonda l’Islam è proprio la Zakat, l’elemosina rituale, che prevede che il
fedele, ogni anno, debba versare in attività benefiche
una parte dei suoi guadagni per promuovere quella
giustizia sociale che insegna, prima di tutto, che non
siamo noi i veri padroni di noi stessi e dei nostri beni.
Nella tradizione ebraica il lavoro è sia un privilegio
che un dovere. Il lavoro è un diritto fondamentale per
assicurarsi l’auto-sostentamento, contribuire al mondo
di oggi e anche un modo per servire e glorificare Dio.
Mentre i Buddisti riconoscono diverse funzioni al lavoro: la prima è l’atto di generosità verso i figli riconosciuto nel rendersi economicamente indipendenti e
anche un mezzo indispensabile per lo sviluppo e la
crescita personale. Solo attraverso la tensione che si
trova nel lavoro, nella famiglia, nell’economia e nella
politica è possibile conoscere la verità degli insegnamenti di Buddha. Tutte le religioni esigono che alla
base del nostro agire, ci sia un orientamento ai valori.
L’orientamento nel quotidiano è fornito da un semplice
principio conduttore, noto nella sapienza popolare:
non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a
te. «Ciò che non ti è gradito, non farlo neanche al prossimo. Questa è la Tòrah per intero e tutto il resto è soltanto la spiegazione». Si pensi a quante cose cambierebbero se le persone nelle aziende e nelle
organizzazioni si sforzassero di rispettare questa indicazione che troviamo nelle religioni monoteiste. Il lavoro risulta massimamente proficuo se è inserito in un
comportamento morale, in un orientamento ai valori.
Una guida a come realizzare tutto ciò ci è data da
un testo molto citato del Tàlmud ebraico:
Bada ai tuoi pensieri, perché diventano parole;
Bada alle tue parole, perché diventano azioni.
Bada alle tue azioni perché diventano abitudini;
Bada alle tue abitudini, perché diventano il tuo carattere;
Bada al tuo carattere, perché diventa il tuo destino.
Questo “Bada a” ripetuto cinque volte corrisponde
all’indicazione centrale di tutte le scuole spirituali,
secondo cui l’evoluzione umana, intellettuale, caratteriale, incomincia con l’attenzione. Attenzione non significa altro che diventare consapevole di quello che
faccio, essere vigile e concentrare tutta la mia attenzione su quello che faccio, ovviamente in funzione di
un bene condiviso.
Bisogno e cura della spiritualità
nel lavoro
In un’epoca finalmente libera da pregiudizi
ideologici, per offrire ragioni di vita e di speranza
occorre favorire la crescita della formazione alla
spiritualità, inseparabile da quella culturale e umana.
Per il cristiano questo vuol dire tenere desta nella
mente e nel cuore la sua “riserva escatologica”, quel
potenziale cioè di attesa, di carica profetica, di speranza della fede, che impedisce di arrendersi di fronte
alle esigenze - spesso brutali - degli interessi di corto
raggio degli egoismi personali o collettivi. La speranza
dei grandi orizzonti di giustizia e di pace per tutti, il
desiderio dello “shalom” che riecheggia nei testi sacri, è la prima e profonda molla di un credente che voglia impegnarsi al servizio degli altri.
Se il rischio dei tempi di tranquillità e di relativa
sicurezza è quello della presunzione - nell’illusione di
poter cambiare facilmente il mondo e la vita -, il
rischio opposto - proprio dei tempi di prova - è di
vivere la paura del domani in maniera più forte della
volontà e dell’impegno di prepararlo e di plasmarlo.
In realtà, «ansietà, il timore dell’avvenire, sono già
delle malattie. La speranza, al contrario, è, prima di
tutto, una distensione dell’io…Essa entra nella
situazione più profonda dell’uomo. Accettarla o
rifiutarla è accettare o rifiutare di essere uomo» (E.
Mounier). La fede domanda di accogliere la sfida
della speranza per intraprendere un percorso per diventare veramente umani.
Non possiamo tuttavia non chiederci: che cosa
possiamo sperare? Si tratta di un interrogativo
largamente umano, che ci riguarda tutti, in virtù del
quale poter affrontare il nostro presente. Nella luce
della fede, vivere la speranza è dire: avanzare e
accogliere l’avvenire di Dio nel presente del mondo.
La differenza fra l’utopia e la speranza della fede è
insomma la stessa che c’è fra l’uomo solo davanti al
suo domani, e l’uomo che ha creduto nell’avvento di
Dio e aspetta il suo ritorno, andandogli incontro con
inequivocabili segni di preparazione e d’attesa. Un atteggiamento, sine qua non, il più delle volte estromesso in quanto ritenuto ininfluente sul piano operativo, ma ribadito in maniera cristallina da Benedetto
XVI nei suoi testi: «Lo sviluppo ha bisogno di cristiani
55
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
Nelle strutture di peccato si annidano la sete di
profitto, l’egoismo e, in risposta, la violenza della
lotta di classe, atteggiamenti che spezzano il sistema
delle interdipendenze e contrastano il valore della
solidarietà. Non basta, dunque, un sentimento di
vaga compassione o di superficiale intenerimento
per i mali di tante persone, vicine e lontane, che invoca la solidarietà. Al contrario essa richiede: «la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per
il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno,
perché tutti siamo veramente responsabili di tutti.
Tale determinazione è fondata sulla salda convinzione chele cause che frenano il pieno sviluppo siano
quella brama del profitto e quella sete del potere, di
cui s’è parlato» (SRS, n. 38). Questi atteggiamenti si
vincono solo con l’impegno per il bene del prossimo
con la disponibilità. In senso evangelico significa: un
perdersi a favore dell’altro invece di sfruttarlo e i far
prevalere il servirlo invece che l’opprimere per il proprio tornaconto.
Tutto ciò non è facile. Trattasi di una sfida audace
e faticosa di ieri, di oggi, di sempre. A suo tempo Simone Weil scriveva «la società è diventata una macchina per comprimere il cuore» e noi oggi, dobbiamo dire, ne sentiamo tutta la fatica. La posta in
gioco diviene una fede incarnata nella vita sapendo
stare dentro gli ambiti della vita medesima: lavoro,
famiglia, società. La tenacia di ripartire trova ragione: «con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito
in certo qual modo ad ogni uomo. Ha lavorato con
mani d’uomo. Ha pensato con mente d’uomo, ha
agito con volontà d’uomo. Ha amato con cuore
d’uomo» (GS 22).
con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che
l’amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l’autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma
ci viene donato. Perciò anche nei momenti più difficili e complessi, oltre a reagire con consapevolezza,
dobbiamo soprattutto riferirci al suo amore» (CV, 79).
Invito a ripercorre il sentiero
della solidarietà
È ritornato in maniera cogente il dovere di fare
spazio fattivo al concetto di solidarietà che sembra
essersi smarrito e «rischia di essere escluso dal dizionario» come afferma papa Francesco. «Chi è disoccupato o sottoccupato - diceva di recente, in
uno dei tanti suoi interventi sul tema, incontrando
gli operai delle Acciaierie di Terni -, rischia di essere
posto ai margini della società, di diventare una vittima dell’esclusione sociale. Tante volte capita che
le persone senza lavoro, in particolare i tanti giovani
disoccupati, scivolino nello scoraggiamento cronico o peggio nell’apatia. Il gravissimo problema del
lavoro non è una fatalità, è la conseguenza di un sistema economico che ha messo al centro un idolo,
che si chiama denaro!».
Il papa nell’Evangelii Gaudium afferma con chiarezza «Dà fastidio che si parli di etica, dà fastidio
che si parli di solidarietà mondiale, dà fastidio che
si parli di distribuzione dei beni, dà fastidio che si
parli di difendere i posti di lavoro, dà fastidio che si
parli della dignità dei deboli, dà fastidio che si parli
di un Dio che esige un impegno per la giustizia» (EG
203).
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LA REALTÀ DEL LAVORO
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
IL LAVORO PRESENTE…
…E ASSENTE
a cura di Iref1
Quando si affronta un tema complesso e multidimensionale come quello del lavoro si tende spesso a circoscrivere gli ambiti di significato. Tale complessità si mostra in modo evidente nella produzione di formule
verbali in cui il termine “lavoro” è associato ad un aggettivo che rimanda ad una particolare dimensione d’analisi. Il lavoro flessibile, non standard, atipico, precario sono espressioni che rinviano alla dimensione normativa e, in particolare, alle riforme del mercato del lavoro che, dal pacchetto Treu in poi, hanno creato nuove
forme contrattuali a tempo determinato e alleggerite nelle tutele. Nondimeno, il lavoro parcellizzato, standardizzato, autonomo sono espressioni che si ritrovano spesso nelle analisi di organizzazione del lavoro, in cui,
dagli anni Settanta in poi (si veda lo storico accordo della Pirelli del 1977), hanno alimentato il dibattito sul
superamento di modelli di produzione di stampo tayloristico. Infine, il lavoro professionalizzante, dequalificato, high skilled sono modi di dire per indicare quegli aspetti che riguardano l’ambito della formazione e delle
competenze, anche alla luce del loro livello d’inquadramento nell’azienda.
Tuttavia, la frammentarietà di significati che connota il tema del lavoro può essere ricomposta e reinterpretata dentro spazi di significato più ampi che aprono a prospettive d’analisi non settoriali. In tale prospettiva, il tema del lavoro può essere affrontato considerando tre punti di osservazione:
- le persone, i lavoratori e le lavoratrici che nei luoghi di lavoro svolgono attività dal diverso grado di professionalità e competenza, e che per mezzo del lavoro strutturano il loro personale progetto occupazionale e di vita. Accanto a chi è nel mercato del lavoro, c’è anche chi invece ne è escluso: disoccupati,
giovani in cerca di primo impiego e inattivi sfiduciati che hanno perso le speranze di collocarsi nel mercato del lavoro. Infine ci sono gli imprenditori e, in generale, la classe dirigente e manageriale, con i propri stili di governo d’impresa e le personali culture aziendali;
- l’azienda, il luogo della produzione, ma anche delle relazioni interpersonali e sindacali. È nell’azienda,
nel suo essere radicata in un particolare contesto socio-economico e normativo, nella sua capacità di
innovarsi e nel sue scelte d’investimento ed imprenditoriali che si creano le premesse per la crescita di
ambienti produttivi e professionali di qualità, di promozione delle persone e di sviluppo territoriale;
- il contesto, il terreno su cui si muovono e interagiscono tra loro sistemi produttivi, comunità locali e istituzioni pubbliche. Spazi dalla diversa consistenza normativa e di risorse, connotati da una propria storia produttiva. Su questi terreni si gioca la partita dello sviluppo economico e della coesione sociale delle
comunità presenti in essi, all’interno di un sistema di vincoli ed opportunità che vede da anni il nostro
Paese spaccato in due, lungo una frattura che divide il Nord dal Sud resa ancor più marcata dal persistere della crisi economica.
Guardando da più prospettive si ha modo di cogliere e valorizzare la ricchezza di significati connessi al
concetto di lavoro. In più, un approccio multi-prospettico introduce, nelle analisi sul mercato del lavoro, elementi di valutazione che consentono di contestualizzare e qualificare le forme in esso presenti. Allora, il lavoro flessibile può essere visto come “buono” o “cattivo”, “giusto” o “ingiusto” in riferimento ad un dato con-
1 Presidente, Antonio Ziglio; Direttore, Marco Livia; ricercatori senjor: Danilo Catania, Alessandro Serini, Gianfranco Zucca.
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
testo aziendale, territoriale, sociale, normativo, etc. In breve, qualificare il lavoro come buono e giusto ci costringe a guardare al tema del lavoro da una prospettiva di analisi valutativa. In quali circostanze un lavoro
può dirsi buono e giusto? Quali sono i nostri riferimenti valoriali con cui qualifichiamo un lavoro come buono
e giusto? Qual è il discrimine, gli indicatori, tra un lavoro buono e uno cattivo, tra uno giusto e uno ingiusto?
Per rispondere a queste domande occorre, di fatto, esprimere una valutazione, nel senso di sposare una particolare concezione del lavoro che si ritiene migliore di altre. Per fare ciò è necessario analizzare, lungo la linea del tempo, le tendenze che hanno caratterizzato i principali indicatori connessi al tema del lavoro. L’analisi longitudinale ci consentirà, peraltro, di evidenziare i problemi e le contraddizioni insite nel nostro sistema
Paese, per poi, nelle conclusioni, proporre soluzioni coerenti con la nostra idea di lavoro buono e giusto.
Grafico 1 - Tasso di disoccupazione per sesso, dal 1977-2013 (%)
Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat
Le persone: tra precarietà occupazionale e rischio di emarginazione sociale
Sul fronte delle persone, un primo elemento su cui riflettere è l’impennata iniziata nel 2007. In quell’anno il tasso
di disoccupazione ha toccato il suo minimo, da quando nel 1977 l’Istat ha iniziato a rilevare in modo sistematico i
principali indicatori strutturali del lavoro. Dal 2007 il numero di disoccupati è cresciuto costantemente fino a toccare
lo scorso anno il 12,2%. Sono soprattutto le donne a pagare il prezzo più salato: nel 2013 il tasso di disoccupazione
femminile ha toccato il 13,1%, a soli due punti percentuali dai valori record di metà anni Novanta (vedi grafico 1).
Un aspetto “curioso” della crisi economica è che in un paese dove il gender gap è in ambito lavorativo
assai rilevante (retribuzioni, accesso alle posizioni apicali, carriera, etc.), sul fronte del non lavoro il divario
di genere tende ad assottigliarsi. Come si può osservare dal grafico 1 dal 2007 le linee della disoccupazione
maschile e femminile tendono a convergere: nel 2013 la differenza tra disoccupati e disoccupate è dell’1,6%;
nel 2007 era del 3% mentre ad inizio serie (1977) era del 6,4%.
60
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
Se il divario di genere tende ad una saldatura nell’area della disoccupazione, ciò non avviene per quanto
riguarda la dimensione generazionale, anzi: l’andamento tra giovani disoccupati (25-34 anni) e le altre classi
anagrafiche prese in considerazione (35-44 anni e 45-54 anni) tende a divergere nel tempo (vedi grafico 2).
Sono i giovani a far registrare i saggi di crescita più consistenti: dal 2011 al 2013 la percentuale di disoccupati con età compresa tra 25 e 34 anni è cresciuta del 6% (dall’11,7% al 17,7%); nello stesso periodo le altre classi d’età hanno segnato una crescita più contenuta: +3,2% per i disoccupati 35-44 anni e +3,9 per i
disoccupati 45-54 anni. Va sottolineato che per tutte le classi anagrafiche i tassi di disoccupazione del 2013
rappresentano valori record di una serie lunga vent’anni.
Grafico 2 - Tasso di disoccupazione per classi anagrafiche, 1993-2013 (%)
Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat
La gravità dell’attuale situazione diviene ancor più palpabile dal confronto tra le macroripartizioni (vedi grafico 3). Nelle regioni del Mezzogiorno il tasso di disoccupazione sfiora il 20%: mai nella storia delle rilevazioni sulle Forze di Lavoro dell’ISTAT il si è arrivati a tanto. Nondimeno, tra il 2012 e il 2013 il Mezzogiorno
ha fatto registrare il differenziale di crescita più alto con un più +2,5%, il doppio rispetto al dato nazionale.
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
Grafico 3 - Tasso di disoccupazione per ripartizione geografica, 1977-2013 (%)
Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat
Il dramma occupazionale del Sud dell’Italia è enfatizzato da un altro indicatore, spesso non preso in considerazione dai mass media: il tasso di inattività2 (grafico 4). Osservando il trend del tasso di inattività salta
agli occhi l’andamento discordante del Mezzogiorno rispetto alle altre ripartizioni geografiche. Se nel Centro e nell’Italia settentrionale il tasso di inattività ha segnato una tendenza complessiva al ribasso, nelle regioni meridionali il valore è rimasto fino al 1997 simile a quello iniziale del 1977 (46,7%), per poi decrescere
dal 1998 al 2002, scendendo in quest’ultimo anno al suo minimo storico (43,9%) e infine risalire in modo brusco fino a toccare nel 2011 l’apice (49%). La singolarità del Mezzogiorno può essere interpretata se si considera il fenomeno degli sfiduciati. Tra gli inattivi sono comprese anche quelle persone che hanno perso le
speranze di trovare un posto di lavoro. La loro non è una scelta personale, come quella di chi intende studiare o di chi si dedica alla cura dei propri figli e della casa, ma è una condizione imposta da un contesto
privo di opportunità. Una zona grigia che nel corso degli ultimi si è estesa in modo rilevante, coinvolgendo
soprattutto i giovani, in prevalenza donne.
2 È il rapporto tra gli inattivi e la corrispondente popolazione di riferimento. Gli inattivi sono le persone che non fanno parte delle forze di lavoro,
ovvero quelle non classificate come occupate e disoccupate. A differenza del tasso di inattività, il tasso di occupazione e disoccupazione sono
rapporti che hanno al denominatore il numero delle forze di lavoro e come numeratori rispettivamente il numero degli occupati e quello dei disoccupati.
62
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
Grafico 4 - Tasso di inattività per ripartizione geografica, dal 1977 al 2013 (%)
Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat
Dentro l’area della rassegnazione, un gruppo su tutti sembra rappresenta l’emblema di una condizione
di vita senza futuro e, al contempo, l’immagine più nitida della debolezza di un intero paese: i neet. Stando
ai dati ISTAT del 2013, i giovani che non cercano lavoro, né investono sull’istruzione e sulla formazione ammontano ad oltre 3,5 milioni: le donne tra i 15-34anni sono il 31,1%, mentre tra i giovani l’incidenza dei neet
scende al 23,6% (vedi grafico 5). Se si considerano i giovani residenti nelle regioni del Mezzogiorno, la quota
dei neet sale in media di dieci punti percentuali per entrambi i sessi: 41,9% donne e 35,3% uomini. Quest’ultimi dal 2004 al 2013 hanno fatto segnare tassi di crescita alquanto sostenuti, con un aumento nel periodo considerato di oltre il 12% (dal 22,9% al 35,3%); mentre per le donne l’andamento nel corso degli anni
è stato pressoché costante (dal 40,9% del 2004 al 41,9% del 2013).
I dati sui neet portano alla luce un paradosso: il divario di genere che, a diverse latitudine del nostro paese,
puntualmente caratterizza ogni statistica del lavoro, nel caso dei neet questa “consuetudine” statistica viene
messa in discussione, mettendo a nudo lo stato di profonda deprivazione materiale e sociale che attanaglia
oggi il Sud Italia.
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
Grafico 5 - Incidenza dei giovani 15-34 anni sulla popolazione corrispondente che non lavorano né studiano per sesso
(periodo 2004-2013; focus Mezzogiorno; %)
Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat
Altro aspetto, figlio anch’esso di un futuro negato, è il dato di quanti emigrano alla ricerca di un lavoro.
In un articolo del 6 aprile 2013 il Sole24ore titolava: «La crisi spinge gli italiani all’estero. Nel 2012 è boom
di emigrati (+30%). La Germania resta il Paese preferito». L’articolo analizza i dati dell’Anagrafe degli italiani
residenti all’estero (AIRE), ponendo l’accento sul forte aumento del numero di emigranti che si è avuto nel
2012, anno in cui sono espatriate 78.941 persone alla ricerca di un lavoro, contro le 60.635 del 2011. Si tratta
di flussi in uscita che per numero ricordano le grandi migrazioni degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo
scorso. Anche le migrazioni interne, lungo la direttrice Nord-Sud, sono state consistenti. Lo Svimez, nell’ultimo rapporto sull’economia del Mezzogiorno afferma: «Negli ultimi venti anni sono emigrati dal Sud circa
2,7 milioni di persone. Nel 2011 si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Centro-Nord circa 114 mila abitanti. Questo dà la cifra di quanto il contesto nel meridione sia avaro di possibilità» (Svimez 2013: 10).
Ad andarsene dal Mezzogiorno sono le risorse migliori, giovani, istruiti e qualificati. L’emorragia di capitale umano impoverisce oltremodo un contesto già di per sé debole, innescando un processo di deterioramento del tessuto sociale ed economico che rischia di essere insanabile, se non si interviene con delle misure urgenti di riqualificazione territoriale.
Ma il tratto ancor più drammatico e nuovo dell’attuale storia migratoria è raffigurato dagli immigrati giunti
in Italia negli ultimi trent’anni. Molti di loro hanno trovato in Italia lavoro e con esso la possibilità di strutturare un progetto familiare. La perdita del posto di lavoro, se in generale rappresenta un dramma individuale
e sociale, nel caso dei lavoratori stranieri rappresenta un vero e proprio fallimento dell’intero progetto migratorio, che rischia di far cadere la persona interessata e la sua famiglia ad una situazione di esclusione sociale. Se si analizzano le dinamiche della disoccupazione straniera (vedi grafico 6) appare evidente che il rischio di marginalizzazione sociale per questa componente di lavoratori è una prospettiva alquanto concreta:
il tasso di disoccupazione della popolazione straniera nel biennio 2012-2013 è cresciuto di oltre tre punti per64
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
centuali (+3,2%), arrivando al 17,3% su base nazionale; nello stesso periodo il tasso di disoccupazione della
popolazione italiana è aumentato del 1,2%, attestandosi all’11,5%.
Grafico 6 - Tasso di disoccupazione dei lavoratori stranieri ed italiani, dal 2004 al 2013 (%)
Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat
Per un immigrato, la perdita del posto di lavoro può coincidere con la perdita del diritto a risiedere legalmente nel nostro paese. Inoltre, a differenza di chi è nato in Italia, i cittadini stranieri possono contare su reti
parentali circoscritte al più al nucleo della famiglia d’origine, che limitano le loro funzioni di protezione, di sostegno economico e di ricerca di una nuova occupazione. Su quest’ultimo versante poi c’è da evidenziare
che trovare un nuovo lavoro per i disoccupati immigrati è assai arduo, poiché l’offerta è limitata ad occupazioni di basso contenuto professionale e in settori tra i più bersagliati dalla crisi economica: nei servizi alla
persona, nell’industria manifatturiera e nel commercio. È soprattutto nelle regioni del Nord Italia che la crisi
di occupazione ha colpito la manodopera immigrata, mettendo a repentaglio progetti migratori consolidati
nel tempo.
Non è dunque solo il Sud a sentire i morsi di una condizione economica preoccupante; anche il Nord sta
pagando un prezzo salato, in particolar modo con i suoi cittadini più deboli, sul piano dell’assistenza e delle
protezioni sociali, con i lavoratori stranieri, ma anche con i lavoratori autonomi.
Negli ultimi dieci anni il numero di lavoratori indipendenti è diminuito di 745mila unità, passando dai 6,2milioni del 2004 ai 5,5milioni del 2013, con un calo del 12%. Dentro questa popolazione, il cosiddetto popolo
delle partite IVA e nello specifico i lavoratori in proprio (artigiani, commercianti, agricoltori), etc. senza dipendenti, ha fatto segnare una riduzione ancor più marcata (vedi grafico 7): se si considerano come base di partenza 100 lavoratori in proprio presenti nel 2004, nell’arco di un decennio il numero è sceso a 84 lavoratori
in proprio, con una perdita del 16% equivalente, in valori assoluti, a 355mila lavoratori in meno. A livello territoriale, sono le regioni del Nord Italia a registrare la maggior contrazione di occupati in proprio, con un calo
di quasi il 20%.
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
Grafico 7 - Numero indice del totale degli occupati indipendenti, dei lavoratori in proprio senza dipendenti e dei liberi
professionisti, dal 2004 al 2013 (base indice: 2004=100)
Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat
Di segno opposto è l’andamento dei liberi professionisti. Dal 2004 al 2013 il numero dei liberi professionisti è aumento di 162mila unità, con una crescita di quattordici punti percentuali. La spinta maggiore alla
crescita dei liberi professionisti si è avuta negli anni della crisi (dal 2008 in poi). Un dato questo che, se letto
con gli altri indicatori occupazionali, è contro intuitivo. I liberi professionisti sono cresciuti ad un ritmo sostenuto proprio negli anni in cui la disoccupazione, specie quella giovanile, ha segnato valori record e si è
registrata una contrazione significativa dei lavoratori indipendenti. Tuttavia, tale “anomalia” trova una spiegazione plausibile se si considera l’irrompere del fenomeno delle false Partite IVA.
Fra i liberi professionisti si annidano partite IVA che nella realtà svolgono un lavoro alle dipendenze, percependo compensi non assimilabili alla fatturazione. Su questo piano, assistiamo ad una trasformazione dei
rapporti di lavoro e dei significati ad essi connessi. In passato, questo tipo di partita IVA era sinonimo di alte
professionalità, libere dai vincoli di subordinati; oggi l’apertura di una partita IVA è la spia di un mascheramento contrattuale di un lavoro a basso costo e a bassa professionalità che costringe migliaia di persone,
soprattutto giovani, ad aprirsi una posizione fiscale per poter lavorare. Secondo le stime dell’ISFOL, risalenti
al 2006, le false partite IVA oscillavano tra le 300mila e le 400mila, un dato questo che, stando alla recente
crescita dei liberi professionisti, potrebbe essere ancor più consistente. A spingere verso un aumento delle
false Partite IVA sono gli effetti perversi di una crisi di lavoro che ha colpito i soggetti più storicamente più
deboli dal lato occupazionale (giovani, donne e stranieri). Non è un caso che nel 2012 su circa 549mila nuove
partite IVA, 211mila sono state aperte da giovani (fonte CGIA: http://www.cgiamestre.com ). A tal proposito
il commento del segretario della CGIA di Mestre Giuseppe Bortolussi al report CGIA sul lavoro autonomo e
la micro impresa rende evidente il ruolo delle finte Partite IVA nella crescita del numero dei liberi professio66
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
nisti «verosimilmente (...) la tendenza positiva fatta segnare dai liberi professionisti potrebbe essere riconducibile sia all’aumento del numero di coloro che hanno deciso di mettersi in proprio non avendo nessun’altra alternativa per entrare nel mercato del lavoro, sia all’incremento delle cosiddette false partite Iva. In riferimento a quest’ultimo caso, ci si riferisce, ad esempio, a quei giovani che in questi ultimi anni hanno prestato
la propria attività come veri e propri lavoratori subordinati, nonostante fossero a tutti gli effetti dei lavoratori
autonomi. Una modalità, quest’ultima, molto praticata soprattutto nel Pubblico impiego» (ivi). Il fenomeno
delle false partite IVA è solo un’altra conferma della trasformazione del mercato del lavoro sempre più connotato dai tratti del precariato occupazionale. Per molti disoccupati, aspirare ad un posto “fisso” è, allo stato
attuale, un’ambizione difficile da coronare per la minor disponibilità dei datori di lavoro ad attivare contratti
di lavoro a tempo indeterminato, perché troppo costosi ed eccessivamente rigidi. A riguardo, l’ultimo rapporto sul mercato del lavoro 2012-2013 del CNEL evidenzia la difficoltà dei lavoratori con contratti atipici a
stabilizzare la loro posizione contrattuale con l’ottenimento di un contratto a tempo indeterminato: «Se prima
della crisi quasi il 29 per cento degli occupati a termine diventava permanente l’anno successivo, ora questo vale solo per il 17 per cento dei temporanei3. Il lavoro a termine, oltretutto, ha sempre più come esito la
non occupazione, verso la quale il tasso di uscita è salito dal 16 al 20 per cento. Infine (...) il tasso di permanenza nel lavoro a termine da un anno all’altro tende ad aumentare. L’occupazione a termine sembrerebbe
quindi aver ridimensionato negli ultimi anni il suo ruolo di trampolino (stepping stone) o comunque passaggio per entrare nell’occupazione permanente; si è così creato un segmento a sé stante di occupati» (CNEL
2013: 146-5).
Anche nella Pubblica Amministrazione il mito del posto si sta sgretolando sotto i colpi di un bilancio dello
Stato che, per contenere le passività, ha imposto il blocco del turnover, l’uso di forme contrattuali atipiche
per tappare i buchi d’organico e l’attivazione di subappalti con cooperative e altre strutture d’impresa per
garantire l’erogazione di servizi primari. A riguardo, si pensi a due ambiti essenziali come quello dell’istruzione e della sanità, dove operano numerosi lavoratori atipici, in cooperative di servizio che ogni giorno garantiscono l’apertura delle scuole e l’igiene e la manutenzione degli ospedali.
Insomma, il nuovo corso occupazionale, avviato negli anni Novanta, ha introdotto forme di lavoro leggere
nelle tutele e negli oneri economici e sociali, flessibili ai ritmi di produzione e deboli nella rappresentanza dei
lavoratori. Una concezione del lavoro che se da un lato, quello dell’economia, consente alle imprese private
e pubbliche di stemperare le oscillazioni della domanda di beni e servizi prendendo forza lavoro durante i
picchi di produzione, dall’altro, quello dei lavoratori, ha prodotto una diffusa precarizzazione dei corsi di vita
delle persone.
Dal grafico 8 si coglie il tratto discontinuo dell’occupazione a termine. L’indice di variazione degli occupati a tempo determinato da un anno all’altro mostra un andamento irregolare. Sale dal 2004 al 2006,
scende nei tre anni successivi, per poi risalire dal 2009 al 2011 e, infine, nell’ultimo biennio torna a scendere. Viceversa l’indice di variazione del numero degli occupati a tempo indeterminato ha un andamento
regolare, con delle piccole oscillazioni da un anno all’altro.
3 Tale probabilità scende all'11,9% per le donne e al 9,7% per chi risiede nel Mezzogiorno.
67
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
Grafico 8 - Indice a base mobile del numero degli occupati a tempo determinato e indeterminato (2004=100) e tasso di
occupazione (%)
Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat
Se si legge l’andamento con le lenti dell’attuale crisi economica emerge come agli inizi della crisi (20072009) i primi ad essere espulsi dal mercato del lavoro siano stati i lavoratori a tempo determinato. In quest’ultimi anni, però, le aziende hanno impiegato in modo più intenso lavoratori inquadrati con contratti atipici, mentre il tasso di occupazione dei lavoratori a tempo indeterminato ha registrato una contrazione. Nelle
aziende è in atto un turnover contrattuale in cui la probabilità di assumere un nuovo dipendente a tempo indeterminato è minore di quella di assumere un lavoratore offrendogli un contratto atipico: «Nel primo trimestre 2012 l’incidenza delle forme non standard di occupazione tra i nuovi occupati cresce di 5 punti percentuali rispetto ad un anno prima: su 100 individui circa 53 trovano un impiego atipico, 16 un lavoro parzialmente
standard e soltanto 31 un lavoro standard» (ISTAT 2013a: 102-3).
In breve, il precariato sta ormai assumendo i contorni di una condizione occupazionale permanente. Si
va avanti di contratto in contratto con livelli retributivi che, a parità di condizioni, sono di norma più bassi di
chi ha un contratto a tempo indeterminato.
Instabilità lavorativa ed economica sono tratti comuni di un ampio numero di occupati. Anche tra i lavoratori più tutelati con contratti di lavoro standard è in atto un processo d’impoverimento economico. Aumenta
il numero dei lavoratori a rischio di povertà. Nel 2012 i lavoratori poveri (working poor) ammontavano al 11%
- oltre 2milioni di occupati vivono in equilibrio lungo la linea di povertà - un valore questo ben al disopra della
media dei paesi dell’area euro (vedi grafico 9).
68
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
Grafico 9 - Percentuale di occupati di 18 anni e più a rischio di povertà sul totale degli occupati (Eurostat 2005-2012)
Fonte: Eurostat
La debolezza economica dei lavoratori è anche il riflesso di retribuzioni decurtate per la messa in cassa
integrazione di un numero sempre più crescente di lavoratori e, in generale, per una crescita dei redditi che
non è al passo dell’aumento del costo della vita, comportando una perdita del potere d’acquisto degli occupati e delle loro famiglie. A riguardo il grafico 10 mostra l’andamento del reddito disponibile e del potere
d’acquisto delle famiglie [INPS 2012: 25]: dal 2008 al 2012 il potere d’acquisto delle famiglie si è ridotto di
quasi dieci punti percentuali (9,4%) e il reddito familiare e sceso, fino a contrarsi nel 2012 di due circa due
punti percentuali (1,8%).
69
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
Grafico 10 - Variazioni percentuali annue del reddito e del potere d’acquisto delle famiglie (elaborazioni INPS su dati
ISTAT; 2001-2012)
Fonte: INPS
Sono soprattutto le famiglie del Sud dell’Italia le più esposte al rischio di povertà. L’alta disoccupazione
nelle regioni del Mezzogiorno ha prodotto un ampliamento dell’area dell’indigenza: nel 2012, le famiglie del
Mezzogiorno sotto la soglia delle povertà relativa sono arrivate al 26,2% contro il 6,2% del Nord Italia (ISTAT
2013b).
Da questo contesto avaro di opportunità e di futuro, si spiega la scelta di molti giovani di emigrare all’estero
o nelle aree del paese più produttive. Chi rimane trova sempre più spesso nell’economia sommersa una fonte
di reddito. Nel Mezzogiorno, dall’inizio della crisi (2008), l’incidenza del lavoro nero è aumentata in modo costante, passando dal 18,7% del 2008 al 20,9% del 2012 (vedi grafico 11): in Calabria quasi un lavoratore su
tre è irregolare; nel Trentino Alto Adige il lavoro nero interessa il 7,6% degli occupati e, a differenza delle regioni meridionali, la tendenza è in costante diminuzione.
70
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
Grafico 11 - Incidenza del lavoro irregolare (2001-2012;%)
Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat
Sui dati del lavoro irregolare, la CGIA di Mestre ha elaborato delle stime per quantificare il potenziale economico del lavoro nero: l’economia sommersa vale oggi 6,5% del PIL, che equivale a 99,2miliardi di euro e
un totale di imposte evase di 42,8 miliardi di Euro. Con questi numeri e si potrebbero realizzare politiche efficaci di sostegno al reddito e di sviluppo economico dando impulso ad un tessuto micro-imprenditoriale oggi
grandi in difficoltà; ma combattere il lavoro nero senza abbinare politiche di rilancio economico potrebbe comportare per molte aree del Paese una lacerazione irreversibile del tessuto sociale ed economico.
Nell’arco di dieci anni il numero di imprenditori è sceso del 37,6%, con una perdita di 151mila posizioni
imprenditoriali: da 402mila (2004) a 251mila (2013). In tutte le ripartizioni territoriali si è registrato un calo progressivo degli imprenditori (vedi grafico 12).
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
Grafico 12 - Numero indice del numero degli imprenditori dal 2004 al 2013 (base indice: 2004=100)
Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat
Nelle regioni del Centro Italia la forte contrazione del tessuto imprenditoriale è iniziata nel 2006 e ha toccato il suo minimo nel 2009 con una diminuzione del 47%. Nelle regioni del Sud la riduzione del numero di
imprenditori è stata meno intensa: dal 2007 è iniziata una diminuzione costante del numero degli imprenditori, arrivando nell’ultimo anno a marcare il punto più basso, con una diminuzione del 36%. Più intensa invece è stata la discesa degli imprenditori del Nord Italia: dal 2004 al 2011 si è registrato un significativo decremento degli imprenditori settentrionali, nel 2011 la riduzione è stata del 45% rispetto al 2004. viceversa
negli ultimi due anni della serie si avuta una flessione al rialza degli imprenditori, segnando nel 2013 una riduzione del 38%.
Le aziende e la fine di un’epoca: tra tensioni e opportunità
La crisi di lavoro è il sintomo più evidente della profonda debolezza del nostro tessuto produttivo che, dal
2008 in poi, è stato investito dai colpi di una recessione di portata storica. La tempesta, prima finanziaria poi
occupazionale, del 2008 ha sconquassato gli equilibri strutturali della nostra economia. Il grafico 13 illustra
bene il cambiamento di pagina nella storia del sistema produttivo nazionale. Nell’arco di nove mesi. da giugno 2008 a marzo 2009, l’indice di produzione industriale è precipitato di quasi 30 punti.
72
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
Grafico 13 - Indice della produzione industriale (marzo 2000 - marzo 2014; base indice 2010=100)
Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat
I numeri sono ancora più preoccupanti se si considerano i fattori di competitività italiana nel periodo 20082011 (vedi tabella 1). In quattro anni 74mila imprese hanno chiuso, il volume complessivo d’affari dell’economia italiana è diminuito di quasi 120miliardi di euro, si sono persi un milione di posti di lavoro, mentre i dipendenti sono diminuiti di 509mila unità. Il sistema industriale, compreso il comparto delle costruzioni, ha
subito i contraccolpi maggiori: le imprese sono diminuite del 6,7%, in termini assoluti 74mila aziende. Il fatturato complessivo si è ridotto del 6,8% (-101miliardi di euro) con una contrazione della base occupazionale del 12,3% (-823mila occupati), mentre i dipendenti hanno registrato un decremento del 10,9% (-564mila).
Anche il commercio ha segnato un ripiegamento nei fattori presi in considerazione: 42mila imprese in
meno, 16milardi di mancato fatturato, -117mila occupati con un lieve aumento dei lavoratori alle dipendenze
dovuto, soprattutto ad una migliore performance economica del commercio al dettaglio (vedi tabella 2). Il
settore dei servizi è quello che più degli altri ha contenuto i danni e, in alcuni casi, è anche riuscito a crescere in competitività. Sono aumentate le imprese di servizio (+2%; +42mila imprese), il fatturato è rimasto
pressoché invariato (-0,1%; -785milioni), gli occupati sono, invece, diminuiti (-1,3%; -90mila occupati), ma
sono aumentati i dipendenti (1,1%; 49mila dipendenti).
73
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
Tabella 1 - Fattori di competitività dell’economia italiana: macro settori economici (confronto 2008-2011)
Settori
Anni
Differenza 2008-2011
2008
2011
n
%
Industria
1.108.148
1.033.989
-74.159
-6,7
Commercio
1.215.042
1.172.143
-42.899
-3,5
Servizi
2.111.633
2.154.519
42.886
2,0
Totale
4.434.823
4.360.651
-74.172
-1,7
1.492.534.660
1.390.901.910
-101.632.750
-6,8
Commercio
982.407.808
965.934.045
-16.473.763
-1,7
Servizi
647.598.407
646.813.144
-785.263
-0,1
3.122.540.875
3.003.649.099
-118.891.776
-3,8
Industria
6.712.793
5.889.521
-823.272
-12,3
Commercio
3.557.898
3.440.408
-117.490
-3,3
Servizi
7.035.262
6.944.406
-90.856
-1,3
Totale
17.305.953
16.274.335
-1.031.618
-6,0
Industria
5.195.302
4.630.408
-564.894
-10,9
Commercio
1.985.710
1.991.198
5.488
0,3
Servizi
4.453.392
4.503.255
49.863
1,1
Totale
11.634.404
11.124.861
-509.543
-4,4
Imprese
Fatturato (in migliaia di €)
Industria
Totale
Occupati
Dipendenti
Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat
La perdita di competitività del sistema industriale è dovuta per lo più ai risultati negativi del settore manifatturiero e di quello delle costruzioni. Nel periodo di riferimento le imprese manifatturiere sono diminuite
del 7,4% (-34mila imprese vedi tabella 2), con un calo del fatturato del 5,8% (-57 miliardi di euro) e un assottigliamento della base occupazionale del 10,8% (-474mila occupati). Ancor più marcata è la riduzione di
competitività del comparto delle costruzioni: le imprese di costruzione sono diminuite del 7% (-44miila imprese), nell’arco di quattro anni il giro d’affari ha avuto una contrazione del 26,5% (-72,5milardi di euro) e il
numero di occupati si è abbassato del 17,5% (-352mila occupati). Invece il settore industriale del comparto
energia nel quadriennio in esame ha fatto registrare saldi di crescita positiva. Le imprese di fornitura elettrica e delle altre fonti d’energia sono cresciute del 164,8%, con un aumento di fattura complessivo pari
all’11,2% e un ampliamento della base occupazione dell’1,3%. In particolare, le aziende della green economy hanno avuto un notevole sviluppo che testimonia i margini di espansione di un settore che potrebbe
rappresentare nell’immediato futuro un bacino importante per la creazione di posti di lavoro e di crescita economica.
Le imprese che operano nel campo del commercio all’ingrosso si sono ridotte di oltre 15mila unità (-3,7%),
producendo un calo di fatturato di 8miliardi di euro (-1,5%) e una diminuzione del numero degli occupati di
56mila unità (-4,6%). Anche nel commercio al dettaglio la crisi si è fatta sentire, sebbene in modo meno virulento rispetto al commercio all’ingrosso: in percentuale il calo dell’occupazione è stato più contenuto (-1,9%),
mentre la diminuzione delle imprese è stata d’intensità simile a quella fatta registrare nel commercio all’ingrosso
(-3,5%) e il fatturato 2011 è rimasto sui livelli del 2008 (0,1%). Infine, nel settore del terziario i servizi d’informazione e comunicazione e le attività ad alto contenuto tecnico e scientifico sono stati i comparti più indeboliti dal perdurare della crisi economica. Dal 2008 al 2011, il segmento produttivo dell’informazione ha perso
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IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
più di 5mila imprese, poco meno di 29mila posti di lavoro e 4 miliardi di fatturato. In modo analogo, le attività
di natura tecnica e scientifica si sono ridotte dello 0,4%, a fronte di un calo di fatturato di circa 8 miliardi di
euro e una riduzione del numero degli occupati del 3,8%. In senso contrario vanno i dati della competitività
dei servizi di ristorazione e alloggio e dei servizi riguardanti la sanità e l’assistenza sociale. In quest’ultimo
c’è stata una crescita significativa dei diversi fattori di competitività: imprese (+9,6%), fatturato (+11,2%) e
occupazione (+9%).
Tabella 2 - Fattori di competitività dell’economia italiana per alcuni settori produttivi (confronto 2008-2011)
Differenza 2008-2011
Imprese
n
Fatturato
Occupati
%
Migliaia di €
%
n
%
Industria
Attività manifatturiere
-34.247
-7,4
-57.107.635
-5,8
-474.402
-10,8
Costruzioni
-44.433
-7,0
-72.542.239
-26,5
-352.511
-17,5
4.075
164,8
17.501.838
11,2
1.067
1,3
Commercio all’ingrosso
-15.748
-3,7
-8.260.128
-1,5
-56.225
-4,6
Commercio al dettaglio
-23.270
-3,5
283.356
0,1
-36.094
-1,9
Servizi di informazione e comunicazione
-5.055
-4,9
-4.278.132
-3,7
-28.991
-5,0
Attività professionali, scientifiche e tecniche
-2.801
-0,4
-8.262.893
-7,0
-46.231
-3,8
Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione
12.698
4,4
3.539.594
5,3
16.959
1,3
Sanità e assistenza sociale
22.213
9,6
4.635.324
11,2
61.953
9,0
Fornitura di energia elettrica, gas
Commercio
Servizi
Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat
Le attività economiche più colpite dalla crisi sono quelle connesse agli andamenti del mercato interno e,
in particolare, alla capacità di spesa delle famiglie. Nello specifico, i sotto settori industriali che hanno segnato un rilevante calo della produzione sono quelli dell’abbigliamento, degli elettrodomestici e dei mobili
(grafico 14). Dal 2005 al 2013 la produzione di elettrodomestici è crollata di 80 punti indice; quella tessile di
quasi 50 punti e la fabbricazione di mobili di circa 40 punti indice. Viceversa, Il settore alimentare nel periodo
di riferimento ha mantenuto un andamento regolare intorno ai 100 punti indice.
75
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
Grafico 14 - Indice della produzione industriale nel settore dell’abbigliamento, degli elettrodomestici e dei mobili
(periodo 2005-2013; medie annue)
Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat
Ancor più negativi sono i numeri di un altro settore di punta del mercato interno, quello delle costruzioni.
Da febbraio 2008 ad oggi l’indice di produzione in questo comparto ha segnato una costante discesa, passando dai 122,7 punti di febbraio 2008 ai 68,3 punti di febbraio 2014 (vedi grafico 15).
Grafico 15 - Indice della produzione nelle costruzioni (marzo 2000 - marzo 2014; base indice 2010=100)
Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat
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IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
In generale, dunque, sono le attività artigianali, gli esercizi commerciali e le imprese edili a subire gli effetti più gravi della crisi economica. In alcune aree del paese è in atto un processo di desertificazione imprenditoriale, con la cessazione di migliaia di attività artigianali: si pensi, ad esempio, al settore tessile nella
provincia di Prato o ancora il settore del legno e del mobile delle province del Nord-Est (in primis, Treviso e
Pordenone) e di Pesaro. Queste imprese si trovano a dover fronteggiare le ricadute di una domanda interna
assai debole. Il potere d’acquisto delle famiglie è crollato. Molte spese sono rimandate a tempi migliori, badando all’acquisto del necessario: come nel caso dei servizi collegati alla salute e assistenza delle persone.
Segnali di vitalità economica arrivano dalle imprese che operano sui mercati esteri. Dopo la forte contrazione del 2009, l’indice dei nuovi ordinativi per l’estero ha avuto un andamento crescente (vedi grafico 16).
Da febbraio 2011 ad oggi, gli ordinativi dall’estero hanno superato quelli del mercato interno. Si tratta di una
novità: dall’inizio della serie storica (marzo 2000) non era mai accaduto che l’indice “estero” fosse maggiore
dell’indice “interno”, e ciò conferma la profonda debolezza della domanda interna.
Grafico 16 - Indice dei nuovi ordinativi dei prodotti industriali (marzo 2000 - marzo 2014; base 2010=100)
Fonte: I.Stat - datawarehouse dell’Istat
Per rilanciare la nostra economia occorre, dunque, intervenire sul mercato interno, sostenendo il potere d’acquisto delle famiglie attraverso misure che diano impulso ai consumi domestici. Accanto a ciò, occorre intervenire sull’offerta attraverso la ridefinizione delle strategie aziendali. A riguardo, sono utili le analisi sviluppate
dall’Istat nell’ultimo report sulla competitività in cui si tratteggiano quattro profili d’impresa (ISTAT 2014a: p. 38):
• imprese “vincenti” che, anche negli anni di crisi 2011-2013, hanno visto aumentare il proprio fatturato
sia in Italia sia all’estero. Si tratta di oltre 4.600 unità (pari al 18,1 per cento del totale), che spiegano il
20 per cento del valore aggiunto complessivo;
• imprese “crescenti all’estero”, che nello stesso periodo hanno aumentato il fatturato estero ma ridotto
quello interno. L’insieme comprende circa 8.500 imprese (il 33 per cento del totale), che spiegano circa
il 38 per cento del valore aggiunto complessivo;
77
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
• imprese “crescenti in Italia”, che hanno realizzato una buona performance all’interno, ma hanno registrato un fatturato estero in diminuzione. Si tratta di poco più di 3.400 unità (il 13,3 per cento del totale),
che spiegano l’11 per cento del valore aggiunto complessivo;
• imprese “in ripiegamento”, il cui fatturato è diminuito sia in ambito nazionale sia sui mercati internazionali. A questa classe appartengono oltre 9.100 unità produttive (il 35,6 per cento del totale), che spiegano il 30,6 per cento del valore aggiunto complessivo.
Le aziende che dalla crisi hanno tratto opportunità di crescita attraverso la realizzazione di strategie espansive hanno puntato sullo sviluppo della connettività d’impresa e infrastrutturale, sull’innovazione dei processi
di lavoro, sull’ampliamento della gamma di prodotti e sulla formazione del personale (vedi tabella 3). Di contro, le imprese che hanno subito la crisi si caratterizzano per strategie difensive, volte a contenere i danni:
ridimensionamento delle attività, mantenimento della quota di mercato, innovazione di prodotto e delocalizzazione delle strutture di produzione. Queste strategie hanno prodotto disoccupazione e un abbassamento
complessivo di ricchezza e di competitività del sistema produttivo nazionale. L’aspetto che più dovrebbe far
riflettere è che solo nelle aziende in ripiegamento la formazione non è contemplata tra le strategie; in tutti gli
altri casi, la formazione del personale è un fattore strategico, soprattutto per le aziende che sono cresciute
di fatturato nel mercato interno. La formazione quindi rappresenta una leva fondamentale per la crescita della
nostra economia, al pari di altre misure di tipo economico-fiscale.
Tabella 3 - Strategie correlate positivamente ai quattro profili d’impresa dell’Istat (elencate in ordine d’importanza)
Vincenti
Crescenti all’estero
Alta connettività
Delocalizzazione
Innovazione di processo
Difesa quota di mercato
Ampliamento gamma prodotti
Innovazione di prodotto
Formazione
Formazione
Crescenti all’interno
In ripiegamento
Formazione
Ridimensionamento attività
Alta connettività
Mantenimento quota di mercato
Innovazione di processo
Innovazione di prodotto
Ampliamento gamma prodotti
Delocalizzazione
Fonte: Istat - Report sulla competitività
Nelle micro imprese con meno di 10 dipendenti la formazione del personale si attesta al 32% sul totale
delle imprese (ISTAT 2013c). Tale percentuale cresce all’aumentare della dimensione aziendale. Dal 2005 al
2010 il peso della formazione aziendale nel nostro paese è aumentata di 24 punti percentuali: nel 2010 il 56%,
delle imprese italiane ha realizzato corsi di formazione per il proprio personale; nel 2005 meno di un terzo
delle aziende (32%) ha investito nella formazione (vedi grafico 17).
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IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
Grafico 17 - Incidenza della formazione nelle imprese dei paesi dell’Unione Europea (Eurostat; anni: 2005 e 2010; %)
Fonte: Eurostat
La crescita e l’aggiornamento delle professionalità presenti nelle aziende rappresentano leve irrinunciabili per la tenuta del sistema produttivo. La forte accelerazione impressa dalle aziende sul fronte della formazione testimonia quanto lo strumento sia decisivo per competere nei mercati globalizzati. Su questo terreno le nostre aziende hanno fatto passi da giganti se si pensa che nel 2005 l’Italia aveva un ritardo di 28
punti percentuali rispetto alla media europea (32% contro il 60%) e che nel 2010 il divario si è ridotto di diciotto punti percentuali (56% Italia, 66% media UE). Nonostante i progressi, però, le imprese italiane sono
ancora in posizioni di retrovia frenate, peraltro, da stili imprenditoriali resistenti allo sviluppo di strategie fondate sul binomio innovazione-ricerca.
A riguardo, una leva decisiva per tornare a crescere sarà la capacità del management e, in particolare,
dell’imprenditore di “aprire” l’azienda all’esterno, rendendola più ricettiva ed interconnessa, per captare i cambiamenti e le novità dei mercati e, al contempo, più riflessiva ed analitica, per elaborare i segnali in azioni e
strategie d’impresa. A tal proposito, in un recente documento della Presidenza del consiglio dei ministri, dipartimento politiche europee, si traccia un identikit delle PMI ad elevata crescita: alti tassi d’investimento in
ricerca e sviluppo, elevato livello di competenze interne e alta qualità della forza lavoro. Inoltre, il documento
evidenzia come tutte queste caratteristiche da sole non garantiscono il successo dell’impresa, che dipende,
in ultima battuta, dal ruolo dell’imprenditore «che si pone dunque come soggetto di importanza strategica
cruciale, in specie per quanto riguarda la propensione al rischio e all’innovazione» (Renda, Lucchetta
2011,p. 19).
La crescita di una cultura d’impresa aperta a partnership strategiche e ad alto tasso d’innovazione è il prerequisito per rendere più competitive le nostre aziende nei mercati internazionali. Tuttavia il cambiamento degli stili imprenditoriali da solo non garantisce il successo delle imprese italiane. Occorre, intervenire anche
sul terreno in cui operano le imprese, con misure ad hoc per rimuovere i freni e gli ostacoli allo sviluppo economico nel nostro paese. Va in questa direzione il varo della legge 212 del 2012 che ha introdotto, per la prima
79
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
volta, nel nostro ordinamento giuridico la definizione di nuova impresa innovativa, riconoscendo alle start up
innovative un ruolo strategico per la crescita dell’economia nazionale: «Nelle economie moderne la presenza
di un ambiente innovativo che promuova la ricerca scientifica ed un tessuto imprenditoriale in grado di valorizzarne i risultati e le competenze è una condizione necessaria per la competitività dell’intero sistema Paese
(...). Creare le condizioni di sistema favorevoli alla nascita e allo sviluppo delle startup innovative - siano esse
legate alla manifattura, ai servizi, all’agricoltura o ad altri settori - consente quindi di fornire un contributo rilevante alla crescita economica e all’occupazione, specie quella giovanile, favorendo uno spill-over di conoscenza su tutto il tessuto imprenditoriale e sostenendo, in particolare, lo sviluppo di una nuova manifattura italiana orientata all’high-tech e alle high skill promuove una maggiore propensione all’assunzione di
rischio imprenditoriale» (Guidi 2014, p. 3).
La legge 2012 del 2012 prevede un ampio ventaglio di agevolazioni e di facilitazioni per le imprese innovative che hanno permesso la nascita di 1.719 imprese innovative (dati aggiornati a febbraio 2014), concentrate in prevalenza nelle regioni del Nord Italia e nei grandi centri metropolitani (Milano, Roma e Torino). La
dinamica di crescita delle startup innovative resta però ancora al disotto dagli standard europei, frenata da
una riforma complessiva dei sistemi che concorrono all’ammodernamento e alla crescita del tessuto produttivo: giustizia, pubblica amministrazione, formazione/istruzione, credito, etc.
Il contesto: percorso ad ostacoli per la crescita del Paese
Molte delle PMI italiane già oggi sono attrezzate per competere a pieno titolo sui mercati internazionali:
la crescita di quest’ultimi mesi del made in Italy sta lì a confermarlo. Tuttavia, soprattutto nel mercato interno
la tenuta delle aziende mostra segnali di debolezza dovuti ad un contesto avverso, che ostacola e talvolta
rende impossibile fare impresa in Italia: eccessivi oneri amministrativi e normativi, difficoltà ad eccedere al
credito, elevata fiscalità, carenza di qualifiche, concorrenza sleale, corruzione, etc. Si tratta di problemi non
nuovi, a cui si è risposto con provvedimenti spot, slegati da una visione d’insieme.
Le riforme della giustizia, della pubblica amministrazione, del sistema infrastrutturale, per citarne alcune,
sono enunciate da molto tempo, se ne ravvisa l’urgenza, ma non sono state ancora realizzate, suonando,
di fatto, come delle mere petizioni di principio. Il sistema delle imprese italiane e, più in generale, l’intero sistema Italia si muove sulla scena dell’economia internazionale gravato dal ritardo nell’attuazione di riforme
che l’attuale congiuntura economica rende non più procrastinabili.
Per sintetizzare le difficoltà che gli imprenditori incontrano nel tentativo di fare impresa in Italia, il report
2014 della Banca Mondiale colloca il nostro paese al 65esimo posto nel Mondo per facilità di fare impresa:
dei paesi europei soltanto Grecia e Romania hanno una classifica peggiore della nostra (World Bank 2014°).
Il fattore che più penalizza la nostra economia è l’eccessivo carico fiscale che grava sulle aziende italiane:
su 100 euro a disposizione delle imprese poco meno di 66 euro (65,8%) se ne vanno in tasse e oneri contributivi, nei paesi dell’Unione europea il dato scende al 41,1%. Siamo la 138esima economia su 189 per carico fiscale (World Bank 2014b). La maggior parte del prelievo fiscale alle imprese italiane è dovuto alla tassazione sul lavoro (43,4% contro il 26,6% dell’UE), mentre le tasse sui profitti ammontano al 20,3%, la media
dei paesi UE è del 12,9%. In breve, a parità di volume d’affari le imprese italiane hanno una disponibilità economica minore rispetto alle principali concorrenti europee e mondiali.
Altre due classifiche della Banca mondiale consentono di mettere a fuoco i limiti della nostra economia
nel panorama internazionale. Dal 2013 al 2014 la nostra posizione circa la facilità di accedere al credito e di
avviare una nuova impresa è peggiorata: nel primo caso siamo scesi dal 105esimo al 109esimo posto; nel
secondo caso, dall’84esima posizione alla 90esima posizione. L’ostacolo principale per la nascita di nuove
imprese è l’eccessivo costo di start-up. Aprire un’azienda a Milano o Roma costa tre volte di più rispetto all’avvio di un’attività in Germania (16,8% di costi sul reddito pro-capite contro il 4,9% della Germania) ed è
80
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
16 volte superiore alle spese sostenute da un imprenditore francese (World Bank 2013, p. 25). Peraltro, negli ultimi anni, le banche hanno adottato una politica di accesso al credito più restrittiva che ha di fatto inciso sulla tenuta del tessuto produttivo nazionale. La contrazione dei finanziamenti ha riguardato anche realtà imprenditoriali sane e di successo, come nel caso delle imprese ad alta crescita di fatturato: per le imprese
giovani, dal 2007 al 2010, la concessione di prestiti da parte delle banche è scesa dal 70% al 59,7%. Anche per gli altri tipi d’imprese (imprese ad alta crescita e altre imprese) c’è stata una restrizione dei prestiti
bancari dell’ordine di dieci punti percentuali (vedi tabella 4).
Tabella 4 - Richiesta di prestiti delle imprese alle banche e percentuale di successo delle richieste (anni: 2007 e 2010)
2007
2010
Richiesta
Successo
di prestiti
della richiesta
Diff.
Richiesta
Successo
di prestiti
della richiesta
Diff.
Imprese giovani ad alta crescita
94,7
70,0
-24,7
98,4
59,7
-38,6
Imprese ad alta crescita
96,2
85,0
-11,1
95,7
73,1
-22,6
Altre imprese
93,8
86,8
-7,0
92,9
78,8
-14,1
Totale imprese
94,0
86,6
-7,4
93,0
78,4
-14,6
Fonte: Istat - Report accesso al credito PMI
Se per le aziende migliori e più attrezzate a concorrere nei mercati internazionali è diventato difficile ottenere un prestito, allora, non si fa fatica ad immaginare, quanto sia ancor più arduo per le aziende normali
o, addirittura, in deficit di crescita.
La riduzione del credito d’impresa e l’eccessivo peso della burocrazia e del carico fiscale spiegano il basso
punteggio dell’Italia nell’indice di attrattività dell’AIBE4: il livello di attrattività del nostro paese presso gli investitori stranieri si attesta al 41%, alquanto al di sotto dei valori di paesi leader come Germania (77%) e Stati
Uniti (91%), ma anche di paese emergenti come Brasile (50%), India (59%) e Cina (73%).
Il documento dell’AIBE è interessante perché gli esperti danno indicazioni su dove intervenire per aumentare il livello d’interesse della nostra economia all’estero, cito le quattro misure più urgenti da realizzare: sfoltire il carico normativo e burocratico, abbreviare i tempi della giustizia civile, aumentare la flessibilità del lavoro; ridurre il carico fiscale.
Il fattore che più dissuade gli investitori esteri a puntare sull’Italia è l’ingombro eccessivo della burocrazia nella vita delle imprese e, in generale, degli individui. Troppe leggi e adempimenti amministrativi frenano
lo sviluppo del sistema paese e alimentano la corruzione e l’economia sommersa. Allo stesso modo, l’eccessiva lungaggine dei processi pone più di un motivo di perplessità a chi intende fare impresa in Italia.
Un aspetto su tutti evidenzia le difficoltà che incontrano le aziende nel fare impresa in Italia ed è connesso
al numero di fasi processuali, ai tempi e ai costi necessari per risolvere davanti ad un giudice una disputa di
natura commerciale (World Bank 2013, p. 25).
4 L'indice di attrattività è stato promosso dall'AIBE, l'associazione fra le banche estere italiane, per misurare il grado di attrattività dell'Italia presso gli investitori esteri. L'indice AIBE è costruito dall'unione dei punteggi dati da un panel di rispondenti che operano nei settori dell'economia e
della finanza internazionale. La prima edizione dell'indice è stata dall'agenzia ISPO tra febbraio e marzo 2014 [ISPO 2014].
81
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
Figura 1 - Fasi, tempi e costi della giustizia civile
Fasi processuali (numero)
Tempi (giorni)
Costi (% del valore della controversia)
Fonte: World Bank
82
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
Dai grafici in figura 1 emerge con chiarezza quanto sia gravoso il peso (di costi e di tempo) della burocrazia nel confronto con alcuni paesi europei di riferimento. Per chiudere una controversia di natura commerciale occorrono 41 passaggi processuali, in Germania il numero scende a 30 e in Francia a 29. I tempi
medi della giustizia italiana per questo tipo di controversie oscillano tra gli 855 giorni di Torino e i 2022 di
Bari, con una media nazionale di 1400 giorni. Se si guarda all’Europa, i tempi della giustizia civile italiana appaiono ancor più eclatanti: sono più del doppio rispetto alla media europea (547 giorni) e triplicano nel confronto con la giustizia francese e tedesca. La lungaggine dei processi e la farraginosità della burocrazia fa
levitare anche i costi che le aziende dei sostenere in giudizio. Per un contenzioso di 100 euro le aziende italiane pagano in media 26 euro di spese legali, in Germania per una causa di pari importo l’imprenditore spende
meno di 15 euro, mentre in Francia e Spagna la spesa sale a 17 euro.
Il groviglio di leggi, procedure e adempimenti amministrativi imbriglia la crescita economica e rende l’Italia un paese poco appetibile per gli investitori stranieri. Avviare un’azienda da noi costa in media di più rispetto alla maggior parte dei paesi europei. Quando poi l’azienda è avviata, l’imprenditore si trova a dover
sopportare un carico fiscale che supera la media dell’Unione Europa di oltre venti punti percentuali. Infine,
se questa azienda dovesse intentare causa per la riscossione di un credito sarà costretta ad aspettare quasi
4 anni per l’esecuzione della sentenza e pagare un prezzo per le spese legali di norma superiore rispetto agli
altri paese dell’Unione europea.
Non sono solo i report internazionali a mettere nudo i limiti della nostra economia, essi sono evidenziati
anche in un recente documento della Banca d’Italia Bianco: «Restano, tuttavia, ostacoli significativi all’operare dei meccanismi concorrenziali. Essi sono riconducibili a due fronti: il contesto istituzionale che fa da
sfondo all’attività delle imprese e la regolamentazione economica dei settori in cui siano presenti fallimenti
del mercato. Sul primo fronte le debolezze sono da rinvenire in un approccio - influenzato dalla tradizione
giuridica, specie amministrativa, italiana - nel complesso poco attento alle esigenze del sistema produttivo
e alla rilevanza della concorrenza. Le politiche di semplificazione normativa e amministrativa hanno, in passato, prodotto risultati limitati. Tra le ragioni della scarsa efficacia vi sono la frammentarietà degli interventi
e la presenza di più livelli di governo, che non sempre adottano un approccio omogeneo e coerente. Restano
prioritari interventi sulla qualità delle nuove leggi. Per l’efficacia delle misure di semplificazione è necessario, nel contempo, che prosegua e si intensifichi il processo di riforma della pubblica amministrazione. Affrontare i problemi della giustizia civile è ugualmente rilevante. I provvedimenti adottati recentemente incidono su alcuni dei problemi. È necessario che le riforme procedano rapidamente e con un approccio
“integrato”, attento alle molteplici cause di inefficienza» (Giacomelli, Rodano 2012, p. 37).
La sollecitazione che arriva dalla Banca d’Italia è chiara: occorre realizzare un piano di riforme per consentire al nostro paese di essere più efficiente e dinamico. Non più, dunque, interventi settoriali slegati da
una visione complessiva, ma azioni integrali che nascono da un’idea generale di società, tenendo insieme,
con coerenza, i diversi piani dell’agire, pianificando strategie d’intervento multi prospettiche. L’ambito dell’istruzione e della formazione rappresenta un elemento cruciale per ridisegnare una nuova configurazione
di società. Sulla questione educativa l’Italia è indietro: gli studenti che abbandonano gli studi sono il 17%
(vedi grafico 18), la media europea si ferma al 12,9%. Si tratta di persone giovani, 18-24 anni, che interrompono che, vista l’attuale crisi di occupazione, con molta probabilità va a rinfoltire le file dei neet.
83
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
Grafico 18 - Persone di 18-24 anni che abbandonano la scuola o corsi di formazione (%)
Fonte: Eurostat
L’abbandono scolastico è la manifestazione più evidente di un disagio. Le transizioni da un livello educativo all’altro sono spesso disomogenee. I passaggi dalla scuola elementare alle medie, dalle medie alle superiori, fino ad arrivare all’università, possono rivelarsi traumatici nella crescita educativa e culturale degli
alunni. Tagli di risorse5, interventi legislativi settoriali e disarticolati, lento ammodernamento degli strumenti
didattici (in primis, la digitalizzazione delle aule) sono fattori che rappresentano delle variabili di contesto negative per il successo scolastico delle persone. A rimanere indietro sono soprattutto gli alunni che provengono da famiglie con una dotazione esigua di capitale economico, sociale e culturale. Non solo: anche gli
studenti più meritevoli sono penalizzati da un sistema d’incentivi (borse di studio e agevolazioni) che, dopo
dieci anni di tagli alla scuola, oggi è assai ridotto. Questa condizione lede il diritto allo studio e ci riporta ad
un’idea di scuola in cui la riuscita è legata alle condizioni socio-economiche e culturali della famiglia di origine. La debolezza della scuola si riflette sui livelli di apprendimento degli studenti e, in generale, sugli standard di qualità dell’offerta formativa: i risultati dell’indagine PISA-OCSE collocano gli alunni italiani di sotto
alla media OCSE in tutte le prove oggetto di valutazione (INVALSI 2013).
Terminati i percorsi scolastici molti giovani si trovano nella difficile condizione di entrare in un mercato del
lavoro asfittico. Per la ricerca di un lavoro, il canale principale attivato dalle persone di età compresa tra i 15
e i 29 anni è quello dei contatti informali: Il 77,6% dei giovani si rivolge ad amici e parenti (Istat 2013d). La
ricerca attraverso canali informali è cresciuta di quattro punti percentuali nel periodo compreso tra 2008 e
il 2012. Ancor più sostenuta è stata la crescita di chi usa internet: nel 2012 il 62,2% ha dichiarato di affidare
5 Secondo i dati dell'OCSE (http://stats.oecd.org) l'Italia dal 2007 al 2012 ha segnato un taglio dei finanziamenti all'istruzione dell'8%. Dei paesi
più industrializzati solo il Giappone ha ridotto i finanziamenti per la scuola, tutti gli altri, nel periodo in esame, li hanno incrementati: Stati Uniti
+12,5%; Francia +18,7% e Germania +20,9%.
84
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
alla rete le speranza di trovare un lavoro, con un aumento di venti punti percentuali rispetto al valore del 2008.
Con meno frequenza ci si rivolge al centro per l’impiego territoriale: il 29,9% dei giovani va nei centri per l’impiego per la ricerca di un posto di lavoro. In Europa l’uso dei centri per l’impiego è molto più frequente, per
citare due casi spesso presi ad esempio: in Germania i giovani che si rivolgono ad un centro per l’impiego
arriva all’81,2%, in Francia la percentuale è del 57%.
Il sottoutilizzo dei centri per l’impiego in Italia si spiega dal grafico 19. Il 43,9% dei giovani occupati ha trovato lavoro grazie agli aiuti di genitori, amici e parenti; viceversa, soltanto l’1,4% è riuscito a lavorare per mezzo
dei centri per l’impiego.
Grafico 19 - Occupazione attraverso i centri per l’impiego e dei canali informali (Istat 2012; %)
Fonte: Istat - Indagine conoscitiva sulle misure per fronteggiare l’emergenza occupazionale
Il sistema di collocamento pubblico si mostra inefficace nel favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. I centri per l’impiego scontano ritardi sia nella messa in rete delle strutture che fanno parte del ciclo formazione-lavoro (istruzione-formazione-altri soggetti di collocamenti-impresa) sia nella raccolta, organizzazione
e diffusione del flusso d’informazioni. I limiti sono accentuati dalla penuria di risorse (economiche e di personale) destinate ai centri per l’impiego: in Italia lo 0,03% del PIL è destinato ai centri per l’impiego, la media europea è all’incirca dieci volte superiore (0,25%). In termini monetari, nel 2011, l’Italia ha investito 500milioni di
euro per il funzionamento dei centri per l’impiego, in Spagna si è speso il doppio, in Germania si sono stanziati
8,8miliardi e in Francia poco più di 5miliardi (Bergamante, Marocco 2013 - ISFOL). Anche le agenzie di lavoro
private mostrano problemi di tenuta organizzativa ed economica e la fruizione dei cittadini di queste agenzie
risulta più bassa di quella dei centri per l’impiego. C’è quindi da ripensare all’intera rete di collocamento al lavoro, iniziando da un piano d’investimenti per il potenziamento dei raccordi dei diversi nodi e per il miglioramento dei sistemi di gestione dei flussi informativi. Da questo punto di vista il Decreto Legge 76 del 2013 ha
istituito presso il Ministero del Lavoro una struttura di missione che ha vari compiti: proporre iniziative per integrare i diversi sistemi informativi, definendo le linee-guida per la Banca dati delle politiche attive e passive;
avviare l’organizzazione della rilevazione sistematica e la pubblicazione in rete, per la formazione professionale
85
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
finanziata in tutto o in parte con risorse pubbliche, del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi; promuovere l’accessibilità, da parte dei soggetti autorizzati, alle banche dati sugli studi compiuti e sulle esperienze lavorative o formative. La speranza è che la nascita di questa commissione e i risultati
che produrrà possano tradursi in azioni che sappiano coniugare scuola-formazione-lavoro-imprese, avvicinando
così il nostro paese ai livelli di paesi come la Germania e la Francia.
Un altro aspetto che frena la ricerca di lavoro nel nostro paese è legato alla bassa dotazione di asili nido
e, in generale, strutture pubbliche che erogano servizi di cura. La copertura del servizio di asili nido6 è tra
la più bassa in Europa. La copertura è del 6,5% a livello nazionale, con un massimo del 15,2% in Emilia Romagna e un minimo dello 0,9% in Calabria (vedi grafico 20), molto distante dall’obiettivo fissato in sede europea al 33%.
Grafico 20 - Copertura potenziale del servizio di asilo nido e tasso di occupazione femminile (Fonti: cittadinanza attiva
e Istat; 2012; %)
Fonte: Cittadinanzattiva (Copertura del servizio) - Istat (Tasso di occupazione femminile)
La bassa dotazione di strutture per l’infanzia è correlata con i livelli di occupazione femminile: nelle regioni
in cui la presenza di asili nido è più consistente il tasso di occupazione femminile è di solito superiore alla media nazionale; all’opposto nelle regioni in cui c’è una minore dotazione di asili nido, i relativi tassi di occupazione femminile sono inferiori alla media. In quest’ultima condizione si collocano le regioni del Mezzogiorno:
la mancanza di servizi di cura si riflette in modo negativo sui livelli di accesso delle donne nel mercato del lavoro. L’Unione europea ha più volte sollecitato il nostro paese ad attuare politiche per il potenziamento dei
servizi per l’infanzia. Tuttavia, ad oggi, su questo fronte poco è stato fatto: la spesa che l’Italia spende per le
famiglie con bambini è circa l’1,4% del PIL, contro una media dell’OCSE del 2,2%. Peraltro, su 100 famiglie
che fanno domanda per l’asilo nido 23,5 rimangono in lista di attesa: in Calabria e Campania la percentuale
6 Numero di posti disponibili su numero di bambini di età 0-3 anni.
86
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
delle famiglie in lista di attesa arriva rispettivamente al 39% e al 37%. La retta media mensile è in media di
302 euro, con punte di 403 in Lombardia e 413 euro Valle d’Aosta (Cittadinanzattiva 2012).
Il divario tra Nord e Sud sugli asili nido si conferma anche per gli altri servizi di cura e assistenza alle persone. Strutture di residenza per anziani, centri per la disabilità e consultori familiari, tutte queste strutture sono
sottodimensionate nelle regioni del Sud Italia rispetto alla domanda potenziale. Anche la sanità pubblica e i presidi socio-sanitari confermano la spaccatura del Paese. Un dato su tutto aiuta a dare il senso del divario tra Nord
e Sud: nelle regioni del Sud l’11,1% della popolazione per curarsi deve migrare in un ospedale di un’altra regione, il dato scende al 4,4% nelle regioni del Nord Italia (I.stat - ISTAT).
Conclusioni
Al termine di questa lunga incursione nelle statistiche sul e del lavoro abbiamo qualche elemento in più
per rispondere alle domande poste in premesse e che, in estrema sintesi, si possono condensare in un quesito di fondo: Cosa è per noi il lavoro buono e giusto?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo innanzitutto partire da cosa siamo: dall’identità e dai valori
che guidano il nostro operato nella società. La radice di senso della nostra idea di lavoro buono affonda nell’intimo rapporto tra Dio e l’uomo. Dai tempi della Creazione siamo stati concepiti ad immagine e somiglianza
di Dio e in virtù di questo la nostra primaria funzione, l’essenza ultima del nostro rispecchiarci in Dio, è che
Egli ci ha conferito il potere di far crescere la vita. Partendo da qui, senza indugiare troppo nella saggistica
sociologia e teologica, ogni cristiano nell’esprimere un giudizio sulle questioni sollevate in questo documento
deve porsi una domanda: la situazione fotografata in quella tabella o in quel particolare grafico contribuisce
a far crescere la vita? Oppure, al contrario, è un fattore che la inibisce?
Il lavoro buono e giusto esprime la nostra valutazione e, al contempo, il nostro personale punto di vista
sul lavoro. In esso si condensano le componenti dell’operosità umana che favoriscono la vita: le buone relazioni con i colleghi e il datore di lavoro, l’attenzione alla sicurezza e alla salute nei luoghi di lavoro e, in generale, alla qualità del lavoro, un giusto compenso, la valorizzazione e la crescita delle competenze, il riconoscimento del merito, la fine della flessibilità occupazionale sinonimo di precarietà, la denuncia e la lotta
di ogni forma di vessazione e discriminazione nei posti di lavoro, il diritto ad un lavoro stabile e il dovere delle
istituzioni a renderlo esigibile, il potenziamento degli strumenti di conciliazione dei tempi di vita e tempi di
lavoro.
Non si tratta di un elenco di buone intenzioni e di desideri. Parliamo di lavoro buono e giusto a ragion veduta, giacché per ogni punto indicato abbiamo detto la nostra e, soprattutto, ci siamo impegnati a renderli
concreti. Penso, ad esempio, alle iniziative promosse per il lavoro dignitoso - ricordate in un recente articolo
di Andrea Casavecchia (2014) che hanno portato alla pubblicazione del Manifesto per la flessibilità sostenibile (2002), due anni più tardi all’uscita dell’Agenda del lavoro (2004) in cui si è messo a tema il lavoro dignitoso nel nostro paese e infine il documento dal titolo Verso uno Statuto dei lavori (2009) in cui sono state avanzate proposte, con tanto di indicazioni operative sul come e dove recuperare risorse per attuarle, in materia
di ammortizzatori sociali, pensioni, salute e alla sicurezza nei luoghi di lavoro, formazione e certificazione delle
competenze, partecipazione dei lavoratori alla vita dell’azienda e alla conciliazione fra vita lavorativa e vita
familiare. Queste iniziative di riforma e di riflessione fanno da cornice all’impegno che ogni giorno dispensiamo per la tutela degli ultimi, per le famiglie in difficoltà, per i lavoratori e le lavoratrici. I punti famiglia, le
sedi di patronato, i circoli, le associazione sportive e le Acli service sono realtà presenti in oltre 2mila comuni.
Questa rete di strutture non sono soltanto centrali di servizio, ma luoghi di elaborazione di proposte ed iniziative che nascono dall’ascolto e dalle risposte che diamo ai molteplici bisogni di migliaia di persone che
ogni giorno arrivano da noi. Sono nate in questo modo le iniziative nazionali come Diritti in Piazza (2007) per
sensibilizzare le persone sugli infortuni nei luoghi di lavoro e, di recente, il Primo rapporto delle Acli sui red87
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
diti dei lavoratori e delle famiglie (2013) per analizzare la situazione economica delle famiglie e avanzare proposte per una fiscalità più equa. E poi ci sono le tante iniziative locali, promosse dai circoli e dalle strutture
territoriali, che spaziano da gesti concreti di sostegno alle famiglie all’organizzazione di convegni su temi caldi
dell’economia; dall’organizzazione di manifestazioni di piazza per la promozione e la difesa dei diritti alla realizzazione di attività d’informazione e formazione sociale e culturale.
Ora, chiarito qual è il nostro punto di partenza, proviamo a rileggere le statistiche illustrate in questo documento con il metro dell’essere uomini e donne in Dio Padre. Negli andamenti degli indicatori del non lavoro (disoccupazione e inattività) abbiamo incrociato la sofferenza di un pezzo consistente di persone che
è fuori dal mercato del lavoro. Colpisce la situazione di 3,5 milioni di giovani cittadini condannati all’inutilità,
poiché non lavorano né studiano o, ancora, la desolazione di una moltitudine di giovani, soprattutto donne
e meridionali, che ha interrotto qualsiasi azione per la ricerca di lavoro. Persone rassegnate all’idea che per
loro un lavoro non ci sarà mai. Per chi entra in queste statistiche, che la crisi ha reso ancor più verticali, la
possibilità di concorrere a far crescere la vita si affievolisce a causa di un contesto avaro di prospettive.
Allo stesso modo, sposandoci dal lato di chi è oggi nel mercato del lavoro, i milioni di lavoratori atipici vivono la loro condizione occupazionale in termini di precarietà occupazionale e di frammentarietà dei corsi di
vita. Sono spesso lavoratori e lavoratrici che, dentro i luoghi di lavoro, si collocano ai livelli più bassi nella scala
della qualità del Lavoro (Gualtieri 2014 - ISFOL) e, fuori dai luoghi di lavoro, gli è negato l’accesso al credito
bancario. Per questo tipo di occupati, che le statistiche danno in crescita, il futuro è incerto e il presente è costellato da una vita lavorativa intermittente, che si snoda negli spazi “vuoti” - perché assenti gli strumenti di protezione sociale - che dividono le ansie per la cessazione di un lavoro e la speranza di trovarne un altro. Una
condizione analoga è subita dalle cosiddette false partite IVA, ovvero la versione “indipendente” dei lavoratori
atipici con la differenza che nel caso delle finte partite IVA viene meno quel poco di tutele e diritti comunque
garantiti dai contratti atipici. Anche per questi lavoratori vulnerabili, atipici e false partite IVA, il diritto-dovere di
farsi promotori di vita è svilito da un contesto economico e normativo che fa della precarietà occupazionale,
dipendente o indipendente che sia, uno strumento per contenere i costi, non solo monetari, del lavoro.
Nondimeno, il nostro impegno cristiano alla vita è mortificato dall’ampliamento di quella fascia di lavoratori che, pur percependo un reddito, vivono in una condizione di povertà. Queste persone sovente vivono
in famiglie con figli in cui il loro è il solo reddito disponibile. Per far quadrare i conti nelle case di questi lavoratori si fa economia su tutto, rinunciando anche alle cure mediche e odontoiatriche. Su questo terreno,
fatto di vulnerabilità socio-economica e precarietà occupazionale, cresce il numero di lavoratori stranieri che
per la crisi ha visto cadere in frantumi il personale progetto migratorio: sono 100mla gli stranieri che hanno
lasciato il nostro paese per una nuova emigrazione verso i paesi del Nord Europa (Istat 2014).
Un lavoro che non consente di poter vivere degnamente o una vita, a cui è negata la speranza di un lavoro, è in antitesi con la nostra concezione di lavoro buono e giusto. Quest’ultimo è tale quando consente
di guardare al futuro con serenità, con risorse e strumenti che permettano a ciascuno di costruire il personale progetto di vita e coronare le proprie aspirazioni. Da questo punto di vista, la proposta avanzata dalle
Acli con la Caritas di un reddito d’inclusione sociale (Acli e Caritas 2013) va nella direzione auspicata per la
costruzione di una società del lavoro buono e giusto. Ma un ruolo importante per virare verso un orizzonte
di crescita e promozione della vita dovrà essere giocato dalle aziende.
Nei mesi a cavallo tra il 2008 e il 2009 la crisi economica ha avuto un impatto devastante sul tessuto produttivo nazionale. Più di un analista economico si è affrettato a sottolineare che la tempesta economica del
2008 abbia scavato un solco profondo e incolmabile nella nostra economia. Intere comunità produttive sono
state decimate dalla crisi. La chiusura di migliaia di micro imprese, espressione di una particolare vocazione
manifatturiera, non rappresenta solo una perdita economica, ma un danno per un’intera comunità. Molte imprese sopravvivono alla recessione adottando strategie difensive: ridimensionamento e delocalizzazione
88
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
delle attività; alcune altre, però, reagiscono alla crisi investendo nella formazione e crescita professionale dei
lavoratori, nell’innovazione di prodotto e in tecnologie ad alta connettività. Le imprese che investono nella formazione e nell’innovazione hanno tratto beneficio dalla crisi. Si è sottolineato, commentando la tabella 4, come
i tipi d’impresa che crescono condividano il fatto di aver investito nella formazione del personale. La cultura
manageriale per un lavoro buono e giusto è un fattore di crescita economica. Ci sono imprenditori consapevoli che per stare da protagonisti nei mercati occorra valorizzare e far crescere i talenti dei propri dipendenti.
È, dunque, l’investimento nell’uomo che crea il lavoro buono e giusto. È su questa idea d’imprenditorialità che da quasi vent’anni il progetto Policoro, di cui le Acli sono partner storici, crea gesti concreti. Le oltre 400 esperienze d’impresa del progetto Policoro, nei territori difficili del Sud Italia, sono il segno tangibile
di un investimento nell’uomo e per l’uomo, fondato sulla fiducia reciproca.
Accordare fiducia all’altro genera lavoro buono e giusto: questo è l’insegnamento che si può trarre dall’esperienza di Policoro. Un insegnamento che, scorrendo i dati dell’accesso al credito delle imprese, non sembra
abbia avuto seguito nel sistema bancario. Negli ultimi anni le banche hanno dato meno soldi alle imprese, anche a quelle con i conti in regola.
In generale, da oltre un decennio le fotografie del sistema-Italia, scattate dai vari istituti pubblici di analisi socio-economica (Istat, Banca d’Italia, Isfol, Svimez, Uffici statistici dei ministeri, etc.), ritraggono un paese
avvitato su se stesso. La crisi ha solo impresso in modo più vivido i freni che impediscono all’Italia di crescere e ammodernarsi.
Il sistema dell’istruzione sconta ritardi nell’ammodernamento strutturale e infrastrutturale7 e la progressione dei cicli educativi appare disarmonica. In questa situazione l’impegno d’insegnanti, genitori e operatori è straordinario. Malgrado i limiti summenzionati, infatti, i risultati dell’ultima indagine PISA-OCSE ci dicono che non siamo arretrati nei livelli di apprendimento, pur rimanendo al di sotto della media OCSE. Chi
esce dalla scuola e dall’università, con la legittima aspirazione di trovare un’occupazione, si scontra con un
sistema di collocamento pubblico e privato incapace di dare risposte adeguate. La rete di collocamento andrebbe riformata e potenziata con risorse umane ed economiche. Rispetto alla media europea, in Italia si
spende un decimo per il servizio di collocamento. Così come sono inferiori alla media europea i soldi investiti in servizi di asilo nido. Nel Sud gli asili nido pubblici sono insufficienti a soddisfare la domanda e ciò crea
un’ulteriore barriera all’accesso delle donne al mercato del lavoro.
Scuola, lavoro, impresa, credito, giustizia e welfare in questi ambiti d’intervento abbiamo evidenziato alcuni nodi che imbrigliano lo sviluppo di un ambiente socio-economico che accolga e favorisca la buona occupazione. In questa direzione, come accennato prima, le Acli hanno dato il loro fattivo e concreto apporto.
Tuttavia, oggi c’è bisogno di aprire una fase di riforme, con il coinvolgimento di tutti, dalla società civile ai
corpi intermedi, per la costruzione di una società nuova che sappia coniugare meglio sviluppo economico,
coesione sociale e buona occupazione. A spingere per un cambiamento è la massa di persone che oggi vive
nell’area del disagio occupazionale (disoccupati, inattivi involontari, cassa intergrati, lavoratori atipici, etc.)
che ha raggiunto cifre considerevoli: sono 9,3milioni che sono in questa condizione (Centro studi CGIL 2014).
Occorre dunque ripensare il nostro modello di sviluppo, partendo da un’idea di società che fa del lavoro uno
degli strumenti principali per la crescita della vita, oggi vilipesa per causa di una crisi che ha segnato nel nostro paese un nuovo record: «Dal 2008, con l’avvio della crisi economica si inverte il trend di crescita della
natalità e della fecondità in atto dal 1995: nel 2013 si stima che saranno iscritti in anagrafe per nascita poco
meno di 515 mila bambini, circa 64 mila in meno in cinque anni e inferiori di 12 mila unità al minimo storico
delle nascite del 1995» (ISTAT 2014b, p. 143).
7 Il Censis tratteggia un quadro desolante sullo stato delle scuole italiane. Su 41mila scuole il 60%, 24mila istituti, ha problemi alle strutture e agli
impianti di diversa natura e, di questi, 9mila non sono a norma [Censis 201].
89
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
LAVORO E VULNERABILITÀ SOCIALE:
UN INEDITO BINOMIO
Giuseppe Marchese1
nanza: in ambito lavorativo, demografico, finanziario,
abitativo, politico-istituzionale, civile, sociale, familiare, le fragilità si moltiplicano, rendendo le traiettorie biografiche delle persone sempre più incerte ed insicure.
L’area della vulnerabilità, infatti, è quella ove si situano le persone che si trovano progressivamente in situazione di precarietà, hanno una vita incerta ed una
posizione sociale che non è garantita, finendo per ingrossare le fila del disagio sociale. Costoro sono i soggetti più a rischio di deprivazione e le loro traiettorie possono evidenziare cosa non funziona a livello individuale
o sociale nella gestione delle crisi e se ciò porta o
meno ad un impoverimento più radicale.
La condizione della vulnerabilità genera smarrimento del presente e paura del futuro. È definita da
incertezza e perdita di controllo, anche se non in
presenza di un disagio conclamato. Soprattutto attraverso di essa è visibile il cambiamento nella natura dei
rischi sociali: oggi i rischi tradizionali, che avevano
meccanismi di correzione, sono sostituiti da altri tipi
di rischio che diventano uno stato stabile della vita
quotidiana. Come sostiene Nicola Negri, «la vita quotidiana è diventata “normalmente” insicura».
Questo segna una potente frattura col passato.
Nella società di tipo fordista la condizione di rischio
tendeva ad essere associata prevalentemente all’assenza o alla perdita di lavoro. Di conseguenza, era la
condizione di povertà e di deprivazione materiale a
meritare attenzione e forme di protezione, che intorno
ad esse vengono progettate ed istituite. La povertà
era, quindi, soprattutto, se non esclusivamente, di natura economica, determinando la convinzione diffusa che il miglioramento degli indicatori economici
Di cosa parliamo quando parliamo
di vulnerabilità
Ormai da tempo la realtà sociale ci pone davanti
a fenomeni di incertezza ed insicurezza, caratterizzati
da livelli differenti di disuguaglianza, povertà ed esclusione, non sovrapponibili a quelli del passato. Dunque, per meglio comprendere il contesto in cui ci troviamo ed agiamo, abbiamo necessità di approfondire
questi temi e questi concetti. Occorre, in altri termini,
aggiornare le categorie, ampliare le prospettive, allargare il campo di riflessione per meglio aderire al contesto sociale odierno.
Nel quadro dell’attuale società della complessità
si tratta sicuramente di rivisitare alcuni concetti problematizzandoli e risignificandoli almeno nella direzione della multidimensionalità. Al contempo è anche
un problema di interpretazione, per cui si compiono
scelte metodologiche fondate su presupposti di ricerca teorica ed empirica (che tengono conto del
quadro di profonde trasformazioni sociali intervenute), in base ai quali alcuni aspetti e alcune dinamiche vengono in primo piano mentre altre sono meno
considerate.
Per tali ragioni si propone di adottare uno slittamento semantico maggiormente in grado di rappresentare la realtà odierna: dalla prospettiva della povertà a quella della vulnerabilità.
La vulnerabilità definisce meglio di altri concetti le
condizioni sociali, economiche e psicologiche che interessano ampi strati della popolazione nella società
contemporanea, dominata da un’incertezza diffusa.
Diverse sfere della vita degli individui sono attraversate oggi da fenomeni e condizioni di vulnerabilità,
che finiscono per intaccare ed indebolire la cittadi1 Hanno collaborato Cristina Morga, David Recchia, Federica Volpi.
92
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
Il concetto di vulnerabilità si presenta come una risposta critica ai problemi sollevati. Come l’esclusione sociale tiene conto della dilatazione dell’area
del rischio, e del moltiplicarsi di situazioni che anche
se non riferibili alla povertà, generano sofferenza, insicurezza, paura, difficoltà ad affrontare i problemi
quotidiani, ecc. Indica la natura pluridimensionale e
processuale di tali situazioni, ma ha il vantaggio di
non riferirsi a soggetti e dinamiche ai margini della società, bensì mette a fuoco problemi che riguardano i
processi della riproduzione sociale stessa e che
stanno pertanto al centro delle dinamiche evolutive
della società nel suo complesso (Ires, 2005).
Così definita, la vulnerabilità affianca alle condizioni
soggettive di fragilità la rilevanza dei sistemi di relazione: dipende da quanto avviene nel cuore delle trasformazioni di ambiti centrali della vita collettiva. La ricerca sociologica sul disagio e sull’esclusione sociale
ha nel tempo sedimentato una mole di riflessioni teoriche e di evidenze empiriche sul ruolo che nella determinazione dei processi di impoverimento svolgono
i sistemi di relazione all’interno dei quali gli attori sociali sono compresi e che tuttavia, al tempo stesso,
contribuiscono a strutturare e definire. Amplia la portata ed il significato del concetto di disuguaglianza.
Secondo il sociologo francese Castel, la vulnerabilità comporta un indebolimento dell’inserimento
dell’attore sociale nei principali sistemi di integrazione che corrispondono alla famiglia, al lavoro e al
welfare state (Castel, 2007). Il lavoro, con la sua incapacità, rispetto a prima, di assicurare l’integrazione
sociale dei cittadini; le reti sociali (primarie e secondarie) interessate da profondi mutamenti, corrose da
logiche strumentali che ne alterano le finalità, appesantite da porzioni crescenti di rischio di cui gli individui devono farsi carico. Ma anche le ricerche sul
campo condotte in Italia confermano la crescente insicurezza delle condizioni di vita e disegnano “un
triangolo del rischio” di vulnerabilità costituito da: la
disponibilità limitata di risorse di base (reddito, patrimonio, casa), la scarsa integrazione nelle reti sociali
(relazioni occupazionali, familiari o amicali), le carenti
capacità di fronteggiare delle situazioni difficili (istruzione, informazione, partecipazione sociale e politica,
uso dei servizi pubblici) (Ranci, 2002).
rappresentasse la principale protezione, individuale e
collettiva, dal rischio povertà.
A partire dagli anni ’70 del Novecento il quadro
cambia e la logica per cui l’economia avrebbe progressivamente beneficiato la società entra in crisi.
L’ambito di integrazione privilegiato è quello che manifesta la più ampia sofferenza: si dilata la zona grigia tra lavoro e non lavoro, l’attività lavorativa si riduce
alla prestazione individuale, le carriere professionali
diventano frammentate e discontinue… Tutto ciò,
peraltro, si salda con altri fenomeni di profonda trasformazione sociale: la partecipazione femminile al
mercato del lavoro, la pluralizzazione delle strutture
familiari e l’aumento delle coppie a doppia entrata, la
fine dei legami sociali tradizionali e percorsi di vita
sempre più individuali, ecc. In questo mutato scenario la povertà calcolata solo su parametri di carattere
economico risulta poco efficace nel dar conto delle situazioni di difficoltà possibili.
Allora emersero altri concetti con i quali si tentava
di rispondere all’esigenza di dar conto della pluralità
dei fattori che determinano le difficoltà (culturali, sociali, spaziali, istituzionali, ecc.) e per afferrare la natura dinamica dei fenomeni di lacerazione sociale
(Borghi, 1999): si diffusero i concetti di esclusione sociale, di matrice francese, e quello di underclass, di
stampo anglosassone. I due termini sono utilizzati in
ambito scientifico in quanto categorie moderne, poiché presuppongono l’evoluzione del contesto storico
moderno e contemporaneo (e, in particolare in Europa, del welfare state), e in quanto categorie sociali
e relazionali, hanno avuto il merito di spostare l’attenzione dalle caratteristiche delle persone alla fisionomia della società. Tuttavia non hanno esattamente
corrisposto alle attese sia per l’uso improprio che a
volte se ne è fatto, sia per le loro stesse ambiguità:
entrambi i concetti, infatti, tendono a concentrarsi sul
risultato finale, oscurando il processo. Con il rischio
di ispirare politiche di semplice gestione della marginalità, centrate non sul problema della disuguaglianza
e, quindi, su progetti di emancipazione, quanto piuttosto su un atteggiamento di biasimo sociale verso gli
individui svantaggiati che nasconde problemi sociali
di natura strutturale, neutralizzandone la valenza intrinsecamente politica (Procacci, 2002).
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
Come è noto, tale architettura era basata sull’obiettivo del pieno impiego per i lavoratori maschi
(male breadwinner), con contratti di lavoro indeterminato e a tempo pieno, e definiva una società in cui la
protezione dal rischio era assicurata dall’ingresso nel
lavoro salariato, il quale non prevedeva solo la definizione di una remunerazione per una prestazione di
lavoro, ma anche l’accesso a beni comuni quali
l’istruzione, l’assistenza sanitaria, la copertura pensionistica, ecc., la cui organizzazione ed erogazione
erano funzionali al sostegno e alla riproduzione di
quella figura di lavoratore.
Tale condizione, ovviamente, garantiva l’accesso
indiretto a tali beni per i soggetti esclusi dall’occupazione formale (le donne - per la forte divisione di genere del lavoro esistente in questo modello -, gli anziani, i bambini) e l’accesso al consumo mediante il
salario.
Il passaggio dall’ “antico” regime lavorativo al
nuovo, peraltro non ancora definito, si realizza in un
quadro di forte criticità ed instabilità. Profondi mutamenti investono la cosiddetta proprietà sociale, tali
per cui i beni ad essa afferenti cominciano a spostarsi
sempre più nell’ambito di ciò che deve essere ottenuto attraverso i mercati, con un conseguente impoverimento sostanziale dei lavoratori salariati e di un
potenziamento delle disuguaglianze sociali; la famiglia si trasforma, diventa a doppio reddito, scontrandosi con fattori culturali di resistenza, mentre cambia
la struttura socio-demografica e aumentano i carichi
di cura. A parte tutto questo, acute fibrillazioni si avvertono sul fronte del lavoro.
Progressivamente si assiste (nel nostro Paese,
così come a livello internazionale) alla riduzione delle
forme di lavoro garantito e alla crescita assai rapida
dell’area della precarietà lavorativa, dell’incertezza e
dell’insicurezza sociale. Aumenta l’occupazione a
bassa qualificazione, bassa remunerazione e scarsa
protezione e stabilità; aumenta il numero di lavoratori
atipici. Incertezza e insicurezza si estendono verso le
aree di lavoratori stabili, dipendenti o poco qualificati,
e agli strati intermedi e al ceto medio, prima integrati
e sicuri, che rischiano lo scivolamento verso il basso:
dal 2008 al 2013 in Europa gli occupati sono diminuiti
di 5 milioni di unità (500mila solo in Italia). I tassi di oc-
Le dimensioni citate concorrono a definire la vulnerabilità: tutti questi aspetti possono rappresentare
risorse fondamentali per essere maggiormente protetti dal rischio di disagio, ma possono altresì - all’interno di una visione dinamica - trasformarsi in elementi di vulnerabilità. Indagare su tali indicatori
(sociali, oltre che economici) aiuta a definire la capacità delle persone e delle famiglie di raggiungere un
livello di vita accettabile, in relazione al proprio contesto territoriale, ad individuare fattori di spinta o di resistenza rispetto ai processi di impoverimento.
Il lavoro come fattore di vulnerabilità
Secondo Castel, la vulnerabilità è legata soprattutto alle trasformazioni del lavoro. Per un’associazione come la nostra, questa interazione, le sue dinamiche e i suoi esiti, sono di fondamentale importanza.
Se, infatti, la vulnerabilità e la diffusione dei rischi
possono essere ricondotte alla crisi delle tre grandi
istituzioni su cui si era fondata la sicurezza della società industriale nella fase fordista (mercato del lavoro, famiglia, welfare), allora è di grande rilievo indagare come il lavoro intervenga in tali processi. Si è già
accennato al fatto che nell’epoca citata il lavoro (con
determinate caratteristiche) favoriva un certo modello di famiglia, che poi aveva dato luogo anche ad
aspirazioni e pratiche (specialmente nel campo dei
consumi), e si affiancava ad un modello di welfare assicurativo che garantiva contro i rischi. Poi sono intervenuti i mutamenti della struttura economica, della
struttura demografica, i cambiamenti culturali e comportamentali.
Si realizza un passaggio di regime lavorativo, intendendo con quest’ultimo non solo un modello di divisione del lavoro in senso stretto, bensì un vero e proprio modello di organizzazione sociale, che coinvolge
simultaneamente l’organizzazione della vita quotidiana
degli attori nelle sue diverse articolazioni (lavoro remunerato, lavoro informale, attività non remunerate; ma
anche organizzazione dei tempi sociali, delle forme di
consumo, ecc.) e le forme di protezione sociale ad essa
complementari. Un “regime lavorativo” va infatti inteso
come «un insieme coerente e duraturo di regole di vita
sociale che consente la mobilitazione delle energie lavorative in forme tipiche» (Mingione, 1997).
94
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
perazione, la trasmissione (anche generazionale), la
progettualità, la dimensione collettiva e relazionale
ecc., sono negate e rimosse a vantaggio di forme
sempre più marcate di competizione, prevaricazione,
scarsa valorizzazione, più o meno blando sfruttamento. Le dimensioni profondamente umane del lavoro cedono il passo all’individualismo esasperato,
descrivendo il quadro di un’economia dis-umana, il
cui solo fine e movente rimane il profitto.
Il lavoro, dunque, da fonte di reddito ma anche di
identità e dignità, meccanismo di integrazione sociale che configura i diritti di cittadinanza, si tramuta
sempre più - nella sua versione odierna - in possibile condizione di vulnerabilità. La mancanza del lavoro, ma anche la sua discontinuità e bassa qualità,
si rivela essere uno dei principali fattori di rischio sociale in molte indagini condotte in merito. L’instabilità lavorativa, la precarizzazione dei rapporti di lavoro, l’eventualità di essere poveri malgrado il lavoro
sono percepiti e vissuti come fattori di preoccupazione che influiscono sulla possibilità di progettare
il proprio futuro e compiere scelte di vita importanti. Questa condizione riguarda particolarmente i
giovani, che entrano nel mercato del lavoro con una
precarietà lavorativa che tende a dilatarsi nel tempo,
spesso senza trasformarsi in occupazioni stabili;
ma è anche il caso dei lavoratori over 50 espulsi dal
mercato del lavoro o che rischiano di esserlo e che
faticano a reinserirsi o a riconvertirsi professionalmente; di lavoratori che sono gli unici percettori di
reddito in famiglia, o dei lavoratori immigrati, specie
se donne, occupati in mansioni di cura o a bassa
qualifica.
Le pressioni economiche inducono a non attendere un contratto stabile e ad accettare, spesso,
qualunque condizione, dando luogo a carriere segmentate e incoerenti, che alimentano il circolo vizioso. È facilmente intuibile il peso rappresentato da
tali condizioni nella vita delle persone, che, non a
caso, di fronte a problemi di perdita del lavoro o di rischio conclamato, sviluppano problematiche di ordine psichico, come mostrano molti studi.
cupazione italiani, già distanti dalla media Ue27 prima
della recessione del 2008, si sono così ulteriormente
allontanati.
Per quanto concerne il mercato del lavoro scompare la capacità della quasi piena occupazione e la
difesa dalla disoccupazione: quest’ultima assume i
tratti della lunga durata nel 2013 il 5,1 % della forza
lavoro nell’Europa a 28 era disoccupata da più di un
anno; più della metà di questa (il 2,9 % della forza lavoro), risultava disoccupata da più di due anni. Entrambi i dati fanno registrare un notevole aumento dal
2012, quando erano del 4,7 % e del 2,6 % rispettivamente. La disoccupazione di lunga durata è più
che raddoppiata dal 2008 (in Italia quella di lunga durata rappresenta più della metà della disoccupazione totale)2.
Con l’avvento della crisi la situazione si è ulteriormente aggravata. L’aggiustamento dei mercati del lavoro europei è avvenuto, oltre che con la contrazione
del numero degli occupati, anche attraverso l’espansione dei contratti ad orario ridotto. Contestualmente
si è modificata la propensione a ricorrere al lavoro temporaneo. All’interno dell’occupazione continua a diminuire quella standard (-5,3% tra 2008 e 2012 e -2,3%
nel 2013), mentre aumenta quella a tempo parziale e
atipica (12,3% nel 2013, con contratti per lo più inferiori ad un anno, anche se si ripetono per anni). In crescita anche il part time involontario e gli orari disagiati3. Si definisce un’ampia area di precarietà e di
disagio. Divengono evidenti ovunque le tendenze centrifughe delle «società del lavoro» del capitalismo
avanzato (Kronauer, 2002). Tali meccanismi si riflettono, in primo luogo, sui redditi individuali e familiari,
ma soprattutto aumentano le disuguaglianze sociali,
facendo comparire nuove figure economicamente
vulnerabili pur non essendo escluse dai circuiti del lavoro: i cosiddetti working poor, ovvero lavoratori poco
qualificati ma spesso anche molto qualificati, con
bassi salari e scarse opportunità di migliorare la propria condizione occupazionale.
In generale le qualità intrinseche del lavoro, quelle
alle quali si associa un valore positivo, come la coo-
2 Fonte dei dati: Eurostat.
3 Fonte dei dati: Istat.
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
Se si consente al sistema fondato sul mercato di
procedere indisturbato l’esito sarà molto probabilmente una società sempre più polarizzata dal punto
di vista del reddito. Non più una società caratterizzata
da una stratificazione sociale ampia nella parte centrale come quella industriale tradizionale, con i gruppi
intermedi grandi e gli estremi piccoli. «Bensì una società a “clessidra”. Nel triangolo alto di questa clessidra si collocheranno i ceti sociali ricchi, con famiglie
a doppia carriera in cui l’elevato reddito e l’auto-realizzazione in carriere professionali si intrecceranno. Saranno questi “vincitori” a comprare i servizi dagli strati
che stanno nel triangolo basso della clessidra: i “perdenti” che si arrabattano, mettendo insieme due o più
bassi salari precari, e che non potranno mai fruire dei
servizi che producono. […] Questo modello, non così
dissimile dal modello degli Stati Uniti e non ancora diffuso in Europa, è un modello che produce una forte
polarizzazione sociale. In esso il vertice basso della
clessidra diventa non già luogo di trasmissione e di recupero di diffuse situazioni di benessere e robustezza
economica, ma di riproduzione della precarietà e della
vulnerabilità» (Negri, 2006, p. 18).
Si pone un problema di uguaglianza e, in ultima
istanza, di democrazia. Si pone il problema politico di
cosa sia il diritto alla protezione, perché oggi si sta
realizzando per molti l’assurdo di trovarsi in una condizione subordinata (quella che nel postfordismo garantiva almeno la sicurezza) e di essere costretti ad
assumere rischi. Si pongono, in definitiva, complessi
compiti di regolazione che il mercato da solo non è in
grado di risolvere.
La prospettiva della vulnerabilità sociale e le condizioni lavorative diffuse e prossime all’insostenibilità
possono tuttavia creare la consapevolezza che le
storie di disuguaglianza e marginalizzazione devono
interrogare la sfera pubblica, puntando alla qualità sociale della vita quotidiana, ricreando spazi di confronto e di co-evoluzione tra i gruppi sociali. Guardare
le cose da questo approccio può contribuire ad orientare anche in modo diverso le politiche per contenere
le disuguaglianze nelle società contemporanee. Costruire certezza del primo impiego, corrispondenza fra
ambizioni, competenze e mansioni, continuità lavorativa e contributiva, compensi equi, sono, ad esempio,
Tale passaggio avviene, dunque, all’interno di un
quadro dove desideri ed aspettative suscitate dal
modello precedente entrano in conflitto con la perdita
di opportunità e di condizioni non più garantite dagli
assetti tradizionali. L’area della vulnerabilità sociale
che si viene a creare - con tutte le sue conseguenze
-, in cui il lavoro diviene una delle dimensioni principali, rappresenta “il” problema delle società attuali.
Osservazioni conclusive
L’esperienza di lavoro di milioni di persone negli ultimi anni vive un’invisibilità sociale. Le relazioni che si
sviluppano all’interno del mondo del lavoro non emergono a livello sociale e ciò prelude al silenzio politico
sulla questione.
Tuttavia, la scelta di precarizzare il lavoro è stata
pur sempre una scelta. Non si è generata spontaneamente ma è frutto di decisioni (anche politiche) consapevoli. In Italia la strategia è stata quella dell’abbandono del lavoro stabile, con il proliferare di forme
contrattuali atipiche o che nascondono lavoro subordinato (come le partite iva), unita ad una politica di
contenimento salariale. Per salvare l’economia reale,
quella che produce valore e mette al centro le persone e il lavoro, c’è bisogno di un piano diverso a livello europeo e nazionale. L’impressione è che ci si
continui a basare su un presupposto ideologico, diffuso nei sistemi ultraliberisti e radicato anche negli organismi della governance economica mondiale. Ma
la flessibilità lavorativa, adottata ormai da anni, non
ha prodotto maggiore occupazione. Anche perché
non accompagnata dalla realizzazione delle promesse della flexsecurity. In compenso sono cresciuti
impoverimento e ricattabilità di una parte della popolazione, e si è indebolito il ceto medio gravato da una
sperequazione economica insostenibile dopo anni
di crisi italiana e globale.
Una redistribuzione delle risorse e delle opportunità è essenziale in un Paese in cui il 10% delle famiglie possiede circa la metà della ricchezza nazionale,
operazione che, ove compiuta, definirebbe quale modello di società e quali gruppi sociali intendiamo promuovere. Finora il modello economico dominante ha
prodotto vulnerabilità, se non voluta, almeno come
esternalità negativa di un sistema.
96
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
strategie possibili di riduzione della vulnerabilità. Si
può immaginare sia un altro mondo del lavoro, sia un
altro sistema di welfare che operi in modo da fornire
alle persone - per dirla con Sen - le necessarie capabilities, da dare pari opportunità di partenza. La società stessa può organizzarsi per dare risposte, come
nelle prospettive dei cittadini per il bene comune e del
welfare di comunità.
Non si tratta di vagheggiare il ritorno ad una mitica
quanto improbabile età dell’oro (peraltro densa di
contraddizioni e non più ripetibile), ma di inaugurare
una stagione di uguaglianza, di diritti e di pari opportunità nell’attuale differente contesto, perché questa
è la cifra di una civiltà, e anche le relazioni che si svolgono nel mondo del lavoro contribuiscono a strutturarla e a strutturare la società.
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97
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
FAMIGLIA E LAVORO: FRA VULNERABILITÀ
E OPPORTUNITÀ
Santino Scirè
Vice presidente nazionale Acli, responsabile famiglia
Insomma, i conti si devono fare innanzitutto con il
lavoro che manca o che, quando c’è, assume una
forma sempre più precaria. Ciò genera, prima ancora
di un impoverimento economico e culturale, soprattutto un impoverimento personale e relazionale, creando una grave questione sociale.
Secondariamente, ma i due aspetti sono correlati,
i conti si devono fare con un lavoro spesso privo di
quelle caratteristiche che lo rendono “dignitoso”, faticando a garantire sostentamento, mobilità, creatività
e… libertà. A tal proposito sono parole forti ma condivisibili quelle di Luciano Gallino quando nel sintetico volume Vite rinviate. Lo scandalo del lavoro precario, sostiene che «la flessibilità […] costa rapporti
familiari instabili. Costa fatica fisica e nervosa per il
continuo riadattamento ad un nuovo contesto. Ma
ancor più costa alla persona, per la sensazione rinnovata ogni giorno che la propria esistenza dipenda da
altri. Costa la certezza amara che non è possibile guidare la propria vita come si vorrebbe, o come si
pensa d’aver diritto di fare. Costa la comprensione
che la libertà è alla prova dei fatti una parola priva di
senso».
La dimensione macro della precarietà
e della disoccupazione
In Italia, alcuni hanno un “lavoro normale”; molti
hanno un lavoro flessibile, precario, nero o malpagato; in troppi il lavoro non ce l’hanno. Se è quindi
vero, come afferma Henry Nadel, che “l’esercizio del
lavoro comporta delle costrizioni fisiche, mette in
opera le attività cognitive del lavoratore ma anche i
suoi affetti e la sua psiche personale”, ciò non può
non avere effetti dirompenti sulle relazioni familiari: sul
fare, sul mantenere e sul vivere la famiglia.
In tutta Europa, l’emergenza lavoro, fortemente
sentita già prima del 2008, è stata acuita dall’avvento della crisi. Lo sviluppo e la crescita non ripartono: mentre tra il 2000 e il 2013 i volumi produttivi
mondiali sono cresciuti del 36% e i maggiori profitti
sono finiti in tasca ad un ristretto numero di persone,
l’Italia con un -25,5% è in netta controtendenza, passando, nella classifica dei maggiori produttori del
mondo, dal settimo all’ottavo posto.
Da molti altri noti indicatori emerge che l’Italia, e in
modo ancor più marcato il Mezzogiorno, è un Paese
di vulnerabilità sociale, di disparità e di deficit di cittadinanza.
In tale quadro i consumi stanno precipitando e la disoccupazione continua a salire, mettendo a dura prova
soprattutto le giovani generazioni. Secondo l’Istat, nei
primi tre mesi del 2014 il tasso di disoccupazione è salito al 13,6%, crescendo di circa un punto percentuale
rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Ciò,
ancora una volta, in controtendenza con i dati dell’Eurozona, dove rispetto all’anno precedente sono lievemente diminuiti, passando dal 10,9% al 10,5%. Ma la
situazione è ben peggiore sul fronte giovanile: il tasso
dei senza lavoro tra i 15 e i 24 anni in Italia è ormai arrivato al 46%, nel Mezzogiorno al 60,9%.
La dimensione micro della
disoccupazione e della precarietà
Nell’attuale dibattito psicologico e sociale si sta timidamente inserendo il tema del precariato e della disoccupazione, inteso non solo come condizione lavorativa nella quale l’individuo viene privato delle
sicurezze economiche e contrattuali, ma anche come
stato di malessere psico-fisico che un numero crescente di persone è costretto ad affrontare in conseguenza di un lavoro incerto o assente.
La dimensione psicologica e sociale del precariato
e della disoccupazione è stata infatti fino ad ora sot98
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
migranti. Infatti, da una parte, l’uomo sente di perdere
il suo ruolo di lavoratore; dall’altra, entra in crisi la sua
identità di genere che non è preparata a gestire il
nuovo ruolo imposto, un ruolo “meno maschio”.
Per il genere femminile il problema della disoccupazione è altrettanto doloroso, ma è diverso. Innanzitutto le donne sono più “abituate”, essendo da
sempre, nel mondo del lavoro, relegate ad un ruolo
secondario. Ancora un quarto della popolazione femminile, dopo la nascita dei figli, smette di lavorare. In
secondo luogo, le donne sono maggiormente protette
dal rischio di perdita di autostima in virtù del fatto che
assolvono ad una molteplicità di ruoli (cura della
casa, degli anziani e dei piccoli) che attutiscono il
senso di inutilità. Eppure anche le donne sentono pesantemente la frustrazione di non lavorare. Laddove
abbiano invece un’occupazione, per loro è molto più
difficile conciliare lavoro-famiglia con tutto ciò che ne
consegue: carriera professionale a rischio, violenze
sui posti di lavoro (da quelle fisiche alla folle richiesta
di firmare in bianco il proprio licenziamento in caso di
gravidanza) e gap salariale. Eppure, secondo i risultati di diversi studi sulla womenomics2 (neologismo
che definisce la teoria economica secondo cui il lavoro delle donne è oggi il più importante motore di
sviluppo), una maggiore occupazione femminile potrebbe accelerare, per diversi motivi, l’uscita dalla
crisi; più in particolare, secondo la Banca d’Italia, se
l’occupazione femminile raggiungesse in Italia il 60%
auspicato dal Trattato di Lisbona (invece dell’attuale
47%) il Pil del Paese aumenterebbe del 7%.
La situazione non è migliore per chi un lavoro ce
l’ha ma è precario: secondo un’indagine del 2010
condotta dall’Eurodap (Associazione europea disturbi
da attacchi di panico), su 300 persone (25-55 anni), il
70% ha dichiarato di trovare sul posto di lavoro la
maggiore fonte di stress. Di questi, il 60% teme i colleghi mentre il 40% si definisce “assoggettato al capo”
per paura di essere licenziato. L’aria che si respira nei
luoghi di lavoro è dunque pesante e conflittuale, seppure spesso in maniera carsica e non espressa. Ciò fa
tovalutata da una parte consistente di legislatori, incapaci di comprendere gli effetti che si determinano
quando un individuo non intravede un futuro per sé
e per la propria famiglia. Eppure, i mass media raccontano quotidianamente i suicidi e i gesti disperati
di disoccupati, precari e piccoli imprenditori che non
riescono a stare dietro alle attuali leggi di mercato che
fanno sopravvivere solo la macro-finanza e le grandi
multinazionali.
Secondo Duncan Gallie che ha condotto nei Paesi
dell’UE la ricerca Resisting marginalization - Unemployment experience and social policy in the European Union, restare privo di lavoro, non averlo o veder fallire la propria azienda è come “perdere il vestito
che si porta abitualmente”. In queste situazioni si
tende a riflettere sul perché di questa perdita, su chi
potrebbe avere la colpa e sulle prospettive future. Le
domande che il disoccupato si pone coinvolgono in
gran parte la propria identità in un vortice di smarrimento e rabbia. Il disoccupato necessita di molte informazioni su questo suo nuovo “io”, ma quasi mai
riesce a trovarle.
Da un punto di vista economico, ma soprattutto
psicologico, il disoccupato vive una condizione di
“dipendenza costretta” che lo rende vulnerabile di
fronte agli altri. Tutto ciò comporta un aumento di angoscia e collera che talvolta viene sfogata sull’”altro”1, talaltre su se stessi: dipende dalla personalità
delle singole persone, dal contesto in cui si vive e dal
genere.
Dal II Rapporto EURES Il suicidio in Italia al tempo
della crisi (2012), è emerso che l’incidenza dei suicidi
maschili è del 78,5% contro il 21,5% di quelli femminili. Tale differenza di genere ha una spiegazione fortemente culturale. Infatti, l’idea che sia l’uomo ad
avere il ruolo del breadwinner è ancora molto radicata. Tutto ciò nonostante si parli da anni di pari opportunità, dentro e fuori il mondo del lavoro. Scambiare i ruoli in famiglia crea ancora oggi molti conflitti,
generando un aumento di fenomeni di violenza domestica, tanto nelle famiglie italiane, quanto in quelle
1 Numerosi sono i fatti di cronaca nera che hanno come protagonisti vittime ignare come il caso del carabiniere di Montecitorio ferito da Luigi
Preiti o il sindaco di Mondragone minacciato con un coltello da Massimo Cirillo.
2 Cfr. Maurizio Ferrera, Il fattore D, Mondadori, Milano, 2008
99
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
sì che nel luogo del lavoro ci si trovi a portare avanti
una duplice battaglia: quella contro i colleghi che vengono percepiti come figure ostili da cui difendersi, anziché figure positive con cui collaborare; quella con se
stessi, cercando di mettersi continuamente in mostra
per apparire “buoni lavoratori”, meritevoli di avere un
prolungamento del contratto o nei casi più fortunati il
contratto a tempo indeterminato.
Inoltre, nel lungo periodo lo stato psico-fisico del
precario depotenzia le sue risorse nel cercare nuove
o alternative strade alla situazione che si è venuta a
creare. Ciò significa che il precario/disoccupato, che
deve continuamente rivedere i propri percorsi di attese, bisogni e desideri - inserendoli in una cornice
strettamente quotidiana, quindi elementare -, rischia
di non trovare più la forza per cogliere le opportunità
di crescita e di non vedere più un proprio spazio entro cui costruire un progetto esistenziale di ampio respiro. Insomma, lo spazio vitale dentro cui il precario
dà forma e corpo alla propria vita, diventa estremamente angusto, privo di stimoli e di fiducia.
Il sociologo francese Alain Ehrenberg, nel suo libro
La fatica di essere se stessi, in cui cerca di analizzare
le ragioni dell’aumento della depressione della nostra
epoca, ipotizza che è proprio l’attuale mercato del lavoro che, mettendo continuamente alla prova i lavoratori, ne rende difficile la gestione delle emozioni. Se
nel passato, infatti, il cittadino entrava nel mondo
del lavoro e faceva ingresso nella vita del Paese, attraverso specifici e rituali passaggi che avvenivano
nell’arco di una vita (formazione, lavoro, pensionamento), nella nostra epoca tutte queste fasi sono
fuse e a-temporali: formazione e lavoro si mescolano
e rimescolano continuamente e l’individuo è costretto
a cambiare registro e mettersi alla prova quotidianamente. In tale quadro, secondo Daniela Casciaro ci
troveremmo di “fronte ad un mutamento nelle modalità di strutturazione dell’io”3 che fa sì che le persone,
per riuscire a governare emotivamente le continue
frustrazioni provenienti dai continui cambiamenti, si
costruiscono molteplici personalità, dividendo l’io
anziché ricercare un’unità armonica.
È facile che le battaglie interiori dei
disoccupati/precari provochino una crescente intolleranza nei confronti dell’incertezza e un carico di rancore e aggressività che i più tentano di reprimere
nell’ambiente di lavoro ma che di fatto sfogano nelle
relazioni della sfera affettiva, familiare e amicale.
In particolare, questi momenti di smarrimento tendono a essere sfogati proprio all’interno della vita di
coppia e della famiglia, soprattutto nei nuclei con figli, dove il senso di perdita di autorità, dovuto alla
consapevolezza delle privazioni che la situazione del
disoccupato o del precario ha portato ai figli e alla
moglie (soprattutto laddove ci siano figli adolescenti),
assume un significato molto particolare.
Ma la flessibilità dell’attuale mondo del lavoro ha
un impatto sulla famiglia anche da un altro punto di
vista: fare famiglia mal si concilia con il concetto di instabilità, in quanto il lavoro può essere intermittente,
la vita no. Nel nostro Paese la famiglia rischia di diventare una trappola per quell’alta percentuale di
giovani che continua a vivere in casa dei genitori
come in nessun altro Paese europeo. Interessante è
il dato del Rapporto Annuale Famiglie Lavoro del
2013, sulla composizione percentuale dei giovani
(20-29 anni) che vivono con coppie di genitori: ben il
40,7% ha un’occupazione e il 14,7% è in cerca di occupazione, il 13% è inattivo non studente, il 31% è
inattivo studente. In questa mutazione di composizione familiare sono coinvolti i giovani che non acquisiranno mai l’autonomia, ma anche i genitori che si
preoccupano della mancanza di prospettive per i loro
figli e che sono costretti a cimentarsi con nuove dinamiche relazionali derivanti dalla compresenza di
due generazioni di adulti che convivono sotto lo
stesso tetto.
Nella letteratura sulla famiglia è dimostrato come
le dinamiche delle relazioni familiari possano essere
influenzate da un ambiente sociale più o meno favorevole. Di fronte a pressioni esterne sfavorevoli le relazioni familiari possono prendere due strade: lo sfaldamento, o al contrario, il rafforzamento.
In questo senso, la famiglia è definita da Eugenia
3 Cfr. http://news.biancolavoro.it
100
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
Scabini come “un’organizzazione complessa di relazioni di parentela che ha una storia e che crea una
storia”. La famiglia si presenta, infatti, come un piccolo gruppo caratterizzato da una storia passata,
che nel tempo si trasforma in base ad eventi esogeni
(contesto), e endogeni (cambiamenti dei componenti
familiari). Nel corso del ciclo di vita familiare si affrontano dunque eventi critici, che producono stress sui
singoli e richiedono una ristrutturazione continua
della famiglia. Secondo l’autrice gli eventi critici possono essere normativi quando sono prevedibili (nascita, uscita dal nido dei figli, pensionamento, ecc.) o
paranormativi, quando sono imprevedibili (fattori
stressanti psicosociali e ambientali). Questi ultimi
sono altamente logoranti e creano un elevato grado
di scompiglio nella famiglia, proprio per l’eccezionalità e la traumaticità dell’evento. Tra gli eventi stressanti imprevedibili della storia familiare sono stati
identificati dalla quarta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi Mentali diversi problemi legati al mondo del lavoro come la disoccupazione, la precarietà; l’orario di lavoro stressante; le
condizioni di lavoro difficili; l’insoddisfazione per il lavoro; il cambiamento di lavoro; il disaccordo coi superiori o con i colleghi. Ebbene, quando questi ultimi
avvengono frequentemente e su un’ampia fetta della
popolazione, gli effetti sulla società possono essere
dirompenti.
La precarietà della condizione professionale dei
giovani, per esempio, comporta anche una precarietà degli affetti. Oggi legarsi sentimentalmente a
qualcuno è facile, molto più difficile è rendere stabile
la relazione, proprio perché spesso non ci sono prospettive economiche accettabili a partire dalle quali è
possibile pensare di fondare un futuro solido e sereno.
Tutto ciò ha ovviamente un impatto sulla società: l’inverno demografico italiano è sempre più lungo e rigido, avendo uno dei tassi di natalità più bassi del
mondo (1,42 figli per donna) e uno dei più alti gap tra
figli desiderati (2,1) e figli effettivamente avuti.
Come afferma Annalisa Murgia4, rispetto alla stabilità e serenità della coppia, diventa particolarmente
interessante prendere in considerazione anche la
questione spazio/tempo: «la discussione sulla temporalità non può essere disgiunta dalla comprensione
dell’incessante alternarsi quotidiano di presenze e assenze nello spazio da parte degli individui e delle collettività, che si muovono in una miriade di traiettorie
spazio-temporali». Infatti, uno dei cambiamenti più
importanti del lavoro contemporaneo è proprio quello
legato alla destrutturazione degli orari di lavoro, che
non comporta, come si tende falsamente ad affermare, una riduzione di orario, quanto piuttosto un’intensificazione e densificazione5 dello stesso, con un
impatto devastante sull’organizzazione della vita familiare6.
Questa a-temporalità e a-spazialità cambia le relazioni in famiglia, ma anche all’esterno, in quanto i diversi attori (colleghi, sindacati, associazioni) che le
persone incontrano nella loro vita diventano spesso
meteore o tutt’al più assumono contorni liquidi: si incontrano tanti attori quante sono le realtà lavorative
(moltissimi, ma anche nessuno); le relazioni, quindi,
non hanno tempo e spazio sufficienti per strutturarsi
e liberare energie positive.
Per un nuovo umanesimo del lavoro
e delle relazioni
L’impressione è che ben poco si stia facendo in direzione di un reale cambiamento; si discutono varie
proposte ma intanto, a livello macroeconomico, l’impianto generale non cambia: il volume finanziario eccede sempre di molto il volume dell’economia reale
e non sono ancora a regime strumenti e regole davvero efficaci per contrastare l’eventualità di un’altra
grande fibrillazione.
Un ripensamento dei paradigmi può portare a soluzioni adeguate ai tempi nuovi. Ci vuole un cambiamento culturale ancor prima che interventi diretti. Si
intuisce che bisogna tornare a condividere un pro-
4 Cfr. Annalisa Murgia, tesi di dottorato, Dalla precarietà lavorativa alla precarietà sociale, 2008.
5 Cfr. Luciano Gallino, ll costo umano della flessibilità, Laterza, Bari, 2001.
6 Ciò accade perché il lavoratore rimane connesso ai propri dispositivi tecnologici anche dopo lʼorario di lavoro generando unʼintrusione continua
fra mondo del lavoro e famiglia.
101
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
getto collettivo di Paese e di società, nel quale iscrivere il lavoro quale ambito fondamentale. Occorre
gettare le basi per un nuovo umanesimo del lavoro
costruito attraverso l’impegno della persona e la cooperazione di tutti gli attori in gioco: Stato, imprese, lavoratori, parti sociali, società civile. Serve soprattutto che la politica (nel senso più alto del termine)
torni ad elaborare una visione, orientando l’attività
economica verso le relazioni e il bene comune.
La vita sociale per l’individuo è qualcosa di essenziale, legato alla sua natura umana. Essa può essere
correttamente compresa solo se la si pensa come relazione. Di conseguenza essa trova le sue radici non
nell’efficienza, ma nell’eticità. Nessuno di noi esisterebbe se qualcuno non si fosse preso cura di noi. La
stessa dinamica dello sviluppo personale e sociale è
risposta alle provocazioni che si ricevono dall’esterno.
Vi è qui una certa fondazione etica della vita sociale.
In quanto sono valori sociali quelli che permettono e
favoriscono le relazioni. È il principio dell’interazione
in base al quale un attore sociale produce sempre
qualche cosa di concreto, che costituisce un riflesso
delle sue relazioni con gli altri.
L’attuale assetto economico ha creato un mondo
ad alto rischio: crack finanziari, disoccupazione,
fame; crisi della distribuzione, del clima, dell’energia, del consumo, dei valori, della democrazia. Tutte
queste crisi sono legate tra di loro da un filo comune: la ricerca del profitto e la competizione. Quest’unica motivazione promuove un comportamento
egoista e spietato che distrugge i rapporti umani,
minacciando la pace mentale, sociale, ed ecologica. L’economia potrebbe invece operare in maniera umana ed anche più efficiente. In questo senso
si può parlare di un nuovo modello di sviluppo che
mette al centro la persona in relazione. L’economia
del bene comune condivide e valorizza le stesse
qualità comportamentali e gli stessi valori che rendono i rapporti umani ed ecologici soddisfacenti: fiducia, rispetto, cooperazione, solidarietà, condivisione. Il sistema del mercato libero si ispira invece
alla mera ricerca del guadagno “senza se e senza
ma” favorendo l’egoismo, l’avidità, la mancanza di
rispetto e di responsabilità. Non è solo un difetto
estetico ma in un mondo complesso e multivalente
è una catastrofe culturale che divide le persone e la
società nel profondo e in maniera corrosiva, minando i valori che sono le fondamenta dell’umana
convivenza. In base ai valori si impostano gli obiettivi e si orientano le azioni. In questo senso, occorre
un cambio di prospettiva, un ri-orientamento dello
sviluppo che faccia della qualità sociale, della sostenibilità ambientale, della valorizzazione delle risorse
immateriali, della logica bottom-up e partecipativa i
suoi punti di forza e una risorsa per innovare radicalmente il modello attuale. In tale orientamento assume un’importanza fondamentale scendere sul
piano micro-sociale. È ormai chiaro che la deregolamentazione del lavoro non ha ridotto i tassi di disoccupazione giovanile, né ha migliorato la situazione
economica delle persone. Anzi, ci troviamo di fronte
ad una segmentazione del mercato ancora più marcata, che ha prodotto ulteriori disuguaglianze, a
danno, soprattutto, dei giovani e delle donne.
La storia di una persona non è tracciata soltanto
nel solco della sua biografia, ma anche in quello della
società e delle istituzioni in cui vive. Attualmente il
contesto di lavoro italiano richiede flessibilità ma non
offre un welfare capace di proteggere le persone e le
loro famiglie dai momenti di difficoltà che essa produce. Ecco perché occorre che la politica riparta dall’individuo, non pensando semplicemente ad una gestione burocratica del disoccupato quanto piuttosto
alla dimensione umana delle persone, sviluppando
misure e politiche del lavoro capaci di incidere sugli
svantaggi di questo mercato e, in modo più generico,
sull’esclusione sociale. Il passaggio dal “mercato” al
“mondo” del lavoro è possibile se i legislatori avranno
la capacità di prestare attenzione non solo agli uomini
e alle donne in quanto lavoratori, quanto piuttosto ai
diritti di cittadinanza che dovrebbero essere loro riconosciuti, a prescindere dalla loro presenza o meno nel
mondo del lavoro.
Come al solito è una questione di scelte. Quale
modello di società vogliamo: un modello basato sulla
rendita o sul lavoro? Un modello in cui si alimentano
i grandi capitali a vantaggio di poche persone, con relazioni improntate unicamente al profitto o una società in cui il lavoro, in quanto giusto e dignitoso, crea
un valore aggiunto nella famiglia e nella società?
102
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
BIBLIOGRAFIA
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103
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
SINDACATI IN EUROPA
di Simonetta de Fazi
Parlare delle diverse strategie di azione delle organizzazioni sindacali in Europa, vuol dire necessariamente parlare dei diversi modelli di relazioni industriali
entro cui quelle si inseriscono e si sviluppano. E dunque, del quadro sociale, politico e istituzionale dei diversi Paesi. Vuol dire poi - inevitabilmente - inserire
tutto dentro il contesto più ampio dello spazio europeo e nella congerie di trasformazioni che una inarrestabile crisi economica ci ha consegnato.
I sempre più allarmanti dati sulla disoccupazione,
la straordinaria accelerazione dei processi di globalizzazione con i conseguenti flussi migratori, l’avanzare della precarizzazione del lavoro che non risparmia niente e nessuno, l’indebolimento dello stato
sociale… sono realtà a tutti note. A fronte delle quali,
assistiamo ad una progressiva riduzione del ruolo
dei sindacati1 e insieme degli stati nazionali.
Il trionfo delle dottrine neoliberiste che dagli anni
’80 ad oggi - senza soluzione di continuità - ha assegnato il primato delle ragioni di mercato sui diritti e la
politica, hanno profondamente mutato la dinamica
delle relazioni industriali, di cui - per fare appello ad
una esperienza nota - la “vicenda Fiat” è stata, nel nostro Paese ma non solo, grandemente emblematica2.
Nel nostro Paese si torna a parlare di lavoro - non
solo di quello che non c’è - di diritto del lavoro, di par-
tecipazione e di rappresentanza, di dialogo sociale e
di democrazia. E si impone con urgenza ineludibile la
necessità di ri-pensare - insieme ad un nuovo modello
di sviluppo - nuove forme di tutela e nuovi, più sistemici e solidali, modelli sociali, adeguati al venir meno
di riferimenti ideal-tipici di epoca fordista e keynesiana.
Fino ad una ventina di anni fa, infatti, il lavoro ha
rappresentato la molla per sviluppare titolarità e esercizio dei diritti sociali, ovvero ha funzionato - sostanzialmente e non formalmente - da fondamento della
cittadinanza. Il nesso tra lavoro e cittadinanza, tra lavoro e diritti, basato su un “modello di lavoratore”3,
oggi residuale, è allo stato attuale saltato. A questo
salto - così radicale e definitivo - iscritto nell’esperienza concreta e quotidiana di uomini e donne al lavoro non è corrisposto un conseguente adeguamento
dei sistemi di protezione sociale, un nuovo modello
di cittadinanza e di rappresentanza, e perfino una riscrittura del diritto del lavoro, a livello nazionale e quantomeno - europeo.
La tenuta di alcuni Paesi - per tutti, la Germania e
la Svezia - a fronte delle crisi economica pure comune, ha fatto sì che si tornasse a guardare ad altri
e diversi modelli di relazioni industriali e di organizzazione sindacale.
Molto si è parlato del “modello tedesco”, anche in
ragione delle straordinarie performance che occupa-
1 Si tratta di una rappresentatività non solo legata ai “numeri”, ma certo a quelli non indifferente, dato che negli ultimi venticinque anni il sindacato ha subito in tutto il mondo più industrializzato una consistente riduzione della sua rappresentatività sociale di cui sono prova i saldi negativi sui tassi di sindacalizzazione rilevati dalle statistiche internazionali e dagli studi comparati.
2 Fiumi di inchiostro sono stati scritti sulla vicenda, ciò che qui è importante rilevare è quanto le implicazioni degli accordi FIAT di Pomigliano e
Mirafiori, pur condizionate da alcune specificità, vadano oltre le particolarità del contesto italiano perché “investono la capacità di tutti i sistemi
contrattuali e sindacali, costruiti in contesti nazionali e sostenuti da attori pure nazionali, di funzionare nel contesto dei mercati globalizzati e di
reggere le pressioni che tale nuovo contesto esercita sugli attori del sistema, le parti sociali e lo stato nazionale... Nel contempo si sono moltiplicati i segnali di criticità degli stessi sistemi, a cominciare dalle spinte al decentramento delle strutture contrattuali e dalla rottura dei quadri di regolazione nazionale in molti ordinamenti europei, emblematizzati dai contratti di concessione e dalle clausole in deroga…” (Tiziano Treu, “Le relazioni industriali nellʼera della globalizzazione: gli accordi in deroga in Europa e la sfida ai sistemi contrattuali”, in Rassegna sindacale, 2011).
3 Salariato, maschio, adulto, assunto con contratto a tempo pieno e indeterminato, per lo più tutta la vita nella stessa organizzazione.
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IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
zione e sviluppo hanno avuto in Germania, mentre il
resto dell’Europa - con qualche rara eccezione nei
Paesi nordici - precipitava nella recessione o in qualcosa ad essa molto simile.
Andiamo dunque a vedere i due modelli di relazioni
industriali che in Europa hanno “resistito” alla crisi, per
conoscerne le caratteristiche, le condizioni di realizzabilità e gli eventuali elementi di riproducibilità.
Modelli di relazioni industriali
e di organizzazioni sindacali
in Germania e in Svezia
riferimento cioè ai lavoratori iscritti ad un sindacato all’interno dell’impresa; l’altro di tipo elettivo, con riferimento a tutti i lavoratori dell’impresa, siano essi
iscritti o meno al sindacato.
La rappresentanza di tipo associativo ha normalmente una funzione di contrattazione a livello aziendale; mentre la rappresentanza di tipo elettivo ha soprattutto compiti di informazione e consultazione in
determinate materie.
Germania
A grandi linee, si possono individuare almeno due
diverse tipologie sindacali nazionali in base ai riferimenti prevalenti. Si parla allora di “sindacalismo di
origine ideologica”, rispetto alle ideologie politiche (liberale, socialista, cristiana), come è ad esempio il
caso di Italia e Francia. C’è poi un sindacalismo nato
in riferimento alla controparte, di tipo contrattualista,
detto anche “di mestiere”, come quello che si è sviluppato nel Regno Unito.
Essenzialmente le relazioni tra le parti sociali nell’UE fanno riferimento a due modelli, anche se variamente nominati:
- il modello conflittuale (o pluralistico-conflittuale o
della corporate governance), di matrice anglosassone - e con sue proprie caratteristiche - diffuso nei Paesi latini e anche in Italia, anche se qui
negli ultimi anni ha ceduto il passo o convissuto
con il modello concertativo;
- e il modello partecipativo o della co-gestione, diffuso in Germania, nei Paesi scandinavi e in alcuni
del nord Europa.
Naturalmente, sia le tipologie che i modelli - facendo riferimento a tipizzazioni - non si presentano
quasi mai “puri”. Lo stesso vale per i due sistemi monistico e duale - attraverso cui prende forma la
rappresentanza sindacale.
Il modello del canale unico implica la presenza di
una sola forma di rappresentanza dei lavoratori all’interno dell’impresa; il modello duale invece implica la
presenza di due canali: uno di tipo associativo, con
In Germania ci sono circa 7,4 milioni di lavoratori
iscritti al sindacato, il 19% dei lavoratori del paese, un
dato che dall’inizio degli anni novanta è crollato, con
un calo di quasi 5 milioni di iscritti. La principale confederazione sindacale è la DGB (Deutscher Gewerkschaftsbund), che attraverso i suoi 8 sindacati di categoria rappresenta 6,15 milioni di iscritti, ovvero
l’80% dei lavoratori sindacalizzati, la gran parte dei
quali provenienti dal settore metalmeccanico4.
Il sistema tedesco è a doppio canale: sono dunque
previste forme di rappresentanza diretta dei lavoratori
(Betriebsrat, comitati aziendali) in ogni azienda con più
di 5 dipendenti.
I Betriebsrat godono di diversi diritti e hanno delle
funzioni specifiche rispetto alle rappresentanze sindacali. Essi svolgono un ruolo di confronto costante con
l’azienda, godendo di diversi diritti di co-determinazione, nonché di consultazione e di informazione. È
proprio la co-determinazione (Mitbestimmung) a costituire il cuore del “modello tedesco”, basato sulla
negoziazione e cooperazione tra le parti.
Il concetto di co-determinazione in Germania è
stato introdotto già a partire dal 1951 a seguito di un
referendum proposto dalla DGB che mise in luce
come il 95% dei lavoratori del settore siderurgico e minerario erano disposti a scioperare per ottenere diritti
di codeterminazione. Il governo fu così costretto ad intervenire introducendo per legge alcuni meccanismi
che permettessero una partecipazione diretta dei lavoratori alle scelte aziendali. Il modello di governance
delle imprese retto dalla Mitbestimmung non implica
4 La fonte utilizzata, rispetto ai dati e alla struttura organizzativa sindacale qui riportati, è il Dipartimento Internazionale della Cgil Lombardia.
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
che i rappresentanti dei lavoratori co-gestiscano l’impresa - come spesso impropriamente si legge - ma
che certi progetti debbano avere il loro consenso.
Questo processo di partecipazione dei lavoratori alle
decisioni dell’impresa passa per due canali principali:
i comitati aziendali e la presenza di rappresentanti dei
lavoratori negli organismi dirigenti delle società. Questo secondo pilastro è la vera specificità del modello
tedesco. In Germania, infatti, tutte le grandi imprese
sono dotate di un consiglio di sorveglianza e di comitato di direzione, in cui siedono tanto i dirigenti dell’impresa quanto i rappresentanti dei lavoratori, che hanno
così la possibilità di incidere sulle decisioni aziendali
e di controllare l’operato del management. In linea generale, la misura di partecipazione dei lavoratori al board delle imprese è variabile dal 50% al 33%.
Come molti analisti hanno evidenziato, i lavoratori
e i sindacati hanno un potere limitato e minoritario rispetto a quello della proprietà, tuttavia possono esercitare un vero controllo dal basso in termini di informazione e di consultazione e il loro diritto di veto importantissimo nei casi di localizzazioni all’estero,
chiusure di impianti, fusioni e acquisizioni aziendali è effettivo.
La contrattazione collettiva, regolata per legge, è
compito specifico delle rappresentanze sindacali e registra un tasso di copertura del 62% dei lavoratori del
paese. Sono previsti due diversi tipi di contrattazione: salariale, che è quella più diffusa, e normativa,
che stabilisce il numero delle ore di lavoro, il sistema
dei benefit e le misure sociali che l’azienda deve garantire ai suoi dipendenti.
La legge sulla contrattazione collettiva del 1969,
oltre ai termini e alle condizioni entro cui il sindacato
e le organizzazioni datoriali possono agire, stabilisce
i periodi in cui è possibile scioperare, ovvero il periodo
di pace sindacale da osservare durante la fase di negoziazione degli accordi.
Il dibattito sulla partecipazione dei lavoratori all’impresa, la democrazia industriale e la democrazia economica.
La confindustria tedesca tenta costantemente di
restringere la co-determinazione, affermando che
frena la competizione5. Smentita da una recente ricerca condotta dall’Etui (European Trade Union Institute) - che confronta le performance di Paesi che
hanno adottato forme di co-gestione e quelle di Paesi
che ne sono privi, assegnando solo ai primi il raggiungimento dei cinque principali obiettivi del programma
Europa 2020. La questione sembra trovare ulteriori
smentite. Da una parte la Germania è riuscita ad incrementare la capacità competitiva sul mercato mondiale, imponendo strategie di politica industriale basate sull’esportazione, ciò è dovuto proprio al modello
di condivisione grazie al quale lavoratori e sindacati
collaborano allo sviluppo dell’impresa.
D’altra parte, questo modello ha caratterizzato la
Germania anche su un altro versante del mercato del
lavoro. Se nel 2006 la Commissione europea ha inteso rispondere alle sfide del XXI secolo “modernizzando il diritto del lavoro” e proponendo la flexicurity
come chiave di volta di quel processo, il modello seguito dalla Germania è stato affatto particolare: «ha infatti scelto di puntare non sulla flessibilità “ai margini”
e/o “in uscita”, nell’ottica dell’adeguamento numerico
della forza-lavoro al fluttuare delle esigenze produttive, ma sulla flessibilità nell’ambito del rapporto standard, al fine di assecondare sì l’adattamento quantitativo e/o qualitativo della forza-lavoro ma, al
contempo, anche di mantenere saldo il legame tra lavoratori e imprese, valorizzando il capitale umano.
Non è dunque il continuo turnover dei lavoratori, ma
le modifiche di contenuto della relazione contrattuale
in essere che permette all’impresa di adattarsi alle
mutevoli richieste del mercato»6.
Si tratta dunque di un modello con luci e ombre,
in cui le possibilità non riescono ad esprimersi compiutamente e diffusamente, con il rischio che si moltiplichino invece fenomeni di «dumping sociale e la
formazione di aristocrazie operaie contrapposte al resto del mondo del lavoro nel continente» (Alfonso,
2013).
5 La Confindustria italiana, nellʼaudizione alla Camera dei Deputati del 20/06/2012, ha sottolineato “il fermo dissenso rispetto alla previsione in
materia di “democrazia economica” e “assolutamente contraria ad ogni imposizione per legge di forme di cogestione o codecisione…”.
6 Maria Teresa Carinci, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi, wp.
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IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
Un modello che fa dire a Bernadette Ségol, Segretaria generale della CES (Confederazione europea dei
sindacati), che «se la Germania ha resistito meglio rispetto ad altri paesi è perché il suo sistema di contrattazione funziona… Non vogliamo però un sistema che
precarizzi l’occupazione come è accaduto in Germania. Siamo interessati invece al suo modello di dialogo
e di contrattazione, dal quale vogliamo prendere esempio…»7. Al modello tedesco della co-gestione si fa
dunque riferimento e quasi appello per rispondere alla
domanda di “democrazia industriale” e di “democrazia economica” che oggi più che mai sembra necessaria all’Europa - e agli stati nazionali - per uscire dalla
crisi. Torna in campo la partecipazione dei lavoratori
come elemento strategico, ma anche come garanzia
democratica dei processi di sviluppo. Si tratta di un dibattito assai ampio che parte dalla contraddizione tra
“la volatilità del capitale e la stanzialità del lavoro”, fino
ad interrogare il ruolo e i meccanismi di governance
dell’Unione europea, l’azione suppletiva e però impositiva delle Corte di Giustizia, accusata da molti di far
sì che - in materia di lavoro - la legge dell’impresa sopravanzi e mortifichi quelle degli Stati nazionali e, con
ciò, metta in atto la “liquidazione” del modello sociale
europeo. Economia senza democrazia?
Svezia
La realtà svedese ben si presta a rendere evidente quanto i modelli di co-gestione siano nati - e
presuppongono per il loro funzionamento - all’interno di sistemi istituzionali orientati “al contenimento
delle disuguaglianze sociali e alla moderazione del
conflitto sociale in nome di un’idea condivisa di interesse generale”, tanto che, a proposito della Svezia,
si parla di “democrazia economica”.
Autonomia delle parti sociali, partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali, politiche attive del lavoro
e a sostegno della famiglia, un forte e universalistico
sistema di sicurezza sociale sono gli ingredienti alla
base del modello svedese.
All’interno del sistema di relazioni industriali questo modello determina: monopolio della rappresen-
tanza associativa degli interessi, alti livelli di affiliazione, centralizzazione delle politiche contrattuali,
solidi legami fra associazioni degli interessi e partiti
politici, orientamento cooperativo fra le parti, poteri
sindacali di co-determinazione nei luoghi di lavoro
(sanciti per legge nel 1976).
L’essere il sindacato un soggetto centrale nello sviluppo dello stato sociale ha fatto sì che i lavoratori in
Svezia godano di alcune tra le più alte prestazioni al
mondo in termini di ferie, assistenza sanitaria, tutela
dell’occupazione e formazione continua.
I tassi di sindacalizzazione sono molto elevati: con
il 70,4% la Svezia è il paese con il tasso più elevato
d’Europa dopo la Finlandia.
Non è però solo la bontà del modello a determinare la misura dell’affiliazione sindacale. In Svezia infatti si iscrivono al sindacato non solo i lavoratori, ma
anche gli studenti e le persone in cerca di lavoro. Ciò
è dovuto in buona sostanza al fatto che nel Paese
vige il cosiddetto sistema Ghent, ovvero un meccanismo che consente al sindacato di gestire i fondi per
l’assicurazione contro la disoccupazione.
Questa modalità di gestione degli ammortizzatori
sociali prende il nome dalla cittadina belga dove, già
a partire dal 1901, venne introdotta per la prima volta.
Tale meccanismo vige tuttora in Belgio oltre che in
Danimarca e Finlandia. Questi paesi, sono gli unici in
Europa che, negli ultimi tempi, hanno visto accrescere
il numero degli iscritti al sindacato, in quanto il sistema Ghent incentiva fortemente l’iscrizione sindacale, specialmente nei periodi dove aumenta il rischio per i lavoratori di perdere la propria
occupazione.
Dal 1934 i sindacati svedesi amministrano una
quarantina di fondi assicurativi contro la disoccupazione, finanziati pressoché integralmente dallo Stato.
Il tasso di rimpiazzo del reddito è oggi del 75%; era
del 90% fino al 1993. Coloro che decidono di prendere la tessera sindacale vengono automaticamente
iscritti a uno dei fondi assicurativi contro la disoccupazione, le cui provvidenze sono accessibili previa
osservanza di alcuni obblighi, come iscriversi al col-
7 Intervento al Congresso nazionale della CGIL, 6 maggio 2014.
107
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
locamento e rendersi disponibili a definire con essi
piani di riqualificazione e reinserimento lavorativo.
Tre sono le principali confederazioni sindacali, costituite su base occupazionale e professionale, che si
rivolgono a tipologie di iscritti ben distinti: operai,
“colletti bianchi” e professionisti.
La più grande centrale sindacale del paese è la
Confederazione dei sindacati svedesi (LO, Landsorganisationen i Sverige), che raggruppa 14 organizzazioni sindacali e rappresenta 1.502.285 lavoratori
manuali, ha avuto fino a pochi anni fa e per quasi
cento anni - come alcune Unions inglesi - uno strettissimo rapporto con il partito social-democratico
svedese, con il quale vigeva un regime di doppia affiliazione.
La legge sulla codeterminazione (Medbestämmandelagen, MBL) è il principale strumento normativo a
garanzia della partecipazione dei lavoratori alla vita
aziendale.
La legge prevede che il datore di lavoro possa introdurre cambiamenti nella struttura societaria solo
dopo aver avviato i negoziati con la rappresentanza
sindacale. Stesso discorso vale per ogni tipo di decisione relativa alla determinazione delle condizioni di
lavoro e al caso di licenziamenti collettivi. L’azienda
è inoltre obbligata ad informare periodicamente le
rappresentanze sindacali rispetto alla situazione finanziaria aziendale e sulle linee guida di politica del
personale.
La contrattazione collettiva in Svezia ha un ruolo
cruciale nella regolazione del mercato del lavoro e un
tasso di copertura che si aggira intorno all’88% dei
lavoratori. L’idea di fondo è che le parti sociali siano
in grado di regolare in maniera autonoma le condizioni
di lavoro attraverso la contrattazione collettiva. Per
questa ragione le relazioni tripartite non sono sviluppate. L’attore governativo ha solo un ruolo di garante non traduce i contratti in legislazione, come invece è prassi in molti altri Paesi.
Sistema Ghent: condizioni e rischi
Il coinvolgimento del sindacato nella gestione di un
istituto fondamentale di welfare come l’assicurazione
contro la disoccupazione - osservano molti analisti conferisce ai sindacati indubitabili rendite di posi-
zione, esponendoli al contempo a qualche rischio di
ordine sia politico che associativo. Il rischio che l’elevato grado di istituzionalizzazione possa portare a
forme di svuotamento e di burocratizzazione, nonché
d’appannamento dell’autonomia è segnalato da più
parti, così come il paradossale verificarsi della situazione di voltare a proprio vantaggio una delle più devastanti minacce che possono incombere su un lavoratore dipendente e - conseguentemente - sul
sindacato che lo affilia in quanto forza produttiva: la
disoccupazione.
Il sistema si regge sulla precisa volontà politica di
salvaguardare quote rilevanti di potere sociale in favore delle organizzazioni sindacali, cui lo Stato attribuisce indirettamente il compito di incanalare il conflitto sociale. Oltre ad esporre i sindacati ai rischi di cui
sopra, si inserisce qui il rischio di un ripensamento e
dunque di un ritiro delle prerogative para-pubbliche
riconosciute all’attore sindacale.
In ogni caso, il sistema Ghent costituisce un cardine del modello di welfare svedese e le sue performance sono ritenute abbastanza soddisfacenti da
parte di tutti gli attori coinvolti. Per i lavoratori innanzitutto, che hanno goduto di tutele sconosciute - in
quelle proporzioni - dalla maggior parte dei loro colleghi europei; dai sindacati perché hanno accresciuto
quasi ininterrottamente la loro forza associativa e
con essa quella finanziaria, negoziale e politica; per i
governi, che attraverso questo sistema hanno da un
lato decentrato all’autorganizzazione sociale l’amministrazione di un segmento importante del welfare,
dall’altro hanno indotto il sindacato - che gestisce
l’amministrazione e la contabilità dei fondi - a rendersi
politicamente più responsabile in materia di politiche
sociali e del mercato del lavoro.
Bibliografia
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2011.
108
LE ACLI E IL LAVORO
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
I SERVIZI AL MUTARE DEL LAVORO:
IL PATRONATO
di Marco Calvetto
Le trasformazioni del lavoro sono il mantra di cui si nutrono da anni i convegni, i dibattiti e le proposte
di legge di tutti coloro che sul lavoro hanno definito e costruito la propria identità. Le molteplici analisi, però,
non sempre sono state accompagnate da altrettante proposte capaci di intercettare i bisogni emergenti:
le persone hanno così tentato di rispondere in maniera autonoma e spesso sorprendente, rivolgendosi anche a strutture e servizi che di lavoro si occupavano spesso solo indirettamente, ma che godevano di un
tasso di fiducia superiore rispetto ai tradizionali luoghi deputati alla tutela del lavoro o alla gestione delle
politiche del lavoro.
A tale processo può essere ascritta la progressiva strutturazione, ad opera del Patronato, dell’Ufficio Lavoro Acli e dal 2012 dello Sportello Incontra Lavoro. Se la domanda crescente è stata una delle ragioni fondative dell’Ufficio Lavoro, alla promulgazione della legge di riforma degli enti di patronato (l. 152/2001) si
deve attribuire il progressivo cambiamento di prospettiva di un ente che fino ad allora si occupava prevalentemente di previdenza.
A partire dal 2004, quindi, nasce il cosiddetto “Progetto Lavoro” con la duplice finalità di offrire tutela ai
lavoratori a fronte dei cambiamenti produttivi, sociali ed economici in atto e di dare un’opportunità di riflessione al sistema Acli sul mondo del lavoro.
A partire dagli anni ’80 i cambiamenti del lavoro cessavano di essere un motore della trasformazione sociale e sempre più il lavoro veniva ridotto alla dimensione privatistica delle persone. Le molteplici riforme succedutesi hanno aumentato l’incertezza e la confusione dei lavoratori senza però incidere sui problemi strutturali del mercato del lavoro, mentre le organizzazioni di rappresentanza perdevano progressivamente di
rilevanza fra i lavoratori: la solitudine dei singoli si è sostituita ai progetti collettivi.
Questi fattori, ampiamente analizzati, raramente hanno visto l’evolversi di una nuova visione del lavoro.
Gli attuali 35 Uffici Lavoro del Patronato, dislocati in maniera omogenea sull’intero territorio nazionale, registrano quotidianamente le conseguenze dei cambiamenti del lavoro sulle singole persone, le paure, le aspettative, gli aspetti di fragilità aggravati oggi dalla situazione economica del Paese.
In tal senso l’Ufficio Lavoro (in origine “Progetto Lavoro”) rimane sicuramente un osservatorio privilegiato,
seppure ancora in una fase di sperimentazione da due punti di vista: il primo, interno al Patronato, riguarda
l’organizzazione dell’attività in sinergia con l’attività istituzionale e la capacità del Patronato di organizzare
un’attività commerciale no profit; il secondo, più di sistema, attiene alla capacità di inserirsi maggiormente,
integrandosi, nella realtà associativa delle Acli. Da questo specifico punto di vista riportiamo di seguito alcune analisi e suggestioni derivanti dai dati dell’attività svolta nel corso del 2013.
Le attività dell’Ufficio Lavoro
Nel corso del 2013 circa 9000 persone hanno usufruito dei servizi dell’ufficio lavoro. Pur risultando ancora un’attività non diffusa capillarmente sull’intero territorio nazionale, resta il dato di fatto che settimanalmente circa 200 persone si recano presso gli sportelli del Patronato Acli per una consulenza relativa al loro
lavoro: un elemento che testimonia come il Patronato Acli si stia trasformando in un Patronato di lavoratori
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
più che di pensionati, soprattutto se a questo dato si aggiungono le oltre 200.000 pratiche di ASPI (ex disoccupazione), le 140.000 pratiche in materia di immigrazione, le 80.000 in materia di lavoro domestico e le
oltre 10.000 in materia di intermediazione di manodopera.
Un primo sguardo d’insieme alle attività conferma in buona sostanza la situazione del lavoro in Italia: diminuisce la richiesta di tutela in costanza di contratto di lavoro, aumenta la domanda tesa a veder riconosciuti, per lo meno, gli ultimi crediti di lavoro. I sintomi di tale situazione sono ravvisabili nell’assistenza in
caso di fallimento dell’azienda, triplicata nel 2013, e nell’aumento progressivo della richiesta di tutela in caso
di licenziamento sempre più determinato da motivi economici.
Tab. 1 - Andamento pratiche aperte 2011-2013
2011
2012
2013
2.948
3.065
2.867
Fallimenti
187
169
474
Licenziamento e cessazioni
582
660
673
Tutela contrattuale
4.497
5.601
4.975
Totale
8.214
9.495
8.989
Crediti di lavoro
Le pratiche più rilevanti dell’ufficio riguardano l’attività di consulenza sul contratto di lavoro e sulla cessazione dello stesso. In totale le consulenze rappresentano oltre il 40% delle pratiche aperte, precisamente
il 44% nel 2011, il 49% nel 2012 ed il 47% nel 2013.
In termini assoluti l’attività di informazione e consulenza nel corso del 2013 è sensibilmente diminuita. Ma
tale diminuzione è da iscriversi all’avvio dello sportello Incontra Lavoro che ha assorbito la consulenza relativa all’informazione sulla costituzione del rapporto di lavoro e sul collocamento che risultano essere, infatti, le pratiche che hanno avuto una maggior diminuzione nel corso del 2013. A fronte di questa specifica
diminuzione, il 70% dell’attività di consulenza del 2013 ha riguardato l’informazione generale sul contratto
di lavoro: un dato cresciuto percentualmente di 7 punti, così come cresciuta percentualmente è la consulenza sull’interruzione del rapporto di lavoro.
Anche osservando questo aspetto, quindi, si ribadisce che diminuiscono i nuovi contratti di lavoro, aumentano le cessazioni, ma soprattutto si evidenzia che chi ha un lavoro prova faticosamente a conservarlo
anche a scapito del rispetto dei propri diritti.
La grande richiesta di informazioni che non si trasformano in attività di tutela più specifica evidenzia per
lo meno due situazioni particolarmente significative: da un lato la difficoltà delle persone ad andare oltre una
prima informazione per ottenere un eventuale rispetto dei propri diritti a fronte della precaria situazione lavorativa, con la conseguente scelta di non voler rischiare di perdere ulteriore denaro, dall’altro un’esigenza,
ormai diffusissima, di informazioni di base sul diritto del lavoro e sui contratti di lavoro. Le riforme succedutesi negli anni, infatti, hanno aumentato l’ignoranza e la confusione delle persone sul diritto del lavoro: le tradizionali agenzie che garantivano la sensibilizzazione e la formazione sul tema (sindacati; partiti; associazioni;
circoli…) hanno cessato di essere un riferimento per i lavoratori o hanno spostato il loro asse di interesse.
La domanda crescente di una prima informazione lascia trasparire che sarebbe quanto mai opportuno rilanciare un’attività di alfabetizzazione e di aggregazione sul tema del lavoro per tutte le fasce della popolazione,
ma in particolare per i giovani e le fasce deboli della nostra società (donne, immigrati fra i primi).
Il secondo gruppo di pratiche più significative è rappresentato, come detto, dal controllo delle buste paga
e dal trattamento di fine rapporto. L’informazione e il controllo delle buste paga e del TFR rappresentano complessivamente oltre il 70% del totale dei servizi erogati.
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IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
Graf.1 - Principali tipologie di pratiche aperte 2011-2013 - v.a.
Informazioni e consulenze
Controllo buste paghe e TFR
Altro
La strutturazione progressiva dello sportello, con la conseguente crescita del tasso di fiducia nella competenza dei nostri operatori, va ricercata non tanto nel numero delle pratiche quanto nell’analisi dell’attività
di tutela prestata. A riguardo, oltre la crescita delle consulenze di alto profilo, va ricordato il consolidamento
delle vertenze avviate, cresciute nell’ultimo anno di un 10%.
Tab. 2 - Andamento “servizi di tutela” - pratiche aperte anni 2011-2013 - v.a.
2011
2012
2013
Totale
Consulenze
1.244
1.049
1.205
3.498
Conteggi
1.414
1.691
1.526
4.631
Vertenze
365
351
396
1.112
L’Utenza
La nostra utenza è giovane, donna ed italiana.
Prendendo in considerazione i dati degli ultimi 3 anni, la fascia d’età maggiormente rappresentata agli sportelli dell’Ufficio Lavoro è quella fra i 31 e i 40 anni. Un altro quarto è rappresentato dalla fascia d’età compresa fra 40 e 50 anni (24,45%).
Gli under 30 sono passati nel giro di 3 anni dal 12% al 15% dell’utenza del servizio. Gli stessi 3 punti sono
quelli persi dalla fascia degli over 60, passati da oltre il 16%, al 13% fra il 2011 e il 2013.
La fascia 50-60 si mantiene costante intorno al 20% dell’utenza. I dati sull’età in conclusione non fanno
altro che confermare che in Italia le riforme del lavoro sono state realizzate attraverso la riforma delle pensioni e che le riforme del mercato del lavoro hanno indebolito le tutele previdenziali dei lavoratori.
Le donne rappresentano la maggioranza degli utenti, con un valore percentuale costante che si assesta
fra il 58,60% ed il 60% del totale. Il 70% delle persone che si rivolgono all’Ufficio Lavoro sono italiane. Un
dato che sottolinea ulteriormente come gli immigrati rimangono un soggetto debole anche fra i più deboli,
accedendo meno a servizi di tutela: per una minor consapevolezza dei diritti, per una scarsa conoscenza
del servizio, ma soprattutto per una maggior percezione del rischio cui sarebbero soggetti di questi tempi a
fronte di un’eventuale vertenza di lavoro.
Peggiorano le condizioni di lavoro e i più esposti al rischio sono anche i meno protetti. Infatti, gli immigrati che si sono rivolti allo sportello sono diminuiti nel 2013 del 5% rispetto all’anno precedente, mentre gli
italiani sono cresciuti anche in termini assoluti. Entrando nel merito delle pratiche aperte, si può notare che,
se il 70% degli utenti sono italiani, tale percentuale sale addirittura intorno all’85% per i fallimenti e all’80%
circa per quanto riguarda la tutela contrattuale.
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
Graf. 2 - Tipologie di pratiche per nazionalità 2011-2013 (dato complessivo) - v.a.
Interazione con pratiche istituzionali
Fra i molteplici punti di vista idonei ad analizzare l’attività dell’Ufficio Lavoro, abbiamo scelto di fare un
approfondimento rispetto alla sua integrazione con l’attività istituzionale, osservando in particolare quelle pratiche connesse ad una situazione lavorativa in essere.
Il primo dato ha riguardato il numero di pratiche di disoccupazione/aspi che si sono poi trasformate in pratiche dell’Ufficio Lavoro nelle sedi in cui è presente il servizio. Il valore complessivo è in netto aumento, passando dalle 393 del 2011, alle 647 del 2012, alle 1.124 del 2013.
Graf. 3 - Aperture di pratiche Ufficio Lavoro dopo Ds e Aspi 2011-2013
Nel complesso degli ultimi tre anni, gli utenti transitati dall’attività istituzionale all’ufficio lavoro sono stati
oltre 10.000.
Dei circa 10.000 utenti totali che in 3 anni sono transitati dall’istituzionale al progetto lavoro, 2.164 (pari
al 21%), come detto, hanno richiesto una pratica di disoccupazione e 3.961 (quasi il 40%) un estratto contributivo. Un dato che attesta l’elevato numero di persone che si trovano con estratti non corretti e nella condizione di dover verificare ed, eventualmente, richiedere ai datori di lavoro (o ex datori di lavoro) spettanze
retributive e contributive. Un fenomeno diffuso, che la crisi, tende a nascondere e a far tollerare e cioè l’elevata presenza di lavoro nero e grigio che continua a caratterizzare l’economia italiana.
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IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
L’esperienza dello Sportello Incontra Lavoro
A partire dal 28 ottobre 2011 il Patronato Acli è anche un’agenzia di intermediazione autorizzata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Ai sensi della normativa vigente un’agenzia di intermediazione si
occupa di raccolta dei curricula e delle vacancy, di orientamento, di preselezione, di matching, di promozione
di percorsi formativi e di tutti gli adempimenti necessari per l’instaurazione del rapporto di lavoro. Attività che
possono essere svolte in tutti i settori produttivi.
La previsione legislativa compresa nella Legge n.111/2011, che ha individuato anche nei patronati, i soggetti idonei all’intermediazione lavorativa, si fonda sulla considerazione che in un mercato del lavoro sostanzialmente inefficace in cui l’informalità e le conoscenze personali rimangono le uniche chiavi di accesso al
lavoro, può risultare vincente estendere la platea delle realtà che si occupano di mercato del lavoro coinvolgendo in particolare quei soggetti più diffusi sul territorio e che godono di un buon livello di fiducia presso
la cittadinanza.
Per quanto riguarda l’attività, nel corso del 2013 sono state realizzate circa 8.500 pratiche, il 75% delle
quali riguardanti la raccolta di curricula (offerta di lavoro) e il 14% riguardante la raccolta di vacancy e quindi
di domande provenienti da potenziali datori di lavoro (domanda di lavoro). Un dato interessante, che testimonia l’efficacia dello sportello è la percentuale di offerte di lavoro intermediate. Nel 2013 il tasso di collocamento del Patronato Acli si attesta intorno al 13%, tre volte superiore alla percentuale di collocamento dei
centri per l’impiego pubblico.
L’attività, svolta gratuitamente, a favore dei lavoratori, quale la raccolta dei curricula, l’orientamento e la
promozione di percorsi di riqualificazione, rappresenta oltre il 75% del lavoro dei nostri sportelli.
L’attività e l’utenza
I dati sull’utenza confermano quanto ampiamente risaputo sul lavoro di cura anche se lo Sportello Incontra Lavoro registra alcuni segnali importanti di cambiamento, diretta conseguenza della trasformazione di questa tipologia di lavoro e della crisi economica del Paese: cambiamenti che al solito colpiscono i più deboli.
Il lavoro di cura, come già detto, è un lavoro prevalentemente immigrato e femminile.
Desta curiosità però rilevare come ai nostri sportelli tra chi cerca lavoro il 16% sia uomo, ma soprattutto
che fra gli uomini 1 su 5 sia stato collocato attraverso il Patronato, contro 1 donna su 9.
Altro elemento, che conferma questa lieve inversione di tendenza, riguarda il fatto che i contratti di lavoro
stipulati attraverso lo Sportello Incontra Lavoro hanno riguardato per il 75% donne e per il 25% uomini, a
fronte del dato sui nuovi contratti di lavoro stipulati attraverso lo Sportello Mondo Colf (e quindi non preceduti da una nostra attività di matching) che per il 92% ha riguardato donne.
Graf. 4 - Attività dello Sportello Incontra Lavoro in base al sesso dell’utenza - 2013
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
Osserviamo che la crisi sta spingendo nuovamente anche gli italiani verso il lavoro domestico e di cura;
si segnala che oltre il 22% dei curricula raccolti ha riguardato italiani.
Gli italiani, tornando a rendersi disponibili nel mercato del lavoro domestico, hanno un vantaggio competitivo enorme nei confronti degli immigrati, alimentando la disoccupazione di questi ultimi anche in questo settore o costringendoli, spesso, al lavoro nero. L’aumento dell’offerta di manodopera italiana unita alla
crisi economica delle famiglie che spinge verso il lavoro ad ore rappresentano il combinato disposto della
crescita del lavoro italiano nel settore domestico dopo anni di diminuzione costante.
Per quanto riguarda l’età di coloro che cercano lavoro circa il 60 % dell’offerta ha un’età compresa fra i
40 e i 60 anni d’età. Gli Italiani arrivano al 63% dell’offerta in queste fasce d’età.
Dati che ancora una volta confermano quanto ampiamente risaputo e cioè che il lavoro di cura diventa
l’unica possibilità di occupazione per le donne immigrate, ma anche per le donne espulse dal mercato del
lavoro o che hanno intenzione di tornarci, magari dopo un periodo dedicato alla cura della propria famiglia.
Non può lasciare indifferenti che esista una percentuale rilevante di persone al di sotto dei 40 anni disponibili a svolgere lavoro di cura o domestico e le oltre 1.000 persone al di sotto dei 30 che si sono rese disponibili al nostro Sportello Incontra Lavoro.
Il ritorno dei cittadini italiani a rendersi disponibili nel mercato dei servizi alla persona e del lavoro domestico non rappresenta un cambiamento culturale e un positivo trend di qualificazione del settore, ma segnala
che il settore, nonostante la rilevanza numerica e il valore sociale, continui ad essere percepito come “ultima spiaggia” e che la sua scelta risieda esclusivamente nel grado di necessità.
L’attività del solo 2013 non permette elaborazioni ulteriori sul trend del fenomeno, conferma però i dati
su quanto la crisi stia trasformando il mercato del lavoro, e il mercato dei servizi alla persona in particolare,
e fornisce alcune suggestioni importanti per il Patronato e per il sistema Acli.
Alcuni possibile percorsi
Il Patronato svolge un ruolo fondamentale di mediazione sociale, di tutela e di promozione dei diritti di cittadinanza, ma non vi è alcun dubbio che la complessità della nostra società ha visto anche un positivo proliferare di soggetti che svolgono attività analoghe.
Dentro un “mercato della tutela”, diventa fondamentale affiancare la “scontata” competenza con una proposta politico - culturale con la quale gli utenti possano identificarsi e riconoscersi.
In quest’ottica si inseriscono alcune questioni che sarebbe opportuno tornassero ad essere tema di confronto e discussione sui territori.
• La questione della cittadinanza. Rappresenta un nuovo campo su cui misurarsi con maggiore attenzione
sia a livello locale, pubblicizzando l’attività dei servizi, sia a livello nazionale trovando modalità di dialogo e di possibile collaborazione con la Direzione specifica istituita presso il Ministero dell’Interno.
• La questione lavoro. I contorti e contraddittori interventi legislativi che hanno accompagnato le trasformazioni del lavoro hanno contribuito in maniera notevole a ridurlo a materia “sconosciuta”. Se promuovere percorsi di conoscenza e di sensibilizzazione nelle nostre strutture, nei circoli, nelle scuole è una
premessa fondamentale, non si può prescindere però dal tornare ad avere un pensiero forte di carattere politico e aggregativo sul significato del lavoro oggi.
• La previdenza dei lavoratori domestici. La fotografia delle anagrafiche, le storie lavorative e la situazione
contributiva dei lavoratori domestici aprono uno scenario terrificante sulle loro prospettive previdenziali
e sulla questione sociale che si presenterà fra una decina d’anni. La promozione della cultura previdenziale obbligatoria operata dai nostri sportelli rischia così di diventare inutile, quando non offensiva, se
non accompagnata da una prospettiva di futuro dignitoso che forse va cercata anche con nuove strategie.
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IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
• I servizi alla persona. L’attività dello Sportello Incontra Lavoro, oltre ad evidenziare le criticità delle famiglie e dei lavoratori, fa emergere con forza la mancanza di una politica pubblica nel settore.
Politica in grado di razionalizzare le molteplici risorse oggi messe a disposizione dallo Stato, dagli Enti Territoriali, dalle famiglie e di far cooperare in maniera integrata e coordinata i servizi forniti dal pubblico, dal privato sociale e dall’assistente familiare.
Oggi, una proposta del sistema Acli, integrato in una rete di soggetti, potrebbe rappresentare un impulso
importante alla discussione, spesso rallentata da pregiudizi e progettualità poco aderenti alla situazione concreta del Paese.
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
I SERVIZI AL MUTARE DEL LAVORO:
IL CAF
di Paolo Conti
Il lavoro è uno dei temi più urgenti su cui si gioca, o
si tenta di giocare, la partita del rilancio economico dell’Italia. L’altro tema che con altrettanta frequenza riempie colonne di quotidiani, pagine web e approfondimenti televisivi è il Fisco, o in termini più pratici: le
tasse. La crisi ha indubbiamente tracciato un solco
emotivo profondo nella percezione, filtrata o meno dalle
fonti dei media, dell’impoverimento della vita quotidiana, della mortificazione delle fasce deboli, della difficoltà di accesso al credito, degli scandali finanziari,
dello spezzettamento e al tempo stesso della personalizzazione del lavoro, e della moria di aziende (anche
sane) che talvolta, nel loro declino, accompagnano anche la scomparsa, in senso fisico, di chi fino a quel momento le aveva possedute (e magari create). Tutta questa “geografia” umana che si muove tra la porta di
casa, le file ai Caf e alla posta, le scrivanie delle aziende
e i reparti dei supermercati alla ricerca dell’offerta più
vantaggiosa, la si può dunque sintetizzare nei due
aspetti più complessi che rappresentano da un lato
quello che lo Stato esige dal cittadino, cioè il pagamento delle tasse, e dall’altro lo strumento principe che
dovrebbe permettere, fra le altre cose, anche il rispetto
di un tale adempimento, vale a dire il lavoro.
È condivisibile il principio secondo il quale la flessibilità nel lavoro non necessariamente comporta degli aspetti di negatività: la stessa mansione svolta dal
lavoratore all’interno dell’azienda può essere di per sé
flessibile nel senso di “versatile”, “dinamica”, esattamente come le diverse occupazioni possono essere
cucite su misura del lavoratore. La tendenza, dunque,
a personalizzare la “grammatica” delle prestazioni lavorative, o al tempo stesso a crearne di nuove nella
scia di quello che offre il mercato della società in rete,
è essa stessa un sintomo dinamico di flessibilità, in
contrapposizione agli standard granitici del lavoro in
serie. Tuttavia ci sono anche le ombre. A fine 2013
l’Istat rilevava in Italia un tasso di disoccupazione generale al 12,7%, con un incremento di 1,4 punti rispetto
all’anno precedente. Il numero complessivo dei disoccupati era superiore ai 3 milioni, in aumento del
12,1% su base annua (in pratica oltre 350mila disoccupati in più). Oltretutto, assieme alla disoccupazione
generale è cresciuta anche quella giovanile (fascia
d’età tra i 15 e i 24 anni) toccando il tasso del 41,6%,
in aumento di quattro punti rispetto al 2012 (il dato peggiore mai rilevato). Ma ciò da cui emerge la complessiva condizione di ristagno del mondo occupazionale
è certamente la scia negativa prolungatasi nei sei anni
dal 2007 al 2013, durante i quali gli occupati sono diminuiti di 1,1 milioni, mentre i disoccupati sono più che
raddoppiati passando da 1 milione e mezzo a più di 3
milioni; anni in cui il calo dell'occupazione è stato
esclusivamente maschile, mentre per le donne si è registrato un aumento di 65.000 unità.
Rispetto a tutto questo i Caf possono essere - e in
effetti sono - degli osservatori privilegiati, saggiando in
prima linea le voci e le preoccupazioni di chi si rivolge
agli sportelli operativi in cerca di una risposta. Voci rappresentative (in questo caso domande inviate al portale myCAF.it) possono essere ad esempio questa:
“Sono dipendente di una società privata con contratto
a progetto da settembre 2008 in scadenza a fine mese.
Alla scadenza del contratto a progetto posso fare domanda di disoccupazione ordinaria? Ho i requisiti?”;
oppure quest’altra: “Sono una ragazza madre di 32
anni, sono stata licenziata lo scorso mese di novembre dopo 2 anni di servizio. Ho chiesto la disoccupazione e gli assegni familiari, avendo il mio bambino da
poco compiuto un anno, e mi sono stati rifiutati perché
lo scorso anno ho aperto una partita iva per un progetto che di fatto non si è mai sviluppato. Non so più
118
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
che fare. Mi è stato infatti risposto che anche chiudendo la partita iva non ci sarebbe nessun effetto. Mi
potete aiutare? Non riesco a trovare lavoro e penso che
per un problema burocratico stiano negando dei diritti
sacrosanti a me e al mio bimbo”.
Su questo “panorama”, quindi, ha tentato di agire in
un primo momento la Riforma Fornero, e tenterà
adesso di agire il Jobs Act di Renzi. Cuore pulsante di
quest’ultima riforma sono le nuove regolamentazioni in
materia di contratti acausali a tempo determinato,
smantellando di fatto quanto previsto dalla precedente
riforma: infatti laddove la legge Fornero stabiliva una durata massima di 12 mesi per la stipula dei contratti
senza causale, ecco che il testo di Renzi “rilancia” la durata da uno a tre anni, con la possibilità, in questi 36
mesi, di prorogare lo stesso contratto fino a cinque volte
(il testo originario prevedeva addirittura otto proroghe).
D’altro canto, l’elasticità conferita ai datori di lavoro nella
stipula di questa particolare tipologia di contratti, presuppone una soglia massima del 20% rispetto al resto
del personale in azienda, fatta eccezione per settori delicati e vitali come quello della ricerca scientifica.
Dal lavoro passiamo così al Fisco. Anche quest’ultimo, come il primo, cambia pelle molto rapidamente.
Mai come in questi ultimi anni, attraversati da manovre,
contro-manovre e decreti Casa-Imu-Lavoro, la presenza del Fisco ha assunto uno spessore così ingombrante e incisivo nello scambio tra la pubblica amministrazione e il cittadino. Ora, considerando la percezione
normalmente diffusa di un Fisco tutt’altro che agevole
e molto poco “amico”, ecco che i Caf possono essere
visti come una sorta di “banca dati” alla quale ricorrere
per avere risposte sicure, semplificando così i propri doveri di contribuente. Proprio perché l’applicazione delle
regole cambia in base alle situazioni di ognuno, i Caf,
“terra di mezzo” fra Stato e cittadini (non a caso definiti “intermediari”), si inseriscono nella scia mutevole
delle normative traducendo in prassi quotidiana il loro
linguaggio ufficiale.
Lasciando ora da parte il nutrito capitolo immobiliare, per il quale servirebbe un approfondimento specifico (dall’Imu alla Tasi, passando per il disegno del
nuovo Catasto tratteggiato dalla delega fiscale), nel
merito delle numerose novità che sono apparse in
questi anni di crisi, alcune di esse hanno nella loro na-
tura una predisposizione agevolativa nei riguardi del lavoratore. Quasi sempre i Caf vi ricoprono un ruolo attivo, che talvolta, però, può essere soppiantato dal datore di lavoro. Prima di focalizzare quelle già in essere,
possiamo brevemente accennare a uno dei punti programmatici contenuti nella legge delega sulla riforma
del Fisco, approvata a febbraio 2014, secondo il quale
i maggiori proventi della lotta all’evasione convoglieranno nel cosiddetto “Fondo per la riduzione strutturale della pressione fiscale”, che sarà appunto un
fondo duraturo nel tempo, e ne godranno probabilmente i contribuenti collocati nel primo scaglione Irpef
(da 0 a 15mila euro), la cui aliquota impositiva dovrebbe ridursi dal 23 al 20 per cento.
Veniamo adesso al presente. “Bonus Irpef” è ancora
una volta la parola magica. Dalla maggiorazione delle
detrazioni per lavoro dipendente introdotte con la manovra di Enrico Letta, che copriva l’ampia fascia di lavoratori compresi tra i 15.000 e i 55.000 euro, per un
risparmio in effetti esiguo che poteva arrivare a un
massimo di 14/15 euro in più al mese, si è passati al
Bonus Renzi da 80 euro in più in busta paga tra maggio e dicembre per i titolari di redditi fino a 24.000 euro,
con discesa fino alla soglia dei 26.000 euro. Dopodiché nulla più. Ora, in quella che principalmente è una
novità che sortisce effetti soprattutto per i datori di lavoro che svolgono anche la funzione di sostituti d’imposta (visto che sono proprio i sostituti, tramite il ricalcolo delle ritenute, a erogare il credito degli 80 euro
direttamente nello stipendio del dipendente), anche i
Caf svolgeranno un ruolo di primaria importanza. L’appuntamento in questo caso è spostato alle dichiarazioni 2015 sul 2014, dal momento che fra i soggetti beneficiari del bonus Renzi figurano anche quelli che
hanno perso il lavoro prima di maggio, o comunque tra
maggio e dicembre 2014. Non solo, ma vi sono anche
quei soggetti titolari di un reddito da lavoro dipendente che però, in assenza di un sostituto d’imposta
tenuto a effettuare il conguaglio, non hanno potuto goderne nei mesi da maggio a dicembre. Se lo faranno
quindi applicare richiedendolo nella dichiarazione dei
redditi presentata agli intermediari con modalità specifiche ancora da stabilire.
E in tema di contribuenti titolari di reddito da lavoro
dipendente, ma comunque sprovvisti di un datore di la-
119
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
voro al momento della consegna della dichiarazione
(perché licenziati), è logico richiamare l’attenzione su
un’altra importante novità che già dallo scorso anno ha
cominciato a essere operativa, vale a dire la presentazione del 730 senza sostituto d’imposta. Nel 2014, infatti, le porte del 730 senza sostituto si sono aperte anche per i contribuenti a debito (mentre nel 2013 tale
opportunità era prevista solo per quelli a credito), completando così l’operatività di un’agevolazione chiaramente “lenitiva” nei confronti di soggetti che, trovandosi
in possesso di redditi dichiarabili col 730, ed eventualmente di spese e oneri detraibili/deducibili, non avrebbero comunque potuto avvalersi dell’assistenza fiscale
proprio perché non più occupati.
Spostandoci invece dal 730 all’Isee, ritroviamo
anche in questo caso una novità sostanziale che, fra
le molte altre applicate nell’ambito della riforma dell’indicatore, contiene - analogamente alla dichiarazione senza sostituto - le medesime finalità agevolative nei confronti di chi dall’oggi al domani potrebbe
trovarsi senza un lavoro. Fra gli aspetti peculiari del
nuovo indicatore vi è infatti un’elasticità di fondo
che permetterà di modificarlo in tempo reale sulla
base degli eventi contingenti. Praticamente, a differenza di quanto permesso finora, sarà possibile ottenere una certificazione economica in funzione del
reddito “corrente”, quindi più veritiera e aggiornata
rispetto a quella che si otterrebbe facendo riferimento ai redditi dell’anno passato. Tale soluzione è
stata evidentemente introdotta considerando tutti
quei soggetti che pur avendo perso il lavoro, o subìto
dei cambiamenti significativi nella propria situazione,
avrebbero dovuto comunque rifarsi ai redditi e al
patrimonio in corso al 31 dicembre dell’anno prima,
secondo quanto stabilito dalle vecchie norme. Al
contrario col nuovo Isee, laddove il patrimonio del
soggetto sia effettivamente cambiato, sarà possibile
aggiornare i vecchi valori e “scattare” una foto più
aderente alla realtà.
Infine, questa panoramica sui servizi fiscali connessi al lavoro può concludersi ponendo il lavoratore
sotto una luce di positività. Facciamo quindi un accenno finale alla detassazione dei salari di produttività.
Introdotto per la prima volta col Dl 93/2008, tale beneficio prevede l’applicazione di un’imposta sostitutiva
dell’Irpef e delle relative addizionali con un’aliquota
fissa pari al 10%. Ora, se in relazione al 2013 l’importo
massimo agevolabile era di 2.500 euro, e per poter applicare la detassazione era necessario non aver dichiarato nel 2012 un reddito superiore a 40.000 euro, nel
2014 la soglia per la detassazione è stata innalzata a
3.000 euro, ma il limite di reddito pari a 40.000 è rimasto invariato. Anche in questo caso, come nell’esempio
del bonus Renzi, i Caf talvolta potrebbero fare le veci del
sostituto d’imposta, laddove il reddito di produttività
non sia stato già detassato nel Cud. Normalmente, infatti, la tassazione sostitutiva viene applicata dal sostituto d’imposta. Vi sono però alcuni casi in cui il lavoratore è obbligato, o comunque ha la possibilità di
dichiarare il reddito di produttività nel 730, correggendo
eventuali detassazioni non conformi oppure recuperando detassazioni non godute.
Emerge dunque da questo, come dagli altri aspetti
menzionati, la costante permeabilità dei servizi Caf nel
solco delle normative. In buona sostanza i Caf sono
chiamati (e non potrebbe essere diversamente) ad
avere tempi di reazione immediati, proprio perché altrettanto immediata è la percezione del pubblico spesso mista a preoccupazione - riguardo alle novità
che irrompono. Chiudendo idealmente il cerchio, potremmo allora riprendere il discorso, già accennato in
apertura, sul pressing mediatico con cui giornali e televisioni hanno affrontato l’argomento Fisco. Il flusso
delle informazioni è ormai capillare, se non ossessivo,
e di fronte a questo il lavoro dei Caf non è altro che
l’assorbimento di una forza d’urto che a fasi alterne riversa dubbi e necessità sull’onda emotiva dei cambiamenti in atto. Anche il timore acuito delle sanzioni è un
elemento da non sottovalutare. L’immagine ambigua
di Equitalia che è emersa in questi ultimi anni avrà
forse contribuito a diffondere un sentimento di preoccupazione, rabbia o insofferenza rispetto agli obblighi
fiscali. Questo per dire che il contesto di apertura al
pubblico nel quale operano i Caf è soggetto inevitabilmente ai riflussi psicologici di tutto quello che i
contribuenti assorbono fino a un attimo prima di varcare la soglia dell’ufficio. Sta quindi ai Caf essere
pronti ad anticipare, incanalare e far defluire pacificamente la spinta della corrente prima che questa trabocchi.
120
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
I SERVIZI AL MUTARE DEL LAVORO:
ENAIP - FORMAZIONE & LAVORO
di Tino Castagna
L’oggetto di cui si tratta, formazione e lavoro, è anche il nome della rivista dell’Enaip che dal 1963 accompagna la riflessione delle Acli su questo binomio,
ragione d’essere dell’Enaip, ma anche uno degli elementi costitutivi e fondativi dell’anima delle Acli. Il titolo, quindi, è anche un omaggio a quell’esperienza
e a quella rivista che, nei primi decenni, hanno prodotto una pregiata elaborazione culturale, intrecciata
con importanti nuove pratiche didattiche e con la
sperimentazione di una innovativa proposta formativa, impronta identificativa ancora effettiva nell’Enaip
di oggi. Ma il risultato non si esaurì solo all’interno dell’Enaip, poiché la ricchezza dell’esperienza di quegli
anni contribuì in modo rilevante a creare il primo
strutturato sistema italiano di formazione professionale, definito nella legge quadro del 1978 e, in seguito, solo parzialmente realizzato principalmente a
causa delle non sempre felici dinamiche delle autonomie regionali e della storica e generale disattenzione italiana al rapporto tra sistemi educativi e lavoro.
Il richiamo alla storia, a partire dalla – per le Acli
scontata, ma ugualmente geniale e anticipatrice –
congiunzione di formazione e lavoro, serve a stabilire
un’analogia tra due stagioni della storia italiana. In
quella stagione di modernizzazione del Paese si affermarono, con il contributo decisivo dell’Enaip, le
basi di un sistema di formazione professionale moderno. Oggi la sfida lunga della crisi obbliga a una
nuova fase (ri)fondativa di molti dei sistemi che dovrebbero reggere la società e l’economia, tra i quali
sicuramente quelli educativi e, specificamente, quello
della formazione professionale. E, quando parliamo di
formazione professionale, non intendiamo solo uno
specifico ordinamento formativo particolarmente trascurato dalla politica, ma l’orientamento dell’insieme
del sistema educativo. In gioco non ci sono l’adde-
stramento a uno specifico impiego e una qualsiasi occupazione, ma anche e soprattutto il significato e il
valore del lavoro, di tutti i lavori, che riguardano sia lo
studente del liceo classico, sia l’allievo dell’Enaip, i
quali dovrebbero ricevere un’educazione di uguale
valore, come dovrebbero essere di uguale valore il riconoscimento sociale del loro futuro lavoro professionale e della loro cittadinanza. E con il valore del lavoro
è in gioco non solo la coesione sociale, ma anche
l’idea di umanizzazione della convivenza e dello sviluppo fissata nel primo articolo della Costituzione.
In questa stagione è necessario fare quello che
dopo il 1978 non fu possibile, creare un forte sistema
di formazione professionale collegato al sistema produttivo e integrato nel complessivo sistema educativo, dentro una comune cornice disegnata anche dal
valore – economico e non - e dalle virtù civili del lavoro professionale e della conoscenza, declinando il
tutto in relazione ai cambiamenti globali da affrontare.
È necessario fare anche delle scelte di priorità
strategiche: la prima è quella che riguarda i giovani.
In un Paese che ne ha pochi - e per fortuna ci sono i
figli degli immigrati (non c’entra con la formazione, ma
anche sì, ma è utile ripetere in ogni occasione che devono essere cittadini italiani) - e li tratta male nell’istruzione e nel lavoro, non c’è futuro, anche nel
medio/breve termine, se non si inverte la rotta, a cominciare da quella dell’educazione, della formazione
e del lavoro.
Ovviamente l’educazione e la formazione devono
prolungarsi lungo tutto il corso della vita, ma la formazione continua ha il suo fondamento in una buona formazione iniziale e in una transizione scuola-lavoro intesa come avvio di una carriera professionale, aperta
a tutte le transizioni future, ma solida. Lo dimostra anche il fatto che a fruire delle non molte opportunità di
121
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
educazione permanente e di formazione continua
siano i più forti dal punto di vista della scolarità e della
posizione professionale.
L’Enaip è in campo anche in questa stagione con
il “solito” - ma aggiornato ai tempi - bagaglio di pensiero e pratiche che tengono assieme conoscenza,
professione, lavoro, economia e società, soprattutto
nell’ordinamento dell’Istruzione e Formazione Professionale (IeFP), ma non solo, perché l’Enaip partecipa anche al nuovo sistema dell’Istruzione Tecnica
Superiore (ITS e IFTS) e continua anche a fare formazione rivolta ai lavoratori e ai disoccupati, oltre a offrire servizi per il lavoro per i disoccupati giovani e
adulti
Per tornare alla priorità giovani, l’Enaip forma nei
corsi IeFP triennali e quadriennali, in circa 700 corsi,
14.000 allievi ogni anno, con esiti occupazionali lusinghieri. Purtroppo questa attività è concentrata nel
Nord. La domanda di IeFP è molto più grande, ma la
costante riduzione dei finanziamenti e il processo di
desertificazione, che ha cancellato la formazione professionale regionale in molte regioni del Centro-Sud,
privano molti giovani di un’opportunità unica. Questa
mancanza non è certo compensata dall’offerta degli
istituti professionali, prima fonte di abbandono scolastico nella secondaria superiore.
Il circolo vizioso degli squilibri
dei sistemi educativi e formativi
e delle politiche del lavoro
Le dinamiche delle complicate relazioni tra conoscenza, professione e lavoro, da una parte, ed economia e società, dall’altra, sono antiche come l’uomo
organizzato in comunità, indotto – fin dalla convivenza nelle prime aggregazioni urbane - non solo a ingegnerizzare tecniche, ma anche a inventare tecnologie, a creare conoscenza per mantenere e
sviluppare la comunità umana e a organizzare funzioni
di trasmissione e sviluppo di saperi e pratiche. Ma
non si è mai trattato solo di relazioni tecniche. L’uomo
ha sempre avuto anche la necessità di dare senso e
riconoscimento al suo sapere e al suo fare, inizialmente in un trascendente magico, poi spirituale ed
etico, talvolta ideologico, al quale affidare la garanzia
della riproduzione e dello sviluppo dell’organizza-
zione sociale ed economica e, con essi, delle forme
del potere e della coesione sociale, diverse a seconda del maggiore o minore tasso di centralizzazione della proprietà e dell’amministrazione pubblica.
Nel tempo queste dinamiche si sono articolate, specificate e sviluppate attraversando graduali e lente
evoluzioni e intensi momenti di accelerazione rivoluzionaria, lasciando sempre aperte le dinamiche tra lavoro, professione, organizzazione sociale ed economica e visioni spirituali, filosofiche ed etiche
mettendo a dura prova i sistemi di trasmissione dei
saperi e delle pratiche professionali; questi ultimi sistemi, per lo più, tendono a seguire, adeguandovisi,
i cambiamenti economici e sociali, raramente riescono ad anticiparli o ad accompagnarli, come avviene invece nella ricerca scientifica e nell’arte più capaci di essere veicoli di anticipazione e di
innovazione.
Negli ultimi decenni le dinamiche delle relazioni tra
conoscenza, professione, lavoro, economia e società
sono state ulteriormente amplificate e in parte sconvolte da rivoluzioni tecnologiche prima impensabili, e
da fenomeni come la globalizzazione dell’economia
e della finanza. In Italia, più che in altri Paesi, queste
rivoluzioni hanno, già prima della crisi, indebolito il lavoro e l’occupazione – soprattutto quella giovanile –
attraverso il deficit di qualificazione in uscita dai sistemi formativi, il disancoramento dell’occupazione e
della disoccupazione dalla qualificazione professionale, la frequente frammentazione della professionalità in tecnicalità e la fragilità del sistema delle imprese. È anche successo che alcune posizioni
professionali si siano arricchite di saperi e competenze, ma più frequentemente il poco lavoro offerto ai
giovani è di bassa qualità, soprattutto a seguito dell’attitudine difensiva assunta da gran parte delle imprese italiane di fronte alla crisi. E, infine, si misconoscono il valore e lo statuto etico, sociale e culturale
del lavoro.
Non sono molto diverse le opinioni, non certo sospette, espresse dalla commissione Europea nell’ultimo “esame” fatto all’Italia, all’allora nuovo governo
Renzi, a fine marzo, raccolte nell’Occasional Paper
182 | March 2014 - Macroeconomic Imbalances Italy
2014.
122
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
La Commissione ha evidenziato non solo, come
invece hanno fatto i media italiani, gli squilibri di bilancio e di debito pubblico. Ha dedicato lunghi passaggi a L’accumulo di capitale umano, così riassunti
nelle conclusioni di quello stesso Paper: «L’accumulazione di capitale umano dell’Italia non è in grado di
adattarsi alle esigenze di un’economia moderna e
competitiva. L’Italia ha la quarta percentuale più elevata di popolazione con soltanto un’istruzione di
base e la percentuale più bassa con istruzione terziaria nell’UE. La segmentazione del mercato del lavoro, un passaggio difficoltoso dalla scuola al lavoro
e una struttura salariale favorevole ai lavoratori anziani
sono indice del fatto che la crescita e l’aggiustamento a rilento gravano in larga misura sui giovani e
determinano scarsi rendimenti degli studi rispetto al
resto dell’UE. Le carenze strutturali del sistema di
istruzione, tra cui l’elevato tasso di abbandono scolastico durante i primi anni di istruzione sia secondaria che terziaria, nonché la scarsa partecipazione ai
programmi di apprendimento permanente contribuiscono ulteriormente al divario di competenze dell’Italia. L’elevata proporzione di settori economici con un
livello di tecnologia medio-basso è sia un’ulteriore
causa che un risultato di tale situazione».
Dopo le criticità dei sistemi formativi e del mercato
del lavoro, in altri passaggi “l’accusa europea” si occupa del deficit di produttività, così denunciato nelle
conclusioni: «Nonostante il miglioramento della regolamentazione dei mercati del lavoro e del prodotto, gli
ostacoli rimanenti alla concorrenza, le inefficienze
della pubblica amministrazione e del sistema giudiziario e le carenze in materia di governance impediscono la riallocazione delle risorse verso imprese e
settori produttivi. L’insufficiente sviluppo dei mercati
dei capitali rallenta ulteriormente l’assorbimento e
l’innovazione tecnologica”, senza dimenticare il deficit di competitività internazionale “ostacolata da
una specializzazione merceologica sfavorevole e da
un’elevata percentuale di piccole imprese con una
posizione competitiva debole sui mercati internazionali».
Ce n’è anche per chi pensa che i lavoratori italiani siano iperprotetti: «L’indice sintetico dell’OCSE
relativo alla legislazione a alla tutela dell’occupa-
zione (Index for Employment Protection Legislation
- EPL) mostra che la normativa italiana in materia di
occupazione è ora meno rigida di quella francese e
tedesca».
C’è quindi un doppio deficit, quello di istruzione e
formazione (la qualificazione professionale dell’offerta di lavoro) e quello di innovazione delle imprese
(la domanda di qualificazione professionale delle imprese), tra loro collegati che nel nostro caso si sono
avviluppati in un circolo vizioso.
Ovviamente non sono la scuola e la formazione
per se stesse a creare occupazione; le politiche economiche e industriali, gli investimenti e il rafforzamento del sistema delle imprese sono fattori necessari per l’occupazione. La loro efficacia, però, è piena
solo se accompagnata da strategie di sviluppo – sostenibile e partecipato – di innovazione, di sincero spirito imprenditoriale e dalla valorizzazione del capitale
umano. Gli investimenti puramente tecnologici non
sono infatti sufficienti e l’innovazione tecnologica non
produce conseguenze sostenibili sui risultati aziendali
se non si accompagna ad un investimento sulla comunità professionale.
Quanto al deficit di qualificazione dell’offerta di lavoro, il primo riferimento è all’alfabetizzazione della
popolazione con un accenno alle radici lontane dei
problemi, ai tempi lunghi di resa degli investimenti formativi e al confronto obbligato con la Germania. Nel
1861, al momento dell’Unità, il 78% della popolazione
italiana era costituita da analfabeti totali e il 19,5% da
semianalfabeti. Nello stesso periodo nella Prussia gli
analfabeti totali erano solo il 20%. Ma è il caso di citare anche il 10% di analfabeti totali della Svezia di allora, per la comune influenza luterana. Per non abusare di citazioni illustri circa l’”etica protestante”,
basta ricordare la rivoluzione dell’accesso alla lettura
della Bibbia in lingua per cogliere le origini della differenza.
Gli esiti dei confronti sono migliorati, ma l’Italia resta in fondo alle classifiche della dispersione scolastica, ancora attorno al 18% e ha squilibri educativi
insopportabili tra le Isole e il Sud, che eccellono soprattutto nella produzione di intelligenze “da esportazione”.
Impietosi sono anche i risultati di tutti i confronti
123
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
internazionali fatti dall’OCSE sulle competenze alfabetiche e matematiche. Nel 2011 l’Italia registrava la
quarta percentuale più elevata di popolazione attiva
(il 45%) in possesso del solo diploma di istruzione
di base, con incidenza rilevante dello stesso basso
livello anche per le generazioni più giovani, e la percentuale più bassa di popolazione titolare di un diploma di istruzione terziaria nell’UE. Più recentemente l’indagine PIAAC dell’OCSE, del 2013, ha
collocato l’Italia all’ultimo posto dei Paesi considerati per l’alfabetizzazione e al penultimo per le competenze matematiche degli adulti, tra l’altro con risultati molto polarizzati. Solo il 3,3% degli italiani si
attesta sui valori più alti della scala delle competenze per quanto riguarda l’alfabetizzazione (media
OCSE dell’11,8%) e il 4,5% per la matematica (media OCSE del 10% circa). All’estremo inferiore della
scala, il 27,7% degli italiani registra competenze di
alfabetizzazione pari o inferiori al livello minimo (media OCSE del 15,5%). E i bassi tassi tra i giovani dicono che continua l’alimentazione del deficit di conoscenze anche per il futuro: il 19,5% dei
quindicenni non comprende sufficientemente l’italiano e il 24,5% la matematica di base.
Il secondo riferimento è alla formazione professionale per il lavoro, che deve essere anche educazione generale. In Germania nel 2011 il 79,2% della
popolazione tedesca con più di 25 anni possedeva
un titolo professionale, per il 69,1% conseguito
nella formazione professionale del sistema duale. Il
restante 30,9% possedeva titoli professionali di
istruzione terziaria, universitaria e non. L’incidenza
della formazione professionale è ancora più rilevante, se si considera che il 20% degli immatricolati all’Università ha alle spalle una formazione professionale nel sistema duale e il 20% di chi entra nel
sistema duale viene da un diploma di maturità. La
qualificazione nel sistema duale non è storia del
passato, poiché l’incidenza dei qualificati nel sistema duale è relativamente stabile per le diverse
classi di età. Circa due terzi di ogni classe di età
continuano a passare attraverso la formazione professionale nel sistema duale, che contribuisce in
modo decisivo ai buoni livelli generali di scolarità
della popolazione.
Nel confronto, comunque relativo e difficile per la
diversa struttura dei sistemi formativi, la situazione
italiana risulta debole in termini di formazione orientata al lavoro. Nell’anno scolastico 2013-14 i nuovi
iscritti alla secondaria superiore si sono così distribuiti: 45% nei licei, 29% negli istituti tecnici, solo in
parte assimilabili a percorsi professionalizzanti, 17%
negli istituti professionali, luoghi educativi fragili e
raramente professionalizzanti e solo il 9% (il 17%
nelle regioni del Nord) nella formazione professionale vera e propria, compresi gli Istituti Professionali
che adottano il modello IeFP. Quanto all’Istruzione
Tecnica Superiore il confronto con la Germania tra allievi formati non ha senso, perché il rapporto è 1 a
100. Con ciò si segnala un buco nero nel sistema formativo italiano, quello della formazione tecnica di livello terziario, buco lasciato dalla mancata valorizzazione della formazione professionale, dalla
interruzione della sperimentazione delle lauree triennali professionalizzanti della Riforma Berlinguer e
dalla sostanziale mancanza di effettività dell’attuale
formula 3+2 del Processo di Bologna cucinato in
salsa italiana. Resta comunque certo che il livello terziario sarà il livello standard minimo di qualificazione
dell’immediato futuro. Inoltre resta la necessità di
assicurare ai giovani della formazione professionale
una progressione formativa verso qualificazioni di livello terziario. Ma questo richiederà qualche evoluzione del sistema educativo generale anche a monte,
considerando che l’Italia resta tra i pochi paesi europei ad avere ancora un’istruzione generale comune di
soli otto anni, mentre altrove è di nove o dieci anni,
con l’aggravante che i nostri giovani, provengono da
un triennio di scuola media inferiore molto fragile.
Sui deficit sul lato della domanda di lavoro qualificato resta da dire che spesso le imprese sembrano
ricercare lavoratori addestrati per specifiche mansioni e tecnologie e, solo occasionalmente, desiderare giovani qualificati per professioni e per carriere
professionali, probabilmente per le ragioni indicate
nelle valutazioni della Commissione Europea. Questa
attitudine delle imprese - soprattutto di quelle che
nella crisi, vivendo alla giornata, hanno assunto atteggiamenti puramente difensivi per criticità strutturali o
per intenzioni speculative - ha a che fare anche con
124
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
la richiesta di un’estrema flessibilità nell’impiego del
lavoro. Lo ricordava recentemente Luciano Gallino in
una sua pubblicazione: «oltre la metà del milione
circa di contratti di lavoro co.co.co. o co.co.pro, che
al 2010 risultavano lavorare di fatto come lavoratori
dipendenti, aveva un titolo di studio non superiore alla
licenza media» e «tra i 515.000 lavoratori che hanno
compiuto missioni in somministrazione ovvero in affitto nel 2011, quasi la metà non andava oltre la licenza media e due terzi erano operai». Lo testimoniano anche gli operatori Enaip che interrogano le
imprese sul loro bisogno di manodopera qualificata,
ricevendo spesso risposte sconfortanti
La qualificazione professionale
nella transizione scuola/lavoro
Nella comunicazione pubblica si parla soprattutto
dei disoccupati più giovani, quelli fino a 24 anni, che,
però, rappresentano una piccola quota della popolazione di riferimento e che, tra l’altro, almeno in parte,
dovrebbero essere in formazione, a scuola o all’università. In realtà l’impatto della disoccupazione è più
devastante nelle fascia di età 25-34 anni: nell’età attiva per eccellenza lavorano solo sei persone su dieci
a livello nazionale, otto maschi su dieci al Nord e tre
donne su dieci al Sud. Dal 2010 gli occupati della fascia di età 25-34 anni sono diminuiti di circa 800.000
unità e il tasso di occupazione è sceso al 60%. Era il
65% nel 2010 e il 70% nel 2007. Circa la metà dei
quasi sette milioni di italiani senza lavoro (disoccupati
e inattivi scoraggiati) hanno meno di 35 anni. Inoltre,
non sempre chi è occupato svolge mansioni professionalmente qualificate e, in generale, non sempre occupazione e qualificazione combaciano. E questa situazione, se non affrontata con misure risolutive, è
destinata a peggiorare, perché arriveranno nella fascia di età 25-34 anni i sempre più numerosi rincalzi
di disoccupati delle precedenti classi di età.
Ridare centralità alla cura della qualificazione professionale nella transizione scuola/lavoro è condizione per fare della transizione la fase nella quale i giovani avviano la loro carriera professionale. Da sole le
usuali politiche e misure di sostegno all’occupazione
– quelle a sostegno sia della ricerca di un lavoro da
parte dei giovani sia alla propensione delle imprese
alla loro assunzione in una qualche forma, di solito
precaria – risultano insufficienti. Anche l’apprendistato risulta scarsamente efficace in termini di stabilizzazione quantitativa e qualitativa dell’occupazione
giovanile, perché disancorato da un processo di qualificazione. Del resto il sistema italiano delle imprese è
costituito per più del 90% da microimprese, spesso
non in grado di investire sul loro futuro e di assicurare
ai giovani strutturati percorsi di sviluppo professionale.
Delle politiche per l’occupazione si usa enfatizzare
allo stesso modo limiti e aspettative irrealistiche, non
considerando le caratteristiche del tutto straordinarie
della disoccupazione giovanile italiana. Anche il confronto con le analoghe politiche e misure di altri Paesi
viene impostato in modo improprio: la differenza non
consiste nella quantità degli addetti ai servizi per
l’impiego, ma nelle funzioni messe in campo, in particolare formazione professionale e reddito per giovani in formazione. Con la Garanzia Giovani (Youth
Guarantee) sembrerebbe affermarsi un dispositivo
più integrato, che sistematizza un catalogo di servizi
per il lavoro per i giovani. Ma, almeno all’inizio, anch’essa sembra non considerare molto la formazione
e la qualificazione professionale. L’esperienza conferma che misure incentivanti tirocini e simili occasioni
di contatto con il mercato del lavoro, persino assunzioni, non collegate alla qualificazione professionale
sono poco efficaci per l’occupazione soprattutto nel
medio-lungo periodo. Restare attivi sul mercato del
lavoro dipende soprattutto dalla qualificazione professionale e da misure che mantengano attive le carriere
professionali. Per questo la Garanzia Giovani rischia
di essere la riedizione ricca (di finanziamenti europei)
di misure già provate e finite nella palude dei “lavoretti” riservati ai giovani.
Bisogna mettere in campo anche misure formative
per i giovani disoccupati, nel quadro di un sistema di
sécurisation, come dicono i nostri amici francesi, di
“messa in sicurezza” dei loro percorsi, difficili , almeno
dal punto di vista dello sviluppo di una carriera professionale e delle competenze. La disoccupazione
giovanile colpisce più duramente chi è privo di qualificazione e il suo prolungarsi porta a perdere la qualificazione di chi l’ha. I dispositivi da mettere in atto
non possono ridursi a procedure burocratiche, ma as-
125
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
sicurare la crescita professionale in un sistema di alternanza rafforzato da dispositivi di certificazione
della qualificazione. È l’idea stessa di transizione da
rivedere, perché non sia periodo di vuota attesa. Per
questo la sécurisation deve integrare misure di continuità di sicurezza sociale, anche con forme di reddito di transizione attiva.
La sintesi potrebbe essere costituita da un contratto di formazione work based per giovani disoccupati: formazione in alternanza, nella logica di sistema
duale, tra imprese e istituzione formativa, per un periodo sufficiente a rafforzare o a recuperare una qualificazione professionale, sufficiente anche per le imprese a selezionare i propri futuri collaboratori.
Mettere al centro il contratto di formazione per giovani
disoccupati consente anche di valorizzare al meglio
le misure di sostegno all’occupazione.
Formazione work based
A maggior ragione un contratto di formazione
work based può fungere da ponte diretto tra sistema
formativo e lavoro.
Per rendere possibile una transizione diretta
scuola/lavoro serve una formazione più orientata al lavoro, work based, come tutti, da Bruxelles e da Berlino, ci raccomandano. Ma sappiamo già dall’esperienza, pur limitata, dell’IeFP che a distinguere
maggiormente la formazione professionale dalla
scuola tradizionale sono la stabile cooperazione con
le imprese del territorio e l’interazione con il mondo
del lavoro. La formazione work based per eccellenza
– perché più efficace - è quella praticata nella forma
del sistema duale in Germania, in Austria e in Svizzera, dove circa due terzi dei giovani in formazione
passano senza soluzione di continuità dal contratto
di formazione al contratto di lavoro con la stessa impresa che ha partecipato alla loro formazione.
È una ispirazione da accogliere e da tradurre in dispositivi praticabili nei nostri contesti, poiché il sistema duale non può essere tout court introdotto in
Italia. L’ipotesi principale da considerare è quella di integrare nella fase conclusiva dei precorsi triennali e
quadriennali IeFP (ma ciò potrebbe valere anche per
gli Istituti professionali e Tecnici) un contratto di formazione duale.
Per questo è utile ricordare gli elementi che definiscono strutturalmente il sistema duale, anche
per recuperarne il più possibile di spirito e di soluzioni concrete nel nostro ipotizzato contratto di formazione duale e di transizione diretta scuola/lavoro: a) anzitutto “duale” significa che la formazione
si svolge in due luoghi, nell’istituzione formativa e
in azienda e non si riferisce ad una mera alternanza
di momenti di formazione e momenti di lavoro, b) tra
il giovane e l’azienda si stipula un contratto di formazione, non di lavoro, e il salario dell’apprendista
è un reddito di formazione, c) l’azienda deve essere
certificata come impresa formativa e avere formatori aziendali, tecnici che hanno ricevuto una formazione pedagogica, la stessa qualificazione dei docenti dell’istituzione formativa, d) spesso la
formazione in piccole aziende è integrata da una
struttura terza, normalmente un centro di formazione sovra aziendale del settore di riferimento,
quindi con una configurazione a tre poli, invece
che a due, e) la formazione è basata su un sistema
di qualifiche che descrive in modo dettagliato il
profilo professionale per competenze, la qualifica
perseguita, il curriculum, i contenuti della formazione, le prove d’esame e le modalità di certificazione della qualifica, f) l’interesse dell’impresa di
formazione consiste, oltre che nel prestigio sociale,
nella selezione, formazione e fidelizzazione dei futuri dipendenti, g) in generale le parti sociali svolgono un ruolo essenziale in tutti i passaggi del sistema duale.
Gli elementi sopra descritti non solo forniscono
spunti per la nostra ipotesi contratto di formazione
duale e di transizione diretta, ma anche inducono più
in generale a rafforzare l’orientamento al lavoro della
nostra formazione professionale. Nell’ipotesi italiana
di contratto di formazione si potrebbe considerare la
possibilità di un contratto a tre, allievo, impresa e istituzione formativa. Soprattutto si dovranno fare i
conti anche con i noti limiti del sistema italiano delle
imprese, solitamente lontane da tradizioni formative. Per questo toccherà alle istituzioni formative
supportare le imprese nella loro nuova funzione formativa, che dovrà trovare opportune forme di certificazione.
126
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
La formazione per una conoscenza
e per una competenza comprensiva
È vero che in Italia bisogna cominciare tout court
dall’invocare l’esistenza di un sistema di formazione
professionale, nazionale e forte. È vero anche che, per
essere efficace in termini di esiti occupazionali e per
accompagnare gli attesi processi di innovazione nelle
imprese, la formazione deve essere più work based
e che tutto il sistema educativo deve essere più orientato al mondo del lavoro.
Ma il valore e le virtù del lavoro professionale richiedono qualcosa di più della produzione di atti
professionali e la formazione non solo arricchisce il
bagaglio di metodi e strumenti per accompagnare i
percorsi professionali, ma anche proietta, attraverso
la sua funzione educativa, linee di umanizzazione del
lavoro e dello sviluppo. E a queste linee che possono
essere riferiti I sette saperi necessari all’educazione
del futuro che Edgar Morin ritiene debbano integrare
le discipline esistenti e stimolare lo sviluppo di una
conoscenza atta a raccogliere le sfide della nostra vita
professionale, culturale e sociale.
Il primo è quello della conoscenza della conoscenza: bisogna insegnare che cosa è conoscere. Lo
scopo è quello di evitare la cecità della conoscenza,
fonte di errori e illusioni, insegnando a conoscere,
mettendo alla base di ogni processo formativo l’imparare a imparare. Il secondo riguarda la pertinenza
della conoscenza, contrapposta alla sua frammentazione nelle diverse discipline, «facendo posto a un
modo di conoscere capace di cogliere gli oggetti nei
loro contesti, nei loro complessi, nei loro insiemi». Il
terzo sapere ha come oggetto la condizione umana:
«a partire dalle discipline attuali, riconoscere l’unità e
la complessità dell’essere umano riunendo e organizzando le conoscenze disperse […] mostrare il legame indissolubile tra l’unità e la diversità di tutto ciò
che è umano». Insegnare l’identità terrestre è il quarto
sapere e riguarda la conoscenza degli sviluppi della
globalizzazione e il riconoscimento dell’identità terrestre dell’umanità, che vive una stessa comunità di destino, tutta esplicitamente messa a confronto con gli
stessi problemi di vita e di morte. Il quinto sapere riguarda l’affrontare le incertezze e si esprime nell’apprendimento di strategie che permettono di affrontare
i rischi, l’inatteso e l’incerto e di modificarne l’evoluzione nel corso dell’azione. «Bisogna apprendere a
navigare in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezza». La comprensione come mezzo e
fine della comunicazione umana è il sesto sapere
fondamentale e costituisce una delle basi più sicure
dell’educazione alla pace. Infine, settimo, c’è il sapere
dell’etica del genere umano. «L’insegnamento deve
produrre una antropo-etica» basata sul potenziamento congiunto delle autonomie individuali, delle
partecipazioni comunitarie e della coscienza di appartenere alla specie umana.
Non mancano altri elenchi e altre descrizioni di saperi, competenze e capacità (life skills, soft skills,
competenze chiave, di base, traversali, sociali, personali….) che dovrebbero accompagnare l’attività
(anche professionale) umana al di là delle tecniche.
Tutto ci riporta sempre ad una formazione che non
può che essere formazione personale e collettiva
dell’uomo e essere intesa nel senso del pensiero filosofico e pedagogico tedesco della Bildung, “cultura
animi”, una categoria dell’essere.
127
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
LA FORZA (DEL) LAVORO:
UNA CAMPAGNA PER DIMOSTRARE
CHE IL LAVORO NON È FINITO
di Stefano Tassinari
Vice Presidente Nazionale ACLI, Responsabile Lavoro
Come dimostrano i pensieri e le esperienze che
danno vita alle pagine di questo libro: il lavoro non è
finito. Possiamo ancora dire e vedere che, pur essendo il grande malato di questa crisi, il lavoro è ancora una grande forza: civile e popolare, spirituale e
materiale, di solidarietà e di sviluppo.
Il lavoro da forza al progresso che la nostra Costituzione (art 4) ci chiede di costruire insieme, ognuno
con le proprie attività o funzioni, con la propria azione
sociale. Il problema è semmai sprigionare questa
forza per vedersi insieme contro la crisi e per tirare
fuori quella creatività che può farci valorizzare appieno le vocazioni e le prospettive di questo Paese.
La forza (del) lavoro è la nostra campagna:
- Vogliamo tornare a parlare con i cittadini, reimparare a convocarli per confrontarsi e provare a sostenere insieme lo sguardo pietrificante di questa crisi.
- Vogliamo lanciare le nostre proposte, che non
sono ricette magiche, ma cercano di dimostrare
che per sconfiggere povertà e diseguaglianze,
per riconciliarci con il futuro, occorre lavorare
su più fronti ricreando una alleanza tra qualità
dell’economia, qualità del lavoro, qualità della
vita. Non esiste un primo tempo della crescita e
poi potremo avere più lavoro e più solidarietà, ma
esiste una comunità in cui crescono insieme,
aiutandosi reciprocamente, la cittadinanza (senso
civico, legalità, servizi che funzionano..) e la capacità di produrre ancora, con cose nuove e in
modo nuovo (di produrre e redistribuire ricchezza, ricchezza sostenibile).
- Vogliamo rimettere a tema la nostra capacità di
riunire le persone per affrontare insieme i problemi, di promuovere i diritti e il lavoro attraverso
tante esperienze di informazione e accompa-
gnamento nei territori, che realizzano i nostri servizi, i circoli e le nostre associazioni specifiche.
Il lavoro non è finito, così come non è scomparso
il futuro come orizzonte di un mondo migliore, meno
sazio e sprecone di quello che, nella nostra minoritaria parte di mondo, ci stiamo lasciando alle spalle. Un
mondo che come un moderno re Mida ha voluto provare a trasformare tutto in oro, rendendo in ultimo la
nostra esistenza collettiva più sterile.
Ma certo la situazione è più drammatica, forse servono strategie e approcci meno magici, ma più profondi delle tante solite ricette che alla fine si appellano
alla crescita come soluzione di tutti i mali. Anche le
presunte locomotive dello sviluppo economico dove
la crescita è presente, paiono rallentare. In diversi casi
preoccupa la loro insostenibilità sociale e civile, nonché ambientale.
I nodi vengono al pettine e anche loro devono confrontarsi con la difficoltà di quadrare il cerchio, per riuscire, come ricordava (o profetizzava) vent’anni fa Ralf
Dahrendorf, a generare insieme nelle nostre società:
benessere economico, coesione sociale e libertà politica. E visto che tra meno di mezzo secolo, di questo
passo, rimarremo pure senz’acqua ai piedi dei nostri
monti, ci aggiungerei la sostenibilità ambientale.
Forse per affrontare in modo nuovo queste sfide
dobbiamo mettere a tema almeno tre profondi interrogativi.
Il primo è: di che cosa vogliamo vivere
e come vogliamo vivere?
Una economia sana e di qualità promuove una società sana e di qualità. E viceversa una società sana
e di qualità promuove una economia sana e di qualità. Questa alleanza che ha radici antiche, e che annovera tra le migliori esperienze l’idea di Comunità di
128
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
Adriano Olivetti, passa per un lavoro di qualità, che
punta a creare occupati stabili perché nella stabilità
si costruisce professionalità e senso di appartenenza.
Serve guardare a un’economia più orientata alla custodia, alla cura, alla valorizzazione di ciò di cui si dispone, superando una economia basata tutta sul consumismo, e con esso sullo spreco e tante volte sulla
speculazione e sulla “rapina” del saper fare, che sovente ha impoverito le singolarità delle culture del lavoro e le produzioni tipiche dei nostri territori a vantaggio dell’asservimento alla grande economia di massa.
Oggi sia i consumatori che le istituzioni hanno meno
soldi da spendere, e quello che possono lo tirano fuori
cercando di spendere meglio. Ecco un orientamento
che potenzialmente va nella direzione di una economia
nuova, non a caso i settori o le innovazioni che ancora
creano o possono creare lavoro vanno in questo senso:
green economy, nuove tecnologie, servizi alla persona
e nuovo welfare, cultura e agricoltura.
Si tratta per ogni comunità e per il Paese di dirsi
che cosa vogliamo produrre e come vogliamo produrlo. Serve fare delle scelte di politiche industriale
che non significa solo riscoperta del talento della nostra manifattura, ma dell’intero made in Italy, e del potenziale di attrazione del quadrante turismo e cultura
– tipicità alimentare e artigiana – qualificazione e sviluppo dei servizi.
Serve chiedersi se vogliamo continuare a scommettere sulla precarietà e su una flessibilità imposta
dalla globalizzazione che invece di affrontare insieme,
come sistema istituzionale, abbiamo scaricato sulle
spalle dei ceti più popolari, e in particolare dei più giovani e delle donne. Della tanto celebrata flexsecurity
abbiamo visto solo la flex.
La partita la dobbiamo giocare sulla ricerca e sull’innovazione, sull’istruzione e sulla formazione, per
tutta la vita, non solo come proposta per chi perde il
lavoro: questa è la carta vincente, è la nostra assicurazione per il futuro.
Nel nostro futuro il valore aggiunto deriverà sempre meno dallo spendere e produrre di più e sempre
più dal fare meglio per spendere meglio.
Questo Paese, e non solo, questa scelta non l’ha
ancora fatta. Si tratta di darsi una visione e un programma tangibile eliminando le politiche che danno
risorse a tutti in favore di scelte chiare che riconvertano laddove bisogna riconvertire. Serve un progetto
“Italia 2020” che dica su cosa e dove vogliamo arrivare, che tocchi i nodi nevralgici, quelli che scontentano chi ha fatto i soldi e le grandi rendite di potere.
Il secondo è: come redistribuire rischi
e opportunità del nostro tempo?
Non si tratta solo di questa crisi. Una società è solida laddove non ci si vede gli uni contro gli altri, ma
insieme, dove insieme, nell’intera società si sente
concretamente di essere legati, promessi gli uni agli
altri, anche nella crisi quando nonostante tutto ci si
possa sentire solidali.
Senza questa tangibile e diffusa promessa la società si frammenta e su questa frammentazione si indebolisce anche la fertilità delle nostre vocazioni produttive, di quel campo fertile che è il nostro stivale.
Cede alla zizzania e finisce per doversi svendere a
qualche salvifico investitore internazionale.
Nella crisi vediamo che la ricchezza soffre soprattutto di accumulo, di come è stata concepita, gestita
e mal distribuita. Così le famiglie sono sempre più vulnerabili, le disuguaglianze sempre più ampie e il futuro è una minaccia.
Quale redistribuzione, allora? Questa domanda
passa certamente da un nuova fiscalità e da un moderno e più reattivo sistema di welfare, che però
siano universali anche nel senso di sempre più globali. Redistribuzione, come scriviamo nelle nostre
proposte significherà sempre più saper ripartire il lavoro che c’è. Non basta immaginarne di nuovo. Già
oggi in Italia se lavorassimo in media quanto in Germania avremmo qualche milione di lavoratori in più.
Il terzo interrogativo è: come non farsi
governare dalla ricchezza?
Nel mondo una massa di prodotti finanziari derivati si muove spesso senza regole e senza trasparenza. Poche grandi banche, troppo grandi (più del pil
di intere nazioni) ne controllano la gran parte, muovendoli con la rapidità di millesimi di secondo attraverso algoritmi che in pochissimi conoscono e sanno
manovrare. Buttiamo in media mezzo chilo di cibo al
giorno mentre un miliardo di persone è in povertà
129
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
estrema. Poche potenti multinazionali decidono e influiscono su trattati intercontinentali di libero scambio
che ai parlamenti non è dato conoscere prima della
loro conclusione.
Questi sono solo alcuni elementi di un quadro più
ampio e più diffuso che anche nel piccolo alimenta
sempre più l’idea che non siamo proprio tutti uguali,
ma che di fronte alle grandi decisioni ancora una
volta, come nella Fattoria degli animali di Orwell,
qualcuno sia più eguale degli altri. C’è un oggettivo
incrinarsi della sovranità popolare quasi come se la
democrazia per poter fare i conti con la complessità
della globalizzazione avesse scelto di venire a patti
con l’aristocrazia moderna, invece di procedere a
una propria estensione.
È una domanda forse un po’ forte, ma che deve
trovare una risposta in una Europa unita più forte, più
democratica e sociale, per affacciarsi con dignità e responsabilità in un Mediterraneo possibile punto di incontro di aspirazioni civili e di progresso autentico,
oggi troppo spesso accantonate.
La domanda deve trovare una risposta anche localmente dove troppo spesso i soldi sembrano dettare nuove regole civili. Fa scandalo la corruzione nostrana, ma fa scandalo anche una società dove la
concorrenza troppo spesso non si basa sulle pari opportunità ma sulle posizioni di potere e di ricchezza
acquisita, e il merito non è utilizzato come criterio di
scelta.
Non si tratta di diventare antagonisti di un presunto
astratto sistema, ma neanche di far finta di non vedere
che abbiamo bisogno di tornare sovrani delle nostre
vite e del nostro lavoro riscoprendo e ridandoci insieme un orizzonte di senso e di comune vivere civile.
Probabilmente non torneremo al benessere che in
tanti casi sembravano averci lasciato i nostri genitori,
ma possiamo ancora osare insieme un futuro più
giusto e consapevole.
E fare associazione vuol essere questo: provare a
partire da ciascuno di noi per tornare ad essere insieme sovrani delle nostre vite, nella nostra società,
e sempre più del lavoro che ognuno di noi può offrire.
130
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
LA FORZA (DEL) LAVORO
PER SCONFIGGERE POVERTÀ
E DISEGUAGLIANZE
La triplice crisi e il Jobs Act
I) ITALIA 2020: FAR EMERGERE IL PAESE DELLA
BELLLEZZA:
1. UN PAESE CHE PRODUCE COSE BUONE E
BEN FATTE
a. Mobilità sostenibile e dignitosa, e infrastrutture 2.0
b. INDUSTRIA 2020: un piano per ricerca, innovazione e investimenti
c. Green economy
d. Nuovo welfare per nuovo lavoro, che riconcili vita e lavoro
e. Il Mediterraneo al centro del mondo, il Mezzogiorno centrale per un co-sviluppo umano
II) PARTIRE DAL LAVORO, DALLA BUONA
OCCUPAZIONE
1. DOVE TROVARE LE RISORSE
a. No austerità, ma un piano Marshall per l'Europa
b. Una Responsabilità Sociale della Pubblica
Amministrazione
c. Sostituirsi alle Regioni o Enti Locali nelle parti
mal amministrate
d. Tassare le transazioni finanziarie
e. Quasi eliminazione del contante per abbattere evasione e illegalità
f. Ridurre le spese per armamenti
2. INVESTIRE DOVE PUÒ CRESCERE
IL LAVORO
a. Nuovi settori e imprenditorialità sociale
b. Tagliare il cuneo fiscale creando lavoro
c. Fare reti di imprese: un fondo nazionale
2. È UN PAESE CIVILE, BELLO E LIBERO
a. Uno Stato degli Stati Uniti d'Europa per promuovere la dignità della persona e del lavoro
b. Riformare la finanza
c. Sconfiggere le concentrazioni di interessi e
potere
d. La bellezza come patrimonio civile
e. Una politica sobria e trasparente
f. Leggi leggibili e una Pubblica Amministrazione promotrice di innovazione
3. DOVE SI VIVE E SI LAVORA BENE
E INSIEME!
a. Una occupazione di qualità: istruzione e formazione professionale
b. Una fisco equo e stop a mega stipendi e
mega pensioni
c. una cittadinanza non fondata sul diritto di
sangue e diritti e tutele portatili
3. INVESTIRE NELLA QUALITÀ DEL LAVORO
a. Istruzione e formazione professionale permanente: prima politica attiva
b. Contratto UNICO a tutele progressive, tutele
dei nuovi lavori e delle partite Iva, ammortizzatori e politiche attive per tutti e forme di
partecipazione dei lavoratori
c. Proteggere e re-includere chi rischia la povertà
d. Pensare alla pensione dei giovani
4. INVESTIRE PER REDISTRIBUIRE IL LAVORO
a. Part time verso la pensione e part time di ingresso dei giovani
b. Detassare il part time dei giovani
c. Investire nei contratti di solidarietà, anche
con reti di imprese
131
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
Nè sprechi nè austerità, ma dialogo
con le forze sociali per una politica
economica indirizzata a creare
occupazione di qualità con uno sviluppo
nuovo, sostenibile e aperto al mondo
Sempre più spesso la crisi dell’occupazione e
l’impoverimento delle fasce più popolari si diffondono come un profondo senso di oppressione, che
radica l’idea che non si possa fare nulla. Una vera e
propria depressione che colpisce tutti, ma che vediamo inasprirsi tra i soggetti meno tutelati i giovani,
le donne, gli stranieri, i lavoratori espulsi. Ma la fase
che viviamo non deriva da una assenza di risorse e
anche di ricchezza, ma prevalentemente da sprechi,
speculazioni e da una assenza di una politica di sviluppo, di uno sviluppo nuovo, sostenibile e aperto al
mondo; anche alla luce dei drammatici allarmi sulle
variazioni climatiche che senza un cambio di rotta
avranno effetti sempre meno contenibili. La speranza e le possibilità hanno bisogno per riemergere
che riemerga e venga rivalutato il lavoro, cominciando dalle nostra capacità di riconoscere che il lavoro è sì il grande malato del momento, ma nel contempo è la forza che un popolo ha per cambiare
insieme le cose, per darsi, come ricorda la nostra
Costituzione, un progresso materiale e spirituale.
La forza lavoro, l’essere lavoratori, in tanti modi, anche chi il lavoro lo cerca, è la nostra forza civile più
grande: la volontà, la dignità, i diritti, la responsabilità, la fatica, la creatività, l’operosità, l’ingegno, il talento di milioni di persone e comunità attraverso le quali possiamo riconciliarci con il
futuro
La triplice crisi del lavoro
Abbiamo la sensazione che questo momento
storico abbia bisogno di essere preso un po’ più sul
serio di quanto faccia una democrazia sempre più
“del pubblico”, in cui imperano i tempi televisivi, le
ricette in tre punti, le battute azzeccate, l’esigenza di
ridurre tutto a pochi ed efficaci progetti salvifici,
salvo poi fare i conti con una perenne assenza di
reali cambiamenti. Eppure se si incontrano i lavoratori di una azienda che chiude o chi non riesce più
a curare i propri figli è sempre più difficile e più imbarazzante tirar fuori slogan, anzi si resta senza parole. È più difficile dire la verità alle persone e ai cittadini. Dire che la notte sarà dura da passare, e che
serve un grande salto di responsabilità e di coinvolgimento da parte di tutti, ognuno secondo le proprie
possibilità.
Ci sembra allora importante rilevare che il lavoro
è sottoposto a una triplice prova di forza che forse
troppo frettolosamente chiamiamo crisi.
La crisi finanziaria ed economica
Una prima prova di forza è sicuramente quella
della crisi prima finanziaria e poi economica che
non è stata una fatalità, bensì un momento di verità.
Una crisi originata, vale la pena ricordarlo, da una finanza senza regole, e che ancora è senza regole, e
da una crescita delle diseguaglianze che negli ultimi
decenni, hanno indebolito e reso più vulnerabile la
fiducia e la stabilità economica dei cittadini. Quella
fiducia e quella stabilità senza le quali investimenti
e ricchezza smettono di circolare e prima o poi anche la ricchezza virtuale sbatte il naso. Come si può
pensare mettessero in cantiere progetti di vita, quei
progetti che fan marciare veramente l’economia? Si
è iniziato a vivere alla giornata.
La rivoluzione tecnologica e la riduzione
di manodopera
Siamo solo all’inizio di una rivoluzione tecnologica, che sempre più ridurrà l’apporto diretto del
ruolo del lavoratore e sempre più lo sostituirà con le
macchine, imponendoci di rideclinare lo stesso significato del lavoro, riscoprendo e valorizzando anche il lavoro fuori dall’occupazione (lo studio, la genitorialità, la cura familiare o di un vicino, il
volontariato, l’auto produzione e l’auto consumo, le
piccole produzioni locali, l’economia solidale….).
Anzi se saremo capaci di innovare la nostra idea di
lavoro, troveremo che questa liberazione del tempo
potrebbe promuovere un ruolo più autonomo e
meno standardizzato del lavoratore.
È successo prima nell’industria e ora avviene nei
servizi: Amazon crea sì posti di lavoro, ma per ogni
posto creato ne cancella 8 o 9. È successo nel no-
132
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
stro Occidente, dove oggi si prospetta che i robot
sostituiscano anche i colletti bianchi, ma si estende
anche al resto del mondo. Anche se altri paesi in Europa sono più avanti. Infatti da noi si lavora in media il 20% in più all’anno di paesi europei dove l’occupazione è più alta, come la Germania - quasi
1800 ore contro 1500 -. E si dispone di orari diversi
secondo le proprie necessità nel corso della vita1.
Da grandi in un mondo piccolo a piccoli in un
mondo grande
Nell’arco di un paio di decenni abbiamo smesso
di essere grandi in un mondo piccolo e ci scopriamo
piccoli in un mondo più grande. Fino a pochi anni fa
quando parlavamo del mondo, ci riferivamo prevalentemente all’Occidente, vero motore e regista della
globalizzazione. Oggi il mondo è quasi veramente
unico e le distanze anche economiche tra tutte le nazioni si riducono, mentre invece crescono le diseguaglianze all’interno degli stessi. La povertà
estrema (1,2 dollari al giorno, mentre restano circa
870 milioni le persone che soffrono la fame) di quei
paesi quasi si dimezza e la povertà assoluta e relativa da noi raddoppia, e le persone sempre più migrano facendo fatica a portare con se diritti e tutele,
mentre invece i soldi circolano alla velocità con cui
si preme un tasto. È un po’ come se ieri fossimo stati
seduti in dieci al banchetto del mondo e ora, anche
per la crescita demografica, fossimo diventati venti,
con i nuovi ospiti molto più affamati di futuro di noi,
che invece del futuro abbiamo spesso solo paura. È
sciocco pensare di poter affrontare questi scenari da
soli, senza una governance globale, democratica,
senza che come Europa si passi definitivamente il
guado nel quale siamo rimasti incastrati, nei vincoli
reciproci dei differenti Stati e delle rendite di posizione dei loro ceti politici, verso un vera unità politica, all’altezza dei tempi.
Il Jobs act: prime riflessioni sugli interventi
annunciati
Ci torneremo. Ma oggi prima di tutto occorre
concentrarsi soprattutto sulla crescita dell’occupazione, di buona occupazione ancor di più della crescita economica. Infatti anche una pur importante
immissione di denaro nelle tasche dei cittadini meno
agiati rischia di dare solo una boccata d’aria se non
si investe prioritariamente nel creare nuovo lavoro e
non si redistribuisce quello esistente.
I recenti provvedimenti (un decreto e un annunciato
disegno di legge delega) dicono della volontà del
nuovo Governo di intervenire rapidamente a favore del
lavoro e rimettono a tema una serie di questioni importanti. In particolare il disegno di legge delega intende trattare aspetti fondamentali: ammortizzatori
che coprano effettivamente tutti i lavoratori; affiancamento e definizione di un quadro pubblico e privato
di quelle politiche attive, con l’introduzione di una
Agenzia nazionale; semplificazione delle procedure;
misure di conciliazione innovative e universali; ridefinizione di un testo chiaro sui contratti, con gli intenti
di definire un compenso minimo (che ormai in Europa
manca solo in Italia, dopo le recenti scelte della Germania) ed elaborare un contratto di ingresso a tutele
progressive. Bene anche l’annuncio di uno stanziamento di mezzo miliardo per l’impresa sociale.
1 Sostiene l'economista Nicola Cacace: "I paesi che hanno fatto politiche redistributive - straordinari costosi o aboliti, contratti di solidarietà a
sostegno di orari ridotti, pensionamento progressivo, etc.- sono quelli con tasso di occupazione più alti: Olanda, Germania, Danimarca, Austria,
Svezia, Gran Bretagna, paesi con durata annua del lavoro media intorno alle 1500 ore, hanno tutti tassi di occupazione (occupati su popolazione in età da lavoro) superiore al 70%, al contrario dell'Italia che, con una durata annua di 1778 ore, ha un tasso di occupazione del 56%, inferiore di 9 punti alla media europea del 65%. Dieci punti in meno della media europea (media, con Grecia, Spagna, noi, etc., non primati nordici),
significa almeno 4 milioni di lavori in meno, quelli che ci servono per tirare fuori dal buco nero i nostri 3 milioni di disoccupati e qualche milione
di scoraggiato. Esiste una legge semplicissima che tutti conoscono o dovrebbero conoscere.. Il lavoro si crea se la produzione cresce più della
produttività. Oggi che la crescita media del Pil nei paesi industriali arriva con difficoltà al 2%, mentre la produttività oraria continua ad aumentare con tassi intorno al 2%, grazie all'elettronica ed ai nativi digitali, l'occupazione si mantiene alta solo nei paesi che riducono gli orari di lavoro.
I paesi europei che hanno fatto politiche in favore di orari annui più corti, legge delle 35 ore in Francia con annualisation des oraires, Kurzarbeit
(lavoro corto), contratti di solidarietà e banca delle ore in Germania, part time volontario incentivato in Olanda, flexsecurity in Danimarca e paesi
scandinavi, pensionamento progressivo, sono quelli a più bassa disoccupazione, 5% in Austria e Germania, paesi con orari di lavoro più bassi.
In Italia l'orario annuo è del 23% superiore a quello medio di Francia, Germania ed Olanda, che significa 4 milioni di posti lavoro in meno.
L'assurdo rifiuto sancito nella legge Fornero di consentire la "progressive pension", uscita anticipata dal lavoro a scelta del singolo con pensione ridotta, unita all'altra assurda scelta di innalzare l'età pensionabile a livelli record - nel 2015, con 67 anni, l'Italia avrà il record europeo dell'età
pensionabile - ha peggiorato la condizione italiana di lavoro per i giovani e gli altri, esodati inclusi".
133
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
Sono tutti temi importanti, ai quali si affianca un
decreto che semplifica e rende più flessibili i contratti
a tempo determinato e l’apprendistato. Su questi ultimi ci pare che fosse necessaria una semplificazione, ma ci chiediamo se le colpe della burocrazia
debbano sempre essere colmate dalla maggiore
flessibilità dei lavoratori. Forse ci possono essere
strade intermedie per non appesantire le imprese e
nel contempo premiare il lavoro che gradualmente
tende a qualificare e stabilizzare. Così come crediamo vada reinserito il ruolo della formazione nell’apprendistato, anche per non essere nuovamente
redarguiti dall’Europa. Infine occorre chiedersi se
sia il vincolo all’assunzione di una percentuale di apprendisti la vera causa frenante le imprese visto che
nel periodo precedente la crisi questo accordo era
già previsto in alcuni contratti. Forse le imprese non
assumono o assumono meno non per i vincoli, ma
semplicemente perché non c’è lavoro da dare, perché l’economia è bloccata dalla debole domanda interna. Il che significa che siamo bloccati dalla sfiducia delle famiglie e delle persone, sulle quali forse si
è troppo scaricato il tema della flessibilità e della assenza di competitività del sistema Paese.
Nell’insieme crediamo serva soprattutto ritornare
a un clima di dialogo sociale con il mondo del lavoro
proprio perché si possa dare efficacia ai molti intenti
e principi proposti dal Governo dentro un ridisegno di
una politica di sviluppo che ridia un progetto al Paese.
Proviamo a delineare in modo più ampio alcuni aspetti attorno ai quali promuovere un Patto
tra le forze sociali per rilanciare lo sviluppo e la
creazione di lavoro, di buon lavoro
• un orizzonte di senso e di futuro da percorrere e verso il quale mobilitare le energie
(ITALIA 2020)
• subito alcune scelte e proposte strategiche
(PARTIRE DAL LAVORO)
I) ITALIA 2020: UNA IDEA DI PAESE E UNA IDEA
DI ECONOMIA CIVILE, INNANZITUTTO
In Europa ci si è dati un orizzonte strategico, discutibile, meno consistente di quanto servirebbe,
ma lo si è fatto, con Europa 20202, In Italia invece si
continua a parlare di cosa fare con un po’ di soldi, ma
senza porsi degli obiettivi e dei risultati che si possono, si vogliono e si devono raggiungere nel giro di
qualche anno. Anzi di un piano Italia 2020 per ora non
ne parla nessuno. Ci pare grave: un Paese che non
ha una visione di se stesso nel futuro, di che cosa
vuole fare da grande, è un Paese che si prepara
a vendere, a lasciare che siano altri a fare shopping
delle nostre aziende (oltre 140 aziende già acquistate
in questi anni), delle nostre competenze ed eccellenze, ora che costiamo un po’ meno e gli investimenti guardano sempre, ma con meno interesse ai
Paesi emergenti che cominciano a fare i conti con
qualche difficoltà. L’Italia rischia di essere simile a un
campo fertile, nel quale non abbiamo scelto cosa coltivare, lasciandoci invece crescere le sterpaglie. E ora
qualcuno ne compra dei lotti a buon prezzo.
Per affrontare con serietà e non con aspirine questa fase occorre innanzitutto avere una idea di
Paese e di una economia non onnivora e sprecona, ma che punti sull’alleanza economia di
qualità-società di qualità, che passa attraverso la
qualità del lavoro e la ricerca della persona giusta al posto giusto, e non di qualsiasi lavoro. Noi
ne abbiamo una:
un Paese che produce cose buone e ben fatte
è un Paese civile, bello e libero
dove si vive e si lavora bene e insieme
È una lezione che ricaviamo dal meglio della nostra storia, del nostro tessuto economico e civile.
Potremmo scomodare Olivetti e la sua ideologia
della Comunità che gli faceva collocare la sua idea
di impresa dentro e al servizio di una visione di società nella quale tempi e investimenti per la vita so-
1 Un piano per la crescita intelligente (agenda digitale; Unione dell'innovazione; Youth on the move), sostenibile (Europa efficiente; una politica
industriale per l'era della globalizzazione), inclusiva (Agenda per nuove competenze e nuovi lavori; Piattaforma europea contro la povertà), con
specifici obiettivi (75% del tasso di occupazione; investimenti in ricerca e sviluppo al 3% del pil; riduzione del 20% dei gas serra rispetto al 1990/
20% di rinnovabili/aumento del 20% dell'efficienza energetica; riduzione abbandono scolastico sotto il 10%; 40% di laureati tra 30-34enni; 20
milioni in meno di poveri o a rischio povertà ed esclusione).
134
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
ciale restituivano qualità e ricerca del bello alla
stessa produzione aziendale (e inventarono il primo
computer al mondo!). Ma è una immagine concretamente incarnata in quelle aziende e quei territori
che cercano l’eccellenza, che riescono ad internazionalizzare ed innovare proprio riscoprendo valori e
relazioni con il proprio contesto e con i propri lavoratori. È nella storia del Paese questa vocazione ad
una economia civile, che nasce e si alimenta in uno
scambio reciproco con il tessuto culturale, ambientale e sociale nel quale si colloca. È una Storia che
ci dice che se vogliamo riconciliarci con il futuro
dobbiamo riconciliare vita e occupazione, società e economia, aspetti che il prevalere della civiltà dei consumi prima e del turbo capitalismo poi
hanno messo in secondo piano, affamati dell’utilità
e della funzionalità immediata.
1. UN PAESE CHE PRODUCE COSE BUONE
E BEN FATTE
a. Mobilità sostenibile e dignitosa, e infrastrutture 2.0
Innanzitutto all’Italia per la sua conformazione serve
un investimento in un grande piano per una mobilità
sostenibile e dignitosa e infrastrutture anche immateriali (l’Unione Europea ci chiede di arrivare nel 2020 alla
banda ultralarga, noi stentiamo ancora a partire su
quella larga). Bisogna innanzitutto mettere la società
nelle condizioni di funzionare e di funzionare a costi dignitosi: solo per fare un esempio, la pessima organizzazione del sistema dei porti commerciali costa al
Paese più dell’Irap, ed è (a differenza dell’Irap) in parte
risolvibile con scelte politiche e di riorganizzazione,
come quella di ridurre a 4 o 5 le autorità portuali.
Oltre a ciò il tema della mobilità sostenibile è una
visione attorno alla quale si possono rilanciare investimenti e lavoro in diversi campi laddove oggi si
chiude (costruzione treni, navi, logistica) e in una diversa e più sensata organizzazione delle metropoli
e delle città (smart cities). Senza considerare la salvezza di tante vittime della strada e il risparmio di decine di miliardi spesi per gli incidenti, che deriverebbero da un sistema di mobilità più sicuro e
intelligente, già possibile con la tecnologia attuale.
Bisogna però avere il coraggio di fare i conti con dei
cambiamenti che certamente una parte di economia
e di società legata al trasporto su gomma o a tanti
interessi localistici e di parte, preferirebbe non vedersi affermare.
b. INDUSTRIA 2020: un piano per ricerca, innovazione e investimenti in particolare in
manifattura, nel made in Italy, nell’industria
agroalimentare, nella alleanza cibo/cultura/artigianato locale/turismo, nelle nuove
tecnologie per la vita…
Superando la logica dell’austerità, ma mirando le
risorse in modo selettivo serve un piano industriale
per dirsi quali settori e come svilupparli, così come
si tentò di fare con Industria 2015 nel 2007.
Sono tante le eccellenze italiane, in particolare segnaliamo la necessità di una re-industrializzazione
selettiva (siamo la seconda industria europea) che
riscopra la manifattura (così come prevede anche
Europa 2020), così come il comparto che sempre più
vede la connessione tra cibo-cultura-artigianato locale-turismo-rilancio dell’aree interne (anche contro
i rischi del dissesto idrogeologico), e senza dimenticare i comparti ad alta intensità di conoscenza e ricerca come le bio e nano tecnologie.
c. Green economy
La nostra “deficienza” energetica (così la potremmo chiamare) ci obbliga a spendere 50 miliardi
per acquistare altrove energia, un risparmio che
possiamo pianificare investendo da tanti punti di
vista. Si stima per esempio che le detrazioni per ristrutturazioni e l’efficienza energetica (che vanno
rese più puntuali) abbiamo comunque salvato l’equivalente di 200.000 posti di lavoro. Senza considerare
gli investimenti che si possono fare per la tutela del
territorio (ripagati da minori danni) investendo per
esempio in nuovo lavoro sociale giovanile e in agricoltura sociale.
d. Nuovo welfare per nuovo lavoro
Un Welfare europeo e comunitario, che riconcili vita e lavoro, solidarietà e sviluppo
A essere duramente colpita negli ultimi decenni e
ancor più in questa crisi è la dimensione della soli-
135
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
darietà e della lotta alle diseguaglianze. Spesso il sistema di welfare tampona, quando non fotografa le
diseguaglianze, mentre solo nelle esperienze più
positive, dimostra di poterle ridurre.
Anche in questo caso serve guardare a un welfare
europeo, nel quale le politiche sociali in senso lato
non si rivolgono solo ai singoli, ma attivano responsabilità, reti familiari, esperienze di mutuo aiuto,
cooperazione, città, aziende, in una vivacità che in
parte era stata vitalizzata dalla legge 328 di riforma
delle politiche sociali di inizio secolo, in parte è stata
boicottata e bloccata dal quasi azzeramento dei finanziamenti. Serve rilanciare una progettualità che
in questi anni tanti hanno sostenuto e continuato a
coltivare.
Inoltre il welfare può contribuire alla crescita di
posti di lavoro. La necessità e la possibilità di realizzare un welfare sempre più personalizzato e impostato sulla promozione e la prevenzione e non solo
sull’emergenza può, come dimostra la crescita del
Terzo Settore e dell’imprenditorialità sociale, consentire di migliorare la qualità dei servizi e nel contempo far crescere l’occupazione. Per esempio, in
particolare a fianco del rilancio del primo Welfare col
rifinanziamento di fondi nazionali e la definizione di
livelli essenziali delle prestazioni è possibile favorire
(attraverso incentivi, detrazioni o sistema di voucher per servizi) per famiglie e imprese lo sviluppo locale dentro una regia pubblica di un secondo welfare che veda crescere nuova mutualità e servizi
alla persona (dall’infanzia, alla formazione permanente, all’assistenza gli anziani, all’abitare..) anche
facendo emergere lavoro grigio e precario in un orizzonte di qualificazione e migliore organizzazione anche grazie alle nuove tecnologie e alla telemedicina. Si creerebbe lavoro risparmiando per esempio
su un sistema sanitario spesso ancora troppo legato
all’emergenza e alle strutture e poco domiciliare e si
favorirebbe quella conciliazione dei tempi che consente alle nostre città e comunità locali di essere particolarmente accoglienti per una economia di qualità che punti molto più sull’ingegno e la competenza
delle persone, che si nutra della qualità dei contesti
locali e dei loro servizi.
e. Il Mediterraneo al centro del mondo, il Mezzogiorno centrale per un co-sviluppo
umano
Ultimo aspetto strategico da citare ci sembra il
tema del Mediterraneo e la posizione strategica che
assume il nostro Paese e in particolare il nostro Mezzogiorno. Sono soprattutto i Paesi e i territori che si affacciano sul Mediterraneo che devono raccogliere e rilanciare una domanda di co-sviluppo, insieme ai
popoli delle altre sponde, prima ancora civile che economica facendo leva sulla valorizzazione della propria
storia e del proprio patrimonio culturale. Il rilancio innanzitutto civile del nostro sud è condizione fondamentale per non mancare ancora una volta l’appuntamento con la Storia. È soprattutto al sud che si
concentrano le nostre potenzialità e la necessità di liberare il lavoro. E più complessivamente come Europa
occorre capire che si realizzerà nel Mediterraneo una
nuova frontiera foriera di futuro se si misurerà meno
questi contesti sulla base di parametri da centro-nord
del continente, e si cercherà invece di scoprire e valorizzare una via originale e specifica alla sviluppo.
2. È UN PAESE CIVILE, BELLO E LIBERO
a. Uno Stato degli Stati Uniti d’Europa per promuovere la dignità della persona e del lavoro
Serve innanzitutto fare passi avanti sul processo
di unificazione europea verso la realizzazione degli
Stati Uniti d’Europa, senza la quale rischiamo che il
confronto globale si giochi sulla dignità del lavoro e
sul mancato rispetto dei diritti umani. Il vero governo
della globalizzazione rischia di non avere un volto
democratico, non ci vede veramente cittadini sovrani, iniziando dal poter scegliere il proprio Governo europeo, ma di essere appannaggio di interessi esclusivamente economici come quelli di
banche più grandi, per i propri attivi, dell’economia reale di intere nazioni, e delle multinazionali
che attraverso gli accordi di libero scambio intercontinentali possono mettere in discussione la
stessa sovranità popolare. Dalla ripresa del sogno
europeo si può ripartire per riaffermare la centralità
della persona, della sua dignità, del lavoro, e agire per
debellare il “lavoro schiavo” cominciando dal prevedere una certificazione sociale europea per il la-
136
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
voro decente che attesti che le merci introdotte nel
mercato comune siano state realizzate nel rispetto
dei lavoratori in ogni tappa della loro filiera. Basta ricordare le tragedie di aziende dove i lavoratori sono
schiavi, come nel sudest asiatico, o a Prato. E non
possiamo perseverare con una Europa che spesso si
muove nel mondo come i capponi di Renzo Tramaglino ne “I Promessi Sposi”, che incapaci di vedere
il loro comune destino, la pentola di Azzeccagarbugli, si beccavano l’un l’altro. Le stesse chiusure aziendali, i costi del lavoro, le tutele, hanno bisogno non
solo di una armonizzazione delle politiche nazionali,
ma di una politica comune, dal punto di vista fiscale,
economico, monetariao, dei sistemi di welfare, del lavoro, della politica estera e di difesa. Ne deriverebbero anche miliardi di risparmi. Serve a partire dalle
prossime elezioni dare al nuovo Parlamento un
potere costituente che riavvii il cammino dell’Europa Unita. La scelta non sarà tra si o no all’Europa o all’euro, sprofonderemmo nella crisi, ma
tra un’Europa che rischia di restare ostaggio della
conservazione e dell’austerità e un’Europa che riprende in mano il proprio destino e il proprio
cammino di pace e democrazia.
b. Riformare la finanza
Una riforma di cui non si parla quando si parla di
riformismo è quella della finanza. Eppure dopo tutto
quello che è successo dovrebbe essere la prima e
dovrebbe prevedere, come propone la campagna
Zerozerocinque:
- una tassa sulle transazioni finanziarie, la separazione tra banche d’affari e banche commerciali, la lotta ai paradisi fiscali e all’evasione ed elusione fiscale, un tetto ai
compensi di manager e finanzieri, la regolamentazione dei derivati. Certamente è un
campo di difficile definizione, e serve soprattutto una politica europea, ma questo non può
essere un alibi.
c. Sconfiggere le concentrazioni di interessi e
potere: dal Paese delle conoscenze al
Paese della conoscenza.
Non possiamo inoltre non constatare che il nostro
Paese e il suo sviluppo sono fortemente soggiogati
da una tendenza ad alte concentrazioni di interessi
e di rendite di posizione che minano la libertà di iniziativa e di lavoro, il cambiamento e favoriscono
l’idea che la concorrenza e la professionalità si giochino spesso più sulle conoscenze che sulla conoscenza, intesa come effettiva capacità e merito.
Ci pare questa la radice che favorisce la crescita
di un tessuto dove si diffonde la corruzione e cresce
la forza delle mafie. La necessità in troppi campi di
doversi far proteggere o anche solo aiutare, spesso
per far valere i propri diritti o meriti rappresenta certamente il costo più alto da affrontare, per sbloccare
e liberare veramente il lavoro. Un fardello spesso
agevolato dall’inefficienza amministrativa e da
troppa burocrazia, nonché da scarsa trasparenza,
oltre che da un piano di riforme da far ripartire sulle
liberalizzazioni (con esclusione dei beni comuni
come l’acqua) e sul conflitto di interessi.
d. La bellezza come patrimonio civile
La bellezza, il patrimonio artistico e paesaggistico, sono in senso lato un patrimonio civile, un tesoro a cielo aperto, il nostro petrolio, per altro non
inquinante. Eppure anche qui siamo più orientati a
sprecarlo. Occorre una maggiore capacità di far
rete, ma occorre fin dalla scuola rilanciare il valore
della cultura. Certamente serve anche pensare a
una gestione pubblica capace di aprirsi ai privati. Lo
stesso mondo dell’imprenditorialità sociale potrebbe
in alcuni casi essere valorizzato per mettere in rete
interessi pubblici e privati legandoli però a una logica
pubblica e a una visione di sviluppo locale.
e. Una politica sobria e trasparente
Certamente soprattutto in questa fase serve vedere risultati tangibili sui tagli ai costi della politica,
ma soprattutto se non vogliamo solo rincorrere gli
scandali occorre addivenire a un ruolo della politica
più sobrio e trasparente. Serve infatti limitare l’invasione di campo della politica in campi che non le appartengono, con società partecipate spesso gestite
per il consenso e non per dare dei servizi. Anche nei
campi di servizi essenziali come l’acqua, si dovrebbe addivenire a forme di controllo che coinvol-
137
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
gono magari in forma sociale i cittadini. Inoltre la riduzione dei costi della politica ha senso se si addiviene a una legge che regolamenti l’attività di lobby
e a una legge che vincoli i partiti a rendere conto
delle proprie spese e della propria democrazia interna, per evitare che si riducano ad essere comitati
elettorali facilmente scalabili dalle lobbies. Certo
non aiuta ancora una volta un sistema elettorale
dove i candidati non li scelgono i cittadini.
f. Leggi leggibili e una Pubblica Amministrazione promotrice di innovazione
E ad essere più civili e liberi concorre certamente
innanzitutto lo scrivere leggi leggibili e chiaramente
interpretabili, e possibilmente uniche, come pare si
voglia fare per un nuovo codice del lavoro, per evitare non solo i costi di tanti contenziosi e consulenze, ma che tutto resti sempre nel vago.
Allo stesso tempo occorre però che la Pubblica
Amministrazione sia rilanciata nella propria capacità
di sostenere le energie che nella società si muovono
e non sia ancorata a un sistema di leggi troppo rigido
in cui la responsabilità è relegata più al rispetto dei
cavilli che al fare delle scelte, rischiando così di premiare la conservazione e l’inazione. La stessa digitalizzazione della PA e un suo processo di riforma
possono essere leve per un cambiamento significativo che la veda meno accentratrice e gestrice e più
capace di promuovere e far crescere il Paese nella
capacità di innovare.
3. DOVE SI VIVE E SI LAVORA BENE E INSIEME!
a. Una occupazione di qualità e non qualsiasi
occupazione: istruzione e formazione professionale per incontrare il mondo del lavoro
Occorre fin dalla Scuola puntare su una idea di
qualità dell’occupazione e su una graduale capacità
di trovare per ciascuno la propria strada. Certamente
soprattutto da giovani serve anche cominciare facendo lavori molto diversi e non aspettare il posto dei
sogni, ma ciò non deve distogliere dalla necessità di
individuare e sostenere la crescita professionale delle
singole persone lungo tutto il corso della vita, cercando di favorire la persona giusta al posto giusto,
perché far crescere e valorizzare appieno il valore
delle persone è un presupposto indispensabile di una
economia realmente di qualità. Al contrario l’idea di
proporre qualsiasi lavoro rischia di favorire la ricerca
dell’occupazione non come un progetto individuale,
ma come un azzardo, di fatto lasciando sul terreno
carriere di cittadinanza intermittenti e di fragilità professionale difficili da affrontare in età adulta se non in
senso assistenziale, con notevoli costi.
Centrale è immaginare la Scuola come sistema
di Istruzione e Formazione professionale che non
mette in alternativa scuola e lavoro, crescita culturale
e specializzazione, ma le integra consentendo di incontrare e fare esperienza prima del mondo del lavoro e di accompagnare e sostenere una crescita e
patrimonializzazione di competenze formali e informali lungo tutto il corso della vita. La professionalità
è la migliore assicurazione contro la disoccupazione.
Inoltre questa impostazione facilita l’incontro del
mondo del lavoro, la specializzazione e la lotta alla dispersione scolastica. Anche per quanto riguarda
l’apprendistato e le politiche attive del lavoro se vogliamo prendere a riferimento il modello tedesco ma
tenendo in considerazione le differenze italiane legate
soprattutto a diverso tessuto economico, possiamo
trovare in molte di queste positive esperienze di integrazione tra istruzione e formazione professionale
per interpretare l’apprendistato non come un mero
contratto, ma come un processo di apprendimento
che necessità di una dimensione laboratoriale intermedia che colleghi formazione e azienda.
b. Una fisco equo e attento alle responsabilità
familiari, ridurre il divario delle retribuzioni,
favorire i ceti medio bassi, promuovere una
politica del lavoro europea
Occorre addivenire a una politica comune europea sia dal punto di vista fiscale, che dei redditi che
del lavoro.
Nel nostro Paese urge una riforma fiscale che faccia giustizia di una situazione profondamente diseguale riscrivendo una nuovo fisco alla luce dei
cambiamenti avvenuti in questi ultimi 40 anni, che
tenga anche maggiormente conto dei carichi familiari, anche introducendo una imposta negativa che
138
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
permetta agli incapienti di recuperare il valore delle
detrazioni.
Va inoltre ridato fiato al ceto medio-basso con la
riduzione del cuneo fiscale sia per le imprese che
per i lavoratori, insieme alla necessità di porre per
legge un limite alle sperequazioni delle retribuzioni (i compensi più alti devono essere al massimo 12 volte il salario medio)
Dal punto di vista del lavoro vanno rafforzate misure
comuni che impediscano una concorrenza giocata sul
dumping sociale, come la previsione di un salario minimo, misura che, ora in cantiere anche in Germania,
diviene determinante anche da noi per impedire soprattutto lo sfruttamento in tanti lavori non stabili.
c. una cittadinanza non fondata sul diritto di
sangue e diritti e tutele portatili
In un mondo in cui persone e lavoratori sempre più
si muovono è assurdo che la cittadinanza sia ancora un
fatto di sangue e che le persone non possano portarsi
dietro tutele e diritti, che rischiano invece di fermarsi ad
ogni confine. Per questo occorre un welfare sempre più
europeo e serve addivenire a una cittadinanza europea
aperta a chi nasce e cresce qui (campagna L’Europa
sono anch’io).
II) PARTIRE DAL LAVORO
DALLA CRESCITA DELL’OCCUPAZIONE,
DI UNA BUONA OCCUPAZIONE
In questo momento, guardando all’orizzonte che
abbiamo cercato di tratteggiare occorre concentrarsi soprattutto sulla crescita dell’occupazione, di
buona occupazione ancor di più della crescita economica. Infatti anche una pur importante immissione di denaro nelle tasche dei cittadini rischia di
dare solo una boccata d’aria se non si investe prioritariamente in nuovo lavoro e non si redistribuisce
quello esistente. L’aumento dei consumi difficilmente si tradurrebbe in posti di lavoro perché negli
anni di crisi, mentre la produzione calava la produttività cresceva comunque, quindi le aziende hanno
una capacità produttiva in qualche modo contratta
al punto che anche se aumentasse la produzione dif-
ficilmente tornerebbero ad assumere. Quindi è importante concentrarsi innanzitutto su proposte per
far ripartire il lavoro, a quel punto si aprirebbe la
strada per uno sviluppo consistente.
1. DOVE TROVARE LE RISORSE
Senza dimenticare la necessità tutta italiana non
solo di fermare la crescita del nostro debito pubblico, ma di ridurlo, perché rappresenta un pesante fardello per le generazioni future, occorre trovare ingenti risorse per rilanciare il lavoro. Dove?
a. No austerità, ma un piano Marshall per l’Europa: raddoppiare, anticipare e utilizzare meglio i fondi europei e usare le riserve auree
Innanzitutto sosteniamo le posizioni promosse
dall’iniziativa dei cittadini europei lanciata da diverse organizzazioni (Movimento Federalista Europeo e altri) per un Piano europeo straordinario
per uno sviluppo sostenibile, così come l’idea di un
piano Marshall europeo, lanciata dai sindacati tedeschi. Serve uno sforzo straordinario di investimenti
in nuovo lavoro.
A questo fine i diversi Stati dovrebbero raddoppiare il bilancio dell’Unione (che lo ha ridotto) passando dall’1% (150 miliardi) al 2% del Pil.
In Italia intanto si dovrebbe imparare a spendere
le risorse disponibili, anche se dall’esperienza del
ministro Barca in poi e con la programmazione 2014
-2020 (1000 miliardi in Europa) ci sono stati netti miglioramenti. Anzi occorrerebbe chiedere di poter
anticipare i fondi per spenderli già prima del 2020,
per consentire di mettere subito miliardi di liquidità
nell’economia.
Ma in particolare va rilanciata l’idea (EuroUnionBond) di Alberto Quadrio Curzio e Romano Prodi di utilizzare le riserve auree, senza venderle, per un fondo
finanziario europeo che sostenga gli investimenti.
b. Una Responsabilità Sociale della Pubblica
Amministrazione e della Politica per pagare
in tempo, per promuovere una concorrenza
leale non giocata sulla precarietà
Un contributo importante potrebbe venire non
solo da una accelerazione dei pagamenti della Pub-
139
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
blica Amministrazione, ma da una normalizzazione
secondo legge dei tempi di pagamento. Stessa cosa
vale per il precariato che spesso cova nell’indotto
della Pa e delle sue partecipate. E troppo spesso per
spendere poco si lasciano crescere affaristi e organizzazioni che nulla hanno a che vedere coll’etica di
impresa, o finte cooperative, all’ombra di assessorati, enti di Stato o cda di aziende di servizi pubblici,
che però magari si dimostrano grandi elettori e possono anche aspettare di essere pagati dopo anni.
Servirebbe introdurre una sorta di Responsabilità
Sociale della Pubblica Amministrazione e della Politica: chi paga in ritardo o consente compensi non
regolari o sotto soglie decenti, va punito e ne risponde anche personalmente. Il valore del lavoro
non può essere negato, è un furto, ai danni dell’imprenditore serio che aspetta a sue spese di essere
pagato, e a danno dei lavoratori. E se il buon esempio non viene dall’alto é più difficile la battaglia per
la legalità.
accertati) reati si può impunemente continuare ad
amministrare?
c. Sostituirsi alle Regioni o Enti Locali nelle
parti mal amministrate, come da art 120
della Costituzione
Del famoso Titolo V della Costituzione da riformare, per l’entità di costi dovuti alle sovrapposizioni tra livelli diversi e ai conflitti di competenza, si
è dimenticato l’articolo 120 laddove recita che “il Governo può sostituirsi a organi” di Regioni, Province,
Città.. “..quando lo richiedono la tutela dell’unità
giuridica e dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini
territoriali dei governi locali..”. C’è da chiedersi se di
fronte a Regioni mal amministrate, spesso teatro di
scandali e spese fuori controllo, dove i livelli essenziali delle prestazioni fanno acqua, se non sarebbe
il caso per tutelare i diritti dei cittadini di provvedere
a un intervento di sostituzione. Si eviterebbero probabilmente anche profonde emorragie economiche
e funzionerebbe da deterrente per le cattive amministrazioni. Possibile che tanta cattiva amministrazione debba rimanere immune da interventi finché
non emergono scandali e non interviene la magistratura? Se si spreca senza compiere (o che vengano
e. Passare gradualmente in 4 anni all’uso di
carte prepagate gratuite e alla quasi eliminazione del denaro contante per abbattere
evasione, corruzione e illegalità
La tecnologia anche in questo caso ci può venire
in aiuto, per assestare un profondo colpo all’evasione fiscale (si stimano 120 miliardi l’anno di mancate entrate e tra i 100 e i 150 miliardi nascosti nella
sola Svizzera), nonché alla corruzione e all’illegalità,
che governa il territorio con denaro liquido. Nel giro
di pochi anni, con una forte campagna soprattutto
a favore degli anziani sarebbe possibile favorire da
parte dei cittadini e dei commerciati il passaggio all’uso quasi esclusivo di carte prepagate o di portafogli elettronici su telefonino (che anche gli anziani
hanno imparato ad usare) definendo così un quadro
economico di completa tracciabilità della moneta, e
aiutando anche a prevenire e disincentivare rapine e
furti. Si tratterebbe di accompagnarne e di incentivarne l’uso e nel contempo di arrivare a prevedere
negli anni una progressiva tassazione del contante.
È una scelta forte, ma nel tempo, ormai con generazioni che sempre più usano quotidianamente pc e
telefonini ci si abituerebbe.
d. Tassare le transazioni finanziarie
Occorre mettere mano alla tassazione del capital
gain (plusvalenza finanziaria generata dalla differenza tra prezzo di acquisto e prezzo di vendita di
uno strumento finanziario), oggi al 20% (persone fisiche). Inoltre, anche per spronare il percorso di
cooperazione rafforzata che coinvolge 11 Stati, in
Italia sosteniamo l’estensione della Tassa sulle Transazioni Finanziarie (emendamento di Luigi Bobba) a
ogni transazione eccetto i titoli di stato, riducendola
a 0,01 per cento come primo passo verso una tassa
minima per chi, per esempio, acquista effettivamente un derivato per coprirsi da un rischio, più forte
per chi invece scambia, vende e rivende in pochi secondi, favorendo così il risparmio più orientato all’economia e sfavorendo quello orientato alla speculazione.
140
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
f. Ridurre le spese per armamenti
La difesa del futuro sarà europea, con un risparmio di decine di miliardi. Un risparmio ancor più
consistente se ci si rende conto che la difesa vera è
un concetto molto diverso dalla corsa agli armamenti. Senza contare il triste episodio dei costosi
F35.
2. INVESTIRE DOVE PUÒ CRESCERE IL
LAVORO
tratta di una proposta già presentata come Acli (grazie al contributo delle Acli Colf, del Caf Acli e del Patronato Acli) con il Forum del Terzo Settore che prevede di poter detrarre fino ad un limite massimo di
14000 € (che renderebbe vantaggioso dichiarare i
rapporti di lavoro) una spesa per assistenza familiare
a favore di una persona non autosufficiente. Con
questa misura si potrebbe sostenere le difficoltà di
chi è oppresso dal peso di un problema di assistenza molto oneroso e nello stesso tempo si favorirebbe l’emersione di una buona fetta di lavoro nero
facendo così crescere l’occupazione di almeno 1
punto percentuale. E la spesa sarebbe quasi completamente ripagata da contributi ora non versati e
anche da un aumento decimale del pil.
a. Nuovi settori e imprenditorialità sociale: investimenti e comodato gratuito di immobili
pubblici inutilizzati
Occorre innanzitutto favorire una politica di favore
per la crescita di lavoro nei settori, tra i quali quelli
che abbiamo indicato, che possono far crescere
l’occupazione, con uno sguardo particolarmente attento alle esperienze di impresa sociale, al centro di
una opportuna politica di promozione europea.
A questo proposito stante un consistente patrimonio immobiliare pubblico non utilizzato, ed essendo difficile pensare che possa essere facilmente
messo in vendita (Monti stimava una vendita per 100
miliardi) per il protrarsi della crisi immobiliare, potrebbe essere significativo immaginare, accanto a
fondi appositi, forme, attraverso i comuni, di comodati gratuiti a favore di iniziative di imprenditorialità
sociale giovanile e di auto-imprenditorialità o coworking tese soprattutto a realizzare servizi per la comunità insieme ad attività commerciali e di impresa, o
a interventi di housing sociale, in un ottica di sviluppo locale e di valorizzazione e non decadenza degli stessi patrimoni edilizi.
3. INVESTIRE NELLA QUALITÀ DEL LAVORO
b. Tagliare il cuneo fiscale cominciando a far
emergere e promuovere il lavoro di cura e il
nuovo welfare
Già con l’ultima legge di stabilità si è creato un
fondo finanziato in automatico dalla tassazione sul
rientro dei capitali a favore del taglio del cuneo fiscale. Sulla parte di taglio che queste o altre risorse
finanzieranno a favore di lavoratori e pensionati, si
potrebbe fare una operazione che da un lato garantisca un uso più equo dei fondi e dall’altro permetta
di far emergere e promuovere il lavoro di cura. Si
a. Scuola come istruzione e formazione professionale permanente, e investimenti in ricerca e sviluppo
L’avvento di un sistema di istruzione e formazione
professionale è uno dei primi provvedimenti fondamentali per incentivare un modello nuovo più capace
di far incontrare prima il lavoro e di superare vecchie
logiche che vedono separatamente specializzazione,
innovazione e lavoro manuale. Andrebbe previsto
poi un piano per l’accrescimento delle competenze dei lavoratori: così come avvenne con le
150 ore oggi occorre anche con chi già lavora
c. Fare reti di imprese: un fondo nazionale
I contratti di rete tra imprese, dopo le recenti
agevolazioni, hanno avuto una certa espansione,
ma serve un solido fondo nazionale che consenta di
rafforzare questa esperienza. Per internazionalizzarsi, per innovare, accrescere le competenze, abbassare i costi di gestione, e tante altre attività strategiche spesso molte piccole imprese pur creative
e dinamiche non riescono a fare quanto vorrebbero
per la loro dimensione ridotta. Strumenti e opportunità per fare rete, anche più in generale, sono essenziali laddove, come riscontrato anche nelle analisi sui
nostri distretti, il nostro tessuto imprenditoriale è
molto capace e creativo, ma fatica appunto per le
proprie piccole dimensioni.
141
47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
elevare il livello di competenze, per esempio portando chi ha solo l’obbligo a una qualifica e chi ha
una qualifica a un diploma. Un intervento su una vasta platea di lavoratori li renderebbe meno vulnerabili in caso di crisi e più protagonisti e portatori di innovazione nelle aziende.
Inoltre vanno rilanciati, seguendo gli obiettivi europei, gli investimenti in ricerca e sviluppo anche collegandoli al sostegno della messa in rete delle imprese.
b. Contratto unico a tutele progressive, tutela
dei nuovi lavori, ammortizzatori e politiche
attive per tutti e forme di partecipazione
dei lavoratori
Il contratto a tutele progressive è una delle proposte che le Acli sostengono da tempo
Va chiarito subito che non può trattarsi di un
contratto da applicare in seguito ad altri. Un lavoratore non può fare tre anni di collaborazione a progetto, poi tre a tempo determinato e poi il contratto
di inserimento con la stessa azienda.
In secondo luogo bisogna capire come partite
iva, collaboratori a progetto e altre forme a progetto
vengono ricondotte ad alcune situazioni e non se ne
abusa. Qui le sole norme non bastano. Inoltre la
“Fornero” ha dimostrato che aumentarne il costo facendo salire gli oneri sociali e previdenziali rischia
di far cadere il costo sui lavoratori stessi che all’aumentare delle percentuali si vedono ridurre i compensi netti. Serve che almeno questo aumento di
costo sia immediatamente utilizzabile nei periodi di
non lavoro.
E serve addivenire a uno Statuto dei lavoratori
autonomi che effettivamente li tuteli e consenta a
loro forme di rappresentanza. A ciò si affianca la necessità con apposite norme di tutelare e professionalizzare molti lavori spesso seminascosti che coinvolgono migliaia di giovani nella cultura, nello
sport, nell’arte, nello spettacolo, nel tempo libero.
Infine bisogna capire come incentivare, oltre all’apprendistato, il ricorso al contratto unico a tutele
progressive, anche tenuto conto della scarsità di risorse.
Diventa inoltre fondamentale allargare a tutti i lavori gli ammortizzatori prevedendo una forma di
collegamento con percorsi di riqualificazione e
politiche attive del lavoro che aiutino a ricollocarsi, ma anche ad intervenire sulle piccole e
medie aziende per aiutarle a riorganizzarsi prima
delle chiusure o a valutare in taluni casi la trasformazione in cooperative di lavoratori. Da questo
punto di vista va ripresa quella parte della legge Fornero che prevedeva un percorso verso la partecipazione dei lavoratori agli indirizzi delle aziende,
perché anch’essa è una forma non solo di tutela, ma
di migliore prevenzione delle situazioni di crisi.
In questo contesto non va dimenticato il bisogno
di politiche dove il lavoro c’è, ma è in condizione di
sofferenza o di sfruttamento, nonché la necessità di
risolvere il nodo di chi è stato o viene espulso dal
proprio impiego molto prima dell’età pensionabile.
Sulle politiche attive serve un investimento anche
in una migliore organizzazione tra Stato, Regioni, enti
locali, anche prevedendo l’Agenzia nazionale per
il lavoro. In questo campo molti soggetti di Terzo
settore hanno dimostrato di avere competenze ed
esperienze positive, ma anche di poter abbinare gli
interventi individuali a forme di promozione di nuovi
lavori nel sociale e di nuova imprenditorialità, come
tra l’altro testimonia l’esperienza della cooperazione
di inserimento lavorativo, che va valorizzata soprattutto per vincolare le aziende all’inclusione di persone diversamente abili.
c. Proteggere e re-includere chi rischia la povertà: un reddito di inclusione sociale
Spiace vedere che anche quando si pensa alle fasce più basse ci si dimentichi spesso di chi non entra neanche nel computo dei redditi perché in povertà relativa o assoluta, che negli ultimi anni ha
toccato quasi l’8% della popolazione. Il primo finanziamento giusto che vorremmo vedere è quello che
garantisce anche in Italia una misura universale contro la povertà assoluta, collegata a percorsi di reinserimento, così come all’interno dell’Alleanza contro la povertà, da noi promossa insieme alla Caritas,
la stiamo definendo nei particolari.
142
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
d. pensare alla pensione dei giovani
Per i giovani oggi si pone in prospettiva un problema di povertà anche perché molti avranno carriere lavorative spezzettate. Questa condizione diffonde una sempre minore fiducia nelle istituzioni e
nella previdenza pubblica. Occorre un trattamento
minino finanziato anche da una perequazione
tra contribuzioni alte e contribuzioni basse.
4. INVESTIRE PER REDISTRIBUIRE
IL LAVORO
L’occupazione è ciò che redistribuisce fiducia, più
ancora del denaro stesso, perché consente di impostare un progetto di vita e di famiglia. Per questo in un
periodo così difficile soprattutto, ma anche guardando alle trasformazioni del lavoro occorrono misure
che puntino a redistribuire anche il lavoro che c’è.
a. Part time verso la pensione e part time di ingresso dei giovani
Una prima misura che sarebbe già possibile praticare senza particolari interventi legislativi, magari
facendo ricorso ai contrati di solidarietà espansivi
(lavorare meno per fare nuove assunzioni) riguarderebbe la possibilità di andare in pensione in modo
graduale prima, in cambio dell’assunzione a par
time di un altro lavoratore. Va infatti detto che la riforma Fornero bloccando le pensioni ha bloccato
anche il ricambio tra uscite e nuovi ingressi soprattutto di giovani.
b. Detassare il part time dei giovani
Inoltre invece di detassare gli straordinari (che
certo non stimolano ad assumere giovani) occorre rivolgere gli incentivi per l’assunzione verso i part time
dei giovani così da raggiungere più persone e comin-
ciare in prospettiva a promuovere una organizzazione
dei tempi di lavoro più in linea con i paesi del centro
e nord Europa dove appunto si lavora in media meno
del 20 % rispetto al nostro mondo del lavoro.
c. Investire nei contratti di solidarietà, anche
con reti di imprese
Infine andrebbe agevolato il ricorso maggiore ai
contratti di solidarietà anche prevedendone l’utilizzo da parte di imprese messesi in rete tra loro magari proprio per affrontare periodi di crisi, ma anche
la riduzione dell’apporto di manodopera (o la propria
estensione con contratti di solidarietà espansivi). Al
ricorso ai contratti andrebbero poi affiancati percorsi di riqualificazione, sul modello tedesco.
Nella Evangelii gaudium Papa Francesco sostiene che “l’inequità è la radice dei mali sociali”, nella nostra Costituzione l’art 4 ci ricorda
che il lavoro è una attività o una funzione con la
quale concorriamo al progresso materiale o spirituale della società.
Oggi cerchiamo attraverso le nostre braccia e
le nostre teste di cittadini e lavoratori di realizzare un progresso che sconfigga questa iniquità
per riscoprirci insieme di fronte alle risorse e ai
problemi. Confidiamo che tutti i lavoratori e i cittadini, il lavoro, i lavori di oggi, possano essere
ancora, nonostante tutto, protagonisti di quel
cambiamento, e di quella conversione che ci
apre a un mondo nuovo.
Documento approvato dalla Presidenza nazionale Acli, 26 marzo 2014
143
APPENDICE
IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
Bibliografia per approfondire
di Simone Cittadini
ZUCCHETTI EUGENIO, La disoccupazione. Letture, percorsi, politiche, Vita e Pensiero, 2005
PACI MASSIMO, Nuovi lavori, nuovo welfare. Sicurezza e libertà nella società attiva, Il Mulino, 2005
ACCORNERO ARIS, San Precario lavora per noi. Gli impieghi temporanei in Italia, Rizzoli, 2006
MANZONE Gianni, Il lavoro tra riconoscimento e mercato, Queriniana, 2006
CANTARO ANTONIO, Il diritto dimenticato. Il lavoro nella costituzione europea, Giappichelli, 2007
PICCONE STELLA SIMONETTA (a cura di), Tra un lavoro e l’altro. Vita di coppia nell’Italia postfordista , Carocci, 2007
CASELLI LORENZO, Globalizzazione e bene comune, Edizioni Lavoro, 2007
COLASANTO MICHELE, Lodigiani Rosangela, Welfare possibili. Tra workfare e learnfare, Vita e Pensiero, 2008
FERRERA MAURIZIO, Il fattore D. Perché il lavoro delle donne farà crescere l’Italia, Mondadori, 2008
BAGLIONI GUIDO, L’accerchiamento. Perché si riduce la tutela sindacale tradizionale, Il Mulino, 2008
TOTARO FRANCESCO, Il lavoro come questione di senso, Edizioni Università Macerata, 2009
MAGATTI MAURO, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, 2009
LORETO FABRIZIO, L’unità sindacale (1968-1972). Culture organizzative e rivendicative a confronto, Ediesse, 2009
STIGLITZ JOSEPH, SEN AMARTYA, FITOUSSI JEAN-PAUL, La misura sbagliata delle nostre vite. Perché il PIL non basta più per valutare benessere e progresso sociale, Etas, 2010
NATOLI SALVATORE, Il buon uso del mondo, Mondadori, 2010
RULLANI ENZO, Modernità sostenibile. Idee, filiere e servizi per uscire dalla crisi, Marsilio, 2010
CARRIERI MIMMO, DAMIANO CESARE (a cura di): Come cambia il lavoro. Insicurezza diffusa e rappresentanza difficile, Ediesse, 2010
ICHINO PIETRO, Inchiesta sul lavoro. Perché non dobbiamo avere paura di una grande riforma, Mondadori, 2011
GEMINELLO ALVI, Il capitalismo. Verso il modello cinese, Marsilio, 2011
BOERI TITO, GARIBALDI PIETRO, Le riforme a costo zero. Dieci proposte per tornare a crescere, Chiarelettere,
2011
NALDINI MANUELA, SARACENO CHIARA, Conciliare famiglia e lavoro. Vecchi e nuovi patti tra sessi e generazioni,
Il Mulino, 2011
PAIS IVANA, La rete che lavora. Mestieri e professioni nell’era digitale, Egea, 2012
BELLOFIORE RICCARDO, La crisi capitalistica, la barbarie che avanza, Asterios, 2012
FAIOLI MICHELE, Introduzione allo studio del diritto europeo delle relazioni industriali, Giappichelli, 2012
RAMPINI FEDERICO, Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo. Manifesto generazionale per non rinunciare,
Strade Blu, 2012
TOURAINE ALAIN, Dopo la crisi. Una nuova società possibile, Armando, 2012
FITOUSSI JEAN-PAUL, Il teorema del lampione o come mettere fine alla sofferenza sociale, Einaudi, 2013
BAUMOL WILLIAM J., LITAN ROBERT, SCHRAMN CARL J., Capitalismo buono. Capitalismo cattivo. L’imprenditorialità e i suoi nemici, Università Bocconi, 2013
NEGRELLI SERAFINo, Le trasformazioni del lavoro. Modelli e tendenze nel capitalismo globale, Mondadori, 2013
PETROSINO SILVANO, Elogio dell’uomo economico, Vita e Pensiero, 2013
ZAGREBELSKY GUSTAVO, Fondata sul lavoro. La solitudine dell’articolo 1, Einaudi, 2013
D’ORAZIO COSTANTINO, Caravaggio segreto, Sperling & Kupfer, 2013
SENNET RICHARD, Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli, 2014
BIANCHI PATRIZIO, LABORY SANDRINE, Le nuove politiche industriali dell’Unione Europea, Il Mulino, 2014
PASSERINI WALTER, MARINO IGNAZIO, La guerra del lavoro, Rizzoli, 2014
BRUNI LUIGINO, Fondati sul lavoro, Vita e Pensiero, 2014
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
RAMPINI FEDERICO, Vi racconto il nostro futuro. Storia di un nomade della globalizzazione in viaggio verso l’Occidente estremo, Mondadori, 2014
MAGATTI MAURO, GIACCARDI CHIARA, Generativi di tutto il mondo unitevi! Manifesto per la società dei liberi, Feltrinelli, 2014
Filmografia
Sciopero! (1925) di Sergej Ejzenštejn
La prima opera del maestro Ejzenštejn, di stampo dichiaratamente didattico e propagandistico. Un operaio è ingiustamente accusato di furto dai suoi padroni. Disperato per l’ingiustizia subita, si impicca sul posto di lavoro. I lavoratori della fabbrica organizzano clandestinamente uno sciopero di solidarietà e protesta che non è solo un atto
di accusa alla durezza padronale, ma anche un esempio di fraternità tra lavoratori.
Metropolis (1926) di Fritz Lang
La storia si svolge in una metropoli del XXI secolo tiranneggiata da Frederson, un uomo che schiavizza gli operai, costringendoli a vivere nel sottosuolo. I proletari sono guidati nella riscossa da Maria, di cui si innamora l’ignaro
figlio del dittatore. Frederson, per controllare gli operai, fa costruire da uno scienziato un cyborg sosia di Maria.
Tempi moderni (1936) di Charlie Chaplin
I gesti ripetitivi, i ritmi disumani e spersonalizzanti della catena di montaggio minano la ragione del povero operaio Charlot, che finisce col perdere il posto di lavoro. Satira sociale in difesa della dignità dell’uomo contro il dominio della macchina.
Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica
Un operaio disoccupato trova un posto d’attacchino municipale, ma per lavorare ci vuole una bicicletta e la sua
è al monte di pietà. La moglie la riscatta ma un ragazzo la ruba. L’attacchino pensa di rivalersi rubando a sua volta
una bicicletta incustodita, ma viene preso e solo il pianto del suo bambino lo salva dall’arresto. Padre e figlio tornano a casa esausti e disperati.
Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti
La famiglia Parodi arriva dalla Basilicata a Milano, dove i quattro fratelli cercano, con alterne fortune, di trovare un
lavoro per sottrarsi alla misera condizione in cui vivono. In questo film, in cui si riflette il dramma dell’emigrazione meridionale, Visconti riesce a farci vedere Milano attraverso gli occhi di questi uomini costretti allo sradicamento per sopravvivere. È una città fredda, dura, ma anche disponibile e pronta ad offrirsi a chi arriva per lavorare.
Pane e cioccolata (1973) di Franco Brusati
Nell’affannosa ricerca di un lavoro dignitoso un cameriere ciociaro emigrato in Svizzera decide infine di farsi passare per cittadino svizzero, ma è scoperto ed espulso. Continuerà a lottare per conciliare lavoro e dignità. Commedia agrodolce sull’emigrazione.
Impiegati (1984) di Pupi Avati
Un giovane e timido neolaureato entra a lavorare in banca, dove si trova a confrontarsi con il mondo del lavoro e i
suoi nuovi colleghi, tutti impiegati squallidi senza nessun altro obiettivo che quello di far soldi e primeggiare sugli altri
a qualunque costo. Avati individua il fenomeno degli yuppies, giovani professionisti rampanti, mettendolo alla berlina.
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IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
Donne in carriera (1988) di Mike Nichols
Negli anni Ottanta le donne iniziano a imporsi nel mondo del lavoro. La protagonista di questo film è una segretaria trentenne ambiziosa, che vuole sfondare nel mondo dell’alta finanza e non è disposta ad accettare le regole
classiste del settore. Ingannata dalla propria capoufficio, alla prima occasione si vendicherà, e allo stesso tempo
realizzerà i propri sogni.
Riff Raff (1991) di Ken Loach
Loach ci offre uno spaccato della vita del proletariato nella Gran Bretagna dell’era Thatcher. Lo fa attraverso le
vicende dello scozzese Stevie, un ex detenuto per furto che sotto falso nome lavora come operaio in un cantiere
edile della Londra della ristrutturazione economica, della sua ragazza disoccupata e degli altri protagonisti costantemente impegnati a sbarcare il lunario.
Il posto dell’anima (2003) di Riccardo Milani
È una storia dei giorni nostri: una multinazionale americana decide di chiudere la filiale italiana, a Vasto, per tagliare sui costi e spostare la produzione in zone economicamente in crescita. Gli operai iniziano una lotta serrata
con iniziative di ogni genere. Nascono contrasti tra di loro, i responsabili sindacali e anche all’interno delle mura domestiche. La comparsa di alcuni gravi casi di malattia del lavoro, dovuta alle condizioni di produzione, li farà ritornare uniti nel tragico epilogo del film.
Il cacciatore di teste (2005) di Costantin Costa Gavras
Il protagonista è un manager del settore della carta di mezza età che ha perso il lavoro a causa di una ristrutturazione della sua azienda. Convinto di trovare immediatamente un altro lavoro all’altezza del suo curriculum, dopo due
anni di ricerche si ritrova ancora disoccupato. Decide così di mettere in atto un piano destinato a restituirgli il lavoro
presso la principale azienda del settore. Il piano consiste nell’eliminazione fisica di tutti i suoi principali concorrenti, altri manager che come lui hanno perso il posto e vivono di espedienti partecipando ad umilianti colloqui di lavoro.
L’industriale (2011) di Giuliano Montaldo
Il quarantenne Nicola è proprietario di una fabbrica sull’orlo del fallimento, immersa nella grande crisi economica
che soffoca tutto il paese. Ma è orgoglioso, rifiuta anche l’aiuto economico della ricca suocera che potrebbe salvarlo.
Assediato dagli operai che lo pressano per conoscere il loro destino, Nicola avverte che qualcosa sta turbando l’unica
certezza che gli è rimasta: il matrimonio. Disperato Nicola tira fuori il peggio di sé. Quando,infine, tutto sembra tornare
a posto: l’azienda, il matrimonio, il successo sociale, emergeranno i terribili segreti che Nicola pensava di aver celato.
Montaldo fotografa impietosamente il terremoto sociale e finanziario degli ultimi anni.
L’intrepido (2013) di Gianni Amelio
Antonio è un uomo speciale. Vive a Milano e ogni giorno, pur di non risvegliarsi la mattina senza sapere cosa
farà, pratica un lavoro “particolare”, il rimpiazzo: lui in pratica sostituisce, anche per poche ore, lavoratori di qualsiasi tipo che si assentano dal lavoro per cause più o meno valide. Fa di tutto, lavora in qualsiasi luogo, pur di essere pagato, anche per molto poco, ma non si arrende mai.
Il capitale umano (2014) di Paolo Virzì
Dino agente immobiliare in crisi immagina di risolvere i suoi problemi investendo centinaia di milioni di euro (che
non ha) nel fondo azionario del potente e spregiudicato Berneschi. Sua figlia è la fidanzata del figlio del finanziere
e questo a Dino sembra una garanzia sufficiente per l’investimento. Il film, che si svolge nella fastosa villa dei Berneschi dove un giorno Dino arriva con la figlia per concludere l’investimento, si sviluppa verso un epilogo drammatico, in cui si intrecciano interessi economici, crisi finanziaria ed egoismi.
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47° Incontro Nazionale di Studi - Materiali per l’approfondimento
REPOSITORY
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...DOSSIER 2014
1 . Gennaio. Stato di necessità. L’Italia non dispone di una misura di contrasto alla povertà
2 . Febbraio. Che casinò! Quando l’economia è ridotta a casinò vuol dire che le cose non vanno bene
3 . Marzo. Diverso come me. Lo straniero è qualcosa d’altro?
4 . Aprile. Non gioco più... Cittadini mobilitati contro il gioco d’azzardo
5 . Maggio. Testa o croce? L’euro tra buone ragioni e contestazioni
6 . Giugno. Qualcosa del genere. Per non essere approssimativi sulle differenze tra maschi e femmine
7 . Luglio/Agosto. Start me up. Innovare, creare e generare lavoro
...PAROLE-CHIAVE
1 . Capacitazione
2 . Democrazia digitale
3 . Democrazia deliberativa
4 . Democrazia economica
5 . Flexicurity
6 . Lavoro dignitoso (decent work)
7 . Working poor
OPERE
di Geminello Alvi, Chiara Canta, Maddalena Colombo, Luca Diotallevi, Luciano Gallino, Adriano Olivetti,
Mauro Magatti, Marco Marzano e Nadia Urbinati, Enrico Moretti, Silvano Petrosino, Ivana Pais, Papa Francesco, Thomas Piketty, Mauro Pini, Massimo Recalcati, Giuseppe Rossi e Salvatore Leonardi, Nicholas
Shaxson, Richard Sennet, Francesco Valerio Tommasi, Carlo Trigilia.
Hanno collaborato per BeneComune.Net...
Vincenzo Antonelli, Simona Bartolini, Piero Bargellini, Leonardo Becchetti, Marco Bonarini, Marco Burgalassi, Chiara Canta, Tonino Cantelmi, Lorenzo Caselli, Andrea Casavecchia, Tino Castagna, Stefano
Ceccanti, Francesco Clementi, Michele Consiglio, Fabio Cucculelli, Maurizio Drezzadore, Maria Rita Falco,
Oliviero Forti, Arianna Frisina, Paolo Frusone, Lorenzo Gaiani, Claudio Gentili, Laura Gentili, Silvano Ghilardi, Osea Giuntella, Alessandro Giuliani, Giovanni Grandi, Luca Grion, Marco Guzzi, Luca Jahier, Luigi
Janiri, Antonio La Spina, Fabio Mazzocchio, Mauro Meruzzi, Giuseppe Mulas, Antonio Nanni, Cristiano
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IL LAVORO NON È FINITO. Un’economia per creare lavoro buono e giusto
Nervegna, Giuseppe Notarstefano, Marco Olivetti, Ivana Pais, Walter Passerini, Filippo Pizzolato, Luca
Raffaele, Salvatore Rizza, Mariagrazia Rodomonte, Roberto Rossini, Enzo Rullani, Antonio Russo, Vincenzo Satta, Stefano Semplici, Stefano Tassinari, Monica Vacca, Paola Villa, Rosanna Virgili.
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Aesse Comunicazione - Roma