2 CRONACA VENERDÌ 10 APRILE 2015 CconoinAlfano cidenze: in città succede qualcosa ORA A MILANO si interrogano su una sgradevole coincidenza. Quando in città arriva Angelino Alfano, ministro dell’Interno e leader Ncd, succede qualcosa. Non sempre belle cose. Il 21 marzo 2013, mentre Alfano presiedeva un vertice sulla criminalità in Prefettura, 7-8 rapinatori hanno preso di mira la storica orologeria Franck Muller in via della Spiga, in pieno centro. Poi i banditi si sono gua- il Fatto Quotidiano dagnati la fuga lanciando quattro bottiglie molotov. Due feriti. E quando li hanno arrestati Alfano è stato contento di dare l’annuncio. Ieri la storia si è ripetuta. Il ministro dell’Interno in mattinata presiedeva il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica in Prefettura, in vista dell’inaugurazione dell’Expo. La riunione è stata sospesa dopo le notizie sulla strage in tribunale. “BUCA” IL TRIBUNALE E UCCIDE TRE PERSONE “MI HANNO ROVINATO” A MILANO UN IMPUTATO SPARA IN AULA ALL’EX LEGALE E A UN COIMPUTATO, POI FREDDA UN GIUDICE E INDISTURBATO SE NE VA. PRESO A VIMERCATE. RENZI: “FALLE NELLA SICUREZZA” di Antonella Mascali Milano N on è stato un gesto improvviso quello che ha provocato ieri tre morti e due feriti al Palazzo di Giustizia di Milano. Claudio Giardiello, imputato in un piccolo processo per la bancarotta della Magenta immobiliare, ha ucciso il giudice fallimentare Ferdinando Ciampi, l’avvocato Lorenzo Claris Appiani e il coimputato Giorgio Erba. Ha ferito gravemente un altro coimputato, Davide Limongelli e ferito a una gamba il suo ex commercialista, Stefano Verna. “Volevo vendicarmi di chi mi ha rovinato”, ha detto ai carabinieri che lo hanno arrestato a pochi chilometri da Milano, a Vimercate. Giardiello era entrato in tribunale per andare a processo alle 9:19. Aveva con sé una pistola calibro 7.65 (detenuta regolarmente) e due caricatori pieni di proiettili. Sarebbe entrato, dicono gli inquirenti, da uno degli ingressi laterali, quello di via Manara. L’unico a non avere il metal detector e dove possono entrare, esibendo un documento, solo magistrati, avvocati e dipendenti. Giardiello sarebbe stato ripreso da una telecamera mentre esibiva un documento, ha detto il procuratore Edmondo Bruti Liberati. “Probabilmente un falso tesserino”. Da una prima visione dei filmati, racconta Bruti ai magistrati riuniti per un minuto di silenzio in ricordo del collega Ciampi e delle altre vittime, “si vede che Giardiello mostra qualcosa”. DUNQUE, IL KILLER si prende gioco dei controlli e arriva al terzo piano, nell’aula della seconda sezione penale del Tribunale. Durante l’udienza ha un alterco con il suo avvocato, Michele Rocchetti di Como, che rinuncia al mandato. In pochi secondi Giardiello spara prima al suo coimputato Erba, poi un colpo al cuore al suo ex avvocato civilista, Claris Appiani, presente come testimone contro di lui, poi all’altro coimputato, Limongelli. In aula non ci sono forze di polizia perché gli imputati erano liberi. Il pm Luigi Orsi, che aveva sostituito la collega Bruna Albertini, si barrica in camera di consiglio insieme ai giudici e telefona al procuratore Bruti. Scatta l’allarme. Ma la furia omicida di Giardiello, incredibilmente, ha il tempo di seminare altri morti. L’imputato killer riesce a scendere le scale dal terzo piano al secondo dove si trova l’ufficio del giudice Ciampi, che si è occupato del suo fallimento. Mentre scende quei 12 gradoni, incrocia il commercialista Verna e gli spara a una gamba. Corre per 150 metri circa fino alla stanza numero 250 di Ciampi. Il magistrato era intento, con la cancelliera Franca Esposito, a sistemare una stampante, quando viene colpito. “Giardiello è entrato e ha esploso due colpi”, dice Bruti Liberati in conferenza stampa. “Un colpo ha attinto Ciampi alla scapola e gli ha trapassato il collo, l’altro lo ha raggiunto in zona inguinale. È stata una morte immediata”. La cancelliera viene risparmiata. Nel Palazzo di Giustizia c’è il panico. Urla e pianti per i morti e per la paura. Carabinieri e poliziotti ordinano di chiudersi negli uffici a chiave. Si pensa che l’assassino sia ancora nell'edifi- “FALSO TESSERINO” È entrato da un ingresso riservato agli avvocati. Bruti: “Ripreso mentre entrava”. Panico e urla, giudici e impiegati barricati per oltre un’ora Il procuratore Bruti Liberati Ansa cio. Ci sono magistrati, cancellieri e avvocati che rimangono barricati per oltre un’ora nelle stanze di tutti i piani: si informano via internet. Poi escono dall’edificio prima le donne e poi gli uomini a cui viene chiesto un documento. A tutti quelli che avevano la cravatta è stata fatta togliere perché Giardiello ne indossava una. Ma l’omicida in realtà non si trova più nel palazzo di Giustizia. Indisturbato è riuscito a compiere la sua vendetta e a fuggire. Dopo aver sparato “13 colpi”, come ha detto il procuratore di Brescia, competente per l’indagine, Tommaso Bonanno, “va via, probabilmente da via Manara e si avvia verso Vimercate con il suo scooter Suzuki, dopo aver agito con una freddezza spietata”. A Vimercate viene fermato dai carabinieri. Al momento del fermo, “visibilmente agitato”, dice che voleva uccidere un’altra persona che considera tra i responsabili della sua bancarotta. IL PROBLEMA sicurezza è ammesso da Bruti Liberati, anche se la responsabilità non è del suo ufficio, ma il procuratore non vuole polemiche: “Di fronte a un gesto isolato le difese difficilmente possono essere assolute. Falle nel sistema di sicurezza ci sono state ma sinora il sistema aveva sempre funzionato”. Per il presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio “i sistemi di sicurezza oggi hanno palesato una falla. Siamo determinati a individuare perché ciò sia accaduto e avviare con il ministero della Giustizia e il Comune di Milano un’azione per rafforzare i sistemi di sicurezza”. Secondo Giovanna Gentile, presidente della decima sezione penale, “non c’è sicurezza in questo Palazzo o è del tutto inadeguata. Le entrate laterali dove si accede a piedi o in bici sono prive di copertura”. E il ministro della Giustizia Andrea Orlando, precipitatosi ieri a Milano, ha parlato di “errori gravi”. Così anche il premier Matteo Renzi: “Abbiamo dato un mandato molto forte a fare massima chiarezza sulle falle del sistema che ci sono state perché è impensabile e impossibile che si sia potuto introdurre un’arma in un tribunale. Non è la prima volta che accade ma deve essere l’ultima”. Il Conte Tacchia brianzolo e i fondi neri L’ARRESTATO È UN IMMOBILIARISTA DI SCARSO SUCCESSO. FALLIMENTI E SCONTRI CON I SOCI. MA ANCHE 5 MILIONI SPARTITI NEL 2003 Milano L o chiamavano il “conte Tacchia”, figlio di falegname che aspirava alla nobiltà. E come lui anche Claudio Giardiello voleva sempre di più. Tanto che con i suoi quattro amici e soci era finita in litigio per la spartizione di 5 milioni di euro di fondi occulti creati attraverso l’immobiliare Magenta, società dichiarata fallita nel 2008. Da qui partono i guai giudiziari di Giardiello che ieri avrebbero dovuto trovare un epilogo giudiziario e sono invece finiti in sangue. NATO a Benevento e residente in Brianza, il 57enne Giardiello dal 1987 inizia a occuparsi di intermediazione immobiliare. Ma con risultati sempre decisamente pessimi. Le cinque società in cui ha incarichi finiscono in fallimenti e protesti. Nel 2003 assieme ai soci Massimo D’Anzuoni (arrestato nel 2013 per tangenti coperte da false fatture), Giorgio Erba (ucciso ieri nella sparatoria in tribunale), Davide Limongelli (ferito) e Silvio Tonani, Giardiello crea una triangolazione societaria che permette loro di avere una contabilità occulta e spartirsi i fondi creati in nero attraverso un appalto ricevuto dalla Cisep per la vendita degli appartamenti di due palazzine in via Biella a Milano. I cinque complessivamente si spartiscono 5 milioni 480 mila euro. Il dato emerge dalle carte del procedimento fallimentare della Magenta e l’intera vicenda è stata raccontata dai soci di Giardiello che nel 2005 lo hanno denunciato perché esasperati dalle sue “continue e pressanti” richieste economiche. Allegato agli atti c’è anche un appunto con i soprannomi di ciascun socio e l’importo ottenuto: D’Anzuoni, detto il “predatore”, Erba (il “comandante”) e Tonani (soprannominato Tinto Brass”), hanno intascato ciascuno 1 milione 245 mila euro; il “conte Tacchia” Giardiello un milione e suo nipote, il “marchesino” Limongelli, 393 mila euro. La Magenta era fallita con 2,8 milioni di euro di debiti mentre la Miani immobiliare (la “gemella” che serviva per la triangolazione) ha consegnato i libri in tribunale nel 2006. LA SITUAZIONE finanziaria di Giardiello era di fatto disperata. Da una visura camerale a suo nome figurano tre ipoteche legali, due di Equitalia per complessivi 130 mila euro e una di Esatri per 2.500 euro, oltre a un pignoramento di immobili a favore di Intesa San Paolo e due decreti ingiuntivi con benefi- Claudio Giardiello Ansa ciario Banca di Roma da 242 mila euro ciascuno. Giardielli non era mai soddisfatto di quello che riceveva e si sentiva sempre “fregato”, scrivono in una memoria i suoi ex soci e che nel linguaggio legale diventa “soggetto a improvvise alterazioni dell'umore e propenso anche all'aggressione pur di farsi valere”. Ben più netta la descrizione di Valerio Manariello, avvocato che fino al 2008 ha difeso Giardiello. “Ho rinunciato perché era impossibile aiutarlo, non seguiva mai i consigli ed era ingestibile, una persona spesso sopra le righe e a mio avviso paranoide: viveva con il terrore di essere raggirato”. Manariello era socio dell’avvocato Loris Appiani, ucciso ieri nell'aula di tribunale da Giardiello. Ricorda Manariello: “Una persona straordinaria oltre che un grande professionista, io avevo iniziato a lavorare con la titolare dello studio, sua madre, che è poi andata in pensione e ha lasciato a Loris”. Insieme, racconta, “decidemmo di non poter più difendere Giardiello, era impossibile, litigava con tutti e i suoi problemi erano dovuti alle difficoltà che aveva nel relazionarsi persino con i suoi soci”. Un tipo litigioso, il “conte Tacchia” brianzolo. da. ve. CRONACA il Fatto Quotidiano L’ Anm: “Questi i risultati di riforme sempre a costo zero” VIOLATO Agenti di polizia all’ingresso di via Freguglia del Palazzo di Giustizia di Milano durante l’emergenza. Ansa “C’È SICURAMENTE un problema-sicurezza nei nostri palazzi di giustizia, da monitorare in tutta Italia. Già nelle nostre visite negli uffici giudiziari, noi avevamo verificato e registrato moltissime lamentele in tal senso tra i colleghi, e purtroppo, al di là della dinamica dei fatti di oggi, questa vicenda conferma questa emergenza. Chiediamo, come abbiamo già chiesto, che si intervenga al VENERDÌ 10 APRILE 2015 3 più presto”. Lo ha affermato il segretario generale dell’Anm Maurizio Carbone, sui fatti di Milano, in un’intervista in onda su Radio Vaticana. Alla domanda se c’entrino qualcosa i tagli alla spesa pubblica che si stanno facendo da alcuni anni a questa parte, Carbone dice che “sicuramente non si può andare avanti, e parlo per quanto riguarda la giustizia, con riforme a costo zero”. Quei guardiani del Palazzo che vigileranno anche sull’Expo MA ALL SYSTEM SI CHIAMA FUORI: QUEL VARCO NON È NOSTRO, PRESIDIAMO GLI ALTRI SEI di Davide Vecchi Milano U na “falla”, la definisce il premier Matteo Renzi. Mentre il presidente della Corte d'Appello di Milano, Giovanni Canzio, aggiunge “evidente”: “I sistemi di sicurezza hanno palesato una falla evidente”. E tre cadaveri in un tribunale sono decisamente evidenti. Ma dove fosse questa falla ancora non si sa. Né di chi sia la responsabilità. CHI GESTISCE la sicurezza nella cittadella giudiziaria milanese? Quella esterna, cioè gli ingressi, è competenza dei Comuni d’intesa con le Prefetture e può essere appaltato ad aziende private. E di fatto a Milano l’amministrazione oggi guidata da Giuliano Pisapia ha assegnato la gestione della sicurezza attraverso un appalto pubblico a due società esterne: la All System e la Securpolice. La prima è la più importante. Non solo perché ha la vigilanza armata (la Securpolice gestisce la “guardiania non armata”) ma soprattutto perché dei sette ingressi del Palazzo di Giustizia di Milano ne controlla ben sei. Il contratto è stato sottoscritto dal Comune nel maggio 2010, quindi dalla giunta ancora guidata da Letizia Moratti, per un corrispettivo APPALTI L’altra società, Securepolice, non può gestire i metal detector che dipendono dal Viminale. Anche Orlando a caccia dei responsabili di 8,2 milioni di euro. Il contratto è però stato aggiornato il 17 maggio 2013 a seguito di alcuni ricorsi al Tar che riguardavano la legittimità dell’affidamento. Nel testo la Allsystem viene indicata come “capogruppo” insieme a una terza società: la Gf Protection. Il contratto scade il 30 aprile prossimo e dovrebbe rinnovarsi per tacito accordo tra le parti. Del resto come non fidarsi: la società si è da poco aggiudicata anche l'appalto da 20 milioni di euro della sicurezza a Expo 2015 come capogruppo di una rete di imprese di vigilanza, tra cui compare anche la Ivri. Il bando è stato assegnato due mesi, il 30 gennaio. Allsystem è operativa per lo più nel Nord-ovest, ha oltre 2.300 dipendenti che gestisce direttamente. In via delle Forze Armate, presso la sede milanese, ieri nessuno ha voluto rilasciare dichiarazioni. L’ufficio stampa ha però emesso un co- Mattarella: “Basta screditare i magistrati” “I MAGISTRATI sono sempre in prima linea e ciò li rende particolarmente esposti: anche per questo va respinta con chiarezza ogni forma di discredito nei loro confronti”. Lo ha detto il presidente Sergio Mattarella, ieri, subito dopo strage al tribunale di Milano. “Fernando Ciampi, giudice probo, rigoroso e intransigente” è “un altro magistrato, l’ennesimo, caduto nell’esercizio delle sue funzioni”. Mattarella è intervenuto alla riunione straordinaria del plenum del Csm, convocata dopo quanto accaduto a Milano. Il presidente ha manifestato solidarietà ai feriti e ai familiari delle altre vittime, Lorenzo Claris Attiani e Giorgio Erba, sottolineando il dolore municato in cui “tiene a precisare quanto segue: dei 7 varchi complessivi di accesso al Tribunale, Allsystem ne presidia 6 e, per quanto si è potuto constatare fino a questo momento attraverso lo sviluppo delle immagini degli accessi che è ancora in corso, la persona imputata dei fatti ha avuto accesso dal varco di via Manara, ingresso riservato ai soli avvocati e magistrati, che non è presidiato e in carico alla Allsystem, ma di responsabilità di altra società”. Forse la Securepolice, che però può svolgere vigilanza esclusivamente agli ingressi non presidiati da metal detector? Per cercare di fare chiarezza sulle responsabilità oggi a Palazzo Marino si riunirà una sorta di comitato convocato da Carmela Rozza, assessore ai lavori pubblici, competente dell'appalto per la vigilanza esterna dei palazzi di giustizia. La competenza interna, invece, è disposta sulla base di provvedimenti che competono al procuratore generale presso la Corte d'appello. I metal detector, invece, dipendono direttamente dal Viminale, non dal Comune e dal ministero della Giustizia. IERI IL MINISTRO della Giustizia, Andrea Orlando, che era a Milano per un vertice proprio sulla sicurezza in Prefettura assieme al titolare del Viminale, Angelino Alfano, dopo aver incontrato i vertici degli uffici giudiziari del capoluogo lombardo, ha sintetizzato: “I sistemi di sicurezza tecnologici erano funzionanti ma le indagini dovranno chiarire, il sistema di sicurezza ha visto compiersi un insieme di errori gravi”. A venti giorni esatti dall'inaugurazione di Expo, con norme antiterrorismo ferme in Parlamento ormai da mesi e tre cadaveri in un palazzo di giustizia. “tanto più lacerante in quanto gli assassinii si sono verificati in un luogo dedicato al rispetto della legge e all’affermazione della giustizia”. Secondo Mattarella “gli inquirenti faranno piena luce sulla dinamica dell’accaduto, accertando eventuali falle nel sistema di sicurezza e rispettive responsabilità. Spetterà poi ai vertici degli uffici giudiziari di Milano e al ministero della Giustizia prendere i dovuti provvedimenti perché simili fatti non possano ripetersi. Ai servitori dello Stato, come a tutti, va assicurato il massimo possibile di sicurezza”. Il metal detector di via Freguglia al tribunale di Milano Ansa [email protected] LUIGI ORSI Il pm “sbagliato” salvo per miracolo Barbacetto dunque la conosceva. Se fosse stata in aula, visto. E non ha schiacciato il grilletto. Erano le sarebbe potuta essere un altro obiettivo del 10.45 quando l’imputato per la bancarotta ra per caso in aula, a sostenere l’accusa, e killer, determinato a uccidere “tutti quelli che dell’Immobiliare Magenta ha, in aula, un diha visto la morte in faccia. “Ho visto col- riteneva responsabili della sua rovina”, spie- verbio con il suo difensore che voleva rinunpire delle persone. Ho visto morire un testi- gano in Procura. ciare al mandato. Estrae la pistola dalla tasca e mone davanti a me”. A parlare è Luigi Orsi, Se ieri, invece che al settimo piano, si fosse spara ai suoi due coimputati: Giorgio Erba pubblico ministero a Milano. trovata al terzo, nell’aula della seconda sezione muore quasi subito, Davide Limongelli rimane Era lui, ieri, in udienza quando Claudio Giar- penale, forse ci sarebbe una vittima in più. gravemente ferito. diello detto “il conte Tacchia” ha sparato e Giardiello si è trovato invece davanti, a rap- Poi punta la pistola verso l’avvocato Lorenzo ucciso. Non era un suo processo: Orsi sosti- presentare l’accusa, un pm che non aveva mai Claris Appiani, suo ex legale che si apprestava tuiva la collega Bruna Albera testimoniare, e lo uccide. Sutini, titolare dell’inchiesta sulbito dopo, esce dall’aula e va a la bancarotta di cui Giardiello sparare al giudice fallimentare LA SOSTITUZIONE è accusato. Fernando Ciampi, nel suo ufLa pm era impegnata in ficio al secondo piano del PaIl magistrato aveva preso un’udienza al settimo piano, lazzo di giustizia. davanti a un giudice delle inOrsi, dopo gli spari, insieme ai il posto della collega dagini preliminari, così ha giudici del collegio presieduto Albertini, impegnata chiesto di essere sostituita. Il da Teresa Ferrari da Passano cambio è stato la salvezza per si rifugia nella stanza dedicata in un’altra udienza: lei. Ma è costato attimi di teralla camera di consiglio dove i rore a Orsi. giudici ri ritirano per decidere “Ho visto un testimone La pm Albertini ha più volte le sentenze. Da lì chiama il morire davanti a me” I pm Bruna Albertini e Luigi Orsi procuratore della Repubblica interrogato Giardiello, che di Gianni E Edmondo Bruti Liberati e dà l’allarme. È spaventato, ma sta bene. Quando il pericolo è passato, sale al quarto piano, dove c’è il suo ufficio e quelli di gran parte dei magistrati della Procura: iniziano lunghe riunioni con il procuratore Bruti Liberati. Luigi Orsi è uno dei sostituti procuratori più stimati della Procura di Milano, esperto in reati economico-finanziari. È lui a occuparsi dei fallimenti del gruppo Ligresti, della fusione Fonsai-Unipol, del “papello” firmato dal numero uno di Mediobanca Alberto Nagel. In passato ha condotto le indagini sul crac dell’ospedale San Raffaele e sulla scalata Bnl-Unipol. Negli ultimi mesi ha ricevuto dal procuratore Bruti Liberati l’incarico di seguire, insieme ad altri colleghi, anche le inchieste su Expo 2015. Bruna Albertini si è invece occupata di reati di criminalità organizzata, svolgendo indagini sull’immigrazione clandestina e sul traffico di esseri umani, sulla riduzione in schiavitù e sullo sfruttamento della prostituzione a opera di organizzazioni transnazionali. 4 CRONACA VENERDÌ 10 APRILE 2015 Ial Reggio precedente Emilia: due morti nel 2007 UN EPISODIO simile a quello di Milano avvenne nell’ottobre del 2007, nel Tribunale di Reggio Emilia. Allora si stava discutendo una causa di divorzio e il marito, noto per essere un violento, sparò uccidendo la moglie e il fratello di lei, ferendo l’avvocato e un poliziotto, prima di essere freddato da un altro agente di polizia, intervenuto per porre fine a un massacro. Aule di tribunale, ma anche isti- il Fatto Quotidiano tuzioni. Come a Cardano al Campo, nel Varesotto, dove nel luglio 2013 un ex agente della polizia municipale sospeso dal servizio entrò in comune e aprì il fuoco contro il sindaco, Laura Prati, morta in ospedale dopo tre settimane di agonia, e il suo vice, rimasto invece ferito. Nel marzo 2013, invece, un uomo entrò a Perugia nella sede della Regione Umbria, dove uccise due impiegate prima di spararsi. IL CUORE DI MILANO VITTIMA Il giudice Emilio Alessandrini ucciso da Prima linea nel 1979 Ansa Storia del Palazzo simbolo dal Duce a Mani Pulite IL FASCISMO, LA CONTESTAZIONE E IL PROCESSO ALLA ZANZARA, I MAGISTRATI UCCISI DAL TERRORISMO, IL CAFFÈ DI SINDONA E LA STAGIONE DI TANGENTOPOLI assumere, dietro l’austera facciata in marmo con il portale alto 25 metri, il controverso ruolo di tribunale nazionale. di Leonardo Coen L a memoria, forse, è un groviglio inestricabile. Ricordo comunque che noi studenti del Sessantotto, il Palazzo di Giustizia di Milano lo detestavamo: lì si era celebrato il più insulso dei processi, quello contro i tre studenti della Zanzara che nel 1966 avevano pubblicato sul giornalino del liceo classico Parini, una inchiesta sul sesso, all’acqua di rose, ma sufficiente a scandalizzare i benpensanti e quella borghesia codina che mal sopportava intrusioni progressiste, in sospetto di comunismo... e poi, non vi avevano amministrato, per decenni, una giustizia a senso unico, sempre a favore dei “padroni”? INSOMMA, dietro la sua impo- nente facciata austera di marmo, e quella scalinata che ti metteva soggezione, tu piccolo piccolo, ad entrare sotto il portale alto 25 metri, noi scandivamo che fascista era il Palazzo “di fuori e di dentro”. Erano i drammatici giorni del dicembre 1969, dopo la strage di piazza Fontana, e l’arresto del ballerino anarchico Pietro Valpreda, subito accusato d’essere il colpevole, ed inquisito da giudici a senso unico. A rafforzare la pista valprediana, si aggiunsero giornalisti “megafoni del potere”. Spie. Mistificato- GLI ANNI DI PIOMBO pretesero un grave tributo di sangue, e il lutto entrò nel Palazzo, tingendo idealmente di rosso i suoi corridoi, le sue aule, le sue stanze. Furono uccisi i giudici Alessandrini e Galli, i magistrati entrarono nel mirino di Brigate Rosse, autonomi, Nap, squadracce “nere”. Non c’era settimana che a Milano il suono lugubre delle sirene partisse e finisse al Palazzo. La notte della Repubblica cercava l’alba lì dentro. Cercava ALL’INSEGNA DELLA GRANDIOSITÀ Ecco l’edificio violato ieri, voluto dal regime, costruito in otto anni e terminato nel 1940: 1200 locali, 65 aule, il cortile d’onore e la statua della Giustizia e la torre alta 61 metri ri. Provocatori. In quel Palazzo si riflettevano le strategie della tensione, le sentenze che mazzolavano operai e studenti, soprattutto quelli di sinistra. Gli anni delle trame. Degli scandali. Del terrorismo. A Milano, in effetti, eravamo stati liberati dal fascismo, ma non da certi suoi ingombranti simboli, tantomeno, come sosteneva la battagliera ed indimenticabile Camilla Ceder- na, dai suoi funzionari e cantori. Del resto, l’imponente Palazzo di Giustizia in corso di Porta Vittoria, progettato dal razionalista Marcello Piacentini, incarnava archettonicamente lo spirito conservatore e destrorso di quella che era stata ribattezzata “Maggioranza Silenziosa”: l’edificio, ultimato nel 1940, dopo otto anni di tribolati e costosissimi lavori, doveva essere in grado di appagare le esigenze celebrative del regime mussoliniano con la sua monumentalità. Tutto era infatti all’insegna della grandiosità: 1200 locali, 65 aule, il cortile d’onore con la famosa statua alla Giustizia in porfido rosso, dodici cortili minori, scalinate e corridoi smisurati, senza dimenticare la torre alta 61 metri che all’origine avrebbe dovuto ospitare l’Archivio. Uno spreco megalomane di spazi, in linea con la propaganda del regime. Ebbene, questo esagerato edificio così estraneo al contesto urbano che lo circonda, è diventato, nel bene e nel male, roccaforte della giustizia, e crocevia della storia repubblicana di Milano, fino ad spiragli di verità. Quella che l’interminabile processo di piazza Fontana, con il suo repertorio di deviazioni e bugie, non era riuscito a svelare. La selva oscura di Milano, si disse, cercava ancora, dentro il Palazzo, compiacenze e armadi della vergogna. Ci furono i processi sul caso Ambrosiano, la morte di Calvi, il delitto Ambrosoli e il “caffè di Sindona”, l’avventuroso finanziere che si destreggiava tra Andreotti, il Vaticano e la mafia. Un caffè avvelenato nel carcere di Voghera. Ucciso? Suicida? Ormai, certe domande erano lecite. Ed erano inchieste. Quello di cocciuti magistrati che volevano ristabilire la verità, in un Paese dove troppi misteri restavano avvolti dalla “nebbia più fitta”. Venne l’apoteosi di Mani Pulite nel ’92. Il severo Palazzo eletto a simbolo di “pulizia”. Contro la corruzione del sistema e i suoi mirabolanti protagonisti. Dalla Milano da Bere alla Milano del Cavaliere. Gli spari di ieri, possiamo dire oggi, sono stati sparati dove batte il cuore della città. APERI-PICIERNO Pina, la legalità val bene un selfie C om’è “gggiovane” Pina Picierno, la sua iniziativa antimafia di ieri a Santa Maria di Catanzaro era un’apericena insieme all’eurodeputata. E, come se non bastasse l’utilizzo della parola apericena, il successo della locandina è sancito dal titolo: “Un selfie per la legalità”. Una buona apericena e un selfie valgono bene un po’ di legalità. LE TRE VITTIME Il giudice burbero, il legale modello e l’ex socio Milano U n giudice anglosassone, lo definivano così Fernando Ciampi, conosciuto da tutti per il suo rigore, la sua integrità e la sua notevole competenza, era noto anche per la durezza con cui gestiva le udienze. Ucciso ieri con due colpi di pistola da Giardiello nell’edificio dove ha svolto tutta la sua carriera. Nato a Fontana Rosa, in provincia di Avellino il 18 giugno del 1943, era prossimo alla pensione. Già a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 era giudice delegato alla sezione fallimentare. In quel periodo, tra l’altro, fu tra i fondatori della rivista Il fallimento. Poi, per lunghi anni è stato all’ottava sezione civile del Tribunale, quella che si occupa di diritto societario, prima come giudice e poi come presidente. Dal 19 giugno al 30 settembre 2009 ha guidato ad interim la sezione fallimentare del Tribunale di Milano che stava attraversando un periodo delicato: era nel pieno dello scandalo che aveva coinvolto il giudice fallimentare Maria Rosaria Grossi, finita sotto accusa dalla procura di Brescia per testata concussione e abuso d’ufficio. Autore di numerosi testi sul di- ritto societario e fallimentare, da un paio di anni era passato alla sezione specializzata in materia di impresa per occuparsi di marchi, brevetti, concorrenza sleale e diritto d’autore. Definito una persona “eclettica”. UN GENIO del foro, una mente brillante, un giovane timido ma pieno di entusiasmo: così amici e parenti descrivono Lorenzo Alberto Claris Appiani, l’avvocato trentasettenne ucciso dal suo ex cliente Giardiello. Era in aula come testimone nella causa per bancarotta contro quell’uomo che aveva assistito in passato e che lo ha freddato sparandogli al torace. Portato al pronto soccorso del Fatebenefratelli, l’avvocato è arrivato in asistolia: nonostante le manovre rianimatorie, i sanitari non sono riusciti a far ripartire il suo cuore, a salvare quella che tutti ricordano co- LUTTO Il giudice Fernando Ciampi e l’avvocato Lorenzo Alberto Claris Appiani, due delle tre vittime di ieri al Palazzo di Giustizia di Milano Ansa - Facebook me una promessa dell’avvocatura civile. “Giardiello era stato cliente di mio nipote – racconta l’avvocato Alessandro Brambilla Pisoni, zio di Lorenzo – poi aveva iniziato a combinare disastri e lui ha smesso di seguirlo. Sapevo che oggi mio nipote era in aula come testimone in una causa penale perché Giardiello era stato denunciato”. Doveva dunque testimoniare contro il suo ex cliente? “In una causa non si testimonia né a favore né contro qualcuno, ma per la verità e la giustizia”: una spiegazione tecnica, quella dello zio, che è quasi un ritratto del nipote, descritto da chi lo conosceva bene come una persona molto ligia al dovere, un avvocato che non mollava mai. Veniva da una famiglia tutta legata alla legge, con la mamma Alberta avvocato in pensione, lo stesso zio legale e la sorella Francesca magistrato a Pavia, era quello che veniva consultato da parenti e amici quando c’era un problema legale. Dopo aver frequentato il liceo scientifico Leonardo da Vinci ed essersi laureato alla Statale di Milano, ha avuto un periodo di prestigiose collaborazioni prima di aprire uno studio legale, guadagnandosi la stima dei colleghi per la sua capacità di analisi del diritto. Era un avvocato molto capace, attivo soprattutto nel campo del diritto societario e aveva vinto importanti cause legate allo scandalo derivati, ma era anche un giovane molto legato alla famiglia, in particolare alla sorella minore e alla nonna, con cui aveva passato molto tempo. Parenti e amici ricordano che andava a pranzo dalla nonna quasi ogni giorno e che nelle ultime festività di Pasqua aveva rinunciato alle vacanze all’Elba, dove la famiglia possiede un’azienda vinicola gestita dal padre Aldo, per restare a Milano con lei. Gli amici lo chiamavano affettuosamente “conte”, stesso appellativo del suo carnefice, ma per via delle origini nobili della famiglia Appiani (signori di Piombino dal ’300 al ’500). Di idee liberali, “mio fratello – racconta la sorella Francesca – all’inizio si era entusiasmato per Forza Italia, salvo poi abbandonare sia il partito sia l’ attività politica per dedicarsi solo all’avvocatura”. La terza vittima è il coimputato di Giardiello, l’ex socio Giorgio Erba, 59 anni, titolare di un’altra società. Portato al Policlinico in condizioni disperate è morto in ospedale. POLITICA il Fatto Quotidiano R eato di tortura, la Camera verso il sì nella notte L’ATTESA è durata quasi trent’anni, da quando - era il 1988 - abbiamo ratificato la convenzione Onu che vieta la tortura. Da quel giorno aspettiamo di introdurre quel reato nel nostro codice penale. E adesso che la Corte di Strasburgo ci ha condannati per il massacro della Diaz, il Parlamento ha messo il turbo: ieri sera la Camera si è avviata spedita verso l’approvazione finale dei sei articoli che compongono il testo di legge, che ora dovrà tornare al Senato. Il passaggio nell’altro ramo del Parlamento è necessario perché sono VENERDÌ 10 APRILE 2015 intervenute modifiche rispetto alla prima lettura: sono stati inseriti una serie di incisi (tra cui un contestato “intenzionalmente”) che, secondo gli M5s, le associazioni e le famiglie delle vittime renderanno molto difficile l’accertamento del reato. RENZI RINUNCIA ALLA SPALLATA DE GENNARO SALVA LA POLTRONA IL PREMIER GLI DÀ FIDUCIA. MA HA SPERATO (ASSIEME A MORETTI) CHE LASCIASSE di Giorgio Meletti I l cessate il fuoco lo ha decretato Matteo Renzi alle 15:45 in conferenza stampa: “Il governo riconferma con convinzione la propria fiducia nei vertici di Finmeccanica e segnatamente di Gianni De Gennaro”. Si chiude così una battaglia che per 24 ore ha fatto ballare la più delicata e strategica delle aziende pubbliche. L'attacco del presidente del Pd Matteo Orfini, che ha definito “vergognosa” la permanenza di De Gennaro alla presidenza di Finmeccanica dopo la sentenza di Strasburgo sui fatti del G8 di Genova del 2001, è respinto. La versione ufficiale di tutti i protagonisti è che si è trattato solo di un equivoco, naturalmente alimentato dalle esagerazioni dei giornali. UNA SOLA NOTIZIA è certa e tutto sommato incoraggiante: l'ex capo della Polizia e dei servizi segreti non ha salvato la poltrona sventolando sotto il naso dei politici i dossier con i segreti raccolti in una vita da superpoliziotto. Se la sua memoria facesse davvero paura, la battaglia non sarebbe neppure cominciata, come neppure cominciò un anno fa, quando Renzi tentò di farlo fuori dalla presidenza di Finmeccanica e dovette ingoiare le conferma imposta dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Va dunque spiegato perché il presidente del Consiglio abbia impiegato 24 ore per confermare la fiducia al manager che ha nominato il 15 maggio scorso. Risulta evidente dai tentennamenti di mercoledì pomeriggio e ieri mattina che Renzi ha atteso di vedere se De Gennaro gettasse la spugna, come sembrava auspicare il vice segretario del Pd Debora Serracchiani mercoledì sera: “Penso che le persone che ricoprono ruoli importanti nella società debbano tener conto anche delle proprie responsabilità morali”. Dopo aver atteso per tutto il pomeriggio di mercoledì una parola risolutiva da Renzi, e sconcertato dal silenzio dell’amministratore delegato Mauro Moretti, da sempre in contrasto con il presidente, De Gennaro e i suoi esperti di comunicazione politica hanno dispiegato la controffensiva. Ieri mattina un editoriale del direttore del Tempo, Gian Marco Chiocci, ha sollevato la spinosissima questione di Alfonso Sabella, il magistrato che ai tempi del G8 aveva la responsabilità della vigilanza sul carcere di Bolzaneto, indagato e prosciolto. Sabella è stato recentemente nominato assessore alla legalità del Comune di Roma dopo l'esplosione dell'inchiesta su Mafia Capitale. Sabella come De Gennaro: “Entrambi devono restare dove stanno”, scrive il Tempo alludendo al “doppiope- sismo di Renzi”. Poi è arrivato il presidente della commissione Industria del Senato Massimo Mucchetti (Pd) con un missile sparato dal suo blog: “Come si fa a ritenere vergognosa la presenza di De Gennaro al vertice di Finmeccanica e poi a tacere sul rinvio a giudizio per la strage ferroviaria di Viareggio di Moretti?”. A completare il quadro un’altra voce molto pesante, quella del presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone: “Gianni De Gennaro è stato indagato e assolto. L’assoluzione conta pure qualcosa”. Qualcuno ha voluto vedere nelle sue parole un messaggio a nome del premier, ma è più probabile che il magistrato napoletano abbia espresso il sentimento dei pm antimafia che hanno condiviso con De Gennaro lunghi anni di lavoro. A dimostrazione che Renzi stava alla finestra per capire come girava il vento, uno dei deputati Pd più legati al premier, Andrea Marcucci, a metà mattina tirava un altro calcione al presidente di Finmeccanica: “È una grande azienda italiana che opera sui mercati internazionali. La sentenza della Corte Europea può minarne la credibilità. Per questo, è doveroso che De Gennaro faccia una riflessione”. Ma negli stessi minuti Renzi ha capito che non poteva più tacere di fronte alla domanda: perché De Gennaro a casa e Sabella e Moretti al loro posto? E ha deciso il passo indietro. AL DI LÀ dell’impraticabilità della polemica, ha pesato il fatto che il nesso tra la sentenza di Strasburgo e le dimissioni di De Gennaro è molto più labile delle ottime ragioni per cui Renzi avrebbe potuto mandarlo a casa nel maggio del 2014. L'esitazione di Renzi è stata alimentata in parte dalla decisione di Moretti, che dagli Stati Uniti, dov'è andato per presenta- Mauro Moretti, ad di Finmeccanica, e Matteo Renzi. In basso, Gianni De Gennaro Ansa LE MANOVRE Dopo l’affondo del presidente Pd, Matteo è rimasto a guardare. E dall’ex capo degli 007 è partita l’offensiva: sul tavolo il caso Sabella re i conti Finmeccanica agli investitori, aspettava le dimissioni di De Gennaro per risolvere una volta per tutte una convivenza armoniosa solo per le versioni ufficiali. Insediandosi, l'ex numero uno di Fs ha tolto a De Gennaro la delega per le relazioni esterne e istituzionali. In più non ha gradito le manifestazioni di fastidio del presidente per lo stipendio che si è assegnato, il 5 Ieri la Camera non ha votato nessuno degli emendamenti proposti: l’unica concessione - il Movimento Cinque Stelle chiedeva anche l’imprescrittibilità del reato - è stato l’aumento delle pene per i pubblici ufficiali, che salgono da 12 a 15 anni di reclusione. Nel Pd cala il silenzio E Orfini resta solo RESTO della mia idea: il cambiamento che il Pd sta promuovendo nel Paese non dovrebbe fermarsi di fronte alla porta dei soliti noti”. Matteo Renzi ha da poco confermato “piena fiducia” a Gianni De Gennaro quando arriva il tweet di Matteo Orfini. Che lo sfida, ribadendo la posizione espressa mercoledì, dopo la condanna di Strasburgo per i fatti di Genova. “Trovo vergognoso che De Gennaro sia presidente di Finmeccanica”, aveva detto a caldo il presidente del Pd. Unica voce chiara e netta tra i Democratici. Paradossalmente il più vicino alle posizioni di Orfini era proprio Matteo Renzi. I due sono in contatto perenne e anche se su alcune questioni in disaccordo, sempre in ottimi rapporti. Renzi non l’ha mandato avanti, ma non l’ha neanche sconfessato. Ha provato a vedere se Orfini riusciva ad aprire una breccia, perché le dimissioni di De Gennaro le avrebbe volute. Anche se non era (e non è) in grado di chiederle. In quasi tutto il resto del Pd è calato il silenzio. Orfini esprime la “classica” posizione di sinistra in questo caso. Ma nessuno della minoranza (a parte Mucchetti che si è affrettato a dargli torto) si è accodato. Né Bersani né Fassina né Boccia che sono da settimane sul piede di guerra contro l’Italicum. “Trovo curioso che quella che si definisce sinistra consideri una battaglia epocale il numero dei collegi in una legge elettorale e non trovi tempo tra una minaccia e l’altra per esprimersi su questa vicenda”. Ecco, chissà perché. La realtà è che De Gennaro è stato nominato la prima volta dal governo Letta. Una scelta condivisa da molti che adesso sono in minoranza. E anche nella maggioranza renziana non mancano i malumori nei confronti dell’attacco di Orfini. Nel Partito democratico, evidentemente, l’ex capo della Polizia ha molti amici. wa.ma. doppio di quanto prendeva il predecessore Alessandro Pansa. Molto poco renzianamente, Moretti ha preteso di essere assunto come direttore generale a tempo indeterminato con 2,2 milioni annui di emolumento totale. Nel 2014 per sette mesi e mezzo ha preso 1,5 milioni, portando a casa fino all'ultimo euro tutti bonus previsti per la parte variabile. Lo stipendio di De Gennaro è circa un decimo di quello di Moretti, e per lui non è prevista nessuna buonuscita mentre Moretti lascerà con un premio in uscita vicino ai 7 milioni di euro. Nonostante gli ottimi rapporti, questa volta Renzi non ha potuto accontentare Moretti, che continuerà a guardarsi in cagnesco con De Gennaro. Twitter@giorgiomeletti “Io, lo Scarface delle tangenti”: nei guai A “LE IENE” NEGA DI AVER DATO MAZZETTE A PALAZZO CHIGI, I PM INDAGANO MA LO ARRESTANO PER UN’ALTRA VICENDA di Valeria Pacelli S ignori, ho dato tutte tangenti, sono sempre io, Scarface della televisione italiana”. Faceva lo spiritoso, davanti alle telecamere di Italia Uno, David Biancifiori, imprenditore romano che da anni lavora per grandi aziende, da Mediaset a Rai, dove ha curato audio e luci anche per lo spettacolo di Benigni sulla Costituzione. Fino a Palazzo Chigi, dove la sua DiBi Technology, azienda di cui è amministratore delegato, ha vinto in passato molti appalti. Poche ore dopo l’intervista alle Iene (Italia 1) che gli chiedevano se avesse pagato tangenti per gli appalti della Presidenza del Consiglio - che lui ha negato - però, David Biancifiori è stato arrestato dalla Procura di Velletri nell’ambito dell’inchiesta per corruzione che ha portato ai domiciliari il sindaco di Marino (Roma) Fabio Silvagni. Con il primo cittadino, secondo l’accusa, Biancifiori avrebbe pattuito, insieme a un altro imprenditore, una sponsorizzazione da 5mila euro (in contanti e in nero) per la tradizionale sagra dell’uva della città. Denaro come compenso per il cambio di destinazione d’uso dell’area dove sorge un capannone poi destinato alla costruzione di un fast food. Nell’intervista prima dell’arresto, Biancifiore ha risposto alle domande de Le Iene che gli chiedevano conto di quanto affermato su di lui da un anonimo. Quest’ultimo lo ha accusato di aver pagato tangenti per ottenere un appalto a Palazzo Chigi, come pure di aver omaggiato un funzionario con un pianoforte. Vicenda questa sulla quale adesso indaga la Procura di Roma, dopo che il ministro Maria Elena Boschi ha inviato una denuncia. “Avrei fallito se le avessi pagate”, dice l’imprenditore. E pian piano fornisce una serie di chicche su “Scarface”, come lo chiamano in tanti. “Sono nato nel ’95 – dice – facendo il camionista con un gruppo elettrogeno e man mano sono cresciuto. Posso essere stato anche un po’ bravo, no? Io sono soltanto quello che ha la mafia dietro, che corrompe tutti... Scarface è un mafioso etc. Io mi sento una persona che ama il proprio lavoro e che vive soltanto con un obiettivo: arrivare al successo”. Al giornalista che gli chiede: “A Scarface piaceva la cocaina. A te piace?” Lui risponde: “Io sarei un cocainomane, pippato, perché stavo allo stadio con la mia famiglia, con mia madre e tutti quanti (...) Mi hanno perquisito allo stadio. Foglio di perquisizione, negativo...”. Poi chiarisce: “Chi mi conosce sa che non pippo, anche se posso dare quell’impressione anche per i modi di fare”. Durante l’intervista il giornalista gli mostra una lista con i nomi omissati di chi avrebbe pagato tangenti, fornita dalla fonte anonima che parla di imprenditori e “mazzette a Palazzo Chigi per oltre un milione di euro in un me- se”. Osserva la lista e commenta: “Quindi io non guadagnavo niente? Era 1 milione e 100 all’anno, sono 100.000 euro al mese”. POI LE DOMANDE si concentrano sul presunto pia- noforte dato a un funzionario di Palazzo Chigi. L’imprenditore spiega: “Il pianoforte è stato comprato e io gliel’ho lasciato perché lei (...) è una mia socia. Il pianoforte era per lei, non per il funzionario (...) Lui credo dovesse fare all’epoca o i saggi o aveva una cosa importante per essere presa o ammessa da qualche parte e gli serviva”. Diversa la versione fornita dal funzionario che, intervistato, aveva detto: “Quando però dopo un po’ mi hanno detto il prezzo reale del pianoforte, io ho detto no, non posso spendere questa cifra perché pensavo di spendere intorno ai 2.000 euro”. Che si tratti di un omaggio o meno adesso sarà compito della Procura di Roma chiarirlo. E al vaglio dei pm ci potrebbero finire anche gli appalti del passato tra l’imprenditore e Palazzo Chigi, come un contratto dell’ottobre del 2013 per il noleggio del materiale per l’allestimento del vertice per la biennale Italia-Croazia. Valore: oltre 48 mila euro più Iva. Palazzo Chigi Ansa Twitter: @PacelliValeria
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