QUADERN / MERCOLEDÌ, 08 APRILE 2015 ILCASODELGIORNO PRIMOPIANO Deducibili i costi per una “vendor due diligence” Scorporo di interessi impliciti con regole ad hoc per debiti e crediti commerciali / Marco MARANI Nel campo dell’M&A ogni processo di acquisizione societaria è caratterizzato, tanto dal lato del venditore che da quello dell’acquirente, dal sostenimento di costi per consulenze propedeutiche alla transazione. È prassi che l’acquirente demandi a consulenti di propria fiducia l’indagine degli aspetti significativi del target (cosiddetta “acquisition due diligence”). Ed è altrettanto usuale che la medesima attività sia svolta anche dal venditore, interessato a far emergere i punti di forza della controllata oggetto di trattativa (c.d. “vendor due diligence”). In quest’ottica, un tema particolare riguarda la deducibilità fiscale dei costi sostenuti per la vendor due diligence richiesta dalla controllante su una propria partecipata la cui cessione soggiace al regime della participation exemption. Il tema è delicato e di non pronta soluzione, [...] Gli OIC 19 e 15 stabiliscono le regole e le condizioni al ricorrere delle quali devono essere scorporati gli interessi passivi e attivi impliciti / Fabrizio BAVA e Alain DEVALLE L’OIC 19 prevede, quale regola generale, che la componente di costo relativa all’acquisizione di beni o servizi sia scorporata rispetto alla componente di natura finanziaria. I debiti commerciali che originano dall’acquisizione di beni e servizi rappresentano “obbligazioni di pagamento a termine a fronte dell’acquisizione di beni e servizi”. Il pagamento a termine comporta una dilazione nell’esborso finanziario da parte dell’acquirente e, abitualmente, le parti tengono conto di un’adeguata remunerazione, rappresentata dall’interesse o dal corrispettivo finanziario per la disponibilità di denaro a scadenza (§ 39). Pertanto, l’OIC 19 stabilisce che, per il principio della competenza e il principio della prudenza, al momento della rilevazione iniziale del debito, si effettui lo scorporo degli interessi passivi impliciti inclusi nel costo di acquisizione di beni o della prestazione di servizi, qualora siano soddisfatte entrambe le seguenti condizioni (§ 41): - il valore nominale dei debiti eccede significativamente il prezzo di mercato del bene con pa- A PAGINA 2 A PAGINA 3 INEVIDENZA IMPRESA Controlli dei sindaci sui contratti pubblici con il concordato in continuità Arrivano le Scuole di alta formazione per commercialisti Tassa di vidimazione annuale alla prova del ravvedimento operoso / Michele BANA La qualificazione del procedimento non è l’unico criterio per il “ne bis in idem” Bonus investimenti con problemi ancora aperti Agenzie territoriali per la casa esenti IMU ALTRENOTIZIE gamento a breve termine; tale circostanza si realizza nel caso in cui il debito non preveda esplicitamente un interesse passivo oppure nel caso in cui sia corrisposto un interesse irragionevolmente basso; - la dilazione concessa è superiore ai 12 mesi. Lo scorporo degli interessi passivi inclusi nel costo d’acquisto di beni o servizi non si applica, invece, nei seguenti casi (§ 49): - acconti e, in generale, ammontari che non richiedono restituzione in futuro; - debiti che hanno un tasso d’interesse basso quando vi sono garanzie o cauzioni ricevute da terzi o specifiche norme di legge. Il tema dello scorporo degli interessi impliciti è anche disciplinato dall’OIC 15 per quanto riguarda i crediti. Se le condizioni di pagamento sono molto lunghe, è necessario scorporare dal valore nominale del credito la componente relativa alla vendita del bene e quella relativa all’aspetto finanziario (l’interesse). Si pensi, ad esempio, ai casi in cui, nelle [...] / A PAGINA 11 La bozza dei “Principi di comportamento del collegio sindacale di società non quotate”, emanata dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili e in consultazione fino al prossimo 21 aprile, prevede, tra l’altro, l’introduzione di una nuova norma, la 11.7, dedicata appositamente all’attività di controllo da esercitare qualora la società depositi un piano di concordato preventivo con continuità aziendale, per la prosecuzione dell’attività d’ [...] A PAGINA 5 ancora IL CASO DEL GIORNO Deducibili i costi per una “vendor due diligence” Tali costi sono estranei rispetto alla “ricchezza” passata o futura della partecipata / Marco MARANI Nel campo dell’M&A ogni processo di acquisizione societaria è caratterizzato, tanto dal lato del venditore che da quello dell’acquirente, dal sostenimento di costi per consulenze propedeutiche alla transazione. È prassi che l’acquirente demandi a consulenti di propria fiducia l’indagine degli aspetti significativi del target (cosiddetta “acquisition due diligence”). Ed è altrettanto usuale che la medesima attività sia svolta anche dal venditore, interessato a far emergere i punti di forza della controllata oggetto di trattativa (c.d. “vendor due diligence”). In quest’ottica, un tema particolare riguarda la deducibilità fiscale dei costi sostenuti per la vendor due diligence richiesta dalla controllante su una propria partecipata la cui cessione soggiace al regime della participation exemption. Il tema è delicato e di non pronta soluzione, considerato un contesto normativo non proprio immediato. Da un lato, l’art. 86 comma 2 del TUIR, applicabile anche in ipotesi di pex, dispone che la plusvalenza è “costituita dalla differenza tra il corrispettivo conseguito, al netto degli oneri accessori di diretta imputazione, ed il costo non ammortizzato”. Detti oneri sono quindi deducibili nella stessa misura in cui è imponibile la plusvalenza, e ciò a prescindere dal trattamento contabile adottato. Dall’altro, l’art. 109 comma 5 del TUIR ammette la deducibilità dei costi se e nella misura in cui si riferiscono “ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”. Si tratta di una norma che mira al tema della deduzione dei costi relativi a elementi positivi di reddito esenti da imposizione, in particolare mira a evitare arbitraggi in cui la deduzione di costi correlati a ricavi esenti azzeri i ricavi imponibili. In quest’ottica, la qualificazione dei proventi derivanti dalla cessione di partecipazioni pex come esenti anziché esclusi (come previsto per i dividendi) comporta l’indeducibilità dei costi ad essi riferiti. Nel silenzio di una definizione da parte del TUIR, ci si chiede se i costi per una vendor due diligence debbano essere considerati quali oneri accessori di diretta imputazione, scontando così un regime di deducibilità limitata. La risposta (negativa) all’interrogativo può trovare fondamento in due strade. Dal punto di vista normativo, occorre rifarsi a uno dei principi direttivi contenuti nella legge delega n. 80 del 2003 per la riforma del sistema fiscale, ossia a quello dell’“indeducibilità dei costi direttamente connessi con la cessione di partecipazioni che si qualificano per l’esenzione”. / EUTEKNEINFO / MERCOLEDÌ, 08 APRILE 2015 Nell’ottica del legislatore delegante, devono soffrire dell’indeducibilità i soli costi che si vengono a sostenere “in occasione” della cessione, nel momento materiale della cessione, dunque i costi direttamente dipendenti dall’atto di cessione (e non anche le spese sostenute per le attività propedeutiche, che possono o non possono esser svolte). Cosa diversa sono i costi per la vendor due diligence, solo eventuali e non indispensabili, che possono esser sostenuti in una fase preparatoria dell’operazione di cessione. Questa, peraltro, la lettura alla questione data dalla sentenza della C.T. Reg. di Roma n. 225 del 27 settembre 2011, unico precedente pubblico sulla materia, rilevatosi a favore del contribuente essendo passata in giudicato. Una seconda chiave di lettura può aversi considerando la valenza sistematica della pex, che rappresenta un criterio di coordinamento tra la tassazione delle società che produce il reddito e quella del socio. La tendenziale irrilevanza fiscale dei capital gain realizzati dal socio è infatti lo strumento che consente di evitare doppie imposizioni rispetto ai flussi reddituali connessi alla partecipazione. Il capital gain realizzato dal socio trova infatti origine nelle riserve di utili già tassate dalla controllata ovvero in prospettive di utili futuri, che saranno tassati a tempo debito. La pex, insomma, non è un’esenzione bensì una tecnica tributaria per evitare doppie tassazioni (o doppie deduzioni) tra società e soci. In quest’ottica, è facile convenire sul fatto che i costi per una vendor due diligence non hanno alcun rapporto di causaeffetto con il valore del capital gain, non essendoci così alcuna giustificazione logica per assoggettarli al medesimo trattamento fiscale applicabile alla plusvalenza. Posto che la plusvalenza pex non viene tassata in capo al socio venditore poiché questa altro non è che il riflesso di un reddito già tassato o che lo sarà in futuro, i costi di una vendor due diligence sono invece del tutto estranei rispetto alla “ricchezza” passata o futura della partecipata, essendo peraltro imponibili in capo allo studio professionale o alla società di revisione che svolge la consulenza. Rendere tali costi indeducibili, peraltro, vorrebbe dire creare una frattura rispetto a quanto era previsto prima della riforma del 2003, ove il coordinamento tra tassazione della società e quella dei soci avveniva attraverso il sistema del credito d’imposta. Spese come quelle per una vendor due diligence erano considerate pacificamente deducibili; al di là della diversa tecnica tributaria di coordinamento tra società e soci, nulla è cambiato. / 02 ancora CONTABILITÀ Scorporo di interessi impliciti con regole ad hoc per debiti e crediti commerciali Gli OIC 19 e 15 stabiliscono le regole e le condizioni al ricorrere delle quali devono essere scorporati gli interessi passivi e attivi impliciti / Fabrizio BAVA e Alain DEVALLE L’OIC 19 prevede, quale regola generale, che la componente di costo relativa all’acquisizione di beni o servizi sia scorporata rispetto alla componente di natura finanziaria. I debiti commerciali che originano dall’acquisizione di beni e servizi rappresentano “obbligazioni di pagamento a termine a fronte dell’acquisizione di beni e servizi”. Il pagamento a termine comporta una dilazione nell’esborso finanziario da parte dell’acquirente e, abitualmente, le parti tengono conto di un’adeguata remunerazione, rappresentata dall’interesse o dal corrispettivo finanziario per la disponibilità di denaro a scadenza (§ 39). Pertanto, l’OIC 19 stabilisce che, per il principio della competenza e il principio della prudenza, al momento della rilevazione iniziale del debito, si effettui lo scorporo degli interessi passivi impliciti inclusi nel costo di acquisizione di beni o della prestazione di servizi, qualora siano soddisfatte entrambe le seguenti condizioni (§ 41): - il valore nominale dei debiti eccede significativamente il prezzo di mercato del bene con pagamento a breve termine; tale circostanza si realizza nel caso in cui il debito non preveda esplicitamente un interesse passivo oppure nel caso in cui sia corrisposto un interesse irragionevolmente basso; - la dilazione concessa è superiore ai 12 mesi. Lo scorporo degli interessi passivi inclusi nel costo d’acquisto di beni o servizi non si applica, invece, nei seguenti casi (§ 49): - acconti e, in generale, ammontari che non richiedono restituzione in futuro; - debiti che hanno un tasso d’interesse basso quando vi sono garanzie o cauzioni ricevute da terzi o specifiche norme di legge. Il tema dello scorporo degli interessi impliciti è anche disciplinato dall’OIC 15 per quanto riguarda i crediti. Se le condizioni di pagamento sono molto lunghe, è necessario scorporare dal valore nominale del credito la componente relativa alla vendita del bene e quella relativa all’aspetto finanziario (l’interesse). Si pensi, ad esempio, ai casi in cui, nelle vendite nei confronti della Pubblica Amministrazione, il prezzo viene definito prevedendo una maggiorazione in considerazione dei lunghi termini di incasso. Lo scorporo degli interessi attivi dal ricavo di vendita non si applica: - agli acconti e, in generale, agli ammontari che non richiedono restituzione in futuro, ad esempio i depositi o i paga/ EUTEKNEINFO / MERCOLEDÌ, 08 APRILE 2015 menti parziali a fronte di costruzioni in corso, gli anticipi per l’acquisto di beni e servizi, ecc.; - ai crediti che hanno un tasso d’interesse basso per effetto di specifiche norme di legge; - agli ammontari che intendono rappresentare garanzie o cauzioni date all’altra parte di un contratto, quali i depositi, la parte di un credito che verrà incassata alla scadenza del periodo di garanzia, ecc. Nel caso di crediti commerciali con scadenza superiore ai 12 mesi senza la corresponsione di interessi (o con interessi molto bassi), è necessario rilevare distintamente: - il ricavo relativo alla vendita del bene a pronti o alla prestazione di servizi, in base all’ammortare che si otterrebbe per una vendita a breve termine; - gli interessi attivi impliciti relativi alla dilazione di pagamento, per differenza rispetto al valore sopra determinato. Gli interessi attivi devono essere contabilizzati in applicazione del principio di competenza con riferimento al periodo della durata del credito. Gli interessi attivi scorporati e il relativo tasso devono essere determinati al momento dell’iscrizione iniziale e non devono più essere rideterminati successivamente. Il tasso di interesse da utilizzare per determinare il corrispettivo a pronti deve essere individuato attraverso un’appropriata valutazione. In particolare, tale tasso dovrebbe approssimare il tasso che sarebbe stato individuato tra due parti indipendenti nella negoziazione di “un’operazione similare con termini e condizioni comparabili con l’opzione di pagare un prezzo a pronti o un prezzo a termine e tale ultimo prezzo avesse tenuto conto di un appropriato tasso d’interesse di mercato per il tempo della dilazione”. Tale tasso può “corrispondere al saggio d’interesse di mercato prevalente per il finanziamento di crediti con dilazione ed altri termini e caratteristiche similari”. Qualora l’ottenimento di tale tasso sia significativamente oneroso, “è possibile fare riferimento al tasso per l’approvvigionamento di fondi esterni per il finanziamento della gestione tipica o caratteristica dell’impresa (esclusi quindi i prestiti per il finanziamento di immobilizzazioni tecniche), come ad esempio scoperti bancari, anticipazioni finanziarie, ecc.”. Il tasso di attualizzazione può, pertanto, rappresentare il costo medio dei finanziamenti utilizzati per finanziare la produzione. Il tasso utilizzato è relativo alla data dell’operazione e, / 03 ancora quindi, non subirà modifiche durante la “durata del credito”. Qualora l’impresa sia a conoscenza, già al momento della stipula del contratto, che, nonostante la scadenza inferiore all’anno (specificatamente indicata nel contratto), il credito sarà incassato in un tempo significativamente superiore all’anno, tale credito deve essere attualizzato. I crediti finanziari a media/lunga scadenza che non prevedono la corresponsione di interessi (o con interessi irragionevolmente bassi) devono essere rilevati al loro valore nomi- / EUTEKNEINFO / MERCOLEDÌ, 08 APRILE 2015 nale e, considerato che non derivano da operazioni di scambio di beni e servizi, l’OIC 15 precisa che “non richiedono al momento della rilevazione iniziale la scissione tra il valore del bene/servizio e la componente finanziaria”. Nel caso in cui, però, la componente finanziaria – data dalla differenza tra il valore nominale del credito e il valore attuale dei flussi finanziari derivanti dal credito – sia rilevante, deve essere riportata l’informativa nella Nota integrativa. / 04 ancora IMPRESA Controlli dei sindaci sui contratti pubblici con il concordato in continuità La verifica di legalità riguarda anche le specifiche attestazioni prescritte dalla normativa / Michele BANA La bozza dei “Principi di comportamento del collegio sindacale di società non quotate”, emanata dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili e in consultazione fino al prossimo 21 aprile, prevede, tra l’altro, l’introduzione di una nuova norma, la 11.7, dedicata appositamente all’attività di controllo da esercitare qualora la società depositi un piano di concordato preventivo con continuità aziendale, per la prosecuzione dell’attività d’impresa, da parte del medesimo imprenditore, oppure la cessione o il conferimento dell’azienda in esercizio. In primo luogo, i sindaci, tempestivamente informati della delibera della società di depositare in tribunale tale proposta, devono vigilare sull’adeguatezza degli assetti in relazione all’esigenza di continuare l’attività d’impresa, ovvero dell’opportunità di porre in essere altre operazioni che assicurino comunque la continuità. I sindaci devono, inoltre, svolgere un controllo di legalità sull’osservanza della normativa di riferimento, in particolare dell’art. 186-bis del RD 267/1942, introdotto dal DL 83/2012, che consente al debitore di continuare ad operare, pur potendo cedere i beni non funzionali all’esercizio dell’impresa: a questo proposito, la norma CNDCEC 11.7 raccomanda ai sindaci di verificare che, durante la liquidazione, vengano rispettati i tempi e i contenuti prospettati nel piano. La prosecuzione dell’attività comporta, inoltre, l’assolvimento di un duplice onere, il cui adempimento deve essere monitorato dall’organo di controllo: - il piano depositato dalla società deve contenere un’analitica descrizione dei costi e ricavi attesi in virtù della predetta continuazione, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura; - la relazione del professionista di cui all’art. 161, comma 3 della L. fall. deve attestare che la prosecuzione dell’attività d’impresa, prevista dal piano di concordato, è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori. Conseguentemente, i sindaci – oltre a verificare che l’attestatore sia in possesso dei requisiti previsti dall’art. 67, comma 3, lett. d) della L. fall. – devono riscontrare che tale professionista abbia asseverato, non solo la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano, ma pure che la prosecuzione dell’attività rappresenti la soluzione più conveniente per i creditori, rispetto alle alternative concretamente praticabili, ovvero quelle di natura meramente liquidatoria (concordato con cessione dei beni o fallimento). La società può, inoltre, beneficiare – salvo che si sia avvalsa / EUTEKNEINFO / MERCOLEDÌ, 08 APRILE 2015 della facoltà di deposito dell’istanza di sospensione o scioglimento di cui all’art. 169-bis della L. fall. – della prosecuzione dei contratti in corso di esecuzione alla data di presentazione del ricorso per concordato preventivo, anche se stipulati con pubbliche amministrazioni. L’ammissione alla procedura concorsuale non impedisce, infatti, la continuazione dei contratti pubblici, purché il predetto professionista ne attesti la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento (art. 186-bis, comma 3 della L. fall.): i sindaci sono, pertanto, tenuti a verificare che tale asseverazione sia stata rilasciata e risulti allegata al piano. Continuazione dei contratti pubblici se è attestata la conformità al piano Analoga attività di controllo deve essere svolta qualora ricorra l’ipotesi di cui al successivo comma 5, ovvero la società deliberi di partecipare a nuove procedure di affidamento dei contratti pubblici: in tale eventualità, è altresì indispensabile che, al momento della partecipazione in parola, i sindaci verifichino che la società presenti in gara – oltre all’attestazione di cui al precedente comma 3 – la dichiarazione di un altro operatore, munito delle necessarie credenziali di carattere generale, di capacità finanziaria, tecnica economica e di certificazione, pretese per l’affidamento dell’appalto. Si tratta di un impegno, nei confronti del committente e della stazione appaltante, a mettere a disposizione, per la durata del contratto, le risorse necessarie all’esecuzione dello stesso ed a subentrare all’impresa ausiliata, qualora venga dichiarata fallita nel corso della gara o dopo la stipulazione del contratto, ovvero non sia più in grado, per qualsiasi motivo, di dare regolare esecuzione al contratto (c.d. “avvalimento” di cui all’art. 49 del DLgs. 163/2006): i sindaci devono, inoltre, valutare il contenuto formale della predetta dichiarazione. La norma CNDCEC 11.7 precisa, infine, che – nel caso in cui la società in concordato in continuità concorra a procedure ad evidenza pubblica, riunita in raggruppamento temporaneo di imprese – l’organo di controllo deve verificare l’osservanza dell’art. 186-bis, comma 6 della L. fall.: in altri termini, i sindaci, previamente informati della costituzione dell’ATI, sono tenuti a vigilare che la società abbia assunto obblighi esclusivamente in qualità di mandante e che le altre imprese aderenti all’associazione non risultino assoggettate a procedura concorsuale. / 05 ancora PROFESSIONI Arrivano le Scuole di alta formazione per commercialisti Saranno 14 in tutta Italia e rilasceranno degli attestati valevoli per il futuro riconoscimento ai professionisti di una specifica specializzazione / Savino GALLO Preannunciato nel corso dell’Assemblea dei Segretari di fine marzo (si veda “Cambia la formazione professionale dei commercialisti” del 27 marzo), il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili vara il progetto relativo alle scuole di specializzazione. Si chiameranno SAF (Scuola di Alta Formazione) e saranno in tutto 14: tre nelle grandi Città metropolitane (Milano, Roma e Napoli) ed altre 11 su tutto il territorio nazionale, suddiviso per macro-aree in base al numero di iscritti. In ognuna di esse, gli iscritti alle sezioni A e B dell’Albo (ma non è escluso che in futuro potranno essere accessibili anche ai tirocinanti), potranno seguire dei corsi di formazione altamente qualificati, propedeutici al riconoscimento di una specializzazione nell’ambito che si è deciso di approfondire. Tali scuole, spiega il Presidente del CNDCEC, Gerardo Longobardi, “puntano sia a creare nuove opportunità di lavoro per i commercialisti, sia a migliorare la qualità delle prestazioni professionali offerte dagli iscritti nei nostri Albi. Questo progetto arriva subito dopo l’approvazione, da parte del Consiglio nazionale, del nuovo regolamento della formazione professionale continua della categoria, con la quale abbiamo previsto una separazione tra aggiornamento e formazione, in un’ottica già tutta votata alle specializzazioni. Le SAF completeranno il quadro dell’offerta formativa, puntando a definire i caratteri tecnico-culturali della professione del futuro”. “Nella nostra visione – aggiunge Massimo Miani, Consigliere del CNDCEC delegato alla materia –, nei prossimi anni ci saranno sempre più società tra professionisti e studi associati, ed è difficile immaginare che in tali studi si possa entrare avendo delle competenze generiche, facendo anche fatica a trovare una propria dimensione all’interno. Noi immaginiamo che l’inserimento dovrà avvenire per competenza specifica, ovvero con dei giovani che sono già specializzati in un determinato ambito e in grado, sin da subito, di apportare valore”. In questo contesto, vengono introdotti i corsi di alta formazione, più assimilabili a master universitari che a corsi di formazione come oggi comunemente intesi, pur valendo a tutti gli effetti ai fini del raggiungimento del monte crediti previsto per il triennio: “Ma in questo caso – sottolinea Miani – lo stimolo non saranno i crediti formativi. Si tratterà di corsi strutturati su almeno 100 ore di lezione, quindi lo stimolo vero sarà quello di cercare delle nuove aree di / EUTEKNEINFO / MERCOLEDÌ, 08 APRILE 2015 specializzazione per poi vedersele riconosciute in futuro”. Un riconoscimento che, al momento, non è ancora possibile, perché servirebbe una modifica al DLgs. 139/2005 e, dunque, il necessario assenso del Ministero della Giustizia, con cui, nei prossimi mesi, inizierà il dialogo sul tema: “Lavoreremo affinché – fa sapere Miani –, nell’ambito del lavoro organico di revisione del nostro ordinamento professionale cui ci dedicheremo nei prossimi mesi, venga contemplata la possibilità che le attestazioni rilasciate al professionista possano essere equiparate ai titoli di specializzazione. Ma andremo a chiedere tale riconoscimento solo dopo aver dimostrato di aver tracciato un percorso specifico sull’alta formazione e che tale percorso funziona, perché i colleghi si stanno specializzando”. Nell’attesa, il Consiglio nazionale rilascerà degli attestati di partecipazione (in base ad un regolamento che sarà emanato nei prossimi mesi) e pubblicherà sul proprio portale l’elenco degli iscritti che lo hanno conseguito, suddivisi per area geografica e di specializzazione. A livello organizzativo, invece, il progetto verrà interamente curato dal nascituro “Coordinamento permanente SAF”, del quale faranno parte un rappresentante per ogni macroarea territoriale, il Presidente e due Consiglieri del CNDCEC, e due rappresentanti della Fondazione nazionale di categoria, espressi dal CdA in carica. In fase di start up, il Coordinamento si occuperà di promuovere la nascita delle scuole (per le quali il Consiglio nazionale ha stanziato poco meno di un milione di euro l’anno per i primi due anni di attività) in sinergia con gli Ordini locali, di valutare gli stati di avanzamento dei singoli progetti e, infine, di sviluppare i rapporti di collaborazione con le Università per la stipula delle convenzioni con le SAF. Dopo la loro costituzione, ci sarà da redigere il regolamento di funzionamento interno e il progetto formativo dettagliato suddiviso per materie. Un progetto che sarà, per grandi linee, simile per tutte le scuole, ma ognuna potrà avere dei corsi di specializzazione “particolari”, anche in virtù delle peculiari attività che si svolgono su quel determinato territorio. Poi, non resterà che iniziare. I primi corsi, presumibilmente, partiranno ad ottobre e, per parteciparvi, sarà necessario corrispondere un contributo di iscrizione, destinato “esclusivamente” alla copertura delle spese organizzative, dato il carattere non lucrativo delle scuole di alta formazione. / 06 ancora FISCO Tassa di vidimazione annuale alla prova del ravvedimento operoso Non è affatto scontato il regime sanzionatorio scaturente dal mancato pagamento della tassa annuale / Alfio CISSELLO L’obbligo di versamento annuale della tassa di concessione governativa sulla vidimazione dei libri sociali, che va eseguito dalle società di capitali, scadeva il 16 marzo (si veda “Libri sociali, tassa forfetaria annuale entro il 16 marzo” del 20 febbraio 2015). L’obbligo di pagamento deriva dall’art. 23 della Tariffa allegata al DPR 641/72, e l’importo è individuato in 309,87 euro se il capitale sociale o fondo di dotazione è inferiore o uguale a 516.456,90 euro, o in 516,46 euro se i menzionati parametri sono superiori. Scaduto il termine per il versamento, per coloro i quali non vi hanno provveduto tempestivamente si aprono le porte del ravvedimento operoso. Adesso, i problemi cominciano dal modo in cui si devono pagare le imposte. Come avevamo evidenziato nel 2000 (si veda l’apposita scheda di commento su diverse risposte a quesiti fornite dall’allora vigente Direzione centrale riscossione del Ministero delle Finanze), occorre, per ravvedersi, utilizzare sia il modello F24 sia il modello F23: - tramite il modello F24, si paga la tassa cumulativamente con gli interessi, indicando il codice tributo “7085”, istituito con la circolare n. 4 del 1996; - tramite il modello F23, si paga la sanzione, con codice tributo “678T”, con causale “SZ” indicando il codice della Direzione provinciale dell’Agenzia delle Entrate competente. La “duplicazione” del pagamento deriva dal fatto che, nella riforma della riscossione del 1997, forse per una svista, il codice “7085”, istituito come visto in precedenza, è confluito nel sistema del modello F24, mentre per la sanzione è rimasto il codice “678T”, utilizzabile come intuibile solo con il modello F23. Ardua è, poi, la delineazione della sanzione. L’art. 9 del DPR 641/72 stabilisce: “chi esercita un’attività per la quale è necessario un atto soggetto a tassa sulle concessioni governative senza aver ottenuto l’atto stesso o assolta la relativa tassa, è punito con la sanzione amministrativa dal cento al duecento per cento della tassa medesima e, in ogni caso, non inferiore a lire duecentomila”. Nessun problema per le tasse che si pagano una volta sola, o per la tassa che si paga per la prima volta (pensiamo alla tassa da pagare quando si istituiscono i libri contabili). Quid iuris per la tassa che va pagata annualmente, in forza del combinato disposto dell’art. 2 e delle norme contenute nella Tariffa allegata al DPR 641/72? / EUTEKNEINFO / MERCOLEDÌ, 08 APRILE 2015 Da quanto riportato sul sito dell’Agenzia delle Entrate la sanzione è sempre quella dell’art. 9, non rientrando la fattispecie nell’art. 13 del DLgs. 471/97, che punisce ogni mancato pagamento di un tributo nella misura del 30%. Non è però così scontato, tant’è vero che, prima della riforma del DLgs. 473/97, la situazione del tardivo pagamento della tassa annuale era disciplinata dal richiamato art. 9, ed era punita con una soprattassa di entità più lieve. Alcuni commentatori, con un’interpretazione che pare più corretta, hanno sostenuto che l’omesso pagamento della tassa annuale rientra non nell’art. 9 del DPR 641/72 bensì nell’art. 13 del DLgs. 471/97, norma che, dopo il 1997, disciplina tale violazione per tutti i tributi, a prescindere dal fatto che sia contemplata dalla legge istitutiva dei medesimi. Ora, se si rientra nell’omesso pagamento ex art. 13 del DLgs. 471/97, non solo la sanzione sarebbe parametrata al 30% del tributo non versato, ma opererebbe la riduzione a 1/15 per giorno di ritardo e (ma su questo si potrebbe discutere) sarebbe inibita la definizione agevolata. Per contro, se si opta per l’art. 9 del DPR 641/72, tecnicamente la violazione è un omesso assolvimento della tassa e non un omesso pagamento, quindi, da un lato, il ravvedimento non potrebbe avvenire ai sensi della lettera a) dell’art. 13 del DLgs. 472/97 (circoscritta al caso delle violazioni sui versamenti), dall’altro, nessun dubbio dovrebbe sussistere per la definizione agevolata. Il ravvedimento, se posto in essere ad esempio entro dieci giorni dalla scadenza, dovrebbe a questo punto avvenire con riduzione della sanzione del 100% a 1/9 e non a 1/10 del minimo. La situazione sembra simile al registro sulle locazioni, ove il tributo può essere corrisposto all’atto della registrazione e annualmente (il mancato versamento dell’imposta annuale non dà luogo all’omessa registrazione ma al tardivo versamento). Premesso ciò, non si hanno notizie su disconoscimenti del ravvedimento con riduzione a 1/10 ai sensi della lettera a). A prescindere da come si intenda inquadrare la violazione, si tratta, per la tassa sulla vidimazione dei libri sociali, di tributo amministrato dall’Agenzia delle Entrate, per cui non dovrebbero esservi dubbi sull’applicabilità “intera” dell’art. 13 del DLgs. 472/97, come riformato dalla L. 190/2014. Quindi, il ravvedimento operoso, in sostanza, può avvenire sino alla notifica dell’atto di recupero dell’imposta. / 07 ancora IMPRESA La qualificazione del procedimento non è l’unico criterio per il “ne bis in idem” L’orientamento della CEDU inizia far breccia nella giurisprudenza italiana / Maria Francesca ARTUSI La corretta applicazione del principio del ne bis in idem (di cui all’art. 4 del Protocollo 7 della CEDU) ripropone un mai sopito dibattito sia a livello internazionale che a livello nazionale ogniqualvolta vi sia la possibilità di esperire procedimenti paralleli al processo penale in relazione ai medesimi fatti materiali (si pensi, in Italia, alle sanzioni comminabili dalla Consob o dalle Commissioni tributarie). La Corte europea dei diritti dell’uomo, nella causa Kiiveri v. Finlandia del 10 febbraio 2015, torna ad occuparsi della violazione del ne bis in idem proprio in relazione al doppio binario penale-amministrativo previsto in materia tributaria. Il fatto portato all’attenzione della Corte riguarda il socio e amministratore di una società a responsabilità limitata, accusato, in sede tributaria, per aver falsamente dichiarato i propri redditi e per aver pagato “in nero” i dipendenti, nonché, in sede penale, per i reati di frode fiscale e di accounting offence (irregolare tenuta della contabilità). Il caso concreto offre l’occasione per ribadire che la qualificazione legale del procedimento non può essere l’unico criterio per la valutazione del ne bis in idem; altrimenti l’ambito di operatività di tale principio sarebbe nella totale discrezione dei singoli Stati. Vi sono invece altri due criteri (alternativi e non necessariamente cumulativi) che si uniscono a questo (i c.d. “Engel criteria”): la natura dell’illecito e il grado di afflittività delle sanzioni applicabili. Si tratta, effettivamente, di un orientamento che può definirsi consolidato in ambito comunitario (Nikänen c. Finlandia; Lucky Dev c. Svezia) in particolare con riferimento al concetto di “medesimo fatto”. A partire dal 2009, infatti, con un importante révirement rispetto alla giurisprudenza precedente, la Corte ha abbandonato ogni riferimento alla fattispecie incriminatrice astratta, concentrandosi piuttosto sull’effettiva duplicazione delle sanzioni a fronte del medesimo fatto concreto (cfr. Zolotukhin c. Russia). Ciò tocca con particolare attenzione proprio la materia degli illeciti tributari, laddove in molti Paesi è previsto il c.d. “doppio binario” e dunque è possibile che un soggetto sia sottoposto sia alla sanzione penale che alla sanzione c.d. amministrativa. Interessante è che nel caso in esame non si ponga alcun dubbio – né da parte della Corte, né da parte dei ricorrenti – sulla natura “criminale” (§ 33 della sentenza Kiiveri) di entrambi i procedimenti (tributario e penale), e dunque la questione si riduce nel valutare se il fatto sanzionato sia effettivamente lo stesso (“idem”). / EUTEKNEINFO / MERCOLEDÌ, 08 APRILE 2015 Citando il precedente del caso Zolotukhin, la Corte ribadisce a tal proposito che anche qui non può valere la sola qualificazione formale dell’illecito, bensì bisogna aver riguardo alla concretezza del fatto, dei soggetti coinvolti e delle circostanze che lo compongono. Per tali ragioni, la CEDU può precisare che vi sia una differenza fattuale tra le condotte di falsa dichiarazione e di irregolare tenuta delle scritture contabili, per cui non potrà porsi un problema di doppia incriminazione: infatti, l’obbligo di tenere correttamente i registri contabili è indipendente dall’uso che se ne fa con riferimento al calcolo delle imposte dovute (§ 35 Kiiveri). Possibile che siano pendenti due procedimenti paralleli per lo stesso fatto Si ricorda, inoltre, che il principio del ne bis in idem impedisce solo la ripetizione di procedimenti che si sono conclusi con una sentenza definitiva (la norma parla di “punizione” e non di “giudizio”): dunque è possibile che siano pendenti due procedimenti paralleli per il medesimo fatto, ma una volta che intervenga il giudicato in uno dei due, l’altro deve essere necessariamente interrotto. Va notato che la giurisprudenza sovranazionale in materia tributaria comincia a farsi strada anche nelle pronunce della Corte di Cassazione italiana. Recentemente, sia pure attraverso un semplice obiter dictum, la Suprema Corte – in un caso di omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis del DLgs. 74/2000) – ha affermato che emergono “non irrilevanti dubbi di compatibilità con la normativa comunitaria (si veda a tale proposito quanto stabilito con la nota sentenza della CEDU del 4.3.2014 sul caso Grande Stevens contro Italia), che l’illecito amministrativo e quello penale possano avere ad oggetto sostanzialmente il medesimo fatto, rendendo ingiustificata la duplicità di sanzioni in caso di ritenute che superino la soglia” (Cass. 12 marzo 2015 n. 10475). Tra l’altro, proprio questa posizione ermeneutica della CEDU viene addotta come argomento per negare l’opportunità di un inserimento dei reati tributari tra i c.d. reati-presupposto per la responsabilità parapenale delle persone giuridiche: da un lato per queste ultime le sanzioni si moltiplicherebbero ulteriormente; dall’altro la Corte europea sembra negare ogni valore alla “etichetta” italiana di “responsabilità amministrativa” per gli enti prevista dal DLgs. 231/2001. / 08 ancora FISCO Bonus investimenti con problemi ancora aperti Assonime analizza i profili critici dell’agevolazione / Pamela ALBERTI Assonime, nella circolare n. 9 del 2 aprile 2015, analizza gli aspetti di maggior rilievo del credito d’imposta per gli investimenti in beni strumentali nuovi di cui all’art. 18 del DL 91/2014, focalizzando l’attenzione sui problemi ancora aperti nonostante i chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 5/2015. L’Associazione segnala anzitutto che il mondo industriale sta promuovendo varie iniziative per l’ampliamento temporale dell’agevolazione, auspicando che la stessa possa riguardare gli investimenti effettuati fino alla chiusura dell’esercizio 2015 (e non solo quelli effettuati sino al 30 giugno 2015, come attualmente previsto). Rispetto alla precedente Tremonti-ter, la neointrodotta agevolazione presenta rilevanti caratteri di novità, sia sotto il profilo sostanziale che procedurale. La nuova agevolazione si caratterizza, in particolare, per il fatto che è previsto un limite minimo di 10.000 euro dell’investimento agevolabile e sono agevolabili i soli beni strumentali nuovi compresi nella divisione 28 della Tabella ATECO, destinati a strutture produttive ubicate nel territorio dello Stato. Con riferimento al limite di 10.000 euro, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che tale limite deve essere verificato in relazione a ciascun progetto di investimento effettuato dall’imprenditore e non in riferimento ai singoli beni che lo compongono; in caso l’impresa realizzi più progetti di investimento nel medesimo periodo agevolabile, tale verifica dovrà essere effettuata in relazione a ciascun progetto di investimento unitariamente considerato. Secondo l’Associazione, tale ultima affermazione desta alcune perplessità, posto che la ripartizione degli investimenti richiesta all’impresa che abbia posto in essere più progetti nel corso dei periodi d’imposta interessati dall’agevolazione non sempre è di facile realizzazione e potrebbe dar luogo a problemi applicativi. Inoltre, sempre secondo l’Associazione, non si comprende il motivo per cui un’impresa che realizzi nel periodo d’imposta un progetto unitario superiore a 10.000 euro possa beneficiare dell’agevolazione, mentre l’impresa che realizzi investimenti di pari importo ma suddivisi in più progetti di valore inferiore a tale soglia resti totalmente esclusa dal beneficio. Al riguardo, l’Associazione osserva che “vero è che lo scopo del legislatore è quello di agevolare gli investimenti significativi, ma sarebbe stato, forse, più opportuno che la significatività di questi investimenti fosse stata accertata sul / EUTEKNEINFO / MERCOLEDÌ, 08 APRILE 2015 periodo d’imposta, più che sul singolo progetto”. Quanto al requisito della strumentalità, l’Associazione evidenzia che tale caratteristica distingue nettamente l’agevolazione in esame dalla precedente Tremonti-ter, la quale aveva un ambito applicativo più ampio, comprendendo tutti i beni diversi da quelli autonomamente destinati alla vendita; in passato, infatti, l’agevolazione riguardava anche i beni di consumo nonché i materiali di ricambio. Con riferimento all’attuale bonus investimenti, l’Agenzia delle Entrate ha invece precisato che non rientrano nell’ambito applicativo dell’agevolazione i materiali di consumo, ancorché inclusi nella divisione 28. Dubbi sui “materiali di ricambio” Assonime evidenzia, tuttavia, che non è chiaro se siano esclusi dall’agevolazione anche i c.d. materiali di ricambio. Secondo l’Associazione, nulla quaestio se i beni di ricambio sono qualificabili come “dotazioni” o “componenti indispensabili” di beni complessi agevolabili, posto che in tal caso rilevano non in funzione della loro oggettiva natura, bensì in considerazione della loro partecipazione ad un investimento unitariamente considerato. Per quanto concerne le ipotesi diverse dalle precedenti, l’Associazione evidenzia che, tecnicamente, anche i materiali di ricambio sono qualificabili come beni latu sensu strumentali, anche se destinati a funzionare insieme ad altri beni. Si tratta dei c.d. beni “inventariati” che, di norma, sono utilizzati dall’impresa in modo durevole, nell’arco di più periodi d’imposta; sono beni a produttività ripetuta che, a prescindere dalle modalità di rappresentazione contabile adottate incidono, seppur indirettamente, sul valore dei beni strumentali cui si riferiscono. I beni di ricambio, peraltro, sono beni che non devono entrate in funzione subito. Considerata, però, la delicatezza della questione, Assonime auspica un chiarimento ufficiale sul punto. In merito alla fruizione del beneficio fiscale, secondo Assonime, posto che la norma non pone alcun criterio di prioritario utilizzo del credito in esame, nell’ipotesi in cui il credito non venga utilizzato non perché eccedente l’imposta dovuta ma in quanto tale imposta risulti compensata da altri crediti, la quota annuale non utilizzata potrebbe essere sommata alla quota fruibile a partire dal successivo periodo d’imposta. / 09 ancora FISCO Agenzie territoriali per la casa esenti IMU La C.T. Prov. di Verbania si è pronunciata in merito ai requisiti che gli enti non commerciali devono possedere per beneficiare dell’esenzione / Antonio PICCOLO Le Agenzie territoriali per la casa (ATC) hanno diritto all’esenzione IMU sia perché sono enti pubblici non aventi per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali, sia perché sono enti che utilizzano gli immobili destinati esclusivamente allo svolgimento – con modalità non commerciali – dell’attività istituzionale riferibile a quella di ricettività sociale, a nulla rilevando se l’utilizzo dei medesimi immobili sia effettuato in modo diretto o indiretto. Lo si desume dalla sentenza n. 39/01/14, con la quale la C.T. Prov. di Verbania ha accolto il ricorso di una locale Agenzia territoriale per la casa, caratterizzato da un nucleo argomentativo piuttosto singolare. L’Agenzia provinciale, infatti, si è avvalsa anche della normativa (direttiva 77/388/CEE) e giurisprudenza (Corte di Giustizia, sentenza n. 231/87 del 17 ottobre 1989) europea in materia di IVA per sostenere l’esenzione dal pagamento dell’IMU con riferimento ai propri immobili. Nello specifico, dopo aver effettuato il versamento dell’IMU per l’annualità 2012, l’ente ha presentato un’apposita richiesta di rimborso che il Comune competente ha rifiutato espressamente. L’Agenzia, nell’impugnare il provvedimento di diniego dinanzi ai giudici tributari, ha insistito sull’esenzione IMU prevista per la propria attività ricettiva sociale, mentre il Comune, avvalendosi della sentenza n. 28160/2008 pronunciata dalle Sezioni Unite della Cassazione, ha resistito sul difetto del requisito soggettivo. Secondo il ricorrente, l’attività ricettiva sociale, come disciplinata e interpretata dalle normative IVA e ICI, rientra nel regime di esenzione IMU a prescindere dall’utilizzo diretto o indiretto degli immobili da parte dell’ente stesso. La Commissione adita, nell’accogliere il ricorso perché fondato, ha ritenuto in sostanza che il concetto di “utilizzo diretto” è divenuto meno rigido rispetto al passato, in virtù delle novità previste dall’art. 7 del DLgs. n. 504/1992 (decreto ICI) e dal DM n. 200/2012. Sicché – conclude il Collegio – la finalità tipica perseguita da questi enti pubblici economici (“pubbliche autorità”, secondo il paragrafo 5 dell’art. 4 della citata sesta Direttiva CEE) non può prescindere dall’utilizzo mediante messa a disposizione di terzi, che per tale ragione l’utilizzo stesso non può essere considerato indiretto, con la conseguenza che ove esso sia esercitato con “modalità non commerciali” va ricompreso nel regime di esenzione IMU. La pronuncia è nettamente difforme dal consolidato orientamento della Cassazione, né è possibile interpretare le disposizioni tributarie in modo analogico o estensivo, come invece avrebbe fatto il Collegio giudicante. Le aziende territoria/ EUTEKNEINFO / MERCOLEDÌ, 08 APRILE 2015 li per la casa, che appartengono alla più generale categoria dell’edilizia residenza pubblica, ex Istituto autonomo case popolari (IACP), sono enti pubblici economici dotati di personalità giuridica e di autonomia organizzativa, patrimoniale e contabile. Il comma 8 dell’art. 9 del DLgs. n. 23/2011, nel prevedere fra l’altro le esenzioni IMU per gli immobili posseduti da Stato e altri enti (Regioni, Province, Comuni, comunità montane), destinati esclusivamente ai loro compiti istituzionali, ha reso applicabile alla medesima disciplina dell’IMU il regime di esenzione ICI stabilito anche dalla lett. i) del comma 1 dell’art. 7 del DLgs. n. 504/1992. Al riguardo il Dipartimento delle Finanze, nell’affrontare il tema dei requisiti di carattere soggettivo e oggettivo necessari per il riconoscimento dell’esenzione ICI, con circolare n. 2/DF/2009 ha precisato fra l’altro che l’ente, oltre a possedere l’immobile, deve utilizzarlo direttamente per lo svolgimento dell’attività meritevole del beneficio, come stabilito dalla Consulta con ordinanze nn. 19/2007 e 429/2006. Con l’entrata in vigore del nuovo tributo (1° gennaio 2012) lo stesso Dipartimento delle Finanze, con circolare n. 3/DF/2012, ha precisato (§ 6.3.) che la detrazione IMU, prevista per le abitazioni principali dal comma 10 dell’art. 13 del DL n. 201/2011 (conv. L. n. 214/2011), deve intendersi applicabile anche agli enti di edilizia residenziale pubblica, comunque denominati, aventi le stesse finalità degli IACP, istituiti in attuazione dell’art. 93 del DPR n. 616/1977. Inoltre, ha chiarito (§ 8) che la disposizione di cui alla citata lett. i) dell’art. 7 del DLgs. n. 504/1992, come novellata dall’art. 91-bis del DL n. 1/2012 (conv. L. n. 27/2012) e sue modificazioni, oltre a prevedere che l’esenzione opera esclusivamente allorché le attività siano svolte “con modalità non commerciali”, ha stabilito anche una disciplina ad hoc per le utilizzazioni miste delle unità immobiliari (cfr. ris. nn. 7/DF/2013 e 3/DF/2013). Per questi ultimi casi il MEF ha emanato il decreto n. 200/2012, contenente modalità e procedure per le utilizzazioni miste dei fabbricati. Ancora, il Dipartimento delle Finanze, con ris. n. 4/DF/2013, ha rimarcato fra l’altro che sia la Corte Costituzionale che la Corte di Cassazione sono concordi nell’affermare che l’esenzione IMU si applica solo se l’immobile sia posseduto e utilizzato direttamente dallo stesso soggetto individuato dalla norma di legge. In particolare, si ricorda che con sentenza n. 28160/2008, le Sezioni Unite hanno stabilito che non si può applicare il regime di esenzione ICI per gli immobili utilizzati per l’attività di locazione a terzi da parte dello IACP (conforme, fra tante, Cass. nn. 5046/2015 e 12497/2014). / 10 ancora LAVORO & PREVIDENZA Nuova “tranche” di sgravi per i contratti di solidarietà difensivi inclusi nella CIGS Definita dall’INPS la procedura di fruizione che interessa i contratti stipulati tra il 31 dicembre 2005 e il 30 giugno 2008 / Luca MAMONE Il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali ha recentemente autorizzato il finanziamento degli sgravi contributivi per i contratti di solidarietà accompagnati da CIGS ex art. 6 del DL 510/96 (c.d. “difensivi”), stipulati nel periodo compreso tra il 31 dicembre 2005 e il 30 giugno 2008. In seguito a tale disposizione ministeriale, l’INPS è intervenuto con la circ. n. 70 di ieri, 7 aprile 2015, fornendo le istruzioni operative riferite alle modalità di applicazione della riduzione contributiva previdenziale e assistenziale prevista dal comma 4 della citato art. 6 del DL 510/96. Come accennato, possono usufruire dell’agevolazione contributiva in argomento tutti i datori di lavoro che hanno stipulato contratti di solidarietà difensivi, accompagnati da CIGS, esclusivamente nel periodo compreso tra il 31 dicembre 2005 e il 30 giugno 2008 e i cui benefici contributivi, sotto il profilo della competenza, si collocano nell’ambito del predetto periodo (decorrenza 1° gennaio 2006). In relazione a ciò, nella circolare l’INPS precisa che possono essere ammesse al beneficio anche le imprese subentranti a seguito di operazioni straordinarie quali fusioni, scissioni e così via. Viceversa, lo sgravio in questione non compete con riferimento ai contratti di solidarietà “difensivi” stipulati da aziende escluse dall’intervento della CIGS, per le quali spetta il c.d. “contributo di solidarietà” previsto dall’art. 5, comma 5 e ss. del DL 148/93. Inoltre, sono esclusi i datori di lavoro che hanno già fruito di altre agevolazioni contributive, come ad esempio quelle collegate alle assunzioni di lavoratori iscritti nelle liste di mobilità ex L. 223/91, oppure di lavoratori disoccupati da più di 24 mesi così come previsto dalla L. 407/90, e così via. Per quanto riguarda durata e misura dello sgravio contributivo, l’Istituto previdenziale ricorda innanzitutto che esso è fruibile per la durata del contratto di solidarietà con il limite massimo di 24 mesi e compete per ogni lavoratore interessato dalla riduzione di orario di lavoro in misura superiore al 20% con erogazione della CIGS. Invece, la misura della riduzione contributiva applicata in questo caso è del 25%, con aumento fino al 35% qualora il contratto preveda una riduzione dell’orario superiore al 30%. In pratica, tali riduzioni interessano mensilmente i datori di lavoro sulla parte dei contributi a loro carico per ogni lavoratore che, in detto periodo, abbia avuto un orario di lavoro ridotto più del 20% oppure del 30% rispetto a quello contrattuale. Sempre in relazione alle percentuali di sgravio, la circolare in esame precisa che esse salgono rispettivamente al 30 e al 40% nel caso di imprese che operano nella aree del Mezzogiorno individuate ai sensi dell’obiettivo 1 del Regolamento CEE n. 1260/99, ovvero: Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna. Sul punto, si osserva che la misura del beneficio è stata recentemente rivista dal DL 34/2014, con il quale si prevede l’applicazione di un’unica aliquota del 35%. Sotto il profilo operativo, nella circ. n. 70/2015 si chiarisce che la procedura deve essere attivata dal datore di lavoro interessato e, una volta esperita l’istruttoria finalizzata ad accertare la presenza dei requisiti richiesti, l’INPS attribuirà alla posizione aziendale il codice di autorizzazione “7K”, appositamente riferito ai contratti di solidarietà accompagnati da CIGS stipulati tra il 31 dicembre 2005 e il 30 giugno 2008. Tale codice, prosegue la circolare, sarà attribuito limitatamente al periodo di paga cui si riferiscono i flussi UniEmens con i quali viene operato il conguaglio delle riduzioni contributive e, comunque, limitatamente alle denunce contributive aventi scadenza di pagamento il 16 luglio 2015. Nel caso di imprese cessate, o laddove il periodo accennato non sia sufficiente per operare il conguaglio, il recupero potrà essere effettuato mediante le procedure di regolarizzazione contributiva. Infine, per quanto riguarda l’esposizione nel flusso UniEmens dei dati riferiti allo sgravio contributivo, l’INPS precisa che i datori di lavoro ammessi al beneficio dovranno indicare l’apposito codice “L900” e l’importo delle riduzioni contributive spettanti – “SommeACredito” – nell’elemento “DenunciaAziendale”, “AltrePartiteACredito”, “CausaleACredito”. Direttore Responsabile: Michela DAMASCO EUTEKNE.INFO È UNA TESTATA REGISTRATA AL TRIBUNALE DI TORINO REG. N. 2/2010 DELL'8 FEBBRAIO 2010 Copyright 2015 © EUTEKNE SpA - Via San Pio V 27 - 10125 TORINO
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