3 marzo 2014:Pag prova.qxd.qxd - Diocesi Suburbicaria Velletri

Registrazione al Tribunale di Velletri n. 9/2004 del 23.04.2004 - Redazione: C.so della Repubblica 343 - 00049 VELLETRI RM - 06.9630051 - fax 0696100596 - [email protected] Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti della Curia e pastorale per la vita della Diocesi di Velletri -Segni Anno 11, numero 3 (106) - Marzo 2014
Marzo
2014
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Ecclesia in cammino
- Cristo si è fatto povero e ci ha arricchiti con
la sua povertà, + Vincenzo Apicella
- Messaggio del S. Padre Francesco
per la Quaresima 2014
- La Geografia di Bergoglio,
S. Fioramonti
p. 3
p. 4
- La Visita Pastorale del Vescovo Vincenzo
Apicella a Velletri:
Parrocchia Madonna del Rosario
Parrocchia S.Maria in Trivio
Parrocchie S. Salvatore, S. Lucia e
S. Michele Arcangelo
Bollettino Ufficiale per gli atti di Curia
Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti
della Curia e pastorale per la vita della
Diocesi di Velletri-Segni
p.17
p.18
p.21
Direttore Responsabile
p. 5
Mons. Angelo Mancini
- Il Repertorio Nazionale di Canti per la Liturgia,
mons. Franco Fagiolo
p.24
- All’assedio dei giovani burocrazia,
eutanasia e “omo”, Pier Giorgio Liverani
p. 6
- Santa Chiara d’Assisi, “perfetta vita e alto merto
inciela donna più su”, Sara Gilotta
p. 7
Proprietà
Diocesi di Velletri-Segni
- La Vocazione: un atto di Misericordia...,
Suore Apostoline dell’Acero
- Incontro con la monaca A. eremita
metropolitana / 1, A. Gentili
- Il buon ladrone e la misericordia,
Claudio Capretti
Registrazione del Tribunale di Velletri
p.25
p.26
Giovanissimi di AC, S. Stefano Artena p.27
- Custodire la bellezza: impegno civile e
non estetico, Rigel Langella
p. 9
p.10
- Ascolto: linee guida di un percorso formativo,
Sara Bianchini
p.11
- La carità nella storia della Chiesa / 5,
don Antonio Galati
p.12
- La comunicazione e i nuovi linguaggi nella
catechesi, don Daniele Valenzi
- Simbolo della Fede: Credo la Chiesa / 1,
don Dario Vitali
- Giuseppe: la vocazione del custodire,
mons. Franco Risi
- L’eros non staziona sulle nuvole,
don Gaetano Zaralli
p.13
p.14
- Segni, 7 marzo 1944, V. Valenzi
- Artena ricorda P. G. Cocchi, S. Calì
- Mettiamoci le mani. La terra ci darà frutto,
Progetto diocesano Policoro
- Una realtà in movimento,
F. Proietti e Marta D’Emilio
- “Cone”, Edicole e Cappellette:
Fede popolare a Valmontone / 3,
S. Fioramonti
- L’Arte di Amare: la formazione in
Nuovi Orizzonti, Natalina Zanatta
n. 9/2004 del 23.04.2004
Stampa: Tipolitografia Graphicplate Sr.l.
Redazione
Corso della Repubblica 343
00049 VELLETRI RM
06.9630051 fax 96100596
[email protected]
p. 8
- Marcia della pace dell’Azione Cattolica
diocesana 2014,
- Per una partecipazione piena, attiva e
consapevole, don Andrea Pacchiarotti
Collaboratori
Stanislao Fioramonti
Tonino Parmeggiani
Mihaela Lupu
p.28
p.29
p.30
p.31
p.32
p.34
A questo numero hanno collaborato inoltre:
S.E. mons. Vincenzo Apicella, don Dario Vitali, mons.
Franco Risi, mons. Franco Fagiolo, don Antonio Galati,
don Andrea Pacchiarotti, don Daniele Valenzi, don Gaetano
Zaralli, Suore Apostoline Velletri, don Marco Nemesi, mons.
Paolo Picca, Sara Bianchini, Rigel Langella, Claudio Capretti,
Pier Giorgio Liverani, Rita e Bruno, Alessandro Gentili,
G. R., Antonio Venditti, Sara Gilotta, Giovanissimi AC di
Artena, Valeriano Valenzi, Enrico Mattoccia, Sara Calì,
Natalina Zanatta, Edoardo Baietti, Marco De Meis, Francesca
Proietti, Marta D’Emilio, Mara Della Vecchia, Fabio Pontecorvi.
Consultabile online in formato pdf sul sito:
www.diocesi.velletri-segni.it
DISTRIBUZIONE GRATUITA.
- Un seminario per le nuove generazioni curato
dall’Associazione Velletri 2030,
Edoardo Baietti
p.35
- Educazione sentimentale / 1,
Antonio Venditti
p.36
- Il canto nelle Chiese orientali,
Mara della Vecchia
p.37
- Corso di Iconografia Bizantina (pittura sacra),
Fabio Pontecorvi
p.37
- Recensione del libro:
“Roma incisa. Piante-Vedute-Costumi”,
Enrico Mattoccia
p.38
- Raffaello Sanzio,
La deposizione borghese,
don Marco Nemesi
p.39
p.15
p.16
p.39
In copertina: “LA MONTAGNA FUMANTE”
foto gentilmente concessa da Davide Dian.
Il contenuto di articoli, servizi foto e loghi nonché quello voluto da chi vi compare rispecchia esclusivamente il pensiero degli
artefici e non vincola mai in nessun modo Ecclesìa in Cammino, la direzione e la redazione.
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Si tratta di immagini scattate nella Discarica di rifiuti di Steung Meanchey,
situata nella parte meridionale di Phnom Pehn, capitale della
Cambogia. Questo reportage vuole lanciare uno sguardo e indurre
una riflessione sulla condizione umana in uno degli innumerevoli angoli bui del mondo.Anche la foto di pag. 3 appartiene allo stesso
autore che ringraziamo di cuore.
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Vincenzo Apicella, vescovo
“Si è fatto povero per arricchirci
con la sua povertà” (2Cor.8,9).
a questa espressione di San Paolo prende le mosse Papa Francesco per esortarci a vivere autenticamente la prossima Quaresima, tempo “sacramentale” della nostra
conversione al Signore.
D’altra parte, nelle Domeniche che precedono
la Quaresima, la Liturgia della Chiesa latina ci
ha fatto ascoltare, con lettura continua, quel primo discorso programmatico di Gesù nell’Evangelo
secondo Matteo, che viene conosciuto come il
“Discorso della montagna” e inizia con la sempre sconcertante frase: “Beati i poveri in spirito” (Mt.5,3), che in Luca diventa semplicemente:
“Beati voi, poveri.” (Lc.6,20).
Coerentemente col nome scelto e con tutto il
suo insegnamento e la sua testimonianza, il Vescovo
di Roma ci chiama, ancora una volta, a ricordarci che per i discepoli di Cristo la povertà non
è una disgrazia o una condanna, ma un valore e un dono da accogliere, come la misericordia,
la purezza, la giustizia, la mitezza, la pace.
Veramente questo tema non è nuovo e non suscita sorpresa per chi è cresciuto nello spirito del
Concilio Vaticano II, che ha delineato una fisionomia della Chiesa la quale, non soltanto si occupa dei poveri, ma è essa stessa povera, come
già insegnava Giovanni XXIII nel discorso di apertura, richiamando le parole che Pietro rivolse
al povero storpio che gli chiedeva l’elemosina:
D
“Io non ho né oro né argento, ma ti do quello
che ho: nel nome di Gesù Cristo nazareno, alzati e cammina” (At.3,6).
Il fatto è che, nonostante la chiarezza
dell’Evangelo e il magistero continuo di tutti i
Pontefici degli ultimi 50 anni, questa verità scomoda stenta a farsi strada nella nostra coscienza personale e comunitaria e spesso rischia di
apparire come un “luogo comune” o di essere
addirittura rimossa, come avviene per tante altre
esigenze evangeliche: vedi, ad esempio:
“Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi
se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc.8,34).
Per evitare equivoci, però, Papa Francesco tiene a precisare che la povertà di Cristo non è
un fatto puramente economico o sociale, è “ il
suo modo di amarci, il suo farsi prossimo a noi
come il buon Samaritano…il suo prendere su
di sé le nostre debolezze, i nostri peccati, comunicandoci la misericordia infinita di Dio”, che è
la più grande ricchezza. Ecco perché San Paolo
può dire che quella povertà ci ha arricchito: essa
indica “la logica di Dio, la logica dell’amore, la
logica dell’Incarnazione e della Croce.
Dio non ha fatto cadere su di noi la salvezza
dall’alto, come l’elemosina di chi dà parte del
proprio superfluo con pietismo filantropico”.
Ritorna alla mente l’altra grande pagina paolina della Lettera ai Filippesi, che leggiamo la
Domenica delle Palme: “Cristo Gesù, pur
essendo nella condizione di Dio, non ritenne un
privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stes-
so, assumendo la condizione di servo…”
(Fil.2,9-11) e non possiamo dimenticare che questo famoso Inno inizia con l’invito: “Abbiate in
voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (v.8).
E’ necessaria, allora, la distinzione tra povertà
evangelica e miseria umana, che papa
Francesco definisce: “povertà senza fiducia, senza solidarietà, senza speranza” e distingue in
tre tipi: miseria materiale, quella che comunemente chiamiamo povertà, la miseria morale,
che consiste nel diventare schiavi del vizio e
del peccato e, infine, la miseria spirituale, che
ci colpisce quando ci allontaniamo da Dio e rifiutiamo il suo amore.
La prima ci richiama a convertirci alla giustizia,
all’uguaglianza, alla sobrietà e alla condivisione, secondo il precetto di Gesù:
“Cercate anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia e tutte le altre cose vi saranno date in aggiunta (cf. Mt.6,33), le altre due esigono un ritorno
continuo all’Evangelo che ci è stato annunziato e che siamo chiamati ad annunziare gioiosamente a tutti: è “l’annuncio liberante che esiste il perdono del male commesso, che Dio è
più grande del nostro peccato e ci ama gratuitamente, sempre”.
Potremo fare questo, conclude Papa Francesco,
“nella misura in cui saremo conformati a
Cristo, che si è fatto povero e ci ha arricchiti con
la sua povertà.
La Quaresima è un tempo adatto per la spogliazione e ci farà bene domandarci di quali cose
possiamo privarci al
fine di aiutare ed
arricchire altri con la
nostra povertà.
Non dimentichiamo
che la vera povertà
duole: non sarebbe
valida una spogliazione senza questa
dimensione penitenziale. Diffido delle’elemosina che
non costa e che
non duole”.
Paradossalmente, è
la condizione per
entrare nella vera
gioia della Pasqua di
Resurrezione.
Buona
Quaresima!
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Cari fratelli e sorelle,
in occasione della Quaresima, vi offro alcune riflessioni, perché possano servire al cammino personale e comunitario di conversione. Prendo lo spunto dall’espressione di san Paolo: «Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù
Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi
per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9). L’Apostolo si rivolge ai cristiani di
Corinto per incoraggiarli ad essere generosi nell’aiutare i fedeli di Gerusalemme
che si trovano nel bisogno. Che cosa dicono a noi, cristiani di oggi, queste parole di san Paolo? Che cosa dice oggi a noi l’invito alla povertà, a una vita povera in senso evangelico?
La grazia di Cristo. Anzitutto ci dicono qual è lo stile di Dio. Dio non si rivela
con i mezzi della potenza e della ricchezza del mondo, ma con quelli della debolezza e della povertà: «Da ricco che
era, si è fatto povero per voi…».
Cristo, il Figlio eterno di Dio, uguale in
potenza e gloria con
il Padre, si è fatto povero; è sceso in mezzo
a noi, si è fatto vicino ad ognuno di noi;
si è spogliato, “svuotato”, per rendersi in
tutto simile a noi (cfr
Fil 2,7; Eb 4,15).
È un grande mistero
l’incarnazione di Dio!
Ma la ragione di tutto questo è l’amore divino, un amore che è
grazia, generosità,
desiderio di prossimità,
e non esita a donarsi e sacrificarsi per le
creature amate.
La carità, l’amore è
condividere in tutto la
sorte dell’amato.
L’amore rende simili, crea uguaglianza,
abbatte i muri e le
distanze. E Dio ha fatto questo con noi. Gesù, infatti, «ha lavorato con mani
d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha
amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente
uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost.
past. Gaudium et spes, 22). Lo scopo del farsi povero di Gesù non è la povertà in se stessa, ma – dice san Paolo – «... perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà». Non si tratta di un gioco di parole, di un’espressione ad
effetto! E’ invece una sintesi della logica di Dio, la logica dell’amore, la logica
dell’Incarnazione e della Croce. Dio non ha fatto cadere su di noi la salvezza
dall’alto, come l’elemosina di chi dà parte del proprio superfluo con pietismo
filantropico. Non è questo l’amore di Cristo!
Quando Gesù scende nelle acque del Giordano e si fa battezzare da Giovanni
il Battista, non lo fa perché ha bisogno di penitenza, di conversione; lo fa per
mettersi in mezzo alla gente, bisognosa di perdono, in mezzo a noi peccatori,
e caricarsi del peso dei nostri peccati. E’ questa la via che ha scelto per consolarci, salvarci, liberarci dalla nostra miseria. Ci colpisce che l’Apostolo dica
che siamo stati liberati non per mezzo della ricchezza di Cristo, ma per mezzo della sua povertà. Eppure san Paolo conosce bene le «impenetrabili ricchezze
di Cristo» (Ef 3,8), «erede di tutte le cose» (Eb 1,2). Che cos’è allora questa
povertà con cui Gesù ci libera e ci rende ricchi? È proprio il suo modo di amarci, il suo farsi prossimo a noi come il Buon Samaritano che si avvicina a quell’uomo lasciato mezzo morto sul ciglio della strada (cfr Lc 10,25ss). Ciò che ci
dà vera libertà, vera salvezza e vera felicità è il suo amore di compassione, di
tenerezza e di condivisione.
La povertà di Cristo che ci arricchisce è il suo farsi carne, il suo prendere su
di sé le nostre debolezze, i nostri peccati, comunicandoci la misericordia infinita di Dio. La povertà di Cristo è la più grande ricchezza: Gesù è ricco della
sua sconfinata fiducia in Dio Padre, dell’affidarsi a Lui in ogni momento, cercando sempre e solo la sua volontà e la sua gloria. È ricco come lo è un bambino che si sente amato e ama i suoi genitori e non dubita un istante del loro
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amore e della loro tenerezza. La ricchezza di Gesù è il suo essere il Figlio, la
sua relazione unica con il Padre è la prerogativa sovrana di questo Messia povero.
Quando Gesù ci invita a prendere su di noi il suo “giogo soave”, ci invita ad
arricchirci di questa sua “ricca povertà” e “povera ricchezza”, a condividere con
Lui il suo Spirito filiale e fraterno, a diventare figli nel Figlio, fratelli nel Fratello
Primogenito (cfr Rm 8,29). È stato detto che la sola vera tristezza è non essere santi (L. Bloy); potremmo anche dire che vi è una sola vera miseria: non
vivere da figli di Dio e da fratelli di Cristo.
La nostra testimonianza. Potremmo pensare che questa “via” della povertà
sia stata quella di Gesù, mentre noi, che veniamo dopo di Lui, possiamo salvare il mondo con adeguati mezzi umani. Non è così. In ogni epoca e in ogni
luogo, Dio continua a salvare gli
uomini e il mondo mediante la
povertà di Cristo,
il quale si fa povero nei Sacramenti,
nella Parola e
nella sua Chiesa,
che è un popolo
di poveri.
La ricchezza di Dio
non può passare
attraverso la nostra
ricchezza, ma
sempre e soltanto attraverso la
nostra povertà,
personale e comunitaria, animata
dallo Spirito di
Cristo.
Ad imitazione del
nostro Maestro,
noi cristiani siamo
chiamati a guardare le miserie dei
fratelli, a toccarle, a farcene carico e a operare
Apparizione di Cristo al Popolo, Alexander Ivanov,1837, Mosca.
concretamente
per alleviarle. La miseria non coincide con la povertà; la miseria è la povertà
senza fiducia, senza solidarietà, senza speranza. Possiamo distinguere tre tipi
di miseria: la miseria materiale, la miseria morale e la miseria spirituale. La miseria materiale è quella che comunemente viene chiamata povertà e tocca quanti vivono in una condizione non degna della persona umana: privati dei diritti
fondamentali e dei beni di prima necessità quali il cibo, l’acqua, le condizioni
igieniche, il lavoro, la possibilità di sviluppo e di crescita culturale.
Di fronte a questa miseria la Chiesa offre il suo servizio, la sua diakonia, per
andare incontro ai bisogni e guarire queste piaghe che deturpano il volto dell’umanità. Nei poveri e negli ultimi noi vediamo il volto di Cristo; amando e aiutando i poveri amiamo e serviamo Cristo. Il nostro impegno si orienta anche a
fare in modo che cessino nel mondo le violazioni della dignità umana, le discriminazioni e i soprusi, che, in tanti casi, sono all’origine della miseria. Quando
il potere, il lusso e il denaro diventano idoli, si antepongono questi all’esigenza di una equa distribuzione delle ricchezze. Pertanto, è necessario che le coscienze si convertano alla giustizia, all’uguaglianza, alla sobrietà e alla condivisione. Non meno preoccupante è la miseria morale, che consiste nel diventare
schiavi del vizio e del peccato. Quante famiglie sono nell’angoscia perché qualcuno dei membri – spesso giovane – è soggiogato dall’alcol, dalla droga, dal
gioco, dalla pornografia!
Quante persone hanno smarrito il senso della vita, sono prive di prospettive
sul futuro e hanno perso la speranza! E quante persone sono costrette a questa miseria da condizioni sociali ingiuste, dalla mancanza di lavoro che le priva della dignità che dà il portare il pane a casa, per la mancanza di uguaglianza
rispetto ai diritti all’educazione e alla salute. In questi casi la miseria morale
può ben chiamarsi suicidio incipiente. Questa forma di miseria, che è anche
causa di rovina economica, si collega sempre alla miseria spirituale, che ci colpisce quando ci allontaniamo da Dio e rifiutiamo il suo amore. Se riteniamo di
non aver bisogno di Dio, che in Cristo ci tende la mano, perché pensiamo di
bastare a noi stessi, ci incamminiamo su una via di fallimento. Dio è l’unico
continua nella pag. accanto
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Stanislao Fioramonti
N
ell’Angelus del 12 gennaio 2014 papa Francesco ha annunciato il Concistoro
del 22 febbraio, festa della Cattedra di San Pietro, durante il quale
ha nominato 19 nuovi Cardinali appartenenti a 15 nazioni dei cinque
continenti che, ha detto, “rappresentano il profondo rapporto ecclesiale fra la
Chiesa di Roma e le altre Chiese sparse per il mondo”.
Il 23 febbraio ha presieduto in San Pietro una solenne concelebrazione con i
nuovi Cardinali, mentre il 20 e il 21 febbraio aveva tenuto un Concistoro con
tutti i cardinali per riflettere sul tema della famiglia. Scorrendo i nomi dei nuovi Cardinali, vediamo che 5 sono italiani: Pietro Parolin, Arcivescovo titolare
di Acquapendente, Segretario di Stato; Lorenzo Baldisseri, Arcivescovo titolare di Diocleziana, Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi; Beniamino
Stella, Arcivescovo tit. di Midila, Prefetto della Congregazione per il Clero; Gualtiero
Bassetti, Arcivescovo di Perugia-Città della Pieve (Italia); Loris Francesco Capovilla,
Arcivescovo titolare di Mesembria. Di altri tre paesi europei sono il tedesco Gerhard
Ludwig Muller, Arcivescovo-Vescovo emerito di Regensburg, Prefetto della Congregazione
per la Dottrina della Fede; l’inglese Vincent Gerard Nichols, Arcivescovo di
Westminster (Gran Bretagna) e lo spagnolo Fernando Sebastián Aguilar, Arcivescovo
emerito di Pamplona. Dal continente asiatico provengono il coreano Andrew
Yeom Soo jung, Arcivescovo di Seoul, e il filippino Orlando B. Quevedo, O.M.I.,
Arcivescovo di Cotabato; da quello africano Jean-Pierre Kutwa, Arcivescovo
di Abidjan in Costa d’Avorio, e Nakellentuba Ouédraogo, Arcivescovo di Ouagadougou
in Burkina Faso. Il nucleo più consistente dei nuovi più stretti collaboratori del
papa è però americano, con uno del Nord America, Gérald Cyprien Lacroix,
Arcivescovo di Québec (Canada); tre del Centro: Leopoldo José Brenes Solórzano,
Arcivescovo di Managua (Nicaragua); Chibly Langlois, Vescovo di Les Cayes
(Haïti); Kelvin Edward Felix, Arcivescovo emerito di Castries, nelle Antille. E
tre del Sud America: Orani João Tempesta, O.Cist., Arcivescovo di Rio de Janeiro
(Brasile); Mario Aurelio Poli, Arcivescovo di Buenos Aires (Argentina); Ricardo
Ezzati Andrello, S.D.B., Arcivescovo di Santiago del Cile (Cile).
Che considerazioni stimola la nuova geografia di Bergoglio? Prima di tutto il
piccolo numero di esponenti della Curia, e cioè “solo” il Segretario di Stato, il
Segretario del Sinodo dei Vescovi e il Prefetto della Congregazione per il Clero.
Poi il piccolo numero di italiani: se si eccettuano i tre di Curia, è stato nominato solo mons. Loris Capovilla, già segretario di papa Giovanni XXIII, e l’Arcivescovo
di una sede, Perugia, che non aveva un cardinale dai tempi di Gioacchino Pecci
(poi papa Leone XIII), mentre sono state per ora poste in attesa sedi tradizionalmente occupate da porporati, come Torino e Venezia. E poi l’attenzione di
papa Francesco per luoghi di grande povertà materiale (Haiti e Burkina Faso).
E soprattutto l’attenzione al suo mondo latinoamericano, dal quale ha estratto
sei diretti collaboratori, tra i quali mons. Poli suo immediato successore nell’arcidiocesi
di Buenos Aires. Infine, dei 19 nuovi cardinali, solo 16 saranno elettori, mentre
i tre Arcivescovi emeriti (Capovilla, Aguilar e Felix), ultraottantenni, sono stati
aggiunti al Collegio Cardinalizio per essersi “distinti per il loro servizio alla Santa
Sede e alla Chiesa”. L’angelus del 12 gennaio si concludeva con l’invito di Francesco
a pregare “per i nuovi Cardinali, affinché rivestiti delle virtù e dei sentimenti del
Signore Gesù, Buon Pastore, possano aiutare più efficacemente il Vescovo di
Roma nel suo servizio alla Chiesa universale”. In quello stesso giorno papa Francesco
ha inviato a ciascuno dei suoi primi prescelti una letterina in cui precisava molto chiaramente il senso e lo scopo di quella nomina:
“Caro Fratello, nel giorno in cui si rende pubblica la tua designazione a far parte del Collegio Cardinalizio, desidero farti giungere un cordiale saluto insieme
all’assicurazione della mia vicinanza e della mia preghiera. Desidero che, in quanto aggregato alla Chiesa di Roma, rivestito delle virtù e dei sentimenti del Signore
che veramente salva e libera. Il Vangelo è il vero antidoto contro la miseria spirituale: il cristiano è chiamato a portare in ogni ambiente l’annuncio liberante
che esiste il perdono del male commesso, che Dio è più grande del nostro peccato e ci ama gratuitamente, sempre, e che siamo fatti per la comunione e per
la vita eterna. Il Signore ci invita ad essere annunciatori gioiosi di questo messaggio di misericordia e di speranza!
È bello sperimentare la gioia di diffondere questa buona notizia, di condividere il tesoro a noi affidato, per consolare i cuori affranti e dare speranza a tanti fratelli e sorelle avvolti dal buio. Si tratta di seguire e imitare Gesù, che è andato verso i poveri e i peccatori come il pastore verso la pecora perduta, e ci è
andato pieno d’amore. Uniti a Lui possiamo aprire con coraggio nuove strade
di evangelizzazione e promozione umana.
Cari fratelli e sorelle, questo tempo di Quaresima trovi la Chiesa intera disposta e sollecita nel testimoniare a quanti vivono nella miseria materiale, morale e spirituale il messaggio evangelico, che si riassume nell’annuncio dell’amore
del Padre misericordioso, pronto ad abbracciare in Cristo ogni persona. Potremo
Gesù (cfr Rm 13,14), tu possa aiutarmi con fraterna efficacia nel mio servizio
alla Chiesa universale.
Il Cardinalato non significa una promozione, né un onore, né una decorazione; semplicemente è un servizio che esige di ampliare lo sguardo e
allargare il cuore. E, benché sembri un paradosso, questo poter guardare più lontano e amare più universalmente con maggiore intensità si può
acquistare solamente seguendo la stessa via del Signore: la via dell’abbassamento e dell’umiltà, prendendo forma di servitore (cfr Fil 2,5-8). Perciò
ti chiedo, per favore, di ricevere questa designazione con un cuore semplice e umile. E, sebbene tu debba farlo con gaudio e con gioia, fa’ in modo
che questo sentimento sia lontano da qualsiasi espressione di mondanità, da qualsiasi festeggiamento estraneo allo spirito evangelico di austerità, sobrietà e povertà. Arrivederci, quindi, al prossimo 20 febbraio, in cui
cominceremo i due giorni di riflessione sulla famiglia. Resto a tua disposizione
e, per favore, ti chiedo di pregare e far pregare per me. Gesù ti benedica e la
Vergine Santa ti protegga. Fraternamente,
FRANCESCO
farlo nella misura in cui saremo conformati a Cristo, che si è fatto povero e ci
ha arricchiti con la sua povertà. La Quaresima è un tempo adatto per la spogliazione; e ci farà bene domandarci di quali cose possiamo privarci al fine di
aiutare e arricchire altri con la nostra povertà. Non dimentichiamo che la vera
povertà duole: non sarebbe valida una spogliazione senza questa dimensione
penitenziale. Diffido dell’elemosina che non costa e che non duole.
Lo Spirito Santo, grazie al quale «[siamo] come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto» (2 Cor 6,10),
sostenga questi nostri propositi e rafforzi in noi l’attenzione e la responsabilità verso la miseria umana, per diventare misericordiosi e operatori di misericordia. Con questo auspicio, assicuro la mia preghiera affinché ogni credente
e ogni comunità ecclesiale percorra con frutto l’itinerario quaresimale, e vi chiedo di pregare per me. Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca.
Dal Vaticano, 26 dicembre 2013
Festa di Santo Stefano, diacono e primo martire
FRANCESCO
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Pier Giorgio Liverani
un’autentica aggressione, anzi
un vero e proprio assedio fisico e morale contro l’infanzia
e l’adolescenza, condotto in Italia come
in Europa dai poteri politici e dalle potenti lobby omosessuali. La strategia è
ben coordinata, come vedremo.
Intendo parlare dell’abrogazione dei
nomi sacrosanti di padre e di madre
nei documenti scolastici (basta una lettura anche superficiale della Sacra Scrittura
per spiegare la qualifica di “sacrosanti”),
dell’educazione sessuale di stampo “omo”
e “gender” predisposta nelle scuole,
infine della legalizzazione dell’eutanasia
anche per i bambini e i ragazzi decisa per legge in Belgio.
La prima decisione (quella, per intenderci, apparentemente ridicola dei “Genitori
Uno e Due”) è molto più grave di ciò
che può sembrare, perché apre la strada alla corruzione spirituale dei ragazzi con l’indottrinamento sulla normalità della condizione e della pratica omosessuali e sulla teoria del “gender” nella scuola.
Non si tratta, infatti, soltanto di una delle tante stupidaggini della burocrazia:
la cancellazione dei nomi di madre e di padre,
di mamma e di papà - le prima parole che un
essere umano impara per tutta la vita, quando è ancora “infante”, cioè ancora incapace
di parlare. L’asserito riguardo per chi, a casa,
ha magari due genitori maschi o due femmine che, comunque, chiamerà anch’egli papà
e mamma, magari usando due volte uno dei
due nomi, è un torto alle famiglie e, inm ogni
caso, una foglia di fico che nemmeno copre
le vergogne.
È evidente, nei fatti, che questa è una manovra per introdurre anche nella scuola la normalizzazione delle cosiddette “famiglie omosessuali”, che saranno sempre minoritarie ed
è ingiusto mortificare la maggioranza per beneficiare malamente la minoranza. Io penso che
i veri genitori (non quelli alfanumerici) abbiano il diritto costituzionale di non sottoscrivere
questa assurdità, cancellando la dicitura
“Genitore 1” o “2” e sostituendola con padre
o madre, secondo il caso. Incrinare con questi nomi così artificiali ciò che è tra le cose più
naturali dell’esistenza è un delitto morale. Tutti
i padri e tutte le madri si dovranno rifiutare di
sottomettersi alla stupidità della cosiddetta antiomofobia.
Secondo assalto: non basta l’aborto. In
Olanda e in Belgio (e c’è da temere una progressiva diffusione in Eiuropa) è lecito per legge uccidere i bambini malati e gravemente sof-
È
ferenti anche non in stadio terminale, con il loro
consenso se in grado di darlo e con quello dei
genitori. Così ai bambini cui è negata ogni firma di atti giuridici si riconosce il diritto di firmare il proprio atto di morte. Già con il barbaro “diritto civile” di aborto, in Europa e solo
nel 2008, è stata tolta la vita a 2.863.649 bambini; in Italia dal 1978 a oggi si è causata la
morte precocissima di 5.437.553 nascituri; e
nei 27 Paesi della UE e nei 15 anni che vanno dal 1993 al 2008, si sono uccise 20.635.919
di creature le più deboli e le più innocenti. Quanti
altri bambini o ragazzi già cresciuti e consapevoli dovremo aggiungere a queste tragiche
statistiche?
«L’approvazione dell’eutanasia per i bambini
in Belgio – scrive in un comunicato la presidente di “Scienza & Vita”, Paola Ricci Sindoni
– rappresenta il passaggio di un limite che conduce direttamente al baratro antropologico».
E aggiunge: «Con questa legge l’uomo rinnega
se stesso e perde la sua umanità, realizzando le peggiori distopie (il contrario di “utopie”)
di un mondo che, invece di adoperarsi per rendere disponibili e fruibili le cure palliative più
adeguate ad alleviare le sofferenze e accompagnare verso la fine naturale, sceglie di troncare una vita». Sottolineando che la morte procurata non è la soluzione della sofferenza e
della fragilità dei piccoli malati e dei loro genitori, la Presidente di Scienza & Vita si doman-
da: «Quale sarà la prossima tappa se
anche l’ultimo limite è stato valicato?
Forse i disabili?».
Il terzo assalto all’innocenza dell’infanzia
e dell’adolescenza è rimasto, per fortuna, un drammatico tentativo. Un’agenzia
governativa – l’Unar (Ufficio Nazionale
Antidiscriminazione Razziale), organismo del Dipartimento per le Pari
Opportunità della Presidenza del
Consiglio dei Ministri – ha pubblicato
e iniziato la distribuzione di tre opuscoli
che dovrebbero «Educare alla diversità
a scuola» (questo è il loro titolo), destinati alla scuola primaria (elementari),
a quella secondaria di primo grado (media
inferiore) e a quella di secondo grado
(media superiore). I volumetti presentano quelle che dovrebbero essere le
«Linee-guida per un insegnamento più
accogliente e rispettoso delle differenze».
Traggo queste informazioni da una serie
di articoli assai documentati compasrsi su Avvenire dall’11 al 18 febbraio. Il
loro contenuto è suddiviso in quattro capitoli: «Le componenti dell’identità sessuale», «Omofobia: definizione, origini e mantenimento», «Omofobia interiorizzata: definizione e conseguenze
fisiche e psicologiche», «Bullismo
omofobico: come riconoscerlo e intervenire».
Si tratta di un’iniziativa abusiva (e bloccata in
tempo) di un Ufficio che non ha il potere di stabilire programmi scolastici e che mira palesemente a introdurre nella scuola, con la giustificazione del valore della diversità, la normalizzazione dell’omosessualità in tutte le sue
forme e, per di più, di iniziare i ragazzi alla “teoria del gender” (la teoria secondo la quale il
vero sesso non è quello della nascita, ma quello che ciascuno sceglie per sé sia per un tempo determinato sia come condizione definitiva). Ecco alcuni esempi “didattici” tratti dai libercoli in parola.
Per i più piccoli: «Rosa e i suoi papà hanno
comprato tre lattine di tè freddo al bar…».
Per i più grandi: «I tratti caratteriali, sociali e
culturali, come il grado di religiosità, costituiscono fattori importanti da tenere in considerazione nel delineare il ritratto di un individuo
omofobo»; «Appare evidente come maggiore risulta il grado di cieca credenza nei precetti religiosi, maggiore sarà la probabilità che
un individuo abbia un’attitudine omofoba». Ancora:
si denuncia la «ricezione costante di messaggi
omofobi, subliminali o espliciti, da parte di istituzioni o e organizzazioni religiose», arrivando a sostenere che «vi è un modello omofobo di tipo religioso, che considera l’omosessualità un peccato». E, mostrando una grave
ignoranza della morale cristiana, si arriva ad
continua nella pag. accanto
Marzo
2014
7
Sara Gilotta
“Perfetta vita e alto merto inciela donna più su” (grandi meriti conquistati con una vita contemplativa): sono le parole con cui nel terzo canto
del Paradiso, Piccarda Donati, una delle figure più straordinarie del poema
dantesco si riferisce a Santa Chiara di Assisi. Piccarda che volle seguire
la “norma” voluta dalla “ donna”, che fondò l’ordine monacale chiamato dapprima delle “Piccole Dame” e poi denominato delle Clarisse a conferma che
le suore seguirono e seguono i principi religiosi fissati da Santa Chiara.
Ma chi fu Santa Chiara ? E’ ricordata innanzitutto come una delle prime
seguaci di Francesco e come lui, pur appartenendo ad una famiglia nobile e ricca scelse la povertà , per avvicinarsi a Gesù, che fu povero dalla
nascita fino al Calvario. Ella, però, a differenza di Francesco volle da subito per sé e le sue sorelle una vita di clausura, grazie alla quale seguire il
Vangelo con perseveranza ed entusiasmo. E oggi ricordare Chiara in un
tempo tanto lontano dal suo , è bello ed utile, perché anche la Chiesa avverte, forte, grazie a Papa Francesco il bisogno di rinnovarsi, scegliendo di
nuovo la via della povertà indicata dal Poverello di Assisi, che non a caso
ha lasciato con Chiara un insegnamento fondamentale e sempre attuale:
contribuire con l’esempio a vivere la fede, pur inserendola nelle diverse culture e nelle diverse realtà che la storia nel suo eterno divenire propone.
Perché la storia si modifica, mentre la fede deve continuamente essere “forma e guida” della vita di tutti i cristiani. Ma Chiara ci ha lasciato anche il
suo amore per la preghiera, da cui ella era solita trarre gioia , che le derivava dalla costante contemplazione per il Crocifisso, cui guardò per tutta
la vita con infinito amore ed infinita umiltà. Lei, che era destinata certo ad
una vita ricca e facile scelse la strada che le consentì di essere continuamente in relazione con Dio, da cui sapeva le sarebbe derivato ogni bene e
ogni felicità.
Per questo la vita di tutte le clarisse fu ed è continuo rendimento di grazie
a Dio misericordioso. Dio che Chiara sentì continuamente presente nel suo
cuore e che la rese capace di amare tutte le creature dalle consorelle fino
all’ umanità intera. Ma l’aspetto forse più importante della vita della Santa
di Assisi fu quello della gratitudine per tutto ciò che Dio ci dona, un insegnamento fondamentale soprattutto per chi come noi è aduso a mettere se
stesso e le sue esigenze al centro della realtà, dimentico troppo spesso del
significato stesso della parola gratitudine a Dio. Incurante di essere grato
anche delle piccole cose che la bontà divina dona gratuitamente. Perché
l’amore di Dio per tutti è gratuito e di esso Egli ci colma in tutti i giorni della nostra vita. Ed è la gratitudine che rende sopportabili le difficoltà , è la
gratitudine che sola può aiutarci a superare i limiti del nostro ego e condurci ad aprirci alle gioie del quotidiano.
E’ vero siamo esseri fragili, miseri, bisognosi di tutto, ma, per tentare di fare
nostro l’esempio di Chiara, non possiamo dimenticare che lei stessa fu fragile e misera, malata, sofferente, tutte tribolazioni che lei fu capace di sopportare con gioia , perché seppe trovare in Cristo il luogo dell’eterno amore, che si offrì al Padre e agli uomini nel segno della infinita gratitudine.
Tutto ciò non le impedì mai , rimanendo stretta alla vita terrena, di desiderare la vita beata di un oltre che le avrebbe permesso di incontrare Colui
che aveva servito ed amato con gioia e perseveranza, mezzo per sopportare meglio le difficoltà terrene , mai dimenticando la scelta cui la portò
la sua vocazione e la sua storia.
Per questo la sua fu una gioia concreta, che non le evitò molte delle durezze della vita, che ella, seppe accettare, per vivere e camminare sempre
verso il sentiero della beatitudine. Anche nella solitudine della malattia, in
cui mai dimenticò di prendersi cura di chi soffriva. E alle sorelle presenti e
future , nonché a tutti gli uomini Chiara, che mai dimenticò di far parte della Chiesa e che ribadì nel suo testamento di aver scelto di seguire come
umile pianticella il comandamento di Francesco, che definisce “Padre tanto grande”, lasciò una benedizione, che ha superato i limiti del tempo per
illuminare con la sua luce anche noi: “Il Signore vi benedica e vi custodisca. Mostri a voi la sua faccia e abbia misericordia di voi. Volga il suo volto verso di voi e dia pace a voi. “
Nell’immagine: Santa Chiara, opera di Piero Casentini,
presso il Monastero SS. Annunziata di Terni, 2009.
segue da pag. 6
affermare che, secondo la Chiesa, «il sesso
va fatto solo per avere bambini», con la conseguenza che «tutte le altre forme di sesso,
non finalizzate alla procreazione, sono da ritenersi sbagliate».
La pubblicazione di tutto ciò su Avvenire e qualche altro quotidiano ha allarmato la Presidenza
del Consiglio, che non era stata informata di
questa iniziativa estranea alle competenze dell’Unar,
ha bloccato tutto e ha fatto pervenire al direttore dell’Ufficio una “nota di demerito”, che peserà sulla sua carriera. L’Unar aveva agito sen-
za informare nemmeno il Ministero dell’Istruzione.
Dal sito web dell’Unar si apprende anche che
questo programma era stato preparato con la
consulenza di ben 29 associazioni di omosessuali,
ma senza interpellare le realtà associative molto più numerose e soprattutto rappresentative della società italiana e dei diritti dei bambini e delle famiglie come, per esempio, il Forum
delle Associazioni Familiari. È sperabile che
l’allarme resti, perché non mancheranno altri
tentativi analoghi. Non sarà male ricordare che
la Costituzione della Repubblica Italiana (artt.
33 e 34), non parla di un compito “educativo”
della scuola, mentre afferma «il dovere e diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli».
Dunque la scuola pensi a insegnare e a istruire e lasci l’educazione dei figli, specialmente
in materie così gravi e delicate, ai genitori (il
padre e la madre). In caso contrario è possibile e doveroso fare ricorso alla Corte
Costituzionale.
Nell’immagine una scultura di Gehard Demetz.
Marzo
2014
8
Claudio Capretti
n peccato chiama sempre un
altro peccato. Si inizia sempre da
uno piccolo, apparentemente insignificante, poi, senza accorgersene, ci si
ritrova in fondo al baratro; e solo allora comprendi che la meta ultima era solo quella. Sembra quasi che il male, colui che ho
inseguito e poi servito fedelmente per tutta la mia vita, me lo riveli solo quando non
si può tornare indietro.
“Per chi stai pregando donna?” chiesi molto tempo fa a mia madre quando già abitavo nella casa del male.“Per te figlio mio,
affinché tu possa salvarti”, mi rispose.
“E’ tempo sprecato, lascia stare”, le
risposi con fastidio e quasi beffeggiandola.
“No, non lo sarà. Ne sono certa, Dio non
mi ha mai deluso”, fu la sua replica.
Madre mia, come vorrei averti accanto in questo
momento, forse recherei al tuo cuore altro strazio, ma avrei modo di chiederti perdono per il male
che ho recato al tuo cuore. I pensieri si interrompono
di colpo e urlo con tutto il fiato che ho quando i
chiodi si conficcano nelle mie mani.
Implacabilmente, dolorosamente. Solo ieri, immaginavo come sarebbe stato questo momento, mi
preparavo premendo il palmo della mano contro
un sasso acuminato e spingevo fin quando il dolore diventava insopportabile. Poi mi fermavo, e riprendevo di nuovo. Ma solo ora comprendo che il dolore che provo è più forte di quanto avessi mai potuto immaginare. L’altro malfattore con cui sto condividendo il medesimo destino, all’urlo di dolore
aggiunge imprecazioni maledicendo tutti, Dio compreso. Io non posso, non voglio.
Merito questo, per tutto il male che ho fatto a me
stesso e a quelli del mio popolo. La croce a cui
sono stato inchiodato viene alzata e fissata a terra, il peso del corpo preme sul palmo delle mani,
aggiungendo dolore al dolore. Durerà molto questa agonia? Tutta la mia vita mi si pone ora dinnanzi, come un rotolo aperto, i misfatti compiuti, vengono a reclamare il loro debito; quello del-
U
la carne ora, poi, quello dell’anima successivamente. Tra poco verrai messo in croce anche Tu,
Nazareno.
In carcere molti parlavano di Te, voci sulla tua persona si rincorrevano, si contraddicevano. Una cosa
è certa, le autorità politiche, religiose e il popolo, o almeno una parte di esso, erano concordi
nel condannarti a morte. Mai, ho visto questi tre
poteri andare così d’accordo come ora.
Quando ciò accade, o è per compiere un palese atto di giustizia, o una immane ingiustizia. Escludo
la prima. Un condannato a morte come me il giorno prima di morire ha ben altri pensieri per la testa,
e quindi non sapevo cosa pensare di Te.
Ma ti ho intravisto sai? E’ stato ieri in prigione,
non avevi parvenza di uomo, tanto era il tuo aspetto martoriato, e non erano mai sazi i tuoi carnefici di torturarti. Agli sputi seguivano gli insulti, poi
la burla di avvolgerti con un mantello di porpora
e una corona di spine come parodia della regalità. Ti posero infine una canna per simboleggiarne
lo scettro. Attraverso quella canna che tenevi tra
le mani, mi è sembrato di vedere la mia vita, una
vita che il vento del male ha incrinato molte volte a suo piacimento.
Assisto al modo con cui ti tolgono le vesti, percuotono e allontanano chi ti ha aiutato a portare
la croce. Abbandono un poco il mio dolore per
assistere al tuo. Il macabro rito ha inizio, il cielo
si oscura quando il tuo corpo viene inchiodato e
innalzato sulla croce, forse persino il sole si nasconde disgustato dalla malvagità dei tuoi aguzzini.
Ti guardo, e mi sembra di scorgere un re, non
sconfitto dalla disumanità, ma confitto da un qualcosa che ancora non comprendo. Le tue labbra
si muovono, sembra Tu stia pregando, sembra
che Tu ti stia rivolgendo a Qualcuno e non con
rabbia, forse, con totale abbandono. Vorrei
reprimere ancora questo sentimento che provo
per Te, qualcosa mi dice che ora tutto è perduto e che nessuno verrà mai a salvarmi.
Eppure, solo nel contemplarti scorgo in Te un insondabile abisso di carità, sento che il profumo di un’infinita Misericordia sta avvolgendo sempre più la
mia vita. Tu sei Figlio di Dio, sei il Cristo che abbiamo atteso, che viene per liberarci, da un avversario peggiore di Roma, o meglio: le nostre mortali passioni suscitate dall’antico ingannatore. Mi
hanno detto che solo Dio può far scaturire dai nostri cuori duri come la roccia tali sentimenti, ed ora ne ho la prova.
“Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi”. La voce dell’altro malfattore si alza con cattiva provocazione,
e mi addolora, interrompe l’ascoltare
del mio cuore come se volesse distoglierlo da Te. No, se Tu lo avessi voluto lo avresti già fatto, saresti sceso da
quella croce, tutti si sarebbero messi
in ginocchio e ti avrebbero implorato di
essere clemente con loro. Avrebbero
deposto il re Erode Antipa con tutti i sommi sacerdoti saresti stato loro re, e tutti si sarebbero ribellati al potere di Roma.
Ma in questo caso sarebbe stato troppo facile credere in Te, avresti obbligato ognuno di loro a credere in Te.
E Tu che sei infinito Amore, mai ci costringeresti a questo. C’è qualcosa di infinitamente più grande in questa tua rassegnazione che ancora non
è ben chiara agli occhi del mio cuore. Ma c’è, ne
sono certo. La vera salvezza non consiste nell’operare quello che l’altro malfattore reclama a
gran voce. Non è questo il senso di quello che
oggi si sta consumando, e Tu me lo stai indicando
nel non fuggire dalla tua storia. Alzo forte la mia
voce, verso questo malfattore e non temo di dirgli: “Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente,
perché riceviamo quello che abbiamo meritato
per le nostre azioni; egli invece non ha fatto
nulla di male”. Non mi vergogno di proclamare la tua innocenza o Gesù, di confessare la tua
divinità e le mie iniquità, e non è per mio merito
ho compreso che Tu sei il Giusto, Colui che si
stai facendo carico di tutte le nostre iniquità.
E la buia notte in cui ero immerso, viene squarciata dal Bene, si posa sulla mia vita pur essendo deformata dal peccato e sento che vuole possederla per beneficarla. O inattesa e dolce liberazione, per una vita ti ho cercata seguendo vie
infauste, ora nel momento finale vieni a me e niente altro mi chiedi se non di essere accolta. Forse,
il frutto dell’assenza di Dio che stai dolorosamente
pagando, è quello della Presenza di Dio che sto
sperimentando adesso, sul confine della mia vita.
La catena della mia indegnità non deve mai più
ostacolarmi di correre verso di Te, per questo oso
dirti: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel
tuo regno”. Non salvarmi da questa croce, ma
salvami attraverso questa croce. Donami quella
salvezza che sei venuto ad annunciare, donami
il perdono dei miei peccati, donami una vita nuova in Te. Sii sollecito nel venire in mio aiuto, non
lasciare la mia anima in balia del male per l’eternità. Per troppo tempo il male mi ha sedotto,
ora strappa la mia anima da questa angoscia, portami con Te, dove possa contemplare per l’eternità il tuo volto misericordioso, e sperimentare una
gioia senza fine. Volgi il tuo sguardo verso di me,
interrompi un poco il tuo pregare e mi dici: “In
verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”.
Nell’immagine: particolare de’ Il Golgota di Giovanni Antonio
De Sacchis detto il Pordenone, 1521, Cremona.
Marzo
2014
9
don Andrea Pacchiarotti
I
l cambiamento di prospettiva introdotto finora da SC, consiste essenzialmente, nell’aver spostato decisamente le priorità del discorso
sull’Eucaristia. Sotto il titolo “Il mistero eucaristico“ essa presenta i suoi 11 numeri dedicati all’Eucaristia con la seguente significativa
scansione:
47 La messa e il mistero pasquale
48-49 Partecipazione attiva dei fedeli alla messa
50 Revisione dell’ordinario della messa
51 Una più grande ricchezza biblica
52 L’omelia
53 La «preghiera dei fedeli»
54 Lingua nazionale e latino nella messa
55 Comunione sotto le due specie
56 Unità della messa
57 La concelebrazione.
Il n. 47 non ha la pretesa di presentare tutta la dottrina della Chiesa
sull’Eucaristia - “il nostro Salvatore nell’ultima cena, la notte in cui fu
tradito, istituì il sacrificio eucaristico del suo corpo e del suo sangue,
onde perpetuare nei secoli fino al suo ritorno il sacrificio della croce,
e per affidare così alla sua diletta sposa, la Chiesa, il memoriale della sua morte e della sua resurrezione” - ma si contenta di evocare la
ragione dell’istituzione dell’Eucaristia ed esporre i suoi effetti: “sacramento di amore, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale, nel quale si riceve Cristo, l’anima viene ricolma di grazia e ci è dato
il pegno della gloria futura”. Dopo questa introduzione l‘elemento più
qualificante di questo paragrafo sta nella riscoperta e rivalutazione dell’esigenza non accessoria di partecipazione attiva da parte dei fedeli e la forma specifica di tale partecipazione. In effetti il testo, al n. 48
riguardo al mistero eucaristico, si esprime così: “Perciò la Chiesa si
preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o
muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione
sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per
le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente
tutto in tutti”.
È evidente che il vero motivo della Riforma consiste dunque nella possibilità di intelligere il mistero eucaristico proprio per ritus et preces,
ossia nella partecipazione consapevole, piena e attiva alla azione liturgica. È dunque l’azione, il modo primario dell’intelligenza liturgica.
La Riforma del rito eucaristico è perciò motivata essenzialmente dall’esigenza di recuperare appieno e per tutti questo livello rituale e orante dell’intelligenza eucaristica. Non si tratta, in altre parole, di una Riforma
al servizio della solita comprensione intellettuale, ma abbiamo piuttosto a che fare con un mutamento prospettico e con un recupero esperienziale in vista di un nuovo e originario modo di comprendere la verità dell’Eucaristia, in equilibrio tra sensibilità e intelletto.
È la forma rituale (SC 49), ad assicurare la piena efficacia pastorale
del sacrificio eucaristico. Questa prospettiva cambia anche il tono generale con cui si parla delle diverse questioni: l’approccio in termini di
azione sacra si preoccupa di recuperare anzitutto la pienezza del gesto
rituale, piuttosto che la integralità del significato.
Di qui nasce il bisogno urgente di una piena articolazione spazio-temporale dell’azione eucaristica, che recuperi tutta la ricchezza del riferimento biblico, dell’omelia, della preghiera dei fedeli, di una lingua
comprensibile, della comunione con pane e calice, dell’unità della celebrazione e della possibilità di concelebrazione.
Tra questi recuperi il n. 51 di SC presenta l’importanza della Scrittura
che di ogni azione liturgica e di ogni sua componente costituisce il
fondamento: “Affinché la mensa della parola di Dio sia preparata ai
fedeli con maggiore abbondanza, vengano aperti più largamente i tesori della Bibbia in modo che, in un determinato numero di anni, si legga al popolo la maggior parte della sacra Scrittura”.
La Liturgia della Parola non è semplicemente la narrazione di quel
che è stato detto o di quel che avvenne nel passato, ma è l’annuncio-spiegazione di quello che avviene oggi nella celebrazione della Chiesa.
“All’interno di ogni celebrazione liturgica il nostro dialogo con Dio è
in modo del tutto speciale sacramentalmente significato e realizzato
attraverso la proclamazione e l’ascolto della Parola di Dio“ (M. Augè).
A. Grillo esprime una provocazione che è al tempo stesso, denuncia
di una situazione celebrativa abbastanza frequente: “Celebrare con
la parola e parlare con il sacramento“. Spesso restiamo troppo vanamente celebrativi per mancanza di parole e troppo pesantemente verbosi per mancanza di celebrazione.
Prima della Riforma attuata da SC e nella vecchia prospettiva, questi sono tutti aspetti dispensabili e in certo modo contingenti, accessori, accidentali rispetto al significato teologico dell’Eucaristia.
Ora, invece, poiché è l’azione liturgica, è il centro della relazione eucaristica, ogni sua “parte” è atto simbolico-rituale qualificante teologicamente
l’Eucaristia. La modificazione che questo nuovo senso delle priorità
comporta sia sul piano dell’esperienza pastorale-esistenziale, sia sul
piano della riflessione teologico-concettuale, secondo la riflessione pastorale-liturgica attuale, non è ancora del tutto entrato nella consapevolezza ecclesiale.
Marzo
2014
10
Rigel Langella
uando Ecclesia mi arriva nella cassetta
della posta - purtroppo con ritardo rispetto alla sua pubblicazione - anche se in
quel momento non ho tempo per sedermi e leggere, apro subito la sua busta, annuso l’odore
delle pagine fresche d’inchiostro e sfoglio la rivista, a partire dalla fine (non so perché), per ammirare la bella grafica. Insomma, prima di nutrire
con i contenuti l’intelletto e lo spirito, “gusto” con
i sensi. Che è pur sempre un modo di acquisire conoscenza.
Ma questo cosa c’entra - immagino che obietteranno subito i nostri attenti lettori - con la custodia del creato? Prima di rispondere invito a pensare alle scene di crescente degrado delle nostre
città, che procurano assuefazione al progressivo imbarbarimento delle nostre vite: muri scrostati e imbrattati, rifiuti abbandonati, strade sporche, traffico caotico e parcheggio selvaggio. Invito,
allora, chi avrà avuto la pazienza di seguirmi fin
qui di riflettere su una frase chiarificatrice di mons.
Bregantini che, sulla scia dei grandi santi medievali, Francesco, Benedetto, Ildegarda di Bingen,
auspicava la riscoperta della bellezza, ampiamente
praticata nei monasteri, come scuola di virtù ecologiche: “da loro possiamo imparare le virtù ecologiche, che vanno insegnate nelle scuole e nelle parrocchie, piuttosto lente e tardive in questo
lavoro educativo!
A differenza dei monasteri e dei santuari, che grandemente coltivano l’arte dell’educare al creato. La
controprova l’ho più volte amaramente sperimentata
in Calabria: i paesi di mafia sono i più brutti, trascurati, disordinati. L’opposto dei monasteri.
Perché la bellezza interiore produce quella
esterna, come la bruttezza e la cattiveria del cuore si riflette sul paesaggio trasandato e sudicio.
Per cui posso affermare con forza che il gusto del
bello è la miglior forma di antimafia” (Prefazione
al testo di: M.T. Pontara Pederiva, La terra giudizio di Dio. Educare alla responsabilità per il creato, EDB, Bologna 2013).
Dentro di me l’avevo sempre percepito in modo
pressante, ma senza riuscire ad esprimerlo con
tale compiutezza, come ha fatto con efficacia il
nostro Autore. Zizioulas, comunque, era altrettanto
categorico: “è di fatto difficile trovare un qualsiasi aspetto di quel che chiamiamo “male” o “peccato” che porti con sé un simile potere devastante
e riguardante ogni cosa come il male ecologico”
(I. Zizioulas, Il creato come eucaristia, Qiqajon,
Magnano 1994,5). Da parte sua von Balthasar diceva che: “in un mondo privo di bellezza anche il
bene ha perduto la sua forza di attrazione… gli
argomenti in favore della verità hanno esaurito la
loro forza” (H.U. von Balthasar, Gloria. Un’estetica
teologica, I, Milano 1980, 11). Ricordo Latina non
troppi anni fa, una città-giardino, con le nonne in
bici e i bimbi a giocare nei parchi, un’immagine
sbiadita che oggi ritroviamo solo nei libri di Pennacchi,
da cui traspare la bellezza dei luoghi e pure la
grande forza morale dei primi abitatori dell’Agro.
Con la progressiva infiltrazione camorristica, accertata sul nostro litorale, da Fondi a Ostia e nell’hinterland, la situazione è cambiata e non certo
in meglio. Come Atreyu (nella Storia infinita) ho
Q
visto il “nulla che avanza”, in progressione con il
degrado della dimensione etico-politica che non
favorisce uno sviluppo sostenibile e umanamente degno. E non vorrei dimenticare lo sfregio volon-
tario, inflitto a un corpo creato armonioso, deturpato da scelte comportamentali gregarie (“così fan
tutti…”), indotte da una pubblicità che ottenebra
il senso critico, il discernimento e favorisce scelte contrarie all’estetica ed ecologia personale (piercing, tattoo, fumo, alcool, velocità e così via).
Anche di questa “anestesia dei sensi” e - aggiungerei - del buon senso, si è parlato al Seminario
di Studio “Liturgia e catechesi per una pastorale
del creato”, svoltosi in CEI lo scorso 31 gennaio.
I lavori sono stati introdotti da mons. Fabiano Longoni,
nuovo direttore dell’Ufficio Nazionale per i problemi
sociali e il lavoro, che ha voluto sottolineare l’importanza di questo servizio che la CEI mette a
disposizione delle chiese e delle realtà locali.
I lavori sono stati coordinati da Simone Morandini;
interventi: Creato/creazione nei testi liturgici: una
ricchezza da valorizzare, Loris Della Pietra; Il linguaggio della creazione nell’orizzonte sacramentale
della liturgia - tra Oriente ed Occidente, Luigi Girardi;
Educazione alla responsabilità per il creato e catechesi, Flavio Pajer; Conclusioni, Ernesto Diaco.
Parlare del bello, dunque, non significa disinteressarsi della contingenza storica o dell’emergenza
sociale. Il tempo della contemplazione, della liturgia è tempo dedicato al “divinamente inutile”.
Romano Guardini parlava addirittura di “spreco”,
a fronte di una visione meramente utilitaristica o
economicamente quantificabile della vita.
Questo, però, è lo stesso spreco del settimo giorno, quello in cui Dio si fermò per riposare e, riflettendo su quanto appena fatto, gioirne per la sua
bellezza intrinseca. Il corpo e tutto il creato sono
chiamati a diventare luogo, ancorché trasfigurato, della realtà della risurrezione. Parlare il linguaggio
della bellezza significa andare controcorrente, rispetto a una visione degradante del tempo, dello spazio e del corpo.
Il luogo e il tempo del bello, per noi cristiani, non
è quello di qualche astrazione metafisica, ma il
tempo liturgico. Parlare di liturgia, però, non significa parlare solo del momento “tecnico”, quello riservato ai chierici. Basti pensare alla Liturgia delle
Ore, alla ricchezza dei testi dei Padri della Chiesa
che ci accompagnano a vivere il ciclo del giorno
e della notte, della festa e della feria, delle stagioni dell’anno nel mirabile alternarsi che orien-
ta al bello e buono (la teologia ortodossa, parla
di kalokagathìa), capace di non far prevalere la
tenebra e con essa ogni bruttura. Queste alcune delle riflessioni emerse dal convegno.
Per un approfondimento ulteriore, vorrei da parte mia proporre alcune sottolineature, a partire proprio dalla tradizione cristiana ortodossa,
che comprende la natura come creazione di Dio
e il posto degli uomini in essa: questo è «ecologia cristiana», ossia la comprensione teologica del ruolo degli uomini/donne-nel-mondo.
Indubbio merito del Seminario di approfondimento
per i componenti del gruppo teologico “Custodia
del Creato”, il recupero della lezione dell’Oriente
cristiano, oggi molto attivo a rinsaldare il vincolo tra teologia ed ecologia.
Emblematico il recente intervento del patriarca Bartolomeo in visita all’Institut catholique di
Parigi, secondo il quale l’umanità ha perso il senso della sacralità del mondo, di cui gli antichi,
con la loro sapienza, erano coscienti: “maltrattare
l’ambiente equivale a una bestemmia” (“Un’alleanza
tra teologia ed ecologia”, in Osservatore Romano
3-4 febbraio 2014, 7).
In primo luogo il recupero della liturgia deve avvenire non solo nella sua dimensione “testuale”, ma
pure in quella “simbolica”, a partire dall’ alternarsi
di luce-tenebra, attraverso la con-trasfigurazione
taborica delle realtà materiali, ancorché povere.
L’utilizzo della semplice materia del rito (pane-vino,
acqua-olio, e così via), costituisce una sapiente
pedagogia capace di indirizzare i cristiani a orientare la vita quotidiana, vissuta armoniosamente
nel rispetto della creazione, alla tensione escatologica verso la gloria dell’Ottavo giorno (contro
il concetto strisciante di “vuoto a perdere” del corpo e del creato). Tesori inesauribili di sapienza sono
racchiusi nel culto della Chiesa e il santo non è
un super-eroe, ma “colui che trova e vive la verità di uomo, in quanto essere liturgico” (P.
Evdokimov, La novità dello Spirito, Milano 1974,
37-38). Il sacerdozio regale, per il nostro Autore
ha “potere sulla sacralità cosmica”, sulla liturgia
cosmica, attraverso la semplice presenza di esseri santificati: “dimore trinitarie”.
È questa la responsabilità, tutta particolare di apostolato e missione, che dischiude “dinanzi ai laici l’immensità del mondo”, al quale offrono la grazia ricevuta nella chiesa (P. Evdokimov, L’ortodossia,
Bologna 1981, 412).
In secondo luogo, a partire dal recupero della lezione dell’Oriente cristiano, occorre focalizzare l’attenzione sulla seconda epiclesi (la prima è sulle
specie del pane/vino), ossia quella sull’assemblea
dei christifideles, chiamati a essere illuminati dallo Spirito per illuminare a loro volta il mondo, in
prospettiva pneumatologica, trasformando i battezzati in dimore trinitarie.
L’epiclesi orientale, bizantina ad esempio, chiede la trasformazione del pane e del vino affinché
coloro che prendono parte all’eucarestia siano essi
stessi trasformati (cf. A. Nocent, Liturgia semper
reformanda, Qiqajon, Magnano 1993, 46-48).
In terzo luogo, la tensione escatologica dell’Oriente
è visibile anche nel canone artistico. Oggi, in molte nostre chiese, si riscopre la spiritualità dell’icona, utilizzata anche dal Vescovo diocesano, mons.
Apicella, quale segno della recente visita pastocontinua a pag. 11
Marzo
2014
11
Sara Bianchini*
P
otremmo dire che sull’ascolto… ne abbiamo sentite tante! È vero. Ho trovato una
guida all’ascolto attivo anche sul sito del
Ministero della Funzione Pubblica… E forse questa costatazione si abbina bene ad una riflessione
di fondo, che molto onestamente dobbiamo fare
nel presentare il percorso formativo di quest’anno. Una delle costanti dei gruppi Caritas è quella di comprendere spesso volontari e operatori “anziani”, nel senso che da tanti anni partecipano al servizio parrocchiale e agli incontri di formazione.
Ogni tanto però nei nostri gruppi - che si autopercepiscono altrettanto spesso come troppo poco
carichi di nuove energie - arriva qualche volontario “più giovane”, a cui tutto sembra appunto nuovo, interessante…
Come mettere insieme chi ha già sentito tutto e
chi “si beve” perché è la prima volta? Succede
poi - altra costante - che gli incontri di formazione siano seguiti da una obiezione, più o meno legittima: ma poi “praticamente” che cosa ci faccio con
ciò che mi dite? L’ascolto dunque corre un doppio rischio: essere un argomento trito e ritrito e
un argomento un po’ idealizzato, anche troppo politically correct, buonista, cui non si riesce poi a dare
una concreta ricaduta pratica.
Un percorso formativo sull’ascolto ha però le sue
ragioni. Innanzitutto sappiamo bene che in un periodo come questo in cui la povertà e i disagi aumentano, in proporzione, per quasi tutti, non è facile
completare il passaggio da una Caritas assistenziale
a una educativa. La scarsità di risorse e l’aumento
di richieste di beni primari, rendono difficile precisare il nostro ruolo di volontari. O forse lo rimettono in crisi. Da più di 3 anni ormai, insistiamo
molto sull’idea che noi non dobbiamo creare nuove risorse, ma piuttosto:
a) o guidare ad usare meglio quelle esistenti (tanti volontari accompagnano spesso le persone che
incontrano nei centri di ascolto, ad accedere ai
servizi);
b) o a costituire una forma di coscienza critica
con coloro che dovrebbero creare tali occasioni
e non le creano (organizziamo tavole rotonde, cercando di far incontrare p.e. istituzioni e coop... o
cose del genere.)
Centrarci sull’ascolto, ci ricorda - sostanzialmente
- che il nostro primo compito è l’accoglienza finalizzata alla condivisione. Ma se io non so chi ho
davanti, realizzerò sempre un’accoglienza imperfetta, perché non corrisponderà alle caratteristi-
che dell’altro “reale” davanti a me, ma “corrisponderà”
piuttosto alle mie idee (pregiudizi? Mitizzazioni?)
sull’altro. Come dice il Siracide quindi “Se ti è caro
ascoltare, imparerai; se porgerai l’orecchio, sarai
saggio” (Sir 6, 33), cioè per ascoltare bisogna entrare nell’ottica di non sapere tutto, e dunque di avere bisogno di imparare. Senza ascolto poi, la nostra
accoglienza diventa inefficace, perché magari andiamo a rispondere a bisogni, che non erano quelli centrali nella persona che abbiamo davanti, oppure perché ne abbiamo sottovalutato le potenzialità (e dunque l’abbiamo mortificata).
Un ascolto completo, che tenga conto dei fatti, dei
sentimenti (di come si vivono quei fatti) e del contesto profondo (ossia della storia personale di ciascuno, in cui quei fatti e quei sentimenti si innestano). E questa logica dell’ascolto vale a più livelli, può essere cioè rivolta: verso di me volontario/operatore, affinché l’accoglienza dell’altro sia
veramente un cammino di crescita personale e
di fede per me stesso; verso gli altri, cioè le persone che incontriamo e le comunità in cui viviamo; verso il territorio.
È per questo che abbiamo pensato un percorso
a tre livelli: personale, interpersonale, sociale (ci
aiuterà il sociologo e formatore Roberto Latella).
Cui si può aggiungere un ulteriore passo: la conoscenza e l’accoglienza profonda delle domande,
dei desideri, dei dubbi che ci portiamo dentro, è
un percorso di crescita umana verso cui possiamo veramente camminare con tutti, anche con chi
non crede o chi ha un credo diverso dal nostro.
È un percorso da fare con lo “uomo”: e per la prima volta quest’anno abbiamo deciso di organizzare un incontro aperto a tutti, “In ascolto delle
domande della vita” guidato da don Luigi Verdi
della Fraternità Romena.
Credo che da ultimo resti ancora un punto da precisare: l’ascolto non può non essere concreto. Si
ascolta per imparare, e si impara per sapere come
rispondere, cosa dire. Se conosci, poi non puoi
più tirarti indietro. Socrate avrebbe detto che la
conoscenza è già una salvezza. Bruce Lee, un
po’ più profano, ma ugualmente efficace, avrebbe potuto rispondere: “La maggior parte delle persone parla senza ascoltare. Ben pochi ascoltano senza parlare. È assai raro trovare qualcuno
che sappia parlare e ascoltare”.
si ridondante, per questo l’icona è più vicina, prossima, accessibile alla spiritualità contemporanea.
Sembra quasi che il barocco imprima un movimento
centrifugo che dissipi la concentrazione, mentre
la contemplazione dell’icona imprima un movimento
centripeto, che inserisce l’osservatore all’interno
stesso del processo di osservazione (basti pensare alle differenti tecniche prospettiche utilizzate). Nelle case dei cristiani d’Oriente, il posto in
cui sono venerate le icone si chiama “angolo bello”, luogo dell’Oltre e dell’Altro, luogo dell’autotrascendenza di sé, realizzata aprendosi al più ampio
respiro della bellezza trasfigurante.
E sull’icona della divina Sophia, dove possiamo
contemplare proprio la bellezza divina che salva,
l’alfa e l’omega si congiungono e: “sia la luce”, trova compimento in: “sia la bellezza”.
“L’icona rivela a tutti noi quello che il santo percepisce intuitivamente: ogni pietra, ogni albero è
un “teologo senza voce”, che ci parla di Dio e ci
rimanda a lui” (Elizabeth Theokritoff, Abitare la
terra, una visione cristiana dell’ecologia, Qiqajon,
Magnano 2012, 136).
*Caritas Diocesana
Calendario degli incontri
Martedì 25 febbraio 2014, ore 17.30 - Artena
Parrocchia Santo Stefano, Piazza C. Colombo 1
(salone parrocchiale)
Giovedì 20 marzo 2014, ore 17.30 - Artena
Parrocchia Santo Stefano, Piazza C. Colombo 1 (salone parrocchiale)
Martedì 13 maggio 2014, ore 21 - Colleferro
Parrocchia San Bruno, Via dei Pioppi - Incontro aperto a tutti.
Nell’immagine del titolo: Testone, Henry Miller.
segue da pag. 10
rale alle singole parrocchie.
Questo non significa il rigetto della nostra tradizione artistica (parlando a titolo personale, l’ammirazione che provo verso Caravaggio e Artemisia
Gentileschi, da appassionata della pittura romana, supera ogni dire).
Tuttavia il barocco e il manierismo hanno inflitto
alle nostre chiese il peso di una certa “teatralità”
artistica e musicale (A. Nocent, Liturgia semper
reformanda, Qiqajon), che accentua il distacco dell’assemblea dal celebrante e dalla celebrazione.
Il canone dell’arte sacra del nostro secondo polmone orientale è rimasto indenne da questa enfa-
Nella foto del titolo: una rielaborazione della foto
Sopra le nuvole, di Mario Iezzi.
Marzo
2014
12
don Antonio Galati
L’attenzione all’educazione
scolastica da parte della Chiesa.
on lo sviluppo degli Stati nazionali, l’attenzione ai poveri, pur nel cambio di prospettiva e di razionalizzazione delle spese per la carità, diventa da subito una questione
a cui i governi dovevano interessarsi. Ciò non
succede, invece, per l’educazione intellettuale. Fino al 1700, infatti, gli Stati non si interessarono alle scuole pubbliche e almeno per tutto il XIX secolo le istituzioni dedicate all’insegnamento scarseggiarono, tanto che in Italia la
percentuale degli analfabeti superava il 90% rispetto al totale della popolazione1.
In questo contesto e visto che il mondo delle
università e della cultura in genere gravitava ancora intorno alla Chiesa, è per iniziativa di questa, e per la sensibilità di alcuni in particolare,
che sorsero istituzioni e ordini religiosi dediti all’insegnamento. I motivi di questa attenzione all’educazione e all’istruzione anche per i bambini
e i ragazzi più poveri dipendeva dal fatto che
ci si rendeva conto che l’ignoranza conduceva
poi a diventare preda dei vizi e dell’ozio e quindi non permetteva il riscatto sociale dei poveri stessi. E se la ricchezza economica permetteva di pagare i maestri e quindi dare ai bambini delle classi più agiate l’istruzione necessaria,
ciò non poteva avvenire per i figli dei poveri, come
dovette constatare san Giuseppe Calasanzio
(1557?-1648): “dopo aver visitato i malati e i poveri di Roma [san Giuseppe Calasanzio] capì con
molta tristezza che la maggior parte dei bambini poveri cadeva preda dei vizi, essendo impossibile per loro padri di mantenerli a scuola”2.
Alcuni esempi di carità a favore degli analfabeti:San Giuseppe Calasanzio e
C
la congregazione delle Scuole Pie
Nato in Spagna probabilmente nel 1557 fu ordinato sacerdote nel 1583. Nel 1592 è a Roma
e qui fu negativamente colpito dalle condizioni misere in cui versavano i bambini romani.
Intuendo che l’istruzione e l’educazione potevano giovare a quei ragazzi, nel 1597, con appena due stanze messe a sua disposizione dalla parrocchia di Santa Dorotea in Trastevere,
il Calasanzio fondò ed aprì la prima scuola popolare e gratuita della storia europea a cui diede
nome di Scuole Pie e che si ispirerà al motto
“pietà e lettere” oggi traducibile con “fede e cultura”. Il nome Scuole Pie racchiude, inoltre, tutto il senso che san Giuseppe Calasanzio voleva esprimere con la sua opera: in quanto Scuola
la sua istituzione si dedica all’educazione integrale dei giovani e in quanto Pia è pensata principalmente come un’opera pia per i poveri.
Per portare avanti la sua missione fondò la
Congregazione paolina dei poveri della Madre
di Dio delle Scuole Pie, approvata dalla Chiesa
nel 1617, che nel 1622 si trasformerà nell’ordine religioso dei Chierici Regolari Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie i cui appartenenti fanno, come quarto voto dell’Ordine, quello di dedicarsi all’educazione della gioventù. Sono
conosciuti ordinariamente come Scolopi3.
Giovanni Battista de La Salle e
i Fratelli delle Scuole Cristiane
Giovanni Battista de La Salle nacque a Reims
nel 1651, ricevette la tonsura all’età di undici
anni e a sedici divenne Canonico della
Cattedrale di Reims. Alla morte dei suoi genitori, pur avendo dovuto assumersi l’onere dell’amministrazione del patrimonio familiare,
completò gli studi di Teologia e fu ordinato sacerdote il 9 Aprile 1678. Due anni dopo ottenne il
dottorato in Teologia. In quello stesso periodo,
si impegnò con un
gruppo di giovani uomini di modesta estrazione
sociale e culturale, nel
tentativo di istituire
scuole per ragazzi
poveri.S
pinto dalla constatazione
della triste condizione
dei poveri, che davano
a de La Salle l’impressione di essere
lontani dalla salvezza
in questo mondo come
nell’altro, decise di
mettere le sue qualità
e la sua cultura superiore al servizio dei
giovani.
Per meglio realizzare il
suo intento, abbandonò la casa paterna, si
unì ai maestri, rinunciò
al rango di Canonico e
al suo patrimonio e formò una comunità che
divenne nota col nome
di Fratelli delle Scuole Cristiane.
De La Salle e i suoi Fratelli riuscirono a creare una rete di scuole di qualità, diffuse in tutta
la Francia. In queste scuole l’istruzione veniva
impartita in francese, gli studenti erano raggruppati
per capacità e profitto, c’era integrazione tra istruzione religiosa e discipline di studio, gli insegnanti erano ben preparati e consapevoli della loro vocazione e missione educativa, alla quale anche i genitori degli alunni erano chiamati
a partecipare.
Rispetto al metodo di insegnamento classico,
in cui il maestro faceva lezione ad un alunno
per volta, de La Salle strutturò le sue scuole in
classi, dove un numero definito di alunni si ritrovavano insieme ad ascoltare il docente,
seguendo la lezione sul libro e venendo interrogati a turno: è il metodo di insegnamento ormai
universalmente accettato e seguito nelle scuole di tutto il mondo occidentale e non solo4.
Rosa Venerini e le Maestre Pie
Rosa Venerini nacque a Viterbo nel 1656. Sensibile
alle povertà intellettuali e spirituali delle persone meno istruite che incontrava iniziò, intorno
al 1680, a radunare tutti i pomeriggi nella sua
casa paterna alcune donne per la recita del Rosario,
in risposta alla povertà spirituale.
Nel 1685 con l’approvazione del vescovo
viterbese, come rimedio alla povertà intellettuale,
fondò la sua prima scuola insieme ad a due sue
compagne. La scuola fondata da Rosa Venerini
fu la prima scuola pubblica femminile in Italia.
La validità della sua idea, nonché del suo metodo educativo, convinsero i vescovi confinanti a
investire sul suo progetto e a chiamarla nelle
loro diocesi per fondare altre scuole.
Con il suo impegno e le sue intuizioni pensò
anche a dei percorsi di formazione per le Maestre
che, così, acquisirono professionalità e metocontinua a pag.13
Marzo
2014
13
La comunicazione e i nuovi
linguaggi nella catechesi
don Daniele Valenzi
L
’annuale appuntamento dei catechisti della nostra diocesi, che questa volta si è
celebrato più tardi rispetto alla consueta data del battesimo di Gesù, domenica 9 febbraio, presso il teatro parrocchiale dell’Immacolata
a Colleferro, ci ha offerto la possibilità di verificarci sulle modalità della comunicazione
rispetto la catechesi.
Ci hanno aiutato ad entrare nel tema, con praticità e dinamicità, sr. Giancarla Barbon e p. Rinaldo
Paganelli, catecheti ed entrambi collaboratori
della consulta nazionale per la catechesi. Il loro
modo di introdurci ai linguaggi ci ha permesso di comprendere che comunicare il lieto messaggio di Gesù ha a che fare con tutti i linguaggi che
utilizziamo nella vita di tutti i giorni e che dunque per annunciare, bisogna essere consapevoli che non sono mai indifferenti. “Abbiamo un tesoro da comunicare” ci hanno detto raccogliendo la provocazione che l’ufficio catechistico della nostra diocesi gli ha lanciato invitandoli a parlare ai catechisti della nostra diocesi.
“Annunciare Gesù è rendere attuale e viva la bella notizia dell’amore di
Dio per noi. E proprio perché questo messaggio ha già “toccato” la nostra
vita, per questo noi desideriamo offrire a coloro che incontriamo questo messaggio. Il tesoro è antico e sempre nuovo, è Gesù, la sua vita spesa per gli altri, la sua cura per
la persone. Dal tesoro della nostra vita tiriamo fuori la Parola
di Gesù che incoraggia, invita, sostiene, libera, guarisce e
apre l’esistenza. Mentre siamo consapevoli di questa ricchezza ci rendiamo conto che siamo invitati a trovare modi
sempre nuovi per dirla, per renderla presente oggi. Si tratta di comunicare in modo efficace la buona notizia”.
In modo coinvolgente hanno saputo poi aiutare l’assemblea partecipe dei catechisti a percorrere un itinerario ideale che partendo dall’idea di comunicazione e dalla capacità di saper comunicare con se stessi e con gli altri, approdava alla descrizione di alcune concrete modalità comunicative e linguaggi comunicativi.
Mettendo in luce alcuni elementi che segnano il comunicare, e poi indicando anche la possibilità di utilizzare vari linguaggi, hanno lavorato con
i catechisti presenti in sala dandogli modo di tradurre in scelte operative quanto avevano ascoltato come racconto teorico.
La descrizione dei linguaggi non verbali legati al sistema gestuale, al
sistema vocale e al sistema dell’uso dello spazio e del contatto, e dei
linguaggi della comunicazione verbale, che ha caratterizzato la prima
parte del loro intervento ha lasciato così lo spazio alla descrizione di alcune tipologie di linguaggi comunicativi.
Il linguaggio iconico, immediato, simbolico, che apre a più significati, che
“tocca le corde del cuore insieme alla mente”, il linguaggio della musica, che utilizza il suono nella sua ricchezza espressiva,
il linguaggio del simbolo, che nella sua valenza profonda
rimanda ad altro, e quello teatrale che unisce il gesto alla
parola e a volte anche alla musica e che mette in trama
e storia una realtà e la esprime utilizzando tutto il corpo,
sono stati i veri protagonisti della fase conclusiva sella serata che ha visto i catechisti collaborare per mettersi alla prova seguendo i suggerimenti dei relatori.
Momento bello, educativo, impegnativo ma divertente.
Nell’annuncio del vangelo la scelta attenta di alcuni di questi linguaggi è opportuna e, direi, necessaria perché essi
raccolgono la tradizione, la riesprimono in modo attuale e la rilanciano
nel contesto della relazione interpersonale. Tuttavia essi rimandano ad
un di più, la Parola di Dio, l’unico messaggio che è al tempo stesso linguaggio: Cristo Gesù, Dio che si fa uomo.
segue da pag. 12
do. Morì nel 1732 dopo aver aperto in Italia circa 50 scuole.
Per concludere: I personaggi presentati hanno messo in pratica delle innovazioni tali che,
nel tempo, sono apparse rivoluzionarie, ma che
ora, grazie a loro, sono diventate la norma:Giovanni
Calasanzio ha inventato la prima scuola pubblica gratuita d’Europa;Giovanni Battista de La
Salle ha introdotto il metodo scolastico moderno; Rosa Venerini, invece, la prima scuola pubblica femminile. Ciò sta ad indicare che la carità nei confronti delle persone permette anche
di uscire dagli schemi e dalle mentalità classiche per sperimentare e trovare nuovi percorsi idonei a rispondere in maniera migliore alle
esigenze che si incontrano. In qualche modo
la carità suscita la creazione e il rinnovamen-
to, così come lo Spirito è presenza creatrice,
animatrice e rinnovatrice.La carità esercitata in
questo modo è, quindi, un atto di liberazione
dalle catene dell’ignoranza, come la carità di
Cristo nei confronti di tutta l’umanità è la liberazione dalla morte, che coincide con l’ignoranza
e la non conoscenza dell’amore di Dio.
1
Cfr. A. M. ERBA - P. L. GUIDUCCI, La Chiesa nella storia. Duemila anni
di cristianesimo, Elledici, Leumann (Torino) 2003, pag. 443 e J. M. LABOA,
Storia della carità nella vita del cristianesimo, pag. 181.
2
S. GINER, San José de Calasanz. Maestro y fundador, BAC, Madrid
1992, pag. 387 [la traduzione è dell’autore].
3
Cfr. http://www.scolopi.org/it-IT/Inizio.aspx.
4
Cfr. http://www.lasalle.org/it.
5
Cfr. http://www.maestrepievenerini.com/It/HomePage.aspx.
Nell’immagine: “Interno di una scuola”,
opera di Henry Jules Jean Geoffroy.
Marzo
2014
14
Don Dario Vitali*
L
a parte conclusiva del simbolo nicenocostantinopolitano contiene tre affermazioni
che riguardano la Chiesa, la vita cristiana,
il mondo futuro. Si tratta di articoli strettamente collegati alla professione di fede nello
Spirito santo, e che ne costituiscono in certo qual
modo un prolungamento e un’estensione.
Questo legame si percepisce più facilmente nel
simbolo detto «degli Apostoli», che così recita:
«Credo nello Spirito santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei
peccati, la resurrezione della carne, la vita eterna. Amen». Si tratta di affermazioni in sequenza che evidenziano come l’azione dello Spirito
sia all’origine della vita cristiana. Si percepisce
ancora, in questa formulazione, l’eco del principio soteriologico, che dalla bellezza della vita
cristiana induceva la grandezza della sua sorgente: tanto grande è il dono della vita data all’uomo, che non può dipendere da causa umana,
ma dallo Spirito della vita.
D’altra parte, si è già visto come, sulla base di
questo medesimo principio, i Padri della Chiesa
hanno potuto dirimere le questioni cristologiche.
Se l’invocazione dello Spirito nel nome di Gesù
comunica la salvezza, significa che «Gesù di
Nazareth, [che] voi per mano di pagani avete
crocifisso e ucciso, Dio lo ha risuscitato liberandolo
dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere» (At 2,2224): egli non solo è vivo, ma è «Spirito datore
di vita» (1Cor 15,45), vale a dire principio della vita nuova e definitiva che dipende dal dono
dello Spirito. D’altra parte, come potrebbe un
morto dare lo Spirito? O come potrebbe lo Spirito
essere donato nel nome di un morto? Ma se lo
Spirito è donato nel nome di Gesù, allora egli
ha «ricevuto un nome che è al di sopra di ogni
altro nome» (Fil 2,11), perché è «Signore-Kyrios»,
intronizzato alla destra del Padre, con il suo stesso potere di dare la salvezza.
Dunque, è del tutto consequenziale che la vita
nuova dei salvati si dispieghi a partire da Cristo
o dallo Spirito. Cristo è colui che salva donando lo Spirito; lo Spirito è colui che salva “cristificando”, cioè conducendo l’uomo alla configurazione
a Cristo, in quanto lo riscatta dal peccato e lo
consegna a una vita che è, già qui e ora, eterna, partecipazione «nella speranza» (Rm 8,26)
ai beni futuri. Si capisce allora perché le formule
«vita in Cristo» e «vita secondo lo Spirito» nel
Nuovo Testamento siano equivalenti: ciò che Cristo
ci ha ottenuto – la salvezza, la vita eterna, la
vita nuova, la partecipazione alla vita divina, l’a-
dozione a figli - non è qualcosa di esterno all’uomo, ma passa per una trasformazione interiore in ragione dello Spirito, principio della vita divina in noi, che ci configura all’umanità glorificata di Cristo. D’altra parte, lo Spirito è il dono escatologico per eccellenza: «il Regno di Dio non è
questione di cibo o bevanda, ma è giustizia e
pace nello Spirito santo» (Rm 14,17).
L’apostolo Paolo descrive lo Spirito come «primizia» e «caparra»: dai segni della sua presenza
è già possibile vedere nella fede il mondo nuovo che si va instaurando; chi lo possiede già possiede l’eredità, perché è costituito nella condizione di figlio: «figlio nel Figlio».
Al dono dello Spirito si accompagnano tutti i doni
che sostanziano la vita divina – l’amore, la pace,
la gioia, la giustizia, la libertà – quali anticipazioni della vita terna. Però, questa vita nuova
non è data all’uomo isolatamente: il linguaggio
della salvezza non è come quello della pubblicità, capace di ripetere a milioni di clienti nello
stesso momento che «solo per te è stata pensata questa offerta esclusiva»!
Dice il concilio che «è piaciuto a Dio santificare e salvare gli uomini non individualmente e
senza alcun legame tra loro, ma costituirli come
popolo che lo riconoscesse nella verità e santamente lo servisse. Scelse quindi la nazione
israelitica come suo popolo, con il quale stipu-
lò un’alleanza e che formò gradualmente manifestando nella sua storia se stesso e il suo progetto salvifico.
Tutto questo però avvenne in preparazione e
figura di quella nuova e perfetta alleanza da stabilire in Cristo e in quella più piena rivelazione
che doveva essere trasmessa per mezzo del
Verbo stesso di Dio fatto uomo. […] Cristo istituì questo nuovo patto nel suo sangue, chiamando gente dai Giudei e dalle Nazioni, perché si fondesse in unità non secondo la carne
ma nello Spirito, e fosse il nuovo Popolo di Dio»
(LG 9). Si comprende allora perché non manchi mai in alcun simbolo, anche in quelli più brevi, la menzione della Chiesa.
D’altra parte, la professione di fede aveva come
«luogo» suo proprio la celebrazione del battesimo, con il quale un catecumeno veniva introdotto in modo pieno nella vita della Chiesa. Il
verbo che apre la professione di fede – che sia
al singolare: credo, o al plurale: credimus – rimanda sempre alla Chiesa e mai al singolo come
soggetto capace di rispondere all’offerta di grazia da parte di Dio. Peraltro, è sempre la Chiesa
che chiede al catecumeno se è pronto ad abbracciare la fede cristiana nel Padre, nel Figlio e nello Spirito: «questa è la nostra fede, questa è la
fede della Chiesa, che noi ci gloriamo di professare», recita la liturgia del battesimo, a chiusura della professione comunitaria di fede.
Il che non significa però che il Simbolo della fede
arrivasse a chiedere la fede nella Chiesa al pari
di quella nel Padre, nel Figlio e nello Spirito. Si
tratta di due piani ben distinti, che il greco e il
latino differenziano utilizzando non più la proposizione in + l’accusativo, ma la forma infinitiva della frase (credo + accusativo, che sottintende
il verbo esse). Mentre infatti per le persone della Trinità si domanda al catecumeno se crede
in Dio Padre Onnipotente, se crede in Gesù Cristo
suo unico Figlio, se crede nello Spirito Santo
che è Signore e dà la vita, a seguire gli si domanda se crede la Chiesa, la Resurrezione della carne, la vita eterna, cioè se crede che tali realtà
esistano veramente.
Dicevano i Padri che non si crede nella
Chiesa, ma si crede alla Chiesa, cioè alla sua
esistenza come realtà che supera la mera conoscenza umana ed è conseguenza della fede nella Trinità. Queste proposizioni hanno cioè una
funzione dichiarativa, in cui si afferma che la Chiesa,
il battesimo per il perdono dei peccati, la comunione dei santi, la resurrezione della carne, la
vita eterna sono elementi interni alla fede in Dio
Padre, Figlio e Spirito: come a dire che, credendo
in Dio, si crede anche all’esistenza di queste vericontinua nella pag. accanto
Marzo
2014
mons. Franco Risi
G
li evangelisti Matteo e Luca mettono in
evidenza che Giuseppe era un uomo “giusto”. Nella Bibbia giusto è l’uomo che confida pienamente nel Signore, che ascolta la sua
Parola e la mette in pratica, cercando di vivere
sempre più in comunione con la volontà di Dio.
Con questo non possiamo affermare che Giuseppe
vede nella sua vita tutto chiaro secondo i nostri
criteri umani. Confidare in Dio significa piuttosto
saper rinunciare al proprio punto di vista e ai propri progetti personali: solo chi si dona a Dio può
essere ritenuto “giusto” nella giustizia e nella verità di Dio. In questa prospettiva Giuseppe non rispose a parole all’annuncio dell’Angelo, ma “fece come
gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con
sé la sua sposa; senza che egli la conoscesse,
ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù”
(Mt 1, 24-25).
Giuseppe, uomo giusto, realizzò prontamente con
i fatti la sua obbedienza a Dio nel corso della sua
vita, restando sempre fedele fino alla fine alla chiamata divina. In tre circostanze realizza la sua obbedienza a Dio: la prima al termine dell’Annunciazione
di cui fu destinatario: “Fece come gli aveva detto l’angelo e prese con sé la sua sposa” (Mt 1,
24); la seconda quando l’angelo gli apparve in
sogno e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché
non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo” (Mt 2, 13) e la terza ripresenta
la stessa chiamata con l’invito di prendersi cura
di Maria e del bambino Gesù, di lasciare l’Egitto
per stabilirsi a Nazareth.
Da queste tre chiamate Giuseppe non si è mai
tirato indietro, non ha mai cercato le sue sicurezze
e comodità, ma in tutto ha adempiuto alla volontà di Dio rimanendo sempre il vero custode di Gesù
bambino e di Maria. Così Giuseppe testimonia questa sua responsabilità: essere custode del Figlio
di Dio. Come Giuseppe vive questa vocazione di
custode del Figlio di Dio? Rispondiamo a questa
domanda con le parole di papa Francesco:
“La vocazione del custodire non riguarda solamente
noi cristiani riguarda tutti. E’ il custodire l’intero creato, la bellezza del creato: è l’avere rispetto per ogni
creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo.
E’ il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni
persona, con amore, specialmente dei bambini,
dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. E’ l’aver
cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custo-
segue da pag. 14
tà, che superano la capacità della ragione umana. Questo è vero non solo per la resurrezione della carne e la vita eterna, ma anche per
la Chiesa, che non è una semplice istituzione
umana, ma la «comunione dei santi», di coloro cioè che, comunicando alle cose sante (allo
Spirito anzitutto, e poi a tutti i suoi doni, soprattutto l’Eucaristia), sono santificati.
Il concilio Vaticano II parlava della Chiesa de
Trinitate, descrivendola, con una famosa frase
di Cipriano di Cartagine, come plebs adunata
15
discono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei
genitori. E’ il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi
nella confidenza, nel rispetto e nel bene.
In fondo, tutto è affidato alla custodia
dell’uomo, ed è una responsabilità che
ci riguarda tutti. Siate custodi dei doni
di Dio! E quando l’uomo viene meno
a questa responsabilità di custodire,
quando non ci prendiamo cura del creato e dei fratelli, allora trova spazio la
distruzione e il cuore inaridisce”.
Nel Vangelo di Luca, Maria e Giuseppe
vengono presentati come una coppia
affiatata nella formazione di una famiglia fondata sulla comune ricerca della volontà di Dio: li vediamo solidali nella quotidianità di Nazareth e nei
momenti di crisi, come nell’episodio dello smarrimento di Gesù nel Tempio di
Gerusalemme.
Gesù gli anni vissuti a Nazareth li trascorse crescendo “in sapienza, età e
grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc
2, 52). Secondo la tradizione e la testimonianza di uno scritto apocrifo cristiano del V secolo, noto come Storia
di Giuseppe il falegname, Giuseppe
morì assistito da Maria e da Gesù, per
questo è venerato come protettore dei moribondi, che affrontano il trapasso muniti con i conforti della fede. Infine possiamo affermare che Giuseppe
è un grande maestro di vita spirituale specialmente
per il suo stile di preghiera vissuta con discrezione,
con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprendeva cosa Dio gli stesse chiedendo. Da questa breve e sommaria esposizione della vita di san
Giuseppe siamo tutti esortati nella festa che ricorre il 19 Marzo ad affidarci alla sua custodia. Santa
Teresa d’Avila così si esprime su questo Santo:
“Non ricordo di aver mai domandato qualcosa a
Dio per intercessione del glorioso patriarca
Giuseppe che non l’abbia ottenuto. Qualsiasi grazia si domanda a san Giuseppe verrà certamente concessa […] Egli è il santo più grande e più
potente dopo la Madonna. Pregalo e vedrai […]
Gesù e Maria nulla negano a colui che nulla negò
ai suoi due grandi amori”.
Papa Francesco, da sempre devoto al Custode
della santa Famiglia, ne raccomanda la devozione;
de unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti; Tertulliano,
nel suo De baptismo, arrivava a dire che nel credo «si deve aggiungere la menzione della Chiesa,
perché dove sono i Tre - ossia il padre, il Figlio
e lo Spirito santo - ivi esiste la Chiesa, che è il
corpo delle tre Persone». Anche la Chiesa dunque partecipa del mistero di Dio attuato in Cristo.
È quanto ha riproposto la costituzione dogmatica Lumen gentium del concilio Vaticano II, che
titola il suo I capitolo: De mysterio Ecclesaie: è
il Padre che, nel suo disegno di amore per l’umanità, «ha voluto convocare quanti credono
lui stesso ha inserito nel suo stemma papale il fiore di nardo che indica San Giuseppe, patrono della Chiesa universale e secondo la tradizione iconografica ispanica, San Giuseppe è raffigurato con
un ramo di nardo in mano.
Per volontà di Benedetto XVI, con la conferma di
Papa Francesco, dal 1 Maggio 2013 il nome di
San Giuseppe, sposo della beata vergine Maria,
è stato aggiunto nelle preghiere Eucaristiche subito dopo il ricordo del nome della Madre di Dio.
Tutti siamo chiamati a far crescere in noi la devozione verso San Giuseppe: affidiamoci a Lui affinché ci insegni a custodire Gesù con Maria, a custodire l’intera creazione, a custodire ogni persona,
specie la più povera, a custodire noi stessi, a custodire con amore ciò che Dio ci ha donato! San Giuseppe
ci aiuti a seguire i nostri passi nella fede, assumendoci le nostre responsabilità nel corso della
vita, per seguire sempre Gesù, nostro Redentore.
Nell’immagine del titolo: Fuga in Egitto,
opera di Alda Massari
in Cristo nella santa Chiesa, la quale, già prefigurata dal principio del mondo, mirabilmente
preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica alleanza, stabilita negli ultimi tempi, è
stata manifestata con l’effusione dello Spirito e
avrà glorioso compimento alla fine dei secoli.
Allora, come si legge nei santi Padri, tutti i giusti a partire da Adamo, “dal giusto Abele fino all’ultimo eletto”, saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale» (LG 2).
*Docente Ordinario alla P.U.G. di Roma
Marzo
2014
16
Don Gaetano Zaralli
D
a bambina Nilde Iotti frequentava il gruppo delle
“Beniamine” e nella processione del Corpus Domini portava
per le strade di Reggio Emilia il gonfalone della Beata Vergine Maria.
Crescendo continuò a frequentare la
parrocchia col consenso del padre ferroviere che, pur di non vederla vestita da “Piccola Italiana” nei raduni del
sabato fascista, la preferiva in chiesa. Col tempo incominciò a partecipare a riunioni impegnative in campo cattolico e imparò presto anche
a discutere. Divenne Figlia di Maria
durante il liceo e studiò teologia per
iscriversi all’Università del Sacro
Cuore di Milano.
Man mano che approfondiva i suoi
studi teologici avvertiva sempre più
il disagio di non poter accettare spiegazioni che non avessero riscontro
reale nell’ambito della ragione.
Nessuna meraviglia, perciò, se si ritrovò fuori dall’università e da ogni altro
ambiente cattolico perché non più credente. La ragione che vuole sempre
la sua parte e che difficilmente si rassegna alla impossibilità di andare oltre
certi limiti, istintivamente nega l’esistenza di ciò che la trascende.
Nessuna cosa al mondo può frenare e convincere chi ha bisogno di risposte concrete e definitive, se queste
non le vengono garantite.
Forse il dono della fede è solo l’umiltà,
per chi ce l’ha, di riconoscere la propria pochezza e la speranza insieme
di avere un aiuto grande dall’esterno per accettare ciò che la ragione non comprende. Nessuna meraviglia allora, se capita
di incontrare atei fin dalla nascita o che lo sono
diventati per una conversione successiva. La
loro scelta non necessariamente è contro Dio,
ma sicuramente è a favore dell’uomo.
La signora Iotti di sé diceva che, fra le necessità più urgenti, c’è quella di trovare fede negli
uomini e nella ragione, ma ciò non le impediva di riservare grande rispetto per i valori morali del mondo che lei abbandonava. Alla facile
e supina accettazione dei dogmi che la Chiesa
offre penso si debba preferire la fatica onesta
di chi, nella parte razionale della verità che si
propone come assoluta, vuole essere aggiornato circa prospettive filosofiche nuove che di
quelle verità sono il supporto. Se la verità è sempre la stessa, le modalità e i mezzi razionali
che l’accompagnano possono migliorare negli
anni. Ho tra le mani il testo della prima Enciclica
di Benedetto XVI “Deus caritas est” e con meraviglia scopro che il Santo Padre, riportando il
pensiero di Gregorio Magno (Regola pastorale) la pensa come me: “Il pastore buono deve
essere radicato nella contemplazione.
Soltanto in questo modo, infatti, gli sarà possibile accogliere le necessità degli altri nel suo
intimo, cosicché diventino sue.”.
Di qui la mia teoria del “saliscendi”, la stessa
che il Papa, in modo più erudito, chiama dell’eros (amore ascendente) e dell’agape (amore discendente). Si legge ancora nell’Enciclica:
“Anche se l’eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente – fascinazione per la grande promessa di felicità – nell’avvicinarsi poi all’altro si porrà sempre meno domande su di sé,
cercherà sempre di più la felicità dell’altro, si
preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e
desidererà esserci per l’altro.”
Le parole, specie se dette da un Papa, sono
belle, il disagio, però, nasce quando i cristiani, preti o laici che siano, restano sospesi nel
regno dell’eros, senza aver voglia alcuna di scendere tra le umane sventure… Dinanzi a tale spettacolo qualcuno allora diventa ateo…
Gli stessi apostoli sul monte Tabor, abbagliati
dalla Trasfigurazione (Mt 17,1-8), avrebbero perso la cognizione giusta di Dio, se non avessero,
dietro invito di Gesù, riguadagnato la dimensione umana scendendo a valle. Anche gli atei,
almeno quelli che mi capita di incontrare, subiscono il fascino dell’eros,
loro però, come accadeva a Nilde
Iotti, lo trovano nell’animo umano e, senza ascendere e discendere troppo, lo rendono immediatamente agape.
Dov’è l’eros, dov’è l’agape nell’esperienza della mamma che
crede e spera con tutta se
stessa nella guarigione del
figlio? Così mi scrive: “L’esistenza
di Dio a volte viene meno nella
mia mente quando vengo a conoscenza di eventi in cui perdono
la vita migliaia di persone,
soprattutto bambini. La mia
stessa famiglia è stata colpita da
un evento bruttissimo, che è la
malattia di mio figlio più piccolo. Lui ha una malattia genetica
che non gli permette di camminare, chiamata atrofia muscolare
spinale. Quando io e mio marito abbiamo avuto la notizia dal
dottore ci è caduto il mondo addosso, non sapevamo che cosa fare,
dove andare. Poi piano piano ci
siamo ripresi, ci siamo fatti forza per andare avanti, anche per
il figlio più grande.
Questa situazione è dura e ci vuole tanta forza per renderla meno
difficile. A volte per disperazione perdo la fede… Mi chiedo perché è successa questa cosa, perché è vittima mio figlio di questa malattia. Poi mi rendo conto che è grazie alla fede che ho
in Dio, se vedo la vita ancora degna
di essere vissuta da me e dalla
mia famiglia. Io credo nell’esistenza di Dio, soprattutto dopo ciò che è successo.
Ora ancora più di prima dato che sono sicura che un giorno accadrà qualcosa che cambierà la vita di tutti.”
Il male, spesso, in un processo immediato di
ribellione, azzera la dipendenza psicologica, culturale e cultuale di chi lo subisce da colui che
ha la barba bianca e risiede eternamente tra
le nuvole. Ma lo stesso male, sempre difficile
da accettare, è anche la prova salutare che restituisce alla creatura la libertà di credere in Dio,
in quello vero che per convincerci della resurrezione si è fatto uomo. Alcune volte ho la sensazione di vivere dentro Dio, come se Dio fosse il grembo materno. Nell’attimo in cui si nasce
non è chiaro se è la forza del feto a farsi largo per uscire o se è la volontà della mamma
a espellerlo… Anche nella nascita di un bambino, comunque, si sperimenta l’eros e l’agape
insieme, si passa dall’estasi delle acque materne all’aria fresca del mondo, attraverso il trauma del cordone ombelicale che si infrange.
Nell’immagine: un’opera pittorica di Ans Markus.
Marzo
2014
17
G.R.
A
nche la Parrocchia
Madonna del Rosario
ha provato l’emozione di accogliere il proprio
Vescovo mons. Vincenzo
Apicella nella visita pastorale
aperta nel 2013 ed ora, dal
26 gennaio al 1 febbraio 2014,
nella nostra Parrocchia.
Non è stato certo una scampagnata, ma sono stati vissuti dei giorni sacri
con il Vescovo ricevuto come padre e pastore delle nostre anime, affidate al parroco don
Antonio Carughi.
L’abbiamo accolto come il popolo di
Gerusalemme accolse Gesù: “Benedetto colui
che viene nel nome del Signore!”.
Non ci sono state dimostrazioni clamorose con
archi trionfali e grandi concerti, ma
canti liturgici accompagnati dall’organista Fabio Ludovisi che
ogni domenica solennemente riscalda i nostri cuori nella Messa delle 10.30.
Tre ragazze hanno avuto il privilegio di ricevere, in questa circostanza il sacramento della Cresima
che le ha inserite attivamente e responsabilmente nella Chiesa di Dio.
La settimana è stata arricchita ulteriormente e vivacizzata dalla visita a due case di riposo ed alle abitazioni degli ammalati e delle per-
sone anziane, che sono visitate ogni primo
venerdì del mese dal nostro parroco, ed hanno gioito nell’accogliere nelle loro case il Vescovo,
che li ha benedetti ed incoraggiati.
Altri incontri graditi dal Vescovo sono stati quelli con i collaboratori parrocchiali e con il mondo del lavoro (del legname, del peperino, dell’agricoltura e della distribuzione alimentare).
La S. Messa (giovedì) celebrata con la Comunità
Neocatecumenale ha offerto al Vescovo
l’opportunità di raccogliersi per invocare lo Spirito
Santo nella Chiesa che vive con Papa
Francesco momenti di commoventi emozioni, grazie alla empatia e naturalezza con cui
si rivolge ai fedeli.
L’incontro con i bambini del catechismo e con
alcuni dei loro genitori e la S. Messa
vespertina del sabato (1 febbraio) ha
permesso al Vescovo di rivedere questa porzione del suo gregge unita in
preghiera affinché la fede del proprio
battesimo, in un mondo sempre più
impermeabile all’annuncio del Vangelo,
si manifesti “davanti agli uomini”, non
per esibizionismo scolorito nelle
sacrestie, ma come “Popolo della Buona
Novella e non di un Testamento” (Papa
Francesco).
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Progress, molto apprezzato sia dal vescovo che
dai presenti.
don Antonio Galati*
«Benedetto colui che viene
nel nome del Signore».
Nella mattinata di lunedì 3 febbraio il vescovo
ha visitato il Centro
Vitivinicolo ARSIAL, meglio
conosciuto come “cantina sperimentale”, e il
laboratorio di marmi dei
Fratelli Mongardini.
La mattinata si è conclusa al Centro di Salute
Mentale sulla via Ariana.
Nel pomeriggio, invece, il
vescovo ha avuto l’occasione di incontrare i catechisti e gli educatori e, poi,
la comunità del seminario
di Don Orione, dove ha presieduto l’Eucaristia, concelebrando con i superiori
della comunità, insieme con
i seminaristi e il gruppo di
persone che, ordinariamente, la domenica si
ritrovano per la Messa nella cappella del seminario.
ueste le parole con cui la
comunità parrocchiale di
S. Maria in Trivio ha accolto il nostro vescovo il 2 febbraio in
occasione della sua visita pastorale
alla diocesi. Condividendo con noi
tutta la settimana fino all’8 febbraio,
ha potuto incontrare le diverse realtà presenti in parrocchia, sia della
sfera religiosa e pastorale, sia
anche di quella lavorativa e sociale.
Q
Il 2 febbraio, dopo l’accoglienza da
parte di don Gino e della comunità, il vescovo ha presieduto
l’Eucaristia alle ore 10.00, che è caratterizzata, come ogni domenica,
dalla presenza dei ragazzi del
catechismo, sui quali ha posto
l’attenzione durante la sua omelia.
Terminata la Messa, il vescovo si
è intrattenuto con i genitori di questi ragazzi.
Il primo giorno di visita pastorale si
è concluso alle 19.30 con un concerto gospel eseguito dal coro che
si è formato un paio di anni fa in parrocchia, il Trivium Music Work in
L’inizio della Visita Pastorale,
l’accoglienza di S.E. Mons. Vincenzo Apicella.
Martedì 4 febbraio è stato dedicato quasi interamente alla comunità di San
continua nella pag. accanto
Marzo
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19
Nella foto: la S. Messa di
inizio della Visita pastorale.
Pie Venerini, dove ha
incontrato gli alunni e
le insegnanti, oltre
alla comunità religiosa presente. Il pomeriggio, invece, c’è stato l’incontro con i parrocchiani della zona
pastorale di Via Mortella.
Giovedì 6 febbraio, la mattina è stata caratterizzata dalla visita ad alcuni malati, che mensilmente vengono visitati dal parroco, mentre il pomeriggio dall’incontro con gli abitanti
di altre due zone pastorali della parrocchia,
Nelle foto: a sinistra: il concerto Gospel eseguito dal coro Trivium Music Work in Progress;
a destra: visita del vescovo alla chiesa di San Francesco, il gruppo dei ragazzi del catechismo.
Francesco e alla zona del “Villaggio”.
Infatti, la mattina il vescovo a visitato le scuola A. Mariani di via Fontana delle Rose, dove
si è intrattenuto con gli alunni e gli insegnanti
del complesso scolastico, e il pomeriggio la
chiesa di San Francesco, incontrando gli operatori pastorali, i ragazzi del catechismo con
i loro genitori, gli iscritti all’associazione cul-
turale Chiesa di San Francesco, e celebrando
lì l’Eucaristia. A fine serata c’è stato, invece, l’incontro con il Consiglio Pastorale insieme con quello per gli Affari Economici della
parrocchia.
Mercoledì 5 febbraio, nella mattinata, è stata la volta della visita alle scuole delle Maestre
Visita alla scuola delle Maestre Pie Venerini.
Via Colle Ottone Alto, dove ha celebrato
l’Eucaristia, e Via Colle dell’Acero.
La serata di questo giorno si è conclusa con
la partecipazione del vescovo all’appuntamento
settimanale del Movimento del Cursillo.
continua a pag. 20
L’incontro con il Consiglio Pastorale insieme con quello per gli Affari
Economici della parrocchia.
Marzo
2014
20
La partecipazione del vescovo all’appuntamento settimanale del Movimento del Cursillo.
segue da pag. 19.
Venerdì 7 febbraio, dopo una veloce visita
agli spazi che la parrocchia ha a disposizione
per la pastorale, c’è stata la visita all’Agriturismo
Iacchelli nella mattinata, mentre il pomeriggio l’incontro, prima, con i poveri assistiti dalla Caritas parrocchiale e, poi, con gli operatori
della stessa. Alle 17.30 il vescovo he celebrato l’Eucaristia nella zona pastorale di Via
Madonna degli Angeli e poi ha partecipato
Sabato 8 febbraio, ultimo giorno di visita pastorale in parrocchia, si è caratterizzato per la
presenza del vescovo nell’ufficio parrocchiale
per dei colloqui personali con chi voleva incontrarlo e poi con la visita ai Focolari maschile e femminile.
Il pomeriggio si è invece intrattenuto prima
con i giovanissimi dell’Azione Cattolica e poi
con il gruppo scout, per concludere con l’in-
Un momento della Messa conclusiva,
l’istituzione dell’accolito.
un accolito per un servizio più attento e costante alla Parola e all’Altare nelle loro sfere litur-
Nelle foto sotto: a sinistra: incontro del vescovo con il gruppo dei genitori dei ragazzi del catechismo; a destra: incontro del vescovo con gli educatori e i catechisti.
al Centro di Ascolto del Vangelo nella zona
di Via Ceppeta Inferiore a casa Tintisona.
contro con i partecipanti alla condivisione mensile della Parola di Vita.
Alle 18.30, con la concelebrazione conclusiva, in cui ha anche istituito cinque lettori e
Centro di ascolto del Vangelo (casa Tintisona-via Ceppeta Inferiore).
giche e pastorali, il vescovo ha concluso la
sua visita pastorale a Saria in Trivio.
*Vicario parrocchiale
Messa conclusiva con i nuovi accoliti e lettori .
Marzo
2014
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mons. Paolo Picca*
’ultima tappa della
Visita Pastorale si è
svolta a Velletri nelle Parrocchie del SS.
Salvatore, di S. Lucia e di
S. Michele Arcangelo. Le tre
parrocchie sono state unite nella persona del Parroco
D. Paolo Picca con decreto del Vescovo Mons.
Vincenzo Apicella in data 15
ottobre 2009. La visita si è
svolta in una sola settimana per le tre Parrocchie e
ha avuto inizio con l’ingresso del Vescovo nella chiesa del SS. Salvatore domenica 9 febbraio.
Alle ore 10,30 il Vescovo è stato accolto dal Parroco
L
Inizio della Visita a San Salvatore.
D. Paolo Picca che alla porta della chiesa gli
ha presentato il crocifisso.
È seguito lo scoprimento dell’icona della Trinità
e la concelebrazione della S. Messa con la partecipazione del diacono Montellanico Franco in
una chiesa gremita dai fedeli. La sera della stessa domenica il Vescovo ha
concelebrato nella chiesa di
S. Lucia con D. Paolo Picca,
D. Eugenio Gabrielli e P.
Giuseppe Donzello suo collaboratore.
Il lunedì 10 febbraio ha visto
il Vescovo impegnato con la
visita alla casa religiosa
delle Suore Pallottine e qui
i bambini della scuola Materna
che hanno dato saggio della loro innocenza e spontaneità; ci si è trasferiti poi dalle Suore del Preziosissimo
Sangue dove è stata concelebrata la S. Messa. Molto partecipato è stato l’incontro della sera con gruppi di adulti e giovani dell’A.C. e della catechesi biblica. Elisabetta
Visita a Santa Lucia.
Moriconi, ha presentato al Vescovo una breve
relazione sulla catechesi agli adulti.
Circa trent’anni fa dietro richiesta di un gruppo
Visita a San Michele
Arcangelo.
Marzo
2014
22
di laici fu organizzato nella Parrocchia del SS.
Salvatore un corso biblico tenuto da Mons.
Lorenzo Minuti per studiare il fenomeno dei
Testimoni di Geova e preparare i nostri fedeli a non
lasciarsi convincere dalla loro capillare propaganda. Ci si rese conto
che era necessaria una
maggiore conoscenza biblica per non lasciarsi persuadere a seguire queste false dottrine. Nacque così l’dea di continuare a studiare la Bibbia con incontri settimanali.
Nel corso degli anni sono stati studiati vari libri:
Genesi, Esodo, i Vangeli, gli Atti degli Apostoli,
le lettere di S. Paolo. Alcuni argomenti sono stati ripresi anche a distanza di anni come è successo con l’Apocalisse che è l’argomento di que-
Visita del vescovo al Comune di Velletri.
st’anno.
Il corso è seguito in
media da circa 35
persone tra cui anche
un buon numero di
giovani. Da circa
15 anni al corso è
unito anche un concorso che mette in
palio un pellegrinaggio a Lourdes che
viene assegnato al
migliore per profitto
e per frequenza.
La signora Rossana
Nelle foto
a sinistra:
Visita del vescovo all’Istituto C. Battisti.
Visita del
vescovo
all’Istituto
delle Suore
Pallottine;
in basso:
Visita del
vescovo
all’Istituto
delle Suore
Orsoline.
Montagna ha fatto
una relazione sull’attività pastorale.
Tra le varie iniziative ha ricordato l’infiorata che ormai da
25 anni fa da corona alla festa del
Corpus Domini.
Ha ricordato anche
che numerosi parrocchiani sostengono con adozio-
ni a distanza un gruppo di bambini del Congo
seguiti da D. Crispino Bunyakiri, che fu viceparroco
in questa Parrocchia nell’anno 2000.
Gli altri appuntamenti si sono svolti regolarmente
come stabilito dal programma. Da segnalare l’incontro di martedì con i componenti dei consigli pastorali delle tre parrocchie.
Il Vescovo ha sottolineato che questo tipo d’incontro con le tre parrocchie deve diventare abituale.
Giovedì 13 febbraio dopo l’incontro con le suore Orsoline il Vescovo ha visitato la chiesa dei
SS. Pietro e Bartolomeo, dove ha incontrato il
Marzo
2014
23
Vescovo con il Sindaco
Fausto Servadio,
assessori e dipendenti
del Comune. Da
ambedue le parti si è
richiamata l’attenzione sulla difficile situazione causata dalla
mancanza di lavoro.
Sabato 15 febbraio
dopo l’incontro con i
ragazzi e le catechiste delle parrocchie
del SS. Salvatore e di
S. Lucia, il Vescovo
concluso la visita
priore Paolo Crocetta con altri responsabili del- pastorale con la concelebrazione solenne della Confraternita del Gonfalone che hanno fat- la S. Messa lasciando in ricordo una riproduto presente la difficile convivenza della comu- zione dell’icona della Trinità. La visita è terminità cattolica con gli ortodossi romeni che in ora- nata domenica 16 febbraio con la concelebrazione
ri diversi celebrano nella stessa chiesa. della S. Messa nella chiesa parrocchiale di S.
Interessante è stato anche l’incontro del Michele Arcangelo.
In questa settimana d’intenso
lavoro, abbiamo avuto occaIncontro con i gruppi di preghiera.
sione di conoscere meglio il
nostro Pastore e abbiamo notato la sua felicità di stare a contatto con i fedeli; questo ha
fatto crescere la stima reciproca.
Gruppo dei bambini
catechesi con i genitori
a San Salvatore.
Incontro con le
confraternite.
*Parroco di S. Salvatore, S. Lucia
e S. Michele Arcangelo
Rita e Bruno
l 14 febbraio, festa
di S. Valentino,
papa Francesco
ha invitato in Vaticano
i fidanzati di tutto il mondo; hanno risposto
all’appello circa trentamila coppie provenienti
da ventisette paesi.
Tra costoro c’erano
anche le coppie di fidanzati di Segni che si stanno preparando a celebrare il sacramento del
Matrimonio, guidati
dalla coppia di sposi
responsabili del corso
e dal parroco della
Concattedrale Mons. Franco Fagiolo. La giornata era bellissima, quasi estiva, Piazza S. Pietro inondata di sole. Dopo
il momento di festosa animazione e di interessanti testimonianze, il Papa ha ricordato alle coppie che l’amore è
I
per sempre e non finché dura! Bisogna
quindi fidarsi del
Signore e superare tutte le difficoltà, ad
unirsi in un matrimonio fedele e fecondo
e a ripetere ogni giorno questa breve preghiera: “Dacci oggi il
nostro amore quotidiano”.
Quindi, dopo aver
dato consigli pratici ed
aver sottolineato l’importanza della preghiera, ha voluto regalare ad ogni coppia un
cuscinetto di raso
bianco con lo stemma
pontificio per gli anelli nuziali. Infine, Papa Francesco si è
congedato raccomandando di non finire mai la giornata senza fare la pace e dire, in ogni occasione: “permesso, grazie e scusa”.
Marzo
2014
24
Mons. Franco Fagiolo*
ontinuiamo a ragionare sul Repertorio
Nazionale di Canti per la Liturgia, per
cercare di non sciupare questo dono
prezioso che la Chiesa ci ha messo a disposizione. Nella Presentazione il Segretario della
C.E.I. afferma: il Repertorio “mette a disposizione delle nostre comunità un buon numero
di composizioni che rispondono alle esigenze
liturgiche, con l’obiettivo di coniugare la dignità delle parole e delle musiche con la cantabilità, al fine di sostenere e promuovere la partecipazione attiva dell’assemblea”.
Viene messo in evidenza una preoccupazione
di carattere pastorale, cioè l’esigenza di avere
tra le mani una raccolta di canti comune a tut-
C
te le comunità parrocchiali della Chiesa italiana, come avviene da tanti nelle diverse chiese nazionali europee. E nella Premessa del repertorio è detto chiaramente che “la selezione non
è in grado di venire incontro a tutte le esigenze locali, ne tantomeno intende soppiantare i
canti già in uso e neppure impedire che vengano prodotti e messi in circolazione nuovi canti, nel rispetto delle norme liturgiche …
Il criterio che ha guidato la selezione è quello
della pertinenza rituale. Alla luce di questo, diventano comprensibili e insieme necessari i criteri a cui questo Repertorio Nazionale cerca di
ispirarsi in modo da essere esemplare per ogni
scelta locale: la verità dei contenuti, la qualità dell’espressione linguistica e della composizione musicale, la cantabilità effettiva per
un’assemblea media e la probabilità che essa
possa assumere questi canti riconoscendoli parte
integrante, o integrabile, della propria cultura”.
Ecco, allora, che il Repertorio
Nazionale è uno strumento
al quale tutti dobbiamo fare
riferimento, sia per utilizzarlo
direttamente, sia come
esempio da imitare per
imparare e scegliere nuovi
canti nelle nostre singole comunità locali.
E poi, da tenere presente,
la ricchezza di questo
Repertorio: è una miniera inesauribile da cui possiamo attingere per ogni celebrazione
e secondo le diverse occasioni, tenendo presente
anche la diversità delle persone che volta per volta formano un’assemblea.
Basti pensare che il Repertorio
contiene 384 brani! 81 testi sono
tratti dalla Sacra Scrittura, 83
testi dalla liturgia; 214 testi sono
di 66 autori, 6 testi sono anonimi.
Le musiche: 8 melodie sono
del Messale Romano, 31
melodie gregoriane, 99 dei compositori, 12 melodie da tradizioni popolari, 8 dal salterio
di Ginevra, 7 da anonimi, e altre
6 melodie da vari repertori (cfr.
A. Parisi, La musica liturgica
in Italia, Ed. Messaggero
Padova).
Veramente una vasta gamma
per tutti i gusti e per le esigenze
di ciascuno: c’è solo l’imbarazzo della scelta. Infine, una caratteristica significativa, pedagogica, che guarda lontano (è quasi un sogno irrealizzabile), ma che mette le basi
per una assemblea sempre più partecipe alla
celebrazione liturgica: ogni brano del Repertorio
viene presentato, nel libro dei fedeli, con il rigo
musicale, la musica della melodia.
E’ una scommessa! E’ vero che la maggior parte dei fedeli non legge la musica, ma ci sarà
un domani una maggiore educazione musicale dei nostri fedeli?
E’ una sfida culturale per il nostro tempo, e ce
n’è veramente bisogno! Ma l’Italia, è o non è
la culla della musica? Il Repertorio Nazionale
dei Canti per la Liturgia potrà contribuire
anche a questo.
Per concludere: abbiamo questo strumento prezioso, ricco e abbondante, preparato con cura
e competenza, necessario per un segno di comunione con tutte le assemblee d’Italia, modello
per le scelte musicali nelle celebrazioni liturgiche, ma non illudiamoci: da solo non basta a
risolvere il problema del canto dell’assemblea!
C’è bisogno che qualcuno (sacerdoti, parroci,
vice parroci, religiosi, suore, direttori di coro, cantori, strumentisti, educatori, animatori, catechisti…) lo prenda in mano, lo sfogli, lo studi, ne
faccia uso, lo faccia conoscere, gli dia vita e amorevolmente lo trasmetta a chi di dovere.
Non dimentichiamoci che il Repertorio dei Canti
può essere (deve essere!) uno strumento valido per una bella catechesi originale e coinvolgente.
*Responsabile Diocesano del
Canto per la Liturgia
[email protected]
Marzo
2014
Suore Apostoline dell’Acero
L
a Quaresima è quel tempo liturgico privilegiato nel quale ogni cristiano ha l’occasione di rivedere la propria vita per
prepararsi a vivere il Mistero centrale della fede,
che la Chiesa celebra nella festa di Pasqua, culmine della vita cristiana: Cristo morto e risorto
per la nostra salvezza.
Sappiamo bene che questo tempo inizia con il
Mercoledì delle Ceneri, giorno in cui i fedeli sono
segnati sul capo dalla cenere. Due espressioni accompagnano tale gesto: “Convertitevi, e credete al Vangelo”. (Marco 1,15) e “Ricordati che
sei polvere, e in polvere tornerai”. (Cf Genesi
3,19) Don Tonino Bello in una sua famosa riflessione ricorda che il cammino quaresimale parte dalla
cenere sulla testa e arriva fino
alla lavanda dei piedi. Un percorso lungo 40 giorni che ci
porta a sperimentare la
misericordia di Dio che si china a lavare le nostre povertà per ridonarci e ricordarci
la nostra dignità di essere figli
di Dio: dall’incontro con Dio
all’incontro con l’altro.
La Quaresima è perciò uno
spazio provvidenziale per convertirci a Dio.
È un tempo necessario per
saper guardare noi stessi nella luce di Dio e “chi è capace di vedere Dio è capace
di vedere l’uomo”.
Vorrei accostare due termini strettamente legati tra
loro: vocazione e conversione.
Sì, la vocazione cristiana è
una continua conversione, un
costante tentativo e esercizio per ritornare a Dio, per
riavvicinarsi al suo Amore. Gesù
invita tutti alla conversione:
“Non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori” (Marco 2,17).
Senza conversione non si può
entrare nel Regno di Dio. Essa
è uno sforzo continuo dell’uomo,
ma innanzitutto un’opera della grazia di Dio, che fa ritornare a Lui i nostri cuori, che
ci abilita a rispondere con fede all’amore misericordioso di Dio che ci ha amati per primi. È
Dio che ci dona la forza di ricominciare. La conversione è un impegno continuo per ogni cristiano e per tutta la Chiesa.
La vocazione è un atto di misericordia, un evento di grazia, un dono di Dio. La conversione quindi rende sempre più autentica la vocazione, perché permette di verificare il proprio cammino e
ritrovare il senso vero della vita: verso dove, verso chi sto andando? L’obiettivo del cristiano è
25
vivere in comunione con Gesù, come Gesù, seguirlo, ascoltare e mettere in pratica le sue parole, fare i suoi stessi gesti. Gesù realizza in pienezza la vocazione di ogni uomo. La vita cristiana è un allenamento perseverante, è una
crescita che non finisce mai, ma che ha sempre bisogno di “linfa nuova” per maturare, per
ricevere e donare. Alcune espressioni che possono aiutarci a riscoprire la nostra vocazione
e vivere meglio il nostro rapporto con Dio e con
i fratelli sono: l’essenzialità, il digiuno, il silenzio, l’ascolto, la penitenza, la carità, la preghiera
e il servizio. Atteggiamenti questi che viviamo
in modo più forte in Quaresima, ma che in realtà possono diventare “l’abito del cristiano”, cioè
abitudine di ogni giorno.
Essenzialità: una vita fatta del necessario, non
del di più, di ciò che basta alla nostra vita, di
ciò che rende la nostra vita semplice e sobria.
Uno stile di vita così ci permette di accorgerci
del bisogno dell’altro e di chiedere aiuto all’altro; ci dona occhi capaci di guardare e mani capaci di condividere, di “spezzare il pane con l’affamato”, e un cuore capace di solidarietà, soprattutto in questo tempo difficile nella società in cui
viviamo. Ciò si collega anche al digiuno, non
solo dei cibi, ma soprattutto digiunare da tutto
ciò che ci allontana da Dio e dai fratelli e che
indurisce il nostro cuore.
Silenzio: “Dio ci parla quando ci trova nel silenzio”. Oggi sperimentiamo che il silenzio è sempre più difficile da trovare, inondati ogni giorno
da parole, parole, parole,… sempre connessi
con qualcuno, e quando proviamo ad ascoltare noi stessi, a stare soli, a pensare,… ecco che
ci spaventiamo, non siamo “attrezzati” al silenzio, dobbiamo sempre dire qualcosa,… allo stesso tempo credo che ci sia una grande “sete” di
silenzio, perché solo nel silenzio possiamo incontrare la verità di noi stessi. Il silenzio ci abilita
al discernimento, a poter scegliere e ci rende
capaci di ascoltare: noi stessi, la parola di Dio
e gli altri.
La nostra vocazione cresce e si scopre in questo dialogo tra Dio e la nostra vita, rileggendo
i fatti della nostra storia.
Penitenza: come ci ricorda Gesù
nel vangelo, la penitenza non
riguarda solo opere esteriori, ma piuttosto la penitenza
interiore, un radicale nuovo
orientamento di tutta la vita,
un ritorno a Dio con tutto il
cuore, una rottura con il
peccato, un’avversione per il
mali; essa comporta il desiderio di cambiare vita, sperando nella misericordia di Dio
e confidando nella sua grazia. Senza di essa le opere
esterne restano sterili.
Carità: san Paolo ci ricorda che
di tutte le virtù la carità è la
più grande, quella che non avrà
mai fine! È l’amore cristiano
che si china sul bisogno dell’altro. La vocazione è scoprire
quei doni che mi rendono capace di donarmi, di servire e amare il prossimo.
Il servizio è un altro importante atteggiamento che contraddistingue la nostra vita cristiana: nella misura in cui ci
lasciamo servire da Dio possiamo sperimentare la bellezza
e la gioia di donarci agli altri.
La preghiera: è per il cristiano
vitale trovare un tempo per pregare, per stare con Dio, per
poter rispondere alla sua
volontà. Riscoprire i sacramenti,
la potenza del Battesimo e
soprattutto il sacramento della Riconciliazione
e dell’Eucaristia. La Quaresima così sarà un tempo per riscoprire, per fare luce sulla nostra chiamata, per rimotivare le nostre scelte, per considerare la bellezza della nostra vocazione alla
santità, la speranza alla quale siamo stati eletti, per essere testimoni e annunciatori coraggiosi dell’amore di Dio. Buon cammino verso
la Pasqua del Signore!
Nell’immagine: Il ritorno del figliol prodigo, Marc Chagall.
Marzo
2014
26
Alessandro Gentili
olte città occidentali ignorano molto di
se stesse: l’accresciuto numero di abitanti ha generato una sostanziale indifferenza per il singolo a tutto vantaggio della massa senza nome.
Indifferenti ad alte sollecitudini, la maggior parte degli abitanti si lascia coinvolgere e sconvolgere in situazioni o dietro personaggi di poco o
nessun valore. Ignorano di avere concittadini se
non addirittura coinquilini di notevole spessore:
artisti, uomini di scienza, letterati, musicisti. In
alcuni sperduti colombari vivono, pare incredibile nell’anno del Signore duemilaquattordici d.C.,
nascosti a tutti, per grazia di Dio, eremiti, uomini o donne che hanno lasciato tutto e tutti per
dedicarsi ad una vita di silenziosa e oscura preghiera. Una recente indagine ne ha stimati un
paio di migliaia solo in Italia. Ma la valutazione
è incerta, in difetto o in eccesso.
Per i meno avvezzi a tale argomento, ricordiamo che dal terzo al sesto secolo dopo Cristo fiorirono nei deserti di Palestina, Siria, Scete, Tebe,
come sorti dal nulla ma in realtà in fuga dall’accomodamento tra Stato e spiritualità (dopo
l’avvento di Costantino), un cospicuo numero di
celle, abitate da questi padri e madri spirituali:
Antonio, Arsenio, Maria l’Egiziana, Poemen, Pastor,
Macario il Grande, Mosè l’Etiope, Ilarione.
Forse ciascuno di noi non è mai perfettamente
compiuto, nella sua essenza/presenza, fino a quando non scopra il luogo, nel tempo destinatogli,
che da sempre lo attende.
L’eremita è proprio questa figura: o in uno sperduto eremo di montagna o in un appartamento
dimenticato in uno dei tanti alveari delle città, questa figura umana realizza la sua vita quando scopre, sicuramente dopo lungo e faticoso cammino, il luogo dove rinchiudersi come corpo, ma
dove può aprire la sua anima finalmente libera
M
di abbracciare l’umanità intera. Perché questo
e non altro è il senso dell’eremitaggio. Soli con
il Solo, per abbracciare tutti.
Abbiamo avuto la fortuna (o la grazia, dipende
dai punti di vista) di incontrare la monaca A., vivente in una casetta, schiacciata e nascosta tra un
agglomerato di altre casette e appartamenti.
A. ha cinquanta anni, occhi profondi, celesti e
vivaci, molto belli, una figura longilinea cui non
è difficile immaginare una giovanile bellezza autentica, ma neppure sfiorita. Ha praticato molte vite,
all’aria aperta, soprattutto in mare. Poi la conversione. Poi l’eremitaggio.
Ci riceve senza portare l’abito monacale.
Capelli lunghi, confessa
che non porta il copricapo, non è tenuta alla
tonsura né a praticare
l’ascetismo. Infatti
arriviamo prima di
pranzo e, mentre si
accende una sigaretta, ci offre un saporito aperitivo a base di
liquirizia accompagnato da noccioline e
salatini. Dipinge.
Per anni ha riprodotto icone ma ora lavora al “Cantico dei
Cantici”, interpretato
con ferrea determinazione corporea. La casa si estende su due piani. Sopra, anticamera e cucinino, una sala e un
bagno. Un grande acquario accoglie un paio di
grosse tartarughe.
Di sotto, una sala e un altro bagno.
Un altro acquario. Pare che i piccoli pesci avvertano la sua presenza o quella degli intrusi. Un
piccolo altare dove immagino il Vescovo o il Parroco
celebrare una Messa. Ma non chiedo. Un terrazzino stracolmo di vasi. La porta-finestra deve
restare chiusa perché fuori si aggirano topi. Rarissime
le visite. Abbiamo dovuto attendere quasi un anno
perché ci ricevesse. Pochi i libri: breviario, Bibbia,
qualche libro di “lectio divina”, alcuni testi critici sulle icone.
Difficile camminare: quasi tutto è occupato dal
materiale che le serve per dipingere. C’è un materassino tra mille bottigliette colorate. Occorre togliersi le scarpe. Penso al Monte Oreb dove Mosè
dovette camminare scalzo, ma qui le ragioni sono
più pragmatiche: bisogna evitare di portare per
casa i colori che hanno macchiato il pavimento. Ci cucina un saporitissimo riso al curry. Lei
beve vino e termina il pranzo con un limoncello. Si ingozza di paste e crostata.
A parte una breve preghiera prima di pranzo, nessun momento di riflessione spirituale. La conversazione
è …secolare e si passa dal caffè alla turca ai
minestroni, dal curry alle bibite, dalla pittura alla
famiglia: scuola, futuro, società. Bah, e questa
sarebbe una madre del deserto metropolitano?
Altro che cella irraggiungibile o il Monte Athos
o la Tebaide! Un eremitaggio senza mura e senza dogmi. E quei capelli lunghi…e quella sigaretta…e i nostri preconcetti…e il nostro atteggiamento, un misto di perplessità e di pruderie.
A. è una bella donna. Non esce mai. Possibile?
La libertà (la nostra idea di libertà) è a portata
di… piede, pochi passi e si è fuori.
Ma neanche a Natale o Pasqua? Sempre sola?
Sì. Qualche volta passa mia madre. Ma devo saperlo. E come fai? Beh, ho il cellulare. Ah! E qui
casca l’asino! Il cellulare!
Ma allora…? Ma intanto non abbiamo visto
tracce di televisione,
radio, lavastoviglie.
La lavatrice è rotta da
mesi. Non c’è neppure
un armadio. Dove tiene i vestiti? Il fatto è
che non ci sono, i vestiti. Guardiamo meglio
un quadro del ciclo del
“Cantico”. Aguzzando
la vista, nelle linee violente che serpeggiano sulla tela, non passano inosservati i dettagli anatomici: è proprio una penetrazione.
Al Vescovo è piaciuto molto. Mi ha incoraggiata a proseguire.
Accatastate al muro,
decine di grosse tele,
due metri per due.
Spiego che vorrei comprarne una, ma non ho
lo spazio.
Te l’avrei regalata. Come fai a tirare avanti?
Mia madre, qualche benefattore e la vendita dei
quadri. Ma adesso sono mesi che non vendo.
L’ultimo a Natale. C’è proprio la crisi.
continua a pag. 26
Marzo
2014
27
adulti, affollano i diversi stand della piazza allestiti per le attività dell’occasione.
Alle 11 al richiamo degli sbandieratori
inizia la nostra marcia. Il cammino è in
salita, ma non manca il fiato per canti
e inni alla pace.
Il corteo arriva fino alla cima del centro
storico di Artena: ci aspetta l’eucaristia
nella chiesa di S. Croce superaffollata.
Ma insieme c’è più festa: il tradizionale Alleluia della lampadine, accompagnato
dal coro dei giovanissimi di Artena con
aiuti vocali diocesani risuona con gioia
grande tra le pareti che sembrano essersi dilatate per accoglierci tutti. Poi di corsa giù, incalzati dalla pioggia, pranzo al
sacco nel salone parrocchiale.
Giusto il tempo di riempire la pancia e
vanno in scena i Giovanissimi: un’esibizione per gruppo parrocchiale con balli, canti e storie sull’onda della pace. Sì,
possiamo testimoniare, perché lo abbiamo vissuto, che la “fraternità” è il “fondamento” e la “via della pace”.
Gruppo dei Giovanissimi di AC della
parrocchia S. Stefano di Artena
A
rtena (RM), domenica, 26 gennaio 2014. La nostra giornata
inizia molto presto tra crostate e ciambelloni, te al limone e succhi
di frutta, prepariamo la colazione per i
nostri amici.
Alle 9 è già tutto pronto ed ecco che
arrivano i primi coraggiosi. Nel giro di
mezz’ora la nostra piazza vede riempirsi di allegri (qualcuno ancora un po’
insonnolito) accierrinini da tutta la diocesi, pronti per ricevere il pass e scaldarsi al ritmo di inni ACR e bans al centro della piazza, o con un bicchiere di
te al tavolo della colazione.
Lo scaldacollo, gadget acquistato per
sostenere il progetto Awassa dell’Ufficio
Missionario Diocesano, ha allargato il
cerchio enorme delle nostre mani unite fino ad abbracciare anche l’Africa.
Dopo l’accoglienza i ragazzi, divisi per
fasce d’età, anche i giovanissimi e gli
segue da pag. 25
Dopo pranzo mi addormento sul letto. Segno di
un agio insolito. Insomma, dopotutto è la prima
volta che vengo, no? Ma lei manco se n’è accorta o gli ha dato peso. I locali sono caldi e poco
refrigerati. Ricomincio a tormentarmi con le classiche comodità dell’uomo moderno.
Cerco di misurare l’appartamento: trenta metri
quadri compreso il bagno? Poi il sotto, ma lì, lei
dice, non ci va quasi mai. Dettaglio: sotto è più
comodo, più fresco, più…alla nostra (mia e dei
miei amici) portata. Come fa a non uscire? Ma
è poi vero? Tempo libero ne avrà parecchio…
Tempo libero? Vediamo: la mattina quasi niente: sveglia, preghiere. Poi esco. Esco solo la mattina. Vado alla Messa, poi al mercato per la spesa. Rientro. Cucino e lavoro un po’. Poi rimetto
a posto. Mi riposo. Poi preghiere, la lectio, il lavoro, i Vespri, la cena, la compieta. Alle nove, nove
e mezza dormo. Mi chiedevi il tempo libero?
Non ci ho mai pensato. Mi sa che ne ho poco.
Tutti i giorni? Già. Tutti i giorni. Feriali e estivi. Da quanto tempo? Qui da cinque anni.
Smetto di fare il terzo grado. Avverto la sensazione che andar via mi costerà uno sforzo. A cosa
è dovuto? Insomma: chi diavolo è questa monaca? E questa assoluta
libertà? Domani avrò un sacco di impegni, uno più piacevole dell’altro: il lavoro, il barbiere, il traffico, il commercialista, le tasse, le bollette. Certo,
la famiglia: la sera, attorno al tavolo, anche se per pochi minuti, c’è la
tivvù che chiama, implacabile. E poi,
che diamine, i campionati del mondo di calcio, la manovra economica,
lo spread e gli scandali e il gossip.
Nel Sudan e nel Darfur, però, poco
è cambiato. L’Iran ce la farà a preparare l’atomica? Riprenderà il grande fratello e l’isola dei famosi e la talpa e la lotteria di capodanno? Spero sempre che ci sia la
Carlucci: presenta bene e senza enfasi. Devo
ricordarmi di confermare la prenotazione per le
vacanze di agosto. In spiaggia i prezzi sono aumentati. Usciamo. C’è un patetico tentativo di invitare la monaca a casa nostra, a cena. Non ricordo neppure la risposta di lei. Era meglio evitare. Mi allontano con un vago senso di colpa e
un banale entusiasmo. Ma perché? Ho fretta di
allontanarmi. Ma quasi quasi non vedo l’ora di
tornare. Avevo un centinaio di domande da fare.
Dovrò attendere un altro anno? Mi riceverà?
Torno a casa, toccato dalla Grazia che ha condotto nel mio deserto spirituale le orme di una
presenza assoluta, senza tempo.
continua
Marzo
2014
28
Valeriano Valenzi*
L
a ricorrenza del 70° anniversario del bombardamento, che tanti lutti causò alla nostra
città, mi induce a ravvivarne il ricordo sia
per il dovere morale di rievocare la memoria di
coloro che in quell’evento tragico persero la vita,
sia per l’esigenza di consegnare alle nuove generazioni di concittadini una esposizione circostanziata
e puntuale di vicende delle quali sono stato testimone diretto.
Dopo l’8 settembre 1943 i tedeschi si erano stabiliti a Segni con i loro carri armati “Tigre” e “Panzer”,
mimetizzati con arbusti di leccio, occupando P.zza
Risorgimento, San Pietro, via Rossi, via Lauri,
via di Scroccarocco e Preturo. La nostra città
era diventata centro di smistamento truppe per
la difesa della linea Gustav e della linea Hitler
(Dora), con la XIV Panzer Corps e la novantaquattresima divisione Panzer Granatier del fronte di Cassino, per contrastare l’ottava armata
britannica (Leese) e il quindicesimo gruppo di
armate alleate Alexander e la quinta armata USA,
Clark. Molti edifici furono requisiti per l’alloggiamento
della divisione Goering impegnata nell’addestramento;
alcuni soldati godevano, invece, di un breve periodo di riposo dalle fatiche del fronte; vennero fatti evacuare molti fabbricati, tra i quali: l’edificio
scolastico, i locali del Seminario, la casa Centi,
con la parte sottostante adibita ad officine per
la riparazione dei mezzi; per gli ufficiali,
invece, il palazzo di Sor Domenico Milani,
sito in P.zza Santa Maria, le ville Cletimeni,
Allegrini, Pallone, Evangelisti e la
casa di Pericle Roseo.
Il generale Kesserling, invece, aveva
preferito la città di Frascati per il suo
quartiere generale. La mattina del 21
gennaio 1944, entrato a casa Roseo,
mio parente, vidi alcuni alti ufficiali, riuniti attorno al tavolo, che discutevano su
carte topografiche relative alla zona di
Cassino e del fronte di Avezzano.
Improvvisamente arrivò un motociclista, che concitatamente gridò alcune
parole per me incomprensibili, che lasciarono, però, tutti i presenti sbigottiti e li
indussero alla fuga.
Chiesi ad uno di loro che cosa fosse
successo; mi disse che gli Americani
erano sbarcati ad Anzio- Nettuno e che
l’indomani sarebbero stati a Segni. Presi
quelle carte, che molti anni dopo ho donato all’archivio storico Innocenzo III, e
me ne andai. Ma le cose, purtroppo,
non andarono come avevano previsto:
il fronte rimase fermo per lunghi mesi
in quanto i tedeschi fermarono le truppe di sbarco.
Intanto a Segni si era rafforzato il contingente tedesco con ragazzi diciassettenni
che piangevano al solo pensiero di andare a Cassino poiché coscienti che lì avrebbero incontrato morte sicura.
Sul terrazzo della mia casa paterna, situata nella piazza di S. Lucia, di fianco all’omonima chiesa, punto più alto della città, da cui si dominava da una parte la vallata del Sacco e dall’altra i monti Lepini e Ernici, avevano installato una
baracca di legno con una vedetta permanente.
Segni era piena di spie.
I rastrellamenti di uomini da impiegare per lavori manuali sul fronte diventavano sempre più frequenti. Le incursioni aeree avevano come obiettivo mirato Colleferro, ma già prima del fatidico 7 marzo c’erano stati, anche a Segni, sporadici episodi di bombe sganciate per errore o
per liberarsi di un ordigno rimasto a bordo dopo
un bombardamento su obiettivi importanti: il 27
novembre 1943 l’esplosione di un ordigno abbattutosi in località “la Torre” aveva provocato 15
vittime; un’altra bomba era caduta in via della
Mola, il 12 febbraio, uccidendo 5 contadini.
Con l’arrivo della primavera la cittadina aspettava con ansia l’arrivo degli alleati, quando improvvisamente, il 7 marzo, giorno che i segnini della mia generazione non avrebbero mai più scordato, si scatenò sulla nostra gente una tempesta di lutti e di angosce. Ero appena tornato a
casa, quando, alle 14.25, avvenne il finimondo.
Una squadriglia di caccia bombardieri angloamericani 1 che aveva come obiettivo le forze tedesche, di stanza nella città piombarono su Segni
bombardando e mitragliando; si sentivano il sibi-
lo delle bombe e gli scoppi sempre più vicini insieme alle urla disperate della gente.
Dovetti trattenere a forza la signora Filomena,
amica di famiglia, sorella di Don Cesare Ionta
che voleva tornarsene a casa a tutti i costi, ma
le raffiche di mitragliatrici, il fumo e la polvere
impedivano di uscire. Improvvisamente ci ritrovammo casa piena di persone spaventate e urlanti entrate dalla porta della cantina che era stata sfondata, le bombe erano cadute intorno alla
nostra abitazione lasciandola miracolosamente in piedi.
Finito il bombardamento, cercai faticosamente
di raggiungere piazza S. Lucia, tra il fumo e la
polvere che mozzava il respiro, tra fili elettrici
spezzati, superai con difficoltà montagne di macerie e calcinacci, tra invocazioni di aiuto.
Alla fine della corsa mi si presentò una scena
apocalittica: la Chiesa era stata centrata da un
ordigno 2, la casa paterna sventrata e scomparsa
la garitta dell’osservatorio; al loro posto c’era solo
una montagna informe di calcinacci e detriti.
Dopo i primi attimi di sgomento, mi adoperai per
soccorrere i feriti. Ancora oggi mi domando come
fossi riuscito ad orientarmi in quella tragedia.
Gli amici che erano prima con me si erano salvati scappando verso l’orto della chiesa trascinando con loro Don Antonio; il parroco ben deciso, come aveva sempre detto in passato, a rifugiarsi nel campanile considerato luogo sicuro
per lo spessore notevole dei muri.
Mio fratello Roberto il più piccolo della casa che
stava giocando nella piazzetta con altri amichetti,
al primo scoppio era corso a casa, mentre il compagno Nato Galati aveva cercato rifugio in Chiesa, sotto l’altare di
S. Anatolia e lì perse la vita. La sua salma fu ritrovata dopo circa 2 mesi.
Le bombe, oltre a Santa Lucia, caddero
sulla passeggiata di Pianillo nella zona
di S. Pietro, su via Tomassi nei pressi
della Cattedrale, negli orti del Lucino
e Corso Vittorio Emanuele proprio nell’allora bar di Olivo (oggi negozio di
Guglielmo Fagiolo - Guglielmino) dove
avvenne una carneficina indescrivibile poiché era gremito di giovani, tra cui
mio cugino Andrea che dopo affannose
ricerche fu ritrovato proprio lì, sotto le
macerie del bar.
A pranzo aveva raccontato alla madre
di aver incontrato nella falegnameria dei
Ramacci, sulla via dei Cappuccini una
pattuglia di tedeschi in fuga che lo volevano portare via con loro dicendo “Oggi
Segni fa caput”; lui, naturalmente si era
guardato bene da dargli ascolto. Forse,
però, seguendo il loro consiglio, si sarebbe salvata la vita.
La barista fu ritrovata, dopo diversi giorni, sotto il bancone incastrato tra le travi del soffitto. La gente tra pianti e urla
andava cercando i propri cari tra le macerie e poveri resti umani sparsi intorno.
I morti furono 132 e numerosissimi i feriti. Tra i più colpiti fu Don Antonio Navarra
Interno della Chiesa S. Lucia prima del bombardamento.
continua nella pag. accanto
Marzo
2014
29
Sara Calì
nche quest’anno il Circolo culturale “P. Ginepro Cocchi” si è fatto promotore di parecchie iniziative per mantenere viva la memoria del
missionario morto in Cina il 6 marzo 1939.
Nel giorno della morte ci sarà una commemorazione religiosa nella piazza a lui
intitolata, alla presenza delle autorità religiose, civili e degli studenti delle scuole del paese.
Oltre alle cerimonie religiose previste, il
7 marzo ci sarà anche la possibilità, per
le scolaresche, di fruire di visite guidate alla Biblioteca, al Museo e al chiostro
del Convento francescano. Un’ottima occasione per conoscere da vicino dei piccoli gioielli sconosciuti a molti come la
pittura delle lunette del chiostro, i pezzi contenuti al Museo, tra cui alcuni oggetti appartenenti a P. Ginepro, la biblioteca che contiene, oltre ai più importanti
testi patristici, anche delle splendide cinquecentine.
L’opportunità è senza dubbio da cogliere soprattutto per prendere atto del fatto che anche in un piccolo paese come
Artena sono presenti rarità che nascondono un passato in cui la cultura aveva un ruolo centrale nella formazione dei
giovani: nel convento, fino al Novecento inoltrato,
venivano formati i seminaristi, uno dei quali fu
proprio P. Ginepro, che scelse la vita religiosa
A
a soli 10 anni.
E portò grazie, agli insegnamenti acquisiti, la luce
della fede nella lontanissima Cina (nella lette-
re il sacerdote racconta di aver viaggiato per
ben due mesi prima di raggiungerla).
Dal 1996 il Circolo culturale P. Ginepro, fortemente voluto da P. Nicola Cerasa e vivificato dall’operato incessante del Presidente,
prof. arch. Augusto Dolce, e di tutti i componenti, si è adoperato instancabilmente per
far conoscere a tutti gli abitanti di Artena e
non solo, l’operato del frate missionario, con
manifestazioni, rappresentazioni teatrali,
pubblicazione di libri, concorsi letterari e concerti.
D’altronde basta leggere le testimonianze su
P. Ginepro o poche righe delle sue splendide lettere per sentirsi illuminati dalla più
pura luce della fede, per abbandonare immediatamente la dimensione terrena ed entrare in un mondo in cui domina la serenità che
nasce dalla speranza, la santità e la forza
d’animo.
Avvicinarsi vuol dire conoscere quest’uomo,
umile e fortissimo insieme, tenace e capace di amare gli altri più di se stesso, annientando in sé tutto ciò che poteva offendere
il suo patto di fede.
Da qui la noncuranza della propria salute e
il totale distacco dai bene terreni, dal successo, dalla gloria, dall’ambizione e da tutto ciò che costituisce, per molti di noi, gli obiettivi e le preoccupazioni quotidiane.
È giusto conoscere la figura di questo grande religioso che sembra indicarci, ogni giorno con il suo esempio, la via giusta da seguire
nel lungo cammino della fede.
segue da pag. 28
che perse la casa, la Chiesa e 7 familiari, oltre ad altri compaesani. Soltanto più
tardi, facendo il bilancio di quella drammatica giornata, ci si rese conto che la
differenza tra la sorte delle vittime e quella di coloro che si erano salvati, era stata determinata da un evento casuale, imponderabile, apparentemente irrilevante: io stesso, che ero stato con gli amici a godere
il primo sole primaverile fui salvato dalla
decisione improvvisa di tornare a casa.
Le vie di Segni furono invase nuovamente
da carri armati tedeschi tornati subito dopo la
fine dell’incursione.
Al calar della sera, cominciò a nevicare e questo rese ancora più desolata la situazione perché al dolore di chi aveva perduto il dolore dei
propri cari si aggiunse il disagio di coloro che,
privati improvvisamente di ogni cosa nel crollo
delle loro abitazione, non sapevano dove rifugiarsi. Superata la prima fase dello sgomento
per la perdita di vite umane per essere stati sfiorati così da vicino dalla tragedia della guerra,
ci rendemmo conto che quelle bombe micidiali ci avevano portato via una parte delle nostre
tradizioni culturali, delle memorie collettive e, a
A ricordo delle vittime dei bombardamenti
sono state poste oggi due lapidi una a via
della Torre (bombardamento del 27
novembre 1943) e l’altra nel tempietto dei
caduti per la patria nel cimitero (bombardamento 7 marzo 1944).
Da quel giorno Segni si spopolò e la gente ricomparve solo all’arrivo delle truppe
alleate.
*Storico Segnino
Tratto dal libro manoscritto
“Ricordi di un tempo passato”.
Piazza S. Lucia 1949.
noi ragazzi degli anni ’30, avevano tolto un patrimonio di emozioni, vissute da bambini, nell’atmosfera solenne delle celebrazioni liturgiche, di
rapporti sociali e di amicizie sviluppatesi all’ombra della chiesa, tra l’altalena, il gioco delle bocce e nella stessa piazzetta, teatro dei nostri giochi popolari.
Le salme furono deposte in una camera ardente per il loro riconoscimento presso l’allora bar
Battaglia (oggi sede dell’agenzia del Credito
Cooperativo Roma), alla presenza del Vescovo
Fulvio Tessaroli, con le autorità civili e militari
fu celebrato in cattedrale un solenne funerale.
1
Da Documenti di Storia Lepina” nn. 49 e 54, pubblicati
on line sul sito del Comune, www.comune.segni.rm.it.
Sulla base delle testimonianze raccolte e di prove, che risultavano attendibili, indicavo i piloti Mister Bill Marshall e Mister
Jack Ogilvie, quali componenti della missione che il 7 marzo 1944 ha bombardato Segni. In seguito ad ulteriore recente ricerca e alla declassificazione dei documenti relativi alle
missioni militari americane, è risultato che entrambi erano impegnati in altre missioni.
2
Nella Chiesa di Santa Lucia il 21 febbraio 1173 era stata
celebrata, dal pontefice Alessandro III, la canonizzazione
di Thomas Bechet, arcivescovo di Canterburry, assassinato
tre anni prima per ordine del sovrano Enrico II.
Marzo
2014
30
Marco De Meis
A
l via, venerdì 28 febbraio 2014 a
Valmontone presso la parrocchia di s.m.
Maggiore – teatro Luciani, via cardinal
Oreste Giorgi, il primo dei due seminari
“Mettiamoci le mani”, organizzati in occasione
del progetto “IMPARIAMO I MESTIERI AGRICOLI - Primo laboratorio dei mestieri agricoli per l’occupabilità e l’occupazione,
dedicato all’apicoltura”.
Il secondo incontro di “Mettiamoci le mani”, si
svolgerà a Velletri, venerdì 21 marzo 2014. Riguardo
a questo secondo appuntamento, sarà data suc-
cessiva comunicazione. Si allegano i programmi del primo
seminario e del corso
base di apicoltura.
Il riferimento alle mani
ha un duplice significato: da una parte quello di richiamare l’utilizzo
della manualità tipico
dell’attività agricola;
dall’altra, quello di
sottolineare il fatto
che oggi, in questo tempo di crisi, diventa
necessario farsi parte
attiva nel proporre e promuovere progetti declinati secondo una prospettiva di attenzione
alla persona.
Valore persona. Mons.
Vincenzo Apicella,
Vescovo della Diocesi
Suburbicaria di VelletriSegni, illustra le finalità dell’iniziativa.
“Questo progetto nasce
dalla constatazione
che rispetto alla concezione, che la cultura occidentale ha creato a proposito del
lavoro umano esiste un’alternativa, rappresentata da quelle che sono le prospettive che emergono da una visione cristiana del lavoro e della persona” spiega Mons. Apicella; il quale, aggiunge che “nella cultura dominante ciò che è posto
in primo piano è una visione del lavoro inteso
come merce da comprare e da vendere, che ha
un suo mercato: se la domanda aumenta, il prezzo cresce, se l’offerta aumenta il prezzo diminuisce. Quindi, la legge della domanda e dell’offerta intesa come funzione inerente alla persona porta ad una mercificazione della persona stessa. Da qui discende la concezione mercantile del lavoro.
CONCORSO D’IDEE
“Un logo per il miele”
Metti in gioco la fantasia e divertiti
a disegnare il logo per l’etichettatura del
confezionamento del miele.
A
l concorso possono partecipare i ragazzi e le ragazze tra
i 5 e i 14 anni aderenti ai gruppi dell’Azione Cattolica
Ragazzi, ai gruppi Scout, al catechismo, alle scuole cattoliche e a tutte le altre scuole che desiderano partecipare.
I disegni devono essere presentati da gruppi non da singoli, riportare i nomi dei componenti del gruppo e dell’educatore o dell’insegnante, l’appartenenza associativa e la parrocchia di rife-
Quello che invece emerge da una prospettiva
più profonda del significato del lavoro è il suo
ruolo insostituibile e funzionalmente interdipendente
con il valore stesso della persona.
Il lavoro è il modo con cui l’uomo realizza se
stesso e ritrova la sua dignità, non soltanto come
singolo, ma anche in un rapporto di collaborazione e collegamento con gli altri; quindi il lavoro può essere inteso anche come occasione di
promozione di rapporti nuovi, veri e giusti tra le
persone che collaborano ad uno stesso progetto”.
Da tali riflessioni, sottolinea il Vescovo, discende che “occorre considerare il lavoro non soltanto come un mezzo in grado di dare il necessario sostentamento economico alla persona e
alla sua famiglia, ma occorre soprattutto apprezzare il lavoro, come quella pratica dell’agire umano, in grado di affermare la dignità della persona,
che lo mette nelle condizioni di poter realizzare se stessa e di esprimere i doni che il Signore
gli ha dato”.
“Questo progetto non mira semplicemente alla
creazione di nuovi posti di lavoro, secondo quanto determinato dalle logiche afferenti alle dinamiche del mercato del lavoro – chiarisce
Mons. Apicella - ma ha un’ambizione un po’ più
alta, che è quella di accompagnare le persone
a trovare una dimensione più completa, più vera
e più profonda del proprio lavoro, così come intesa dalla visione cristiana.
Ecco perché accanto all’aspetto tecnico-economico,
che è comunque importante, non dobbiamo dimenticare di educare ad un modo di porsi di fronte
al lavoro e di lavorare che sia più vero, più umano e più rispondente a quelle che sono le esigenze della persona”.
“In tutto questo – conclude il Vescovo - il ruolo
della Diocesi non è semplicemente di creare posti
di lavoro, ma, in primo luogo è quello di accompagnare, formare, sostenere e guidare le persone in questo percorso di crescita, che è insieme umana ed economica, fornendo delle possibilità che appartengono alla funzione educativa della comunità cristiana”.
Info: 393.9396689 - 340.6845924
rimento oppure la scuola di provenienza.
I disegni dovranno arrivare entro il 13 Aprile 2014.
Si possono inviare (scannerizzati) alla mail:
[email protected], oppure possono essere spediti all’indirizzo: Centro di Spiritualità Santa Maria dell’Acero,
Via Colle dell’Acero, 165 - 00049 Velletri (Rm).
La proclamazione dell’idea più creativa, che diventerà il logo ufficiale dei barattoli di miele una volta commercializzati, avverrà
il 1° maggio 2014, presso il Centro di Spiritualità Santa Maria
dell’Acero.
L’iniziativa fa parte del progetto “IMPARIAMO I MESTIERI AGRICOLI - Primo laboratorio dei mestieri agricoli per
l’occupabilità e l’occupazione, dedicato all’apicoltura”, classificatosi tra i progetti vincitori della VII edizione del concorso
nazionale “Lavoro e pastorale”, promosso dal Movimento Lavoratori
continua nella pag. accanto
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Una realtà in Movimento
Francesca Proietti e
Marta D’Emilio
C
ome preannunciato nello scorso numero della rivista il 22 Febbraio ha preso avvio il Corso base di Apicoltura,
primo evento formativo del più ampio progetto “Impariamo
i mestieri agricoli” del centro diocesano per il Progetto Policoro,
Caritas diocesana, Azione Cattolica diocesana, cooperativa sociale il Melograno e l’associazione il Gelso Onlus.
Tale progetto ha vinto il concorso di idee lavoro e pastorale 2014 promosso dal Mlac, Azione Cattolica Italiana e dall’Ufficio
Nazionale per i problemi sociali e il lavoro, la premiazione
è avvenuta durante le Giornate della progettazione sociale 2014 svoltesi a Roma il 25 e 26 Gennaio, il premio di 3000
euro servirà a coprire le spese per l’acquisto dei materiali
didattici per il corso e per l’acquisto dei beni che serviranno a realizzare l’apiario che sarà aperto a percorsi didattici nei prossimi mesi.
È fonte di grande soddisfazione aver potuto rappresentare una realtà in movimento, una comunità che come una
grande famiglia si riunisce intorno a un tavolo e progetta
un futuro di speranza, di aiuto, di sostegno e lo fa con amore! Sentiamo allora di dover ringraziare il Mlac Nazionale
per aver riconosciuto non solo la bellezza di un progetto (belli e appassionati
lo erano tutti e 17 i progetti presentati), ma la capacità e la volontà di fare
comunione tra Chiesa, Enti locali e soggetti Singoli.
Durante le Giornate della progettazione
sociale 2014 infatti, abbiamo potuto
cogliere l’importanza della condivisione
come strumento di formazione e di crescita non solamente personale ma comunitaria, sentendo vicine le diocesi più
lontane. Particolare è stata la sorpresa
di veder vincere insieme due progetti così simili in due realtà così distanti tra loro (la diocesi di Nardò-Gallipoli
di AC, grazie al contributo dell’Azione
Cattolica, dell’Ufficio Nazionale per i
Problemi Sociali ed il Lavoro della CEI
e di Caritas Italiana. L’idea presentata
dalla Diocesi di Velletri-Segni si propone di creare reti tra comunità civile
e comunità ecclesiale, mettendo a sistema vere e proprie alleanze tra parrocchie, famiglie, istituzioni, società civile e mondo dell’impresa, coinvolgendo le realtà presenti nell’Azione Cattolica
locale (Adulti, Giovani, Acr, Mlac), Caritas
e Progetto Policoro, incentivando la trasmissione di competenze, esperienze e
buone prassi legate ai temi del lavoro.
infatti, ha presentato un progetto dal titolo “Il lavoro dal Nettare”).
Ma veniamo a noi...
Il mese di Febbraio, tornati dalla premiazione, è stato ricco di impegni: abbiamo dato il via al Primo corso base di
Apicoltura, registrando il tutto esaurito (invitiamo quindi a
presentare le vostre manifestazioni d’interesse al corso per
poterlo replicare chiamando i numeri 3406845924 o
3285844442, oppure mandando una e-mail all’indirizzo
[email protected]) e abbiamo realizzato il
primo dei due seminari “Mettiamoci le Mani”, altro momento di condivisione e riflessione comunitario che ha visto la
partecipazione di molti dei soggetti coinvolti nel progetto, a
testimoniare la vivacità e fedeltà di chi Crede in un progetto di speranza per il nostro territorio.
Infine vi invitiamo al prossimo appuntamento che si terrà
venerdì 21 Marzo alle ore 18.00 presso la Sala Micara, Palazzo
vescovile, Corso della Repubblica 347, Velletri, inoltre continueremo ad aggiornarvi sugli sviluppi del progetto.
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Stanislao Fioramonti
S
ono edifici sacri di piccole dimensioni,
a struttura un tempo aperta a capanna
e a volta semicircolare, costruite da privati a scopo devozionale (di preghiera) e/o protettivo (da intemperie, pioggia, fulmini o da attentati di persone), in aree urbane o rurali lungo
strade vicinali, comunali, provinciali o nazionali, per i motivi già detti.
A Valmontone ci sono: quella di S. Barnaba in
via colle S. Giovanni (v. storia della scomparsa chiesa omonima su Ecclesìa); quella della
Madonna del Carmine (del Ponte) dopo il ponte sul fiume Sacco sulla via Casilina, alla quale abbiamo già dedicato un articolo; la cappella Capri-Galanti a colle Ventrano; quelle mariane di Colle Canale e di via delle Vaschette; quella di padre Pio in via della Tota e la Cappelletta
di S. Antonio sulla via di Palestrina, alla “cur-
va di Mazzaccricco”.
1) Parliamo prima di quest’ultima nel
racconto di Marisa (Maria) Fanfoni, figlia
di Alfredo “Mazzaccricco” e di Milena
Polce, riportato da Maria Teresa
Ruggeri su “Il Campanone” del luglio
2005: “Ci ha raccontato nostro padre
che questa cappella era stata fatta da
un commerciante o un trasportatore
ciociaro che percorreva questa strada per andare a Tivoli e oltre. Proprio
qui davanti, dove ora sorge la cappella,
fu aggredito da alcuni briganti con dei
pugnali. Gridando, il trasportatore implorava gli aggressori di lasciarlo andare e si raccomandò alla Madonna perché lo salvasse: ‘Se mi salvi ti sarò
grato!”. I briganti se ne andarono risparmiandogli la vita, che si considerò esaudito dalla Madonna e perciò decise di costruirle
una cappella proprio in
quel punto. Durante la
II Guerra Mondiale lungo la via di Palestrina
c’erano depositi di munizioni tedesche e una
stanza della casa di mio
padre serviva da postazione di guardia dei tedeschi; perciò gli alleati martellarono questa zona con numerose incursioni aeree e la chiesetta
restò distrutta. Finita la guerra, per
ricostruire le case hanno scavato qui davanti, proprio di lato alla
cappella, per procurarsi la pozzolana;
al termine dei lavori lo scavo è stato riempito. Erano circa gli anni
’50 quando i miei genitori ricostruirono
la cappella, aiutati da Orfeo
Francesconi e da altri devoti valmontonesi, ognuno secondo le proprie possibilità; il quadro, ad
esempio, è stato donato da Adolfo Lanna, mentre a don Paolo Cocchia si è chiesto consiglio
per l’altare e la pietra. Il giorno dell’inaugurazione
mio padre andò a prendere i parati dell’altare,
che per l’occasione era stato allestito all’esterno. La sera ci fu una festa con un rinfresco al
palazzo Doria; parteciparono tutti coloro che avevano contribuito alla ricostruzione. Da quel gior-
no ogni anno mia madre fece celebrare una messa; ogni ultima domenica di ottobre si festeggiava la Madonna: partecipavano alla liturgia molte persone di Valmontone, oltre agli abitanti del
colle e alle suore. Dopo la messa si teneva una
festicciola”.
In un Bollettino Diocesano di fine anni ‘60, sotto il titolo “Il vescovo Carli e la Collegiata”, alla
data 16 ottobre 1966 si legge: “Nel pomeriggio
benedice in Collegiata l’immagine dell’Addolorata
che sarà posta nella ricostruita (ad opera dei coloni vicini) cappellina in località Acqua Maggio, sulla strada per Palestrina”.
All’interno della cappelletta attuale, su un altarino, un quadro mariano in bronzo e una statuina dell’Immacolata, a sinistra una statuina in
gesso di S. Antonio di Padova e a destra un’altra più piccola di san Pio da Pietrelcina.
Fuori, sugli spioventi del tetto è scritto: “Restauro
Anno Duemilaundici”. L’inaugurazione avvenne
nella prima domenica di luglio, data che ogni anno
si ricorda con una messa celebrata da un frate del convento S. Angelo e con una festicciola locale.
2) Cappelletta mariana in via di Colle Canale
Situata a destra della via del Canale, dopo il fontanile e prima del curvone a destra, è una piccola costruzione dal tetto spiovente, che sostituisce una “Madonnella” precedente, demolita
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nel 1980 per l’allargamento della strada, che sembra avesse un quadro della Madonna del Carmine.
Alla ricostruzione ha provveduto un comitato locale (Oreste Polce, Elio Del Brusco, Igino
Piacentini, Giancarlo Mezzo, Claudio Simeoni,
Augusto Piacentini, Augusto Natalizia, Vincenzo
Romagnoli, Vittorio Mattia, Antonio e Raffaele
Pellegrini, Aldo Panetta e Mario Talone, che ha
fornito queste notizie) che dal 14 maggio 1994
ha lavorato gratuitamente, mentre l’amministrazione
comunale ha fornito il materiale edile. Poiché
questo la prima notte è stato trafugato da ignoti, tra gli abitanti del colle si è aperta una gara
di generosità per donare quanto potesse servire alla costruzione e all’ornamento della cappellina. Essa è stata inaugurata il 2 luglio 1995
(come è scritto su una terracotta sulla facciata) con la messa del parroco don Luigi Vari, la
distribuzione di una merenda popolare (pagnottelle, dolci e vino) e la musica e gli spari di mortaretti. Contiene un altarino con una statua in
bronzo dell’Immacolata, un Crocifisso e una stampa di S. Luigi Gonzaga a sinistra, una Madonnina
in gesso a destra. Sul fianco sinistro è una “Ave
Maria” scritta in ferro. Tra i più assidui curatori
dell’edicola ricordiamo Giuseppe Massari,
presso una famiglia del luogo, dove privatamente
viene portata la Madonnina, che dopo la messa, di sera, è riportata nella cappellina con una
processione ai flambeaux.
3) Cappelletta mariana in via delle Vaschette
Risalente al 1800, secondo Marcella Polce stava dalla parte opposta della strada ed era scavata nella roccia. E’ stata completamente
ristrutturata grazie alla volontà di alcuni abitanti
della zona (Tonino e Pompeo Paparelli, Mario
Del Brusco, Luigi Ciasco, Sandro Ranieri, Mario
Calvano, Innocenzo Margiotti e Antonio Staffulani),
che si sono sobbarcati anche tutte le spese (circa 10 milioni) ed hanno lavorato tutti i sabati e
le domeniche, da metà novembre 1990.
L’inaugurazione della nuova cappella è avvenuta il 5 maggio 1991 con la S. Messa celebrata
dal parroco della Collegiata don Franco Risi e
con un rinfresco offerto dagli stessi “restauratori”. Purtroppo però già la notte del 22 maggio
sono stati rubati i pini messi per ornare la cappellina, subito sostituiti per rispondere in questo modo all’inciviltà di certe persone.
4) Casa di preghiera “P. Pio” in via della Tota
E’ una cappella scavata nel tufo sotto la collina dov’è la villa Giorgi (colle Ospedale), poco
anni di seguito (1973-75), per amministrare le
Cresime.
5) Cappella Capri Galanti a Colle Ventrano
La famiglia Capri-Galanti è stata una delle più
in vista di Valmontone nel 1800, da quando Maria
Clementina Galanti fu Angelo (1784-1854), sorella di mons. Girolamo (1785-1838) – illustre prelato della Tesoreria della Curia Romana al tempo di papa Gregorio XVI – sposò nel 1798 Luigi
Capri fu Domenico. Dei loro numerosi figli, Giovanni
Battista (1813-1880) fu sacerdote, professore
di Retorica nel Seminario di Anagni e poi Auditore
e Ponente della Sacra Consulta della Curia Romana;
Giuseppe (1817-1891) divenne il più ricco proprietario terriero del paese dopo i principi Doria
e fu per diversi anni (almeno dal 1855 al 1862)
sindaco di Valmontone. Abitava nel grande palazzo seicentesco in cima a via Nazionale (che fu
poi Casa del Fascio e quindi casa del dr. Trifogli),
ma si fece anche costruire due grandi ville di
campagna, una a colle Belvedere (poi villa Bisleti,
sanatorio antitubercolare e casa di riposo delle suore Figlie della Carità) e una a colle Ventrano
(poi villa Borgogno e ora casa Tintisona). Egli
sposò Anna Maria Bianchini fu Angelo (18331915) e ne ebbe due figli, Angelo (1847-1899)
Aristide Pellegrini, la sig.ra Rita e la famiglia di
Alberto Staffulani, Anita e Alfredo Natalizia e la
moglie Rosinella, che ricorda: “Quando le donne andando al lavatoio erano sorprese dalla pioggia, correvano tutte a ripararsi sotto il tetto della vecchia cappella, che era addossata alla roccia”. La cappellina si festeggia l’8 settembre con
una messa celebrata dal parroco della Collegiata
dopo l’inizio di via della Tota dalla via Casilina.
La struttura, voluta dal locale gruppo di preghiera
del santo frate cappuccino (morto nel convento di S. Giovanni Rotondo in Puglia e canonizzato da papa Giovanni Paolo II nel 2002), appartiene alla parrocchia valmontonese di S. Anna.
All’interno c’è un busto del santo in una nicchia
a destra dell’ingresso e vetrate colorate nella porta e nelle tre finestre che
danno luce all’ambiente sotterraneo.
La struttura fu inaugurata
il 13 novembre 1994 dal
cardinale canadese Edouard
Gagnon, Presidente del
Pontificio Comitato per i
Congressi Eucaristici
Internazionali. Nell’omelia
della messa celebrata in
quel giorno il settantaseienne
porporato del Québec
ricordò tra l’altro le sue precedenti visite da vescovo
a Valmontone, per tre
e Girolamo. Fu quest’ultimo probabilmente, nella seconda metà dell’Ottocento, a far costruire
nel boschetto dietro la villa la cappella di colle
Ventrano, che contiene le lapidi sepolcrali dei
suoi due figlioletti, Tonino (6 luglio-19 novembre 1878) e Teresina (21 febbraio-8 novembre
1880) e quella della cognata Olga (1858-1888),
sorella della moglie ferrarese Caterina Leonori
Del Sacco.
Foto di Francesco Fioramonti.
Bibliografia dei tre articoli sulle cone,
edicole e cappellette:
- Maria Grazia Cucco, Pietà antica sulla via dei campi, sulla rivista Famiglia Cristiana del ....
- Sergio Gittarelli, Le Madonnelle romane, da Internet
- Firenze-Oltrarno.net, I tabernacoli.
- Maria Serena Ruggeri, Evviva Maria! e Affidàti a Maria,
due articoli apparsi sulla rivista mensile valmontonese Il
Campanone, numeri 4 e 5 (maggio e luglio) 2001.
- Opuscolo celebrativo della Dedicazione della Chiesa di
S. Anna, Valmontone, 6 dicembre 1992.
- Mario Talone, La cappella di Colle Canale, su La nostra
posizione, rivista mensile del Convento S. Angelo di Valmontone,
luglio 1995.
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la vita - che hanno generato la paura di amare e di essere amati.
Per guarirle è necessario muoverci lungo due direzioni:
andare alla scoperta e l’esercizio delle potenzialità del vero Sé (la scintilla divina) ovvero i tantissimi doni e talenti di cui ci ha fornito il Signore
al nostro entrare nella vita;
prendere consapevolezza piena e lucida delle proprie ferite, immergerci in esse, con l’aiuto del gruppo e della comunità, presentarle al Medico
vero che è Gesù, perché Lui le possa sanare una ad una.
Ecco, in sintesi, il percorso: più ci si sforza di amare, più guariscono le
ferite del cuore; più guariscono le ferite del cuore, più si riesce ad amare e ad accogliere amore. Si mette così in moto il circolo virtuoso che
spezza i circoli viziosi in cui si era imprigionati.
Come avviene questo percorso di guarigione e di
apprendimento dell’Arte di amare?
In due modi: attraverso il metodo teorico-esperienziale proprio di Nuovi
Orizzonti applicato in particolare nei gruppi di formazione;
attraverso lo stile di vita comunitario e fraterno in una dinamica di formazione permanente.
Quali i mezzi?
Natalina Zanatta
L
a formazione è un percorso obbligatorio per chiunque desideri
partecipare alla vita dell’Associazione e non ha mai conclusione di sorta.
Quale il suo fondamento?
La grande rivelazione che Gesù Cristo fa all’uomo è che Dio è amore;
per questo solo imparando ad amare e a ricevere amore si può scoprire e portare a pienezza quell’immagine e somiglianza di Dio che è impressa nel cuore di ciascuno. Infatti, il bisogno fondamentale dell’esistenza
umana è il bisogno di amare e di essere amati. Nella misura in cui la
persona risponde a questo bisogno, riesce a
trovare la via non solo per l’auto-realizzazione ma addirittura per vivere la pienezza della gioia.
L’incredibile avventura di Nuovi Orizzonti è partita con un atto di fede in questa rivelazione;
tale atto di fede, per coloro che si sono lasciati coinvolgere, si è trasformato in sorprendente
realtà. Infatti, essa è diventata l’esperienza concreta di migliaia di persone disperate che, nel
momento in cui hanno iniziato ad amare e a
lasciarsi amare, hanno sperimentato una gioia
mai provata prima.
Ecco perché il Programma di formazione di
comunità si intitola: L’Arte di amare.
Quando si inizia a percorrerlo, ci si rende conto quanto complessa e difficile sia quest’arte, e quanto impegno, costanza e perseveranza richieda.
Ben presto si scopre che l’impedimento più
grave nell’amare e nell’essere amati sono le
ferite del cuore non curate – ferite inflitte
nell’infanzia e perpetuate lungo il corso del-
La novità di questo percorso sta nell’integrare diverse tecniche psicologiche al servizio dell’obiettivo della crescita e del cambiamento della
singola persona attivando un forte coinvolgimento della dimensione spirituale che è propulsiva rispetto alle altre, quella psichica e fisica.
La formazione di gruppo settimanale di conoscenza di sè, di condivisione, di spiritualità, di confronto reciproco, è teoria dinamica e pratica. Il vivere insieme, quotidianamente, in una stretta relazione di rispecchiamento, intenti tutti ad imparare l’arte di amare e di essere amati, di
curare le ferite proprie e degli altri, è una formidabile esperienza formativa
che genera rapidi cambiamenti.
Ciascuno si mette al servizio dell’altro e di sé in questa ricerca: l’altro
diventa uno strumento prezioso di scoperta di sé. Per cui, il lavoro nei
gruppi è come una miccia che accende delle dinamiche di conoscenza
e di confronto che vengono verificate e attuate nella concretezza di ogni
momento.
La quotidianità illuminata dalla Parola e compresa dalle dinamiche relazionali è dunque il luogo e il mezzo di formazione. Dio, che è Amore
e Verità piena per ogni persona umana, abita con il suo Spirito
nel cuore di ciascuno e ne trasforma l’esistenza in piena maturità di Figli di Dio.
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Edoardo Baietti
n’Aula Magna dell’Istituto
Cesare Battisti gremita di pubblico per il seminario “I giovani si esprimono”,
proposto dall’Associazione
Velletri 2030 e curato da
Amalia Diana, che ha visto la
partecipazione di esperti, artisti e numerose realtà del territorio.
Il futuro è un’incognita, e per
renderlo migliore per le nuove generazioni, l’impegno
deve coinvolgere tutti noi in prima persona.
Con l’obiettivo di creare proposte e nuove strade per far
fronte alle numerose problematiche che, per vari motivi,
riguardano i ragazzi, “I giovani
si esprimono”ha riempito il pomeriggio del 20 febbraio di relazioni, studi e momenti artistici, il tutto condito
da una nota di ottimismo e fiducia nelle iniziative della gioventù.
Amalia Diana ha coordinato i lavori e presentato i relatori, e il tutto è stato organizzato anche
grazie all’impegno di Jacopo Giammatteo, da
molti mesi attivo sul progetto . Gli intermezzi artistici curati da Edoardo Baietti hanno amalgamato musica dal vivo, teatro, canto e poesia in
un climax che, partendo da una visione pessimistica, si è snodato fino alla radiosa aspettativa ideale del nostro avvenire.
I lavori sono iniziati con un suggestivo movimento
scenico con le maschere neutre, con lo scopo
di mostrare una simbolica traccia del disagio giovanile, per poi entrare subito nel vivo con la presentazione del progetto “Velletri 2030”, ad opera del presidente Sandro Bologna.
La coordinatrice del seminario, l’infaticabile Amalia
Diana, ha spiegato le motivazioni dell’incontro,
ricordando che progettare il futuro e proporre
attivamente delle soluzioni è alla radice del cambiamento fattivo della realtà. Durante il mese precedente, presso le scuole e sul web è stato som-
U
ministrato un questionario incentrato sul rapporto
dei giovani con il territorio e sulle problematiche che vivono tutti i giorni.
Martina Tesei ha estrapolato i dati dalle risposte e durante il convegno ha brillantemente delineato i risultati, riportando per esempio che, pur
trovando i giovani vivibile la nostra città, preferirebbero volentieri trasferirsi altrove nel prossimo futuro. Giunti a questo punto, uno degli attimi fondamentali del progetto: un’attesa relazione
da parte dell’esperto psico-sociale, il dott.
Fausto Poleselli, che in un articolato discorso
ha esaminato con il rigore dello studio scientifico l’attuale situazione delle nuove generazioni nella nostra città e nell’Italia intera.
Secondo momento artistico con la lettura di due
poesie sull’angoscia portata al parossismo, e questo è stato possibile grazie alle intense interpretazioni
di Simone Bussoletti e Lucrezia Del Monte, due
giovanissimi artisti che si sono contraddistinti per
la grinta e la passione.
Sabrina Malavasi e Ylenia Gozzi, splendide e
bravissime cantanti, hanno illuminato l’intera sala
con delle stupende esibizioni, insieme al musi-
cista Michele Di Filippo.Il centro per l’impiego
è stata una delle realtà protagoniste, con la relazione della dottoressa Angela Catino.
Anche l’Amministrazione comunale, naturalmente,
è intervenuta, nelle persone della dottoressa Treggiari,
Assessore alle Politiche Culturali, e dei
Consiglieri Caprio e Pennacchi, e proprio quest’ultimo ha intensamente ricordato a tutti i giovani presenti che il futuro bisogna prenderlo, trovando il proprio spazio con la forza di volontà
e l’impegno.
Ulteriore momento artistico votato alla gioia e
utilizzato come simbolo del viaggio della vita,
un assolo del chitarrista Michele Di Filippo, che
a soli diciannove anni presenta un curriculum
artistico di tutto rispetto.
Coadiuvati dal fonico Fabrizio Malavasi, anche
la comicità è stata all’ordine del giorno, con la
rappresentazione scenica di un fittizio e folle colloquio di lavoro, con mattatori Leonardo
Angelucci, promettente diciottenne alla prima lodevole esperienza nel campo teatrale e Lucrezia
Del Monte,che hanno scatenato risate e applausi. Interessante la testimonianza da parte di Marta
D’Emilio sul progetto Policoro, che non poco aiuto offre alle nuove iniziative.
Anche i referenti della Regione con delega
dall’Assessore Lidia Ravera si sono espressi:
il dottor Pierluigi Regoli e la dottoressa
Maddalena Vianello hanno elencato le numerose iniziative messe in campo dalla Regione
Lazio a favore della creatività della gioventù.
Un convegno importante, quello curato da Amalia
Diana nella sede del “C. Battisti”, grazia alla disponibilità del dirigente scolastico Eugenio
Dibennardo, che ha visto varie realtà unite per
una finalità importante: permettere che i giovani,
unici semi della salvezza in questo mondo così
complesso, che nell’ estrema velocità si ritrova
disancorato dagli ideali, possano far germogliare
una società virtuosa.
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Antonio Venditti
I
fatti di cronaca, purtroppo negativi ed anche tragici, sono davvero inesauribili. Segno di deterioramento della nostra società, a cui vengono a mancare i principi della sana convivenza? Senz’altro, almeno
in parte; senza però dimenticare, rispetto al passato, che non si tratta di
assolute novità, ma piuttosto della risonanza mediatica, che ci fa conoscere, in tempo reale, anche fatti lontani dal nostro ambiente di vita, su
cui poi si batte e si ribatte nelle tante “trasmissioni televisive”, che ne traggono alimento; esisteva, però, una rete più stretta ed efficiente di rapporti
interpersonali, familiari e sociali, che permetteva spesso di prevenire il deterioramento delle situazioni a rischio e limitava le conseguenze irreparabili. In altre parole, nonostante le inadeguatezze culturali e legislative, l’ambiente era più morigerato e per ciò stesso educativo, nella famiglia ancora largamente patriarcale, nel vicinato, nel quartiere, nel paese in generale. Oggi esiste piuttosto una separazione, nata da volontà di vivere la
propria vita “privatamente”, senza interferenze e senza controlli; ciò si riflette sui singoli, chiusi in se stessi, anche all’interno delle proprie famiglie,
ed il bisogno di relazione si sviluppa preferibilmente attraverso la “rete”,
che, nella dimensione virtuale, sembra facilitare tutto, ma allontana dalla vita reale ed espone a non pochi rischi, piccoli e grandi.
Oggi è possibile uno stupro o un’altra violenza in pieno giorno, anche nel
centro urbano, spesso nell’indifferenza dei presenti, che allungano il passo. Il fatto, da cui traggo spunto per questa mia riflessione, è molto inquietante e diverso da tanti altri fatti, comunque non dissimili nella trama omicida. Una sedicenne muore accoltellata prima e poi bruciata, ancora viva,
dal suo fidanzato, di poco più grande. Era andato a prenderla a scuola
e, con il suo motorino, l’aveva portata in una zona isolata, dove il “fattaccio” è avvenuto in due tempi, avendo voluto l’autore occultare le prove del terribile omicidio, ammesso soltanto dopo stringenti interrogatori,
sostenuti con inaudita “freddezza” e con la continua richiesta di interruzione, perché era “stanco” e voleva “andare a dormire”.
Si deve subito rilevare la distorsione del sentimento più bello che dovrebbe legare due adolescenti in un percorso di crescita verso la scelta più
importante della vita, pur ammettendo tutte le possibili incertezze ed anche
le irreparabili rotture, nel senso che, nelle constatate “incompatibilità”, è
un segno di libertà dividersi, mantenendo o meno un semplice rapporto
di amicizia. Invece, succede esattamente il contrario.
Generazioni vissute nella cultura dell’uguaglianza, con la rivendicazione
di tutti i diritti e nella emancipazione da ogni forma di discriminazione e
di subalternità, mettono in atto comportamenti, carichi di barbarico cinismo, senza alcun rispetto della vita degli altri, come della propria, vuota
di pensiero e di sentimento. Le vittime, come sappiamo, sono quasi sempre le donne, nell’imperante maschilismo, che, invece di scomparire in
una comunità civile e democratica, sembra addirittura rinvigorito rispetto
al passato, quando la donna, nell’”accettata” dipendenza dall’uomo “padrone”, riusciva però a riemergere nella “bellezza” delle sue funzioni di “fidanzata”, di “madre”, di “sorella”, di “zia”, di “nonna”, fortemente incisive nell’assetto sociale. Ora tutto questo o non avviene o avviene con difficoltà
notevoli ed è affievolito nell’efficacia.
Alle donne, in teoria, si riconoscono parità di diritti e di opportunità; ma,
in pratica, la società “libera” non è in grado di difenderle e le manda letteralmente allo sbaraglio; dopo che le donne di ogni età sono state vittime di atroci delitti, vengono le “fiaccolate” e le manifestazioni pubbliche
di sdegno, che, ovviamente, non solo non restituiscono la vita, ma nemmeno evitano il ripetersi dei fatti delittuosi, già dal giorno successivo. Ciò
significa che si è nell’impotenza assoluta, nonostante le nuove leggi già
adottate o proposte, con l’individuazione dei reati specifici, come quello
di “femminicidio”, e l’inasprimento delle pene: ineccepibili sul piano teorico ed indici di elevatezza della cultura giuridica, ma scarsamente operose sul piano pratico, perché non liberano le donne, non soltanto dai pericoli concreti, ma nemmeno dalla insostenibile “paura”, legata alla loro stessa condizione femminile.
Occorre reagire alla dura ed inaccettabile realtà della violenza contro le
donne, secondo le norme morali e civili, ribadite proprio, nei giorni del citato ennesimo delitto, dal nostro Parlamento che ha ratificato all’unanimità la “Convenzione europea di Istambul”.
Ogni cittadino/a deve convincersi che, per invertire la mortale tendenza,
deve diventare “educatore” ed “educatrice”, prima della propria persona
e poi del prossimo, dopo aver fatto il proprio esame di coscienza, chiedendosi se i suoi sentimenti sono stati depurati da tutte le scorie inquinanti dell’attuale società.
Marzo
2014
37
Mara Della Vecchia
I
l rito cristiano nelle chiese d’oriente così differente dal rito occidentale non è il frutto di
una graduale allontanamento dalla chiesa
d’Occidente a seguito del grande scisma
d’Oriente in epoca medievale, in quanto, fin dalle origini le due liturgie hanno percorso vie differenti. In oriente ciascun rito non dipendeva direttamente da un’autorità centrale, come avveniva a Roma, dove, addirittura, si voleva imporre un rito comune a tutte le diverse comunità
cristiane; ricordiamo l’opera unificatrice del canto liturgico avviata da papa Gregorio Magno, che
poi ha dato vita al repertorio del canto gregoriano.
In Oriente, ogni Chiesa aveva diritto a una sua
propria autonomia, per questo può elaborare una
propria musica liturgica, inserendola come
meglio crede all’interno della celebrazione
liturgica; ogni Chiesa d’Oriente può attingere in
piena libertà alle proprie tradizioni popolari, alla
propria lingua.
Così mentre nella Chiesa d’Occidente la vera
difficoltà è quella di rintracciare e riconoscere
le istanze delle Chiese locali, nascoste dietro
una musica liturgica ufficiale, al contrario, nella Chiesa d’Oriente la difficoltà dei musicologi
consiste nel identificare, catalogare e collegare tra loro, gli innumerevoli elementi locali, tenendo conto della libertà e della spontaneità di cui
godevano i “compositori” orientali.
Inoltre c’è la questione della lingua utilizzata: in
Occidente, ovviamente, è il latino la lingua universalmente accettato e praticato, mentre in Oriente
non esiste un’unica lingua uguale per tutti, ma
nemmeno in via teorica come eventuale lingua
ufficiale: ogni gruppo etnico ha la sua lingua.
Tuttavia esistono anche degli elementi unificanti,
che sono fondamentali; il canto è basato ovunque sulla declamazione intonata, la cantillazio-
Corso di
Iconografia Bizantina
(Pittura arte sacra)
Dal 27 Marzo presso il laboratorio del Museo
Diocesano di Velletri si svolgerà il primo corso di iconografia bizantina del 2014.
Il corso è rivolto sia per chi è alle prime esperienze con il disegno e la pittura ma anche per tutti coloro che hanno
esperienza e vogliono approfondire la tecnica della pittura con la tempera all’uovo e doratura con foglia in oro su tavola. Per principianti il corso prevede di realizzare un icona del volto di Gesù (non
dipinto da mano d’uomo) per chi ha già
partecipato ad altri corsi verrà realizzata l’icona dell’arcangelo Michele una riproduzione dell’antica Icona del maestro
Iconografo Andrej Rublev.
ne e l’inserimento di elementi ornamentali; infine in entrambi i riti sono presenti due stili di canto importantissimi come lo stile responsoriale e
lo stile antifonale, anche se sono elementi che
la Chiesa d’Occidente ha mutuato direttamente dalla musica orientale non solo cristiana.
Altro elemento, interessante da prendere in esame per capire le differenze tra i due stili musicali è proprio il modo di cantare, ovvero l’emissione
vocale che risulta molto influenzata dagli arabi
in Oriente e caratterizzata da un’emissione nasale, completamente diversa dalla tradizione
occidentale.
Possiamo continuare a rintracciare altri spunti
di differenziazione come l’elemento ritmico e l’uso degli strumenti musicali. Una considerazione interessante è costituita anche dal rapporto
che i fedeli hanno con la musica liturgica, che
risulta molto più intimo e trascinante in Oriente,
rispetto all’Occidente, dove attraverso in secoli, i fedeli hanno gradualmente perso o dimenticato la funzione ascetica della musica nella liturgia, per ridurla a volte a un semplice intervallo
o diversivo nella declamazione delle formule liturgiche.
L’argomento è comunque molto vasto e molte
sarebbero le cose da analizzare, ma anche un
fugace sguardo su un mondo vicino e nello stesso tempo lontano da noi, può essere utile a superare incomprensioni e diffidenze.
Nell’immagine del titolo: presso il
Pontificio Collegio Greco in Roma,
Momenti dell’Epitafios Thrinos il coro
intona le strofe degli encomia.
Chi si accinge a scrivere icone risponde
ad una chiamata di Dio che “vuole farsi vedere e usa anche questi mezzi che sono si
umani, limitati, ma che tuttavia permettono che si realizzi un incontro”.
Il Senso e il valore di quest’arte ecclesiale
non è quella di trasmette la visione dell’artista ma quella di invitare a percepire
la presenza di Dio nella vita attraverso l’immagine sacra.
Il corso prevede al massimo sette allievi, gli incontri si terranno nei successivi sette giovedi dalle 15.00 alle 18.00 presso
il laboratorio. Per informazioni sulle modalità di partecipazione si può telefonare al
3341707171 oppure inviare una mail a
[email protected]
Marzo
2014
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Enrico Mattoccia
L
’interesse dell’avv. prof. Renato Mammucari
per la storia di Roma risale ai tempi
giovanili ed è rivolto a diversi campi; le
sue pubblicazioni sulla Capitale sono iniziate circa trenta anni fa e sono andate sempre crescendo,
specialmente dal 2000 in poi: è diventato un esperto eccezionale e può competere con tanti storici. Di Roma ha indagato le antichità, le caratteristiche urbane, gli abitanti, i monumenti, la
campagna, i Papi, gli scrittori che ne hanno parlato, i visitatori nei vari periodi…coloro che l’hanno rappresentata con la pittura o con altre tecniche, specialmente nell’arco di tempo che va
dal 1400 fino ali inizi del 1900.
La sua passione per Roma e le sue vicende l’ha
spinto a collezionare quadri, libri, incisioni…tutto ciò che di Roma non riguardi solo l’aspetto
esterno e la sua evoluzione, ma soprattutto che
spinga a capirne la meraviglia, il fascino,“l’atmosfera” che ispira con la sua storia…
Ciò seppero cogliere i visitatori, soprattutto nel
1700 e 1800. Visitavano Roma non solo le persone colte, ma anche migliaia e migliaia di persone comuni, specialmente in occasione di pellegrinaggi o dell’Anno Santo.
Già “fin dal Rinascimento Roma aveva rappresentato un vero e proprio crogiolo di culture” e
nel 1700 iniziò il famoso Grand Tour, la visita
che i giovani di famiglie abbienti facevano a Roma
e anche ad altre città italiane, a compimento dei
loro studi; alcuni governi finanziarono viaggi per
giovani promettenti, ma appartenenti a famiglie
modeste che
non erano in
grado di sostenere economicamente il
viaggio a
Roma. Per
alcuni il Grand
Tour era un “
bisogno esistenziale”, per
altri “un abito
mentale”.
Alcuni personaggi famosi
vissero a Roma
per anni, altri vi
rimasero per
tutta la vita.
Per farci andare oltre le rovine, le piazze,
le vie… e avvicinarci a coloro che hanno
saputo cogliere i messaggi di Roma,
l’Autore di
“Roma Incisa”
ha scelto una
serie di incisioni
che furono molto diffuse dopo l’invenzione della stampa perché permettevano una più facile riproduzione
e una maggiore diffusione;
nacquero così le litografie, le
xilografie, le acque forti…che
suscitarono e suscitano
ancora stupore ed entusiasmo. Con competenza ed
esperienza, con l’occhio del
collezionista… l’avv. prof.
Mammucari, oltre ad aver raccolto molte incisioni, è andato anche alla ricerca nei musei,
nelle pinacoteche per scegliere
quelle che più rispondessero al suo scopo: far comprendere la bellezza e grandezza di Roma anche a coloro che non sono specialisti.
Per questo ha cercato di “raccogliere” tutto: rappresentazioni del paesaggio, dei
monumenti, palazzi e basiliche…; non ha dimenticato
la fame, la guerra, i privilegi, le epidemie …ed ha
scelto le incisioni più esplicite. Per essere ancor più
preciso ha cercato di trovare il nome di ogni autore, fornire notizie su di lui e riportarle a piè di pagina di ogni
incisione, assieme al nome
dello stampatore e alle
dimensioni dell’originale. Accanto alle riproduzioni troviamo brevi notizie sul Papa del
momento con i suoi meriti o demeriti nel governo della Chiesa. Come se non bastasse, alla
fine del volume 50 pagine sono destinate ai disegnatori, incisori, editori, archeologi, geografi, cartografi che hanno realizzato o fatto conoscere
qualche opera che rappresenta un angolo, un
lavoratore, un costume, un edificio, un panorama
di Roma o del suo circondario.
Ovviamente tale lavoro ha richiesto tempo, pazienza e tenacia, ma i risultati sono eccellenti.
Il libro è non solo preciso per le notizie, ma facilmente comprensibile e attraente per le bellissime riproduzioni, parecchie anche a colori; è
un’opera completa: per le immagini, per i giudizi, per un tutto ben combinato che tocca l’intelligenza e anche il cuore e sembra avvalorare l’espressione di Winckelmann: “Tutto è
niente paragonato a Roma; solo qui ho saputo che non sapevo nulla prima di venirci”. Sembra
un po’ esagerato l’espressione dell’inglese Arthur
John Strutt : “Non sarei diventato un uomo se
non fossi venuto a Roma”, ma dimostra una immensa stima per la Città. Per chi volesse notizie più
particolareggiate e più vaste, il volume alle pagine 335-343, offre un’ampia bibliografia di
monografie, studi e saggi su Roma, con l’aggiunta di cataloghi di mostre ed esposizioni, libri
di viaggio e lettere dall’Italia. Il libro è interessantissimo, ricchissimo di notizie e curatissimo
in ogni particolare; credo che sia un vanto anche
per la nostra città. Mentre esprimo complimenti
e congratulazioni all’Autore, gli auguro anche
che molti lo acquistino.
Marzo
2014
39
Bollettino diocesano:
Prot. VSC A 03/ 2014
DECRETO DI NOMINA VICARIO PARROCCHIALE
DELLA PARROCCHIA CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA IN SEGNI
Per la facoltà datami dal can. n° 557 del Codice di Diritto Canonico, in sostituzione del rev.do P. Pablo Rossi, con il presente decreto che ha
effetto immediato,
nomino te Rev.do Marc Christiaan Petrus Kessels ive
nato a Weert in Olanda il 30.05.1980
Ord. il 06.06.2009
Vicario Parrocchiale
della Parrocchia Concattedrale di S. Maria in Segni.
Nell’attuare quanto richiesto dal Codice di Diritto Canonico in sintonia con il Parroco, ti assista la mia personale fiducia.
Velletri, 11.02.2014.
+ Vincenzo Apicella, vescovo
————————————————————————————————————
Prot. VSC A 04/ 2014
DECRETO DI NOMINA RETTORE
DELLA CHIESA DI SANTO STEFANO IN SEGNI
Per la facoltà datami dal can. n° 557 del Codice di Diritto Canonico, in sostituzione del rev.do P. Màtias Bressan, con il presente decreto che
ha effetto immediato,
nomino te Rev.do Guido Joannes Henricus Kessels ive
nato a Weert in Olanda il 30.05.1980
Ord. il 17.05.2008
Rettore
della Chiesa di Santo Stefano pm. della Parrocchia di S. Maria in Segni.
Nell’attuare quanto richiesto dal Codice di Diritto Canonico in sintonia con il Parroco, ti assista la mia personale fiducia.
Velletri, 11.02.2014.
+ Vincenzo Apicella, vescovo
Il cancelliere vescovile
Mons. Angelo Mancini
Raffaello Sanzio,
La Deposizione Borghese,
1507, olio su tavola,
Roma, Galleria Borghese.
don Marco Nemesi*
“È in questa divinissima pittura un Cristo
morto portato a sotterrare, condotta con
tanta freschezza e siffatto amore, che a
vederlo pare fatto pur ora.”
C
osì scrive Giorgio Vasari nella seconda edizione delle Vite pubblicata nel 1568.
L’opera in origine era molto più complessa, infatti, la tavola con il Trasporto di Cristo
era terminata da una cimasa con la figura dell’Eterno
(oggi alla Galleria Nazionale dell’Umbria) e poggiava su di una predella con le tre Virtù Teologali
(oggi ai Musei Vaticani).
La pala d’altare, stando alle notizie riportate da
Vasari, fu commissionata da Atalanta Baglioni,
appartenente alla celebre famiglia perugina.
Il soggetto della pala centrale, la Deposizione
di Cristo, fu probabilmente dettato dalla volontà di onorare il figlio della donna, Grifonetto, assas-
sinato nel corso di alcuni fatti di
sangue interni alla stessa famiglia per il dominio di Perugia nel
1500. Grifonetto aveva, infatti,
ucciso nel sonno con la spada
tutti i parenti maschi rivali, in occasione delle nozze “di sangue”
di suo cugino Astorre Baglioni
con Lavinia Colonna, il 15
luglio. Abbandonato dai suoi stessi familiari, compresa, la madre
inorridita per l’accaduto, era tornato a Perugia dove Giampaolo
Baglioni, miracolosamente scampato alla strage fuggendo per
tempo a Marciano, lo raggiunse e lo fece uccidere, in Corso
Vannucci. Poco prima di morire però Grifonetto fu raggiunto
dalla madre e dalla moglie,
Zenobia, che riuscirono a fargli perdonare i suoi
assassini: ormai incapace di parlare, il moribondo
toccò la mano della madre in segno di assenso al perdono. I vestiti insanguinati dell’uomo
furono quindi trasportati da Atalanta lungo la via
pubblica, e arrivata sui grandini del Duomo ve
li lasciò pronunciando solennemente: “Che questo sia l’ultimo sangue che scorre su Perugi”.
La figura della Vergine nel dipinto quindi doveva rispecchiare il dolore materno della donna.
La pala ebbe una lunga elaborazione, testimoniata da una straordinaria serie di disegni e studi in larga parte conservati: ben sedici oggi ripartiti tra l’Ashmolean Museum, il British Museum,
il cabinet des Dessins e il Gabinetto dei
continua a pag. 40
segue da pag. 39
Disegni e delle Stampe. Il soggetto fu gradualmente mutato dal Compianto sul Cristo morto
alla Deposizione nel sepolcro, fondendo più spunti. All’unione di due cartoni diversi è attribuita la
differenza proporzionale tra le figure al centro
e a sinistra e quelle a destra.
L’opera fu collocata nella cappella della famiglia nella chiesa di San Francesco al Prato, dove
si trovava già da qualche anno la Pala degli Oddi,
sempre di Raffaello. Il successo della pala aprì
le porte di Roma a Raffaello, che l’anno dopo
fu chiamato da Giulio II.
Fino al 1608 la pala rimase nella chiesa, per essere segretamente portata a Roma con la compiacenza dei frati, su richiesta di Paolo V, il quale ne fece dono al nipote, il cardinale Scipione
Borghese, che l’aveva ammirata durante i suoi
studi universitari nel capoluogo umbro.
Le proteste dei perugini non servirono ad altro
che ottenere una copia di buona fattura di Lanfranco
e forse anche una seconda del cavalier
d’Arpino, mentre il papa emanava un Breve pontificio per dichiarare la tavola “cosa privata“ del
nipote, mettendo fine in modo categorico alla
questione. La predella e le altre tavole della pala
rimasero a Perugia. La prima in particolare fu
sottratta dai francesi nel 1797.
Nel 1816 si riuscì a farla ritornare in Italia al legittimo possessore, in questo caso
il papa, quale capo della Chiesa,
ma come molte altre opere umbre
e marchigiane di pregio Pio VII decise di tenerle nella Pinacoteca vaticana piuttosto che rimandarle
nei luoghi di origine.
Più complesso è il discorso sulla
cimasa con l’Eterno benedicente:
quella che si conserva nella
Galleria nazionale dell’Umbria,
fedele a un disegno preparatorio
di Sanzio, non è affine al suo stile, essendo riferita a un aiuto del
maestro (probabilmente Domenico
Alfani), se non a un copista più tardo. Una copia antica, già a Lucca,
di dimensioni pertinenti, fu scoperta
da Camesasca ed è più conforme
ai canoni dello stile di
Raffaello/Perugino.
Il Trasporto s’ispirò alle scene antiche del Trasporto di Melagro e alla
scena nello sfondo della Cappellina
dei Corpi Santi nel Duomo di Orvieto,
affrescata da Luca Signorelli.
Altri modelli furono una Deposizione
a stampa di Andrea Mantegna e alcune opere
di Michelangelo, per gli atteggiamenti di alcune figure. Tre uomini, Giuseppe d’Arimatea, san
Giovanni e Nicodemo, stanno portando il corpo morto di Cristo nel sepolcro a sinistra. Essi
sono rappresentati inarcati dallo sforzo di trascinare il pesante corpo senza vita e sono ritratti con espedienti che amplificano il senso del movi-
mento (come l’espediente di far salire i gradini
alle figure di sinistra) e le espressioni concitate. Al centro Maddalena prende la mano di Gesù
(in un disegno preparatorio gliela bacia) mentre accarezza i suoi bei lineamenti. L’alberello
segna l’asse di simmetria, punto di equilibrio; il
movimento è dato dall’inarcarsi del profilo del
giovane la cui gamba sinistra, ben piantata in
verticale sul terreno, segna il fulcro dell’equilibrio statico, altrimenti compromesso.
In particolare spicca il personaggio al centro della composizione, da alcuni indicato come un ritratto di Grifonetto Baglioni, immortalato da
Raffaello nel giovane di profilo che regge Cristo
con il drappo funebre, come testimonia un passaggio del Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde:
“... Grifonetto Baglioni col suo giustacuore trapunto, il berretto gemmato e i ricci in forma di
acànto, che uccise Astorre con la sposa e Simonetto
col suo paggio, e che era di una tale bellezza
che quando giacque morente nella piazza gialla di Perugia coloro che l’avevano odiato non
potevano trattenere le lacrime e Atalanta, che
l’aveva maledetto, lo benedisse”.
Il figlio morto è rappresentato da un giovane dal
bellissimo profilo, con le labbra piene e rosse
di un adolescente. Il collo, le braccia forti e ben
formate, le calzature eleganti e la statura superiore a quella di ogni altro personaggio, ne fanno il protagonista del gruppo. Il suo sforzo fisico sottolinea la concretezza carnale del corpo
di Cristo e la tragedia umana della sua morte.
A destra si trova il gruppo delle pie donne sotto la croce (collegato al Calvario in collina con
le tre croci) che sostengono la Vergine svenuta, tenuta alla vita dalla donna dietro di lei, mentre una le regge il capo reclinato sulla spalla e
l’altra inginocchiata allunga le braccia per
sostenerla. Quella in ginocchio ha un movimento
“a serpentina”, ispirato al Tondo Doni di
Michelangelo. Altri echi michelangioleschi si colgono nel corpo abbandonato di Gesù, simile a
quello della Pietà vaticana e nel trasportatore vestito di giallo e verde,
che s’ispirò alla torsione dell’incompiuto
San Matteo del Buonarroti.
I due gruppi principali sono raccordati dal giovane trasportatore, che
si proietta all’indietro. Lo straordinario
paesaggio asseconda ritmicamente la composizione: se l’oscuro sepolcro nella roccia aiuta a risaltare i personaggi a sinistra, a destra le figure sono davanti alla collina del Golgota,
mentre al centro la veduta si apre
con ampio respiro su una veduta di
colline punteggiate dalla presenza
umana, con l’immancabile specchio
d’acqua e con lontane montagne azzurrine, velate di foschia.
In primo piano le pianticelle rappresentate con cura rimandano
all’esempio di Leonardo da Vinci.
Straordinaria è la ricchezza dei colori, quasi smaltati, così come la plasticità data dal forte chiaroscuro, che
dà alle figure una monumentalità statuaria, e la concatenazione di
gesti, sguardi e attitudini, che ne fanno uno dei capolavori dell’artista. Di grande effetto è la resa dei corpi umani nelle svariate posizioni, con attenzione alla resa anatomica, ma
anche all’armonia e alla varietà.
*Direttore dell’Ufficio diocesano Beni Culturali,
Chiese e Arte Sacra