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Le Societa`
Anno XXXIII
SOMMARIO
DIRITTO SOCIETARIO
Societa`
cooperativa
Risarcimento
del danno
Scissione
Quote sociali
Patto leonino
Il funzionamento dell’organizzazione societaria
Tribunale di Bari 15 aprile 2014
commento di Vincenzo Salafia
649
Condotte illecite del terzo: i confini della tutela riconosciuta ai singoli soci
Cassazione civile, sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27733
commento di Valentina De Campo
653
La c.d. ‘‘scissione negativa’’ (reale) e` inammissibile
Cassazione civile, sez. I, 20 novembre 2013, n. 26043
commento di Cosimo Di Bitonto
661
Questioni processuali e sostanziali in tema di nullita` di contratto di cessione di quote sociali per violazione
del divieto di patto commissorio
Tribunale di Milano, sez. impr., 3 ottobre 2013
commento di Enrico E. Bonavera
675
Opzioni put e divieto di patto leonino
Tribunale di Milano, sez. impr., 3 ottobre 2013
commento di Alessandra Del Bianco e Davide Proverbio
688
DIRITTO DEI MERCATI FINANZIARI
Insider trading
Acquisto di partecipazione di controllo, fattispecie a formazione progressiva, informazione privilegiata
e insider secondario
Corte d’Appello di Milano, sez. I, 4 aprile 2013
commento di Stefano Lombardo
697
PROCESSO ARBITRATO E MEDIAZIONE
Tribunale
delle imprese
Insider trading
La riforma del ‘‘tribunale delle imprese’’
Decreto Legge 23 dicembre 2013, n. 145
commento di Paolo Celentano
711
La decadenza dal potere sanzionatorio della Consob
Corte d’Appello Milano, sez. I, 4 aprile 2013
Corte d’Appello Milano, sez. I, 23 agosto 2013, n. 2603
commento di Enrico Quaranta
719
DIRITTO PENALE COMMERCIALE
Delitti
di corruzione
La riforma dei delitti di corruzione alla verifica della prassi: prime risposte e questioni aperte
di Daniela Tonon
731
OSSERVATORIO
GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITA`
a cura di Vincenzo Carbone e Romilda Giuffre`
746
GIURISPRUDENZA DI MERITO
a cura di Alessandra Stabilini
748
Le Societa` 6/2014
647
Le Societa`
Anno XXXIII
CONSOB
a cura di Matteo Bet
753
FISCALE
a cura di Massimo Gabelli
757
COMUNITARIO
a cura di Silvia Olivieri
766
INDICE
771
Indice Autori
Indice Cronologico
Indice Analitico
COMITATO PER LA VALUTAZIONE
F. Annunziata, C. Consolo, L. De Angelis, G. Fauceglia, G. Guizzi, M. Lamandini, V. Meli, S. Menchini, F. Mucciarelli, A. Pericu, A.
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Mensile di diritto e pratica commerciale
societaria e fiscale
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Le Societa` 6/2014
Giurisprudenza
Diritto societario
Società cooperativa
Il funzionamento
dell’organizzazione societaria
TRIBUNALE DI BARI 15 aprile 2014 - Giudice Lenoci
Società cooperativa per azioni - Assemblea dei soci - Convocazione - Decreto del Tribunale - Ricorso per inibizione dell’assemblea - Legittimazione della società - Insussistenza
(Cod. civ. art. 2367; cod. proc. civ. art. 700)
La società cooperativa per azioni non è legittimata a chiedere in via cautelare l’inibizione della celebrazione e
dello svolgimento dell’assemblea dei soci, convocata dal collegio sindacale in base a decreto del tribunale,
emesso su istanza dei soci, inaudita altera parte, a norma dell’art. 2367, secondo comma, c.c.
Il Tribunale
…(omissis)...
Ritiene il giudicante che il ricorso proposto debba essere rigettato, per quanto di seguito si dirà.
Ed invero, la Banca di Credito Cooperativo di Massafra
soc. coop. p. a., in persona del Presidente del Consiglio
di Amministrazione, richiede la sospensione della convocazione dell’assemblea ordinaria e straordinaria, effettuata dal Collegio Sindacale ex art. 2367, comma 2,
c.c., in sostituzione del C.d.A., a seguito di apposita richiesta effettuata da n. 138 soci, rappresentanti più del
10% del capitale sociale (primo firmatario di tale richiesta il resistente S. D.), sul seguente ordine del giorno: «Parte straordinaria: 1) modifica degli artt. 32, 33 e
34 dello statuto sociale; 2) attribuzione al Presidente del potere di apportare eventuali limitate modifiche in sede di accertamento di conformità da parte della Banca d’Italia ai
sensi dell’art. 56 del d.lgs. 1.9.1993, n. 385. Parte ordinaria; 1) modifica degli artt. 16, 17, 18 e 19 del regolamento
assembleare» (v. verbale del collegio sindacale del
4.3.2014).
La Banca ricorrente contesta, in particolare, la sussistenza del potere del Collegio Sindacale di procedere alla convocazione dell’assemblea in surroga al C.d.A.,
che, con deliberazione del 19.2.2014, aveva rigettato la
richiesta di convocazione avanzata dalla minoranza dei
soci, sulla base di assente irregolarità delle sottoscrizione
dei soci, della mancanza di sottoscrizione degli allegati
contenenti il vecchio ed il nuovo testo delle norme statutarie e regolamentari da modificare, ed in base altresì
alla considerazione che la decadenza degli amministratori non rientrava nella competenza dell’assemblea,
mancando altresì una norma transitoria che assicurasse
la governance in caso di decadenza dei membri del Consiglio (quest’ultimo punto dell’o.d.g., contenuto nella richiesta iniziale dei soci di minoranza, non era tuttavia
riprodotto nella convocazione dell’assemblea da parte
del collegio sindacale).
Le Società 6/2014
Orbene, va evidenziato che nel caso di specie si verte
in un’ipotesi di conflitto interno tra organi della Banca
(il C.d.A. ed il Collegio Sindacale), di fronte al quale
la Banca, quale persona giuridica, rimane sostanzialmente indifferente, posto che anche il Collegio Sindacale agisce quale organo della Banca e ne esprime la volontà, ove interviene in surroga al C.d.A.
Il conflitto, dunque, sussiste non già tra la Banca ed un
suo organo interno (che non ha soggettività giuridica),
ma tra i componenti del C.d.A. ed i componenti del
Collegio Sindacale (che hanno ritenuto di dover convocare l’assemblea in sostituzione dell’organo amministrativo), e pertanto la Banca ricorrente è priva di legittimazione attiva, non potendosi di per sé dolere di una
condotta di un suo organo che, nel momento in cui agisce in surroga ex art. 2367, comma 2, c.c., esprime la
volontà della stessa Banca.
Le doglianze della ricorrente, dunque, potevano essere
sollevate dai componenti del C.d.A., ma non dalla Banca, che rimane neutrale rispetto a tale conflitto, essendo
titolare di un interesse di natura corporativa superiore
rispetto a quello dei singoli contendenti.
Consegue il rigetto del ricorso, e la revoca del decreto
emesso inaudita altera parte il 25.3.2014.
Ogni altra questione resta assorbita.
Non spetta invece a questo G.D. rifissare la data dell’assemblea, potendo questa essere rifissata dal Tribunale
(in composizione collegiale) solo in caso di inerzia anche del collegio sindacale (art. 2367, comma 2, c.c.).
L’assemblea, dunque, dovrà essere fissata nuovamente
dal Collegio sindacale.
Sussistono giustificati motivi per la compensazione integrale tra le parti delle spese del presente giudizio, in
considerazione della peculiarità del caso e delle questioni trattate.
…omissis…
649
Giurisprudenza
Diritto societario
IL COMMENTO
di Vincenzo Salafia
Nel condividere la decisione del Tribunale di Bari, si illustra il funzionamento dell’organizzazione delle società di capitali, ponendo in evidenza come la società non possa contrastare il funzionamento dei propri
organi, essendo esso regolato dalla legge mediante un sistema di relazioni interorganiche che ne assicurano la conformità alla legge e allo statuto.
1. Le società commerciali, sia quelle di capitali
sia quelle di persone, vengono costituite normalmente per gestire imprese commerciali per mezzo
della loro organizzazione.
Il codice civile prevede e disciplina il tipo di organizzazione delle società di capitali fornite di personalità giuridica e rimette, invece, ai soci costituenti ed agli amministratori la scelta della struttura operativa con la quale dovrà essere gestita l’impresa. Tuttavia, alle stesse e di riflesso, secondo la
scelta organizzativa fatta a norma dell’art. 2519
c.c., anche alle cooperative, alla discrezione dei soci è consentito un intervento più o meno incisivo
anche nella scelta dell’organizzazione, sia pure entro limiti prefissati.
Nella società per azioni il codice prevede e regola tre tipi di organizzazione, quello tradizionale
consistente nell’organo amministrativo, nell’assemblea, nel collegio sindacale e, in determinati casi,anche nel revisore contabile (cfr. artt. 2363 e
segg; 2409 octies e segg.; 2409 sexiesdecies e segg.);
nella società a r.l. il codice prevede l’organo amministrativo, il cui tipo è rimesso alla scelta dei soci,
l’assemblea dei soci e, facoltativamente o obbligatoriamente secondo le dimensioni della società, un
organo di controllo o un revisore (cfr. artt. 2475;
2477; 2479 e segg.).
Nelle società personali alla gestione dell’impresa
devono provvedere i soci mediante una struttura
operativa rimessa alla loro libera scelta, che potrebbe consistere anche nella nomina di un terzo
alla funzione di organizzare e dirigere l’amministrazione dell’impresa ovvero nella loro personale attività organizzatrice e gestionale, la cui forma, secondo quanto prevede la legge, potrà essere quella
congiunta di tutti i soci o di quei soci scelti dagli
altri come amministratori ovvero quella disgiunta,
consistente nel potere gestionale di ciascuno dei
soci amministratori (cfr. artt. 2257, 2258 in relazione all’art. 2293 e 2315 c.c.).
Il funzionamento dell’organizzazione societaria e
della struttura operativa è necessario per l’attività
650
dell’impresa e, quindi, per la vita della società,la
quale si identifica con la propria organizzazione.
Nelle società di capitali e nelle cooperative, nelle quali, come già detto, l’organizzazione è complessa, il funzionamento della società viene assicurato dalle relazioni fra gli organi nei quali l’organizzazione consiste.
La legge e gli statuti concorrono a determinare
le competenze di ciascun organo ed i relativi poteri
e obblighi.
In particolare l’assemblea dei soci si riunisce e
delibera su convocazione fatta dall’organo amministrativo, di propria iniziativa o su sollecitazione dei
soci, ovvero, in sua surroga, dall’organo sindacale;
può anche riunirsi ad iniziativa diretta dei soci,
portatori di una determinata quota di capitale prescritta dalla legge nella società a r.l. (cfr. art. 2479
primo comma c.c.). La legge considera valida anche l’assemblea costituita,senza convocazione, dal
concorso di tutti i soci e dalla partecipazione, anche solo maggioritaria, degli amministratori e dei
componenti dell’organo di controllo nella società
per azioni, ovvero anche, nella s.r.l., solo dalla loro
avvenuta informazione (cfr. art. 2479 quinto comma c.c.).
Il corretto funzionamento dell’organizzazione
viene assicurato dal potere di impugnazione degli
atti dell’organo amministrativo e dell’assemblea da
parte dei soci e, in determinati casi, anche da parte
dell’organo di controllo. La società è legittimata ad
agire per il risarcimento dei danni arrecatile dalle
deliberazioni illecite dell’organo amministrativo,
dall’omessa vigilanza dell’organo di controllo (cfr.
art. 2392 c.c.) e, nella società a r.l., dal concorso
dei soci che abbiano intenzionalmente deciso o
autorizzato il compimento di atti dannosi (cfr. art.
2476 settimo comma c.c.).
Infine i soci ed anche i terzi sono legittimati ad
agire per il risarcimento dei danni subiti a causa di
atti illegittimi degli amministratori (cfr. art. 2395 e
2476 sesto comma c.c.).
L’eventuale conflitto fra l’organo amministrativo
e quello di controllo sarà risolto dal tribunale nei
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto societario
casi previsti dall’art. 2409 c.c. in concorrenza con
l’autorità di vigilanza relativamente alle cooperative ovvero anche dall’intervento dell’assemblea mediante l’eventuale revoca dall’incarico dei componenti dell’uno o dell’altro organo. Al procedimento previsto dall’art. 2409 partecipa anche la società
per esprimere la propria valutazione sul conflitto in
vista della possibile revoca dei componenti dell’organo amministrativo e di quello di controllo con la
conseguente loro sostituzione con un amministratore nominato dal tribunale per un breve tempo fino alla nomina da parte dell’assemblea dei nuovi
amministratori e sindaci.
2. L’organizzazione è, dunque, il corpo della società, il suo funzionamento è il funzionamento della società; ciascun atto del funzionamento dell’organizzazione è atto di funzionamento della società
ed è perciò ad essa imputabile.
Questo funzionamento potrà essere corretto o
scorretto, legittimo o illegittimo, ma in ogni caso
sarà atto proprio della società.
La contestazione degli atti di funzionamento avviene, nella previsione legislativa, per mezzo dell’intervento di organo diverso da quello che ha
compiuto l’atto. Solo se le venisse opposto un atto
del suo funzionamento da parte di un terzo soggetto, la società lo potrà contestare allegandone l’illegittimità, in quanto compiuto in violazione di regole legislative o statutarie ovvero da soggetti
estranei alla propria organizzazione.
3. Ciò premesso in linea generale, può ora essere
valutata la fattispecie sulla quale il Tribunale di
Bari ha dovuto decidere.
Alcuni soci, in possesso di quote di capitale nella misura quantitativa richiesta dall’art. 2367 c.c.,
avevano chiesto all’organo amministrativo la convocazione dell’assemblea per deliberare su modifiche statutarie, alcune delle quali sembra che, a
quanto sommariamente detto nell’ordinanza, riguardassero il potere dell’assemblea di dichiarare la
decadenza degli amministratori dalla loro carica.
L’organo amministrativo e, in sua surroga, l’organo
sindacale non avevano accolto la richiesta; donde
l’istanza dei soci al Tribunale a norma dell’art.
2367 c.c. Il Tribunale l’aveva accolto ed aveva ordinato agli amministratori e ai sindaci di convocare l’assemblea. Alla convocazione aveva in concreto provveduto il Collegio sindacale.
Sembra di capire dallo stringato testo dell’ordinanza che, sebbene l’ingiunzione del tribunale fosse stata indirizzata agli amministratori e ai sindaci,
questi ultimi avevano eseguito l’ingiunzione in difetto di osservanza da parte degli amministratori.
Le Società 6/2014
Sembra, cioè, che, nonostante l’ingiunzione del
Tribunale che direttamente li coinvolgeva, gli amministratori non vi avevano ottemperato ed avevano contestato la convocazione fatta dai sindaci.
A questo punto è insorta la società con la singolare istanza al Tribunale, autore dell’ingiunzione
eseguita dai sindaci, di inibire gli effetti dell’adempimento dell’ingiunzione da parte dei sindaci; singolare istanza perché chiedeva al tribunale di sconfessare l’avvenuto puntuale adempimento della sua
ordinanza da parte dei sindaci.
Anche se si volesse interpretare l’istanza come
domanda di revoca della precedente ingiunzione,
la sua singolarità non verrebbe meno per due ragioni.
Anzitutto, l’istanza cautelare a norma dell’art.
700 c.p.c. è consentita solo in presenza di fondato
motivo di temere che, durante il tempo per far valere un diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile.
Condizione questa nella specie inesistente perché
la minaccia non poteva consistere nella riunione
dell’assemblea, di per sé innocua, ma solo nelle
eventuali deliberazioni che essa avesse preso, avverso le quali, però, era possibile l’impugnazione a
norma degli artt. 2377 e segg. c.c. e, quindi, un valido rimedio contro l’eventuale danno che ne potesse derivare.
In secondo luogo, la convocazione dell’assemblea era stata disposta dai sindaci non nello spontaneo esercizio delle loro funzioni ma nel doveroso
adempimento di un obbligo imposto dall’ordinanza
giudiziaria.
Il Tribunale di Bari ha, però, correttamente fermato la propria disamina dopo la negativa valutazione della legittimazione processuale della società
ricorrente.
Questa non poteva chiedere l’inibizione di effetti derivanti da un atto di convocazione ad essa imputabile, per le ragioni sopra esposte. In via astratta si potrebbe anche osservare che la società avrebbe potuto revocare la convocazione dell’assemblea
per il tramite dell’organo amministrativo, ma nella
specie questa via le era preclusa in presenza dell’ordine giudiziario che l’aveva disposta. La cui esecuzione, tuttavia, avrebbe dato luogo alla riunione assembleare nel cui ambito ogni eccezione avrebbe
potuto essere sollevata, anche sulla ritualità della
convocazione, con salvezza in ogni caso dell’impugnabilità delle deliberazioni, che fossero state prese, con il tramite dell’organo amministrativo, legittimato a norma dell’art. 2377 c.c.
651
Giurisprudenza
Diritto societario
La società non ha il potere di impedire il funzionamento della propria organizzazione, ma ha quello
di agire per il risarcimento che le sue scorrettezze
arrechino al patrimonio sociale, beneficiando
eventualmente dell’azione di tutela promossa dai
soci, alle condizioni previste dalla legge, nel caso
in cui l’organo assembleare o quello sindacale non
deliberassero l’azione di responsabilità (cfr. artt.
2393 bis e 2476 c.c.).
In particolare la società non può impedire la riunione dell’assemblea dei soci convocata dall’organo
amministrativo o da quello sindacale, spontaneamente o su richiesta dei socio per ordine del giudice. La convocazione dell’assemblea non è atto nocivo agli interessi della società, ma è atto strumentale alla futura deliberazione dell’assemblea dei soci
sui temi ad essa sottoposti.
La società non è, come inesattamente osserva il
Tribunale, soggetto indifferente al conflitto fra
652
consiglio di amministrazione e collegio sindacale
in ordine alla convocazione dell’assemblea, in
quanto la società, come già sopra detto, si identifica con la propria organizzazione ed i conflitti all’interno di essa devono risolversi con l’applicazione
delle regole legislative sopra indicate, le quali costituiscono il modo in cui l’organizzazione vive ed
agisce. La società, persona giuridica, non è entità
estranea alla sua organizzazione ma è l’organizzazione stessa.
Sullo specifico tema, qui esaminato, non si riscontrano precedenti giurisprudenziali; in dottrina
i rapporti fra gli organi delle società di capitali è
utile consultare: Trattato di diritto commerciale
diretto da F. Galgano - vol. XXIX a cura di Galgano e Genghini Tomo primo “Le nuove società di
capitali e cooperative” e Manuale delle società di
F. Di Sabato per le società di persone.
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto societario
Risarcimento del danno
Condotte illecite del terzo: i
confini della tutela riconosciuta
ai singoli soci
Cassazione civile, Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27733 - Pres. Carnevale - Est. Lamorgese - C.
D. e C. L. c. Unicredit Banca S.p.a. e Banca Popolare di Cassinate S.p.a.
Società - Società di capitali - Danno diretto ai soci da parte di terzi danneggianti - Legittimazione attiva del socio - Condizioni
(Cod. civ. artt. 1936-1957, 1944-1948, 2043, 2350, 2059, 2377, 2395, 2484)
I soci di una società di capitali non hanno titolo al risarcimento dei danni che costituiscano mero riflesso del
pregiudizio arrecato da terzi alla società, in quanto siano una mera porzione di quello stesso danno subito
dalla stessa, con conseguente reintegrazione indiretta a favore del socio; peraltro, un danno non può considerarsi giuridicamente riflesso quando tale possibilità non sussista, come per i danni arrecati alla sua sfera personale (diritto all’onore o alla reputazione) o di taluni danni patrimoniali, come quelli derivanti dalla perdita
di opportunità personali, economiche e lavorative, o dalla riduzione del cd. merito creditizio, i quali vanno risarciti in favore del socio da parte del terzo responsabile (massima ufficiale).
La Corte (omissis).
1.- Nel primo motivo del ricorso principale i sig.ri C.,
nel denunciare violazione e falsa applicazione degli artt.
2043, 2350, 2377, 2395 e 2484 c.c., artt. 99, 100, 112 e
116 c.p.c., artt. 41 e 42 c.p., e vizio di motivazione,
chiedono di dare risposta positiva al quesito se i soci di
società di capitali (nella specie, assoggettate a fallimento) siano legittimati a chiedere ai terzi responsabili il risarcimento dei pregiudizi subiti alla loro partecipazione
sociale, nonché il risarcimento degli ulteriori danni per
la impossibilità di intraprendere attività economiche e
per la chiusura dei conti correnti personali, nonché alla
vita di relazione, in conseguenza delle sofferenze personali subite.
Nel secondo motivo del ricorso, che denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., artt.
99, 100, 112 e 116 c.p.c., artt. 41 e 42 c.p., e vizio di
motivazione, i ricorrenti chiedono di dare risposta positiva al quesito se due istituti bancari, che abbiano posto
in essere comportamenti illeciti nei confronti di due società, devono rispondere dei danni arrecati alla sfera
giuridica dei soci. In particolare, quanto a C.L., per la
perdita della carica di amministratore delegato ricoperta
nelle società e dei relativi emolumenti, di ogni possibilità lavorativa e della stessa possibilità di intrattenere
rapporti bancari (stante la segnalazione alla Centrale
Rischi), nonché per i danni personali subiti anche all’immagine e all’identità personale, ecc.; quanto a C.D.,
per la perdita della possibilità di intrattenere rapporti
bancari e per lo sconvolgimento della propria vita,
Le Società 6/2014
avendo dovuto abbandonare la professione forense fino
ad allora svolta per dedicarsi, dopo tre anni di depressione e di inattività, alla professione di insegnante, e
per il pregiudizio alla vita di relazione, in conseguenza
delle gravi afflizioni subite e della perdita della serenità
familiare.
1.1.- I suddetti motivi, da esaminare congiuntamente
perché connessi tra loro, sono fondati nei limiti di cui
si dirà.
Questa Corte ha da tempo affermato che i soci di una
società di capitali non hanno titolo per avanzare pretese
risarcitorie nei confronti del terzo che con il suo comportamento illecito abbia danneggiato la società, con
conseguente depauperamento del patrimonio personale
degli stessi soci, per la perdita del capitale investito nella società e della possibilità di incassare utili di gestione,
atteso che la perfetta autonomia patrimoniale inerente
alla personalità giuridica della società comporta la netta
separazione tra il patrimonio sociale e quello personale
dei soci, dalla quale derivano l’esclusiva imputazione alla società stessa dell’attività svolta in suo nome e delle
relative conseguenze patrimoniali passive, essendo la responsabilità del socio limitata al bene conferito, e l’esclusiva legittimazione della società all’azione risarcitoria nei confronti del terzo che con la propria condotta
illecita abbia recato pregiudizio al patrimonio sociale;
mentre gli effetti negativi sull’interesse economico del
socio (riduzione del valore della quota e compromissione della redditività dell’investimento) costituiscono mero riflesso di detto pregiudizio e non conseguenza diretta
653
Giurisprudenza
Diritto societario
ed immediata dell’illecito (v. Cass. n. 17938 del 2005;
sez. un., n. 27346 del 2009).
Di questo principio - che rappresenta il naturale completamento del divieto (posto dall’art. 2395 c.c., con riferimento agli “atti colposi o dolosi degli amministratori”) di risarcire al socio il c.d. danno riflesso nel caso in
cui l’autore del danno sia un terzo - la corte romana ha
fatto erronea applicazione, senza indagarne la ratio e verificarne la integrale applicabilità nella fattispecie, in
relazione alla concreta tipologia dei danni dedotti dai
ricorrenti.
La ratio sottesa a quel principio è stata così enucleata da
questa Corte: “se si ammettesse che i soci di una società
di capitali possano agire per ottenere il risarcimento dei
danni procurati da terzi alla società, in quanto incidenti
sui diritti derivantigli dalla partecipazione sociale, non
potendosi negare lo stesso diritto alla società, si finirebbe con il configurare un duplice risarcimento per lo
stesso danno” (Cass. n. 27346 del 2009 cit.). La dottrina ha messo in evidenza le incongruenze cui darebbe
luogo la possibilità per il socio di agire a tutela del proprio patrimonio individuale, a fronte di illeciti che, colpendo il patrimonio comune, postulano che l’azione risarcitoria sia di pertinenza della società, in quanto rimedio funzionale ad un vantaggio collettivo, poiché gli effetti positivi della reintegrazione del patrimonio sociale
devono riguardare tutti i soci in misura paritaria.
È vero che il danno sofferto dal patrimonio della società
è per lo più destinato a ripercuotersi anche sui soci, incidendo negativamente sul valore o sulla redditività
della loro quota di partecipazione; ma - fatte salve le limitate eccezioni oggi introdotte dall’art. 2497 c.c. (come modificato dal D.Lgs. n. 6 del 2003), in tema di responsabilità dell’ente posto a capo di un gruppo di imprese societarie, che qui non rilevano - il sistema del diritto societario impone di tener ben distinti i danni direttamente inferti al patrimonio del socio (o del terzo)
da quelli che siano il mero riflesso di danni sofferti dalla
società. Dei danni diretti, cioè di quelli prodotti immediatamente nella sfera giuridico - patrimoniale del socio
e che non consistano nella semplice ripercussione di un
danno inferto alla società, solo il socio stesso è legittimato a dolersi; di quelli sociali, invece, solo alla società
compete il risarcimento, di modo che per il socio anche
il ristoro è destinato a realizzarsi unicamente nella medesima maniera indiretta in cui si è prodotto il suo pregiudizio.
A questa seconda categoria di danni appartengono
quelli derivanti dalla perdita della redditività e del valore della partecipazione (v. Cass. n. 6364 del 1998) e
della possibilità di conseguire gli utili (v. Cass. n. 6558
del 2011), nonché dalla perdita del capitale sociale
“che è un bene della società e non dei soci” (v. Cass. n.
15220 del 2010, n. 10271 del 2004, n. 9385 del 1993) e
delle potenzialità reddituali della stessa, ecc. Poiché a
questa tipologia appartengono i danni dedotti prevalentemente nel primo motivo, in particolare quelli arrecati
alla loro partecipazione sociale, intesa come coacervo di
diritti gestori, amministrativi e liquidatori, bene ha fat-
654
to la sentenza impugnata ad escluderne la risarcibilità
in favore dei soci ricorrenti uti singuli.
Tuttavia, come si evince in parte dallo stesso primo motivo e, soprattutto, dal secondo, i ricorrenti avevano dedotto anche danni ulteriori, patrimoniali e (soprattutto)
non patrimoniali, che la corte del merito ha giudicato
anch’essi come indiretti, senza fornire però alcuna spiegazione circa la possibilità - in relazione alla quale soltanto si spiega la preclusa ammissibilità dell’azione diretta dei soci - di rivendicarli come propri da parte della
società, alla luce della illustrata ratio del principio richiamato dalla medesima corte, che è quella di evitare
l’esposizione del danneggiante ad una duplice richiesta
risarcitoria. Ci si riferisce ai danni patrimoniali che i ricorrenti deducono di avere subito come persone, prima
che come soci, sul piano dell’attività economica e a
quelli non patrimoniali per le ripercussioni negative sulla loro vita personale e di relazione.
Questa Corte ha avuto occasione di affermare che l’ente pubblico socio di una società di capitali ha azione diretta (nei confronti degli amministratori della società,
dinanzi al giudice contabile) per il risarcimento del
danno all’immagine che può prodursi “immediatamente” in capo ad esso, “per il fatto stesso di essere partecipe di una società in cui quei comportamenti illegittimi
si siano manifestati, e che non s’identifica con il mero
riflesso di un pregiudizio arrecato al patrimonio sociale,
indipendentemente dall’essere o meno configurabile e
risarcibile anche un autonomo e distinto danno all’immagine della medesima società” (Cass., sez. un., n.
26806 del 2009).
Ciò dimostra che un danno non è dipendente o “giuridicamente” riflesso per il solo fatto che uno analogo
possa essere subito anche dalla società o, al limite, da
tutti i soci, occorrendo invece che costituisca esattamente una porzione di quello stesso danno subito dalla
(e risarcibile alla) società, la cui reintegrazione a favore
del socio sarà (e potrà essere) indiretta. Quando questa
possibilità non sussiste, in presenza di danni arrecati alla
sfera personale (all’immagine, all’onorabilità, ecc.) e patrimoniale del socio (si pensi alla perdita di opportunità
economiche e lavorative o alla riduzione del c.d. merito
creditizio), il danno rimane pur sempre diretto e, quindi, risarcibile al socio dal terzo responsabile.
2.- Il terzo motivo di ricorso, che denuncia violazione e
falsa applicazione degli artt. 2043, 2059, 1936 e 1957
c.c., art. 116 c.p.c., artt. 41 e 42 c.p., e vizio di motivazione, è corredato da un quesito nel quale si chiede se il
terzo che ha danneggiato con la sua condotta il patrimonio del debitore principale e ne ha provocato il dissesto, determinando conseguentemente l’obbligo del fideiussore di pagare i debiti non soluti, sia tenuto a risarcire al fideiussore il danno determinato dall’attivazione
della garanzia, che in mancanza dell’illecito non sarebbe
avvenuta.
2.1.- Il motivo è fondato.
Si legge nella sentenza impugnata che, a seguito del fallimento delle società, i ricorrenti erano rimasti obbligati
ad adempiere senza subire un incremento dell’obbligazione garantita, cioè “con le stesse modalità e per i me-
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto societario
desimi importi garantiti”, con conseguente esclusione di
un danno risarcibile in loro favore. In tal modo, tuttavia, la corte del merito, non avendo valutato che il dissesto delle società Starter era stato, in tesi, causato dal
comportamento delle banche convenute nel giudizio,
da cui era derivata l’attivazione delle fideiussioni che
non vi sarebbe altrimenti stata, non si è avveduta che
l’azione proposta dai ricorrenti (quali fideiussori) aveva
natura extracontrattuale, a norma dell’art. 2043 c.c., facendo essi valere un danno ingiusto (nell’ampia nozione, generalmente accolta, comprensiva di qualsiasi lesione di interessi giuridicamente rilevanti) causato dal
comportamento imputabile al creditore, non inerente ai
rapporti diretti tra creditore e fideiussore a norma degli
artt. 1944 e 1948 c.c., ma alla violazione degli obblighi
nascenti dal rapporto contrattuale tra creditore e debitore principale (v. Cass. n. 18086 del 2013).
3.- La BCP propone ricorso incidentale condizionato
avverso la statuizione con cui la sentenza impugnata ha
dichiarato assorbito (a suo avviso, erroneamente) l’appello incidentale da essa spiegato in via subordinata in
caso di accoglimento del gravame principale, al fine di
conseguire il riconoscimento del proprio diritto di rivalsa (nei confronti di BANC e di C.L.) dalle conseguenze
dannose derivanti dalla eventuale condanna al risarcimento in favore degli attori C.
3.1.- Esso è inammissibile, trattandosi di un ricorso incidentale condizionato con il quale la parte vittoriosa solleva questioni che il giudice di appello non ha deciso in
senso ad essa sfavorevole avendole ritenute assorbite, in
quanto tali questioni, in caso di accoglimento del ricorso principale, possono essere riproposte davanti al giudice di rinvio (tra le tante, Cass., sez. un., n. 14382 del
2002).
4.- In conclusione, in accoglimento del ricorso principale, la sentenza impugnata è cassata con rinvio alla
Corte di appello di Roma che, in diversa composizione,
dovrà riesaminare la vicenda processuale alla luce dei
principi sopra esposti, valutando nel merito le domande
risarcitorie che siano ammissibili, nonché liquidare le
spese del giudizio di cassazione.
(omissis).
IL COMMENTO
di Valentina De Campo (*)
Il commento si occupa della delicata questione, affrontata dalla Suprema Corte, relativa alla legittimazione del socio ad agire per il risarcimento dei pregiudizi patiti a causa dell’illecito del terzo, offrendo, in particolare, una panoramica degli approdi cui sono giunte dottrina e giurisprudenza con riferimento alle nozioni di “danno diretto” e “danno indiretto”.
Il caso
Nel caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte, due soggetti, rispettivamente socio e socio amministratore di una S.p.A. e di una S.r.l., convenivano in giudizio due istituti bancari per il risarcimento dei danni patiti.
In particolare, le condotte tenute dai due istituti, in relazione alla negoziazione di assegni inerenti
a una fornitura e risultati poi insoluti, avevano
condotto all’iscrizione di ipoteca nei confronti delle due società e al loro fallimento. Gli stessi soci,
inoltre, in veste di fideiussori della società, si erano
trovati a dover versare ingenti somme di denaro a
copertura delle obbligazioni garantite.
In considerazione di tali avvenimenti, i ricorrenti chiedevano il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti, deducendo, in particolare, il pregiudizio alla partecipazione sociale, i
danni determinati dall’impossibilità di intraprendere attività economiche e per la chiusura di conti
correnti personali, la perdita della capacità lavorativa e della possibilità di intrattenere rapporti bancari, la perdita della carica di amministratore unitamente ai pregiudizi all’immagine, all’identità personale e alla vita di relazione.
La Corte d’Appello di Roma, conformemente alla decisione assunta dal giudice di prime cure, rigettava le domande di risarcimento avanzate dagli
attori, rilevando come i danni lamentati non fossero altro che mero riflesso di quelli direttamente subiti dalle società fallite a causa delle condotte illecite tenute dagli istituti bancari.
La Suprema Corte, investita in ultima istanza
della questione, si è trovata nuovamente a esprimersi circa la legittimazione del socio ad agire nei
confronti del terzo per il risarcimento dei danni subiti a causa della condotta illecita di quest’ultimo e
a ribadire e precisare i confini della distinzione tra
“danni diretti” e “danni indiretti”.
(*) Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee.
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Giurisprudenza
Diritto societario
La Suprema Corte, nella sentenza in commento,
si premura anzitutto di ribadire, in conformità all’indirizzo prevalente, sostenuto di recente anche
dalle Sezioni Unite (1), il principio di irrisarcibilità, nei confronti dei singoli soci, di quei danni c.d.
“indiretti” o “riflessi” che siano cioè mera conseguenza del depauperamento del patrimonio subito
dalla società per effetto dell’illecito del terzo (2).
Ai fini della definizione e individuazione di tali
danni, giova anzitutto un richiamo alle considerazioni svolte, sia in dottrina che in giurisprudenza,
con riferimento all’art. 2395 c.c., norma di chiusura della disciplina relativa alla responsabilità degli
amministratori di S.p.A. e considerata applicazione
dell’art. 2043 c.c. nel caso di illeciti compiuti dagli
amministratori nella gestione sociale (3). La disposizione riconosce, in particolare, il diritto di agire
per il risarcimento del danno cagionato da atti colposi o dolosi degli amministratori solo in capo ai
soci e terzi che siano stati «direttamente danneggiati» (4). In tale contesto, peraltro, il concetto di
“danno diretto” è stato ricostruito alla stregua di
un pregiudizio arrecato dagli amministratori al patrimonio personale del socio (o del terzo) nella
“neutralità” del patrimonio sociale (5). La sussistenza di un nesso causale diretto tra il verificarsi
del danno ed il pregiudizio arrecato al patrimonio
individuale del socio è stato considerato, invero,
quale fondamentale elemento di distinzione tra l’azione esperibile ai sensi dell’art. 2395 c.c. e le altre
azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di cui agli artt. 2393, 2393bis e 2394
c.c. (6).
La giurisprudenza, investita in diverse occasioni
del compito di valutare la legittimazione del socio
all’esperimento dell’azione di cui all’art. 2395 c.c. e
la possibilità per lo stesso di reagire all’illecito posto in essere da un terzo, ha fornito importanti indicazioni circa il carattere diretto o meno dei danni lamentati.
In particolare, è stata considerata alla stregua di
danno indiretto la riduzione del valore della partecipazione in quanto effetto mediato del pregiudizio direttamente arrecato al patrimonio sociale. In tale
ipotesi, si è infatti evidenziato come la partecipazione, pur attribuendo al socio una complessa posizione, comprensiva di diritti e poteri, rappresenti, tuttavia, un bene distinto dal patrimonio sociale, per
cui, nel caso di diminuzione di valore della stessa, il
pregiudizio derivante al socio può essere considerato
solo quale conseguenza indiretta ed eventuale della
condotta illegittima dell’amministratore (7). Inoltre,
(1) Cass., sez. un., 24 dicembre 2009, n. 27346, in Banca
borsa tit. cred., 2011, II, 131, con nota di V. Pinto; in Giur. it.,
2010, 5, 1081, con nota di M. Spiotta.
(2) In relazione alla medesima problematica, si vedano anche: Cass. 14 febbraio 2012, n. 2087, in Corr. giur., 2012, 4,
499, con nota di V. Carbone; in Giur. it., 2012, 12, 2569, con
nota di A. Capoccetti; Cass. 19 aprile 2010, n. 9295, in Diritto
e giustizia, 2010; Cass. 8 settembre 2005, n. 17938, in Diritto e
giustizia, 2005, 40, 32, con nota di V. Infante; Cass. 3 aprile
1995, n. 3903, in Giust. civ., 1995, I, 2423, con nota di G. Vidiri; in questa Rivista, 1995, 1544, con nota di P. Balzarini; in
Corr. giur., 1995, 9, 1082, con nota di F. Frumigli.
(3) Cass. 22 marzo 2011, n. 6558, in Foro it., 2012, I, c.
1165; Cass. 3 aprile 2007, n. 8359, in Giust. civ. Mass., 2007,
4. In dottrina: A. Audino, sub art. 2395 c.c., in Il nuovo diritto
delle società, (a cura di) M. Maffei Alberti, I, Padova, 2005, 856
per cui «l’art. 2395 riguarda soltanto la responsabilità incorsa
nella gestione sociale, e non quella che non abbia alcun collegamento, o lo abbia soltanto incidentalmente, con l’attività gestoria, nel qual caso potrà comunque essere invocata la generale responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.»; A. Silvestrini,
sub art. 2395 c.c., in La riforma delle società, Tomo I, Torino,
2003, 508; G. Bianchi, Gli amministratori di società di capitali,
Padova, 2006, 760.
(4) Nell’ambito delle S.r.l. analoga disposizione è prevista
dall’art. 2476, comma 6, c.c. In tema, si veda S. Di Amato, Le
azioni di responsabilità nella nuova disciplina della società a responsabilità limitata, in Giur. comm., 2003, 3, 286. Sul rapporto
tra l’art. 2395 e l’art. 2476 c.c., si veda L. Bugatti, Amministratore, danni al socio o al terzo e azione diretta, in Danno e responsabilità, 2011, 1, 25, nota a Cass. 23 giugno 2010, n.
15220.
(5) V. Pinto, La responsabilità degli amministratori per «danno diretto» agli azionisti, in Il nuovo diritto delle società. Liber
amicorum Gian Franco Campobasso (diretto da) Abbadessa e
Portale, 2, Torino, 2006, 921.
(6) In giurisprudenza, ex multis: Cass. 22 marzo 2011, n.
6558, cit.; Cass. 28 febbraio 1998, n. 2251, in Giur. it., 1998,
1639; Cass. 1 aprile 1994, n. 3216, in Foro it., 1995, I, 1302;
Trib. Milano 19 aprile 1993, in Giur. it., I, 2, 641. In dottrina: A.
Audino, sub art. 2395 c.c., in Il nuovo diritto delle società, (a cura di) M. Maffei Alberti, I, Padova, 2005, 854-855; C. Conforti,
La responsabilità civile degli amministratori di società, II, in Trattati (a cura di) P. Cendon, Milano, 2003, 840; Bonelli, La responsabilità degli amministratori di S.p.A. dopo la riforma delle
società, Milano, 2004, 213-214; Malavasi, L’azione di responsabilità ex art. 2395 c.c. contro amministratori e sindaci delle SIM,
in questa Rivista, 2004, 6, 733 e ss., nota ad App. Milano, 9 dicembre 2003.
(7) Cass. 22 marzo 2012, n. 4548, in Rivista dei dottori commercialisti, 2012, 2, 447; Cass. 22 marzo 2011, n. 6558, cit.;
Cass. 3 aprile 2007 n. 8359, cit.; Cass. 4 aprile 2003, n. 5323,
in Nuovo dir. Soc., 1/2003, 54; Cass. 4 dicembre 2002, n.
17187, in Mass. Foro it., 2002; Cass. 27 giugno 1998, n. 6364,
in questa Rivista, 1998, 1021. Contra, Cass. 9 luglio 1997, n.
6201, in Giust. civ., 1997, 1165.
Invero, infatti, in assenza di una norma di portata generale che regoli l’ipotesi in cui un terzo cagioni con la propria condotta un danno ai soci, si
pone la delicata questione relativa alla necessità di
coniugare la disciplina comune dell’illecito aquiliano con i principi del diritto societario.
La nozione di danno indiretto o riflesso.
Le indicazioni dalla giurisprudenza
656
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto societario
Quanto alle argomentazioni svolte, la Suprema
Corte, fa riferimento anzitutto al concetto di per-
sonalità giuridica, rilevando come da questa derivi
la perfetta autonomia patrimoniale della società e,
di conseguenza, la netta separazione del patrimonio
di questa da quello dei singoli soci. Riferendosi alla
personalità giuridica della società, la Suprema Corte non fa che ribadire l’assunto, ormai consolidato (12), per cui, se è vero che il socio di una società di capitali, aderendo all’iniziativa societaria, limita il proprio rischio entro i confini del proprio
conferimento, ciò determina, specularmente, dal
punto di vista dei diritti, che sia la sola società legittimata ad agire per il risarcimento dei pregiudizi
cagionati dal terzo al patrimonio sociale.
Il fatto di ancorare al concetto di personalità
giuridica l’esclusione della possibilità per il socio di
agire a tutela dei danni subiti quali riflesso del pregiudizio patito in primis dalla società e dal suo patrimonio, non è invero andato esente da critiche
da parte della dottrina. Secondo un’interpretazione, infatti, far conseguire il principio di irrisarcibilità del danno riflesso in favore del socio al concetto di personalità giuridica nasconderebbe un approccio di natura “concettualista”, che rinuncerebbe a priori alla ricerca di quei valori tutelati dall’ordinamento societario che ne giustifichino il
fondamento (13).
In secondo luogo, la Suprema Corte cita, quale
ratio vera e propria del principio che esclude la legittimazione del socio, la necessità di evitare una
duplicazione del risarcimento del danno in capo all’autore dell’illecito, posto che del ristoro ottenuto
(8) Cass., sez. un., 24 dicembre 2009, n. 27346, cit.; Cass.
8 settembre 2005, n. 17938, cit.; Cass. 3 aprile 1995, n. 3903,
cit.; Cass. 2 giugno 1988, n. 3742, in Giur. comm., 1990, II, 42.
(9) Cass. 22 marzo 2012, n. 4548, cit.; Cass. 22 marzo 2011,
n. 6558, cit.; Cass. 23 giugno 2010, n. 15220, in Danno e resp.,
2011, n. 1, 23, con nota di L. Bugatti; Cass. 3 aprile 2007, n.
8359, cit.; Cass. 8 settembre 2005, n. 17938, cit.; Cass. 28 maggio 2004, n. 10271, in Foro it., 2005, I, 816; Cass. 27 giugno
1998, n. 6364, cit.; Cass. 7 settembre 1993, n. 9385, in Fall.,
1994, 44. Per una disamina dell’opposta interpretazione che
considera la posizione del socio alla stregua di un diritto di credito (credito agli utili e alla quota di liquidazione) tutelabile direttamente e autonomamente, in giurisprudenza: Cass. 27 luglio
2005, n. 15721, in Foro it., 2006, I, col.1849 con nota di M. Silvetti; Cass. 13 gennaio 1999, n. 294, in Riv. dir. comm., 2000, II,
241; in dottrina: F. Frumigli, Danni del socio e danni della società, in Corr. giur., 1995, 9, 1082, nota a Cass. 3 aprile 1995, n.
3903; V. Carbone, Danni prodotti da società di revisione e legittimazione al risarcimento, in Corr. giur., 2010, II, 159, nota a Cass.
24 dicembre 2009, n. 27346; Id., Danni cagionati da un terzo al
patrimonio di una s.r.l.: la posizione del socio tra difetto di legittimazione e il c.d. danno indiretto, in Corr. giur., 2012, 502, nota a
Cass. 14 febbraio 2012, n. 2087; M. Libertini e G. Scognamiglio,
Illecito del terzo e legittimazione del socio all’azione risarcitoria, in
Riv. dir. priv., 2002, 2, 409 e ss.
(10) Cass., sez. un., 24 dicembre 2009, n. 2736, cit.; Cass.,
sez. un., 23 ottobre 2006, n. 22659, in Giur. it., 2007, 1, 113;
Cass. 8 settembre 2005, n. 17938, cit.
(11) Cass. 23 giugno 2010, n. 15220, cit.; Cass. 28 maggio
2004, n. 10271, cit.; Cass. 7 settembre 1993, n. 9385, cit.
(12) Cass., sez. un., 24 dicembre 2009, n. 27346, cit.; Cass.,
sez. un., 19 dicembre 2009, n. 26806, in Foro amm., 2010, 1,
59; Cass. 8 settembre 2005, n. 17938, cit.; Cass. 19 agosto
2003, n. 12114, in Foro it. Rep., 2003, voce Fallimento, n. 112.
(13) In questo senso, V. Pinto, Illecito del terzo, danno riflesso e legittimazione dell’azionista, in Banca borsa tit. cred., 2011,
II, 144, nota a Cass., sez. un., 24 dicembre 2009, n. 27346,
cit., il quale sottolinea, in particolare, come il principio di “canalizzazione” del risarcimento in favore della società trovi la
propria ragione nella necessità di tutelare l’integrità del capitale sociale impedendo la fuoriuscita di valori positivi, con un sostanziale aggiramento delle regole sull’integrità del capitale.
Nello stesso senso si è espressa anche M. Spiotta, La nozione
di “danno diretto” (nella fattispecie, da negligente revisione) secondo le Sezioni unite, in Giur. it., 2010, 5, 1089, nota a Cass.,
sez. un., 24 dicembre 2009, n. 27346. Contra, sottolineano la
rilevanza della personalità giuridica: G. Vidiri, Sulla mancanza
di legittimazione del socio all’azione per danni cagionati da terzi
ad una società di capitali, in Giust. civ., 1995, I, 2423, nota a
Cass. 3 aprile 1995, n. 3903; V. Carbone, Danni prodotti da società di revisione e legittimazione al risarcimento, nota a Cass.
24 dicembre 2009, n. 27346, 159, cit.; V. Infante, Danni a una
s.p.a? Il socio non può chiedere il risarcimento, in Diritto e giustizia, 2005, 40, 28, nota a Cass. 8 settembre 2005, n. 17938.
sempre con riferimento a tale tipologia di danno, si
è osservato come, soprattutto nelle società quotate,
il valore della partecipazione sia influenzato da molteplici fattori ulteriori rispetto alla variazione del
patrimonio della società, per cui non sussisterebbe
un rapporto di diretta correlazione tra le variazioni
di valore dell’una e dell’altro (8).
Altre ipotesi di danno indiretto sono state individuate con riferimento al diritto agli utili e alla
quota di liquidazione. In tali casi, secondo l’interpretazione prevalente, il carattere riflesso dei danni
subiti dal socio deriverebbe, nel caso degli utili (9),
dal fatto che prima della delibera che ne disponga
la distribuzione in favore dei soci essi siano parte
del patrimonio sociale e, nel caso della quota di liquidazione, dal fatto che tale diritto non possa
considerarsi attuale fino all’approvazione del bilancio finale di liquidazione (10).
Infine, anche con riferimento al pregiudizio rappresentato dalla perdita del capitale sociale, la giurisprudenza ha evidenziato come, in questo caso, il
danno non possa che considerarsi indiretto posto
che il capitale sociale costituisce bene della società
e non dei soci (11).
Il principio di irrisarcibilità in favore del
socio dei danni indiretti o riflessi cagionati
dal terzo. Le motivazioni della Suprema
Corte
Le Società 6/2014
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Giurisprudenza
Diritto societario
dalla società si giovano necessariamente anche i
singoli soci che vi partecipano.
Nel prosieguo delle proprie argomentazioni, la
Suprema Corte, richiama inoltre un altro importante principio, ovvero quello di parità di trattamento degli azionisti. Conformemente alle indicazioni fornite dalla dottrina (14), infatti, si evidenzia
come un’azione collettiva volta alla reintegrazione
del patrimonio sociale, consenta in maniera ottimale di far sì che gli effetti positivi di tale azione si
estendano a beneficio di tutti i soci in misura paritaria.
Infine, i giudici sottolineano come il principio di
irrisarcibilità nei confronti del singolo socio dei
danni indiretti o riflessi cagionati da un terzo –
principio che troverebbe ancoraggio normativo anzitutto nel disposto del già citato art. 2395 c.c. non risulti scalfito dalla disposizione di cui all’art.
2497 c.c., posta nell’ambito della disciplina dei
gruppi di società. La sentenza in commento ribadisce, infatti, il carattere eccezionale di tale norma
in virtù della quale è riconosciuto ai singoli soci di
società soggette a direzione e coordinamento la legittimazione ad agire per il ristoro di danni tipicamente riflessi quali quello alla redditività e al valore della partecipazione che siano stati cagionati
dalla holding. Tale interpretazione, circa l’insussistenza di alcuna vis espansiva di tale norma, è conforme a quanto espresso dalla dottrina maggioritaria (15) che ha posto l’accento sulla necessità, sottesa a tale previsione, di scongiurare il pericolo che
la holding, in veste di autore dell’illecito, impedisca
di fatto l’esercizio dell’azione da parte della società
diretta e coordinata, senza in ciò ravvedere un ribaltamento del principio che vede precluso al socio
il risarcimento dei danni solo riflessi.
La Suprema Corte, dopo aver escluso la risarcibilità di quei danni qualificabili alla stregua di danni
riflessi, ha accolto parzialmente la domanda degli
attori con riferimento a quegli ulteriori pregiudizi
dedotti che sono stati ricondotti nell’ambito dei
“danni diretti”. In particolare, secondo quanto indicato dalla sentenza in commento, per “danni diretti” si devono intendere quei pregiudizi che si siano prodotti immediatamente nella sfera giuridicopatrimoniale del socio e non consistano nella semplice ripercussione di un danno inferto alla società.
In tale categoria rientrerebbero, pertanto, quei
danni, sia patrimoniali che non patrimoniali che,
indipendentemente dalla complessa posizione giuridica ricoperta dal socio all’interno della società,
siano tali da determinare ripercussioni negative direttamente sul piano personale e patrimoniale del
singolo. In precedenza, la giurisprudenza, nell’ambito dell’azione di cui all’art. 2395 c.c., aveva riconosciuto carattere diretto ai danni patrimoniali cagionati dalle false o insufficienti comunicazioni degli amministratori (16) e dalla redazione di bilanci
non veritieri (17) tali da indurre i soci a svendere
le proprie azioni o i terzi ad acquistarle a un prezzo
superiore ovvero a concedere finanziamenti o forniture sulla base di un errato convincimento circa
la reale situazione patrimoniale della società (18).
Inoltre, nell’ambito dei danni non patrimoniali , la
giurisprudenza aveva riconosciuto, in una precedente decisione, il carattere diretto del danno all’immagine prodottosi in capo ad un ente pubblico
in quanto socio di una società i cui amministratori
avevano posto in essere dei comportamenti illegittimi (19).
(14) V. Pinto, Illecito del terzo, danno riflesso e legittimazione
dell’azionista, nota a Cass., sez. un., 24 dicembre 2009, n.
27346, 146, cit.; Id., La responsabilità degli amministratori per
«danno diretto» agli azionisti, cit., 921; G. Scognamiglio, Danno
sociale e azione individuale nella disciplina della responsabilità
da direzione unitaria, in Il nuovo diritto delle società. Liber Amicorum Gian Franco Campobasso (diretto da) Abbadessa e Portale, 3, Torino, 2007, 968; M. Libertini e G. Scognamiglio, Illecito del terzo e legittimazione del socio all’azione risarcitoria, cit.,
405.
(15) Vedi V. Pinto, Illecito del terzo, danno riflesso e legittimazione dell’azionista, nota a Cass., sez. un., 24 dicembre
2009, n. 27346, 143, cit.; G. Scognamiglio, Danno sociale e
azione individuale nella disciplina della responsabilità da direzione unitaria, cit., 966; A. Fotticchia, Osservazioni in tema di illecito del terzo e danno riflesso nelle società di capitali, in Giur.
comm., 2011, II, 365-366; L. Nazzicone, S. Providenti, Amministrazione e controlli nella società per azioni, in Il nuovo diritto societario (a cura di) G. Lo Cascio, Milano, 2010, 325. Cfr. V. Salafia, La responsabilità della holding verso i soci di minoranza
delle controllate, in questa Rivista, 2004, 1, 5 e ss.; R. Sacchi,
Sulla responsabilità da direzione e coordinamento nella riforma
delle società di capitali, in Giur. comm., 5, 2003, 661 e ss. In
giurisprudenza, Cass. 15 gennaio 2010, n. 520, in Guida al dir.,
2010, 6, 63.
(16) Trib. Milano 24 agosto 2002, in Giur. merito, 2003,
1144 (decisione relativa all’ipotesi di prospetto contenente informazioni non veritiere); Trib. Milano 20 marzo 1997, in Giur.
it., 1998, 108 (decisione relativa all’ipotesi di violazione dei diritti di informazione).
(17) Cass. 12 giugno 2007, n. 13766, in Giur. it., 2007, 12,
276; App. Milano 8 luglio 1997, in Giur. comm., 1998, II, 532,
con nota di S. Crema; Trib. Milano 21 ottobre 1999, in Giur. it.
2000, I, 554.
(18) Cass. 28 marzo 1960, n. 669, in Giust. civ., 1960, I, 887
(relativa all’ipotesi di ottenimento di un fido bancario a seguito
della presentazione di un bilancio falso); Cass. 2 giugno 1989,
n. 2685, in Giust. civ., 1989, I,2000 e Trib. Milano 23 novembre
2002, in Giur. milanese, 2003, 179 (entrambe relative all’ipotesi
di forniture effettuate da soggetti ingannati circa la reale situazione economica della società).
(19) Cass., sez. un., 19 dicembre 2009, n. 26806, cit.
658
I danni diretti risarcibili
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto societario
Peraltro, la Suprema Corte, conformandosi alle
indicazioni delle Sezioni Unite del 2009, fa uno
sforzo interpretativo ulteriore non limitandosi a
fornire una definizione a contrario di danno diretto,
ma descrivendo una sorta di “prova del nove” sul
cui terreno valutare il carattere diretto o indiretto
di un determinato danno. A detta della Corte, infatti, occorrerà di volta in volta verificare se il danno lamentato rappresenti o meno una porzione del
medesimo patito dalla società a nulla rilevando
che società e socio siano stati colpiti da analogo
pregiudizio. In altri termini, la valutazione circa il
carattere diretto o indiretto del danno prescinde
completamente da un’analisi qualitativa del pregiudizio lamentato, potendo il medesimo coinvolgere
tanto la società quanto il socio. Ciò detto, possono
dunque essere considerati “danni diretti”, per i
quali sussiste la legittimazione del socio ad agire
per chiederne il risarcimento, sia quei danni non
patrimoniali che investono la sfera personale del
socio (es. danno all’immagine, alla vita di relazione, danni morali), sia quei danni patrimoniali comunque attinenti alla sfera esclusiva di un determinato soggetto (es. perdita della capacità lavorativa,
perdita di opportunità economiche, perdita del c.d.
merito creditizio).
danno fosse stato cagionato dalla condotta posta in
essere dal creditore in violazione non degli obblighi inerenti al suo rapporto con il fideiussore (ex
artt. 1944 e 1948 c.c.), ma di quelli nascenti dal
contratto principale intercorrente tra il creditore e
il debitore principale. In merito, occorre anzitutto
rammentare come, ai sensi dell’art. 1936 c.c., è fideiussore colui che, obbligandosi nel confronti del
creditore, si impegna a garantire l’adempimento di
un’obbligazione altrui. Tale obbligazione si caratterizza, peraltro, per la sua accessorietà rispetto all’obbligazione principale, posto che, ai sensi dell’art. 1945 c.c., è riconosciuta al fideiussore la possibilità di opporre al creditore tutte le azioni spettanti al debitore principale, con la sola esclusione
di quella derivante dall’incapacità. Riconosciuta
dunque la sussistenza di un danno risarcibile in capo al fideiussore, la Suprema Corte, ribadendo l’indirizzo già espresso da una precedente decisione (20), ha affermato la natura extracontrattuale di
tale responsabilità in quanto nascente da un rapporto rispetto al quale il fideiussore è per definizione estraneo.
Conclusioni
In relazione al terzo motivo di ricorso, la Suprema Corte, a fronte degli illeciti posti in essere dalle
banche convenute, si è trovata, da un lato, a dover
valutare la sussistenza di un pregiudizio cagionato
dal creditore (gli istituti bancari) e incidente direttamente sulla sfera giuridica dei garanti (i soci fideiussori) e, dall’altro lato, a esprimersi circa la natura dell’azione esperibile da questi ultimi. Quanto
al primo profilo, la Corte ha riconosciuto che, sebbene gli illeciti posti in essere dagli istituti bancari
non avessero determinato alcun incremento dell’obbligazione garantita, allo stesso tempo un danno non poteva che dirsi sussistente posto che l’attivazione delle fideiussioni era seguito al dissesto delle società, a sua volta eziologicamente riconducibile alle condotte illecite delle banche. Quanto al secondo profilo, la Corte ha sottolineato come il
La sentenza in commento appare di assoluta rilevanza per l’interprete chiamato a destreggiarsi - in
ambito societario - nel magma dell’illecito e, in
particolare, di quello cagionato dal terzo a danno
del singolo socio.
La Suprema Corte, ha anzitutto confermato il
principio di irrisarcibilità di tutti quei danni c.d.
indiretti o riflessi che ricadano sul patrimonio personale del socio quale mera conseguenza del danno
collettivo di cui risenta in primis la società. In questo senso la presente decisione non fa che ribadire
la prevalenza, in termini di legittimazione all’azione, della società sul singolo socio in tutte quelle
ipotesi di danni che si riflettano contemporaneamente sulla posizione di entrambi.
In secondo luogo, la Suprema Corte, ha riconosciuto piena dignità al risarcimento di ogni altro
danno, patrimoniale o non patrimoniale, che colpisca personalmente e direttamente il singolo socio
e non costituisca una frazione del pregiudizio arrecato alla società. In questo ambito, la decisione
fornisce preziose esemplificazioni ammettendo il risarcimento dei danni non patrimoniali morali, psi-
(20) Cass. 25 luglio 2013, n. 18086, in Giust. civ., 2013, 10,
I, 1970, la quale rileva altresì che «l’inadempienza medesima
può essere fatta valere, oltre che dal debitore, in via di eccezio-
ne anche dal fideiussore, nell’esecuzione del contratto di fideiussione, solo al fine di resistere all’azione proposta dal creditore per l’escussione della garanzia»
Inadempimento del contratto principale da
parte del creditore: sussistenza di un danno
risarcibile in capo al fideiussore e natura
dell’azione
Le Società 6/2014
659
Giurisprudenza
Diritto societario
chici e alla vita di relazione patiti dai convenuti
unitamente a quei pregiudizi di natura patrimoniale ad essi unicamente riferibili come il danno dato
dalla perdita della capacità lavorativa, dalla perdita
della carica di amministratore e dall’impossibilità
di intrattenere ulteriori rapporti con istituti di credito.
660
Infine, con riferimento all’eventuale pregiudizio
patito dal fideiussore per inadempimenti del contratto principale posti in essere dal creditore, la
sentenza ne ha espressamente confermato la tutelabilità in via extracontrattuale, con tutto ciò che ne
consegue dal punto di vista del diverso termine di
prescrizione e del differente onere probatorio.
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Diritto societario
Scissione
La c.d. “scissione negativa”
(reale) è inammissibile
Cassazione civile, Sez. I, 20 novembre 2013, n. 26043 - Pres. Carnevale - Rel. Di Amato - Investimenti e Gestioni s.r.l.
Società - Società di capitali - Scissione - Scissione parziale con beneficiaria di nuova costituzione - Scissione c.d. negativa di società - Invalidità - Fondamento - Intervenuta iscrizione nel registro delle imprese della deliberazione di scissione
- Mancanza di opposizioni dei creditori - Effetto sanante - Conseguenze in tema di valutazione dello stato di insolvenza
e di imputazione delle obbligazioni
(Cod. civ. artt. 2503, 2504, 2506, 2506 ter, 2506 quater; l.fall. art. 5)
Nel caso di scissione di società, qualora il valore reale del patrimonio attribuito alla società neo-costituita sia
negativo, si realizza un’ipotesi di scissione cosiddetta negativa, da ritenersi non consentita, in quanto non potrebbe sussistere alcun valore di cambio e, conseguentemente, non potrebbe aversi una distribuzione di azioni, fermo restando che, l’invalidità della scissione non può essere pronunciata dopo il decorso, senza opposizione da parte dei creditori, del termine di sessanta giorni dall’iscrizione nel registro delle imprese della deliberazione di scissione e dopo l’iscrizione dell’ultimo atto della scissione nel medesimo registro. Ne consegue
che, in tale evenienza, si producono gli effetti previsti dall’art. 2506 quater, terzo comma, c.c. e, pertanto, l’insolvenza della società scissa e della società beneficiaria deve essere valutata separatamente, avuto riguardo
agli elementi attivi e passivi del patrimonio di ciascuna società e tenendo presenti i limiti di responsabilità in
relazione rispettivamente alle obbligazioni transitate nel patrimonio della società beneficiaria e alle obbligazioni rimaste nel patrimonio della società scissa (massima ufficiale).
La Corte (omissis).
Con il primo motivo dei ricorsi le ricorrenti deducono
la violazione dell’art. 2506 quater c.c., comma 3, e della
l. fall., artt. 5 e 15, nonché il vizio di motivazione, lamentando che la Corte di appello non aveva tenuto
conto della disciplina della scissione, configurando erroneamente una responsabilità solidale della società scissa
(s.r.l. S. E.) e della società beneficiaria (s.r.l. Investimenti e gestioni) mentre la prima rispondeva solidalmente dei debiti trasferiti alla beneficiaria solo nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto rimastole,
mentre la seconda rispondeva solidalmente dei debiti rimasti in capo alla società scissa solo nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto trasferitole. Tali profili, al contrario, non erano stati indagati in sede di
istruttoria prefallimentare e l’insolvenza di entrambe le
società era stata rapportata all’insieme dei debiti originariamente in capo alla società alla s.r.l. S.E.
Il motivo è fondato. Nella specie, secondo quanto accertato dalla Corte di appello “la scissione in questione
è stata realizzata per finalità non tipiche della scissione
ma (trasferendo passività e mirate attività dalla società
S. E. s.r.l. alla Società investimenti e gestioni s.r.l.) finalizzate essenzialmente ad attribuire alla società E. P.
s.r.l. un apparente stato di solvibilità”, sembra essersi
realizzata una non consentita ipotesi di scissione c.d.
negativa verso una società neocostituita.
Le Società 6/2014
Ricorre tale ipotesi quando il valore reale del patrimonio assegnato sia negativo. Tale scissione è da ritenere
non consentita in quanto non potrebbe sussistere alcun
valore di cambio e conseguentemente non potrebbe
aversi una distribuzione di azioni. Ciò nonostante, dopo
il decorso, senza opposizione da parte dei creditori, del
termine di sessanta giorni dall’iscrizione nel registro delle imprese della deliberazione di scissione e dopo l’iscrizione dell’ultimo atto della scissione nel registro delle
imprese (artt. 2506 quater c.c., comma 1; art. 2503 c.c.,
richiamato dall’art. 2506 ter c.c.), l’invalidità della scissione non può essere pronunciata (art. 2504 c.c., richiamato dall’art. 2506 ter c.c.). Ne consegue che, malgrado
la ricorrenza di una non consentita ipotesi di scissione
negativa, deve trovare piena applicazione il disposto
dell’art. 2506 quater c.c., comma 3, e che la sussistenza
dell’insolvenza della società scissa e della società beneficiaria deve essere valutata separatamente, avendo riguardo agli elementi attivi e passivi del patrimonio di
ciascuna società, tenendo presenti i limiti di responsabilità in relazione rispettivamente alle obbligazioni transitate nel patrimonio della società beneficiaria e alle obbligazioni rimaste nel patrimonio della società scissa.
Con il secondo motivo le ricorrenti deducono la violazione della l. fall., artt. 5, 15, 16 e 147, lamentando che
la sentenza impugnata aveva ritenuto possibile un unico
procedimento per la dichiarazione di fallimento di più
imprenditori.
661
Giurisprudenza
Diritto societario
Il motivo è infondato. Sebbene il procedimento per la
dichiarazione di fallimento sia strutturato con riferimento ad un unico imprenditore, nulla impedisce che
in un procedimento formalmente unico sia trattato congiuntamente l’accertamento dell’insolvenza di più imprenditori. Invero, la trattazione in un unico procedimento dell’istanza di fallimento verso più imprenditori
può ammettersi per ragioni di connessione, in base ai
principi generali, considerato che nella disciplina del
procedimento camerale, e più specificamente in quella
dettata dalla l. fall., art. 15, non si rinvengono previsioni contrarie o incompatibili (sulla applicabilità al procedimento camerale di norme relative al processo ordinario di cognizione v. Cass. 11 luglio 2013, n. 17205;
Cass. 21 marzo 2001, n. 4037; Cass., 2 aprile 1985, n.
2260). Resta ferma, naturalmente, la necessità che all’esito dell’unitario procedimento gli eventuali fallimenti
restino distinti.
Con il terzo motivo le ricorrenti deducono la violazione
della l. fall., art. 7, lamentando che la sentenza impugnata aveva ritenuto possibile l’iniziativa del pubblico
ministero per la dichiarazione di fallimento in presenza
di una segnalazione non di insolvenza, ma di possibile
insolvenza, con una valutazione che, pertanto, non era
stata effettuata dal giudice dal quale proveniva la segnalazione, ma dallo stesso pubblico ministero.
Il motivo è infondato. Invero, la segnalazione del giudice che abbia rilevato l’insolvenza in un procedimento
civile è “un atto neutro”, privo ovviamente di contenuto decisorio ed assunto prima facie (Cass. 15 giugno
2012, n. 9857), mentre la valutazione della sussistenza
dello stato di insolvenza compete al pubblico ministero,
che può eseguire, ove lo ritenga necessario, ulteriori accertamenti (Cass. 18 aprile 2013, n. 9409).
Con il quarto motivo le ricorrenti deducono la violazione della l. fall., art. 15, ed il vizio di motivazione, lamentando che la Corte di appello aveva erroneamente
ritenuto che il mancato rilascio di copia della documentazione acquisita dal pubblico ministero nella fase di
presentazione dell’istanza di fallimento fosse irrilevante
in mancanza della specifica indicazione della documentazione in relazione alla quale il mancato rilascio avrebbe inciso in maniera significativa sul diritto di difesa
delle società. Infatti, il mancato rilascio della copia non
aveva consentito alla difesa di esercitare il diritto di difesa ed aveva leso il contraddittorio.
Il motivo è inammissibile per difetto di interesse, poiché le ricorrenti si lamentano del mancato rilascio di
copia dei documenti acquisiti dal pubblico ministero
senza dedurre che il Tribunale abbia su di essi fondato
la propria decisione.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo di entrambi i ricorsi e rigetta
gli altri;
(omissis).
IL COMMENTO
di Cosimo Di Bitonto (*)
I giudici di legittimità intervengono per la prima volta - sia pure, incidentalmente, nell’ambito di una vicenda processuale fallimentare - sul tema della c.d. “scissione negativa” (i.e., con patrimonio scisso
avente valore negativo), negandone l’ammissibilità; anche se, ai fini della valutazione dello stato di insolvenza delle società partecipanti, occorrerà riferirsi al rispettivo patrimonio sociale (i.e., al patrimonio residuo rimasto in capo alla scissa e al patrimonio scisso assegnato alla beneficiaria), tenuto anche conto
della norma di chiusura di cui all’art. 2506 quater c.c.
L’istituto giuridico della scissione societaria era
stato introdotto nel nostro ordinamento con il
d.lgs. 16 gennaio 1991, n. 22 (art. 18), che aveva
inserito nel codice civile, tra l’altro, gli artt.
2504septies/2504 decies c.c. (vecchio testo), in attuazione della direttiva del consiglio delle comunità europee 17 dicembre 1982, n. 891 (c.d. “Sesta
Direttiva” in materia societaria - “dir.
82/891/CEE”) (1); attualmente, esso è disciplinato
dagli artt. 2506/2506 quater c.c. introdotti dalla riforma societaria del 2003.
Secondo l’attuale nozione legislativa, mediante
«la scissione una società assegna l’intero suo patrimonio a più società, preesistenti o di nuova costituzione, o parte del suo patrimonio, in tal caso anche ad una sola società, e le relative azioni o quote
(*) Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee.
(1) Contenuta, tra l’altro, in Pettarin, Acquisizione fusione e
scissione di società, Milano, 1992, 261.
La scissione societaria: cenni introduttivi
662
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto societario
ai suoi soci» (art. 2506, comma 1, c.c. rubricato,
appunto: “Forme di scissione”).
Sul piano generale, la scissione realizza quindi
un fenomeno – «inverso rispetto alla fusione
[che] tende sempre e soltanto all’aggregazione
delle strutture societarie coinvolte» (2) - di disaggregazione (e moltiplicazione) societaria, in
base al quale (di regola): (i) da una parte, il patrimonio di una società (c.d. “scissa” (3) o “scindenda” (4)) viene disarticolato e assegnato a più
(o anche una sola) società (c.d. “beneficiarie” (5)
o “scissionarie” (6) o “assegnatarie” (7)); (ii) dall’altra, i soci della scissa - e non la medesima
scissa (che altrimenti avremmo un conferimento
o “scorporo” (8) societario) - diventano soci (anche) delle beneficiarie (o dell’unica beneficiaria), a fronte dell’assegnazione patrimoniale scissoria.
Sul piano classificatorio, dalla nozione legislativa
di scissione societaria ex art. 2506, comma 1, c.c. si
ricava, innanzitutto, il criterio discretivo (nella
prospettiva della scissa) tra la forma di scissione
c.d. “totale” (o “propria” (9)) e quella c.d. “parziale”, secondo che la vicenda scissoria concerna l’intero ovvero una parte solamente del patrimonio
della scissa. In tal modo, quest’ultima, nella prima
ipotesi (scissione totale), si estingue (rectius: si
scioglie) senza liquidazione (artt. 2, comma 1, e
21, comma 1, dir. 82/891/CEE, nonché 2506, comma 3, c.c.); mentre, nella seconda ipotesi (scissione
parziale), continua ad avere giuridica esistenza, sia
pure depauperata del(la parte del proprio) patrimonio scisso (10).
Un’altra differenza tra scissione parziale e scissione totale è che la prima forma può avere luogo
anche a favore di una sola società; mentre la seconda forma richiede necessariamente una pluralità di società beneficiarie, perché altrimenti non
si avrebbe altro che una fusione per incorporazione (11) ovvero una trasformazione (12), a secon-
da che la “pseudo-beneficiaria” sia preesistente (o
meno).
Peraltro, giova sottolineare che la c.d. “Sesta Direttiva” in materia societaria prefigura sia la “scissione mediante incorporazione” (art. 2), sia la
“scissione mediante costituzione di nuove società”
(art. 21) come aventi ad oggetto solo l’intero (e
non anche parte del) patrimonio della scissa. Si
era pertanto posto ai tempi il problema dell’eccesso
di delega nell’attuazione della “Sesta Direttiva”,
laddove il nostro legislatore nazionale aveva introdotto (e confermato in sede di riforma societaria
del 2003) anche la forma di scissione parziale. Invero, tale forma di scissione è ammessa implicitamente (ma inequivocamente) in altra parte della
“Sesta Direttiva”: precisamente, dall’art. 25, in cui
vi è il riferimento alla scissione “senza che la società scissa si estingua”, vale a dire la scissione parziale (13).
Un ulteriore criterio discretivo ricavabile dalla
citata nozione legislativa di scissione societaria
ex art. 2506, comma 1, c.c. (questa volta, nella
prospettiva delle beneficiarie) è quello in base al
quale si distingue tra la forma di scissione a favore
di società di nuova costituzione (che viene correntemente qualificata come scissione c.d. “in senso
stretto”) e quella a favore di società preesistente
(che, invece, si qualifica come scissione c.d. “per
incorporazione” (14)).
Un ultimo criterio discretivo (nella prospettiva, ora, dei soci della scissa) - ricavabile, tuttavia,
non dall’art. 2506, comma 1, c.c., ma dall’art.
2506bis, comma 4, c.c. - è quello che porta a distinguere tra forma di scissione c.d. “proporzionale” e quella c.d. “non proporzionale”, a seconda
che il capitale sociale della/e beneficiaria/e venga
(primo caso) o non venga (secondo caso) assegnato a tutti i soci della scissa e in proporzione
alla rispettiva originaria partecipazione sociale (15); fino all’ipotesi estrema della scissione c.d.
(2) Magliulo, La scissione delle società, Milano, 2012, 6.
(3) Artt. 2506, commi 2 e 3, 2506bis, commi 2 e 3, 2506ter,
comma 2, 2506quater, comma 2, c.c.
(4) Notari, Le azioni proprie nelle operazioni sul capitale e
nelle operazioni straordinarie, in Notari (a cura di), Dialoghi tra
giuristi e aziendalisti in tema di operazioni straordinarie, Milano,
2008, 308.
(5) Artt. 2506, comma 2, 2506bis, commi 1-4, 2506ter,
comma 2, 2506quater, comma 2, c.c.
(6) Scognamiglio, Le scissioni, in Colombo - Portale (diretto
da), Trattato delle società per azioni, 7**, 2, Torino, 2004, 154.
(7) Torrente - Schlesinger, Manuale di diritto privato, 2011,
1073.
(8) Abriani (a cura di), Diritto commerciale, Milano, 2011,
711.
(9) AA.VV., Diritto delle società. Manuale breve, Milano,
2012, 458.
(10) Gazzoni, Manuale di diritto privato, 2011, 1405; Paolini,
La scissione, in Schiano di Pepe (a cura di), Trattato teorico pratico delle società, Milano, 1999, 288; Irrera, voce Scissione delle
società, in Dig. disc. priv., sez. comm., XIII, 1996, 269.
(11) Relazione al d.lgs. 16 gennaio 1991, n. 22; Serra, Le
scissioni, in Serra - Spolidoro, Fusioni e scissioni di società, Torino, 1994, 193; Belviso, La fattispecie della scissione, in Giur.
comm., 1993, I, 526.
(12) Ferro-Luzzi, La nozione di scissione, in Giur. comm.,
1991, I, 1070.
(13) Oppo, Fusione e scissione delle società secondo il d.lgs.
1991 n. 22: profili generali, in Riv. dir. civ., 1991, II, 503.
(14) Ferrucci - Ferrentino, Società di capitali, società cooperative e mutue assicuratrici, Milano, 2012, 2295.
(15) Con la rilevante conseguenza introdotta dalla riforma
Le Società 6/2014
663
Giurisprudenza
Diritto societario
“asimmetrica” (16) («nella quale la non proporzionalità è espressa alla sua ennesima potenza») (17), che è disciplinata dall’art. 2506, comma 2, c.c.: i.e., quella in cui ad alcuni soci della
scissa vengano attribuite partecipazioni non già
di una delle beneficiarie, bensì della scissa stessa,
sulla base, tuttavia, del consenso unanime dei soci della società di origine.
La scissione non proporzionale qualifica, quindi,
ulteriormente il fenomeno scissorio, come strumento mediante il quale si arriva ad una «divisione
non solo degli elementi patrimoniali quanto della
stessa compagine sociale» (18) della società di partenza, laddove in una scissione totale, «[a]d esempio, nel progetto di scissione si può prevedere che
ad un gruppo di soci siano assegnate solo azioni
della società beneficiaria Alfa e ad un altro gruppo
solo azioni della società Beta, fermi restando i necessari conguagli in denaro» (19).
La molteplicità di forme è una delle caratteristiche che rendono la scissione, fin dagli albori, uno
dei più controversi e dibattuti istituti giuridici societari. Non a caso F. D’Alessandro, presidente
della commissione ministeriale incaricata della stesura dello schema del precitato decreto legislativo
16 gennaio 1991, n. 22, aveva coniato – a suo tempo - la suggestiva espressione di “polimorfismo” (20) (sul piano strutturale) della scissione, al
quale (sul piano funzionale) - come evidenziato da
più recente dottrina - «si accompagna il suo carattere polifunzionale (21), la cui realizzazione è finalizzata a soddisfare molteplici esigenze sia di riorga-
nizzazione degli aspetti patrimoniali ed organizzativi delle strutture imprenditoriali sia di articolazione e rimodulazione dei loro assetti proprietari» (22).
In questo scenario poli-forme/funzionale della
scissione viene forse a stemperarsi l’effettiva rilevanza pratica dell’acceso dibattito teorico teso a individuarne una (univoca) natura giuridica.
Ad ogni buon conto, a tal riguardo si segnala
che la dottrina tradizionale (23), con il conforto
anche di alcuni precedenti della giurisprudenza dei
giudici di legittimità, ricostruisce l’istituto in esame
in termini di fenomeno intersoggettivo a carattere
traslativo-successorio:
1. in caso di scissione totalitaria, a titolo universale (24), con contestuale vicenda: (i) estintivo-costitutiva di soggetti societari, qualora le beneficiarie siano di nuova costituzione; ovvero (ii) meramente estintiva di soggetto societario (la scissa), se
le beneficiarie sono società preesistenti;
2. in caso di scissione parziale, a titolo particolare, con eventuale contestuale vicenda meramente
costitutiva di uno o più soggetti societari, se la beneficiaria (o le beneficiarie) non sono preesistenti,
ma di nuova costituzione.
A tale tesi traslativa si contrappone la tesi, per
così dire, modificazionista – sposata dalla dottrina
maggioritaria (che ha talora anche esageratamente
enfatizzato la novità terminologica della riforma
del 2003 costituito dall’uso del verbo “assegnare”
in luogo di “trasferire” nelle norme di riferimento (25) - che ricostruisce la scissione societaria in
societaria che, in caso di non unanime scissione non proporzionale, i soci dissenzienti sono titolari, oltre che del diritto al
conguaglio in denaro, anche del diritto di “far acquistare” le
proprie partecipazioni sociali, che appare costituire una peculiare ipotesi di vero e proprio diritto legale di opzione (c.d.
“put”) di vendita a favore dei soci della scissa dissenzienti.
(16) Potito, Le operazioni straordinarie nell’economia delle
imprese, Torino, 2013, 223.
(17) Civerra, Le operazioni straordinarie: aspetti civilistici,
contabili e procedurali, Milano, 2008, 624.
(18) Aiello - Cavaliere - Cavanna - Cerrato - Sarale, Le operazioni societarie straordinarie, V, 2, in Cottino (diretto da), Trattato di diritto commerciale, Padova, 2011, 608.
(19) G. F. Campobasso, Diritto commerciale, 2, Diritto delle
società, VIII ed., a cura di Mario Campobasso, Torino, 2012,
680.
(20) D’Alessandro, La scissione delle società, in Riv. not.,
1990, 874.
(21) Sottolineato anche da Cagnasso - Irrera, Il fallimento
delle società. Lo snodo tra due riforme: societaria e fallimentare,
Milano, 2007,174.
(22) Aiello - Cavaliere - Cavanna - Cerrato - Sarale, op. cit.,
609.
(23) Picciau, sub Art. 2506, in Bianchi (a cura di), Trasformazione - Fusione - Scissione. Artt. 2498 - 2506quater c.c., in Marchetti - Bianchi - Ghezzi - Notari (diretto da), Commentario alla
riforma delle società, Milano, 2006, 1032 ss.; Magrì, Natura ed
effetti delle scissioni societarie: profili civilistici, in Riv. trim. dir.
civ., 1999, 12; Picciau, La scissione come negozio produttivo di
effetti traslativi e la fattispecie del trasferimento d’azienda: appunti in margine a recenti interventi della dottrina e della giurisprudenza, in Riv. soc., 1999, 1413, Id., Scissione di società e
trasferimento d’azienda, in Riv. soc., 1995; Belviso, op. cit.,
538; Oppo, op. cit., 507.
(24) Cass. 27 aprile 2001, n. 6143, in Giur. comm., 2002, II,
173, con nota di Caruso, Osservazioni sul dibattito in tema di
natura giuridica della scissione; Cass. 6 ottobre 1998, n. 9897,
in Giust. civ., 1999, I, 741.
(25) Capelli, Fusione e scissione, in Bortoluzzi, La riforma
delle società. Aspetti applicativi, Torino, 2004, 563-564; Lucarelli, Scissione e circolazione dell’azienda, in Abbadessa - Portale
(diretto da), Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian
Franco Campobasso, 4, Torino, 2007, 446-447, ove si arriva a
sostenere che «[l]’eliminazione dal testo dell’art. 2506 del termine trasferimento nell’ambito della descrizione della fattispecie scissoria, ha rappresentato, infatti, una delle più significative ed illuminate prese di posizione di natura sistematica». Tuttavia, a tale riguardo non si può non concordare con chi evidenzia che non è compito del legislatore il “puntellare” una tesi attraverso l’intenzionale uso di questa o quella terminologia,
spettando invece alla dottrina e giurisprudenza di individuare
quella più corretta per il nostro ordinamento (Portale, Osservazioni sullo schema di decreto delegato approvato dal Governo in
data 29-30 settembre 2002, in tema di riforma delle società di
664
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto societario
termini di mera vicenda modificativa (degli atti
costitutivi) delle società coinvolte (26).
Alla luce della (sopra descritta) “pluralità”,
strutturale e funzionale, della scissione è forse preferibile l’orientamento di chi (27) opta per la tesi
“conciliativa” (28) e, quindi, per la riformulazione
del rapporto tra il profilo modificativo e quello traslativo della scissione in termini di cumulatività e
non alternatività. Si tratta, cioè, della tesi modificativo-traslativa: ossia propria di quella dottrina
che - come sintetizzato dall’autore che sostiene
con maggior vigore la testi traslativa - «concorda
con l’idea che la scissione sia un fenomeno di modificazione (nella continuità) del rapporto sociale e
di prosecuzione dell’attività [della scissa], ma al
tempo stesso ritiene che detta prosecuzione venga
realizzata attraverso una circolazione di beni e diritti» (29).
La composizione del patrimonio di
scissione
La sentenza qui annotata si colloca all’interno
del contesto normativo e ricostruttivo della scissione societaria illustrato nel precedente paragrafo, affrontando – per la prima volta, a quanto consta –
una questione, relativa alla conformazione del patrimonio scisso, assai interessante per i cultori della
materia, precisamente: se sia ammissibile la c.d.
“scissione negativa”, nella quale il saldo di valore
(degli elementi attivi e passivi) del patrimonio di
scissione è, invece che positivo, negativo (in quanto l’ammontare complessivo del valore degli elementi passivi supera quello degli attivi).
Il tema rientra, quindi, nell’alveo dell’oggetto
della scissione societaria.
Sul piano oggettivo, le assegnazioni scissorie riguardano (quote parte di) patrimoni che vengono
separati dalla società scissa per essere attribuiti alle
beneficiarie (se la scissione è totale) o anche alla
(sola) beneficiaria (se la scissione è parziale).
Sulla base di dati normativi che fanno riferimento solo ai concetti generici di “patrimonio” (art.
2506, comma 1, c.c.), “elementi patrimoniali” (art.
2506bis, comma 1, c.c.), “elemento dell’attivo” o
“quota del patrimonio netto” (art. 2506bis, comma
2, c.c.) e “elementi del passivo” (art. 2506bis, comma 3, c.c.), sembra, secondo la corrente linea di
pensiero, che l’autonomia privata non debba incontrare limiti qualitativi nella scelta degli elementi patrimoniali da disaggregare dalla scissa e ricomporre nella(-e) beneficiaria(-e).
In tal modo, gli elementi patrimoniali della scissa possono essere distribuiti tra le beneficiarie sulla
base di criteri disomogenei, con attribuzione ad
una di loro di una porzione rilevante dell’attivo (30) e di una esigua del passivo, mentre ad
un’altra, viceversa, della maggior parte dei debiti
con le residue attività; fino ad ammettere anche la
scissione di un solo bene (31), sempreché essa sia
sorretta da valide ragioni economico-imprenditoriali e non da finalità meramente elusive (32).
L’insussistenza di limiti qualitativi alla composizione delle porzioni patrimoniali scissorie comporta
che oggetto della scissione possa essere non solo
un coacervo di elementi patrimoniali della scissa
atomisticamente considerati, ma anche un complesso patrimoniale funzionalmente organizzato sul
piano produttivo: in breve, un’azienda (33) o un
suo ramo (34).
capitali, in Riv. dir. priv., 2002, 718).
(26) Magliulo, op. cit., 27-36, Lucarelli, La scissione di società, Torino, 1999; Irrera, op. cit., 269; Serra, op. cit., 204; Bavetta, La scissione nel sistema della modificazioni societarie, in Giur.
comm., 1994, I, 350; Cusa, Prime considerazioni sulla scissione
delle società, Milano, 1992, 41; Lamandini, Riflessioni in tema
di scissione “parziale” di società, in Giur. comm., 1992, I, 512;
Ferro-Luzzi, op. cit., 1068-1069, Paolini, op. cit., 295.
(27) G. F. Campobasso, op. cit., 629; Scognamiglio, op. cit.,
107 ss.; Speronello, La scissione di società tra tipicità ed autonomia negoziale: un caso di assegnazione di quote della scissa (nota ad App. Venezia 16 marzo 2000 e Trib. Verona 2 dicembre 1999), in Giur. comm., 2001, II, 296; Palmieri, Scissione
di società e circolazione dell’azienda, Torino, 1999, 99; Cabras,
La scissione di società, in Foro it., 1992, V, 283; Morano, Prime
osservazioni in tema di scissione, in questa Rivista, 1991, 1306
e D’Alessandro, op. cit., 886.
(28) Caruso, op. cit., 195.
(29) Picciau, op. cit., 1039.
(30) Si pensi anche alla divisione qualitativa dell’attivo (Sa-
violi, Le operazioni di gestione straordinaria, Milano, 2008, 351375, per un’assai analitica disamina dei profili strategici ed
aspetti economici della scissione): intendo riferirmi all’ipotesi,
innanzitutto, dei c.d. “spin off” immobiliari (G. Savioli, op. cit.,
362-363); poi, a quella della creazione, nel quadro delle ristrutturazioni dei gruppi bancari, delle c.d. “bad bank”, assegnatarie dei soli crediti in sofferenza (Portale, La scissione nel diritto
societario italiano: casi e questioni, in Riv. soc., 2000, 488); infine, a quella della suddivisione infragruppo dei “portafogli assicurativi”.
(31) Campobasso, op. cit., 679 (che cita, nello stesso senso,
Palmieri, op. cit., 136).
(32) Aiello - Cavaliere - Cavanna - Cerrato - Sarale, op. cit.,
613.
(33) Scognamiglio, Sulla circolazione dell’azienda per scissione, in Riv. dir. comm., 2001, 443 ss.; Meo, Attribuzione patrimoniale ed apporto di capitale nella scissione di società, in Giur.
comm., 1995, 579; Cass. 6 ottobre 1998, n. 9897, cit.
(34) La scissione di ramo di azienda trova un espresso riconoscimento sul piano normativo nell’art. 115, comma 7, d.lgs.
Inquadramento generale della questione
dell’ammissibilità della c.d. “scissione
negativa”
Le Società 6/2014
665
Giurisprudenza
Diritto societario
Anzi, si segnala come autorevole dottrina, a
contrasto della tesi della insussistenza di limiti
qualitativi nella formazione delle porzioni patrimoniali scissorie, abbia sostenuto l’opposta tesi
della necessità che il patrimonio scisso esprima
un’autonoma strumentalità per l’esercizio di attività d’impresa e costituisca, quindi, necessariamente un azienda (o ramo d’azienda). Ciò sul
presupposto che la funzione della scissione sarebbe di rendere più razionale l’organizzazione dell’impresa sociale plurima, attraverso la scomposizione del patrimonio sociale della scissa in una
pluralità di rami d’azienda (quanti sono le attività imprenditoriali esercitate); ciascuno assegnato
- causa scissionis - ad una distinta società, con il
conseguente vantaggio della diversificazione dei
rischi delle molteplici attività imprenditoriali (35). Tale tesi appare priva, peraltro, di sicuri
appigli sul piano del diritto positivo, come visto.
Passando dal profilo patrimoniale a quello contabile, si osserva che la suindicata libertà di formazione qualitativa delle “porzioni scissorie” comporta che il patrimonio netto della scissa non debba
essere qualitativamente “clonato” in via omogenea
nelle beneficiarie, in modo che ciascuna porzione
patrimoniale scissoria riproduca l’articolazione che
le poste del netto avevano nella scissa, come sostenuto da autorevole ma isolata dottrina (36). A tal
riguardo, è preferibile ritenere che le beneficiarie
possano imputare il netto assegnato indipendentemente da come fosse stato effettuato nella scissa (37), sul presupposto che la scissione sia un mezzo di libera riorganizzazione della struttura (anche)
patrimoniale societaria.
Con specifico riferimento, poi, ai profili contabili della scissione parziale a favore di società
preesistenti, di regola, i flussi di patrimonio netto
dalla scissa alla beneficiaria comportano quanto
segue: (i) nella prospettiva della società di partenza, che essa debba procedere alla riduzione del
proprio capitale sociale nominale (38), tuttavia,
solo se il netto di scissione ecceda le riserve, in
ossequio al principio generale che le diminuzioni
patrimoniali incidono progressivamente e non simultaneamente sulle riserve e sul capitale sociale (39); (ii) nella prospettiva della società di arrivo, che essa, a fronte della ricezione del flusso patrimoniale di scissione, deliberi un aumento di
capitale a servizio dell’operazione scissoria di importo parti al valore di quanto ricevuto con emissione delle nuove azioni di compendio destinate
ai soci della scissa (che lo diventano anche della
beneficiaria). Ciò, peraltro, non necessariamente,
ben potendo i soci della scissa ricevere anche partecipazioni sociali che non siano di nuova emissione, ma siano, in caso di scissione per incorporazione, azioni proprie (se la beneficiaria è una
s.p.a.) oppure «azioni o quote di preesistenti soci
della beneficiaria» (40). A tal riguardo, un attento studioso ha, però, precisato come non vi debba
essere «una corrispondenza tra eventuale riduzione del capitale della scissa e aumento di capitale
della(e) beneficiaria(e): l’unico obbligo di corrispondenza sussiste, infatti, tra riduzione del netto
patrimoniale della scissa ed incremento del netto
patrimoniale della(e) beneficiaria(e). [...] Elemento costitutivo della fattispecie scissione,
quindi, è [...] la riduzione e l’aumento del capitale
reale (patrimonio netto) rispettivamente della
scissa e delle beneficiarie, e non già la riduzione o
l’aumento del loro capitale sociale (nominale)» (41).
n. 267/2000 (c.d. “Testo Unico degli Enti Locali”), come segnalato da Scognamiglio, op. cit., 444.
(35) Galgano - Genghini, Il nuovo diritto societario, 1, in Galgano (diretto da), Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia, Padova, 2006, 1012.
(36) Ferro-Luzzi, op. cit., 1065.
(37) Landolfi, I valori della scissione e il trasferimento del patrimonio, in questa Rivista, 1994, 894.
(38) Ipotesi non sussumibile in quella per perdite ex artt.
2446 e 2447 c.c., né in quella per esuberanza (rectius: volontaria) ex art. 2445 c.c., e pertanto costituente un tertium genus
(Speronello, op. cit., 275).
(39) Tra tanti, Platania, Le modifiche del capitale, Milano,
1998, 169.
(40) Picone, sub Art. 2506bis, in Bianchi (a cura di), Trasformazione - Fusione - Scissione. Artt. 2498 - 2506quater c.c.,
in Marchetti - Bianchi - Ghezzi - Notari (diretto da), Commentario alla riforma delle società, Milano, 2006, 1086.
(41) Torino, sub Art. 2506, in Fauceglia - Schiano di Pepe (diretto da), Codice commentato delle s.p.a. Tomo secondo,
(artt. 2436-2510), Torino, 2007, 1807.
(42) Cusa, op. cit., 137, nota 145, al quale, peraltro, si ribat-
666
I limiti della libertà di composizione del
patrimonio scisso
Il tema oggetto d’indagine specifica dei giudici
della Suprema Corte – nella sentenza in commento - è se il principio di libera conformazione
qualitativa della scissione e, quindi, la discrezionalità degli organi amministrativi nella composizione dei patrimoni di scissione possano spingersi
fino al punto di farvi ricomprendere un patrimonio con saldo netto, tra elementi attivi e passivi,
negativo o, addirittura, formato solo da elementi
passivi (42). In sostanza, la sentenza qui annotata
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Diritto societario
ha dato risposta alla questione se il principio di
libera conformazione della scissione operi sul piano non solo qualitativo, ma anche quantitativo
oppure se alla citata illimitatezza, sul piano qualitativo, si accompagni una limitazione, sul piano
quantitativo, nella formazione del patrimonio oggetto di assegnazione scissoria (necessario valore
positivo).
Si tenga presente che l’ipotesi in questione non
è da considerarsi estravagante, nella misura in cui
la sopra evidenziata valenza polifunzionale vede la
scissione utilizzabile anche nelle situazioni di non
positività dell’andamento sociale (43), a scopo di
risanamento dell’impresa; come, del resto, è stato
riconosciuto: (i) sia dalla riforma del diritto societario del 2003, che, da un lato, consente la scissione di società in liquidazione (art. 2506, comma 4,
c.c.), dall’altro, ha abrogato il divieto di partecipazione a società sottoposte a procedure concorsuali;
(ii) sia dalla riforma del diritto fallimentare del
2005, che, agli artt. 160, lett. a), l. fall. e 124, lett.
c), l. fall., parla espressamente - nell’ambito, rispettivamente, del concordato preventivo e del concordato fallimentare - di “operazioni straordinarie”
a scopo risanatorio, tra le quali la dottrina ricomprende anche la scissione (e la fusione, ovviamente) (44).
In tale quadro, è immaginabile un’operazione di
scissione volta alla riallocazione di poste passive di
netto (eccedenti quelle attive) a scopo di risanamento della scissa.
Le posizioni sul punto sono variegate.
le) positivo (47), tale da incrementare il patrimonio della beneficiaria (o costituirlo, se essa è di
nuova costituzione), anche in ossequio al principio
di effettività del capitale sociale della(-e) beneficiaria(-e) - di costituzione (48) (se di nuova creazione) o di aumento (se preesistente) - a servizio
dell’operazione.
In effetti, gli indici positivi testuali sono tutti
di segno contrario all’ammissibilità di un patrimonio negativo di scissione: infatti, in primo luogo, l’art. 2506ter, comma 2, c.c. richiede che la
relazione dell’organo amministrativo debba indicare il “valore effettivo del patrimonio netto assegnato alle beneficiarie”, il quale, a sua volta, costituisce il limite delle responsabilità solidali previste dagli artt. 2506ter, comma 3, c.c. (49) e
2506quater, comma 3, c.c. (50) (di cui infra); in
secondo luogo, l’art. 2506bis, comma 2, c.c. richiama, in relazione alla scissa, la “quota del patrimonio netto assegnato a ciascuna di esse, così
come valutato ai fini della determinazione del
rapporto di cambio”.
Nondimeno, la dottrina e i pratici hanno tentato di andare alla ricerca di spazi argomentativi per
una posizione più possibilista in merito alla scissione negativa.
a) patrimonio scisso contabilmente positivo
La posizione oltranzista ritiene che elemento essenziale della scissione sia, oltre alla separazione
patrimoniale, l’assegnazione di partecipazioni sociali di compendio ai soci della scissa (45), sulla
base di un rapporto di cambio: il che richiederebbe, come “presupposto implicito” (46), che il patrimonio di scissione abbia sempre un saldo (contabi-
b) patrimonio scisso contabilmente negativo, ma
con valore corrente positivo
Si è così puntata l’attenzione sull’ipotesi che il
saldo netto negativo del patrimonio scisso sia tale
solo dal punto di vista dei valori contabili, ma non
anche dal punto di vista dei valori economici effettivi, che esprimono, invece, complessivamente un
saldo netto positivo.
Ecco che, in tale prospettiva, si ritiene ammissibile la scissione di un patrimonio scisso con valore
contabile negativo, ma con valore effettivo positivo (51), in quanto «[a]nche nella fattispecie in esame, analogamente a quanto avviene in quelle in
cui il netto scisso ha valore positivo, è possibile ri-
te che l’assegnazione scissoria debba concernere un “patrimonio”: i.e., un coacervo di elementi attivi e passivi, la cui somma
algebrica non necessariamente deve avere segno positivo, ma
alla cui composizione non possono concorrere solo elementi
passivi (Palmieri, op. cit., 136).
(43) Sottoriva, Crisi e declino dell’impresa. Interventi di turn
around e modelli previsionali, Milano, 2012, 129.
(44) Nieddu Arrica, Riorganizzazione societaria, risanamento
dell’impresa e tutela dei creditori, in Riv. soc., 2012, 712, che cita, ad es., la scissione finalizzata alla dismissione di assets, alla
razionalizzazione della struttura produttiva ed al ridimensionamento dell’attività con riduzione dei costi oppure tra società
appartenenti allo stesso gruppo o collegate da vincoli di capitale.
(45) Trib. Verona 6 novembre 1992, in Giur. comm., 1995,
II, 434.
(46) Scognamiglio, op. cit., 146.
(47) Portale, op. cit., 2000, 494; Palmieri, op. cit., 136; Belviso, op. cit., 526-527; Ammendola, La responsabilità per debito
della scissa, in Giur. comm., 1992, I, 501.
(48) Scognamiglio, op. cit., 152.
(49) Responsabilità per i debiti di incerta attribuzione, nel
progetto di scissione, tra le società partecipanti alla scissione.
(50) Responsabilità per i debiti di attribuzione certa, nel progetto di scissione, ma non soddisfatti dalla società, scissa o
beneficiaria, titolare.
(51) Aiello - Cavaliere - Cavanna - Cerrato - Sarale, op. cit.,
614; Picone, op. cit., 1088; Scognamiglio, op. cit., 154.
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667
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Diritto societario
scontrare uno scambio economico ove la beneficiaria, come contropartita dell’assunzione nel proprio
patrimonio di elementi attivi e passivi della scissa
di valore complessivo positivo, corrisponde ai soci
di quest’ultima azioni o quote di partecipazione nel
proprio capitale» (52).
Sul piano contabile, l’ammissibile scissione (solo
contabilmente, ma non anche economicamente)
negativa presenta la peculiarità, per la scissa, di
creare un surplus positivo nel patrimonio netto residuo post-scissione, pari alla misura del patrimonio contabilmente negativo scisso, con accensione,
quindi, di apposita riserva di patrimonio netto (53); per la beneficiaria, invece, di originare un
c.d. “disavanzo da concambio” (54), pari alla differenza tra valore contabile e valore reale del patrimonio scisso (55), così come riflessa nella misura
del capitale emesso dalla beneficiaria a servizio del
concambio partecipativo in favore dei soci della
scissa.
È, peraltro, controversa l’esistenza di limiti d’imputabilità al capitale sociale (rectius: patrimonio
netto) della beneficiaria del disavanzo da concambio in questione, occorrendo, a tal riguardo, distinguere tra beneficiaria preesistente e beneficiaria di
nuova costituzione.
Precisamente, nulla quaestio per l’ipotesi di beneficiaria preesistente: sarà solamente necessario che
il disavanzo da concambio generato dalla ricezione
di un patrimonio scisso contabilmente negativo sia
assorbibile da (pre-)esistenti poste di patrimonio
netto della beneficiaria - siano esse riserve o lo
stesso capitale sociale nominale - che verranno abbattute per importo pari a quello del disavanzo medesimo.
Viceversa, nell’ipotesi di beneficiaria di nuova
costituzione, una parte della dottrina ha ritenuto
che il meccanismo d’imputazione del disavanzo
da concambio al capitale sociale di costituzione
della beneficiaria non potrebbe essere utilizzato,
in quanto, essendo la beneficiaria costituita proprio attraverso l’apporto patrimoniale operato
dalla scissa, «non potrà esservi, in capo al nuovo
soggetto giuridico, un preesistente patrimonio
netto in grado di assorbire il valore contabile ne-
gativo del patrimonio trasferito» (56). Tale posizione restrittiva, appare essere stata accolta anche
dall’OIC 4, sub par. 4.3.3, nonché dalla prassi notarile triveneta (Orientamenti del Comitato Triveneto dei Notai in materia di atti societari, massima L.E.1. – 2008) che, nell’ammettere la scissione di patrimoni con valore contabile negativo,
ma valore economico positivo, fanno riferimento
solo alla scissione per incorporazione (peraltro,
apoditticamente).
Tuttavia, la prassi notarile milanese (57), con il
conforto di parte della dottrina (58), ritiene possibile, anche nella scissione in senso stretto negativa, la capitalizzazione, nella beneficiaria, del disavanzo da concambio, mediante imputazione del
medesimo ad incremento del valore contabile (negativo) del patrimonio scisso ricevuto, sino a concorrenza del suo valore economico (positivo); sempreché tale maggior valore costitutivo, quindi, del
capitale sociale nominale di partenza della beneficiaria sia attestato da una perizia di stima prevista
per i conferimenti in natura dagli artt. 2343 c.c.
(s.p.a.) e 2365 c.c. (s.r.l.).
In sintesi, la perizia di stima ex artt. 2343 o 2465
c.c. adempirebbe la funzione di garantire che la
formazione ex novo del capitale sociale della beneficiaria (non coperto da valori contabili già risultanti nelle scritture contabili e nei bilanci della
scissa) e, quindi, la rivalutazione dei valori contabili (negativi) del patrimonio scisso corrispondano
al valore economico reale (positivo) degli elementi
attivi del patrimonio scisso medesimo, il quale verrà in tal modo imputato al capitale sociale (non
formato fittiziamente, né annacquato) della beneficiaria.
Tale soluzione permissiva di una rivalutazione,
nel bilancio di apertura della beneficiaria, di poste
di patrimonio netto sembrerebbe, però, contrastare
con il principio di continuità dei valori contabili
(o dei bilanci) sancito dall’art. 2504bis, comma 4,
c.c. (59), in base al quale, nel citato bilancio di
apertura, “le attività e le passività sono iscritte ai
valori risultanti dalle scritture contabili alla data di
efficacia”.
(52) Bertoli, Scissione di un ramo d’attività avente valore negativo (c.d. scissione negativa), in Giur. comm., 2011, I, 743.
(53) Bertoli, op. cit., 744; Picone, op. cit., 1087; OIC 4 - Fusione e Scissione, par. 4.3.3, 60.
(54) Sul tema, si rinvia a Perotta, Le differenze di fusione e
di scissione: natura, significato economico e conseguente rappresentazione secondo profili aziendalistici e civilistici, in Riv.
dott. com., 2006, 507 ss.
(55) Aiello - Cavaliere - Cavanna - Cerrato - Sarale, op. cit.,
614.
(56) Picone, op. cit., 1088.
(57) Massima n. 72 - 15 novembre 2005, in Consiglio Notarile di Milano, Massime notarili in materia societaria, Milano,
2010, 259.
(58) Magliulo, op. cit., 636 e dottrina ivi citata sub nota 171.
(59) Norma dettata in materia di fusione, ma applicabile alla
scissione giusta il disposto dell’art. 2506quater, comma 1, ultimo periodo, c.c.
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Diritto societario
In realtà, sembra che detto principio di continuità vada collegato, da una parte, al principio di
comparabilità dei bilanci successivi (60), dall’altra, al principio d’integrità del capitale sociale.
Conseguentemente, si osserva che esso ben potrebbe essere derogato (o disapplicato, che dir si
voglia) nella misura in cui si rilevi, ragionevolmente, tanto l’inutilità di applicazione del primo
principio al bilancio di apertura della beneficiaria, finalizzato solamente a «stabilire quale sia la
struttura e composizione del complesso unificato
dopo un’operazione straordinaria» (61); quanto
l’osservanza del secondo principio, in presenza,
come visto, di una perizia di stima ex art. 2343 (o
art. 2465) c.c. (62).
corrispondente valore reale positivo, ma addirittura vedrebbero diminuire la propria caratura di
partecipazione nella beneficiaria per “far posto”
ai soci della scissa» (65); in caso, poi, di beneficiaria di nuova costituzione, verrebbe violato il
principio di effettività nella formazione del capitale sociale, in base al quale «la costituzione di
una società presuppone indefettibilmente l’apporto di elementi patrimoniali positivi» (66) (e
non, realmente, negativi, come nel caso in questione).
La decisione della Suprema Corte
c) patrimonio scisso con valori contabili e correnti
negativi
A differenza delle ipotesi a) e b), appare ricorrere una certa omogeneità di opinioni nel ritenere inammissibile una scissione (totale o parziale),
realmente, negativa, ossia quella in cui il patrimonio scisso esprima un valore, non solo contabile, ma anche effettivo, negativo. Tale forma
scissoria, infatti, in primo luogo, «contrasterebbe
con la stessa struttura propria della scissione, in
forza della quale i soci della scissa, che da un lato
subiscono un depauperamento patrimoniale dovuto alla riduzione di patrimonio della loro partecipata (la scissa), dall’altro vengono ricompensati dall’ottenimento, in concambio, di azioni o
quote della beneficiaria» (63); in secondo luogo,
risulterebbe priva del «carattere fondante [della]
prosecuzione dei rapporti sociali con modalità organizzative e strutturali modificate [...], risolvendosi in realtà in un mero accollo di debiti» (64).
Senza voler, inoltre, considerare che, in caso di
beneficiaria preesistente, verrebbe lesa la posizione dei suoi soci, i quali «a fronte della diminuzione di valore [...] che il patrimonio della società
[...] subirebbe per effetto dell’acquisizione di un
valore reale negativo (o nullo), non solo non acquisirebbero partecipazioni in altra società per un
a) inammissibilità della scissione (reale) negativa
Sia pure con una motivazione abbastanza concisa - imputabile, probabilmente, allo scenario processuale concorsuale (e non civilistico-societario)
in cui la fattispecie è stata scrutinata - i giudici di
legittimità mostrano di aderire, senza esitazioni, alla tesi negatrice dell’ammissibilità di una scissione
(reale) negativa.
Nella specie, si trattava di una scissione parziale
in senso stretto omogenea (67), in cui - nell’ambito
di una procedura esecutiva a carico della scissa
(Alfa s.r.l.), su segnalazione, da parte del giudice
dell’esecuzione, della ricorrenza dello stato di decozione, sia della scissa esecutata, sia della beneficiaria estranea non esecutata (Beta S.r.l.) - il pubblico
ministero competente aveva richiesto la dichiarazione di fallimento (art. 7, comma 1, n. 2), l. fall.)
di entrambe le società partecipanti, la quale dichiarazione era stata, prima, pronunciata dal tribunale, poi, confermata dalla competente corte di appello.
Ora, la sentenza in commento suscita interesse
in quanto costituisce un tentativo di tipizzazione
giurisprudenziale della figura giuridica della scissione negativa qui esaminata. In particolare, i giudici
di legittimità hanno fissato i seguenti confini della
fattispecie:
(a) sul piano strutturale, identificandola col caso
in cui il “il valore reale del patrimonio assegnato
(60) Provasoli - Viganò, Bilancio. Valutazioni, lettura, analisi,
Milano, 2007, 23.
(61) Caratozzolo, Fusione, scissione e principio di continuità
dei bilanci, in questa Rivista, 2000, 1296.
(62) Magliulo, op. cit., 635-636, il quale precisa anche che
«[s]e, infatti, la rivalutazione deve ritenersi vietata solo laddove
non sussista la ragionevole certezza dell’effettività dei relativi
plusvalori, deve allora affermarsi che, ove tale certezza sussista per effetto della stima giurata, nessun ulteriore limite alla
stessa può desumersi dal sistema» (Magliulo, op. cit., 637),
che, anzi, diviene, tra l’altro, «essenziale in ipotesi estreme e
cioè: - laddove si tratti di scissione a favore di società di nuova
costituzione mediante assegnazione alla stessa di un patrimonio avente un valore contabile negativo» (Magliulo, op. cit.,
638).
(63) Bertoli, op. cit., 742.
(64) Aiello - Cavaliere - Cavanna - Cerrato - Sarale, op. cit.,
615.
(65) Magliulo, op. cit., 176.
(66) Scognamiglio, op. cit., 152.
(67) Con tale espressione si intende la scissione in cui le società partecipanti appartengono allo stesso tipo societario (tra
i tanti, Cagnasso - Quaranta, La scissione delle società, in Nuovo dir. soc., 2009, 15, 12).
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Giurisprudenza
Diritto societario
sia negativo”, senza prendere posizione, tuttavia, riguardo all’ipotesi di scissione negativa meramente
contabile (per la quale, quindi, il dibattito si arresta a quanto segnalato nel precedente paragrafo);
(b) sul piano funzionale, dando rilievo (negativo), in termini di “finalità non tipiche della scissione societaria”, al caso della “scissione parziale
volta essenzialmente ad attribuire alla società scissa
un apparente stato di solvibilità”.
Quindi, una volta delineato il perimetro tipizzante, dal punto di vista strutturale e funzionale, la
scissione negativa (come scissione negativa reale
in senso stretto con finalità di mascheramento dello stato di decozione della scissa), ad avviso della
Suprema Corte, tale forma scissoria, con nettezza,
“è da ritenersi non consentita, in quanto non potrebbe sussistere alcun valore di cambio e conseguentemente non potrebbe aversi una distribuzione
di azioni ai soci della scissa”.
Con ciò i giudici di legittimità appaiono, ad un
tempo, riecheggiare una dottrina che, nel negare
cittadinanza giuridica alla scissione negativa reale, ha segnalato proprio come «la mancanza di un
valore economico [del patrimonio scisso – n.d.a.]
rende impossibile l’assegnazione di azioni o quote
della beneficiaria, risolvendosi la scissione in un
miglioramento patrimoniale della scissa, che si libera di una parte passiva del proprio patrimonio» (68); come pure, aderire all’orientamento
tradizionale che, pur nella consapevolezza del
suindicato “polimorfismo” dell’istituto in esame,
individua, come suo elemento identificativo minimo, la ricezione di partecipazioni di compendio
da parte dei soci della scissa (sia pure, ormai,
“non proporzionalmente” e, addirittura, “asimmetricamente”).
della fusione (art. 2504quater c.c.) - della scissione (art. 2506ter, comma 5, c.c.), a carattere attenuato: nel senso che, come noto, decorso, senza
opposizione da parte dei creditori, il termine di
60 giorni dall’iscrizione nel registro delle imprese
della deliberazione di scissione (art. 2503 c.c., richiamato dall’art. 2506ter, comma 5, c.c.) e dopo
l’iscrizione dell’ultimo atto della scissione nel registro delle imprese (artt. 2506quater, comma 1,
c.c.), l’invalidità della scissione (reale) negativa
non può essere pronunciata (69). Ovviamente,
preclusa la tutela c.d. “demolitoria” (o “reale” o
“invalidatoria”) (70) resta salva la tutela c.d. “risarcitoria” che, nelle circostanze, per essere realmente efficace dovrebbe avere un ambito soggettivo più ampio di quello delle società coinvolte
nella scissione (reale) negativa, aldilà del meccanismo di chiusura della responsabilità solidale
delle società partecipanti all’operazione di scissione ex art. 2506quater, comma 3, c.c. (di cui infra):
ad es., responsabilità da abuso di direzione e coordinamento ex artt. 2497 e ss. c.c. imputabile soggettivamente, tra gli altri, ai soci di controllo
esercitanti la direzione e coordinamento su scissa
e beneficiaria(-e).
b) soggezione dell’inammissibile scissione (reale)
negativa all’ordinario regime invalidatorio
Un altro profilo di rilievo della sentenza in oggetto è che la scissione (reale) negativa, pur costituendo una forma di sostanziale grave abuso
dell’istituto scissorio come tipizzato dal legislatore
(comunitario e nazionale) ed essendo, quindi,
inammissibile; nondimeno, resta soggetta all’ordinario regime invalidatorio - derivato da quello
c) applicazione anche all’inammissibile scissione
(reale) negativa dell’art. 2506quater, comma 3,
c.c., ai fini dell’accertamento dello stesso stato di
insolvenza delle società partecipanti
L’ultimo profilo degno di nota concerne l’individuazione dei rapporti tra la scissione (reale) negativa e, ai fini dell’insolvenza delle società partecipanti, il sopra citato art. 2506quater, comma 3,
c.c., il quale stabilisce, a tutela dei creditori della
scissa ante-scissione, che «[c]iascuna società è solidalmente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti
dalla società cui fanno carico».
A tal proposito, la sentenza in oggetto ha modo
di precisare - apparentemente per la prima volta –
che l’invalidità della scissione (reale) negativa lascia impregiudicata la piana (e piena) applicazione
dell’art. 2506quater, comma 3, c.c., anche ai fini
(68) Aiello - Cavaliere - Cavanna - Cerrato - Sarale, op. cit.,
615.
(69) Ciò, d’altra parte, in linea con il chiaro dettato della
norma, come ulteriormente precisato anche dai giudici di legittimità, per i quali la preclusione di pronunce giudiziali di accertamento dell’invalidità della scissione “riguarda sia gli eventuali vizi che colpiscono direttamente l’atto [di scissione - n.d.a.],
sia quelli che si fossero verificati nel corso dell’iter procedimentale che ha portato alla formazione dell’atto [di scissione n.d.a.] e alla sua successiva iscrizione” (Cass. 20 dicembre
2005, n. 28242, in Notariato, 2006, 125).
(70) Portale, L’invalidità delle delibere assembleari: tra tutela
demolitoria e tutela risarcitoria, in La società per azioni oggi. Tradizione, attualità e prospettive, **, Milano, 2007, 613.
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Diritto societario
della dichiarazione di fallimento delle società coinvolte nell’operazione.
Conseguentemente, la sussistenza del “presupposto oggettivo” (71) del fallimento in capo alla
scissa parziale e alla beneficiaria (vale a dire lo
stato d’insolvenza di ciascuna società) deve essere
valutata separatamente, come segue: (i) da un lato, avendo riguardo agli elementi attivi e passivi
del rispettivo patrimonio post-scissione; (ii) dall’altro, tenendo presenti i limiti di responsabilità
in relazione, rispettivamente, alle obbligazioni
transitate nel patrimonio della beneficiaria e alle
obbligazioni rimaste nel patrimonio della scissa
parziale.
In caso di mancata indagine, da parte del giudice
del fallimento in sede di istruzione prefallimentare,
dei citati profili (i) e (ii) con riferimento a ciascuna società partecipante ad una scissione (reale) negativa – come avvenuto nel caso giudiziario in questione – va cassata la sentenza dichiarativa del fallimento di tutte le società partecipanti, nella misura in cui essa - in violazione degli artt. 2506quater
c.c. (oltreché 5 e 15 l. fall.) - rapporti lo stato d’insolvenza di ciascuna società dichiarata fallita all’insieme dei debiti facenti originariamente capo alla
scissa parziale, quando, invece, occorrerebbe considerare la “suddivisione” di questi ultimi, tra scissa e
beneficiaria, così come generata dalle assegnazioni
scissorie.
In buona sostanza, il sopra delineato percorso
argomentativo dei giudici della suprema corte
esprime una rigida e rigorosa applicazione in
ambito fallimentare dell’art. 2506quater, comma
3, c.c. Tale precetto normativo, infatti, andrebbe interpretato (e applicato) in ambito fallimentare come espressione del principio di reciproca
impermeabilità, indipendenza e intrasmissibilità
delle insolvenze delle società partecipanti ad
un’operazione di scissione, quand’anche nella
forma, inammissibile, della scissione (reale) negativa e nonostante la responsabilità solidale
per (tutti) i debiti ante-scissione delle società
coinvolte (sia pure, come noto, nella forma “attenuata” (72) della responsabilità sussidiaria (73)
e limitata (74) per la società partecipante diversa dalla società titolare principale del debito, secondo quanto previsto dal progetto di scissione).
Anche se in via indiretta e implicita, sembrerebbe così trovare conferma la visione che la scissione parziale (i) sul piano soggettivo, crei, per
“gemmazione giuridica” dalla scissa, una separazione tra le società partecipanti e (ii) sul piano
oggettivo, riguardo, specificamente, agli elementi
passivi del patrimonio scisso (pure nelle circostanze estreme di una scissione reale negativa),
rilevi giuridicamente come titolo traslativo dei
debiti scissi (75) dalla scissa alla beneficiaria(-e),
in deroga ai principi generali in tema di modificazioni soggettive nel lato passivo del rapporto
obbligatorio (artt. 1268-1276 c.c.); ciò nei rapporti non solo interni tra originario e nuovo debitore (a mò di accollo), ma anche esterni: vale a
dire nei confronti dei creditori sociali della scissa
(71) Ambrosini - Cavalli - Jorio, Il fallimento, in Cottino (diretto da), Trattato di diritto commerciale, Padova, 2009, 123.
(72) In quanto non si tratta di una responsabilità solidale
«perfetta [...] di tipo non sussidiario e senza limiti di importo»
(Magliulo, op. cit., 582).
(73) Siccome presuppone il mancato soddisfacimento del
debito (originariamente della scissa) da parte della società cui
esso è stato assegnato (la beneficiaria) o è rimasto (la stessa
scissa) in sede di scissione. Si parla, al riguardo, di vero e proprio beneficio d’escussione, rispetto alla società destinataria
della passività in base al progetto di scissione, a favore della
società diversa da tale debitore principale, la quale potrà essere aggredita dal creditore insoddisfatto solo dopo l’infruttuosa
escussione del debitore principale medesimo (Cass. 28 novembre 2001, n. 15088, in questa Rivista, 2002, 1377; contra,
però, Cass. 24 aprile 2003, 6526, in Giur. it., 2003, che ha, tra
l’altro, stabilito l’opposto principio - stranamente, pressoché
ignorato dalla dottrina - che: «Il presupposto della responsabilità ex art. 2504decies, ultimo comma, c.c. [ora 2506quater,
comma 3, c.c. - n.d.a.] delle società partecipanti alla scissione
per i debiti della società scissa non soddisfatti dalla società a
cui essi fanno carico è indicato dalla legge nella mera circostanza che l’obbligazione non sia stata soddisfatta, e la responsabilità stessa è definita come solidale. In tale situazione,
non è ravvisabile un “beneficium excussionis” a favore di ciascuna delle società tenute a rispondere, di fronte ai creditori
sociali, per le passività trasferite o rimaste in capo alle altre; e
dunque non si pone neppure il problema se un tale beneficio
sia opponibile solo in sede esecutiva, ovvero lo sia anche nel
giudizio di cognizione instaurato prima dell’escussione del debitore principale».
(74) Dal momento che la società coobbligata solidale in via
sussidiaria rispetto al debitore principale non risponde illimitatamente del debito non soddisfatto da quest’ultimo, ma ne risponde solamente entro i “limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto”; valore effettivo da
intendere come “corrispondente non a quello contabile, bensì
al “valore rettificato”, ottenuto calcolando le attività a valori
correnti e non storici” (Trib. Milano 22 luglio 2013, in Giur. it.,
2013, 2545; Trib. Verona 20 novembre 2012, in Fallimento,
2013, 124).
(75) Ossia dei debiti la cui destinazione è “desumibile” dal
progetto di scissione, applicandosi per gli altri, ossia quelli la
cui destinazione non è “desumibile” dal progetto di scissione,
la disciplina dell’art. 2506bis, comma 3, c.c. (Trib. Milano 19
dicembre 2012, in Giur. it., 2013, 1327): i debiti, cioè, rimangono in capo alla scissa parziale (quale originario debitore), ma le
beneficiarie ne sono corresponsabili solidali, in via non sussidiaria (differentemente dal caso dell’art. 2506quater, comma
3, c.c.) e limitata (identicamente al medesimo caso dell’art.
2506quater, comma 3, c.c.).
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671
Giurisprudenza
Diritto societario
anteriori all’iscrizione del progetto di scissione
nel registro delle imprese competente, da ritenere
veri e propri “creditori ceduti” (76) che vedono
formalmente mutato il soggetto debitore principale, a prescindere dalla propria volontà (senza,
tuttavia, liberazione del debitore originario e,
d’altra parte, senza nemmeno conservazione della
medesima posizione ante-scissione, come precisato più innanzi nell’ultimo periodo).
Sul piano del diritto positivo, tale ricostruzione
appare trovare fondamento sull’assoluta mancanza,
nella disciplina legislativa (art. 2506bis, comma 1,
c.c.), di una distinzione qualitativa tra elementi attivi e passivi “scindendi”, ai fini del loro trasferimento (rectius: assegnazione) alla(-e) beneficiaria(e), che, quindi, subentrerebbe(ro) alla (parzialmente) scissa nelle situazioni giuridiche, sia attive (i.e.,
beni giuridici di ogni natura: diritti assoluti, a carattere reale, su beni materiali, mobiliari ed immobiliari, ovvero immateriali, nonché diritti relativi,
vale a dire diritti di credito e personali di godimento), sia passive.
Peraltro, ciò non comporta un deterioramento
della posizione giuridica dei “creditori ceduti”, i
quali sono tutelati dalla previsione:
1. in via preventiva, del diritto di opposizione
alla scissione (artt. 2506ter, comma 5, e 2503
c.c.);
2. in via successiva, come abbiamo visto sopra,
della responsabilità solidale (in via sussidiaria,
però) di ciascuna società partecipante per i debiti
già della (parzialmente) scissa e “non soddisfatti
dalla società cui fanno carico” (art. 2506quater,
comma 3, c.c.), sia pure non illimitatamente, ma
limitatamente al valore effettivo del patrimonio
netto ad essa trasferito (rectius: assegnato) o rimasto.
Ed è importante rilevare a tal ultimo riguardo,
a conferma dell’idea dell’idoneità della scissione
a determinare la “cessione” dei debiti scissi anche
nei confronti dei creditori della scissa (parziale),
che tale responsabilità delle società partecipanti
alla scissione per i debiti assegnati alle altre va
preferibilmente configurata – e la sentenza qui
annotata ne sembra una conferma, sia pure indiretta – come responsabilità afferente ad un debito
non già proprio, bensì altrui, e precisamente della
società cui esso “fa carico” secondo il progetto di
scissione.
Si è, pertanto, suggerito a tal proposito, sul piano qualificatorio civilistico della fattispecie, il
concetto di fideiussione ex lege (o legale), in
quanto «la corresponsabilità delle società non nasce, come normalmente avviene, da un contratto
tra creditore ed uno i più fideiussori, ma viene
imposta dal legislatore» (77) oppure, più semplicemente, quello di «garanti in via sussidiaria» (78), analogamente ad altre ipotesi di «obbligazioni solidali previste dalla legge nell’interesse
altrui» (79) (o di «responsabilità solidale legale
nell’interessi altrui» (80)): ad es., la responsabilità degli amministratori delle associazioni non riconosciute (art. 38 c.c.); dei soci di s.s. (art. 2267
c.c.) o s.n.c. (art. 2304 c.c.); del socio unico di
s.p.a. (art. 2325, comma 2, c.c. e, ante-riforma societaria, art. 2362 c.c.) o di s.r.l. (art. 2462, comma 2, c.c.) (81).
In conclusione sul punto, con specifico riferimento ai debiti (già) della scissa parziale ed assegnati ad una o più beneficiarie, si può affermare
che la scissa vede mutata la propria posizione passiva da obbligata illimitatamente in via principale
ad obbligata in garanzia (nel senso innanzi precisato) a carattere limitato e sussidiario, vale a dire
con il beneficio della preventiva escussione della
beneficiaria, quale assegnataria di un debito (non
più) della scissa e, quindi, nuovo debitore principale con responsabilità illimitata.
Il tutto, si ripete, eccezionalmente senza necessità di alcun apporto volitivo del “creditore ceduto”,
(76) Da notare come tale espressione sia stata usata proprio dal legislatore (art. 58, comma 5, t.u.b.) con riferimento alle cessioni in blocco di rapporti attivi e passivi (non necessariamente aziendali), da parte di società bancarie in bonis (con
permanenza, sia pure temporaneamente, della responsabilità
del cedente per i debiti, in solido con il cessionario, verso i
“creditori ceduti”; viceversa, ove dette cessioni siano operate
da società bancarie in decozione e, soggette, quindi, a liquidazione coatta amministrativa, vi è liberazione, quanto ai debiti
ceduti, del debitore cedente, analogamente alle cessioni in
blocco o di aziende ordinarie in ambito fallimentare ex art.
105, comma 5, l. fall. produttive di «un effetto liberatorio per la
procedura» (Minneci, Il regime dei debiti nell’ambito delle cessioni aggregate di cui alla liquidazione coatta bancaria, in Banca,
borsa, tit. cred., 2010, II, 520 ss., il quale, a pag. 526, parla pro-
prio di «attitudine delle situazioni debitorie a formare oggetto
di vicenda circolatoria a struttura bilaterale (ovvero imperniata
sulla sola volontà delle parti del negozio traslativo».
(77) Cusa, op. cit., 156, nota 186.
(78) Campobasso, op. cit., 681.
(79) Stella, Le garanzie del credito, *, Fideiussione e garanzie
autonome, in Iudica - Zatti (a cura di), Trattato di diritto privato,
Milano, 2010, 53.
(80) Bianca, Diritto civile, 5, La responsabilità, II ed., Milano,
2012, 484.
(81) Per una critica alla teoria della fideiussione legale in
merito alle ipotesi, esemplificate nel testo, di responsabilità
per obbligazioni di enti giuridici privatistici, Stella, op. cit., 5257, con la relativa giurisprudenza ivi citata.
672
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto societario
ma sulla base della volontà manifestata dal solo debitore originario (od anche dai nuovi debitori, in
caso di scissione per incorporazione) nel progetto
Le Società 6/2014
di scissione, ed integrata dalla volontà della legge
quanto alla responsabilità ex art. 2506quater, comma 3, c.c.
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16/04/14 12:31
Giurisprudenza
Diritto societario
Cessione di quote sociali
Questioni processuali e
sostanziali in tema di nullità
di contratto di cessione di quote
sociali per violazione del divieto
di patto commissorio
Tribunale di Milano, sez. impr., 3 ottobre 2013 - Pres. e Rel. Riva Crugnola - P. c. P. e altri
Domanda di annullamento di contratto - Questione di nullità - Rilevabilità d’ufficio
(Cod. civ. artt. 1421 e 2744)
La questione di nullità ex art. 2744 c.c., riferita ad un contratto di cessione di quote di partecipazione in una
s.r.l., è rilevabile d’ufficio da parte del giudice investito della domanda di annullamento di tale contratto.
Contratto di cessione di quote sociali - Divieto di patto commissorio - Violazione - Nullità
(Cod. civ. art. 2744)
Incorrono nella sanzione di nullità ex art. 2744 c.c., per violazione del divieto di patto commissorio, le pattuizioni con cui, in sostanza, le parti hanno perseguito il risultato del trasferimento del bene (rappresentato da
quote di partecipazione in una s.r.l.) del debitore in favore dei soci della società creditrice, non in funzione di
scambio, ma in funzione di garanzia dell’estinzione del debito verso quest’ultima.
Il Tribunale (omissis).
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto
della decisione
G. M. P. ha convenuto in giudizio i suoi fratelli G. M.,
A. M. e R. M. P., chiedendo:
- ex art. 1427 c.c. l’annullamento per errore del negozio
11.5.2007, recante cessione in favore dei tre convenuti
delle sue quote di partecipazione nella s.r.l. HORION
pari al 25% del capitale della società, e della contestuale scrittura privata inter partes, cessione e scrittura a suo
dire:
- sottoscritte a seguito di pressioni dei tre fratelli perché
egli provvedesse alla restituzione dell’importo di euro
1.386.204,00 prelevato dalle casse della HORION s.r.l.
nel periodo dal 2001 al 2003 nel quale egli ricopriva
presso la stessa HORION la carica di amministratore,
importo utilizzato per finanziamenti alla ARGENTERIA GALBIATI s.r.l., anch’essa amministrata da egli
G.P. e poi dichiarata fallita il 30.4.2009,
- pressioni che egli, non potendo al momento effettuare
alcun pagamento restitutorio, lo avrebbero determinato
Le Società 6/2014
alla cessione in favore dei fratelli delle quote di HORION s.r.l. al loro valore nominale (cfr. doc. 2),
- nell’erronea convinzione della sussistenza di ragioni di
credito nei propri confronti direttamente in capo ai fratelli, quali soci della HORION s.r.l., come espressamente indicato nella scrittura privata coeva all’atto di cessione (della quale pure l’attore ha chiesto l’annullamento), scrittura nella quale:
- si precisa che “tale cessione è stata concordata dalle
parti a titolo di parziale rimborso sul maggior importo
dovuto a seguito del credito vantato da HORION s.r.l.
e dai suoi soci verso G.M.P. e verso ARGENTERIA
GALBIATI s.r.l.” e che “le parti ritengono che il valore
delle quote cedute da G.M.P. si possa indicativamente
quantificare in euro 900.000,00, in ogni caso le parti si
riservano di quantificare con esattezza a mezzo di perizia
il valore delle quote in un secondo momento”,
- e si pattuisce che “le parti riconoscono a G. M. P. il
diritto di riacquisto delle quote una volta che sarà stato
integralmente soddisfatto il credito vantato da HORION s.r.l. e dai suoi soci verso G. M. P. e verso ARGENTERIA GALBIATI s.r.l.” (cfr. doc. 3),
675
Giurisprudenza
Diritto societario
- erronea convinzione determinata dalla auto-qualificazione degli altri soci quali suoi diretti creditori, creditrice essendo invece la HORION s.r.l., in realtà non destinataria di alcun pagamento, essendosi i fratelli cessionari limitatisi a incamerare la sua quota di partecipazione,
- cosicché, in sostanza, sarebbe intervenuto nel suo processo volitivo un rilevante errore sulla qualità del contraente;
- nonché, in subordine, accertamento del valore della
quota ceduta come pari ad euro 1.050.000,00, secondo
le risultanze della stima del fabbricato di proprietà di
HORION s.r.l., pari ad euro 4.200.000,00 (cfr. doc.7).
I convenuti P. si sono costituiti unitamente alle intervenienti HORION s.r.l. e GEMINO s.r.l., quest’ultima
avente causa da R. M. P. avendone acquistato le quote
in HORION s.r.l.:
- illustrando la condotta illecita dell’attore, quale amministratore delegato di HORION s.r.l. dal 1996 all’aprile
2003, condotta consistita nel prelevare dalle casse sociali, a partire dal marzo 2001 e fino a qualche mese dopo la cessazione della carica di amministratore delegato,
a mezzo della emissione sui conti intestati alla società di
assegni non trasferibili in favore di sé stesso, della moglie D. C. e di ARGENTERIA GALBIATI s.r.l., il
complessivo importo di euro 1.230.538,45 (per euro
526.455,76 in favore di sé stesso, per euro 652.437,00
in favore della moglie e per euro 51.645,69 in favore di
ARGENTERIA GALBIATI s.r.l.);
- qualificando la cessione di quote dell’11.5.2007 quale
negozio con funzione di garanzia, in particolare denotata dal valore nominale di cessione e dal diritto di riacquisto delle quote in capo al cedente una volta che fosse stata coperta la sua esposizione debitoria verso HORION s.r.l., negozio come tale voluto senza alcun errore
dall’attore, in ogni caso non potendo essere considerato
quale essenziale l’errore descritto in citazione;
- contestando la valutazione del valore delle quote svolta in via subordinata dall’attore, l’immobile rappresentante l’unico cespite sociale essendo gravato da ipoteca
accesa dallo stesso attore a garanzia del finanziamento
ottenuto dalla BANCA ANTONIANA POPOLARE
VENETA per disporre della provvista poi utilizzata per
gli indebiti prelievi;
- chiedendo quindi il rigetto delle domande dell’attore
e svolgendo poi nei confronti dell’attore in via riconvenzionale, la HORION s.r.l., azione di restituzione per
l’importo prelevato indebitamente dalle casse sociali
nonché, i convenuti P., azione di responsabilità in riferimento agli ulteriori danni derivanti dalla condotta di
accensione del finanziamento con BANCA ANTONIANA POPOLARE VENETA, comportante rilevanti
interessi, chiedendo al riguardo anche, la s.r.l. HORION, di chiamare in causa D. C. per sentirla condannare alla restituzione dell’importo di euro 652.437,00 a
titolo di responsabilità aquiliana ovvero a titolo di ingiustificato arricchimento.
Rigettate quindi dal g.i. (sopraggiunto quale assegnatario del processo a seguito del trasferimento del g.i. originario ad altro ufficio) contrapposte istanze cautelari for-
676
mulate dalle parti nella prima fase del processo sul rilievo del difetto di periculum, con lo stesso provvedimento
del 7.3.2012 il g.i. non ha autorizzato la chiamata in
causa della C., che si era costituita con una serie di eccezioni a seguito della notifica di atto di chiamata da
parte della intervenuta HORION s.r.l., così il g.i. motivando su tale tema:
“rilevato che i convenuti nonché la interveniente s.r.l.
HORION hanno svolto istanza cautelare ex art.671
c.p.c. nei confronti (oltre che, come si è detto, dell’attore anche) di D. M. C., moglie dell’attore che hanno
chiesto di essere autorizzati a chiamare in causa -per
sentirla condannare ex art.2043 c.c. alla restituzione in
favore di HORION s.r.l. dell’importo di euro
652.437,00, corrispondente a somme prelevate da HORION s.r.l. ad opera dell’attore a mezzo di assegni riversati poi su depositi bancari della moglie- sia nella fase
cautelare (nella quale il g.i. dell’epoca con provvedimento del 19.11.2010 ha respinto l’istanza di rinvio dell’udienza fissata per la discussione del ricorso cautelare)
sia nel costituirsi in sede di merito, svolgendo nella
comparsa di risposta istanza di differimento della prima
udienza ex art.269 c.p.c.;
ritenuto che la chiamata in causa della C. -contrariamente a quanto esposto dai convenuti e dalla interveniente nell’atto di citazione per la chiamata in causa
notificato alla C. l’1.6.2011- non sia stata autorizzata
dal g.i. dell’epoca, che non risulta aver emanato alcun
provvedimento ex art. 269 c.p.c., ma si è limitato, all’udienza del 26.1.2011 fissata per la prosecuzione della discussione cautelare, a prendere atto della “pendenza in
corso di trattative” e a “rinviare il procedimento comprensivo anche del merito” alla successiva udienza del
25.10.2011, nella quale il processo ha subito una stasi
per il trasferimento del g.i. ad altro ufficio;
ritenuto quindi che la valutazione in merito alla autorizzazione o meno di tale chiamata (alla luce dei principi di cui a Cass. s.u. n. 4309/2010) debba ancora essere
effettuata, come richiesto all’udienza del 2.5.2012 in via
subordinata dalla difesa dei convenuti e della intervenuta, e non possa concludersi in senso positivo, posto
che:
- se la connessione tra le domande dell’attore e quelle
riconvenzionali svolte nei suoi confronti dai convenuti
e dall’intervenuta (connessione negata dall’attore ed affermata invece dai convenuti) può dirsi, allo stato e salvo gli approfondimenti in sede di ulteriori difese, comunque materia discutibile, data la riferibilità di tutte
tali domande alla medesima vicenda e l’identità dei soggetti coinvolti,
- ad analoga valutazione non può pervenirsi quanto alle
domande formulate dai convenuti e dall’intervenuta nei
confronti della C., la cui chiamata in giudizio:
- da un lato comporta una estensione del contraddittorio e del thema decidendum di per sé contraria a esigenze
di economia processuale
- e dall’altro riguarda vicenda “collaterale” rispetto a
quelle già oggetto del contraddittorio tra le parti originarie, sì che appaiono carenti i presupposti ex art. 106
c.p.c. per l’ampliamento del numero delle parti;
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Diritto societario
ritenuto quindi che la chiamata in causa della C. non
può essere autorizzata e che per tale assorbente conclusione neppure possa essere presa in considerazione l’istanza cautelare svolta nei suoi confronti, da dichiarare
inammissibile;”.
Nelle memorie ex art.183 c.p.c. sesto comma:
- i convenuti hanno documentato vicende di parziale
pagamento del debito di HORION s.r.l. verso la BANCA ANTONIANA POPOLARE VENETA realizzate
tramite cessione di parte degli immobili sociali al socio
GEMINO s.r.l.,
- vicende delle quali l’attore ha eccepito la valenza di
spoliazione di HORION s.r.l. e rispetto alle quali ha illustrato proprie distinte iniziative revocatorie.
Dopo la scadenza dei termini assegnati ex art.183 c.p.c.,
è intervenuta in giudizio QUATTROEFFE s.r.l., svolgendo intervento adesivo dipendente per sostenere le
ragioni dell’attore, del quale si è affermata creditrice per
l’importo di euro 1.442.658,57, in particolare:
- ribadendo la ragioni già esposte dall’attore per l’annullamento del negozio di cessione 11.5.2007;
- affermando la carenza di prova delle domande riconvenzionali, posta la registrazione nella contabilità sociale di HORION s.r.l. dei prelievi effettuati dall’attore e
posto che la nullità degli atti 11.5.2007 travolgerebbe
comunque la ricognizione di debito ivi effettuata da G.
M.P.;
- e prospettando la nullità per violazione del divieto di
patto commissorio del negozio di cessione di quote
11.5.2007, nullità da rilevarsi d’ufficio ex artt. 1418 e
2744 c.c.: nullità derivante dalla funzione di garanzia indicata dagli stessi convenuti come propria della cessione.
Alla successiva udienza del 30.10.2012 i convenuti P.
nonché le intervenute s.r.l. HORION e GEMINO hanno eccepito l’inammissibilità dell’intervento di QUATTROEFFE s.r.l. e hanno sostenuto l’infondatezza della
prospettazione di nullità ex art. 2744 c.c.
Alla successiva udienza le parti hanno precisato le rispettive conclusioni, con abbandono da parte della intervenuta s.r.l. HORION di ogni conclusione nei confronti della C.
Nelle difese conclusionali le parti hanno ribadito le loro
posizioni, in particolare:
- l’attore facendo propria la prospettazione di nullità ex
art. 2744 c.c. dell’intervenuta s.r.l. QUATTROEFFE e
contrastando l’azione di responsabilità sociale svolta ex
art. 2476 c.c. dai convenuti P. quali soci di HORION
s.r.l., rilevando la carenza di ogni prova circa il preteso
danno ed eccependo l’intervenuta prescrizione quinquennale;
- i convenuti P. e le intervenute s.r.l. HORION e GEMINI:
- eccependo l’inammissibilità dell’intervento di QUATTROEFFE s.r.l., titolare di un interesse di mero fatto all’accoglimento delle domande dell’attore;
- affermando, comunque, la non rilevabilità d’ufficio
della nullità ex art. 2744 c.c. laddove le domande dell’attore attengano, come nel presente caso, a una diversa specifica causa di invalidità del negozio controverso
(cfr. Cass. s.u. n. 1428/2012, questione oggi rimessa alle
Le Società 6/2014
s.u. da Cass. n. 21083/2012), e, conseguentemente, la
tardività della deduzione della intervenuta al riguardo;
- sempre in subordine, quanto al merito della eccezione,
rilevandone l’infondatezza posto il carattere non futuro
ma già verificatosi dell’inadempimento dell’attore alle
sue obbligazioni verso HORION s.r.l.;
- eccependo la tardività della eccezione di prescrizione
formulata dall’attore quanto alla domanda riconvenzionale ex art. 2476 c.c.
All’esito di tale contraddittorio reputa il Tribunale debbano essere innanzitutto esaminate le questioni preliminari relative alla estensione del contraddittorio.
Al riguardo va considerato:
- quanto alla chiamata in causa della C., eseguita dalla
intervenuta HORION s.r.l. nella fase iniziale del procedimento,
- che su tale tema deve essere confermata la sopra riportata motivazione dell’ordinanza del g.i. 7.3.2012,
- del resto neppure la HORION s.r.l. avendo riprodotto
nelle sue conclusioni definitive la richiesta di chiamata
in causa della C. e la domanda di condanna nei confronti di costei,
- cosicché la vocatio in ius della C. eseguita dalla HORION s.r.l. con l’atto di chiamata di terzi notificato alla
C. il 30.5.2011 va dichiarata inammissibile, non essendo stata autorizzata dal g.i.,
- con condanna della HORION s.r.l. alla rifusione delle
spese di lite in favore della parte irritualmente citata (e
nei cui confronti è stata formulata sempre da HORION
s.r.l. anche richiesta cautelare, poi dichiarata inammissibile dal g.i.), spese da liquidarsi, tenuto conto della natura e
del valore della lite che riguarda specificatamente la C. e
dell’attività difensiva svolta nonché dell’abbandono di
ogni conclusione nei confronti della C. in sede di precisazione delle conclusioni da parte di HORINO s.r.l., in euro 15.000,00 quale compenso di avvocato, oltre iva e cpa;
- quanto alla ammissibilità dell’intervento in causa di
HORION s.r.l., ammissibilità contestata dall’attore solo
nella fase cautelare senza assumere al riguardo alcuna
conclusione né in sede di prima memoria ex art. 183
c.p.c. sesto comma né in sede di conclusioni definitive,
- che l’intervento va ritenuto ammissibile, alla luce del
condivisibile orientamento secondo il quale: “Per l’ammissibilità dell’intervento di un terzo in un giudizio
pendente tra altre parti è sufficiente che la domanda
dell’interveniente presenti una connessione od un collegamento implicante l’opportunità di un “simultaneus
processus”(così, ad es. Cass. n. 27398/2009),
- nel presente caso essendo in particolare HORION
s.r.l. intervenuta per far valere nei confronti dell’attore
una domanda restitutoria di per sé connessa al riconoscimento di debito contenuto nella scrittura privata
11.5.2007 sottoscritta dall’attore e dai fratelli soci della
stessa HORION, scrittura della quale l’attore ha qui
chiesto l’annullamento,
- ricorrendo dunque le condizioni di cui al primo comma dell’art. 105 c.p.c. per l’intervento c.d. autonomo;
- quanto alla ammissibilità dell’intervento in causa di
QUATTROEFFE s.r.l., ammissibilità contestata dai
convenuti e dalle altre intervenute,
677
Giurisprudenza
Diritto societario
- che tale intervento, adesivo alle domande dell’attore,
è stato motivato dalla interveniente sul solo presupposto di essere creditrice dell’attore per rilevante somma e
di essere quindi interessata all’accoglimento della domanda di annullamento dell’atto di cessione di quote
controverso, trattandosi di pronuncia la cui adozione
comporterebbe un ampliamento della garanzia generica
rappresentata dal patrimonio del proprio debitore;
- che l’interesse indicato dalla interveniente va qualificato come interesse di mero fatto all’esito della lite favorevole per l’attore, non essendo invece configurabile
nel caso di specie alcuna ripercussione della pronuncia
richiesta dall’attore nella sfera giuridica propria della interveniente, né in via diretta né in via mediata,
- cosicché l’intervento va ritenuto inammissibile, dovendosi condividere l’orientamento secondo il quale
l’interesse legittimante l’intervento ad adiuvandum ex art.
105 c.p.c., secondo comma, “va inteso come un interesse
all’esito favorevole della causa per la parte adiuvata e deve,
comunque, essere giuridicamente protetto, non potendo atteggiarsi come un interesse di mero fatto; in sostanza, esso
coincide con la titolarità di una situazione giuridica dipendente da quella oggetto del processo tra le parti originarie ed
è volta a consentire al terzo di tutelarsi in ordine a possibili
effetti riflessi che, per ragioni di diritto sostanziale, la sentenza pronunciata tra le parti può spiegare nei suoi confronti”
(così, in motivazione, ad es., Cass. n. 12386/2013),
- potendosi poi compensare interamente le spese di lite
quanto all’attività difensiva relativa al rapporto processuale tra l’intervenuta s.r.l. QUATTROEFFE e i convenuti nonché le altre intervenute, data la fase processuale terminale nel quale l’intervento è avvenuto e data la
ricorrenza di precedenti non univoci quanto alla natura
dell’interesse legittimante l’intervento adesivo.
Ciò posto quanto alla estensione del contraddittorio, va
poi esaminata la questione di nullità ex art. 2744 c.c. del
negozio di cessione 11.5.2007, questione che il Tribunale
ritiene rilevabile d’ufficio e sulla quale si è già sviluppato
il contraddittorio a seguito della sollecitazione sul tema
contenuta nelle difese di QUATTROEFFE s.r.l.
Quanto alla rilevabilità d’ufficio di tale questione, le
contrapposte posizioni della giurisprudenza di legittimità
sono state ampiamente illustrate dai convenuti nella loro esauriente difesa conclusionale, nella quale si è dato
conto del dibattito giurisprudenziale sulla rilevabilità
d’ufficio di motivi di nullità di un negozio:
- non solo (come ritenuto dalla giurisprudenza consolidata) da parte del giudice investito della domanda di adempimento (laddove la validità del negozio rappresenta senz’altro un elemento costitutivo della domanda),
- ma anche da parte del giudice investito della domanda
di risoluzione, come da ultimo statuito dalla pronuncia
della Cassazione a sezioni unite n. 14828/2012, che ha
risolto in tal senso il contrasto esistente tra l’orientamento tradizionale, il quale negava tale rilevabilità officiosa facendo leva sul divieto di pronunciare ultra petita,
e l’orientamento più recente, il quale sottolineava che
anche le domande di risoluzione presuppongono la validità del negozio,
678
essendo tuttora aperto il contrasto nella giurisprudenza
di legittimità quanto alla rilevabilità d’ufficio di motivi
di nullità del negozio da parte giudice investito della
domanda di annullamento dello stesso negozio, in particolare la questione essendo stata rimessa alle sezioni
unite dall’ordinanza della seconda sezione civile della
Cassazione n. 21083/2012.
E, rispetto a tale ultimo tema, reputa appunto il Tribunale debba preferirsi l’orientamento ammissivo della rilevabilità d’ufficio anche nel caso di domanda di annullamento, posto che:
- risulta condivisibile il rilievo secondo il quale anche
le domande di annullamento presuppongono la assenza
di motivi di nullità, in particolare “facendo valere un diritto potestativo di impugnativa contrattuale nascente dal
contratto in discussione non meno del diritto all’adempimento” (cfr. Cass. n. 2858/1997 citata nella motivazione
dell’ordinanza n. 21083/2012 di rimessione alle sezioni
unite),
- sì che, in definitiva, anche rispetto a tale fattispecie
devono seguirsi i ragionamenti decisori di cui a Cass.
s.u. n. 14828/2012,
- evidenzianti in particolare la non condivisibilità di
una lettura restrittiva dell’art. 1421 c.c., la quale “depotenzia il ruolo che l’ordinamento affida all’istituto della
nullità per esprimere il disvalore di un assetto di interessi negoziali”, e ciò fa realizzando un’inversione logica
dettata dal “timore dell’extrapetizione”,
- timore invece scongiurabile attraverso la configurazione del rilievo officioso come incidentale (cfr. su tale carattere incidentale del rilievo ancora Cass. s.u.
n.14828/2012, secondo la quale: “il giudice di merito, peraltro, accerta la nullità “incidenter tantum” senza effetto di
giudicato, a meno che sia stata proposta la relativa domanda, anche a seguito di rimessione in termini, disponendo in
ogni caso le pertinenti restituzioni, se richieste”).
Ciò posto quanto alla rilevabilità d’ufficio della questione di nullità ex art. 2744 c.c. del negozio di cessione di
quote 11.5.2007 e della coeva scrittura privata, va poi
osservato che tale nullità va ritenuta ricorrente nel caso
di specie ai sensi del combinato disposto degli artt.
2744 e 1344 c.c.
Al riguardo va infatti condiviso il consolidato orientamento secondo il quale:
“Il patto commissorio - con la conseguente sanzione di
nullità - è ravvisabile anche rispetto a più negozi tra loro collegati, qualora scaturisca un assetto di interessi
complessivo tale da far ritenere che il meccanismo negoziale attraverso il quale deve compiersi il trasferimento di un bene del debitore sia effettivamente collegato,
piuttosto che alla funzione di scambio, ad uno scopo di
garanzia, a prescindere dalla natura meramente obbligatoria, o traslativa, o reale del contratto, ovvero dal momento temporale in cui l’effetto traslativo sia destinato
a verificarsi, nonché dagli strumenti negoziali destinati
alla sua attuazione e, persino, dalla identità dei soggetti
che abbiano stipulato i negozi collegati, complessi o misti, sempre che tra le diverse pattuizioni sia ravvisabile
un rapporto di interdipendenza e le stesse risultino fun-
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zionalmente preordinate allo scopo finale di garanzia”
(così Cass. n. 9466/2004),
orientamento che anche più recentemente ha trovato
applicazione nel senso che:
“In tema di patto commissorio, l’automatismo del vietato trasferimento di proprietà del bene costituisce un
connotato della figura tipica di cui alla previsione dell’art. 2744 c.c., mentre nelle ipotesi in cui non vi sia
stata la concessione di pegno o ipoteca e l’illegittima finalità venga realizzata indirettamente in virtù di strumenti negoziali preordinati a tale particolare scopo, il
requisito dell’anzidetto automatismo non può ritenersi
esigibile, giacché la sanzione della nullità deriva dall’applicazione dell’art. 1344 c.c., per snaturamento della
causa tipica del negozio, piegata all’elusione della norma imperativa di cui al citato art. 2744 c.c. In siffatti
casi la coartazione del debitore, preventivamente assoggettatosi alla discrezione del creditore, è “in re ipsa”,
non disponendo il medesimo (come nella specie, in cui
era stata conferita procura irrevocabile a vendere il bene senza necessità di ulteriori “consensi, approvazioni o
ratifiche”) di alcuna possibilità di evitare la perdita del
bene costituito in sostanziale garanzia” (così Cass. n.
5426/2010 (Nello stesso senso, per una ampia applicazione della norma imperativa ex art. 2744 c.c., cfr., tra
le altre, ad esempio: Cass. n. 5426/2010, secondo la cui
massima: «il divieto del patto commissorio di cui all’art.
2744 c.c. si estende a qualunque negozio attraverso il quale
le parti intendono realizzare il fine vietato dal legislatore ed
opera, quindi, anche nell’ipotesi di patto commissorio occulto avente ad oggetto immobili di proprietà di terzi, i quali assumono la figura di venditori a garanzia del debito altrui»;
Cass. n. 2725/2007, secondo la cui massima: «Una vendita stipulata con patto di riscatto o di retrovendita è nulla
se il versamento del denaro da parte del compratore non costituisca il pagamento del prezzo, ma l’adempimento di un
mutuo, ed il trasferimento del bene serva solo a porre in essere una transitoria situazione di garanzia, destinata a venir
meno, con effetti diversi a seconda che il debitore adempia o
non l’obbligo di restituire le somme ricevute, atteso che una
siffatta vendita, pur non integrando direttamente un patto
commissorio, costituisce un mezzo per eludere il divieto posto dall’articolo 2744 c.c., e la sua causa illecita ne determina l’invalidità ai sensi degli articoli 1343 e 1418 c.c.»)).
Applicando dunque tale orientamento al caso di specie,
va considerato che con le pattuizioni dell’11.5.2007 qui
in discussione in sostanza le parti hanno perseguito il risultato del trasferimento della proprietà del bene (le
quote di HORION s.r.l.) del debitore (l’attore) in favore di terzi (i fratelli convenuti, soci di HORION s.r.l.)
non in funzione di scambio ma in funzione di garanzia
rispetto alla futura estinzione del debito dell’attore verso
HORION s.r.l., così realizzando il risultato vietato dalla
norma imperativa ex art. 2744 c.c.
La torsione illecita della causa tipica dell’atto di cessione è infatti ricavabile da una serie di elementi, tutti
concordanti, e in particolare:
- dalla stessa interpretazione data dai convenuti in giudizio dei negozi in esame, qualificati appunto come negozi con funzione di garanzia;
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- dalla assenza del pagamento di qualsiasi corrispettivo
in favore del cedente da parte degli acquirenti le quote;
- dalla espressa pattuizione di facoltà di riacquisto delle
quote in capo al cedente “una volta che sarà stato integralmente soddisfatto il credito vantato da HORION s.r.l.
e dai suoi soci” verso il cedente le quote (cfr. pag. 2 della
scrittura privata 11.5.2007);
- dalla qualità delle parti contraenti, in particolare i fratelli acquirenti le quote dell’attore essendo direttamente
interessati all’adempimento dell’attore nei confronti di
HORION s.r.l., della quale erano gli unici altri soci (e
con la quale, anzi, si sono -impropriamente- dichiarati
creditori così in sostanza sottolineando il loro interesse
diretto all’adempimento verso la società), e ben consapevoli delle difficoltà di rientro dell’attore;
elementi che, dunque, depongono tutti per lo stravolgimento della causa della cessione in funzione di illecita
garanzia dell’adempimento del cedente alla propria obbligazione restitutoria in favore dei HORION s.r.l. (Cfr.
per l’analoga ricorrenza di elementi indicativi della elusione della norma imperativa in una fattispecie di vendita con patto di retrovendita la motivazione di cui a
Cass. n.10986/2013, ove si legge: «Lo stravolgimento della vendita correttamente risulta desunto dalla mancata corresponsione del prezzo, che ha impedito il conseguimento di
liquidità perseguito dai venditori, con esaltazione dello scopo
di garanzia dell’operazione. D’altronde spetta al giudice del
merito, con valutazione da eseguirsi caso per caso, stabilire
se la concreta operazione economica si atteggi in modo tale
da perseguire un risultato confliggente con il divieto posto
dall’art. 2744 c.c., riscontrando la sussistenza di alterazioni
dello schema negoziale socialmente tipico».), essendo poi
irrilevante la considerazione dei convenuti circa il già
avvenuto inadempimento dell’attore all’atto della stipulazione controversa, posto che:
- la indebita finalità di garanzia del trasferimento del
bene del debitore è comunque predicabile anche rispetto ad un inadempimento ancora in essere,
- mentre poi il negozio di cessione stipulato neppure
può essere ricondotto (come sembra adombrarsi nella
scrittura privata alla lettera A della premessa) alla figura
della datio in solutum, data la diversa identità della creditrice effettiva (la sola HORION s.r.l.) e degli acquirenti le quote (i soci della HORION s.r.l.).
Per quanto fin qui detto, secondo le linee dettate da
Cass. s.u. n.14828/2012 sopra citata, va quindi accertata
incidenter tantum la nullità della cessione stipulata
l’11.5.2007 e della connessa scrittura privata coeva, con
assorbimento della domanda di annullamento dell’attore.
A tale accertamento deve poi conseguire l’accoglimento
delle conclusioni restitutorie dell’attore, trattandosi, come precisato dalle sezioni unite, di conclusioni aventi
causa petendi di ripetizione di indebito oggettivo, causa
petendi comune a tutte le ipotesi nelle quali “venga acclarata la mancanza di una causa adquirendi” e il cui accoglimento, in seguito all’accertamento officioso di nullità, “non viola quindi il principio di corrispondenza tra il
chiesto e il pronunciato” (così Cass. n.14828/2012).
I convenuti G. M. P., A. M. P., R. M. P. e l’intervenuta
GEMINO s.r.l., quest’ultima quale avente causa dalla
679
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convenuta R. M. P., vanno quindi condannati alla restituzione in favore dell’attore G. M. P. ciascuno della
quota di partecipazione del valore nominale di € 866,67
della s.r.l. HORION da ciascuno di loro acquistata in
forza della cessione 11.5.2007 come sopra ritenuta invalida, restituzione da realizzarsi, secondo lo schema di cui
alla disciplina ex art.2470 c.c., a mezzo della iscrizione
della presente sentenza presso il Registro delle Imprese.
Restano da esaminare le domande riconvenzionali della
intervenuta HORION s.r.l. nonché dei convenuti e della intervenuta GEMINO s.r.l.
La domanda della intervenuta HORION s.r.l. è senz’altro fondata, posto che è indiscusso tra le parti che l’attore sia debitore della s.r.l. dell’importo di euro
1.386.204,00, per la restituzione di fondi prelevati dalle
casse sociali per euro 1.230.538,45 nonché dei relativi
oneri sopportati da HORION s.r.l. per euro 155.655,55
e “maturati a seguito della esposizione finanziaria derivata
dal contratto di apertura di credito concesso da BANCA
ANTONVENETA”,
- in particolare tale debito essendo stato illustrato dallo
stesso attore fin dall’atto di citazione con riferimento
anche ai dati contabili della società e in particolare alla
pag.9 del bilancio al 31.12.2007 (cfr. doc. 6 attore), ove
appunto posta di egual valore figura sotto la voce “crediti verso altri”,
- ed essendo espressamente menzionato nella scrittura
privata 11.5.2007, il riconoscimento di debito contenuto
nelle premesse della quale - di per sé, quale dichiarazione
unilaterale, non travolto dalla nullità negoziale come sopra accertata - non è mai stato smentito dall’attore,
- il quale, del resto, neppure ha poi svolto specifica conclusione per il rigetto della domanda della intervenuta.
L’attore va quindi condannato al pagamento in favore
della intervenuta HORION s.r.l. dell’importo di euro
1.386.204,00, oltre interessi legali sull’importo di euro
1.230.538,45 dai singoli episodi di prelievo all’effettivo
saldo, come richiesto dalla intervenuta.
La domanda risarcitoria svolta ex art. 2476 c.c. dai convenuti e dall’intervenuta GEMINO s.r.l., nella loro
qualità di soci della s.r.l. e nell’interesse della stessa
s.r.l., va invece rigettata, considerato in via assorbente
che la relativa prospettazione è stata formulata in termini del tutto generici quanto alla illustrazione delle ragioni di danno,
- indicate come corrispondenti agli “oneri finanziari
inutilmente sostenuti in conseguenza del contratto di
apertura di credito stipulato dall’amministratore con
BANCA ANTONIANA VENETA per fini personali”
(cfr. pag. 16 comparsa di risposta),
- oneri finanziari per altro verso dagli stessi convenuti
invece illustrati come determinati forfettariamente tra
l’attore e HORION s.r.l. in euro 155.655,55 e ricompresi nel petitum della domanda restitutoria di HORION
s.r.l., come sopra già accolta (cfr. pag. 15 comparsa di
risposta).
All’esito della lite:
- va rigettata la domanda ex art. 96 c.p.c. svolta dai
convenuti e dalle intervenute s.r.l. GEMINO ed HORION nei confronti dell’attore;
(omissis).
IL COMMENTO
di Enrico E. Bonavera (*)
La questione di nullità di contratto di cessione di quote sociali per violazione del divieto del patto commissorio deve ritenersi rilevabile d’ufficio in presenza di domanda di annullamento di detto contratto, non
diversamente dalle ipotesi di domanda di adempimento o di risoluzione del contratto medesimo. Né osta
alla qualificazione del contratto (di cessione di quote sociali), qualora se ne accerti l’illecita causa di garanzia, come patto commissorio il fatto che la cessione del bene sia effettuata in favore dei soci della società creditrice dell’obbligazione rimasta inadempiuta.
La sentenza in commento, pronunciata dal Tribunale di Milano nell’ambito di un giudizio che ha
presentato uno svolgimento alquanto complesso,
ha affrontato e risolto in maniera convincente alcune delicate questioni di diritto sia processuale
che sostanziale riferite a un contratto di cessione
di quote di partecipazione di una società a responsabilità limitata.
Al fine di consentire una migliore comprensione
dei temi affrontati e delle soluzioni adottate, si ren-
de necessaria una pur sintetica ricostruzione dei
rapporti che hanno originato il giudizio e delle vicende di causa.
Premessa
Le domande delle parti vertevano su di un contratto di cessione di quote sociali di una società a
responsabilità limitata della quale il cedente (che
nel giudizio ha assunto la veste di attore) e i cessio-
(*) Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee.
680
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto societario
nari (convenuti in giudizio), tra loro fratelli, erano
soci e l’attore era altresì l’amministratore. Dall’esposizione dei fatti di causa contenuta nella motivazione della sentenza, si evince che, mediante tale
contratto, l’attore aveva ceduto ai convenuti la
propria quota di partecipazione nella società per
un prezzo pari al valore nominale (invero, neppure
corrisposto), sebbene il valore reale della quota,
per la presenza nel patrimonio della società di un
immobile di rilevante valore, fosse assai superiore;
e che la s.r.l. era creditrice nei confronti del proprio amministratore per la restituzione di fondi da
esso prelevati indebitamente dalle casse sociali.
In tale situazione di fatto, l’ex amministratore
della società, il quale aveva ceduto agli altri soci la
propria quota di partecipazione nella società stessa,
ha proposto, in particolare, domanda di annullamento del contratto di cessione della quota societaria, per errore essenziale, fatto consistere nell’erroneo convincimento di essere debitore, in ragione
dei prelievi indebiti effettuati dalla casse sociali,
oltre che della società, anche dei cessionari, soci di
essa, così ravvisando un rilevante errore sulla qualità del contraente.
I convenuti si sono costituiti in giudizio per
chiedere il rigetto delle domande dell’attore, e
hanno segnatamente qualificato il contratto di cui
è stato chiesto l’annullamento come negozio con
funzione di garanzia, in particolare denotata, da un
lato, dalla determinazione del corrispettivo della
cessione nel valore nominale delle quote e, dall’altro lato, dalla previsione del diritto di riacquisto
delle quote in capo al cedente per il caso che egli
avesse estinto la propria esposizione debitoria verso
la società da lui amministrata.
A sua volta, quest’ultima è intervenuta in giudizio – per quanto è dato comprendere, con il medesimo atto di costituzione dei convenuti – per proporre “in via riconvenzionale” domanda di restituzione degli importi indebitamente prelevati dalle
casse sociali.
Merita di essere altresì segnalato che nel giudizio
è volontariamente intervenuto altro soggetto, che,
qualificandosi come creditore dell’attore, ha proposto intervento adesivo dipendente per sostenere le
ragioni di quest’ultimo, in particolare prospettando
la nullità del contratto per violazione del divieto
di patto commissorio, in ragione della funzione di
garanzia indicata dagli stessi convenuti come propria del contratto di cessione delle quote sociali.
Il Tribunale ha così, innanzi tutto, affrontato la
questione dell’ammissibilità degli interventi (per
quanto qui interessa, ai fini della presente nota di
Le Società 6/2014
commento), rispettivamente, della società le cui
quote hanno formato oggetto di cessione e del terzo creditore dell’attore: giudicando ammissibile il
primo, in quanto ritenuto connesso al riconoscimento di debito in favore della società intervenuta
contenuto nella scrittura privata di cui è stato
chiesto, con la domanda principale, l’annullamento; e ritenendo invece inammissibile il secondo,
ancorché formulato come intervento adesivo dipendente ex art. 105 c.p.c., poiché connotato da
un mero interesse di fatto all’accoglimento della
domanda dell’attore, di per sé non sufficiente a
giustificarne la partecipazione al giudizio.
Così inquadrati, nei loro termini essenziali, i
rapporti sostanziali tra le parti e le posizioni processuali assunte dalle medesime in giudizio, è ora possibile venire all’esame delle questioni di rilevante
importanza affrontate e risolte con la sentenza in
commento dal Tribunale di Milano.
La rilevabilità d’ufficio della questione di
nullità del contratto
Come si è riferito, l’attore ha proposto domanda
di annullamento del contratto di cessione di quote
sociali, per cui è causa, per errore essenziale ai sensi
degli artt. 1427 e 1429 c.c. A sua volta, il creditore
dell’attore ha proposto intervento qualificato come
adesivo dipendente, deducendo la nullità di quel
contratto, per violazione del divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c.
Tuttavia, essendo stato giudicato inammissibile
l’intervento del soggetto che aveva proposto la domanda di nullità del contratto, il Tribunale ha affrontato preliminarmente la questione della rilevabilità d’ufficio, da parte del giudice investito della
domanda di annullamento di quel medesimo contratto, della nullità di esso.
Come è noto, l’art. 1421 c.c. dispone che “salvo
diverse disposizioni di legge, la nullità può essere
fatta valere da chiunque vi abbia interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice”.
Il principio della rilevabilità d’ufficio della nullità deve tuttavia venire coordinato con il principio
dispositivo (art. 99 c.p.c.) e con quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112
c.p.c.), per cui il potere di decisione del giudice
trova un limite nelle domande delle parti.
Il coordinamento tra siffatti principi – volti, da
un lato, a consentire il rilievo d’ufficio della nullità, al di fuori, dunque, di una domanda in tal senso
ad opera delle parti, ma, dall’altro lato, a limitare
il potere di decisione del giudice al solo ambito
681
Giurisprudenza
Diritto societario
delle domande proposte dalle parti – trova il proprio limite e punto di equilibrio nel giudicato implicito che si verrebbe a formare in ordine alla validità
del contratto, e dunque all’inesistenza di profili di
nullità dello stesso, mediante una pronuncia del
giudice sulle domande proposte dalle parti in relazione ad esso.
Il non agevole compito dell’interprete è precisamente finalizzato a rinvenire tale punto di equilibrio tra i contrapposti principi, in relazione all’oggetto delle domande delle parti.
Le opinioni critiche in dottrina
L’orientamento tradizionalmente recepito nella
giurisprudenza di legittimità operava, quanto alla
possibilità per il giudice di rilevare ex officio la nullità del contratto, una distinzione a seconda che la
domanda delle parti avesse ad oggetto l’adempimento e l’esecuzione del contratto, ovvero la sua
risoluzione o annullamento, consentendo la pronuncia d’ufficio sulla nullità del contratto solo nel
primo caso.
Così, in particolare, secondo quell’orientamento,
è stato statuito «che il potere del giudice di dichiarare d’ufficio la nullità di un contratto ex art. 1421
c.c. va coordinato col principio della domanda fissata dagli artt. 99 e 112 c.p.c., sicché solo se sia in
contestazione l’applicazione o l’esecuzione di un atto la cui validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda, il giudice è tenuto a rilevare in
qualsiasi stato a grado del giudizio, l’eventuale nullità dell’atto, indipendentemente dall’attività assertiva delle parti. Al contrario, qualora la domanda
sia diretta a fare dichiarare la invalidità del contratto o a farne pronunziare la risoluzione per inadempimento, la deduzione (nella prima ipotesi) di
una causa di nullità diversa da quella posta a fondamento della domanda e (nella seconda ipotesi)
di una qualsiasi causa di nullità o di un fatto costitutivo diverso dall’inadempimento, sono inammissibili: né tali questioni possono essere rilevate d’ufficio, ostandovi il divieto di pronunziare ultra petita» (1).
Tale soluzione, volta ad escludere il rilievo d’ufficio della questione di nullità (del contratto) in
presenza di domande di risoluzione o di annullamento, ha tuttavia incontrato resistenze e contrasti
da parte della dottrina.
Così, in particolare, con riguardo alla domanda di
risoluzione è stato fatto notare che anch’essa «presuppone la validità del contratto ed è un mezzo
giuridico per eliminare in taluni casi, gli effetti di
tale contratto. Se il contratto è nullo non ci sono
effetti da eliminare, perché la nullità consiste proprio nella negazione, da parte dell’ordinamento,
degli effetti all’atto che ne è colpito. Ed è semplicemente assurdo pensare che si possa risolvere un
contratto per inadempimento, e magari ottenere
anche la condanna al risarcimento dei danni, là
dove, per la nullità del contratto, non vi era nessun obbligo ad adempiere ... Se il giudice fa sì che
tutto ciò avvenga (e non può fare altrimenti se gli
preclude la possibilità di rilevare d’ufficio la nullità), egli si sostituisce alla legge, a quella legge che
vuole il negozio nullo privo di effetti» (2).
E, nello stesso senso, è stato ulteriormente precisato che la domanda di risoluzione «è, anch’essa
domanda di applicazione del contratto, poiché la
parte postula che il negozio sia valido ed abbia
spiegato i propri effetti. La domanda di risoluzione
si appoggia, con identico grado di coerenza logicogiuridica, sulla validità del negozio: da questo promana il rapporto, se ne chieda la risoluzione o si
esiga l’adempimento della prestazione in esso dedotta. Domanda di risoluzione e domanda di adempimento sono risposte alternative, che il diritto accorda alla parte di fronte alla situazione di inadempimento: ambedue, mediante l’anello comune, si
congiungono e saldano alla validità del negozio» (3).
Considerazioni del tutto analoghe sono state
espresse, sempre in dottrina, anche con riguardo alla domanda di annullamento. È stato fatto osservare,
a tale riguardo, che l’esercizio del diritto potestativo di annullamento del contratto «ha come suo
oggetto necessario l’esistenza degli effetti dell’atto.
Là dove questi effetti non sussistono, perché ad es.
l’atto è nullo o perché il contratto, inizialmente
annullabile, è stato sciolto per mutuo consenso,
(1) In questi termini, Cass. 11 marzo 1988, n. 2398, in Foro
it., 1989, I, 1936, con nota di G. Massetani, Ingiustificate limitazioni alla rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto, che richiama Cass. 12 dicembre 1986, n. 7402, in Arch. locaz.,
1987, 64.
(2) F. Amato, Risoluzione, rescissione, annullamento di un
contratto nullo?, in Giur. it., 1971, I, 1, 444, in nota a Cass. 18
aprile 1970, n. 1127.
(3) N. Irti, Risoluzione di un contratto nullo?, in Foro pad.,
1971, I, 742, anch’egli in nota a Cass. 18 aprile 1970, n. 1127.
L’orientamento giurisprudenziale
maggioritario
682
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto societario
non sussiste neppure il cosiddetto diritto potestativo di annullamento; e non sussiste proprio per la
mancanza del suo oggetto necessario ... Per queste
ragioni è esatto ritenere che se un soggetto chiede
l’annullamento di un negozio nullo il giudice non
può annullare detto negozio, ma deve rigettare la
domanda di annullamento per inesistenza, a causa
della nullità, del diritto potestativo di annullamento» (4).
Sicché, in definitiva, «la questione di nullità è
sempre presente nel giudizio di adempimento, di risoluzione, di rescissione e di annullamento del
contratto stesso; pertanto, non si esorbita dai temi
posti con tali domande quando la nullità venga rilevata d’ufficio ai sensi dell’art. 1421 c.c.» (5).
Le voci dottrinali critiche rispetto all’orientamento giurisprudenziale dominante hanno, gradualmente, aperto una breccia in esso e hanno indotto una revisione di quelle soluzioni da parte della stessa Corte di legittimità.
Così, in primo luogo, proprio recependo «le opinioni di dottrina espresse in forma critica verso la
limitazione indicata dalla giurisprudenza, non può
non rilevarsi che, oltre alla domanda di adempimento o di esecuzione, anche le domande di risoluzione e di annullamento presuppongono la validità
del contratto e costituiscono mezzo giuridico per
eliminarne, in taluni casi, gli effetti. Anche la domande di risoluzione e di annullamento implicano,
e fanno valere, un diritto potestativo di impugnativa contrattuale nascente dal contratto in discussione, non meno del diritto all’adempimento. Ciascuna delle domande di adempimento, di risoluzione o
di annullamento, pertanto, vengono avanzate con
la premessa immancabile, ancorché implicita: “poiché non sussistono ragioni di nullità del contratto, propongo domanda di adempimento, di risoluzione, di annullamento ...”. Se la nullità sussistesse, nessun diritto o potestà potrebbe derivare dal rapporto dedotto in controversia, poiché lo stesso rapporto
non sarebbe sorto» (6).
Sicché – prosegue la sentenza – «la validità del
contratto, di conseguenza, si pone come pregiudiziale sia delle domande di adempimento o di esecuzione, sia di quella di annullamento il cui potere, o
inesistenza di potere, in quanto abbia fonte in un
contratto valido, inerisce alla stessa domanda di annullamento proposta, non diversamente da quella di
adempimento. Conseguentemente, poiché l’art.
1421 c.c. richiede che d’ufficio la nullità del contratto, in quanto sussistente, venga “rilevata” (in
via incidentale), e poiché, come indicato, la validità o nullità del contratto costituisce il presupposto
anche della domanda di annullamento alla quale
inerisce, ne deriva che il rilievo incidentale e d’ufficio della nullità del contratto di cui sia stato
chiesto l’annullamento, attiene alla domanda di
annullamento stessa, ed il relativo rilievo non eccede il principio dell’art. 112 c.p.c. in relazione al
limite che la domanda di parte pone ai poteri di
pronuncia del giudice. Collocando la nullità nell’ambito della domanda, la posizione diretta a riconoscere che la nullità del contratto debba essere rilevata d’ufficio anche nelle cause di impugnativa
contrattuale è difficilmente contrastabile» (7).
E del tutto analogamente, con specifico riguardo
alla domanda di risoluzione, è stato altresì precisato
che «la questione di validità del negozio è implicata allo stesso modo tanto nella domanda di risoluzione quanto in quella di adempimento (o di esecuzione), in quanto sono risposte alternative che il
diritto accorda alla parte di fronte alla situazione
di inadempimento. Anche la prima di tali domande, infatti, essendo fondata sull’affermazione che
un determinato “obbligo è stato inadempiuto e che
non ricorrono circostanze di esclusione della responsabilità” implica necessariamente che un obbligo sia sorto in conseguenza del negozio, e ciò a
sua volta presuppone necessariamente l’allegazione
di validità del negozio smesso. Anch’essa è dunque
domanda di applicazione, poiché la parte postula
che il negozio sia valido e abbia spiegato i propri
effetti. La domanda di risoluzione si poggia con
identico grado di coerenza logica e giuridica sulla
validità del negozio: da questo promana il rapporto,
se ne chieda la risoluzione o si esiga l’adempimento
della prestazione in esso dedotta. D’altra parte, se
il contratto è nullo, non vi sono effetti da eliminare, né è pensabile che si possa risolvere un contratto per inadempimento e magari ottenere anche la
condanna al risarcimento laddove per la nullità del
contratto non v’era alcun obbligo da adempiere» (8).
(4) F. Amato, op. cit., 446.
(5) G. Massetani, Ingiustificate limitazioni alla rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto, in Foro it., 1989, I, 1942, in nota
a Cass. 11 marzo 1988, n. 2398, e a Cass. 12 agosto 1987, n.
6899.
(6) Cass. 2 aprile 1997, n. 2858, in Giust. civ., 1997, I, 2459,
con nota di G. Vidiri; negli stessi termini, Cass. 22 marzo 2005,
n. 6170, in Foro it., 2006, I, 2108.
(7) Cass. 2 aprile 1997, n. 2858, cit.
(8) Cass. 22 marzo 2005, n. 6170, cit.
... e in giurisprudenza
Le Società 6/2014
683
Giurisprudenza
Diritto societario
La soluzione da parte delle Sezioni unite
Così radicalizzatasi la divergenza di opinioni in
seno alla stessa Corte di cassazione - anche per effetto di successive pronunce di conferma dell’orientamento tradizionale (9) - in merito alla questione della rilevabilità ex officio della questione di
nullità del contratto in presenza di domanda di risoluzione o di annullamento, le sezioni unite della
Corte sono state chiamate (10) a dirimere il contrasto giurisprudenziale insorto su di essa.
Le sezioni unite (11) hanno così ritenuto non
più sostenibile la linea interpretativa tradizionale
e, con riguardo al quesito prospettato, hanno affermato il seguente principio di diritto: «Il giudice di
merito ha il potere di rilevare, dai fatti allegati e
provati o emergenti ex actis, ogni forma di nullità
non soggetta a regime speciale e, provocato il contraddittorio sulla questione, deve rigettare la domanda di risoluzione, volta ad invocare la forza del
contratto».
Il rigetto dell’orientamento tradizionale riposa,
da un lato, sulla considerazione che esso «svilisce
la categoria della nullità, l’essenza della quale, pur
con i molti distinguo dottrinali su cui non è il caso
di soffermarsi, risiede nella tutela di interessi generali, di valori fondamentali o che comunque trascendono quelli del singolo. La qualificazione negativa che l’ordinamento dà del contratto viene
elusa dall’orientamento fin qui dominante, il che è
incoerente con l’insegnamento professato in ipotesi
di domanda di esecuzione del contratto»; e, dall’altro lato, sul rilievo che, per tal modo, «viene depotenziato il ruolo che l’ordinamento affida all’istituto della nullità, per esprimere il disvalore di un assetto di interessi negoziale. Non può negarsi che,
nonostante talune critiche degli operatori del diritto, esso è stato negli ultimi decenni ampliato, introducendo con la legislazione speciale nuovi casi
di nullità contrattuale. Questo ruolo trae forza anche dalla previsione della rilevabilità di ufficio,
che, salvi i casi di espressa deroga, contribuisce a
definire il carattere indisponibile delle norme in
tema di nullità» (12).
(9) Si veda, ad esempio, Cass. 14 ottobre 2005, n. 19903,
in Foro it., 2006, I, 2107.
(10) Con ordinanza 28 novembre 2011, n. 25151, in Foro it.,
2012, I, 80, con nota di C.M. Barone.
(11) Cass., sez. un., 4 settembre 2012, n. 14828, in Foro it.,
2013, I, 1238, con nota di A. Palmieri, Azione risolutoria e rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto: il via libera delle sezioni unite (con alcuni corollari).
(12) Cass., sez. un., 4 settembre 2012, n. 14828, cit.
684
Peraltro, il rilievo d’ufficio della questione di
nullità, che non sia stata considerata dalle parti,
impone al giudice di «sottoporla ad esse al fine di
provocare il contraddittorio e consentire lo svolgimento delle opportune difese, dando spazio alle
consequenziali attività. La mancata segnalazione
da parte del giudice comporta la violazione del dovere di collaborazione e determina nullità della
sentenza per violazione del diritto di difesa delle
parti, private dell’esercizio del contraddittorio, con
le connesse facoltà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare richieste
istruttorie sulla questione che ha condotto alla decisione solitaria» (13).
La Corte non si è invece espressamente pronunciata in merito alla rilevabilità d’ufficio della questione di nullità in presenza di domanda di annullamento, limitandosi ad osservare, a tale riguardo,
che «la stessa funzione, si badi, non è con altrettanto nitore ravvisabile nel caso di azione di annullamento, il che peraltro rafforza il convincimento che si viene esprimendo in tema di azione
di risoluzione» (14).
Sicché, successivamente, una nuova ordinanza
di rimessione alle sezioni unite (15) ha devoluto ad
esse la soluzione dell’ulteriore questione se la nullità possa essere rilevata d’ufficio non solo allorché
sia stata proposta domanda di adempimento o di risoluzione del contratto, ma anche nel caso in cui
sia domandato l’annullamento del contratto stesso.
Il Tribunale di Milano, con la sentenza in commento, dato atto della rimessione alle sezioni unite
della questione su cui esso era chiamato a pronunciarsi e in attesa della decisione da parte di queste,
e dato altresì atto che sul tema della rilevabilità
d’ufficio della questione di nullità si era sviluppato
nel giudizio il contraddittorio tra le parti, ha manifestato la propria adesione all’orientamento ammissivo della rilevabilità d’ufficio della questione di
nullità anche nel caso di domanda di annullamento, sulla base dei medesimi argomenti portati dalle
sezioni unite a supporto della soluzione adottata
con riguardo alla domanda di risoluzione, ritenuti
validi anche per la domanda di annullamento.
(13) Cass., sez. un., 4 settembre 2012, n. 14828, cit., che
sul punto richiama Cass. 31 ottobre 2005, n. 21108, in Giur. it.,
2006, 1456.
(14) Ibidem.
(15) Cass., ord. 27 novembre 2012, n. 21083, anch’essa in
Foro it., 2013, I, 1238, con nota di A. Palmieri, Azione risolutoria e rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto: il via libera
delle sezioni unite (con alcuni corollari).
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto societario
La nullità per violazione del divieto di patto
commissorio
Per tal modo positivamente superata la questione processuale della rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto, la sentenza in commento ha
quindi potuto affrontare il merito e soffermarsi sulla valutazione circa la ricorrenza nella fattispecie
della violazione del divieto di patto commissorio.
Secondo la definizione che ne dà l’art. 2744 c.c.,
il patto commissorio ricorre allorché si convenga
“che, in mancanza del pagamento del credito nel
termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o
data in pegno passi al creditore”.
Lo schema tipico prefissato dal legislatore presuppone, dunque, la coesistenza di due rapporti: un
rapporto principale, obbligatorio, tra un debitore e un
creditore; e un rapporto accessorio di garanzia, in virtù del quale, in caso di inadempimento del rapporto obbligatorio, il creditore insoddisfatto si renda
proprietario della cosa data in garanzia. In particolare, secondo tale schema tipico, dunque, se pure,
in ipotesi, il garante possa anche essere persona diversa rispetto al debitore, dovrebbe invece esservi
coincidenza ed identità tra la persona del creditore
e quella del soggetto che si rende proprietario della
cosa data in garanzia.
La fattispecie portata all’attenzione del Tribunale di Milano presentava tuttavia una particolarità
rispetto allo schema tipico del patto commissorio,
in quanto i soggetti che si sono resi acquirenti delle quote sociali (costituenti - accedendo alla qualificazione del contratto come patto commissorio la cosa data in garanzia), e cioè i fratelli dell’attore,
erano diversi rispetto al creditore, che era invece
la società le cui quote sono state cedute ad essi.
Merita di essere segnalato che il Tribunale di
Milano si è recentemente occupato, sia pure per
obiter dictum, di questione analoga (16), in una vicenda in cui, come nel caso in esame, la cosa trasferita in esecuzione del patto qualificato come
commissorio era costituita da una quota di partecipazione in società e, in particolare, il soggetto che,
in forza di esso, se ne è reso cessionario era diverso
dal creditore nel rapporto obbligatorio; e ha affer(16) Trib. Milano 19 settembre 2011 (in composizione collegiale presieduta dallo stesso Presidente del collegio giudicante
che ha pronunciato la sentenza in commento), in questa Rivista, 2012, n. 1, 9, con mio commento, Nullità del patto commissorio contenuto in patti parasociali, al quale, onde evitare fastidiose ripetizioni, rinvio il lettore per una più ampia disamina
circa l’evoluzione dell’istituto e l’individuazione della ratio del
divieto: temi sui quali si veda anche, oltre agli Autori colà menzionati, più recentemente, G. Rispoli, I nebulosi confini del di-
Le Società 6/2014
mato che non osta alla qualificazione come patto
commissorio il fatto che sia dato di riscontrare la
diversità dei soggetti che, rispettivamente, assumono la veste di debitore e creditore della prestazione
rimasta inadempiuta rispetto a quelli che, rispettivamente, si rendono cedente e cessionario della
cosa trasferita.
L’illiceità della causa ex art. 1344 c.c.
In effetti, sebbene lo schema tipico dello strumento vietato dal legislatore con l’art. 2744 c.c.
non sia perfettamente aderente alla fattispecie, tuttavia il ricorso all’art. 1344 c.c. consente altresì di
sanzionare con la nullità, per illiceità della causa,
ex art. 1418, secondo comma, c.c., il contratto che
costituisca “il mezzo per eludere l’applicazione di
una norma imperativa”.
Ed è questo, precisamente, il percorso argomentativo seguito dal Tribunale di Milano con la sentenza in commento, con la quale ha dichiarato la
nullità del contratto nel quale ha ravvisato il patto
commissorio, ai sensi del combinato disposto degli
artt. 2744 e 1344 c.c.
In quest’ottica, proprio al fine di forzare i rigidi
“confini” dell’istituto, si ammette che la sanzione
della nullità operi altresì con riguardo a fattispecie
negoziali che, pur non rientrando, a stretto rigore,
nella previsione normativa del patto commissorio,
con esso hanno in comune il risultato economico
perseguito dalle parti, atteso che «le parti, in quanto adottano uno schema negoziale astrattamente
lecito per conseguire un risultato vietato dalla legge, pongono in essere una causa illecita che inevitabilmente cade sotto la sanzione dell’art. 1344
c.c.» (17).
Sicché, la Suprema Corte ha precisato «che l’automatismo del previsto e vietato trasferimento di
proprietà costituisce un connotato del patto illecito, corrispondente alla fattispecie tipica di cui alla
previsione dell’art. 2744 c.c. (e di quella analoga,
in tema di anticresi, dettata dall’art. 1963 c.c.),
mentre nelle diverse ipotesi in cui, come nella specie, non vi sia stata la concessione, secondo i rispettivi moduli legali, di pegno o ipoteca, e l’illevieto di patto commissorio, in Giust. civ., 2013, II, 697 ss.
(17) Cass., sez. un., 3 aprile 1989, n. 1611, in Foro it., 1989,
I, 1428, in Giust. civ., 1989, I, 1569, in Corr. giur., 1989, 522, in
Nuova giur. civ., 1989, 348, e in Giur. it., 1990, I, 1, 104. Più recentemente, nello stesso senso, cfr. Cass., 8 febbraio 2007, n.
2725, in Contratti, 2007, 667; Cass. 11 giugno 2007, n. 13621,
in Contratti, 2007, 901; Cass. 7 settembre 2009, n. 19288, in
Notar., 2009, 610.
685
Giurisprudenza
Diritto societario
gittima finalità sia realizzata indirettamente, in virtù di strumenti negoziali teleologicamente preordinati a tale particolare scopo, il requisito in questione non può ritenersi esigibile, poiché la sanzione
di nullità deriva, come si è già avuto modo di evidenziare, dall’applicazione dell’art. 1344 c.c. comportante la nullità di qualsiasi negozio la cui causa
tipica risulti snaturata ed adattata alle concrete esigenze pratiche, elusive di una norma imperativa,
quella di cui all’art. 2744 c.c.» (18).
E, ancor più recentemente, ha richiamato il proprio consolidato orientamento, secondo cui «il divieto del patto commissorio sancito dall’art. 2744
c.c., con la conseguente sanzione di nullità radicale, si estende a qualsiasi negozio, ancorché di per
sé astrattamente lecito, allorché esso venga impiegato per conseguire il fine concreto, riprovato dall’ordinamento, della illecita coercizione del debitore, costringendolo al trasferimento di un bene a
scopo di garanzia nella ipotesi di mancato adempimento di una obbligazione assunta. In particolare,
si ritiene pacificamente che il patto commissorio
possa essere ravvisato anche di fronte a più negozi
tra loro collegati, quando da essi scaturisca un assetto di interessi complessivo tale da far ritenere
che il procedimento negoziale attraverso il quale
deve compiersi il trasferimento di un bene del debitore sia collegato, piuttosto che alla funzione di
scambio, ad uno scopo di garanzia, a prescindere
dalla natura meramente obbligatoria o traslativa o
reale del contratto (v. Cass. 23 ottobre 1999, n.
11924; Cass. 23 ottobre 1994, n. 11924; Cass. 15
agosto 1990, n. 8325), ovvero dal momento temporale in cui l’effetto traslativo sia destinato a verificarsi nonché dagli strumenti negoziali destinati
alla sua attuazione e, persino, dalla identità dei soggetti che abbiano stipulato i negozi collegati (Cass. 19
maggio 2004, n. 9466), sempre che questi siano
stati concepiti e voluti come funzionalmente connessi e tra loro interdipendenti, onde risultare idonei al raggiungimento dello scopo finale di garanzia
che le parti si erano prefissate (Cass. 28 giugno
2006 n. 14903; Cass. 16 settembre 2004, n.
18655)» (19).
L’indagine dell’interprete si indirizza pertanto all’accertamento del risultato effettivamente perseguito dalle parti mediante l’attività negoziale da esse posta in essere e, per tal modo, ad una ricognizione delle fattispecie vietate, sebbene non espressamente considerate dalla norma, in quanto caratterizzate dalla comune finalità di perseguire il risultato concreto, vietato dall’ordinamento, dell’illecita coercizione del debitore al trasferimento di un
bene a tacitazione di un’obbligazione rimasta inadempiuta (20).
(18) Cass. 5 marzo 2010, n. 5426, nella banca dati Leggi
d’Italia, citata in motivazione nella sentenza in commento.
(19) Cass. 21 maggio 2013, n. 12462, in Giust. civ., 2013,
1991, con nota redazionale
(20) Si vedano in questo senso, in particolare, i recenti contributi di S. Guadagno, Divieto del patto commissorio, in Contratti, 2009, 719; e di L.C. Navone, Il divieto del patto commissorio nell’ermeneutica contrattuale: la linea di confine tra il patto
vietato e la datio in solutum, in Nuova giur. civ., 2008, 1439. Si
veda anche il mio commento a Trib. Milano 19 settembre
2011, cit., Nullità del patto commissorio contenuto in patti parasociali, in questa Rivista, 2012, n. 1, 12 ss.
(21) In questi termini, Cass. 19 maggio 2004, n. 9466 (anch’essa citata in motivazione nella sentenza in commento), in
Contratti, 2004, 979, con nota di L. Cilia, Divieto del patto commissorio e negozi collegati; nello stesso senso, già Cass. 30 ottobre 1991, n. 11638.
(22) Così Cass. 19 maggio 2004, n. 9466, cit.
686
Il patto commissorio in presenza di negozi
collegati
La prevalenza del criterio interpretativo funzionale, rispetto a quello letterale, induce altresì a
svalutare l’evenienza che il risultato concreto vietato dal legislatore sia perseguito dalle parti, anziché con un solo negozio, con più negozi tra loro collegati, i quali, «pur restando astrattamente leciti e
autonomi, siano, nella realtà, strutturati verso la
funzione di costituire una forma di garanzia reale
atipica per pagamento di una somma da parte del
promittente venditore (e poi venditore), il cui bene si trasferisce al creditore a condizione e come
conseguenza del mancato adempimento. In tal caso
la fattispecie negoziale complessiva si configura come un mezzo per eludere il divieto del patto commissorio e, quindi, rimane impressa da una causa illecita meritevole della sanzione di nullità radicale
e totale in quanto destinata dalle parti al conseguimento di un risultato identico a quello vietato dall’art. 2744» (21).
Sicché, l’accertamento in concreto circa l’illiceità della causa del negozio prescinde, in particolare,
«...dagli strumenti negoziali destinati alla sua attuazione e, persino, dalla identità dei soggetti che
abbiano stipulato i negozi collegati, complessi o
misti, nel caso in cui tra le diverse pattuizioni sia
dato ravvisare un rapporto di interdipendenza e le
stesse risultino funzionalmente preordinate allo
scopo finale di garanzia (Cass. 11638/91; Cass.
10749/92)» (22).
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto societario
In altre parole, la non identità dei soggetti che
abbiano stipulato i negozi collegati (ad esempio,
inerenti, l’uno, il rapporto principale obbligatorio e,
l’altro, il rapporto accessorio di garanzia) non pregiudica la configurabilità del patto commissorio,
laddove – come precisato dalla Suprema Corte –
«tra le diverse pattuizioni sia dato ravvisare un rapporto di interdipendenza e le stesse risultino funzionalmente preordinate allo scopo finale di garanzia».
Per cui, nella fattispecie su cui è intervenuta la
sentenza in commento, il fatto che il soggetto che
si è reso cessionario della cosa costituita in garanzia
(gli altri soci della s.r.l. le cui quote sociali sono
state trasferite) non coincidesse con il soggetto creditore della prestazione nel rapporto obbligatorio
principale (la s.r.l., creditrice dell’obbligazione di
restituzione dei fondi indebitamente prelevati dalle
casse sociali) non ha costituito ostacolo all’accertamento della causa illecita di garanzia.
Le Società 6/2014
E, anzi, tutt’al contrario, la sentenza in commento ha ritenuto di poter ravvisare un indice
della torsione illecita della causa tipica dell’atto
di cessione delle quote sociali (oltre che dall’interpretazione data dagli stessi convenuti ai contratti intercorsi tra le parti, da costoro espressamente qualificati come negozi con funzione di garanzia, nonché dal fatto che la cessione sia stata
fatta in assenza del pagamento di qualsiasi corrispettivo) nella stessa “qualità delle parti contraenti, in particolare i fratelli acquirenti le quote dell’attore essendo direttamente interessati all’adempimento dell’attore” nei confronti della società di
cui erano gli unici altri soci: deponendo tutti tali
elementi «per lo stravolgimento della causa della
cessione in funzione di illecita garanzia dell’adempimento del cedente alla propria obbligazione restitutoria» (in questi termini, la sentenza in commento).
687
Giurisprudenza
Diritto societario
Patto leonino
Opzioni put e divieto di patto
leonino
Tribunale di Milano, sez. impr., 3 ottobre 2013 - Giud. Dal Moro - Gridway SA c. Green Holding
S.p.a.
Società - Patto leonino - Funzione meritevole di tutela - Disciplina del divieto
(Cod. civ. artt. 2265, 1322)
Sono contrari all’art. 2265 c.c. e al principio di ordine pubblico che esso esprime solo i patti che comportino
un trattamento differenziato di un socio per tutta la durata della società e in modo assoluto.
Società - Partecipazioni sociali - Opzione call e put - Gratuità e onerosità
(Cod. civ. artt. 1331, 1329)
Sono validi i patti che consentano a un socio l’exit a condizioni preconcordate, pur se idonei a escludere un
socio dalla partecipazione alle perdite in modo assoluto e costante, quando detta esclusione non costituisca
la loro funzione essenziale (la loro “causa”), sì da rispondere a una funzione causale autonomamente meritevole di tutela.
Il Tribunale (omissis).
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto
della decisione
La società attrice Gridway S.A. ha chiesto di pronunciare sentenza che, ai sensi e per gli effetti dell’articolo
2932 c.c., disponga il trasferimento della proprietà della
partecipazione pari al 13,72% del capitale sociale - detenuta da Gridway - in Blue Holding, in favore di
Green Holding s.p.a., dietro il preventivo pagamento
del prezzo e, conseguentemente, condannare quest’ultima al pagamento in favore dell’attrice dell’importo di
euro 7.500.000 di corrispettivo oltre agli interessi nella
misura del 3%.
A fondamento della domanda ha dedotto di aver stipulato il 1 gennaio 2007 con la convenuta una scrittura
privata avente ad oggetto “la concessione in forma irrevocabile, da una Parte all’altra, del diritto di opzione – rispettivamente - sull’acquisto e sulla vendita della Partecipazione” pari, appunto, al 13,72% del capitale sociale della
società Blue Holding.
La convenuta si è costituita chiedendo rigetto della domanda alla luce di diverse eccezioni.
La domanda dell’attrice è fondata e va accolta.
(omissis).
Ciò premesso si osserva:
- al tempo della stipula della scrittura privata in argomento Gridway deteneva in Blue Holding s.r.l. una partecipazione di minoranza pari al 13,72% del capitale,
mentre Green Holding deteneva una partecipazione
nella società pari all’ 80,33%
688
- è pacifico che in forza del contratto di opzione dell’
1.1.2007 la società attrice Gridway ha acquisito un’opzione put nei confronti di Green Holding avente ad oggetto il trasferimento della sua partecipazione in Blue
Holding per il corrispettivo di euro 7.500.000, oltre alla
rivalutazione annua del 3%, da esercitare - mediante
semplice comunicazione scritta, previa denuntiatio della
propria intenzione di vendere la partecipazione agli altri
soci di Blue Holding in ragione del diritto di prelazione
statutariamente stabilito - a far data dall’1.1.2007 fino
al termine ultimo del 31.12.2011 (periodo di riferimento); correlativamente Green Holding ha acquisito
un’opzione call disciplinata in modo corrispondente all’opzione put avente ad oggetto il trasferimento della
medesima partecipazione dietro il versamento del medesimo corrispettivo;
- pacifico è altresì che
- Gridway ha esercitato il diritto di opzione put con raccomandata in data 30.10.2008, rimasta senza riscontro,
ed ha contestualmente inviato detta comunicazione anche a tutti soci di Blue Holding onde consentire loro
l’esercizio della prelazione, in conformità a quanto pattuito nell’art. 3.3.3 della scrittura privata (cfr. doc. n. 3
e 4);
- in data 5.12.2008 (cfr. doc. 5) l’attrice ha comunicato
a Green Holding che nessuno dei soci di Blue holding
aveva inteso esercitare il diritto di prelazione nel termine del 28.11.2008 onde da tale data sarebbe decorso il
termine di 90 giorni per la sottoscrizione del contratto
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto societario
definitivo di compravendita, in conformità a quanto
stabilito nell’art. 3.4 della scrittura privata;
-in mancanza, ancora una volta di riscontro, Gridway
in data 22 maggio 2009, dato atto dell’inadempimento
di controparte, ha inoltrato a Green Holding un invito
ad adempiere agli obblighi derivanti dalla scrittura privata inter partes sottoscritta (doc. n. 6);
- in mancanza, tuttavia, di riscontro anche a tale missiva, in data 24 agosto 2009 la società attrice ha inoltrato
per mezzo del proprio difensore un terzo sollecito ad
adempiere, quale estremo tentativo di giungere ad un
adempimento spontaneo dei patti (doc. n. 7);
- solo in data 3.9.2009 (doc. n. 8) Green Holding ha risposto alla missiva del difensore di Gridway con una comunicazione in cui negava genericamente di non aver
riscontrato le missive trasmesse da Gridway “la quale sa
con Chi ha parlato cosa è stato detto e a Chi si deve rivolgere per le risposte cui chiede riscontro per Suo tramite”; né
dichiarava di voler adempiere né contestava in alcun
modo la validità del patto;
- all’esito Gridway, richiamata la precedente corrispondenza ha convocato con lettera del difensore
dell’11.4.2011 la controparte avanti al notaio per il
giorno 18.5.2011 (doc. n. 9) per dare esecuzione agli
obblighi previsti nel contratto d’opzione, ma controparte non si è presentata;
ciò premesso si osserva:
a) il contratto d’opzione deve ritenersi valido;
- infondata, infatti, è l’eccezione di nullità dello stesso
per mancanza della previsione di un corrispettivo per la
concessione dell’opzione put, e dunque di causa: la causa
del patto d’opzione consiste nel rendere ferma per il
tempo pattuito la proposta relativamente alla conclusione di un ulteriore contratto, con correlativa attribuzione all’altra del diritto di decidere circa la conclusione di
quel contratto entro quel medesimo tempo; l’opzione si
inserisce, cioè, in una fattispecie a formazione progressiva della volontà contrattuale, inizialmente costituita da
un accordo avente ad oggetto la irrevocabilità della proposta del promettente, ed, in seguito, dalla eventuale
accettazione del promissario, che – saldandosi immediatamente con la proposta irrevocabile precedente – perfeziona il negozio giuridico di trasferimento (cfr. Cass.
n. 15142/2003); per il disposto dell’art. 1331 c.c., che
non prevede il pagamento di alcun corrispettivo, l’opzione può essere offerta a titolo oneroso o gratuito;
- nella specie, peraltro, la possibilità per Gridway di
esercitare l’opzione put entro un tempo determinato e
per un prezzo prestabilito, era bilanciata dalla possibilità
per Green Holding s.p.a. di esercitare l’opzione call al
medesimo prezzo e per lo stesso periodo; le due opzioni
riunite nell’ambito di un unico contratto concedono diritti potestativi tanto a Gridway quanto a Green Holding sul medesimo pacchetto azionario, disciplinando,
nell’ambito dell’autonomia negoziale delle parti, un
quadro d’interessi in cui Gridway aveva il diritto di
vendere e Green Holding di comprare la partecipazione
dalla prima detenuta in Blue Holding allo stesso prezzo
e per lo stesso periodo;
Le Società 6/2014
- la contestuale previsione di diritti ed obblighi per entrambe le parti, frutto della concatenazione delle opzioni call e put mostra, a maggior ragione, l’infondatezza
dell’assunto del convenuto, poiché la sinallagmaticità
del patto così realizzata implicava di per sé il sorgere di
uno speculare vantaggio economico per ciascuna delle
parti, che si sarebbe concretizzata con l’esercizio del diritto potestativo rispettivamente concesso in un tempo
determinato a seconda dell’andamento del titolo; nessuna delle parti ha, in effetti, inteso beneficiare l’altra con
detto contratto, bensì riservare a sé - sulla base evidentemente di diverse valutazioni economiche finanziarie
circa l’andamento del valore della partecipazione - la
possibilità di acquistare o vendere nel periodo dato il
pacchetto azionario oggetto dell’accordo;
- peraltro, secondo quanto affermato dalla stessa convenuta (cfr. pag. 5 memoria 183 VI n. 1), al momento
della stipulazione del contratto d’opzione il valore reale
della partecipazione detenuta dall’attrice in Blue Holding era pari a circa il doppio del corrispettivo pattuito, il che esclude che del patto come stipulato si sarebbe
potuta avvantaggiare la sola attrice, come Green Holding sostiene, il vantaggio del patto in concreto essendo
correlato all’andamento del valore della partecipazione
nel “periodo di riferimento” e alla decisione di vendere
o acquistare che una delle due parti poteva liberamente
esercitare in qualunque momento ad un prezzo predefinito e indipendente - per espressa pattuizione delle parti
(cfr. art. 5.1 della scrittura privata) - dall’andamento
del valore di mercato della partecipazione che ne era
oggetto;
- infondata è altresì l’eccezione di nullità del patto per
nullità della clausola relativa al calcolo del prezzo che
prevede, secondo la convenuta, un meccanismo invalido di capitalizzazione periodica degli interessi: infatti,
l’invalidità del meccanismo di capitalizzazione degli interessi previsto nella specie (la scrittura in parola prevede una rivalutazione pari al 3% annuo del prezzo convenuto con decorrenza dal 1 gennaio 2007 e sino alla data
di trasferimento definitivo della partecipazione, e la capitalizzazione al 31 dicembre di ogni anno degli interessi maturati nel corso del medesimo anno, al netto di
tutti i dividendi eventualmente distribuiti dalla società
alla parte venditrice durante il periodo di vigenza della
scrittura privata) determina l’esclusione di qualsiasi forma di capitalizzazione degli interessi e non già l’invalidità complessiva della scrittura privata, (cfr. sul punto
Cass. 2 dicembre 2010 numero 24418) come del resto
hanno stabilito in modo specifico le parti stesse nell’art.
6 dell’accordo ove si puntualizza che “in ogni caso, la
nullità o inefficacia di singole disposizioni o clausole non
comporterà la nullità o l’inefficacia dell’intera scrittura privata”; né può essere condivisa la tesi di parte attrice che
rivendica la legittimità della capitalizzazione annuale
sulla scorta dell’articolo 1284 c.c. che, nel prevedere
che il saggio di interessi è determinato in ragione di anno stabilirebbe principio generale di naturale scadenza
ed esigibilità annuali degli interessi maturati, poiché a
norma dell’articolo 1283 la capitalizzazione degli interessi ultra semestrali è possibile solo in presenza di usi
689
Giurisprudenza
Diritto societario
normativi o di convenzioni negoziali posteriori alla loro
scadenza;
- infondata è ancora l’eccezione di nullità del patto per
indeterminatezza del prezzo convenuto: nella specie, secondo parte convenuta, mancherebbe il metodo certo
di determinazione del prezzo e, quindi, uno degli elementi essenziali del contratto; in realtà la scrittura privata prevede che il prezzo sia determinato nella misura
fissa di euro 7.500.000,00 (oltre rivalutazione e interessi
al netto dei dividendi eventualmente percepiti dalla società venditrice nel periodo di vigenza del patto), misura che è espressamente previsto resti invariata a prescindere dalla valutazione della partecipazione ai fini dell’esercizio del diritto di prelazione (invero lo statuto di
Blue Holding stabilisce che i soci hanno “un diritto di
prelazione - pro quota capitale e con diritto di accrescimento
- da esercitarsi in base al valore reale delle azioni”); in altre
parole è del tutto infondato quanto sostenuto dalla convenuta a proposito del fatto che la clausola relativa al
prezzo (art. 3.3) prevederebbe un corrispettivo “minimo” e non un corrispettivo predefinito in ragione della
previsione di cui all’art. 3.3.3 relativa all’esercizio eventuale del diritto di prelazione spettante agli altri soci
della società sull’acquisto della partecipazione oggetto
della scrittura privata, poiché, anzi, in detta clausola le
parti hanno solo inteso precisare che in caso di esercizio
della prelazione da parte di uno o più soci, non solo
Gridway avrebbe potuto decidere a sua discrezione di
non cedere la partecipazione ad essi qualora il prezzo da
questi legittimamente offerto in ragione della clausola
statutaria del valore reale delle azioni al tempo della denuntiatio fosse inferiore al corrispettivo pattuito in oggetto d’opzione put, ma Green Holding sarebbe stata
obbligata, all’esito dell’esercizio del diritto di put, a corrispondere a Gridway il corrispettivo convenuto (o, in
caso di acquisto parziale all’esito dell’esercizio da parte
di taluni dei soci del diritto di prelazione, il Corrispettivo pro quota) indipendentemente dal prezzo pagato dagli altri soci o dal prezzo determinato in base a disposizioni statutarie;
infondato è altresì l’argomento per cui l’opzione in questione violerebbe il divieto di patto leonino ex art.
2265 c.c.: secondo la convenuta l’opzione put a prezzo
predeterminato qual è quella convenuta, costituirebbe
un meccanismo ideato al fine di escludere il socio dalla
partecipazione agli utili alle perdite, garantendo all’opzionario un comodus discessus dall’investimento, cioè
un’uscita programmata dal contratto sociale, che costituirebbe una sorta di garanzia sostanzialmente illimitata
rispetto al deprezzamento dell’apporto di capitale eseguito dal socio opzionario stesso nella società target;
in particolare nella specie il diritto di opzione di Gridway avrebbe reso immune la sua partecipazione in Blue
Holding dalla perdita di valore da questa subita a causa
della svalutazione del suo unico cespite rilevante - ovvero la partecipazione in SADI Servizi Industriali spa,
società quotata in borsa - tra la data di sottoscrizione
della scrittura privata e la data di esercizio dell’opzione;
inoltre non sussisterebbero, nella specie, le condizioni
indicate dalla dottrina per l’esclusione dell’applicabilità
690
del divieto cui all’articolo 2265 c.c., poiché pur configurandosi nella specie la temporaneità del patto e la reciprocità delle opzioni conferite a ciascuna delle parti dalla scrittura privata, sussisterebbe in capo a Gridway un
chiaro potere di ingerenza nella gestione di Blue Holding in ragione del fatto che dal 2000 la carica di Presidente del CdA di quest’ultima sarebbe ricoperta dalla
dottoressa Daniela Brigada “facente parte della stessa famiglia del dottor Vittorio Ventura”, socio amministratore
legale rappresentante di Gridway, nonché membro dello
studio professionale incaricato nel 2005 dell’attività di
internal audit di tutte le società del gruppo Green Holding e, quindi, anche di Blue Holding, e amministratore
di SADI e della controllata Ecoitalia S.r.l. nell’anno
2007 2008 e 2009;
in proposito si osserva:
- il divieto sancito dall’art. 2265 c.c. è volto ad evitare
clausole statutarie e accordi parasociali che alterino la
ripartizione del rischio d’impresa in modo che uno o più
soci siano esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle
perdite e risultino in questo modo deresponsabilizzati rispetto all’esercizio prudente ed avveduto dei diritti amministrativi in conformità all’interesse della società e
all’obiettivo di salvaguardia del suo patrimonio “la possibilità di perdere, infatti il valore economico rappresentato
dal proprio conferimento, dovrebbe costituire un sufficiente
stimolo a spingere il socio ad astenersi da operazioni eccessivamente aleatorie e a prodigarsi per favorevole esito dell’impresa” (Cass. 29.10.1994 n. 8927); la norma si basa sul
principio per il quale è carattere essenziale di ogni società - qualunque ne sia il tipo e l’organizzazione - la
partecipazione dei soci ai risultati dell’attività sociale,
sicché un patto parasociale, che “avesse la funzione essenziale di eludere il divieto dell’art. 2265 c.c. diverrebbe un negozio in frode alla legge non meritevole di
autonoma tutela ed incorrente a sua volta nella previsione di nullità dell’articolo citato”;
- peraltro secondo l’orientamento giurisprudenziale che
anche qui si condivide, possono considerarsi contrari alla norma e al principio di ordine pubblico che essa
esprime solo i patti che comportino il predetto trattamento differenziato di un socio per tutta la durata della
società ed in modo assoluto: “il precetto dell’art. 2265
c.c. pone come limite invalicabile all’autonomia statutaria
(….) l’esclusione in modo assoluto e sostanziale dai rischi
della perdita e dal diritto agli utili per alcuni dei soci rispetto
ad altri;
- diversa, inoltre, potrebbe essere la situazione qualora
un patto parasociale “pur contenendo una clausola di
esclusione da rischi e da utili che verrebbero caricati
agli altri contraenti ( ai quali siano a loro volta soci)
abbia una sua autonoma funzione meritevole di tutela a
norma dell’art. 1322.c.c.”;
- ciò che è necessario, quindi, verificare a fronte di patti
che consentano ad un socio l’exit a condizioni preconcordate, di modo e di tempo, è non solo se essi siano
idonei ad escludere un socio dalla partecipazione alle
perdite in modo assoluto e costante ma se detta esclusione costituisca la loro funzione essenziale (la loro
“causa”), o rispondano invece ad una funzione causale
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto societario
autonomamente meritevole di tutela, onde non contrastino con la ratio della norma di cu all’art. 2265 c.c. e
l’esigenza di salvaguardare l’ interesse dei soci coinvolti
alla buona gestione dell’impresa;
- nel caso che occupa il Tribunale l’opzione di put pattuita consentiva a Gridway per 5 anni il diritto di uscire
dalla società ad un prezzo prederminato, il quale, tuttavia, non essendo - com’è pacifico in causa - pari al valore della partecipazione in Blue Holding in quel momento detenuta, bensì alla metà di detto valore, le consentiva di essere esclusa solo da quelle perdite che nel periodo di riferimento fossero state tali da erodere il valore
della sua partecipazione per più della metà;
- l’opzione di put in altre parole garantiva il socio solo
da perdite che avessero eroso il valore della partecipazione al di sopra di una soglia prestabilita: invero solo a
fronte di siffatta eventualità sarebbe sorto in concreto
l’interesse per il socio titolare del diritto di put di esercitarlo, e solo se l’obbligo di “restituire” (in termini di detrazione dal prezzo) i dividendi nel frattempo eventualmente percepiti non lo avesse indotto a valutare diversamente la convenienza della vendita (infatti il corrispettivo predeterminato, era indipendente dall’andamento del valore del titolo, al netto dei dividendi eventualmente goduti nel periodo di riferimento);
- peraltro il patto parasociale nella specie non prevedeva solo il diritto di put di Gridway, ma il contestuale e
reciproco diritto di Green Holding di comprare la partecipazione al medesimo prezzo;
- pertanto appare evidente che il patto parasociale in
questione, da un lato, non stabiliva in modo assoluto
l’esclusione di Gridway dai rischi e utili, in quanto le
attribuiva un diritto di exit solo per un periodo di 5 anni
e a condizioni predeterminate che la garantivano solo
da perdite superiori ad una certa soglia; dall’altro rispondeva ad una funzione specifica individuata dalle
parti nell’ambito dell’autonomia negoziale in modo valido (come s’è detto poco sopra) interessate a offrirsi reciprocamente per un quinquennio il diritto di vendere/acquistare la partecipazione di minoranza di Blue
Holding a condizioni di prezzo predeterminate e diverse
dal suo valore reale all’epoca, che sarebbero divenute
appetibili in concreto solo in ragione dell’andamento
futuro della società;
peraltro Gridway, contrariamente a quanto argomenta
suggestivamente Green Holding, non solo non aveva
né in diritto né in fatto alcun potere di incidere nella
gestione della società target, di cui deteneva solo 13%,
ma a dimostrazione del fatto che non aveva pattuito un
diritto di exit che la rendesse immune da rischi e disinteressata all’andamento della società, aveva ottenuto da
controparte la clausola 5.3 della scrittura privata, in cui,
dato atto che la partecipazione di Gridway integra una
partecipazione di minoranza al capitale sociale della società, Green Holding titolare della partecipazione pari
all’80,4% del capitale sociale “si impegna a fare tutto
quanto in proprio potere onde evitare che la società compia
atti che possono pregiudicare, in senso quantitativo e qualitativo, i diritti connessi alla partecipazione di Parte B (di
Gridway ndr)”; invero Green Holding detiene anche il
controllo - direttamente per il 10,5% e indirettamente
tramite Blue Holding che ne possiede il 51,6% e tramite altra controllata Gea che ne possiede il 14,4% - di
Sadi Servizi industriali, unico asset rilevante di Blue
Holding.
Pertanto Gridway ha validamente esercitato la propria
opzione put nel periodo di efficacia stabilito.
Ne deriva che il contratto preliminare di compravendita delle azioni che le parti avevano inteso concludere
all’esito dell’esercizio delle opzioni – così invero l’attrice
qualifica il contratto concluso all’esito della propria accettazione della proposta irrevocabile di acquisto di
controparte oggetto della put nulla avendo eccepito
controparte – si è validamente concluso con l’esercizio
dell’opzione, e che ricorrono i presupposti per la pronuncia ex art. 2932 c.c., richiesta da Gridway, ovvero
per l’emissione della sentenza che, in luogo del contratto traslativo non concluso per l’inadempimento ingiustificato di Green Holding all’obbligazione di acquistare, trasferisca a quest’ultima la quota del 13,72% del capitale sociale di Blue Holding detenuta da Gridway previo pagamento del corrispettivo di euro 7.500.000,00
oltre rivalutazione annua del 3% e interessi di mora
nella misura legale dalla data della pronuncia la saldo.
(omissis).
IL COMMENTO
di Alessandra Del Bianco e Davide Proverbio (*)
Il Tribunale di Milano torna sulla questione della compatibilità con il divieto di patto leonino di cui all’art.
2265 c.c. delle clausole di opzione di vendita e acquisto aventi a oggetto partecipazioni sociali. Con questa sentenza trova conferma l’orientamento più “permissivo” manifestato in passato dalla Corte di Cassazione (a cui tuttavia non si sono sempre attenute le Corti di merito), incline a differenziare le diverse ipotesi.
(*) Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee.
Le Società 6/2014
691
Giurisprudenza
Diritto societario
1. Introduzione
tecipazione, si riserva la facoltà di uscire definitivamente dal capitale della società monetizzando anche la partecipazione residua; oppure, di un socio
che abbia dapprima acquistatola partecipazione dal
socio concedente, per valutare l’effettiva capacità
del management ed eventualmente trasformare il
proprio investimento da impegno di breve termine
a impegno di medio-lungo termine; oppure, ancora, di un socio il cui intervento sia stato immaginato sin dall’inizio come temporaneo.
Di frequente,opzioni put e call sono concesse reciprocamente, nel contesto di un’unica pattuizione
parasociale e, in tal caso, la loro funzione è quella
di permettere a entrambe le parti di sciogliere il
vincolo sociale al sopraggiungere di un determinato termine o al verificarsi di determinate situazioni,
per lo più conflittuali (è, questo, il caso di opzioni
incrociate, previste per il caso di cd. stallo).
La sentenza in commento affrontatemi ricorrenti
nella prassi negoziale, soffermandosi in particolare
sul rapporto tra clausole di opzione di vendita e acquisto (cd. “put and call”) aventi a oggetto partecipazioni sociali e divieto di patto leonino, di cui all’art. 2265 c.c.
Come noto, quando le parti convengono che
una di esse (cd. concedente) rimanga vincolata alla propria dichiarazione e l’altra (cd. opzionario)
abbia facoltà di accettarla, la dichiarazione della
prima si considera quale proposta irrevocabile per
gli effetti previsti dall’art. 1329 c.c. (così, l’art.
1331 c.c.): l’opzione put avente a oggetto partecipazioni sociali è, quindi, una proposta irrevocabile
di acquisto, alla quale il socio proponente resta
vincolato per un determinato periodo (successivo
alla stipula del patto parasociale) (1).
Se, durante il periodo di efficacia della proposta,
il socio destinatario della medesima decide di procedere alla vendita, egli può comunicarlo alla controparte: in tale caso, il relativo trasferimento s’intende immediatamente perfezionato (2), sicché i
due soci devono semplicemente procedere alla sua
esecuzione. Qualora, invece, il periodo di efficacia
della proposta trascorra senza che l’opzione put
venga esercitata, il socio proponente si intende liberato dalla propria proposta di acquisto (3).
Specularmente, l’opzione d’acquisto (cd. “call”) è
una proposta, sempre irrevocabile ai sensi dell’art.
1331 c.c., in forza della quale il socio proponente
resta vincolato alla proposta di vendita della propria partecipazione, sempre per un determinato periodo.
Finalità tipica di tale secondo tipo d’opzione è
permettere al socio destinatario della proposta di
vendita di incrementare la propria partecipazione
(o, come talvolta accade, di rientrare in possesso di
una parte della propria partecipazione precedentemente ceduta).
L’opzione put, invece, permette al socio opzionario di dismettere la propria partecipazione dopo un
certo lasso di tempo: può trattarsi di un socio che,
dopo aver ceduto parte della propria originaria par-
Nel caso sottoposto al Tribunale di Milano, la
società attrice Gridway SA e quella convenuta
Green Holding S.p.A. avevano pattuito due opzioni, rispettivamente di vendita (“put”) e di acquisto
(“call”), aventi entrambe a oggetto una partecipazione pari al 13,72% del capitale sociale di Blue
Holding S.r.l., ed esercitabili in un periodo intercorrente tra 1 gennaio 2007 e 31 dicembre 2011; il
tutto, per un corrispettivo predeterminato di Euro
7.500,000 (oltre a rivalutazione annua del 3%): valore che, si legge nella sentenza in commento, era
pari a circa la metà del valore di mercato della partecipazione al momento della stipula del patto.
Esercitata la propria opzione put e rifiutandosi la
controparte di adempiere, Gridway chiedeva la
condanna di Green Holding all’adempimento degli
obblighi nascenti dalla put option. Da parte sua, la
convenuta contestava la validità dell’opzione put
medesima, eccependone il contrasto con il divieto
di c.d. patto leonino posto dall’art. 2265 c.c., che dettato in tema di società semplici ma concordemente applicato a tutti i tipi societari (4) - sanziona con la nullità i patti con cui uno o più soci sia-
(1) Si veda L. Picone, Contratti di acquisto di partecipazioni
azionarie, Milano, 1995.
(2) In questo senso, Cass., sez. I, 13 luglio 1967 n. 1739;
Cass., sez. II, 6 maggio 1977, n. 1729; Cass., sez. II, 5 luglio
1979, n. 3850; Cass., sez. II, 5 giugno 1987, n. 4901; Cass.,
sez. III, 29 ottobre 1993, n. 10777.
(3) L’opzione determina pertanto la nascita in capo all’opzionario di un diritto che, se esercitato, conclude automaticamente il contratto di vendita. Tale diritto è potestativo perché a
esso corrisponde dal lato passivo, e, quindi, in capo al concedente, una soggezione, dovendo questi, se del caso, subire la
conclusione del contratto finale ad iniziativa del solo opzionario. In tal senso, si veda A. Chianale, voce “Opzione” in Digesto
Civ., XIII, 1995, 141.
(4) Così, inter alia, nella motivazione di Cass. 29 ottobre
1994, n. 8927, in questa Rivista, 1995, 178 con nota di D. Batti,
in Giur. comm. 1995, II, 478, con nota di A. Ciaffi, in Nuova
giur. civ., 1995, I, 1161, con nota di C. Tedeschi.
692
2. La questione esaminata dal Tribunale di
Milano
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto societario
Negli anni, dottrina e giurisprudenza si sono a
più riprese interrogate sulla compatibilità tra opzioni put e divieto di patto leonino.
Secondo un orientamento più rigoroso (5), la
concessione ad un socio di un’opzione di vendita
della propria partecipazione, ad una certa data e ad
un prezzo predeterminato (senza la previsione di
aggiustamenti relativi all’effettivo valore della partecipazione al momento dell’esercizio del diritto)
rientrerebbe tout court nel divieto in oggetto, in
quanto equivarrebbe a garantire al socio opzionario
la possibilità di liquidare il proprio investimento in
corrispondenza di eventuali decrementi del suo valore e quindi, in sostanza, esentandolo dalle perdite
sociali.
Invece, la dottrina e la giurisprudenza più recenti, compresa la sentenza qui annotata, sono inclini
a differenziare tra più casi, alcuni dei quali leciti
(in quanto ritenuti non incompatibili con il divieto in oggetto): in tale ottica, gli interpreti si sono,
altresì, impegnati nell’individuazione dei requisiti,
rispettati i quali le opzioni put a prezzo predeterminato possono ritenersi valide ed efficaci.
Come ovvio, il percorso che ha portato a stabilire la portata del divieto del patto leonino ha avuto
inizio dall’individuazione dei beni a tutela dei quali
esso è posto (in altri termini, dall’individuazione
della ratio di tale divieto).
A tale riguardo, dopo lungo dibattito (6), la ratio
del divieto è stata unitariamente riconosciuta (i.e.,
per l’esclusione sia dalle perdite sia dagli utili) nel
fatto che la partecipazione al cd. rischio d’impresa
costituisce il migliore incentivo all’esercizio avveduto e corretto dei poteri amministrativi: in altre
parole, il divieto di patto leonino sarebbe volto a
contrastare il rischio che il socio, il quale non tema di perdere il valore economico di quanto conferito nella società o, specularmente, non avesse interesse ai suoi profitti (7), eserciti i diritti di voto
(e corporativi in genere) in modo poco (o per nulla) coscienzioso e avveduto.
Se questa (come ritengono dottrina e giurisprudenza maggioritarie) è la ratio del divieto, ne consegue innanzitutto che esso può essere violato non
solo dalle clausole statutarie, che delimitano in
quanto tali la posizione del socio rispetto alle vicende della società, ma anche da pattuizioni parasociali (8) e da autonomi accordi di cessione delle
azioni (9).
In secondo luogo, la ratio del divieto impone di
valutatele clausole sospettate di illegittimità in
senso sostanziale, e cioè con riferimento alla concreta lesione del bene tutelato: con il risultato che,
se la ratio è evitare una dissociazione tra rischio
economico e potere gestorio, non vi sarà nullità
per contrasto con l’art. 2265 c.c., ogniqualvolta all’esonero di una data partecipazione dalle perdite
(5) Si veda Trib. Milano 30 dicembre 2011, in questa Rivista 11/2012, 1158 con nota di A. M. Perrino e in Giur. comm.
2012, III, 729 con nota di F. Delfini.
(6) Il tentativo di segmentare la ratio dell’art. 2265 c.c. risale
agli anni trenta del 900 ma già nell’ultima metà del secolo
scorso la dottrina aveva ricondotto ad unità le ragioni del divieto, pur non negando le differenziate origini storiche per il duplice oggetto del medesimo divieto: per una disamina del dibattito, si veda F. Delfini, Opzioni put con prezzo determinato “a
consuntivo”, arbitraggio della parte e nullità, nota Tribunale Milano 30 dicembre 2011, in Riv. dir. banc., 2012.
(7) Si veda in dottrina già A. Gambino, Azioni privilegiate e
partecipazione alle perdite, in Giur. comm., 1979, I, 379; e P.G.
Jaeger, Azioni privilegiate e partecipazione alle perdite, in Giur.
comm. 1979, I, 382. Nello stesso senso: Cass. 29 ottobre
1994, n. 8927, secondo la quale la partecipazione agli utili e alle perdite «costituiscono nella compagine societaria ed in virtù
della funzione del contratto di società, l’unico ed essenziale incentivo all’esercizio, in un senso produttivo, in un altro senso
non avventato, dei poteri corporativi e consentono una scelta
di politica legislativa nel senso indicato dall’art. 2265 c.c.».
(8) Orientata in senso favorevole all’estensibilità è tutta la
dottrina sostenitrice della tesi della invalidità degli accordi di
put/call a prezzo predefinito, sulla quale si veda supra nota sub
5. Per l’applicabilità anche alle clausole dei patti parasociali si
veda anche R. Santagata in Banca borsa tit. cred., 6, 2009 in
nota a Tribunale di Cagliari 31 aprile 2008; E. Barcellona, Clau-
sole di put e call a prezzo predefinito, in Quaderni di banca, borsa tit. cred., Milano, 2004, 17; E. Macrì, Patti parasociali e attività sociale, Torino, 2007. In senso contrario, P. Carriere, Le operazioni di portage azionario, in Quaderni di giur. comm., Milano,
2008, 255 ss.; F. Lordi, Patto leonino: garanzia di soci che esonerano un altro socio dalle perdite, in Riv. dir. comm., 1940, II,
308; A. Graziani, Patto leonino e contratto di garanzia in Giur.
comp. dir. comm., VI, 1941, 120; G. Piazza, La causa mista credito - società, in Contr. e impr., 1988, 803. Sostengono invece
la necessità di un esame caso per caso G. Sbisà,Circolazione
delle azioni e patto leonino, in Contr. e impr., 1988, 816 e D.
Batti, Il patto leonino nell’ambito delle partecipazioni a scopo di
finanziamento, in questa Rivista, 1995, 178. In giurisprudenza,
l’orientamento nel senso della non estensibilità del divieto ai
patti extrastatutari è risalente e si trova in Cass. 22 giugno
1963 in Giust. civ. 1963, I, 2040; Cass. 25 marzo 1966, n. 787;
Cass. 12 settembre 1970, n. 1401. La prima decisione orientata nel senso della estensibilità del divieto anche ai patti parasociali appare quella di App. Trieste 19 ottobre 1989, n. 309,
nel caso Friuliac. Galoto, affrontato poi da Cass. 29 ottobre
1994, n. 8927, sul quale vedi supra nota 4. Nello stesso senso,
anche Cass. 7 luglio 1997, n. 6105.
(9) Esplicitamente così Trib. Cagliari 3 aprile 2008, in Banca
borsa tit. cred., 6, 746 con nota di R. Santagata, per cui «i patti
parasociali di retrocessione di quote di s.r.l. sono validi se l’esclusione del socio dalla partecipazione agli utili e alle perdite
risulti solo temporanea e non già assoluta e costante».
no esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle
perdite della società.
3. Opzione put a prezzo determinato e
divieto di patto leonino
Le Società 6/2014
693
Giurisprudenza
Diritto societario
(o dagli utili) corrisponda l’esclusione del rispettivo socio anche dalla gestione sociale (10).
Inoltre,giurisprudenza e dottrina prevalenti ritengono che un’esclusione sia illegittima ex art.
2265 c.c. solo se assoluta e definitiva (11): in altri
termini, patto leonino nullo è quello che escluda
un socio da ogni partecipazione agli utili e/o alle
perdite, per l’intera durata della società, o per l’intero periodo in cui il soggetto interessato resti socio.
Sicché, rientrerebbe nel divieto di patto leonino
la mancata corrispondenza tra poteri, da un lato, e
rischi e diritti, dall’altro, solo quando questi ultimi
siano di fatto azzerati; mentre ne esulerebbero “le
pattuizioni che regolano la partecipazione al rischio e agli utili in misura non coerente ai conferimenti ovvero la mancata corrispondenza, in percentuale rispetto al capitale sociale, tra poteri corporativi e diritti o rischi patrimoniali” (12).
Con il che, non costituirebbero violazioni dell’art. 2265 c.c.(ma solo manifestazioni dell’autonomia statutaria e negoziale delle parti), le clausole
in virtù delle quali:(a) la partecipazione agli utili e
alle perdite sia stabilita in misura non proporzionale ai conferimenti (ciò che, peraltro, il legislatore
della riforma societaria ha ammesso in linea generale con il novellato art. 2346, quarto comma,
c.c.); o in forza di cui (b) la partecipazione agli utili e alle perdite sia stabilita in misura non proporzionale ai poteri amministrativi (ciò che, pure, la
riforma societaria ha introdotto, con la possibilità
generalizzata di emettere azioni senza diritto di voto, con diritto di voto limitato a particolari argomenti o con diritto di voto subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative).
(10) Così Cass., sez. II, 21 gennaio 2000, n. 642 in questa
Rivista, 2000, 697 con nota di Fanti; nello stesso senso Trib.
Cagliari 3 aprile 2008, in Riv. dir. comm., 2011, I, 95 con nota
di Paiardini.
(11) In questo senso si era già pronunciato il Trib. Milano
nella sentenza 13 settembre 2011 in questa Rivista, 11/2012,
1158 con nota di A. M. Perrino e in Riv. dir. com., 2012, 3, II,
233 (nota Tucci). Conforme, Trib. Napoli 10 dicembre 2009.
(12) Così, espressamente, Cass. 29 ottobre 1994, n. 8927,
cit.
(13) In particolare, simili clausole (proprio allo scopo di proteggere del tutto il soggetto opzionario dal rischio di fluttuazione del valore della partecipazione) prevedono di norma un
prezzo di esercizio pari al valore della partecipazione al momento della concessione dell’opzione, aumentato di un determinato tasso d’interesse e degli eventuali ulteriori apporti di
capitale successivamente effettuati dall’opzionario, e diminuito
dei dividendi nel frattempo percepiti dallo stesso opzionario.
La circostanza che, come di regola accade, il prezzo al quale
694
Nel caso in commento, è stata proprio la natura
“non assoluta” dell’esclusione dalle perdite a consentire di ritenere valida l’opzione put concessa a
Gridway: la clausola, infatti, accordava a quest’ultima il diritto di exit per un corrispettivo pari, non
all’intero valore rivestito dalla partecipazione al
momento della stipula dell’opzione,ma alla sua metà; il che, di fatto, esimeva Gridway “solo da quelle
perdite che nel periodo di riferimento fossero state
tali da erodere il valore della sua partecipazione
per più della metà”.
4. In particolare: opzioni put con prezzo di
esercizio pari al valore della partecipazione
al momento della loro concessione
L’approccio adottato dal Tribunale meneghino
lascia, però, insoluto un dubbio: se, cioè, le opzioni
di vendita esercitabili per un corrispettivo pari all’intero valore della partecipazione al momento
della concessione dell’opzione siano, invece, da
considerarsi nulle, in quanto escludono integralmente l’opzionario dalle perdite (e dai profitti) della società partecipata (13).
Invero, una siffatta species di put option è sovente
prevista nel contesto di operazioni in cui alla qualifica formale di socio ne corrisponde una sostanziale
di finanziatore, che, se da un lato, proprio grazie all’opzione put, ottiene una protezione dal rischio
imprenditoriale, dall’altro, si procura una sorta di
garanzia del proprio investimento, costituita dalle
azioni oggetto di investimento immediato (14).
In merito a questo quesito, che non è stato esaminato dal Tribunale di Milano, indicazioni utili
possono essere desunte da una non più recente sentenza della Suprema Corte, la n. 8927 del 29 ottobre 1994, che costituisce a oggi il precedente più
significativo sul tema.
la put viene esercitata sia incrementato degli importi erogati
dal beneficiario dell’opzione alla società target per aumenti di
capitale, finanziamenti a fondo perduto o altri conferimenti
senza diritto di rimborso non elimina, ma anzi aumenta, i profili di criticità: non solo infatti il beneficiario della put sarebbe
posto al riparo delle perdite ma sarebbe altresì reso indifferente rispetto ad ogni ulteriore decisione di ricapitalizzazione e di
rifinanziamento della società ovvero da ogni decisione che importi incremento del capitale da investire, potenzialmente oggetto di ulteriore integrale perdita.
(14) Il problema si pone, a maggior ragione, nel caso (frequente) in cui siano previste opzioni put e call incrociate ed
esercitabili ad un medesimo prezzo “strike”. In tali situazioni,
anche ai fini contabili, l’operazione è di norma qualificata come una vendita già certa, la cui esecuzione è meramente differita nel tempo (posto che una delle due opzioni sarà, alla scadenza, “in the money” e sarà quindi ragionevolmente esercitata).
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto societario
In quel caso, una finanziaria regionale con scopi
di interesse pubblicistico aveva acquisito una partecipazione minoritaria in una società per azioni, a
fronte dell’obbligo dei soci industriali di maggioranza di svolgere un programma di sviluppo e di
riorganizzazione: in caso d’inadempimento dei soci
di maggioranza, alla finanziaria spettava un’opzione
di vendita, esercitabile allo stesso prezzo versato all’atto dell’investimento, maggiorato dei soli interessi. Per il caso di esito favorevole del piano, invece, sarebbero stati i soci a poter esercitare un’opzione call a prezzo determinato e, quindi, a poter riscattare le azioni della finanziaria.
Nel cassare con rinvio la decisione di merito che
aveva sostenuto l’invalidità di una siffatta opzione,
la Corte di Cassazione ha sostenuto la legittimità,
anche, di un’opzione put il cui prezzo di esercizio
sia pari al valore della partecipazione alla data di
concessione dell’opzione stessa. In particolare, a
parere della Suprema Corte, non si avrebbe violazione del divieto di cui all’art. 2265 c.c.: (a) quando l’opzione put sia esercitabile al ricorrere di determinati presupposti, e non sia invece rimessa al
mero arbitrio dell’opzionario; in tale ipotesi, l’esclusione del socio dalla partecipazione alle perdite
non sarebbe assoluta (in assenza dei presupposti di
esercizio, il soggetto opzionario non sarebbe sottratto alle perdite); e (b) quando, l’esclusione inte-
grale dalle perdite sia rivolta a perseguire un interesse meritevole di tutela ex art. 1322 c.c.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, la finanziaria regionale aveva giustificato la pattuizione contenente le opzioni put/call (che, di fatto, portava ad
escludere la partecipazione della finanziaria stessa
agli utili e alle perdite della partecipata), con la
propria funzione pubblicistica di impulso e controllo dell’iniziativa imprenditoriale delle società beneficiarie dei suoi interventi (15).
In quest’ottica, ai fini del giudizio di legittimità
di una siffatta pattuizione, potrebbero rilevare anche finalità perseguite da soggetti (ad esempio, fornitori o creditori) che, seppur privi di finalità pubblicistiche, abbiano comunque un interesse (seppur
indiretto) meritevole di tutela a investire temporaneamente nella società, così da favorirne la continuità aziendale (magari a fronte di una sua situazione temporanea di crisi) (16).
(15) La Cassazione fa a tal riguardo riferimento alla nozione
di “socio d’impulso”, che avrebbe finalità differenti da quelle
di un socio intenzionato a partecipare compiutamente al rischio d’impresa, ma anche da quelle di un mero finanziatore.
(16) Vi sarebbe, non a caso, un interesse meritevole di tutela (nella specie l’interesse del creditore al buon andamento
della società) anche in tutti i casi in cui l’ordinamento riconosce la liceità di una completa scissione tra poteri amministrativi, sociali e titolarità della partecipazione e quindi dei connessi
rischi, come nel caso di pegno, usufrutto e sequestro giudiziario di azioni nei quali il diritto di voto spetta a soggetti (il creditore pignoratizio, l’usufruttuario, il custode giudiziario) che dispongono delle azioni al solo fine di esercitarne i diritti amministrativi. Nessuna autonoma causa meritevole di tutela che
supportasse l’opzione invocata è stata invece riscontrata, portando alla nullità della relativa opzione per contrasto con l’art.
2265 c.c., da Trib. Milano 20 dicembre 2011, cit. Tra l’altro, le
peculiarità del caso concreto deciso dal Tribunale di Milano in
questa sentenza hanno portato a ravvisare profili di criticità
dell’opzione anche dal punto di vista del divieto di patto commissorio e dell’interposizione fittizia.
(17) Nel caso esaminato dal Tribunale di Milano, nessun
corrispettivo era stato versato per l’ottenimento dell’opzione
put. A questo riguardo, è interessante osservare che, seguendo il ragionamento sviluppato dal Tribunale di Milano, sussisterebbe un’altra ipotesi in cui un’opzione put con prezzo di
esercizio pari al valore iniziale delle azioni non sarebbe vietata
dall’art. 2265 c.c.: quella in cui per l’opzione sia stato versato
un corrispettivo monetario. Infatti, in tale ipotesi, il soggetto
opzionario, se - a fronte di perdite della partecipata - decide di
esercitare l’opzione, perde quanto corrisposto per ottenere
l’opzione; il che equivale a dire che la sua partecipazione alle
perdite non è esclusa, ma è limitata al prezzo pagato per l’opzione. Da un punto di vista economico, non vi è nessuna differenza (se si trascurano per semplicità gli aspetti meramente finanziari) tra il caso di chi ottiene gratuitamente il diritto di vendere in futuro ad un prezzo di 90 una partecipazione che, nel
momento di concludere la pattuizione, ha un valore di 100
(questa è l’ipotesi affrontata dal Tribunale di Milano), e il caso
di chi paga un corrispettivo di 10 per ottenere il diritto di vendere in futuro quella stessa partecipazione ad un prezzo di
100.
(18) Sostengono la gratuità dell’opzione E. Panzarini, Il contratto di opzione, Milano, 2007; G. Gabrielli, Opzione, EG, XXI,
Roma, 1990; G. Gorla, Problemi sulla cedibilità dell’offerta contrattuale (di scambio), dell’opzione e del contratto preliminare, in
Riv. dir. civ., 1973, I, 23 ss.; C. Romeo, Opzione e proposta irrevocabile: analogie e differenze, in Contratti, 1999, 356 ss.; M.C.
Diener, Il contratto in generale, Milano, 2002, 154; A. Genovese, Il contratto d’opzione, nuovo strumento per la formazione
dei contratti, in Riv. dir. comm., 1965, I, 172; R. Cesaro, Il contratto e l’opzione, Napoli, 1969, 317; R. Scognamiglio, Dei contratti in generale, in Volume 4, Parte 2 di Trattato di dir. civ. diretto da G. Grosso e F. Santoro-Passarelli, 1966, 146; V. Menti,
Il dualismo tra proposta ferma per patto e contratto di opzione,
in Riv. trim . dir. e proc. civ., 1984 692; S. Gulotta, Proposta irrevocabile e opzione gratuita, in Riv. dir. comm., 1988, II,157. In
senso contrario alla possibile gratuità dell’opzione, sull’assunto
che altrimenti l’opzione non si distinguerebbe strutturalmente
da una proposta irrevocabile: R. Sacco, Il contratto (La conclusione dell’accordo) in Tratt. dir. civ. diretto da R. Sacco, Torino,
1993, 257; F. Carresi, Il contratto, in Tratt. dir. civ. e comm. diretto da A. Cicu e F. Messineo, 1987, 765; A. Chianale, Opzione, DG, XIII, Torino, 1995, 141 e anche, in giurisprudenza,
Le Società 6/2014
5. Gratuità o onerosità dell’opzione
Infine, è interessante notare come la sentenza in
commento riconosca come pacifica la legittimità di
un’opzione “offerta a titolo oneroso o gratuito” (17): a questo riguardo, la decisione si conforma senz’altro alla dottrina e giurisprudenza maggioritarie (18), secondo le quali è configurabile la sti-
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Giurisprudenza
Diritto societario
pula di una cd. opzione gratuita, anche in assenza
della forma donativa; forse, però, trascura di valorizzare una tesi che, a nostro modo di vedere, ha
maggior pregio.
Infatti, riteniamo che un’opzione put o call abbia
sempre un suo valore economico (19) e che un corrispettivo sia normalmente riconosciuto al concedente, se non in denaro,ad esempio tramite la concessione di altri vantaggi, rinvenibili nel più ampio
assetto negoziale concordato tra le parti.
Per esemplificare: il corrispettivo di un’opzione
put può essere incorporato nel prezzo di acquisto
delle azioni sottostanti (20); o, anche, può consistere nella concessione reciproca di due opzioni,
una call e l’altra put, nel qual caso il sinallagma
contrattuale risiede proprio nella vicendevole concessione della facoltà di acquistare e vendere, che
in sé e per sé dà vita a un vantaggio economico,
comune a entrambe le parti (21).
A quest’ultimo proposito, riteniamo che la decisione in commento, come si suol dire, “provi troppo”, laddove sembra fondare il giudizio di sinallagmaticità delle due opzioni sulla fissazione di un
prezzo di esercizio identico, tale da originare “uno
speculare vantaggio economico per ciascuna delle
parti”.
Invero, crediamo che la sinallagmaticità di pattuizioni come quelle in oggetto risieda nella loro
intrinseca reciprocità, a prescindere quindi dal
prezzo fissato per il loro rispettivo esercizio: mentre, a voler pedissequamente seguire il percorso accennato dal Tribunale milanese si rischierebbe di
dover negare l’esistenza di un sinallagma, posto
che, da un punto di vista economico, il valore di
due opzioni incrociate non è, di solito, equivalente
(pur in presenza di un prezzo di esercizio identico).
Il che è confermato proprio dal caso in esame, posto che, se valutato al momento della loro concessione, il corrispettivo previsto per l’opzione
call (che, al momento della stipula, era inferiore al
valore del sottostante), la rendeva largamente “in
the money” (con conseguente valore positivo dell’opzione così concessa); mentre, per ragioni identiche e contrarie, il corrispettivo previsto per l’opzione put, la rendeva altrettanto largamente “out of
the money” (con conseguente valore negativo di
quest’ultima).
App. Milano 5 febbraio 1997, in Giur. it., 1998, 488.
(19) Sia nel caso in cui vi sia una differenza positiva tra valore corrente delle azioni sottostanti e prezzo di esercizio (c.d.
“valore intrinseco”), sia nel caso in cui il valore corrente delle
azioni sia pari al prezzo di esercizio, ma non sia ancora decorso il termine per l’esercizio dell’opzione (in tal caso il valore
dell’opzione è dato unicamente dal c.d. “valore temporale”,
che rappresenta quanto un investitore è disposto a pagare, oltre all’eventuale valore intrinseco, nella speranza che il sottostante si muova concordemente con la posizione presa, facendo così aumentare di valore l’opzione detenuta).
(20) Molto particolare è poi l’ipotesi delle obbligazioni convertibili, che, sotto il profilo sostanziale, rappresentano la combinazione di un prestito obbligazionario e di un’opzione call a
favore dell’obbligazionista. Il corrispettivo di tale opzione assume la forma di un minore tasso d’interesse riconosciuto all’ob-
bligazionista (rispetto al tasso d’interesse “di mercato” per obbligazioni aventi analoghe caratteristiche ma non convertibili).
Per questa ragione, i principi contabili IAS impongono di
“scorporare” il valore dell’opzione dal valore del prestito obbligazionario e di rilevare distintamente l’importo di interessi passivi che sarebbero corrisposti nel caso in cui l’obbligazione
non fosse convertibile e il valore del premio implicito.
(21) Così nella sentenza Trib. Milano 24 aprile 2006, in Giur.
it, 2006, 11 con nota di Cavanna, il quale tuttavia si spinge anche oltre riconoscendo che ciascun contraente potrebbe decidere di concedere l’opzione di acquisto e vendita alla controparte non tanto e non solo allo scopo di ottenere in cambio, rispettivamente, altra opzione di vendita o di acquisto ma anche
perché è interessato a vendere o ad acquistare il ben opzionato pur in difetto di corrispettivo.
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Diritto dei mercati finanziari
Insider trading
Acquisto di partecipazione
di controllo, fattispecie a
formazione progressiva,
informazione privilegiata
e insider secondario
Corte d’Appello di Milano, sez. I, 4 aprile 2013 - Pres. Vigorelli - Est. D’Anella - D.P. c. Consob
Acquisto di partecipazione di controllo - Offerta pubblica di acquisto - Fattispecie a formazione progressiva - Informazione precisa - Informazione privilegiata - Illecito amministrativo di insider trading - Insider secondario - Sussistenza
(D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 art. 187 bis, comma 4)
Costituisce abuso di informazione privilegiata da parte di un insider secondario che la ottenga da un insider
primario in una fattispecie a formazione progressiva quale l’acquisizione di una partecipazione di controllo di
un emittente quotato, lo sfruttamento di una informazione, non ascrivibile al fenomeno dei rumors, ma che
ha carattere preciso e che è inoltre integrata dai caratteri della ragionevolezza della aspettativa della realizzazione dell’evento cui si riferisce sulla base del complesso delle circostanze esistenti e della sensibilità del suo
effetto sul prezzo delle azioni.
La Corte (omissis).
Svolgimento del processo e motivi della decisione
Con Delib. n. 18368 del 7 novembre 2012, notificata il
15.11.2012 (di seguito, la “Delibera”), la Commissione
nazionale per le Società e la Borsa - Consob applicava a
E.D.P. la sanzione amministrativa pecuniaria di Euro
100.000,00 ai sensi dell’art. 187 bis comma 4 del D.Lgs.
n. 58 del 1998 (di seguito, “TUF”), la sanzione di Euro
100.000,00 ai sensi dell’art. 187 bis comma 1, lett. a)
TUF, nonché la sanzione amministrativa accessoria di
cui all’art. 187quater, comma 1, TUF per un periodo di
mesi tre.
All’applicazione delle suddette sanzioni Consob addiveniva sulla base, tra le altre, delle seguenti considerazioni
in fatto e in diritto, secondo cui il dott. D.P.:
- avrebbe acquistato 4000 azioni Permasteelisa il
30.09.2008, il 3.10.2008 e il 14.05.2009 utilizzando l’informazione privilegiata concernente il progetto di acquisizione del controllo di Permasteelisa s.p.a., comunicatagli dal sig. A.Z. (che l’aveva acquisita in ragione
dell’attività lavorativa espletata presso Deloitte FAS
s.p.a. con sede in Milano);
- avrebbe acquistato 2.375 azioni Permasteelisa il 14 e il
17.10.2008 in concorso con lo stesso Z., sempre utilizzando l’informazione privilegiata di cui sopra;
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- tale informazione dovrebbe ritenersi privilegiata ai
sensi dell’art. 181 TUF e il dott. D.P. ben avrebbe potuto conoscere il carattere privilegiato di tale informazione;
- la condotta del dott. D.P. andrebbe pertanto sussunta
nel disposto di cui all’art. 187 bis, comma 1, lett. a)
TUF (nella versione modificata dall’art. 39, c. 3 della
L. 28 dicembre 2005, n. 262), in virtù del quale
“chiunque, essendo in possesso di informazioni privilegiate, conoscendo o potendo conoscere in base ad ordinaria diligenza il carattere privilegiato delle stesse
(...) acquista, vende o compie altre operazioni, direttamente o indirettamente, per conto proprio o di terzi” è
punito, salvo che il fatto costituisca reato, “con la sanzione amministrativa pecuniaria da Euro ventimila a
Euro tre milioni”; la condotta del medesimo dovrebbe
essere, altresì, sussunta nel disposto di cui all’art. 187
bis, comma 4 TUF, in virtù del quale “la sanzione prevista al comma 1 si applica anche a chiunque, in possesso di informazioni privilegiate, conoscendo o potendo conoscere in base ad ordinaria diligenza il carattere
privilegiato delle stesse, compie taluno dei fatti ivi descritti”.
- la sanzione dovrebbe essere liquidata in complessivi
Euro 200.000,00, alla luce della gravità obiettiva della
violazione (stante “l’entità delle risorse investite dal
D.P. per effettuare gli acquisti abusando delle infor-
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Giurisprudenza
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mazioni privilegiate ... la quantità delle azioni complessivamente acquistate ... la plusvalenza complessivamente realizzata, pari ad Euro 4.119,81”, posto che
“la condotta illecita è stata posta in essere su uno
strumento finanziario (Permasteelisa) facente parie
della categoria small-mid cap”; nonché atteso “l’effetto
negativo sulla fiducia degli investitori nell’integrità
del mercato finanziario, quale conseguenza del fatto
che gli illeciti sono stati posti in essere da un operatore professionale”) e la sua gravità soggettiva (ritenendosi che la condotta di D.P. “debba qualificarsi come
dolosa”);
- l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria di cui si è detto “importa altresì la perdita temporanea dei requisiti di onorabilità per gli esponenti aziendali ed i partecipanti al capitale dei soggetti abilitati”,
ciò per un periodo “non inferiore a due mesi e non superiore a tre anni” (art. 187 quater, commi 1 e 2, TUF);
- la durata di tale sanzione accessoria dovrebbe essere
congruamente determinata, nel caso di specie, in tre
mesi, alla luce delle medesime considerazioni in punto
gravità obiettiva e gravità soggettiva della violazione
svolte in sede di determinazione della sanzione pecuniaria.
Con ricorso del 19.12.2012 il dott. D.P. impugnava
avanti a questa Corte la Delibera, chiedendo “dichiarare nulla e/o comunque priva di effetti e/o comunque
revocare la Del. Consob n. 18368, emessa in data
7.11.2012 e notificata al dottor D.P. il per tutti i motivi esposti nel presente atto e per l’effetto dichiarare
estinte e/o caducate e/o comunque revocare tutte le
sanzioni amministrative comminate nei confronti del
dottor E.D.P.; in subordine, chiedeva “dichiarare nulla e/o comunque priva di effetti e/o comunque revocare la Del. Consob n. 18368, emessa in data 7.11.2012
e notificata al dottor D.P. il 15.11.2012 nella parte in
cui afferma la responsabilità di quest’ultimo per violazione dell’art. 184-bis comma 1 lett. a) per tutti i motivi esposti nel presente atto e per l’effetto dichiarare
estinta e/o caducata e/o comunque revocare la sanzione amministrativa comminata nei confronti del dottor E.D.P. in correlazione con il predetto addebito,
con i conseguenti effetti sul provvedimento di confisca”.
A sostegno delle proprie domande, il ricorrente svolgeva una serie di motivi, volti a contestare l’applicabilità
degli artt. 187 bis e septies TUF ai fatti de quibus. In particolare, il ricorrente lamenta:
1. la violazione del termine di decadenza decorrente
dalla data di accertamento a quello di contestazione, di
cui all’art. 187 septies comma 1 TUF;
2. l’illegittimità delle attività istruttorie, in particolare
l’inutilizzabilità della documentazione acquisita da Consob attraverso Deloitte nonché la mancata audizione di
alcuni dei protagonisti della vicenda in esame, con conseguente compromissione del diritto di difesa;
3. la natura non privilegiata dell’informazione relativa a
Permasteelisa, in quanto: i) mancante del requisito della precisione; ii) avente natura pubblica; iii) inidonea a
incidere sui prezzi;
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4. l’asserita disponibilità delle informazioni privilegiate
da parte di Deloitte e del dottor Z.;
5. l’erronea valutazione della condotta del dott. D.P.,
stante il carattere “normale” delle operazioni effettuate
dal medesimo sul titolo de quo;
6. i profili di incostituzionalità dell’art. 187sexies TUF
Il ricorrente richiedeva, altresì, la sospensione del provvedimento impugnato; la Corte, con ordinanza del
15.02.2013, rigettava tale istanza, ravvisando la mancanza dei gravi motivi.
Consob si costituiva in giudizio con memoria
26.01.2013 e copiosa documentazione allegata, anche
in formato elettronico, contestando la fondatezza dell’opposizione e chiedendone il rigetto.
All’udienza del 12.03.2013, all’esito della discussione
dei difensori, la Corte decideva la causa come da dispositivo, di cui dava lettura alle parti.
Motivi della decisione
L’opposizione non appare fondata e non può trovare
accoglimento: la Corte ritiene infatti che gli elementi
probatori acquisiti durante l’istruttoria - e prodotti
quale documentazione, anche elettronica, nel presente giudizio di opposizione - sostengono adeguatamente
la contestazione mossa da Consob nei confronti del
dott. D.P.
1) sul mancato rispetto del termine di decadenza ex art.
187 sexies comma 1 TUF Preliminarmente, il ricorrente
si duole della violazione del termine di decadenza di
180 giorni decorrenti dal termine dell’accertamento per
l’invio della contestazione, previsto dall’art 187 septies
TUF. In particolare:
- l’attività istruttoria sarebbe stata iniziata da Consob
già in data 17.09.2009 mentre la contestazione sarebbe
avvenuta solo in data 21.11.2011, ben 795 giorni dopo;
- già nel mese di giugno 2010 Consob era in possesso di
tutta la documentazione necessaria a valutare l’attività
compiuta dal dott. D.P., tanto che, in data 3.03.2011
Consob aveva predisposto una nota riepilogativa di tutti gli accertamenti compiuti, nota che in data
10.05.2011 era stata inviata alla Procura della Repubblica per la valutazione della sussistenza di eventuali
reati;
- in data 10.05.2011 era stata predisposta l’audizione del
dott. D.P. nonostante l’intero materiale probatorio riguardante il medesimo fosse stato definitivamente acquisito, tanto da apparire che tale audizione fosse, in
realtà, disposta al solo scopo di “(...) far slittare in avanti ancora una volta il momento dell’accertamento, ponendo in essere un comportamento che, come si è visto
la giurisprudenza non ha mancato di censurare (...)”
(cfr. pag. 25 ricorso D.P.).
Tale doglianza non è condivisibile.
Il Collegio preliminarmente rileva che Fattività d’indagine posta in essere dalla Consob ha avuto natura particolarmente complessa e laboriosa, posto che si è appuntata su tre diverse ipotesi di abuso di informazioni privilegiate (Opa Marazzi, Opa Guala Closurese Opa Permasteleesa), concernenti una pluralità di soggetti nonché
numerose attività di acquisto di azioni; non era, pertanto, possibile giungere a valutazioni sui singoli soggetti
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Giurisprudenza
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prima di aver ottenuto un quadro complessivo della situazione.
Peraltro, costituisce orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità ritenere che il termine de
qua “inizia a decorrere - dovendosi tener conto anche
del tempo necessario per la valutazione della idoneità
del fatto ad integrare gli estremi dei comportamenti
sanzionati come illeciti - dal momento in cui l’accertamento è stato compiuto o avrebbe potuto ragionevolmente essere effettuato, in base ad una valutatone di
congruità rimessa, in considerazione delle caratteristiche e della complessità della situazione concreta, al giudice di merito” (Cass. Sez. Unite 9.3.2007, n. 5395); solo in questo modo, infatti, è possibile comporre i confliggenti interessi dell’incolpato a un’efficace esercizio
del diritto di difesa, da una parte, e dell’amministrazione a disporre di un ragionevole periodo di tempo per
elaborare i dati raccolti con l’istruttoria, dall’altra. Tutto ciò premesso, il Collegio rileva che l’attività istruttoria esperita da Consob nell’indagine per cui è causa è
stata eseguita conformemente a quanto prescritto dalla
legge.
Invero, va considerato che l’Ufficio Insider Trading della Consob ha iniziato le proprie indagini in data
17.09.2009 sulla scorta di informazioni trasmesse da Deloitte nell’ambito di analisi concernenti l’acquisto di titoli della Marazzi Group; all’esito di tali analisi, il predetto Ufficio ha ritenuto di ampliare l’area di indagine
anche ad altre operazioni, concernenti i titoli Guala
Closures e Permasteelisa; a seguito di una copiosa raccolta di dati (cfr. docc. 11 e ss. fascicolo Consob) - raccolta perdurata sino al gennaio 2011 - è emersa, in primis, la responsabilità del Sig. R.R.; sono altresì emersi
elementi a carico dei Sig.ri M., Z. e D.P. (in particolare,
Deloitte ha fornito copia di alcune mail “sospette”
scambiate tra gli ultimi due), elementi tuttavia insufficienti a compiere una valutazione delle attività compiute; a fronte di ciò, Consob proseguiva nelle indagini nei
loro confronti. E tutt’altro che superflua, pertanto, è
stata l’audizione di D.P., atto procedimentalmente necessario in quanto idoneo a fornire informazioni circa il
suddetto scambio di e-mail, concernente l’attività di
vendita delle azioni.
Difatti, proprio dal verbale di audizione emerge che:
i) in data 9.06.2008 il dott. Z. ha inviato al dott. D.P.
un suggerimento relativo al titolo Permasteelisa, come
risulta dalle iniziali evidenziate nella mail (cfr. pag.
92 atto di accertamento Consob), che per l’appunto
suggerisce il nome del titolo in forma di acrostico; ii)
il 14 ed il 17.10.2008 il dott. D.P. ha utilizzato la somma di 23.200 Euro, ricevuta dal dott. Z., per acquistare azioni Permasteelisa; iii) nel mese di novembre
2008 il dott. D.P. ha restituito a Z. la somma di Euro
24.650 (1450 Euro in più rispetto alla somma ricevuta) dopo aver venduto le azioni Permasteelisa detenute in portafoglio.
L’audizione del dott. D.P. ha quindi consentito a
Consob di acquisire informazioni in merito ai rapporti
tra il medesimo e il dott. Z., di chiarire alcuni aspetti
relativi alle informazioni scambiate e all’utilizzo del
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bonifico, eseguito dallo Z. in favore del ricorrente e
restituito con un importo “maggiorato”, in concomitanza dell’operatività delle operazioni compiute sul titolo Permasteelisa.
Pertanto, nessun rimprovero di colpevole e ingiustificabile inerzia può essere mosso alla Consob, in considerazione della complessità della fattispecie da esaminare e
del tempo necessario alla valutazione della mole di dati
acquisiti.
2) sui profili di illegittimità dell’attività istruttoria compiuta da Consob
Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta l’illegittimità dell’attività istruttoria compiuta dalla Consob con
conseguente inutilizzabilità della documentazione inviata da Deloitte.
Si tratterebbe, invero, di attività d’indagine compiuta
“(…) senza alcuna garanzia della genuinità delle modalità di acquisitone ed imparzialità nella valutazione del
materiale selezionato, in totale violazione del contraddittorio con l’indagato (...)”; in particolare, il ricorrente
si duole della modalità di raccolta dei messaggi e-mail,
che sarebbe avvenuta mediante lo svolgimento di attività “(…) prive di qualsiasi forma di garanzia (...)” (cfr.
pag. 32 ricorso D.P.). Inoltre, la mancata audizione di
alcuni specifici soggetti avrebbe comportato un’erronea
valutazione della vicenda.
Il motivo è senza pregio. La Corte osserva:
- l’art. 187 octies TUF attribuisce alla Consob il potere
di compiere tutti gli atti necessari all’accertamento
delle violazioni disciplinate dal D.Lgs. n. 58 del 1998;
per consentire lo svolgimento di tale attività, il medesimo articolo assegna all’Autorithy diversi poteri
ispettivi, tra cui quello di “richiedere notizie, dati o
documenti sotto qualsiasi forma, stabilendo il termine
per la relativa comunicatone ex art. 187 comma 2 lett.
a) TUF”;
- Deloitte ha fornito alla Consob copia di talune e-mail
scambiate tra Z. e D.P. da cui si evince lo scambio d’informazioni circa il titolo Permasteelisa, informazioni di
cui il primo era in possesso in ragione dell’attività lavorativa svolta presso Deloitte FAS s.p.a, ricoprendo il
medesimo il ruolo di dirigente del gruppo di lavoro assegnato all’incarico di consulenza concernente Permasteelisa. Tali e-mail erano state inviate attraverso il server
di posta elettronica della società e, pertanto, erano nella piena disponibilità del datore di lavoro. Detta circostanza non poteva non esser nota al ricorrente, stante il
dominio dell’indirizzo di posta elettronica del dott. Z.
([email protected]);
- lo stesso Z. in data 26.06.2009 aveva consentito a Deloitte di effettuare una copia integrale del disco fisso del
proprio personal computer, concesso allo stesso per uso
aziendale, in tal modo permettendo alla società di entrare in possesso di tutta la documentazione digitale
contenuta sul server, tra cui anche le e-mail aziendali.
Neppure può essere condivisa la doglianza relativa alla
mancata audizione di alcuni dei protagonisti della vicenda, con conseguente compromissione del diritto alla
difesa; sul punto, la Corte si limita ad osservare che
Consob ha svolto l’audizione sia del dott. M. - che, pe-
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raltro, era sottoposto ad indagine con il dott. D.P. e con
il dott. Z. (cfr. pag. 223 atto d’accertamento) e nei cui
confronti si è ritenuto di non doversi procedere - sia del
dottor V. (cfr. pag. 153 atto di contestazione Consob);
tali dichiarazioni sono state successivamente acquisite
al procedimento e sulle stesse si è espletato il contraddittorio.
3) sulla natura privilegiata dell’informazione
Preliminarmente, giova ricordare che per informazione
privilegiata, prevista dall’art. 181 TUF “si intende un
‘informazione di carattere preciso, che non è stata resa
pubblica, concernente, direttamente o indirettamente,
uno o più emittenti strumenti finanziari che, se resa
pubblica, potrebbe influire in modo sensibile sui prezzi
di tali strumenti finanziari”
Nel caso di specie, il ricorrente contesta, in primis, il
carattere “preciso” dell’informazione, affermando che
“(...) sembra dunque a chi scrive che, alla data dell’8
agosto 2008, (poco prima degli acquisti del D.P., compiuti tra il settembre 2008 e il maggio 2009, nds) si fosse davvero solo nel campo delle possibilità e dei semplici auspici, non certo in quello della probabilità - più o
meno elevata - ovvero di una “prospettiva realistica”
che l’evento accadesse (...)” posto che lo svolgimento
dell’operazione è stato incerto sino alla fine, che gli
stessi promotori non avevano alcuna chiarezza circa la
fattibilità del progetto né circa le modalità attraverso
cui realizzarlo (cfr. pag. 43 ricorso D.P.).
La Corte ritiene di dover condividere quanto affermato
da Consob, circa la sussistenza del requisito della “precisione” dell’informazione.
In particolare, la stessa ha accertato che alla data dell’8
agosto 2008, l’informazione concernente il progetto di
acquisizione del controllo di Permasteelisa s.p.a. si riferiva sicuramente “ad un complesso di circostanze esistente ... o ad un evento che si possa ragionevolmente
prevedere che si verificherà”, ex art. 181 comma 3 lett.
a) TUF. Infatti, dagli accertamenti compiuti dalla Consob, risulta che:
- già nel mese di marzo 2008 era stato individuato
l’oggetto dell’operazione, consistente nell’acquisizione
di una partecipazione di controllo nel capitale sociale
di Permasteelisa s.p.a.; sempre in quel periodo si stavano svolgendo negoziazioni tra i principali soggetti
disposti a partecipare all’operazione in qualità di investitori: Investindustrial Group Holding s.a. e i “fondi
Alpha”;
- nel periodo compreso tra il marzo 2008 e il luglio
2008 erano avvenuti i primi contatti con un altro coinvestitore, Andimahia s.a., nonché con i finanziatori
Intesa San Paolo s.p.a. e HVB, che in data 7.08.2008
avevano sottoscritto una lettera di interesse a finanziare
l’operazione;
- nel mese di luglio 2008 Deloitte ha avuto formalmente notizia da Alpha Associati della concreta, imminente
possibilità di svolgere un incarico di consulenza per Permasteelisa, tanto che, in data 25.07.2008, nel planning delle risorse da assegnare ai vari incarichi, diffuso
nella rete intranet di Deloitte, venne inserito il potenziale incarico concernente Permasteelisa s.p.a. con la
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denominazione convenzionale di “Monnalisa” e la programmazione di inizio attività a settembre 2008 (cfr.
pag. 47 atto d’accertamento);
- in data 8 agosto 2008 veniva stipulato tra gli investitori un accordo, denominato Joint Bidding Agreement,
concernente tutti gli elementi essenziali di un’operazione finalizzata all’acquisizione del controllo di Permasteelisa, che sarebbe stata realizzata tramite un’OPA,
obbligatoria o volontaria; tra le attività, era altresì previsto lo svolgimento di una due diligence legale, contabile e di business sulla stessa.
Si può, pertanto, affermare che, diversamente da quanto
sostenuto dal ricorrente, si era ben oltre la mera possibilità o i “semplici auspici”, trattandosi di un complesso
di informazioni che lasciavano ampiamente prevedere
che il progetto si sarebbe realizzato con una “elevata
probabilità”.
Circa il carattere non pubblico dell’informazione, poi, il
ricorrente afferma l’esistenza di una serie di rumors circa
un possibile delisting di Permasteelisa, oggetto di numerosi articoli di testate finanziarie (Il Sole 24 ore, La Repubblica Affari & Finanza, Libero Mercato); le notizie
che Permasteelisa potesse formare oggetto di un’operazione straordinaria già circolavano negli ambienti finanziari e avrebbero indotto il D.P., che, per ragioni di
esperienza professionale conosce i mercati borsistici, ad
acquistare il titolo.
Anche questo assunto è senza pregio.
I rumors giornalistici hanno una valenza generica e sono
inidonei di per sé a privare l’informazione del suo carattere privilegiato, dal momento che sono frutto di notizie
acquisite de relato di cui risulta difficile verificare la fonte.
Nel caso di specie, poi, le informazioni circolate erano
tutte concernenti il delisting, ma mai sufficientemente
dettagliate da far ipotizzare specifiche operazioni che
coinvolgessero il titolo (come appunto l’OPA); neppure è superfluo sottolineare che le notizie relative al
delisting erano oggetto di continue smentite da patte
del presidente di Permasteelisa, smentite che certamente rendevano la notizia de qua del tutto inverosimile. Tutte queste circostanze erano di per sé inidonee a privare l’informazione del suo carattere privilegiato, stante l’assenza dei requisiti di specificità e precisione, trattandosi piuttosto di “voci” continuamente
oggetto di smentita; né avrebbero potuto da sole
orientare il dott. D.P. ad assumere le proprie scelte
d’investimento, se non corroborate dall’informazione
ottenuta direttamente dal dott. Z.
Infine, quanto alla sussistenza della price-sensitivity, la
Corte condivide quanto sostenuto dalla Consob circa
l’indiscussa idoneità di tale informazione a influenzare
sensibilmente i prezzi dei titoli interessati; idoneità che,
peraltro, è presunta ogni qual volta la notizia verta su
un progetto di acquisizione.
Nel caso di specie, l’acquisto della partecipazione di
controllo in Permasteelisa sarebbe avvenuta attraverso
la promozione di un’OPA obbligatoria oppure con
un’OPA volontaria totalitaria; in merito, la Consob osserva che “(...) sia nel caso di OPA obbligatoria sia in
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caso di OPA volontaria tutti i soci normalmente ricevono un prezzo superiore al prezzo di mercato, Infatti,
in caso di OPA obbligatoria il prezzo è determinato dalla legge in modo che sia esteso a tutti i soci il maggior
prezzo rispetto al prezzo di mercato pagato ai venditori
delle azioni venute a costituire una partecipazione superiore al 30% del capitale, mentre la promozione di
un’OPA volontaria avviene generalmente ad un prezzo
superiore al suo prezzo di mercato, affinché l’operazione
vada a buon fine (...)” (cfr. pag. 81 atto di accertamento
Consob).
Gli investitori, a conoscenza di un progetto di acquisizione di controllo saranno propensi ad acquistare il titolo sul mercato al fine di poterlo rivendere attraverso
l’Opa e poter così lucrare sulla differenza.
4) Sulla disponibilità delle informazioni privilegiate da
parte di Deloitte e del dott. Z.
Il ricorrente contesta l’asserita disponibilità delle informazioni privilegiate da parte di Deloitte e del Dott.
Z., atteso che nessuno in Deloitte era a conoscenza
dei dettagli dell’operazione né dell’iter che aveva portato alla decisione di promuoverla; neppure sussisterebbero elementi per affermare che il dott. Z. fosse a
conoscenza dei contenuti dell’operazione, posto che
sarebbe subentrato nel team di lavoro solo in un secondo momento.
La Corte condivide quanto affermato da Consob, laddove argomenta che all’interno di Deloitte circolavano informazioni precise in merito all’esistenza dei progetti
che essa Deloitte stava seguendo in qualità di consulente.
Tali informazioni erano conosciute anche dal dott. Z.,
infatti:
- Deloitte ha avuto formalmente notizia del potenziale
incarico, consistente nella due diligence su Permasteelisa
già in data 23.07.2008 e nel gruppo di lavoro assegnato
all’incarico di consulenza conferito a Deloitte vi era lo
stesso dott. Z.;
- sebbene questi sia entrato nel gruppo di lavoro nel
ruolo di dirigente solo nel mese di febbraio del 2009, in
sostituzione del dott. B., egli era già a conoscenza del
potenziale incarico, in quanto il 25.07.2008 la dott.ssa
Suffriti (responsabile della pianificazione delle risorse)
aveva diffuso on-line nella intranet di Deloitte il planning delle risorse da assegnare ai vari incarichi, nel quale compariva il potenziale incarico concernente Permasteelisa, inserito nel planning con un’ipotetica data di
inizio del lavoro e con il colore rosso, ovvero come incarico altamente probabile (cfr. pag. 45-47 atto di accertamento).
- nell’ottobre 2008 il dott. Z. scambiava alcune e-mail
con il dott. B. (quest’ultimo a conoscenza dell’incarico
già dal mese di luglio 2008) che mostrano come il primo fosse edotto, non soltanto dell’incarico di consulenza concernente Permasteelisa, ma che era a conoscenza,
altresì, dei soggetti coinvolti nell’operazione, T.M. (di
Alpha Associati s.r.l) e A.B. (del Gruppo Investindustrial) (cfr. pag. 87 atto d’accertamento). Da tale scambio di e-mail risulta come vi fossero già stati in precedenza dei contatti tra il dott. Z. ed il dott. B.
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Tali circostanze assumono ulteriore univocità se poste
in relazione allo scambio di e-mail - di cui già si è detto
- avvenuto tra il dott. Z. ed il dott. D.P., avvenuto nell’ottobre del 2008; tali e-mail, mostrano chiaramente la
piena conoscenza che i predetti avevano delle operazioni che si sarebbero compiute sul titolo,
5) sul carattere “anomalo” delle operazioni effettuate
dal D.P.
Il ricorrente ritiene che le operazioni poste in essere sul
titolo Permasteelisa avessero un carattere assolutamente
“normale”, attraverso un raffronto con l’operatività pregressa del ricorrente, avente ad oggetto strumenti finanziari ad alta rischiosità e per brevi periodi di tempo, in
linea con la durata dell’investimento per cui è causa.
La Corte ritiene, diversamente, che sussistano numerosi
elementi a sostegno dell’anomalia relativa all’operatività sulle azioni Permasteelisa.
Circa la tipologia dei titoli, le azioni Permasteelisa appartengono alla categoria dei titoli small-mid cap.
Dall’analisi dell’operatività pregressa e successiva all’acquisto dei predetti titoli, risulta che il dott. D.P.,
nel corso dei due anni precedenti non ha posto in essere alcuna operazione su azioni small-mid cap, ad eccezione di quelle su Guala Closures, Marazzi Group e
Permasteelisa; infatti, i soli titoli sui quali egli aveva
operato presentavano caratteristiche diverse, trattandosi di azioni con capitalizzazione di mercato e liquidità elevate, quali Telecom Italia, Banca Monte dei
Pascili di Siena, Unicredit, Fiat ed Eni (cfr. pag. 99
atto di accertamento).
Ugualmente, prendendo in considerazione il quadrimestre successivo al periodo di esecuzione delle operazioni
Permasteelisa, non risultano altre operazioni su titoli a
media o bassa capitalizzazione (operazioni su azioni ordinarie Unicredi e Intesa San Paolo)
Circa la tempistica dell’operatività, poi, come riportato
nell’atto di accertamento, i primi acquisti del titolo (pari a n. 5.375 azioni) sono stati effettuati nel periodo 30
settembre - 17 ottobre 2008, epoca in cui Deloitte era
già formalmente a conoscenza del potenziale incarico di
due diligence nell’ambito dell’operazione concernente
Permasteelisa s.p.a. (notizia conosciuta grazie alla mail
del 25.07.2008 della dott.ssa Suffriti); le stesse azioni
sono state vendute da D.P. nel novembre 2008, periodo
in cui Deloitte ha ricevuto comunicazione del fatto che
non era possibile prevedere la data di inizio attività ed
il potenziale incarico è stato eliminato dal planning delle risorse (cfr. pag. 48 atto di accertamento).
Ulteriori azioni sono state successivamente acquistate
dal D.P., in data 14.05.2009, proprio mentre Deloitte
stava svolgendo l’attività di due diligence su Permasteelisa s.p.a. e il dott. Z. era dirigente dell’area che se ne stava occupando.
Come correttamente osservato da Consob, è evidente
come “(...) la tempistica dell’operatività del dott. D.P.
sul titolo Permasteelisa riflette la tempistica dello svolgimento delle diverse fasi dell’attività di due diligence
svolta all’interno di Deloitte Fas; nessun margine di
fraintendimento residua, infatti, ove si consideri la serrata scansione temporale che connota la email del 4 no-
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Giurisprudenza
Diritto dei mercati finanziari
vembre 2008 di T.M. a J.B. e R.V., la email subitaneamente inviata la sera dello stesso giorno da A.Z. ad
E.D.M. /“chiamami urgente che ho news”) e le vendite
delle azioni prontamente disposte da D.P. a far data dal
giorno successivo (5 novembre 2008) fino all’11 novembre 2008 (...)” (cfr. pag. 63 memoria Consob).
6) sui profili di incostituzionalità dell’art. 187sexies TUF
Infine, la questione d’illegittimità dell’art. l87sexies
TUF è palesemente infondata.
Come correttamente rilevato da Consob nel proprio
scritto difensivo, la misura ablatoria de qua è obbligato-
ria e vincolata dall’entità dei mezzi finanziari utilizzati
senza che sussista alcun potere di graduare l’entità della
sanzione, tenendo conto di tutti gli elementi della fattispecie.
Sul punto, assume rilievo la pronunzia della Corte Costituzionale, laddove si afferma che “è esclusa la esistenza nel nostro sistema di una confisca graduabile nel
quantum, sulla base di un parametro costituito dalla
gravità in concreto della violazione” (Corte Cost.
252/2012).
…Omissis…
IL COMMENTO
di Stefano Lombardo (*)
La sentenza della Corte d’Appello di Milano in commento affronta la figura del c.d. insider secondario
che abusa di una informazione privilegiata relativa ad un progetto di acquisizione di partecipazione di
controllo ottenuta direttamente da un insider primario. La sentenza si sofferma in particolare sui caratteri
della precisione, della natura non pubblica e della possibile influenza sui prezzi delle azioni e può essere
confermata interpretando il susseguirsi delle vicende alla luce della sentenza della Corte di Giustizia nel
caso Geltl.
A partire da inizi di giugno 2008 il dott. Z. dipendente della società di consulenza D. s.p.a. inviava al dott. D.P. la prima di una serie di e-mail
relative al titolo della società P. s.p.a., emittente
quotato alla borsa di Milano s.p.a. ed oggetto di
progetto di acquisizione di partecipazione di controllo (con OPA). Il progetto sul titolo P. s.p.a., tipica fattispecie a formazione progressiva, si definiva fra i mesi di marzo e agosto 2008 e si sostanziava il giorno 8 agosto 2008 con la stipulazione di un
accordo fra i soggetti finanziatori (Joint Bidding
Agreement) contenente gli elementi essenziali dell’operazione, nonché con la previsione di una due
diligence legale, contabile e di business sulla società
P. s.p.a. La società di consulenza D. s.p.a. riceveva
notizie su tale potenziale incarico di consulenza a
partire da luglio 2008 e formale notizia del potenziale incarico il 23 luglio 2008. In data 25 luglio
2008 si definiva il gruppo di lavoro del potenziale
incarico che avrebbe visto coinvolto il dott. Z. Ad
ottobre 2008 si rilevavano ulteriori e-mail ad oggetto il titolo P. s.p.a. tra il dott. Z. e il dott. D.P.
Questi acquistava in un primo momento il 30 settembre 2008 e il 3 ottobre 2008 azioni P. s.p.a. con
propri mezzi finanziari nonché tra il 14 e il 17 ottobre 2008 azioni P. s.p.a. con € 23.200 trasferitigli
sul conto corrente dal dott. Z. per conto di questi.
Il dott. D.P. vendeva nel mese di novembre 2008
le azioni P. s.p.a. e restituiva al dott. Z. la somma
di € 24.650. Nello stesso mese di novembre 2008
la società di consulenza D. s.p.a. eliminava dal
planning il potenziale incarico in seguito a comunicazioni relative all’incertezza sull’inizio delle attività. Il dott. D.P. riprendeva l’acquisto di azioni P.
s.p.a. il 14 maggio 2009 mentre la società di consulenza D. s.p.a. svolgeva l’attività di due diligence sulla società P. s.p.a.
A seguito di procedura di accertamento, con
delibera 18368 del 7 novembre 2012 notificata al
dott. D.P. il 15 novembre 2012, la Consob contestava al dott. D.P. la violazione degli articoli (1):
187 bis, comma 4, TUF, per aver acquistato 4.000
azioni P. s.p.a. il 30 settembre 2008, il 3 ottobre
2008 ed il 14 maggio 2009, utilizzando l’informazione privilegiata concernente il progetto di acquisizione del controllo di P. s.p.a., comunicatagli, al di fuori dell’esercizio delle funzioni e dell’attività lavorativa, dal dott. Z., conoscendo o
potendo conoscere in base ad ordinaria diligenza
il carattere privilegiato di tale informazione; 187
bis, comma 1, lett. a), TUF, per aver acquistato,
in concorso con il dott. Z., 2.375 azioni P. s.p.a.
il 14 e il 17 ottobre in compartecipazione con il
(*) Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee.
(1) V. la delibera della Consob n. 18368 del 7 novembre
2012, reperibile sul sito della Consob.
Il caso
702
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto dei mercati finanziari
dott. Z., utilizzando l’informazione privilegiata
concernente il progetto di acquisizione del controllo di P. s.p.a.
La Consob applicava agli illeciti due sanzioni
amministrative pecuniarie di € 100.000 e comminava altresì la sanzione amministrativa accessoria
ai sensi dell’art. 187 quater, comma 1, TUF per un
periodo di tre mesi. Con ricorso del 19 dicembre
2012 il dott. D.P. impugnava avanti la Corte d’Appello di Milano la delibera della Consob, presentando diversi motivi fra i quali in particolare quello
della natura privilegiata della informazione (motivo 3), della disponibilità della informazione privilegiata da parte del dott. Z. (motivo 4), nonché
della valutazione della condotta del dott. D.P. in
relazione alle operazioni effettuate sul titolo P.
s.p.a. (motivo 5).
la normativa interna. Poi, si contestualizza il caso
alla luce della recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea con la causa Geltl della
quale vengono tracciati i profili essenziali. Infine,
si esaminano i tre motivi del ricorso in riferimento
alla condotta censurata ed oggetto di sanzione, ossia alla natura privilegiata della informazione, alla
disponibilità di questa informazione da parte dell’insider primario e alla condotta dell’insider secondario (3).
La depenalizzazione dell’illecito dell’insider
secondario
Riguadagnata alla giurisdizione della Corte
d’Appello in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale n. 162/2012 del 27 giugno 2012 e del
d.lgs. 160/2012 (2), la vicenda relativa alla sentenza in commento offre l’opportunità per soffermarsi
sulla figura del c.d. insider secondario. Il caso presenta interessanti spunti di riflessione anche perché si inserisce in una tipica fattispecie a formazione progressiva quale è il progetto di acquisto di
una partecipazione di controllo (con OPA) e la
notizia che di essa ha il c.d. insider primario dal
quale l’insider secondario ha ottenuto, in questo caso, l’informazione privilegiata.
Il commento è strutturato in 4 punti. Inizialmente, si discute della differenziazione tra illecito
penale e illecito amministrativo nell’insider trading (c.d. doppio binario sanzionatorio) introdotto
con la riforma del 2005 e della scelta compiuta dal
legislatore di depenalizzare l’illecito compiuto dall’insider secondario. In secondo luogo, si tratteggia
la figura dell’insider secondario nell’evoluzione del-
Come è noto, il considerando 39 e l’art. 14 della direttiva market abuse 2003/6/CE avevano previsto che gli illeciti di abuso di informazione privilegiata e manipolazione del mercato fossero perseguiti dagli Stati membri almeno con sanzione
amministrativa, prevedendo allo stesso tempo per
essi la possibilità di imporre (anche) sanzioni penali (art. 14 della direttiva) (4). Il legislatore italiano con la legge 62/2005 ha modificato il previgente regime sanzionatorio previsto dal TUF prevedendo un “doppio binario” sanzionatorio (5).
Questo si sostanzia in un concorso di illeciti (penale e amministrativo) per condotte quasi identiche e un cumulo di sanzioni penali e amministrative pecuniarie in relazione all’abuso di informazione privilegiata (come definita all’art. 181
TUF), previste rispettivamente agli artt. 184
TUF e 187 bis TUF (e alla manipolazione del
mercato, previste rispettivamente agli artt. 185
TUF e 187 ter TUF) (6).
La regola del doppio binario sanzionatorio per
l’abuso di informazione privilegiata trova una deroga in relazione alla condotta dell’insider secondario in una disciplina, quella dell’insider trading,
che, secondo quanto affermato dalla Cassazione,
riscontra peraltro una continuità sostanziale di
profili soggettivi e oggettivi dell’illecito (7). Il le-
(2) Sulla sentenza, v. Tricarico, 2013, La vexata quaestio del
riparto di giurisdizione in ordine al potere sanzionatorio della
Consob (nota a Corte Costituzionale n. 162/2012), in Diritto della banca e del mercato finanziario, 91.
(3) Non sono invece oggetto di questo commento gli altri
tre motivi del ricorso.
(4) Sulla direttiva market abuse, v. Ferrarini, 2004, La nuova
disciplina europea dell’abuso di mercato, in Rivista delle società,
43.
(5) Sul doppio binario, v. Megliani, 2006, La direttiva comunitaria sugli abusi di mercato e il nuovo sistema sanzionatorio, in
Diritto del commercio internazionale, 271; Zannotti, 2006, Il
nuovo diritto penale dell’economia, Milano, 398; Tripodi, 2008,
L’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate, in
Sgubbi-Fondaroli-Tripodi, Diritto penale del mercato finanziario,
Padova, 81; Mazzacuva-Amati, 2010, Diritto penale dell’economia, 403. Sul doppio binario sanzionatorio, v. anche la recentissima sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del
14 marzo 2014, Sez. XII, Caso Grande Stevens e altri c. Italia.
(6) Sul doppio binario sanzionatorio per la manipolazione
del mercato, v. Vizzardi, 2006, Manipolazione del mercato: un
doppio binario da ripensare?, in Rivista italiana di Diritto e Procedura Penale, 704.
(7) Cass., sez. V, 10 luglio 2006, n. 26943 nel senso di un
rapporto di specialità fra fattispecie del testo dell’abrogato art.
180 TUF e l’attuale art. 184 TUF «una specialità per specificazione quanto ai soggetti attivi, che risultano ora qualificati da
un ruolo determinato, e una specialità per aggiunta quanto alle
Identificazione della fattispecie
Le Società 6/2014
703
Giurisprudenza
Diritto dei mercati finanziari
gislatore della riforma ha infatti sottratto alla
sanzione penale questa figura prevista fin dall’introduzione della disciplina dell’insider trading nell’ordinamento italiano ad opera della l. 157/1991
di recepimento della direttiva 89/592/CEE. Con
la riforma apportata dalla l. n. 62/2005 la figura
dell’insider secondario è stata rivista sulla base di
quanto previsto dalla direttiva market abuse e sottoposta alla sola sanzione amministrativa dell’art.
187 bis, comma 4, TUF.
L’applicazione della sanzione penale sembra
persistere ad ordinamento vigente nel caso della
figura del c.d. outsider (extraneus) concorrente
dell’insider primario a norma dell’art. 110 c.p. e
dell’art. 184 TUF (8). Posto che l’insider secondario per essere tale non deve replicare la figura dell’insider primario (9) (e quindi non assumere una
delle caratteristiche che qualificano l’insider primario), quello che caratterizza la figura dell’extraneus-outsider in concorso con l’insider primario ex
art. 110 c.p. è il fatto che «l’outsider, nella consapevolezza della qualifica rivestita e delle funzioni
svolte dall’insider, lo istiga, lo determina (concorso morale) o lo aiuta – ponendo in essere una
parte della condotta tipica o una condotta atipica
di efficace supporto rispetto alla realizzazione della condotta tipica – (concorso materiale) consapevolmente a realizzare una delle condotte di
abuso di informazioni privilegiate previste dall’art. 184. Dunque il tratto che distingue il comportamento dell’insider secondario da quello del
concorrente in insider primario risiede in questo:
il primo sfrutta od usa l’informazione privilegiata
ricevuta per porre in essere comportamenti di trading, tipping o tuyautage a proprio esclusivo vantaggio o comunque del tutto autonomi rispetto ai
comportamenti abusivi dell’insider primario; il secondo, invece, collabora nelle forme sopra indicate con l’insider primario nella realizzazione delle
condotte abusive» (10). Secondo parte della dottrina, la distinzione fra insider secondario ex art.
187 bis, comma 4, TUF e outsider-extraneus in
concorso con l’insider primario ex art. 110 c.p.,
potrebbe essere ricercata tramite un criterio che
attribuisce valenza all’interesse perseguito (ed il
relativo beneficiario dal) con il comportamento
censurato dal divieto (11). Altra dottrina ritiene
quello dell’interesse perseguito un criterio inidoneo alla selezione del comportamento sanzionato (12). In particolare, il discrimine fra le due
sanzioni «andrà accertato con riferimento alla efficacia eziologica o agevolatrice della condotta
dell’extraneus consapevole della qualità soggettiva
del concorrente. Nell’ipotesi di effettuazione indiretta delle operazioni, pertanto, vi sarà sempre
concorso dell’outsider in quanto la interposizione
di altro soggetto, mediante il ricorso a strumenti
negoziali variamente articolati che consentano di
dissimulare la identità del reale contraente, costituisce un ausilio indubbiamente agevolatore della
condotta delittuosa dell’insider primario» (13)
(14).
condotte, più dettagliatamente descritte nella nuova fattispecie».
(8) V. Trib. Milano, sez. III, 23 gennaio 2007, con Commento di D’Arcangelo, in Corr. merito, 615; v. anche D’Arcangelo,
2008, Il concorso dell’extraneus nell’insider trading e la responsabilità da reato dell’ente, in La responsabilità amministrativa
delle società e degli enti, 33. Sul concorso dell’extraneus, v. anche Mucciarelli, Sub. Art. 184, in Fratini-Gasparri, 2012, a cura
di, Il Testo Unico della Finanza, 2372; Gasparri, Sub. Art. 187bis, in Fratini-Gasparri, 2012, a cura di, Il Testo Unico della Finanza, 2247.
(9) V. Trib. Milano, ord. 16 marzo 2006. Il ragionamento è
confermato dalla Cassazione: Cass., sez. V, 10 gennaio 2010,
n. 8588 alla quale si rimanda per l’intera vicenda processuale.
(10) Trib. Milano, sez. III, 23 gennaio 2007, cit., 617. La
Cassazione ha descritto il comportamento dell’extraneus in termini di «… ipotesi di un previo concerto e di una istigazione allo svelamento dell’informazione privilegiata, foriera di corresponsabilità ex art. 110 c.p.», Cass., sez. V, 10 gennaio 2010,
n. 8588.
(11) V. Zannotti, op. cit., 390, secondo il quale nelle operazioni indirette il terzo agisce quale longa manus dell’insider e
gli effetti ricadono solo nel patrimonio dell’insider. Mentre se il
terzo agisce sia nell’interesse dell’insider primario che di sé
stesso si sarebbe in presenza di insider secondario.
(12) V. D’Arcangelo, op. cit., 621.
(13) D’Arcangelo, op. cit., 621. Sembrano concludere in
modo uguale anche Mucciarelli, op. cit., 2372 e Gasparri, op.
cit., 2448.
(14) Senza aver la pretesa di approfondire il tema, si rileva
che questa interpretazione pur interessante in prospettiva interna al fine della identificazione della condotta e della sanzione nell’ambito del doppio binario sanzionatorio, può essere valutata con riferimento all’ordinamento comunitario. Essa, introducendo in sostanza una figura terza, quella dell’extraneus,
consapevole (se si è interpretato correttamente il ragionamento
in questione) della natura privilegiata della informazione, pare
perdere la sua valenza nel contesto comunitario, dove esistono
solo due figure rilevanti (di insider) e quindi solo due profili soggettivi, entrambe volte a scoraggiare l’abuso di informazioni
privilegiate ai fini di un’efficace enforcement della disciplina: la
figura tipizzata dell’insider primario e la figura (si direbbe, residuale) meno tipizzata e più sfumata dell’insider secondario che
è appunto (tutto) ciò che non è insider primario (secondo l’art.
4 della market abuse i divieti si applicano a qualsiasi persona,
diverse da quelle specificate come insider primari). Ciò anche
in relazione al grado di completezza della direttiva market abuse, sulla quale v. la nota successiva). In tal senso, la figura dell’insider secondario dell’art. 4 della direttiva market abuse, essendo piuttosto onnicomprensiva, sembra esaurire il perimetro
dei soggetti dell’illecito, chiudendo il cerchio dei soggetti rilevanti. La nozione di insider secondario comunitario sembra
quindi “assorbire” quella dell’extraneus di derivazione interna
tramite il compimento di operazioni (di acquisto o vendita o le
altre operazioni) indirette da parte dell’insider primario, nel caso di consapevolezza (presente o attesa secondo un criterio di
704
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto dei mercati finanziari
L’evoluzione della figura dell’insider secondario
nel nostro ordinamento, prevista inizialmente
dall’art. 2 della l. n. 157/1991 (di derivazione comunitaria con la direttiva 89/592/CEE), mostra
una tendenziale continuità, pur presentando alcune modifiche relative prima alla flessibilità consentita dalla direttiva 89/592/CEE, ad armonizzazione non completa, che prevedeva alcune opzioni di scelta per gli Stati membri e poi alla rigidità
della direttiva market abuse ad armonizzazione
completa (15).
L’art. 2, comma 4, l. n. 157/1991 che riprendeva (anche) per l’insider secondario la definizione
comunitaria dell’art. 4 della direttiva 89/592/CEE
prevedeva in ogni caso il collegamento funzionale
fra la conoscenza dell’informazione privilegiata
dell’insider primario (c.d. tippees) (16) e la conoscenza dell’informazione privilegiata dell’insider
secondario (tippee) (17). Esisteva quindi un collegamento diretto o indiretto tra insider primario e
insider secondario, nel senso che la fonte dell’informazione privilegiata per l’insider secondario
doveva essere l’insider primario (18). Servendosi
della possibilità garantita dall’art. 6 della direttiva 89/592/CEE, il legislatore italiano aveva poi
previsto per l’insider secondario non solo il divieto di acquistare o vendere valori mobiliari, nonché lo svolgimento di altre operazioni direttamente o per interposta persona (art. 2, comma 1,
l. n. 157/1991) ma anche il divieto di comunicare
a terzi l’informazione (c.d. tipping) o consigliare a
terzi il compimento di una delle operazioni vieta-
te (c.d. tuyuatage) (art. 2, comma 2, l. n.
157/1991). Era quindi possibile sanzionare anche
il c.d. second generation tippees (19).
La figura dell’insider secondario è stata poi confermata con l’emanazione del TUF nel 1998 (art.
180, comma 2, TUF). L’art. 180, comma 2, TUF,
manteneva il collegamento tra insider primario e
insider secondario ma (sulla base della possibilità
di scelta dell’art. 6 della direttiva 89/592/CEE) limitava questa volta il divieto per l’insider secondario al solo compimento delle operazioni previste
dalla lettera a) del comma 1, TUF, escludendo
quindi per esso il divieto di comunicare ad altri
l’informazione (tipping) o consigliare ad altri il
compimento di una delle operazioni vietate
(tuyuatage). La scelta legislativa che poteva essere
o meno giustificata (20), veniva poi accompagnata dalla eliminazione del requisito della consapevolezza del carattere privilegiato della informazione.
La direttiva 2003/6/CE ha ripreso la figura dell’insider secondario ma, rispetto alla direttiva precedente, (a) non ha previsto il collegamento funzionale fra insider primario e insider secondario, nel
senso che il primo debba essere la fonte diretta o
indiretta di conoscenza del secondo (b) non consente agli Stati membri di limitare le condotte sanzionabili per l’insider secondario, escludendo tipping
e tuyuatage. Il legislatore nazionale ha quindi recepito il dettato (imperativo) comunitario, limitandosi a prevedere la sottrazione dell’insider secondario alla sanzione penale prevedendo solo quella
amministrativa proposta dalla direttiva (21).
ordinaria diligenza) del carattere privilegiato della informazione
da parte dell’insider secondario (ricordando che l’elemento della consapevolezza della sussistenza di una informazione privilegiata è richiesto anche all’extraneus). Da questa prospettiva,
si rileva che nel caso concreto, oggetto di questo commento,
l’illecito ascritto al dott. D.P. in relazione alla violazione dell’art.
187 bis, comma 1, lett. a), TUF, per aver acquistato le azioni in
concorso con il dott. Z., che gli aveva comunicato l’informazione privilegiata al di fuori delle funzioni e dell’attività lavorativa,
sembra replicare la figura (anche) dell’extraneus in quanto il
dott. D.P. si adopera per aiutare il dott. Z, acquistando (anche)
per lui le azioni: il dott. Z. acquista (e poi vende) le azioni indirettamente tramite il dott. D.P. che lo aiuta. Secondo questa interpretazione, il terzo dell’art. 187 bis, comma 1, lett. a), TUF,
è in questo caso l’insider primario. Si pone allora la questione,
qui non approfondita, di stabilire se il dott. D.P. va sanzionato
penalmente ex art. 110 c.p., oppure amministrativamente come insider secondario, non essendo ipotizzabile il cumulo di
sanzioni, non previsto per l’insider secondario.
(15) Nell’ambito del discorso sul grado di armonizzazione
delle direttive comunitarie, sul quale v. Gerner-Beuerle, 2012,
United in Diversity: maximum versus minimum harmonization in
EU securities regulation, in Capital Markets Law Journal, 317, si
ritiene che la direttiva 89/592/CEE fosse una direttiva ad armo-
nizzazione non completa mentre la direttiva market abuse
2003/6/CE sia una direttiva ad armonizzazione completa, sul
punto v. anche Lombardo, 2013, OPA, informazione privilegiata
e insider di se stessi, in questa Rivista, 50, nota 27, con ulteriori
riferimenti bibliografici.
(16) Definito all’art. 2, comma 1, l. n. 157/1991.
(17) V. Tripodi, op. cit., 86.
(18) L’art. 2 l. n. 157/1991 prevedeva che i «divieti di cui ai
commi precedenti sono estesi a tutti coloro che abbiano direttamente o indirettamente ottenuto informazioni, consapevoli
del carattere riservato delle stesse, da soggetti che dette informazioni posseggano in ragione dell'esercizio della loro funzione, professione o ufficio».
(19) V. Tripodi, op. cit., 89.
(20) Ad esempio si afferma che “non brillava per coerenza”,
Tripodi, op. cit., 92 mentre più giustificante, appare Ermetes,
Sub. Art. 180, in Rabitti Bedogni, 1998, a cura di, Il Testo Unico
della Intermediazione Finanziaria, Milano, 990.
(21) Per la prima pronuncia dell’illecito depenalizzato, v.
Trib. Roma 7 dicembre 2005 (non vidi), con commento di
Manduchi, 2006, Un primo intervento giurisprudenziale sulla
nuova fattispecie di insider trading: la sorte dei c.d. insider secondari, in Cassazione penale, 3344. V. poi anche Corte d’Appello di Milano, 27 giugno 2011, con commento di Parella,
L’insider secondario
Le Società 6/2014
705
Giurisprudenza
Diritto dei mercati finanziari
Quella dell’insider secondario è una figura la cui
condotta, pur riprovevole, viene valutata in modo
meno severo in termini di disvalore, rispetto alla
condotta dell’insider primario e per questo motivo
depenalizzata e sanzionata solo tramite sanzione
amministrativa (22).
L’acquisizione dell’informazione privilegiata può
avvenire in qualsiasi modo con riferimento alla
fonte e alla modalità dell’apprendimento, essendo
solo rilevante la conoscenza o la conoscibilità (secondo un criterio di ordinaria diligenza) della natura privilegiata dell’informazione (23). L’elemento
soggettivo si identifica quindi tanto nel dolo quanto nella colpa (24). Il tentativo è inoltre equiparato alla consumazione (art. 187 bis, comma 6,
TUF) (25).
La figura di insider secondario che propone la
sentenza in commento è quella di un soggetto, il
dott. D.P., che avrebbe ottenuto l’informazione
privilegiata del progetto dell’acquisto di una partecipazione di controllo (con OPA) sull’emittente
quotato P. s.p.a., da parte di un altro soggetto,
dott. Z., che la avrebbe avuta tramite l’esercizio
della sua attività professionale presso la società di
consulenza D. s.p.a. e relativa alla due diligence sull’emittente P. s.p.a., proprio con riferimento al progetto dell’acquisizione della partecipazione di controllo e quindi quale insider primario a norma dell’art. 187 bis, comma 1, TUF (26).
La sentenza della Corte di Giustizia nel
caso Geltl
I tre motivi del ricorso presi in considerazione in
questo commento si riferiscono (a) alla natura pri2012, È informazione privilegiata la notizia dell’imminente pubblicazione di una ricerca “sensibile”, in questa Rivista, 417. Sull’insider secondario con sanzione penale, v. Tribunale di Milano. sez. III, 25 ottobre 2006, con commento di Sorgato, 2007,
“Insider” primario e secondario nell’abuso di informazioni privilegiate, in Diritto e pratica delle società, 76.
(22) Gasparri, op. cit., 2445.
(23) Gasparri, op. cit., 2446.
(24) Tripodi, op. cit., 100; Gasparri, op. cit., 2446; Napoleoni, 2008, Insider Trading, in Digesto delle discipline penalistiche,
Torino, 604.
(25) Tripodi, op. cit., 84; Napoleoni, op. cit., 604.
(26) Per una integrazione della sentenza in commento, v. la
citata delibera della Consob, ove vengono descritti sia i comportamenti del dott. D.P. che quelli del dott. Z. anche in riferimento ad altre vicende relative ad altre informazioni intercorse
tra i due (apparentemente legati da un rapporto di amicizia).
(27) Corte di Giustizia causa C-19/11 del 28 giugno 2012,
Markus Geltl contro Daimler AG. Sulla sentenza e per una sua
prima applicazione ex post, v. Lombardo, op. cit., e con soluzione opposta rispetto alla soluzione ivi proposta sulla base
delle (scarne) informazioni inferite dalla sentenza amministrativa, v. Corte d’Appello di Bologna, sez. III, 1804 dell’11 ottobre
706
vilegiata dell’informazione ed in particolare alla
presenza del requisito della precisione, alla sua natura pubblica e alla sua idoneità ad incidere sui
prezzi (motivo 3); (b) all’asserita disponibilità della
informazione privilegiata da parte di D. s.p.a. e del
dott. Z., ossia del soggetto che avrebbe agito in
qualità di insider primario dal quale il dott. D.P.
avrebbe avuto l’informazione privilegiata (motivo
4); (c) alla valutazione della condotta del dott.
D.P. in relazione alla normalità delle operazioni da
lui effettuate (motivo 5).
La vicenda in commento si riferisce ad una
(presunta) informazione privilegiata relativa al
progetto di acquisizione della partecipazione di
controllo (con OPA) di cui l’insider primario sarebbe venuto a conoscenza in ragione della sua
attività professionale. È quindi un’informazione
relativa ad una fattispecie a formazione progressiva tipica, problematica che ha visto il recente intervento della Corte di Giustizia con il caso
Geltl del giugno 2012 (27). Seppur inserita in un
contesto diverso, relativo non tanto ad un abuso
di informazioni privilegiate ma alla relazione funzionale tra l’informazione privilegiata (art. 1,
punto 1) direttiva market abuse e art. 1 direttiva
2003/124/CE, ossia art. 181 TUF e 187 bis TUF)
e la disclusure continua al mercato da parte dell’emittente di tali informazioni (art. 6, paragrafo 1
direttiva market abuse, ossia art. 114 TUF), la
sentenza è interessante per il caso concreto (28).
Infatti, le risposte della Corte europea ai quesiti
posti dal Bundesgeritshof (29), consentono di inquadrare meglio alcune questioni proposte nei
motivi del ricorso ed in particolare nel motivo 3,
2013 (dep. 29 ottobre 2013, non pubblicata a quanto risulta).
Sulla sentenza della Corte di Giustizia, v. e.g. anche Bachmann, 2012, Ad-hoc-PublizitätnachGeltl”, in Der Betrieb, 2206;
Mock, 2012, Gestreckte Verfahrensabläufe im Europäischen Insiderrecht, in Zeitschrift für Bankrecht und Bankwirtschaft, 286;
Krause-Brellochs, 2013, Insider trading and the disclosure of inside information after Geltl v Daimler case with a view to the future European Market Abuse Regulation, in Capital Markets
Law Journal, 283.
(28) In estrema sintesi, la vicenda relativa al caso Geltl si riferisce alla tempistica delle dimissioni del Sig. Schrempp dalla
carica di presidente del consiglio di amministrazione della
Daimler AG fra aprile e luglio 2005. La notizia, appalesatasi all’interno dell’emittente già a partire dall’aprile 2005, fu comunicata al mercato il 28 luglio 2005, provocando un aumento del
prezzo delle azioni sul mercato. Il Sig. Geltl, avendo venduto le
azioni prima della comunicazione, lamentava la perdita subita
dal ritardo nella comunicazione.
(29) La decisione del BGH è reperibile in Zeitschrift für Wirtschaftsrecht, 2011, 72. La pronuncia finale del BGH in seguito
alla sentenza della Corte di Giustizia è del 23 aprile 2013, BGH
II ZB 7/09, reperibile presso il sito del BGH.
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto dei mercati finanziari
portando a confermare, in conclusione, le argomentazioni della Corte d’Appello nella sentenza
in commento.
È da notare che nei casi di fattispecie complesse
a formazione progressiva, nella vigenza della normativa interna relativa alla direttiva
89/593/CEE (30), la dottrina aveva chiaramente
espresso il convincimento che mentre il divieto di
abuso di informazioni privilegiate (art. 180 TUF)
trovasse applicazione da subito e già relativamente
a fatti iniziali pur propedeutici ad altri fatti, la comunicazione al pubblico ex art. 114 TUF dei fatti
“rilevanti” potesse essere posticipata a fatti più
“compiuti” che realizzassero appunto un obbligo di
comunicazione (31). Tale orientamento, di subitaneo divieto di insider trading per fatti/notizie iniziali, veniva confermato dalla dottrina anche con riferimento alla disciplina relativa alla market abuse,
permanendo appunto eventualmente dei dubbi solo con riferimento alla tempistica della disclosure ex
art. 114 TUF (32). La Corte ha deciso che è ora da
privilegiare un’interpretazione, si direbbe ampia,
dei fatti e delle notizie intermedie nelle fattispecie
a formazione progressiva che impone non solo il
divieto di insider trading, come ritenuto dalla dottrina, ma anche l’obbligo di disclosure per tali fatti/notizie nel caso in cui essi, accanto al carattere
della precisione, comportino anche gli altri caratteri della informazione privilegiata, come precisati
dalla Corte.
Più in particolare, la Corte di Giustizia con la
sentenza Geltl si è soffermata su due punti essenziali relativi al carattere di precisione dell’informazione come derivante dal combinato disposto
degli articoli 1, punto 1), della direttiva market
abuse e 1, paragrafo 1, della direttiva
2003/124/CE. In un primo punto, relativo alla
prima questione pregiudiziale posta dalla Cassazione tedesca (33), la Corte ha contribuito a qualificare meglio le caratteristiche che i fatti e le
notizie intermedi nelle fattispecie a formazione
progressiva devono presentare in riferimento al
loro carattere di precisione, al fine appunto di poter qualificare tali fatti/notizie intermedi quali informazioni precise (34). Per questa prima questione, la Corte di Giustizia, nella sostanza, ha chiarito che in presenza di fattispecie a formazione
progressiva, nella vigenza della direttiva market
abuse (e quindi nel caso di coincidenza fra le informazioni privilegiate dell’art. 1, punto 1), della
market abuse e le informazioni privilegiate corporate dell’art. 6, paragrafo 1, della stessa) esiste
una (più) stretta e sostanziale aderenza fra informazioni privilegiate sottoposte a divieto di insider
trading e obbligo di disclosure, potendosi riferire
l’informazione privilegiata già a notizie/fatti intermedi che siano precisi, se è possibile identificare in essi un’autonoma informazione privilegiata.
Con il secondo punto, relativo alla seconda
questione pregiudiziale posta dalla Cassazione tedesca (35), la Corte di Giustizia ha contribuito a
chiarire la questione (posta dall’art. 1, paragrafo
1, della direttiva 2003/124/CE) della valutazione
ex ante della ragionevole anticipazione di un
complesso di circostanze o di un evento in relazione alla loro (preponderante o elevata) probabilità di sopravvenienza nonché all’ampiezza delle
(30) Che all’art. 7 prevedeva che per le società quotate trovassero applicazione le disposizioni di disclosure dell’allegato,
schema C, punto 5, lettera a) della direttiva 79/279/CEE e quindi quelle relative a fatti nuovi importanti e quindi non alle informazioni privilegiate.
(31) Sul punto diffusamente, v. Picone, 2004, Trattative, due
diligence ed obblighi informativi delle società quotate, in Banca
Borsa Titoli di Credito, 234.
(32) Sul punto, v. Carriere, 2006, I profili informativi delle fasi
propedeutiche di operazioni di M&A successivamente al recepimento della direttiva market abuse, in Rivista delle Società, 338.
Napoleoni, op. cit., 585, Bachmann, op. cit., 2208. Per considerazioni più generali in relazione al tipo di informazioni, v. anche
Denozza, 2005, La nozione di informazione privilegiata tra “Shareholder Value” e “Socially Responsible Investing”, in Giur.
comm., I/585.
(33) La prima questione pregiudiziale era la seguente: «Se,
qualora venga in questione una fattispecie che si realizza in
più fasi intermedie nel corso del tempo e che è finalizzata a fare venire in essere una determinata circostanza od a provocare
la realizzazione di un certo evento, sia necessario, per applicare l’articolo 1, comma 1, punto 1, della direttiva 2003/6 e l’articolo 1, n. 1, della direttiva 2003/124, basarsi solamente sul fat-
to che questa circostanza o l’evento futuri debbano essere
qualificati come un’informazione a carattere preciso ai sensi
delle disposizioni summenzionate, con la conseguenza di dovere esaminare se si possa ragionevolmente pensare che la
circostanza o l’evento futuri si produrranno, oppure, poiché
appunto viene in esame un processo che si svolge nel tempo,
i momenti intermedi che già sussistono o si sono verificati e
che sono legati alla realizzazione della circostanza o dell’evento futuri possano egualmente costituire delle informazioni a
carattere preciso secondo le dette disposizioni delle direttive».
(34) Punto 27 della sentenza.
(35) La seconda questione pregiudiziale era la seguente:
«Se l’espressione “si possa ragionevolmente ritenere” di cui all’articolo 1, n. 1, della direttiva 2003/124, richieda che la probabilità sia giudicata preponderante od elevata, oppure se, per
circostanze che si possa ragionevolmente pensare che verranno ad esistere o per eventi che ragionevolmente si verificheranno, debba intendersi che il grado di probabilità dipenda dall’ampiezza delle conseguenze per l’emittente e che, nell’eventualità in cui la loro attitudine ad influire sulla quotazione dei titoli sia elevata, sia sufficiente che la verificazione della circostanza o dell’evento futuri sia incerta ma non improbabile».
Le Società 6/2014
707
Giurisprudenza
Diritto dei mercati finanziari
loro conseguenze sul prezzo degli strumenti finanziari (36). La Corte di Giustizia, soffermandosi sul
significato dell’avverbio ragionevolmente ha stabilito che la valutazione ex ante della probabilità di
verificazione di un complesso di circostanze o di
un evento futuro non esige la dimostrazione di
un’elevata probabilità degli stessi ma si accontenta di una concreta prospettiva di verificazione basata su una valutazione globale degli elementi già
disponibili, tale da escludere solamente circostanze o eventi non verosimili (37). Per quanto riguarda poi la possibile specificazione della probabilità richiesta in relazione all’ampiezza degli effetti sui prezzi degli strumenti finanziari, e quindi
alla possibile relazione (inversa) fra la probabilità
richiesta e l’ampiezza degli effetti, nel senso che
ad una maggiore ampiezza potrebbe corrispondere
una minore probabilità (e viceversa), la Corte ha
avuto modo di chiarire che l’operatività del carattere della precisione (legata all’avverbio ragionevolmente) (38) è da interpretare nel senso di una
valutazione probabilistica ex ante indipendente e
non variabile in funzione dell’ampiezza degli effetti sul prezzo degli strumenti finanziari. La Corte, non seguendo le conclusioni dell’A.G. Mengozzi sul punto (39), sembra quindi aver rifiutato
l’uso del c.d. probability/magnitute test per l’applicazione della market abuse in Europa (40). Questo
test è usato dalla giurisprudenza statunitense con
riferimento alla questione della materiality dell’informazione e quindi in riferimento alla idoneità
dell’informazione a incidere sensibilmente sul
prezzo delle azioni (price-sensitivity) e prevede, in
sintesi che la probabilità dell’evento viene moltiplicata con la magnitudine (ampiezza) dell’effetto
sul prezzo (41). Rifiutando il probability/magnitute
test, la Corte ha stabilito che precisione (art. 1,
paragrafo 1, direttiva 2003/124/CE) e price-sensitivity (art. 1, paragrafo 2, direttiva 2003/124/CE)
sono criteri minimi ed indipendenti (e quindi
non correlati) fra loro; ne segue che la definizione di informazione privilegiata deriva da una
somma dei due elementi e non da un loro prodotto (42).
Alla luce degli orientamenti della dottrina e della sentenza Geltl, i tre citati motivi del ricorso della
sentenza della Corte d’Appello di Milano possono
quindi essere commentati come segue.
(36) Punto 41 della sentenza.
(37) Punti 48 e 49 della sentenza. Secondo la dottrina tedesca, l’operatività concreta di una tale formulazione corrisponderebbe nella sostanza ad una probabilità di almeno il 50%,
sul punto Bachmann, op. cit., 2209.
(38) Sull’avverbio ragionevolmente, v. Napoleoni, op. cit.,
585; Mucciarelli, op. cit., 2330.
(39) V. Conclusioni dell’Avvocato Generale 21 marzo 2012,
Causa C-19/11 Markus Geltl contro Daimler AG, ed in particolare sulla correlazione, v. i punti 66 e ss. Con riferimento alle norme italiane, l’AG nel punto 71 delle sue conclusioni assimila il
concetto di ragionevolezza a fini prognostici della realizzazione
delle circostanze/evento dell’art. 181, comma 3, lett. a), TUF,
utilizzato per qualificare il carattere della precisione della informazione insieme alla sua specificità in relazione all’effetto (e
quindi all’effetto positivo o negativo sul corso dello strumento
finanziario, Mucciarelli, op. cit., 2330), alla figura dell’investitore ragionevole dell’art. 181, comma 4, TUF, che viene utilizzato
per qualificare (il grado del)la sensibilità (price-sensitivity) e
quindi, in sintesi, la capacità della informazione di modificare il
prezzo. Da ciò risulta, peraltro, una non chiara delimitazione e
qualche elemento d’interdipendenza fra il carattere della specificità in relazione all’effetto e la price-sensitivity (v. anche Napoleoni, op. cit., 585; Mucciarelli, op. cit., 2330). Sull’investitore
ragionevole dell’art. 181, comma 4, TUF, ai fini della price-sensitivity, v. in prospettiva comparata europea Krause-Brellochs,
op. cit., 291.
(40) Sul punto, v. anche Mock, op. cit., 289.
(41) Sul punto con ulteriori riferimenti e per una critica, v.
Assmann, 2012, § 13, in Assmann-Schneider, Hrsg., Wertpapierhandelsgesetz Kommentar, 412.
(42) Sul punto in risultato, v. anche Mock, op. cit., 289.
708
I tre motivi del ricorso
Il ricorrente dott. D.P. ha contestato la natura
privilegiata della informazione, sostenendo che
essa non lo era poiché (i) mancava del requisito
della precisione, (ii) era già pubblica ed (iii) era
inidonea a incidere sui prezzi (motivo 3); ha
inoltre dubitato la disponibilità delle informazioni da parte del dott. Z (motivo 4). Con un altro
motivo il ricorrente dott. D.P. ha contestato l’erronea valutazione della sua condotta da parte
della Consob, argomentando che le operazioni
sul titolo P. s.p.a. da lui effettuate fossero normali
(motivo 5).
Il terzo motivo del ricorso contesta la presenza
nel caso concreto di tre dei quattro elementi che
qualificano l’informazione privilegiata ex art. 181
TUF: avere un carattere preciso, essere non pubblica, concernere direttamente o indirettamente uno
o più emittenti o uno o più strumenti finanziari,
nonché influire sensibilmente sui prezzi di tali strumenti finanziari. L’informazione privilegiata in discorso è quella relativa al progetto di acquisizione
del controllo (con il lancio di OPA obbligatoria o
volontaria) della società P. s.p.a.
Con riferimento al (i) carattere di precisione,
tale informazione si riferiva ad un complesso di
circostanze formatesi a partire da marzo 2008 e
concretizzatesi l’8 agosto 2008 con la stipula di
un accordo (Joint Bidding Agreement) contenente
gli elementi essenziali dell’operazione. Nella suc-
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Diritto dei mercati finanziari
cessione dei fatti/atti/notizie accaduti tra marzo e
agosto 2008 è possibile riscontrare, anche sulla
base del giudicato della Corte di Giustizia nel caso Geltl, una fase intermedia della fattispecie a
formazione progressiva, fase concretizzatasi come
informazione del progetto di acquisizione del controllo, l’8 agosto 2008 con la firma dell’accordo
fra vari soggetti. Il complesso di circostanze esistenti lasciava poi ragionevolmente prevedere l’esito dell’accordo, ossia la realizzazione del progetto.
Infatti, appare che tutti i soggetti qualificabili come insider (primari) ben potevano prevedere che
il complesso di circostanze, nonché l’accordo relativo al progetto di acquisizione, erano tali da
manifestare una concreta prospettiva di realizzazione dell’evento (acquisizione di partecipazione di
controllo con OPA) sulla base di una valutazione
globale degli elementi già disponibili (43). Con
riferimento ai rumors ed al (ii) presunto carattere
pubblico della informazione, la dottrina ha avuto
modo di rilevare che essi non rappresentano una
informazione privilegiata in quanto non sono
propriamente strutturati sui quattro elementi che
qualificano invece la stessa (44). Emerge nel caso
in commento che l’informazione relativa al progetto di acquisizione della partecipazione di controllo non fosse appunto pubblica, essendo relativa alla sfera di conoscibilità di soggetti terzi rispetto all’emittente (market information), che
avrebbe avuto invece un obbligo di disclosure ex
art. 114, comma 1, TUF previsto nel caso di corporate information (45). I soggetti terzi erano i titolari dell’obbligo di comunicazione al mercato (46). Infine, per quanto riguarda la (iii) idoneità dell’informazione a incidere sui prezzi, si rileva che, come argomentato dalla Consob e dalla
Corte d’Appello, la natura delle operazioni coinvolte (progetto di acquisizione di partecipazione
di controllo con OPA) appare naturalmente propensa ad incidere sul corsi azionari dell’emittente
e quindi a qualificare l’informazione come tipicamente price-sensitive.
In conclusione, quanto argomentato consente di
qualificare l’informazione relativa al terzo motivo
del ricorso come informazione privilegiata oggetto
di divieto di insider trading per tutti i soggetti previsti dalla normativa.
In relazione alla presunta indisponibilità della
informazione (motivo 4 del ricorso), come argomentato dalla Consob e dalla Corte d’Appello, si
rileva che il dott. Z. veniva a conoscenza a luglio
quale insider primario della informazione (precisa
e) privilegiata relativa al progetto di acquisizione,
tramite l’esercizio di attività professionale presso
la società di consulenza D. s.p.a. che avrebbe dovuto svolgere la due diligence sulla società P.
s.p.a. (47).
Ricostruita quindi la natura privilegiata dell’informazione (motivo 3 del ricorso) e la sua disponibilità da parte del dott. Z. (motivo 4 del ricorso), per quanto riguarda il quinto motivo del ricorso, si rileva che il dott. Z, quale insider primario
era sottoposto al divieto di abuso di informazione
privilegiata sia in termini di illecito penale che
in termini di illecito amministrativo. Era quindi
sottoposto ai divieti di cui all’art. 187 bis, comma,
1, lett. a), b), c), TUF. Il dott. Z., fornendo la
notizia al dott. D.P. (tipping, vietato ex art. 187
bis, comma, 1, lett. b) TUF), consentiva a questo
la possibilità di porre in essere gli illeciti contestatigli. Dai fatti descritti sembra poi emergere
che l’elemento soggettivo del dolo sia confermato, per cui, pur essendo condivisibili le valutazioni della Consob e della Corte d’Appello, risulta
appannato il motivo del ricorso relativo alla presunta normalità delle operazioni effettuate sul titolo P. s.p.a. (motivo 5 del ricorso). Il dott. Z.,
conoscendo il carattere privilegiato della informazione (ottenuta da un soggetto che egli sapeva
essere insider primario e che per questo egli avreb-
(43) V. Corte di Giustizia, cit., punto 56.
(44) «… in quanto rappresentano discorsi generici di dubbia
accuratezza», Ferrarini, op. cit., 52.
(45) Per quanto di competenza dell’emittente ex art. 114
TUF sulle corporate information, rilevano peraltro le continue
smentite da parte dell’emittente di progetti di delisting.
(46) Appare, da diversi quotidiani reperibili in internet, che la
pubblicazione da parte dei soggetti acquirenti, avvenuta tramite una nota al mercato, sia databile al 1 settembre 2009. Non
si approfondisce qui il momento in cui anche l’emittente potrebbe essere stato oggetto dell’obbligo di informazione ex art.
114 TUF, in quanto la informazione privilegiata era entrata nella sua sfera di conoscenza divenendo corporate information.
Sul punto v. anche la nota successiva.
(47) Con riguardo alla due diligence, a ben vedere, seguen-
do l’interpretazione della Corte di Giustizia in Geltl, la stessa
notizia della due diligence pervenuta al dott. Z. rappresentava
una informazione precisa: aveva infatti carattere preciso (essendosi concretizzata prima in una notizia formale di incarico
di consulenza e poi internamente nel planning lavorativo) ed
era sufficientemente specifica da consentire di trarre conclusioni sul possibile effetto sui prezzi degli strumenti finanziari
tramite la valutazione del contesto di riferimento (ossia, il progetto di una acquisizione della quale era strumentale). V. i punti 38 e 39 sentenza Geltl. Sulla rilevanza della due diligence, v.
Picone, op. cit., 255, che rileva come questa possa o meno essere rilevante nella prassi per l’operazione principale e quindi
sottoponibile o meno ad un obbligo di disclosure come fatto rilevante (come informazione privilegiata se sussistono gli altri
tre elementi).
Le Società 6/2014
709
Giurisprudenza
Diritto dei mercati finanziari
be dovuto valutare come “irricevibile”), ed essendo quindi obbligato ad un comportamento di sostanziale astensione, ha agito proprio con l’inten-
to di abusare della informazione privilegiata in un
contesto normativo dove già il tentativo è equiparato alla consumazione (48).
(48) Tripodi, op. cit., 84; Gasparri, op. cit., 2472; Zannotti,
op. cit., 400.
710
Le Società 6/2014
Normativa
Processo, arbitrato e mediazione
Tribunale delle imprese
La riforma del “tribunale delle
imprese”
DECRETO LEGGE 23 dicembre 2013, n. 145, conv. in legge con modif. dall’art. 1, comma 1, L.
21 febbraio 2014, n. 9.
Interventi urgenti di avvio del piano “Destinazione Italia”, per il contenimento delle tariffe elettriche e del gas, per l’internazionalizzazione, lo sviluppo e la digitalizzazione delle imprese,
nonché misure per la realizzazione di opere pubbliche ed EXPO 2015 - G.U. n. 300, 23 dicembre 2013, Serie Generale
01. Al comma 1bis dell’articolo 1 del decreto legislativo
27 giugno 2003, n. 168, dopo il terzo periodo è inserito
il seguente: «È altresì istituita la sezione specializzata in
materia di impresa del tribunale e della corte di appello
(sezione distaccata) di Bolzano» (1).
1. All’articolo 4 del decreto legislativo 27 giugno 2003
n. 168, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al comma 1, prima delle parole: «Le controversie di
cui all’articolo 3» sono inserite le seguenti parole: «Fermo quanto previsto dal comma 1bis,»;
b) dopo il comma 1 è aggiunto il seguente comma:
«1-bis. Per le controversie di cui all’articolo 3 nelle quali è parte, anche nel caso di più convenuti ai sensi dell’articolo 33 del codice di procedura civile, una società,
in qualunque forma costituita, con sede all’estero, anche avente sedi secondarie con rappresentanza stabile
nel territorio dello Stato, e che, secondo gli ordinari
criteri di competenza territoriale e nel rispetto delle disposizioni normative speciali che le disciplinano, dovrebbero essere trattate dagli uffici giudiziari di seguito
elencati, sono inderogabilmente competenti:
1) la sezione specializzata in materia di impresa di Bari
per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Bari,
Lecce, Taranto (sezione distaccata), Potenza;
2) la sezione specializzata in materia di impresa di Cagliari per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di
Cagliari e Sassari (sezione distaccata);
3) la sezione specializzata in materia di impresa di Catania per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di
Caltanissetta, Catania, Catanzaro, Messina, Palermo,
Reggio Calabria;
4) la sezione specializzata in materia di impresa di Genova per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di
Bologna, Genova;
5) la sezione specializzata in materia di impresa di Milano per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Brescia, Milano;
6) la sezione specializzata in materia di impresa di Napoli per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di
corte d’appello di Campobasso, Napoli, Salerno;
7) la sezione specializzata in materia di impresa di Roma
per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Ancona, Firenze, L’Aquila, Perugia, Roma;
8) la sezione specializzata in materia di impresa di Torino per gli uffici giudiziari ricompresi nel distretto di Torino;
9) la sezione specializzata in materia di impresa di Venezia per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di
Trieste, Venezia;
9-bis) la sezione specializzata in materia di impresa di
Trento per gli uffici giudiziari ricompresi nel distretto di
Trento, fermo quanto previsto al numero 9-ter);
9-ter) la sezione specializzata in materia di impresa di
Bolzano per gli uffici giudiziari ricompresi nel territorio
di competenza di Bolzano, sezione distaccata della corte
di appello di Trento» (2).
2. Le disposizioni del presente articolo si applicano ai
giudizi instaurati a decorrere dal sessantesimo giorno
successivo a quello di entrata in vigore del presente decreto.
3. Dall’attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. All’attuazione del presente articolo le amministrazioni provvedono nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali previste a legislazione vigente.
(1) Comma premesso dalla legge di conversione 21 febbraio 2014, n. 9.
(2) Lettera così modificata dalla legge di conversione 21
febbraio 2014, n. 9.
Art. 10
Tribunale delle società con sede all’estero
Le Società 6/2014
711
Normativa
Processo, arbitrato e mediazione
DECRETO LEGISLATIVO 27 giugno 2003, n. 168
Istituzione di Sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale presso tribunali e corti d’appello, a norma dell’articolo 16 della legge 12 dicembre 2002, n. 273 - G.U. n.
159, 11 luglio 2003, Serie Generale
Art. 1.
Istituzione delle sezioni specializzate in materia
di impresa (3)
1. Sono istituite presso i tribunali e le corti d’appello
di Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano,
Napoli, Palermo, Roma, Torino, Trieste e Venezia sezioni specializzate in materia di impresa, senza oneri
aggiuntivi per il bilancio dello Stato né incrementi di
dotazioni organiche (4).
1 bis. Sono altresì istituite sezioni specializzate in materia di impresa presso i tribunali e le corti d’appello
aventi sede nel capoluogo di ogni regione, ove non esistenti nelle città di cui al comma 1. Per il territorio
compreso nella regione Valle d’Aosta/Vallè d’Aoste sono competenti le sezioni specializzate presso il tribunale
e la corte d’appello di Torino. È altresì istituita la sezione specializzata in materia di impresa del tribunale e
della corte di appello (sezione distaccata) di Bolzano. È
altresì istituita la sezione specializzata in materia di impresa presso il tribunale e la corte d’appello di Brescia.
L’istituzione delle sezioni specializzate non comporta incrementi di dotazioni organiche (5).
Art. 2.
Composizione delle sezioni e degli organi giudicanti
1. I giudici che compongono le sezioni specializzate sono
scelti tra i magistrati dotati di specifiche competenze (6).
2. Ai giudici delle sezioni specializzate può essere assegnata, rispettivamente dal Presidente del tribunale o
della corte d’appello, anche la trattazione di processi diversi, purché ciò non comporti ritardo nella trattazione
e decisione dei giudizi in materia di impresa (7).
(Omissis).
Art. 3.
Competenza per materia delle sezioni specializzate (8).
1. Le sezioni specializzate sono competenti in materia di:
a) controversie di cui all’articolo 134 del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, e successive modificazioni;
(3) Rubrica così sostituita dall’art. 2, comma 1, lett. a), n.
1), d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, conv., con modif., dalla l. 24
marzo 2012, n. 27; per l’applicazione di tale disposizione, vedi
l’art. 2, comma 6, del medesimo d.l. 1/2012.
(4) Comma così modificato dall’art. 2, comma 1, lett. a), n.
2), d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, conv., con modif., dalla l. 24
marzo 2012, n. 27; per l’applicazione di tale disposizione, vedi
l’art. 2, comma 6, del medesimo d.l. 1/2012.
(5) Comma aggiunto dall’art. 2, comma 1, lett. a), n. 3), d.l.
24 gennaio 2012, n. 1, conv., con modif., dalla l. 24 marzo
2012, n. 27; per l’applicazione di tale disposizione, vedi l’art. 2,
comma 6, del medesimo d.l. 1/2012. Successivamente, il presente comma è stato così modificato dall’art. 10, comma 01,
d.l. 23 dicembre 2013, n. 145, conv., con modif., dalla l. 21
712
b) controversie in materia di diritto d’autore;
c) controversie di cui all’articolo 33, comma 2, della
legge 10 ottobre 1990, n. 287;
d) controversie relative alla violazione della normativa
antitrust dell’Unione europea.
2. Le sezioni specializzate sono altresì competenti, relativamente alle società di cui al libro V, titolo V, capi
V, VI e VII, e titolo VI, del codice civile, alle società di
cui al regolamento (CE) n. 2157/2001 del Consiglio,
dell’8 ottobre 2001, e di cui al regolamento (CE) n.
1435/2003 del Consiglio, del 22 luglio 2003, nonché alle stabili organizzazioni nel territorio dello Stato delle
società costituite all’estero, ovvero alle società che rispetto alle stesse esercitano o sono sottoposte a direzione e coordinamento, per le cause e i procedimenti:
a) relativi a rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario, le azioni di
responsabilità da chiunque promosse contro i componenti degli organi amministrativi o di controllo, il liquidatore, il direttore generale ovvero il dirigente preposto
alla redazione dei documenti contabili societari, nonché
contro il soggetto incaricato della revisione contabile
per i danni derivanti da propri inadempimenti o da fatti
illeciti commessi nei confronti della società che ha conferito l’incarico e nei confronti dei terzi danneggiati, le
opposizioni di cui agli articoli 2445, terzo comma, 2482,
secondo comma, 2447 quater, secondo comma, 2487 ter,
secondo comma, 2503, secondo comma, 2503 bis, primo
comma, e 2506 ter del codice civile;
b) relativi al trasferimento delle partecipazioni sociali o
ad ogni altro negozio avente ad oggetto le partecipazioni sociali o i diritti inerenti;
c) in materia di patti parasociali, anche diversi da quelli
regolati dall’articolo 2341 bis del codice civile;
d) aventi ad oggetto azioni di responsabilità promosse
dai creditori delle società controllate contro le società
che le controllano;
febbraio 2014, n. 9.
(6) Comma così sostituito dall’art. 2, comma 1, lett. b), d.l.
24 gennaio 2012, n. 1, conv., con modif., dalla l. 24 marzo
2012, n. 27; per l’applicazione di tale disposizione, vedi l’art. 2,
comma 6, del medesimo d.l. 1/2012.
(7) Comma così modificato dall’art. 2, comma 1, lett. c), d.l.
24 gennaio 2012, n. 1, conv., con modif., dalla l. 24 marzo
2012, n. 27; per l’applicazione di tale disposizione, vedi l’art. 2,
comma 6, del medesimo d.l. 1/2012.
(8) Articolo così sostituito dall’art. 2, comma 1, lett. d), d.l.
24 gennaio 2012, n. 1, conv., con modif., dalla l. 24 marzo
2012, n. 27; per l’applicazione di tale disposizione, vedi l’art. 2,
comma 6, del medesimo d.l. 1/2012.
Le Società 6/2014
Normativa
Processo, arbitrato e mediazione
e) relativi a rapporti di cui all’articolo 2359, primo
comma, numero 3), all’articolo 2497 septies e all’articolo 2545 septies del codice civile;
f) relativi a contratti pubblici di appalto di lavori, servizi o forniture di rilevanza comunitaria dei quali sia parte
una delle società di cui al presente comma, ovvero
quando una delle stesse partecipa al consorzio o al raggruppamento temporaneo cui i contratti siano stati affidati, ove comunque sussista la giurisdizione del giudice
ordinario.
3. Le sezioni specializzate sono altresì competenti per le
cause e i procedimenti che presentano ragioni di connessione con quelli di cui ai commi 1 e 2.
Art. 4.
Competenza territoriale delle sezioni (9)
1. Fermo quanto previsto dal comma 1-bis, che, secondo
gli ordinari criteri di ripartizione della competenza territoriale e nel rispetto delle normative speciali che le disciplinano, dovrebbero essere trattate dagli uffici giudiziari compresi nel territorio della regione sono assegnate
alla sezione specializzata avente sede nel capoluogo di
regione individuato ai sensi dell’articolo 1. Alle sezioni
specializzate istituite presso i tribunali e le corti d’appello non aventi sede nei capoluoghi di regione sono assegnate le controversie che dovrebbero essere trattate dagli uffici giudiziari compresi nei rispettivi distretti di
corte d’appello (10).
1 bis. Per le controversie di cui all’articolo 3 nelle quali
è parte, anche nel caso di più convenuti ai sensi dell’articolo 33 del codice di procedura civile, una società, in
qualunque forma costituita, con sede all’estero, anche
avente sedi secondarie con rappresentanza stabile nel
territorio dello Stato, e che, secondo gli ordinari criteri
di competenza territoriale e nel rispetto delle disposizioni normative speciali che le disciplinano, dovrebbero
essere trattate dagli uffici giudiziari di seguito elencati,
sono inderogabilmente competenti:
1) la sezione specializzata in materia di impresa di Bari
per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Bari,
Lecce, Taranto (sezione distaccata), Potenza;
2) la sezione specializzata in materia di impresa di Cagliari per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di
Cagliari e Sassari (sezione distaccata);
3) la sezione specializzata in materia di impresa di Catania per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di
Caltanissetta, Catania, Catanzaro, Messina, Palermo,
Reggio Calabria;
4) la sezione specializzata in materia di impresa di Genova per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di
Bologna, Genova;
5) la sezione specializzata in materia di impresa di Milano per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Brescia, Milano;
6) la sezione specializzata in materia di impresa di Napoli per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di
corte d’appello di Campobasso, Napoli, Salerno;
7) la sezione specializzata in materia di impresa di Roma
per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Ancona, Firenze, L’Aquila, Perugia, Roma;
8) la sezione specializzata in materia di impresa di Torino per gli uffici giudiziari ricompresi nel distretto di Torino;
9) la sezione specializzata in materia di impresa di Venezia per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di
Trieste, Venezia;
9 bis) la sezione specializzata in materia di impresa di
Trento per gli uffici giudiziari ricompresi nel distretto di
Trento, fermo quanto previsto al numero 9 ter);
9 ter) la sezione specializzata in materia di impresa di
Bolzano per gli uffici giudiziari ricompresi nel territorio
di competenza di Bolzano, sezione distaccata della corte
di appello di Trento (11).
Art. 5.
Competenze del Presidente della sezione specializzata
1. Nelle materie di cui all’articolo 3, le competenze riservate dalla legge al Presidente del tribunale e al Presidente della corte d’appello spettano al Presidente delle
rispettive sezioni specializzate.
…Omissis…
Il commento
di Paolo Celentano (*)
Le modifiche apportate dall’art. 10 del d.l. 23 dicembre 2013, n. 145, conv., con modif., dalla legge 21
febbraio 2014, n. 9, al numero ed alla distribuzione territoriale delle sezioni specializzate in materia di impresa e la correlata concentrazione su alcune soltanto di esse, del tutto impropriamente definite “tribunali
delle società con sede all’estero”, della competenza territoriale in ordine alle controversie, rientranti nella
loro competenza per materia, di cui sia parte una società con sede all’estero.
(9) Articolo così sostituito dall’art. 2, comma 1, lett. e), d.l.
24 gennaio 2012, n. 1, conv., con modif., dalla l. 24 marzo
2012, n. 27; per l’applicazione di tale disposizione, vedi l’art. 2,
comma 6, del medesimo d.l. 1/2012.
(10) Comma così modificato dall’art. 10, comma 1, lett. a),
d.l. 23 dicembre 2013, n. 145, conv., con modif., dalla l. 21
febbraio 2014, n. 9; per l’applicazione di tale disposizione, vedi
Le Società 6/2014
l’art. 10, comma 2 del medesimo d.l. 145/2013.
(11) Comma aggiunto dall’art. 10, comma 1, lett. b), d.l. 23
dicembre 2013, n. 145, conv., con modif., dalla l. 21 febbraio
2014, n. 9; per l’applicazione di tale disposizione, vedi l’art. 10,
comma 2 del medesimo d.l. 145/2013.
(*) Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee.
713
Normativa
Processo, arbitrato e mediazione
Dopo poco più di un anno dalla data della loro
entrata in funzione, le sezioni specializzate in materia di impresa istituite – per i giudizi instaurati a
decorrere dal 22 settembre 2012 e con la del tutto
impropria denominazione di «tribunali delle imprese» – dall’art. 2 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo
2012, n. 27 (1), vedono modificata la loro geografia con una norma inserita in un altro decreto-legge la ragione della cui necessità e della cui urgenza
dovrebbe essere rintracciata (2) nell’intento di
«fornire agli investitori un foro adeguato per la risoluzione delle controversie» (3), ma che in realtà
va essenzialmente individuata nell’esigenza politica
del nostro Governo di sbandierare, soprattutto agli
occhi degli osservatori esteri, un, sia pur settoriale,
miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza del sistema giudiziario italiano, che invece può dirsi
pressoché certo che non sarà conseguito, nemmeno
nei ristretti limiti del reale ambito applicativo della
novella, ancora una volta mascherati con il ricorso
ad un’etichetta decettiva (4).
Stavolta si vorrebbe infatti far credere che sia
stato istituito addirittura un «tribunale delle società con sede all’estero», giacché proprio questa è l’espressione che campeggia nella rubrica (per poi
scomparire nel testo) dell’art. 10 del d.l. 23 dicembre 2013, n. 145, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 24 dicembre 2013 e convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 9, che – riprendendo, anche se con una portata assai più limitata, l’idea alla base dell’art. 80 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, poi, per effetto delle critiche su di
esso da più parti piovute, non convertito in legge (5) – ha, per i giudizi instaurati a decorrere dal
sessantesimo giorno successivo a quello della sua
entrata in vigore, cioè dal 22 febbraio 2014 (6):
A) istituito le sezioni specializzate in materia di
impresa anche presso il Tribunale di Bolzano e la
Sezione distaccata di Bolzano della Corte d’appello
di Trento, attribuendo loro la competenza per territorio in ordine alle «controversie» (o, per meglio
dire, alle «cause», nell’accezione in cui questo termine è utilizzato dalla norme del codice di procedura civile in tema di competenza, ed ai procedimenti di volontaria giurisdizione di carattere non
contenzioso) (7) rientranti nella variegata competenza per materia delle sezioni specializzate in materia di impresa che, secondo gli ordinari criteri di
distribuzione della competenza, spetterebbero agli
uffici giudiziari rientranti nella loro circoscrizione;
2) attribuito «inderogabilmente» la competenza
per territorio in ordine alle «controversie», nel
senso dianzi precisato, che rientrano nella competenza per materia delle sezioni specializzate in ma-
(1) Per un commento del quale mi permetto di rinviare a P.
Celentano, Le sezioni specializzate in materia di impresa, in questa Rivista, 2012, 808, nonché a: G. Casaburi, La tutela della
proprietà industriale e il tribunale delle imprese, ne Il diritto industriale, 2012, 516; M.A. Iuorio, Il Tribunale delle imprese,
2013, in www.judicium.it; A. Motto, Gli interventi legislativi sulla
giustizia civile del 2011 e 2012, in Nuove leggi civ. comm.,
2012, 604. L. Panzani, Nascono sezioni specializzate per le imprese con competenze allargate alle liti societarie, in Gli speciali
di Guida al diritto, 2012, fasc. 17; L. Panzani, Tribunale delle imprese, un intervento troppo timido che lascia l’Italia al palo sulla
riscossione dei crediti, ed E. Riva Crugnola, Tribunale delle imprese, il nodo delle competenze, entrambi in Guida al diritto,
2012, fasc. 9; E. Riva Crugnola, Il tribunale delle imprese, in
www.treccani.it/enciclopedia; F. Santagada, Sezioni specializzate per l’impresa: accelerazione dei processi e competitività delle
imprese, 2012, in www.judicium.it; M. Tavassi, Dalle sezioni
specializzate della proprietà industriale e intellettuale alle sezioni
specializzate in materia di impresa, in Corr. giur., 2012, 1115;
Prima glossa: decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, in Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, a
cura di L.C. Ubertazzi, 2012, 3105.
(2) Secondo quanto può desumersi dal piano “Destinazione
Italia”, nel cui ambito l’intervento normativo si inserisce.
(3) Anche se misteriose ed anche per questo preoccupanti,
se quelle poste tra virgolette nel corpo del testo non fossero
parole in libertà, rimangono le ragioni per le quali le sezioni
specializzate dei tribunali e delle corti d’appello non elette al
rango di “tribunali delle società con sede all’estero” non sareb-
bero adeguate a risolvere le controversie.
(4) Analogo è il giudizio formulato da G. Casaburi, Storia
prima felice, poi dolentissima e funesta, delle sezioni specializzate, ne Il diritto industriale, 2014, 179.
(5) Che prevedeva che tutti i giudizi civili - ad eccezione di
quelli relativi ai procedimenti esecutivi e fallimentari, di quelli
di opposizione di terzo e di quelli di cui agli artt. 25, 409 e 442
c.p.c. e di cui al d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 - nelle quali
fosse parte una società con sede all’estero e priva nel territorio
dello Stato di sedi secondarie con rappresentanza stabile fossero inderogabilmente attribuite, per competenza territoriale,
ai soli uffici giudiziari di Milano, Roma e Napoli.
(6) Che è anche il giorno in cui è entrata in vigore la legge
di conversione n. 9 del 2014. Il che consente di ritener superate le preoccupazioni espresse da M. Farina, Brevi note sul Tribunale delle società con sede all’estero (art. 10 D.l. 145/2013),
in www.judicium.it, 2014, § 2, per il caso in cui il d.l. 145 del
2013 fosse stato convertito da una legge che fosse entrata in
vigore successivamente.
(7) In tal modo deve infatti essere interpretata l’espressione
«le cause e i procedimenti» utilizzata dai tuttora vigenti commi
2 e 3 dell’art. 3 del d.lgs. 168 del 2003 per individuare l’ambito
della (sola) competenza cd. societaria e per connessione delle
sezioni specializzate in materia d’impresa (cfr.: Celentano, op.
cit., 817-818; Motto, op. cit., 28; Santagada, op. cit., 13) e deve
pertanto essere intesa anche la parola «controversie» che figura nei commi 1 e 1bis dell’art. 4 dello stesso decreto legislativo, destinati a regolare la competenza per territorio delle medesime sezioni specializzate.
1. L’intervento normativo sul numero e
sulla competenza territoriale delle sezioni
specializzate in materia di impresa
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Le Società 6/2014
Normativa
Processo, arbitrato e mediazione
teria di impresa e delle quali è parte una società, in
qualunque forma costituita, con sede all’estero, anche se avente sedi secondarie con rappresentanza
stabile nel territorio italiano, ad alcune soltanto
delle sezioni specializzate in materia di impresa,
quelle dei Tribunali e delle Corti d’appello di Bari,
Cagliari, Catania, Genova, Milano, Napoli, Roma,
Torino, Venezia e Trento, del Tribunale di Bolzano e della Sezione distaccata di Bolzano della Corte d’appello di Trento (alle quali dunque spetterebbe il fallace titolo di “tribunali, di prima o di seconda istanza, delle società con sede all’estero”),
sottraendola alle sezioni specializzate in materia di
impresa dei Tribunali e delle Corti d’appello di Potenza, Palermo, Catanzaro, Bologna, Brescia, Campobasso, Ancona, Firenze, Perugia, L’Aquila e
Trieste (condannate a mantenere il “più basso rango” di “tribunali delle imprese di prima o di seconda istanza”).
L’idea di fondo è insomma ancora una volta
quella – sottesa a tutti i recenti interventi normativi sulla geografia giudiziaria italiana, solo in parte
condivisibile e comunque qui, come altrove, malamente implementata – che la riduzione del numero
degli uffici giudiziari e la correlativa attribuzione a
quelli restanti o soltanto ad alcuni di quelli restanti
di più ampie competenze, soprattutto quelle in cui
sono più fortemente coinvolti gli interessi degli imprenditori, giova all’efficienza ed all’efficacia dell’intero sistema giudiziario e lo rende così più appetibile (o, forse, sarebbe meglio dire meno inappetibile) per gli investitori esteri.
Ma la debolezza del legislatore nel perseguirla
emerge già dalla contraddizione insita nell’istituzione, ad opera della legge di conversione del d.l. 145
del 2013, delle sezioni specializzate in materia
d’impresa del Tribunale di Bolzano e della Sezione
distaccata di Bolzano della Corte d’appello di
Trento e nell’attribuzione anche a queste sezioni
specializzate del rango di “tribunali delle società
con sede all’estero”.
Per effetto del nuovo intervento normativo, la
già complicata mappa delle sezioni specializzate in
materia di impresa risulta, per i soli giudizi instau-
rati (8) a decorrere dal 22 febbraio 2014, ridisegnata come segue.
Le controversie che – ai sensi dell’art. 3 del
d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168, come modificato dall’art. 2, comma 1, lett. d), del d.l. 24 gennaio 2012,
n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24
marzo 2012, n. 27 – rientrano nella competenza
per materia delle sezioni specializzate in materia di
impresa sono, in linea generale, attribuite dal comma 1 dell’art. 4 del predetto decreto legislativo alle
Sezioni specializzate istituite presso i Tribunali e le
Corti d’appello di Ancona, Bari, Bologna. Brescia,
Cagliari, Campobasso, Catania, Catanzaro, Firenze,
Genova, L’Aquila, Milano, Napoli, Palermo, Perugia, Potenza, Torino, Trento, Trieste e Venezia, il
Tribunale di Bolzano e la Sezione distaccata di
Bolzano della Corte d’appello di Trento, se, in applicazione delle ordinarie regole di competenza e
delle disposizioni speciali che le disciplinano, sarebbero attribuite ad uffici giudiziari ricompresi
nelle rispettive circoscrizioni.
Ma allorché delle medesime controversie «è parte, anche nel caso di più convenuti ai sensi dell’art.
33 del codice di procedura civile, una società, in
qualsiasi forma costituita, con sede all’estero, anche se avente sedi secondarie con rappresentanza
stabile nel territorio dello Stato» italiano, la relativa competenza per territorio è «inderogabilmente»
attribuita dal comma 1bis aggiunto all’art. 4 del
d.lgs. 168 del 2003 dall’art. 10 del d.l. 145 del
2013, come modificato in sede di conversione:
1) alle Sezioni specializzate del Tribunale e della
Corte d’appello di Bari, se, secondo gli stessi criteri
indicati dal comma 1 del citato art. 4, spetterebbe
agli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Bari,
Lecce (9) e Potenza;
2) alle Sezioni specializzate del Tribunale e della
Corte d’appello di Cagliari, se, secondo i predetti
criteri, spetterebbe agli uffici giudiziari ricompresi
nel distretto di Cagliari (10);
3) alle Sezioni specializzate del Tribunale e della
Corte d’appello di Catania, se, secondo i predetti
criteri, spetterebbe agli uffici giudiziari ricompresi
nei distretti di Caltanissetta, Catania, Catanzaro,
Messina, Palermo e Reggio di Calabria;
4) alle Sezioni specializzate del Tribunale e della
Corte d’appello di Genova, se, secondo i predetti
(8) Cioè, in mancanza di più precise indicazioni, verosimilmente per i giudizi il cui primo grado sia instaurato mediante
un ricorso depositato ovvero una citazione la cui notificazione
sia stata ricevuta dalla parte convenuta
(9) In cui rientra la circoscrizione della Sezione distaccata di
Taranto della Corte d’appello di Lecce.
(10) In cui è compresa la circoscrizione della Sezione distaccata di Sassari della Corte d’appello di Cagliari.
2. La nuova mappa delle sezioni
specializzate in materia di impresa
Le Società 6/2014
715
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Processo, arbitrato e mediazione
criteri, spetterebbe agli uffici giudiziari ricompresi
nei distretti di Bologna e Genova;
5) alle Sezioni specializzate del Tribunale e della
Corte d’appello di Milano, se, secondo i predetti
criteri, spetterebbe agli uffici giudiziari ricompresi
nei distretti di Brescia e Milano;
6) alle Sezioni specializzate del Tribunale e della
Corte d’appello di Napoli, se, secondo i predetti
criteri, spetterebbe agli uffici giudiziari ricompresi
nei distretti di Campobasso, Napoli e Salerno;
7) alle Sezioni specializzate del Tribunale e della
Corte d’appello di Roma, se, secondo i predetti criteri, spetterebbe agli uffici giudiziari ricompresi nei
distretti di Ancona, Firenze, L’Aquila, Perugia e
Roma;
8) alle Sezioni specializzate del Tribunale e della
Corte d’appello di Torino, se, secondo i predetti
criteri, spetterebbe agli uffici giudiziari ricompresi
nel distretto di Torino;
9) alle Sezioni specializzate del Tribunale e della
Corte d’appello di Venezia, se, secondo i predetti
criteri, spetterebbe agli uffici giudiziari ricompresi
nel distretto di Trieste e Venezia;
10) alle Sezioni specializzate istituite presso il
Tribunale e la Corte d’appello di Trento, se, secondo i predetti criteri, spetterebbe agli uffici giudiziari
ricompresi nel circondario del Tribunale di Trento;
11) alle Sezioni specializzate istituite presso il
Tribunale e la Sezione distaccata di Bolzano della
Corte d’appello di Trento se, secondo i predetti
criteri, spetterebbe agli uffici giudiziari ricompresi
nel circondario del Tribunale di Bolzano.
3. L’ultraspeciale competenza per territorio
delle sezioni specializzate in materia
d’impresa per le società con sede all’estero
S’è visto che il criterio sulla cui base le «controversie», nel senso dianzi precisato, rientranti nella
competenza per materia delle sezioni specializzate
in materia di impresa (11) sono – dal nuovo comma 1bis dell’art. 4 del d.lgs. n. 168 del 2003 – attribuite, per competenza territoriale, alle sole 22 sezioni specializzate (11 di primo e 11 di secondo
grado) sopra indicate (che potremmo, nel loro in(11) Oltre che, ovviamente, sotto la giurisdizione italiana.
(12) Come già giustamente evidenziato da Farina, op. cit., §
3.
(13) E per questo ritenuto «sul filo del rasoio della illegittimità costituzionale» da Casaburi, Storia, cit., 180.
(14) E che vale solo ai fini dell’individuazione della sezione
specializzata in materia d’impresa territorialmente competente, non rientrando tra i criteri oggettivi e soggettivi sulla cui ba-
716
sieme, definire il “foro in materia d’impresa delle
società con sede all’estero”) è costituito dall’esser
«parte» dei relativi giudizi, «anche nel caso di più
convenuti ai sensi dell’art. 33 del codice di procedura civile», una società, in qualsiasi forma costituita, con sede all’estero, sebbene avente sedi secondarie con rappresentanza stabile in Italia.
Si tratta dunque (12) di un criterio di attribuzione della competenza per territorio di carattere soggettivo (13) ed espressamente qualificato come inderogabile (14), che subito richiama alla mente
quello – da cui il legislatore ha evidentemente tratto l’ispirazione – volto ad individuare il cd. foro
erariale, dettato dall’art. 25 c.p.c. per attribuire «le
cause in cui è parte un’amministrazione dello Stato» al tribunale od alla corte d’appello ove ha sede
l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova il tribunale o la corte d’appello che sarebbe competente secondo le ordinarie norme in
tema di distribuzione della competenza territoriale
o, quando l’amministrazione dello Stato è convenuta, che sarebbe competente sulla base del luogo
in cui è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione o in
cui si trova la cosa mobile o immobile oggetto della domanda» nei casi previsti dagli artt. 6 e ss. del
testo unico delle norme sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato approvato con il r.d. 30
ottobre 1933, n. 1611, e perciò «anche nel caso di
più convenuti ai sensi dell’art. 98 del codice di
procedura civile», secondo quanto disposto dal primo comma del cit. art. 6 (15).
Il raffronto cum grano salis con la – più completa
e, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, ovviamente
più arata – disciplina del cd. foro erariale può dunque costituire un utile strumento per la risoluzione
dei non pochi problemi che la lacunosa novella in
esame pone all’interprete.
Alla stregua della nuova disciplina in esame sufficientemente chiara è infatti soltanto l’attribuzione alle suddette 22 sezioni specializzate dei procedimenti contenziosi o di volontaria giurisdizione
(evidentemente rientranti nella competenza per
materia delle sezioni specializzate) in cui una società con sede all’estero, anche se di nazionalità italiana (16), è l’unica parte attrice (o ricorrente) o
se è - dall’art. 3 del d.lgs. n. 168 del 2003 - individuata la competenza per materia della generalità delle sezioni specializzate
in materia d’impresa.
(15) Facendo riferimento all’art. 98 dell’abrogato codice di
procedura civile del 1865, cui corrisponde l’art. 33 del vigente
codice di rito.
(16) Cfr. Farina, op. cit., § 5.
Le Società 6/2014
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Processo, arbitrato e mediazione
l’unica parte sin dall’inizio convenuta in giudizio (17) oppure almeno una delle più parti sin dall’inizio cumulativamente convenute in giudizio nei
casi previsti dall’art. 33 c.p.c., cioè in considerazione della connessione per l’oggetto od il titolo delle
relative cause (18) (ipotesi, quest’ultima, che si
suol definire di cumulo soggettivo passivo originario di cause per connessione oggettiva propria).
Ma alla medesima conclusione deve abbastanza
sicuramente pervenirsi – coniugando i princìpi generali in tema di litisconsorzio necessario con la
lettera del comma 1bis dell’art. 4 del d.lgs. 168 del
2003 – in relazione a tutti i casi in cui una o più
società con sede all’estero siano litisconsorti necessarie, dal lato attivo o dal lato passivo, anche solo
per ragioni di carattere processuale, di un procedimento rientrante nella competenza per materia
delle sezioni specializzate in materia d’impresa (19).
Più difficile è stabilire se spettino allo speciale
“foro in materia d’impresa delle società con sede
all’estero” anche i procedimenti, rientranti nella
competenza per materia delle sezioni specializzate
in materia di impresa, che, pur non dovendo essere
necessariamente promossi da o contro una o più
società con sede all’estero, (a) siano stati promossi
contro una o più di siffatte società ed uno o più
soggetti che non sono tali fuori dai casi previsti
dall’art. 33 c.p.c. o (b) da una o più società con sede all’estero insieme a soggetti che non sono tali
oppure (c) ai quali una società con sede all’estero
sia stata chiamata a partecipare, ad istanza di parte
o iussu iudicis, od abbia deciso di partecipare intervenendovi volontariamente.
Almeno a prima vista, la lettera del nuovo comma 1bis dell’art. 4 del d.lgs. 168 del 2003 potrebbe
infatti far propendere per la validità in tutti questi
casi di una soluzione positiva del problema in esame.
Se però si considera che il legislatore ha ritenuto
necessario o quanto meno opportuno precisare che
la competenza territoriale delle sezioni specializzate
in materia di impresa di cui al comma 1bis del
comma 4 del d.lgs. 168 del 2003 vale, per di più
inderogabilmente, anche nei casi di cumulo soggettivo passivo originario di cause oggettivamente
connesse in senso proprio, sebbene tale conclusione potesse essere autorizzata già dall’espressa attribuzione alle suddette sezioni specializzate delle
«controversie», nel senso dianzi precisato, di cui è
«parte» una società con sede all’estero, il suo silenzio in relazione alle altre ipotesi di cumulo soggettivo di cause pare assai significativo ed induce a ritenere che in questi casi continuino a valere le “regole ordinarie”, cioè i principi dettati dal codice di
rito alla stregua dei quali, fatti salvi i casi di litisconsorzio necessario, il cumulo soggettivo di cause
non è idoneo a determinare modificazioni della
competenza fuori dai casi di cui agli artt. 31 e ss.
c.p.c., a maggior ragione se successivo e dunque
idoneo indirettamente ad incidere anche sul principio generale di cui all’art. 5 c.p.c. (20).
D’altronde, la validità di questa conclusione
sembra essere confermata dalla mancanza nella disciplina del “foro delle società con sede all’estero”
di una norma come quella dettata in tema di “foro
erariale” dall’art. 6, comma 2, del r.d. 1611 del
1933, secondo cui «Quando un’Amministrazione
dello Stato è chiamata in garanzia, la cognizione
così della causa principale come della azione in garanzia è devoluta, sulla semplice richiesta dell’Amministrazione, con ordinanza del Presidente, all’Autorità giudiziaria competente a norma del com-
(17) Per l’estensione della competenza delle sezioni specializzate in materia d’impresa per le società con sede all’estero
anche al caso in queste siano parti attrici o ricorrenti sono in
definitiva anche: Farina, op. cit., § 3, Casaburi, Storia, cit., 180;
G. Cavani, Sezioni specializzate: di male in peggio, ne Il diritto
industriale, 2014, 184.
(18) Cfr. Farina, op. cit., § 3.
(19) Nel senso della prevalenza del cd. foro erariale, in relazione all’analogo problema che si pone nel caso in cui tra i litisconsorti necessari di un processo rientrante nella competenza per materia del tribunale o della corte d’appello vi sia
un’amministrazione dello Stato, cfr.: Cass., 21 luglio 2000, n.
9597, in Foro it., 2001, I, 2609, ed in Giust. civ., 2001, I, 776.
(20) Nella stessa logica si muove Farina, op. cit., § 3 e § 4,
secondo il quale tuttavia il nuovo comma 1bis dell’art. 4 del
d.lgs. 168 del 2003 disciplinerebbe unitariamente tutti i procedimenti in cui più cause siano cumulativamente proposte sin
dall’inizio contro più soggetti alcuni soltanto dei quali siano società con sede all’estero, attribuendoli alle sezioni specializzate
ivi indicate, giacché il riferimento ivi contenuto alle ipotesi di litisconsorzio passivo di cui all’art. 33 c.p.c. varrebbe «solo a di-
sciplinare, in modo espresso e specifico, una ulteriore “deroga” agli “ordinari” criteri di competenza operanti per le liti oggettivamente e soggettivamente riconducibili a quelle elencate
nell’articolo 3» del d.lgs. cit., mentre a conclusione opposta
dovrebbe pervenirsi nelle ipotesi, non disciplinate dal cit. comma 1 bis, di procedimenti in cui più cause siano promosse sin
dall’inizio cumulativamente da più soggetti alcuni soltanto dei
quali siano società con sede all’estero od in cui una società
con sede all’estero sia chiamata a partecipare, ad istanza di
parte o iussu iudicis, ovvero sia intervenuta volontariamente.
Anche Casaburi, Storia, cit., 182, poi propende per l’inapplicabilità del criterio di attribuzione della competenza territoriale
dettato dall’art. 4, comma 1bis del d.lgs. 168 del 2003 ai casi
in cui una società con sede all’estero venga chiamata a partecipare al processo o vi intervenga volontariamente solo dopo il
suo inizio. Secondo Cavani, Sezioni, cit., 184, invece l’inderogabilità del predetto criterio dovrebbe forse comportare lo spostamento alla sezione specializzata in materia d’impresa delle
società con sede all’estero anche delle controversie in cui una
di tali società sia chiamata in causa.
Le Società 6/2014
717
Normativa
Processo, arbitrato e mediazione
ma precedente», cioè al tribunale od alla corte
d’appello del luogo dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova il tribunale o la corte d’appello che sarebbe competente
secondo le norme ordinarie.
Ai fini di quanto previsto dal comma 1bis dell’art. 4 del d.lgs. 168 del 2003, il concetto di «parte» deve poi, tenuto conto della ratio della previsione, intendersi in senso sostanziale, anche perché, ad opinare il contrario, l’individuazione della
sezione specializzata in materia d’impresa territorialmente competente verrebbe a dipendere da un
fattore avventizio e manipolabile, quale la decisione di una società con sede in Italia di farsi volontariamente rappresentare o meno in giudizio da
una società con sede all’estero o viceversa, e dunque contrastante con l’esigenza costituzionale di
precostituzione del giudice competente (21).
Infine va rilevato che la competenza territoriale
attribuita alle sezioni specializzate in materia d’impresa individuate sulla base del comma 1bis dell’art. 4 del d.lgs. 168 del 2003 (cioè il cd. foro delle
società con sede all’estero) è dal legislatore espressamente dichiarata inderogabile, a differenza di
quella delle “comuni” (od “ordinarie”) sezioni spe-
cializzate in materia d’impresa di cui al primo comma dello stesso articolo.
Il che, in mancanza di ulteriori precisazioni, dovrebbe comportare:
1) che l’incompetenza per territorio di una “ordinaria” sezione specializzata in materia d’impresa
erroneamente adita, in primo grado, ai fini della risoluzione di una controversia rientrante nella specialissima competenza per territorio di una sezione
specializzata in materia d’impresa “per le società
con sede all’estero” sulla base di quanto disposto
dal comma 1bis dell’art. 4 del d.lgs. 168 del 2003
potrà, ai sensi dell’art. 38 c.p.c., essere eccepita da
ciascuna delle parti, a pena di decadenza, con la
comparsa di risposta oppure essere rilevata dal giudice d’ufficio non oltre l’udienza di cui all’art. 183
c.p.c.;
2) che la disposizione di cui al comma 1bis dell’art. 4 del d.lgs. 168 del 2003 non potrà in alcun
caso essere derogata per accordo delle parti (22)
(nemmeno in favore di una “sezione specializzata
in materia d’impresa delle società con sede all’estero” diversa da quella individuata sulla base di detta
norma) (23).
(21) Per la medesima conclusione, anche se sulla base di
considerazioni non del tutto coincidenti con quelle esposte nel
corpo del testo, cfr. Farina, op. cit., § 5.
(22) Di diversa opinione è Farina, op. cit., § 3 e § 7, secondo
il quale, in sintesi, le regole dettate dal comma 1bis dell’art. 4
del d.lgs. 168 del 2003 per l’individuazione delle sezioni specializzate in materia d’impresa di volta in volta territorialmente
competenti possono essere derogate col consenso della o di
tutte le società con sede all’estero coinvolte nella controversia
come parti attrici o convenute, nel cui esclusivo interesse esse
sarebbero poste, sicché la loro inosservanza non potrebbe essere rilevata dal giudice d’ufficio contro la volontà di tali società.
(23) Invece, secondo Casaburi, Storia, cit., 181, «“tra” sezioni specializzate non possono che operare i criteri ordinari il
che, in particolare, comporta la piena derogabilità del criterio
di competenza per territorio».
718
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Processo, arbitrato e mediazione
Insider trading
La decadenza dal potere
sanzionatorio della Consob
Corte d’Appello di Milano, sez. I, 4 aprile 2013 - Pres. Vigorelli - Est. D’Anella - D.P. c. Consob
Abuso d’informazioni privilegiate - Accertamento - Conclusione - Invio contestazione - Termini - Decadenza
(D.Lgs. n. 58/1998 art. 187 septies; Legge n. 62/2005; Delibera Consob 2 agosto 2000, n. 12697; Reg. Consob 21 giugno 2005, n. 15086).
Il termine di decadenza per l’invio della contestazione in tema di abuso d’informazioni privilegiate, decorre da
quello di conclusione dell’accertamento dell’illecito.
Accertamento - Durata - Ragionevolezza - Complessità e laboriosità indagine - Elaborazione complessiva situazione Necessità
(D.Lgs. n. 58/1998, art. 187 septies; Legge n. 62/2005; Delibera Consob 2 agosto 2000, n. 12697; Reg. Consob 21 giugno 2005, n. 15086).
Il termine di ragionevole conclusione dell’accertamento, nel contemperamento tra la garanzia di un effettivo
esercizio del diritto di difesa dell’incolpato e l’esigenza dell’amministrazione di elaborare i dati raccolti, deve
comunque tener conto delle necessità dell’istruttoria, connesse al numero dei soggetti coinvolti e delle fattispecie esaminate.
Dies a quo per contestazione - Tempo necessario valutazione idoneità fatto ad integrare illecito e tempo necessario o ragionevole per accertamento - Sussistenza - Contemperamento ai fini del computo con diritto difesa incolpato - Sussistenza
(D.Lgs. n. 58/1998, art. 187 septies; Legge n. 62/2005; Delibera Consob 2 agosto 2000, n. 12697; Reg. Consob 21 giugno 2005, n. 15086)
Il dies a quo per l’inoltro di tale contestazione s’individua quindi nel momento in cui l’accertamento è stato
compiuto o avrebbe dovuto essere ragionevolmente effettuato, tenuto conto anche del tempo per la verifica
della sussistenza effettiva degli illeciti.
La Corte (omissis).
La sentenza è pubblicata in questo fascicolo a pag. 697.
Corte d’Appello di Milano, sez. I, 23 agosto 2013, n. 2603 - - Pres. Tarantola - Rel. Bonaretti - A. Z. c. CONSOB
Abuso d’informazioni privilegiate - Procedimento sanzionatorio - Termini - Garanzia incolpato ed esigenze d’indagine Sussistenza
(Legge n. 689/1981, art. 14; D.Lgs n. 285/1992, art. 201; D.Lgs. n. 58/1998, art. 187 septies, comma 1; Legge n.
62/2005; Delibera Consob 2 agosto 2000, n. 12697; Reg. Consob 21 giugno 2005, n. 15086).
Il termine legale per il procedimento sanzionatorio in tema di market abuses è stabilito a garanzia dell’accusato ed imposto dalla natura e dalla complessità delle indagini richieste, giacché l’accertamento degli illeciti
non si sostanzia nella semplice constatazione di fatti o di datti, ma ne impone la sua elaborazione.
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719
Giurisprudenza
Processo, arbitrato e mediazione
Accertamento illeciti - Durata indagini - Discrezionalità - Limiti - Collegamento atti con esigenze istruttorie - Ingiustificata
e protratta inerzia - Illegittimità
(Legge n. 689/1981, art. 14; D.Lgs. n. 285/1992, art. 201; D.Lgs. n. 58/1998, art. 187 septies, comma 1; Legge n.
62/2005; Delibera Consob 2 agosto 2000, n. 12697; Reg. Consob 21 giugno 2005, n. 15086).
La discrezionalità amministrativa nel compimento degli atti istruttori rinviene il suo limite nella relativa funzionalità all’esigenza d’indagine, tal che essa cede in ipotesi d’ingiustificata e protratta inerzia dell’autorità.
Valutazione emergenze ai fini della contestazione - Spatium deliberandi - Congruità e ragionevolezza - Violazione - Decadenza
(Legge n. 689/1981, art. 14; D.Lgs. n. 285/1992, art. 201; D.Lgs. n. 58/1998, art. 187 septies, comma 1; Legge n.
62/2005; Delibera Consob 2 agosto 2000, n. 12697; Reg. Consob 21 giugno 2005, n. 15086)
La valutazione delle risultanze istruttorie, ai fini della contestazione degli addebiti all’accusato, deve avvenire
in tempi ragionevoli, tenuto conto della complessità delle vicende, del numero delle violazioni, dei soggetti
coinvolti e dell’entità degli elementi acquisiti. La dilatazione dei termini per la contestazione non può essere
giustificata dal ricorso ad attività d’indagine non essenziali ovvero dal ritardo immotivato nell’audizione dell’incolpato.
La Corte (omissis).
Motivi della decisione
Il termine in esame è il doppio di quelli normalmente
previsti per i procedimenti sanzionatori relativi a violazioni di altra natura (in genere, 90 giorni, cfr. art. 14 L.
n. 689 del 1981, 201 D.Lgs. n. 285 del 1992, ecc.) e
inoltre è suscettibile, come per lo più avviene, di inserirsi in un intervallo temporale ben più ampio, imposto
dalla natura delle indagini necessarie all’accertamento
dei peculiari illeciti del settore (abuso d’informazioni
privilegiate).
Invero, l’accertamento dei detti illeciti non si esaurisce
normalmente nella constatazione di fatti immediatamente percepibili o nella semplice acquisizione di dati,
ma postula l’elaborazione degli elementi acquisiti durante le indagini e fa spesso apparire imprescindibile il ricorso a considerazioni di natura presuntiva, che impongono tuttavia particolare cautela, anche a motivo della
gravità delle conseguenze per i soggetti passibili di sanzioni.
Il tutto evidentemente si traduce in un aggravio anche
sotto il profilo temporale, di talché alla chiusura delle
indagini va aggiunto un termine (ragionevole) per la
(finale) valutazione degli elementi raccolti ovvero un
congruo spatium deliberandi.
Tuttavia, il termine di 180 giorni esiste, è stabilito dalla
legge anche a garanzia dell’accusato e non può essere
eccessivamente dilatato sulla base di una discrezionalità
dell’autorità procedente insuscettibile di controllo.
In tal senso si è espressa autorevole e condivisibile giurisprudenza che, ferma l’insindacabilità della scelta del
compimento di atti istruttori sotto il profilo dell’opportunità e della concreta utilità, non certo contestabile a
posteriori (beninteso, ove gli stessi atti non risultino palesemente abnormi o inconferenti ai fini investigativi),
ha individuato al riguardo il limite (lecito) della discrezionalità amministrativa nel “collegamento” di tali atti
istruttori e nel loro “compimento senza apprezzabile in-
720
tervallo”, di talché l’eccessivo lasso temporale risulterebbe censurabile soltanto nel caso di “ingiustificata e
protratta inerzia da parte della PA durante o dopo la
raccolta dei dati d’indagine relativi all’accertamento di
uno o più illeciti” (cfr. Cass. 16642/2005).
Né diverse considerazioni debbono svolgersi con riguardo allo spatium deliberandi, la valutazione della cui congruità e ragionevolezza non può che poggiare su elementi obiettivi (complessità delle vicende e numero
delle violazioni e dei soggetti coinvolti, entità degli elementi istruttori acquisiti, ecc.), ma “senza che si possa
tenere conto di ingiustificati ritardi, derivanti da disfunzioni burocratiche o artificiose protrazioni nello svolgimento dei compiti assegnati” ai diversi organi, ispettivi
o valutativi (cfr. Cass. SU 5395/2007, Cass.
25836/2011) e senza trascurare che neppure l’attività
valutativa può essere di per sé irragionevolmente dilatata, atteso che, come riconosciuto dalla stessa Consob
(cfr. memoria 24.4.2013, pag. 5), la stessa “...attività valutativa non ha inizio con l’ultimo atto di acquisizione
di dati e informazioni, ma è svolta man mano che tali
elementi informativi vengono acquisiti”, proprio perché
indispensabile anche all’apprezzamento dell’utilità della
scelta, “ai fini dell’indagine, di procedere ad ulteriori
acquisizioni di dati e informazioni”.
Orbene, venendo al caso di specie, l’ampio lasso temporale pacificamente intercorso tra avvio del procedimento (17.9.2009) e contestazione a Z. (17.11.2011), ben
superiore ai due anni, è stato spiegato da Consob anzi
tutto con riferimento alla complessità delle vicende e
delle relative indagini, che riguardavano:
- tre OPA diverse (in relazione a tre incarichi di consulenza svolti da Deloitte);
- una pluralità di soggetti coinvolti a vario titolo (R.,
Z., D.P., M.; Deloitte e diversi intermediari, ecc.) e la
loro progressiva “emersione”;
- la necessità di esaminare le rispettive condotte e i ruoli assunti, nonché la documentazione acquisita (senz’al-
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Processo, arbitrato e mediazione
tro di mole ingente: comunicati societari, studi di analisti finanziari, rumour riportati dalla stampa, ecc.); la necessità di attendere le risposte ai quesiti e alle informazioni via via richieste dalla stessa Consob ai diversi soggetti; di valutare ed elaborare i risultati progressivamente acquisiti, in funzione sia dell’accertamento di eventuali violazioni, sia dell’apprezzamento della eventuale
necessità/opportunità di nuove e ulteriori indagini, ecc.
(cfr., in particolare, la memoria di costituzione Consob,
pagg. 11-16, e la tabella riepilogativa sub doc. 13, con
relativi allegati, ove si riportano in dettaglio le attività
d’indagine svolte, nonché l’atto di accertamento, ancora più corposo).
In effetti, non pare agevole negare tale complessità, che
ragionevolmente esiste e può riguardarsi come dato acquisito, ma tale rilievo - che, sulla base della giurisprudenza già sopra richiamata, non esime la corte dal verificare se nella fattispecie siano ravvisabili irragionevoli
ritardi, ingiustificata inerzia, attività istruttoria ex ante
palesemente inutile- non risulta dirimente, venendo a
confliggere con due ulteriori circostanze, ben evidenziate dalla difesa del ricorrente:
- la disponibilità di dati evidentemente significativi (in
particolare e-mail e movimentazione dei conti correnti
di Z. e del D.P.) già nel maggio-giugno 2010;
- la contestazione di fatti di abuso di informazioni privilegiate avvenuta già il 25.1.2011 nei confronti di R.R.,
dirigente e socio (partner) di Deloitte FAS, persona
che aveva acquistato azioni Marazzi Group e poi Guala
Closures e Permasteelisa e dalla quale erano partite le
indagini.
Dette ulteriori circostanze, con i sottesi argomenti difensivi del ricorrente, Consob ritiene di poter affrontare
e superare, osservando che:
- gli stessi dati ottenuti semmai, nel loro complesso, soltanto nel settembre/ottobre 2010, a seguito delle audizioni di A.S., socio (partner) di Deloitte (22.7.2010) e
di J.R.N., socio (partner) nonché presidente e amministratore delegato di Deloitte FAS spa (17.9.2010) e delle successive integrazioni documentali (13.10.2010), richiedevano necessariamente, per essere intesi e compresi appieno, l’audizione personale di Z. (e D.P.);
- appariva altresì indispensabile attendere gli esiti delle
richieste all’autorità elvetica (aprile/luglio 2011), interpellata con riguardo all’operatività sui conti esteri di
M.M., altro dipendente Deloitte, amico e collega di Z.,
per verificare se quest’ultimo non avesse effettuato investimenti anche con il primo (cfr. memoria Consob
24.4.2013, pagg. 5-6).
In proposito, peraltro, la corte ritiene più adeguate e
convincenti le osservazioni critiche del ricorrente, il
quale sottolinea che:
- non vi era ragione, sentito Noble nel settembre 2010,
di attendere sino a marzo - anzi, ad aprile 2011, essendo
risultato non corretto l’indirizzo dell’invito spedito da
Consob a marzo 2011- per fissare l’audizione di Z. (e del
D.P.), audizioni che, tenutesi nel successivo mese di
maggio 2011, in quanto volte: i) a chiarire tempi e modi di conoscenza da parte Z. delle informazioni privilegiate, ii) ad accertare senso e portata delle e-mail, an-
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che criptiche, Z./D.P. già acquisite circa un anno prima,
insieme alla relazione predisposta dall’“investigation
team” di Deloitte (maggio 2010), nonché iii) ad acclarare il significato complessivo dei rapporti (e dei bonifici)
intercorsi tra i due; audizioni, si diceva, che, in quanto
volte ai detti fini, ben potevano (e dovevano) essere disposte anche anteriormente, contestualmente o comunque in un momento appena successivo a quelle della S.
e di Noble e non già soltanto a distanza di oltre sei mesi, lasso di tempo -di per sé solo-pari, se non superiore,
a quello di decadenza fissato ex lege;
- le richieste all’autorità svizzera (da questa evase il
6.7.2011 con risposta negativa su operazioni circa strumenti finanziari - azioni Guala, Marazzi e Permasteelisa
- compiute per conto di M.) erano state avanzate da
Consob il 16.5.2011 e con domande specifiche relative
alla posizione M. (se cioè vi fossero, da parte di M.,
conti e acquisti dei titoli in contestazione, Marazzi,
Guala, Permasteelisa, e, in caso di risposta positiva a
quest’ultima domanda, anche eventuali operazioni su
strumenti finanziari diversi, cfr. doc. 13 all. 71, pagg. 3
e 4), sicché le stesse apparivano inidonee (anche nel
caso, non verificatosi, di esito positivo nei confronti del
M.) a produrre risposte suscettibili d’influire pure sulla
posizione Z. (le cui movimentazioni bancarie, tra l’altro,
erano già da circa un anno nella disponibilità di Consob, che evidentemente non aveva rilevato disposizioni
da o su conti esteri), senza contare che analogo trattamento non era stato riservato a R., il quale già aveva ricevuto la contestazione (25.1.2011), nonostante i frequenti contatti e il rapporto di amicizia intrattenuto
con M.; il che pare anche superare la necessità, dedotta
da Consob (cfr. memoria di costituzione, pag. 20), di
“impegnare” lo spazio intercorso tra il settembre 2010 e
la richiesta all’agenzia delle entrate (marzo 2011) con la
valutazione della “imponente mole” degli elementi
istruttori raccolti, in particolare sul carattere privilegiato delle tre informazioni relative alle operazioni in contestazione e con la verifica della posizione R., nei confronti del quale si è proceduto “illico et immediate alla
contestazione degli addebiti, essendosi pervenuto all’accertamento dell’illecito”;
- non erano state allegate (e comunque non risultavano
agli atti) ulteriori, specifiche ragioni d’interdipendenza
con altre e diverse indagini non concluse, tali da giustificare il differimento dei termini di contestazione nei
confronti di un soggetto, come Z., per il quale le indagini risultavano in sostanza già compiute (e ciò anche tenendo conto, come appena sopra osservato, del differente trattamento riservato a R.).
In conclusione, e in estrema sintesi, il dato temporale
depone ex se a favore della decadenza, essendo trascorso
tra inizio del procedimento (settembre 2009) e contestazione (novembre 2011) un periodo superiore a due
anni e considerato che il materiale rilevante e già sufficientemente significativo per le accuse formulate (email e movimentazione bancaria Z./D.P.) risulta acquisito già nell’estate del 2010.
Tale spazio temporale Consob ha tentato di giustificare
- onde escludere la lamentata decadenza - adducendo
721
Giurisprudenza
Processo, arbitrato e mediazione
argomenti che, secondo la corte, non reggono a un sereno vaglio critico: quanto all’audizione personale di Z. (e
D.P.), perché non appare sostanzialmente motivato il
rinvio sino a primavera 2011; quanto all’attesa delle risposte dell’autorità svizzera (luglio 2011) perché le stesse riguardano la posizione di altra persona.
Tutto ciò induce a ravvisare nella lunga attesa - vuoi
della convocazione per l’audizione di Z. (davvero eccessiva, tanto da dar corpo alla tesi difensiva del ricorrente, che vi ravvisa un accorgimento, da parte Consob,
meramente funzionale a ottenere una indebita dilatazione dei tempi per cercare di superare la decadenza già
verificatasi, cfr memoria Z., 27.5.2013, pag. 3), vuoi
dell’esito delle indagini svizzere (comunque insuscettibili, avuto riguardo al tenore delle domande poste, di fornire risposte utili a chiarire anche la posizione Z.) - una
condotta qualificata, nel complesso e quantomeno, da
inerzia non incolpevole e del tutto idonea a far ritenere
fondata e accoglibile la sollevata eccezione.
Di qui la declaratoria della illegittimità e la revoca della
delibera Consob impugnata, con conseguente estinzione
delle sanzioni amministrative, pecuniarie e accessorie,
inflitte al ricorrente. Pronuncia che appare assorbente
rispetto a ogni altra domanda e questione sollevata e
trattata dalle parti.
…omissis…
P.Q.M.
La corte, disattesa o assorbita ogni diversa e ulteriore
domanda ed eccezione, in accoglimento del ricorso proposto da A.Z., così provvede:
- dichiara illegittima e revoca la delibera Consob n.
18368 in data 7.11.2012 per mancata contestazione degli addebiti entro il termine di 180 giorni dall’accertamento come previsto dall’art. 187 septies, comma 1,
D.Lgs. n. 58 del 1998 e, per l’effetto, dichiara estinte le
sanzioni amministrative pecuniarie e accessorie inflitte
al ricorrente;
(omissis).
IL COMMENTO
di Enrico Quaranta (*)
Con le due sentenze in commento, emesse dalla Corte d’Appello di Milano rispettivamente il 12 marzo
2013 ed il 25 giugno 2013, entrambe relative ad opposizioni ex art. 187 septies, comma 4, D.Lgs. n.
58/1998 - la prima promossa dal c.d. insider secondario, sanzionato per aver abusato di un’informazione
privilegiata, relativa ad un progetto di acquisizione di partecipazione di controllo, ottenuta direttamente
da un insider primario e la seconda promossa da quest’ultimo - i Giudici si occupano tra l’altro di esaminare, quale motivo del ricorso, il tema del termine entro il quale l’autorità di vigilanza è tenuta ad avviare
il procedimento sanzionatorio e, più precisamente, dell’individuazione del relativo dies a quo e delle conseguenze riguardanti la sua violazione. Mentre la prima decisione (in ordine cronologico) perviene alla
conclusione che la contestazione sia avvenuta tempestivamente, rigettando sul punto l’impugnativa, la
seconda perviene ad un convincimento opposto, finendo per accogliere proprio la doglianza specifica formulata dall’insider primario, con conseguente declaratoria d’illegittimità e revoca della delibera Consob
emessa ai suoi danni.L’attenzione di questo elaborato vien posta proprio sull’argomento specifico oggetto di suddette contrastanti pronunzie, laddove in altra parte della rivista verranno esaminati gli altri profili
di rilievo evincibili dalle sentenze.
Il caso
Con delibera n. 18368 del 7 novembre 2012 (1)
notificata il 15 novembre 2012 - emessa all’esito di
un procedimento avviato il 17 settembre 2009 - la
Consob applicava al dott. Z., all’epoca dei fatti dirigente dell’area “transaction services” della società
D.F.: a) la sanzione amministrativa pecuniaria di €
100.000,00, ai sensi dell’art. 187 bis, comma 1, lett.
c) del D.lgs. n. 58/1998, per aver indotto tale dott.
D.P. ad acquistare azioni G.C. tra il 4 febbraio ed il
13 giugno 2008, sulla base d’informazioni privilegiate di cui era in possesso in ragione dell’attività lavorativa e delle funzioni svolte presso D.F.; b) la san(*) Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee.
722
zione amministrativa pecuniaria di € 100.000,00, ai
sensi dell’art. 187bis, comma 1, lett. b) del D.lgs. n.
58/1998, per aver comunicato al dott. D.P. l’informazione privilegiata concernente il progetto di acquisizione del controllo di P., al di fuori dell’esercizio delle funzioni e dell’attività lavorativa, informazione di cui era in possesso in ragione dell’attività
lavorativa e delle funzioni svolte presso D.F.; c) la
sanzione amministrativa pecuniaria di € 100.000,00,
ai sensi dell’art. 187bis, comma 1, lett. a) del D.lgs.
n. 58/1998, per aver acquistato azioni P il 14 ed il
17 ottobre 2008, in concorso ed in compartecipazione don D.P., utilizzando l’informazione privilegiata
(1) La delibera è rinvenibile sul sito Consob.
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Processo, arbitrato e mediazione
concernente il progetto di acquisizione del controllo
di P; d) la sanzione amministrativa accessoria, ai
sensi dell’art. 187quater, comma 1, D.lgs. n.
58/1998, per un periodo di sei mesi.
Nel provvedimento l’autorità di vigilanza spiegava che la decisione era stata assunta all’esito d’indagini condotte dalla sua “divisione mercati – ufficio
abusi di mercato” su tre distinte operazioni eseguite
sul mercato telematico azionario di Borsa Italiana
S.p.A., dalle quali era emerso il legame d’amicizia
esistente all’epoca tra Z. e D.P., il possesso d’informazione privilegiata da parte del primo riguardante
il progetto di OPA sulle azioni G.C. per la sua appartenenza al gruppo di lavoro incaricato di effettuare una due diligence su tale società, l’inoltro di comunicazione a mezzo mail da Z. a D.P. quanto alla
tempistica di svolgimento di detta attività, il possesso d’informazione privilegiata da parte di Z. anche
del progetto d’acquisizione del controllo di P. in virtù della sua posizione lavorativa (quale dirigente del
gruppo di lavoro incaricato di effettuare una due diligence anche su P., avendo la società D. – presso cui
egli svolgeva il suo ufficio – ricevuto notizia di tale
potenziale incarico dall’interessata), l’acquisto in data 30 settembre 2008 e 3 ottobre 2008 da parte di
D.P. di azioni della P., l’esecuzione da parte di Z. di
un bonifico in data 8 ottobre 2008, con immissione
di liquidità per € 23.200,00 sul conto di D.P., l’acquisto da parte di D.P. il 14 ed il 17 ottobre 2008 di
azioni di P. per un controvalore di € 23.106,25 e la
successiva rivendita dei titoli tra il 5 e l’11 novembre 2008, l’esecuzione in tal ultima data da D.P. di
un bonifico di € 24.650,00 in favore di Z., la sussistenza di numerosi contatti e mail tra detti soggetti
nel periodo di giugno, ottobre e novembre 2008,
con riferimento a P. e con scambio di specifiche informazioni sull’andamento del titolo.
Con la stessa delibera la Consob contestava al
dott. D.P. la violazione degli articoli: a) 187 bis,
comma 4, TUF, per aver acquistato 4.000 azioni P.
il 30 settembre 2008, il 3 ottobre 2008 ed il 14
maggio 2009, utilizzando l’informazione privilegiata concernente il progetto di acquisizione del controllo di P. s.p.a., comunicatagli, al di fuori dell’esercizio delle funzioni e dell’attività lavorativa, dal
dott. Z., conoscendo o potendo conoscere in base
ad ordinaria diligenza il carattere privilegiato di tale informazione; b) 187 bis, comma 1, lett. a),
TUF, per aver acquistato, in concorso con il dott.
Z, 2.375 azioni P. il 14 e il 17 ottobre in compartecipazione con il dott. Z, utilizzando l’informazione
privilegiata concernente il progetto di acquisizione
del controllo di P. s.p.a.
Sia Z. che D.P. proponevano opposizioni alla delibera dinanzi alla Corte d’Appello di Milano, presentando entrambi, tra i motivi d’impugnativa, quello
relativo alla violazione del termine di cui all’art. 187
septies D.lgs. n. 58/1998, quanto alla contestazione
degli addebiti (2). Con la sentenza emessa in data
12 marzo 2013, nell’ambito dell’impugnativa promossa da D.P., la Corte d’Appello adita rigettava la
doglianza, concludendo che «nessun rimprovero di
colpevole e ingiustificabile inerzia può essere mosso
alla Consob, in considerazione della complessità della fattispecie da esaminare e del tempo necessario alla valutazione della mole di dati acquisiti».
La pronunzia prendeva spunto, in diritto, da
quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità
in ordine alla decorrenza del dies a quo del termine
(2) L’ art. 187septies TUF, intitolato “Procedura sanzionatoria”, testualmente prevede: «1. Le sanzioni amministrative previste dal presente capo sono applicate dalla Consob con provvedimento motivato, previa contestazione degli addebiti agli
interessati, da effettuarsi entro centottanta giorni dall’accertamento ovvero entro trecentosessanta giorni se l’interessato risiede o ha la sede all’estero, e valutate le deduzioni da essi
presentate nei successivi trenta giorni. Nello stesso termine gli
interessati possono altresì chiedere di essere sentiti personalmente. (903) 2. Il procedimento sanzionatorio è retto dai princìpi del contraddittorio, della conoscenza degli atti istruttori,
della verbalizzazione nonché della distinzione tra funzioni
istruttorie e funzioni decisorie. 3. Il provvedimento di applicazione delle sanzioni è pubblicato per estratto nel Bollettino della Consob. Avuto riguardo alla natura delle violazioni e degli interessi coinvolti, possono essere stabilite dalla Consob modalità ulteriori per dare pubblicità al provvedimento, ponendo le
relative spese a carico dell’autore della violazione. La Consob,
anche dietro richiesta degli interessati, può differire ovvero
escludere, in tutto o in parte, la pubblicazione del provvedimento, quando da questa possa derivare grave pregiudizio alla
integrità del mercato ovvero questa possa arrecare un danno
sproporzionato alle parti coinvolte. 4. Avverso il provvedimento di applicazione delle sanzioni previste dal presente capo
può proporsi, nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione, ricorso in opposizione alla corte d’appello nella cui circoscrizione è la sede legale o la residenza dell’opponente. Se
l’opponente non ha la sede legale o la residenza nello Stato, è
competente la corte d’appello del luogo in cui è stata commessa la violazione. Quando tali criteri non risultano applicabili, è competente la corte d’appello di Roma. Il ricorso deve essere notificato alla Consob e depositato presso la cancelleria
della corte d’appello nel termine di trenta giorni dalla notificazione. 5. L’opposizione non sospende l’esecuzione del provvedimento. La corte d’appello, se ricorrono gravi motivi, può disporre la sospensione con decreto motivato. 6. Il giudizio di
opposizione si svolge nelle forme previste dall’articolo 23 della
legge 24 novembre 1981, n. 689, in quanto compatibili. 7. Copia della sentenza è trasmessa a cura della cancelleria della
corte d’appello alla Consob ai fini della pubblicazione per
estratto nel Bollettino di quest’ultima. 8. Alle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal presente capo non si applica
l’articolo 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689».
Le Società 6/2014
723
Giurisprudenza
Processo, arbitrato e mediazione
dettato all’organo di vigilanza per provvedere alla
contestazione degli addebiti (3).
Viceversa, con la sentenza emessa il 25 giugno
2013 all’esito dell’opposizione promossa dallo Z., la
stessa Corte (in altra composizione) accoglieva
l’eccezione, dichiarava l’illegittimità e revocava la
delibera per la violazione del termine decadenziale
in esame.
In tal caso i Giudici arrivavano al loro convincimento partendo dal presupposto che lo spatium deliberandi riconosciuto all’amministrazione per pervenire alla successiva contestazione degli addebiti
non potesse essere dilatato ingiustificatamente anche in ragione di eventuali disfunzioni degli organi incaricati dell’accertamento - (4) rinvenendo
piuttosto la sua giustificazione, legittimità e ragionevolezza da eventuali necessità istruttorie promananti dalla complessità dell’indagine (5).
Il procedimento sanzionatorio della Consob
Così inquadrata la fattispecie, va evidenziato che
l’art. 187 septies (preso in considerazione e, come visto, applicato con diverse conseguenze dalle decisioni in commento) si colloca nel titolo del TUF dedicato all’“Abuso d’informazioni privilegiate e manipolazione del mercato”, nel capo relativo alle sanzioni
amministrative applicabili agli autori degli illeciti.
La norma si occupa di delineare i termini e le
modalità della procedura sanzionatoria per gli illeciti ivi regolati.
(3) Il riferimento è alla sentenza Cass., sez. un., 9 marzo
2007, n. 5395.
(4) Si confronti al riguardo quanto affermato dalla Suprema
Corte nell’arresto citato dalla Corte ambrosiana, secondo cui:
«In tema di sanzioni amministrative previste per la violazione
delle norme che disciplinano l’attività di intermediazione finanziaria, il momento dell’accertamento, dal quale decorre il termine di decadenza per la contestazione degli illeciti da parte
della Consob, non deve essere fatto coincidere, necessariamente e automaticamente, né con il giorno in cui l’attività
ispettiva è terminata, né con quello in cui è stata depositata la
relazione dell’indagine, né con quello in cui la Commissione si
è riunita per prenderla in esame, poiché la “constatazione” dei
fatti non comporta di per sé il loro “accertamento”; ne consegue che, mentre la redazione della relazione ed il suo esame
debbono essere compiuti nel tempo strettamente indispensabile, senza ingiustificati ritardi, occorre, invece, individuare, secondo le particolarità dei singoli casi, il momento in cui ragionevolmente la contestazione avrebbe potuto essere tradotta in
accertamento, momento dal quale deve farsi decorrere il termine per la contestazione stessa» Cass. civ., sez. II, 2 dicembre 2011, n. 25836 Min. Economia Finanze e altri C. Andriani,
in CED Cassazione, 2011.
(5) Così i Giudici di Legittimità ove hanno sostenuto - quanto all’individuazione della data dell’esito del procedimento di
accertamento di più violazioni connesse dalla quale decorre -
724
Va detto che la legge 18 aprile 2005, n. 62, di
“Recepimento della direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato - abusi di mercato - e delle direttive
della Commissione di attuazione 2003/124/CE,
2003/125/CE e 2004/72/CE” e con la successiva
legge 28 dicembre 2005, n. 262, hanno modificato
il testo unico sulla finanza, eliminando la struttura
duale della fase amministrativa del procedimento
sanzionatorio, che prevedeva la predisposizione, ad
opera delle competenti autorità di settore, di una
proposta sanzionatoria, lasciando poi la decisione
finale sull’irrogazione della sanzione al Ministero
dell’Economia (6).
Con dette riforme il modello del procedimento
sanzionatorio in materia di market abuses conformemente a quello previsto per altre autorità amministrative indipendenti, prevede quindi l’emanazione
del provvedimento sanzionatorio da parte della stessa Consob, a seguito dell’espletamento di una procedura amministrativa caratterizzata da un fase “preistruttoria”, da una “istruttoria” e da una “decisoria”.
I tempi di questa procedura sono invero dettati
da fonti regolamentari, rappresentate da deliberazione della stessa autorità.
Detto potere regolamentare rinviene il suo fondamento nell’art. 24 della legge 262/2005 citata,
che ha appunto previsto che le autorità interessate
dalla disciplina (tra cui appunto la Consob) devono fissare modalità organizzative per dare attuazione al principio della distinzione tra funzioni istrutai sensi dell’art. 14, comma secondo, della legge n. 689 del
1981 - il termine di novanta o trecentosessanta giorni, la necessità di tener conto del complesso degli accertamenti compiuti dall’amministrazione procedente e della congruità del
tempo complessivamente impiegato in relazione alla complessità degli accertamenti compiuti, anche in vista dell’emissione
di un’unica ordinanza ingiunzione per violazioni connesse, ma
non anche la possibilità di valutare l’opportunità di atti istruttori collegati ad altri e compiuti senza apprezzabile intervallo
temporale (Cass. civ., sez. lav., 8 agosto 2005, n. 16642 Prov.
Aut. Trento C. Zambon ed altro, in Mass. Giur. it., 2005, in CED
Cassazione, 2005).
(6) Sul tema si veda Enrico Leonardo Camilli, Marcello Clarich “Il procedimento sanzionatorio della Consob sotto la lente
della Cassazione”, in Giur. comm., fasc. 6, 2007, 158, -, ove si
evidenzia come in precedenza Il valore della proposta della
Consob e della Banca d’Italia e l’ampiezza del potere valutativo
del Ministero avevano dato luogo a numerose incertezze nella
dottrina, unitamente al fatto che quel tipo di procedimento
duale contrastava anche con l’esigenza di dare attuazione ad
un sistema di vigilanza, indipendente dalle pressioni politiche.
Si confronti in merito anche M. Clarich, Le sanzioni amministrative nel testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia:
profili sostanziali e processuali, in Banca, imp., soc., 1995, in
particolare 62 e 70-72.
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Processo, arbitrato e mediazione
torie e funzioni decisorie rispetto all’irrogazione
della sanzione (7) (8).
Le modifiche normative esaminate sono servite,
peraltro, anche a riformulare i principi generali relativi al procedimento sanzionatorio, tal che il
TUF fa oggi riferimento ai «princìpi del contraddittorio, della conoscenza degli atti istruttori, della
verbalizzazione nonché della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie».
La Consob ha esercitato le indicate attribuzioni
emanando la deliberazione 2 agosto 2000 n. 12697
e poi il Regolamento 21 giugno 2005 n. 15086.
Quest’ultimo, in particolare, s’è occupato di dare
attuazione ai principi di separazione delle fasi (9).
Premesso che il caso specifico trattato nelle decisioni in commento appare disciplinato da tali regole che, invero, hanno subito successive modifiche di cui si parlerà appresso, per effetto delle citate delibere la fase istruttoria dei procedimenti sanzionatori della Consob è oggi articolata in due parti denominate, rispettivamente, “Parte istruttoria di
valutazione delle deduzioni”, svolta dall’Unità organizzativa di volta in volta competente per materia,
e “Parte istruttoria per la decisione”, svolta dall’Ufficio Sanzioni Amministrative.
La “Parte istruttoria di valutazione delle deduzioni”
ha inizio con la formale contestazione degli addebiti, prosegue con l’acquisizione delle deduzioni difensive e si conclude con la predisposizione da parte dell’Unità organizzativa competente per materia
della Relazione istruttoria, in cui la Commissione
esprime valutazioni in merito alle argomentazioni
difensive prodotte dai soggetti medesimi, avuto riguardo alle contestazioni formulate.
La Relazione istruttoria è trasmessa all’Ufficio
Sanzioni Amministrative, che dà inizio alla “Parte
istruttoria per la decisione” del procedimento sanzionatorio trasmettendo tale Relazione ai soggetti interessati affinché essi, preso atto delle valutazioni
ivi contenute, possano trasmettere eventuali deduzioni integrative.
Acquisite tali valutazioni, l’Ufficio Sanzioni Amministrative (ufficio proprio della fase istruttoria)
conclude la fase istruttoria del procedimento esprimendo, in apposita relazione per la Commissione, le
proprie considerazioni conclusive in ordine alla sussistenza o meno delle violazioni contestate ed alla
quantificazione delle eventuali sanzioni da applicare.
Tale relazione, unitamente agli atti del procedimento, è trasmessa alla Commissione – a cui sono
riservate la funzioni decisorie in materia sanzionatoria – che, senza più sentire i soggetti interessati,
assume il provvedimento finale.
Il termine di conclusione del procedimento sanzionatorio, compresa la fase decisoria, non può superare i 360 giorni dalla data di formale contestazione degli addebiti ai soggetti interessati.
Per quel che qui interessa, la competenza ad
emanare la contestazione degli addebiti passi dalla
Commissione in sede collegiale al responsabile della Divisione competente per materia, d’intesa con il direttore generale (10).
Tale contestazione deve effettuarsi entro centottanta giorni dall’accertamento ovvero entro trecentosessanta giorni se l’interessato risiede o ha la
sede all’estero, e valutate le deduzioni da essi presentate nei successivi trenta giorni. Nello stesso
termine gli interessati possono altresì chiedere di
essere sentiti personalmente.
Il contraddittorio viene dunque svolto in due sedi
distinte: una prima fase (detta “di valutazione delle
deduzioni”) davanti all’ufficio competente che ha
emanato la contestazione; una seconda fase, (detta
“di istruttoria della decisione”) davanti al neo-istituito Ufficio Sanzioni, con competenze trasversali.
(7) Ecco il testo della norma: art. 24. Procedimenti per l’adozione di provvedimenti individuali. 1. Ai procedimenti della
Banca d’Italia, della Consob, dell’Isvap e della Covip volti all’emanazione di provvedimenti individuali si applicano, in quanto
compatibili, i princìpi sull’individuazione e sulle funzioni del responsabile del procedimento, sulla partecipazione al procedimento e sull’accesso agli atti amministrativi recati dalla legge
7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni. I procedimenti di controllo a carattere contenzioso e i procedimenti
sanzionatori sono svolti nel rispetto dei princìpi della piena conoscenza degli atti istruttori, del contraddittorio, della verbalizzazione nonché della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie rispetto all’irrogazione della sanzione. Le notizie
sottoposte per iscritto da soggetti interessati possono essere
valutate nell’istruzione del procedimento. Le Autorità di cui al
presente comma disciplinano le modalità organizzative per dare attuazione al principio della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie rispetto all’irrogazione della sanzione.
(8) Sul punto A. Tonetti, Il nuovo procedimento sanzionatorio
della Consob. Un commento, in Giorn. dir. amm., 2005, 1227
ss.
(9) Sul tema vedi: Sporta Caputi, Natura dei termini del procedimento amministrativo sanzionatorio, in questa Rivista,
2008, 9, 1118 e ss.; Tonetti, Il nuovo procedimento sanzionatorio della Consob. Un commento, in Giorn. dir. amm., 2005,
1227 e ss.
(10) Così Art. 2, comma 2, della Del. 15086/05.
Le Società 6/2014
Il tema controverso del dies a quo per la
contestazione: contrasti giurisprudenziali e
posizione delle Sezione Unite
La questione posta all’attenzione della Corte
d’Appello di Milano in ambo le opposizioni decise
725
Giurisprudenza
Processo, arbitrato e mediazione
con le pronunzie in commento, attiene proprio alla
presunta violazione del termine entro il quale la
Consob deve provvedere alla contestazione degli
addebiti.
V’è da dire che ancor prima delle modifiche del
2005 sussisteva in pieno il problema dell’individuazione del dies a quo di tale termine.
Il contrasto interpretativo si coglieva soprattutto
in sede di giurisprudenza di merito, tra quanti sostenevano che il termine di decadenza – allora dettato
dalla disposizione generale dell’art. 14 della legge n.
681/1989 – decorresse dalla data di accertamento o
constatazione del fatto e quanti ritenevano che invece esso decorresse solo dal momento in cui la
Commissione, in composizione collegiale, avesse a
disposizione gli esiti delle indagini ispettive (11).
In sede di legittimità vi erano decisioni che sostenevano, con minore contrapposizione, che la
decorrenza dovesse intendersi dal momento in cui
il collegio della Consob era investito della decisone (12)ed altre in cui appariva viceversa rilevante
quello in cui detto collegio avesse a disposizione la
relazione ispettiva finale (13).
In definitiva, i Supremi Giudici rifiutavano sempre l’identità tra ispezione ed accertamento, dando
spazio - ai fini dell’individuazione del dies a quo - a
valutazioni di ragionevolezza per distinguere il momento di semplice acquisizione dei fatti rilevanti
da quello in cui si giungeva alla vera e propria contestazione.
Viceversa rimanevano difformità nelle decisioni
tra quelle in cui si riconosceva rilevanza esterna alla ripartizione delle funzioni istruttorie e decisionali (per cui l’accertamento si riteneva concluso con
la fase di valutazione dei fatti da parte dell’organo
collegiale) e quelle in cui, invece, si attribuiva portata interna al riparto (per cui l’accertamento si
considerava definito alla conclusione della fase
ispettiva) (14).
In tale quadro ricostruttivo la Corte è intervenuta in funzione regolatrice, con la sentenza del 9
marzo 2007, n. 5395, citata in ambo le sentenze in
commento.
Nel contesto della motivazione i Supremi Giudici - evidenziato il contrasto esistente in merito all’identificazione del dies a quo (15) - hanno rilevato
(11) Nel primo senso, «Il dies a quo del termine per la contestazione stabilito dall’art. 14, l. n. 689/1981 a partire dall’accertamento inizia a decorrere non dalla mera acquisizione dei
dati operata dagli appartenenti al servizio ispettivo della Consob, ma da quando la Consob stessa, in composizione collegiale, ha a disposizione i risultati dell’indagine svolta dai propri
organi ispettivi e sia investita della decisione sugli illeciti configurabili nei fatti acclarati» App. Milano 4 giugno 2003, Quarta
C. Ministero dell’Economia e delle Finanze e altri, in questa Rivista 2004, 985, con nota di commento di ESINI; secondo la
seconda prospettiva: «Il termine di novanta giorni stabilito dall’art. 14 l. n. 689/1981 per la notifica degli estremi della violazione decorre non già dal momento in cui l’organo preposto
all’indagine (nella specie la Consob) assume notizie per il tramite di propri funzionari, bensì dall’accertamento della violazione stessa, cioè dal giorno in cui risulta che l’organo di vigilanza si è riunito per esaminare gli esiti dell’ispezione» App. Venezia 19 dicembre 1998 Farinati e altri C. Min. tesoro e altri, in
Giur. it., 1999, 1673.
(12) Ad esempio, si veda «In tema di violazioni della disciplina dell’attività di intermediazione finanziaria, sanzionabili con
pena pecuniaria amministrativa irrogata dal Ministero del tesoro su proposta della Commissione nazionale per le società e la
borsa, previa contestazione agli interessati, il “dies a quo” del
termine per tale contestazione, stabilito dall’art. 14 l. 24 novembre 1981 n. 689 a partire dall’accertamento, inizia a decorrere - data la scissione, operata dal legislatore nello specifico
settore con norme di rilevanza esterna, tra organo deputato alla constatazione del fatto (il servizio ispettivo della Consob) e
organo deputato a tradurre la constatazione in accertamento
(la Consob medesima, nella sua composizione collegiale) - soltanto allorché la Consob, nell’indicata composizione, abbia a
disposizione i risultati dell’indagine svolta dai propri organi
ispettivi e sia investita della decisione sugli illeciti configurabili
nei fatti acclarati» Cass. civ., sez. V, 25 maggio 2001, n. 7143,
Farinati e altri C. Min. tesoro e altri, Mass. Giur. it., 2001, 3,
325, Di Maio, Giornale dir. amm., 2001, 8, 836).
(13) Riguardo al secondo orientamento, si confronti: In materia di sanzioni amministrative previste per la violazione delle
norme che disciplinano l’attività di prestazione di servizi d’investimento, il termine stabilito per la contestazione degli addebiti ex art. 14 l. n. 689/1981 inizia a decorrere solo dall’ultimazione della fase di accertamento delle violazioni, ossia dal momento in cui la Consob, nella sua composizione collegiale, ha
a disposizione la relazione finale con la quale vengono portate
alla sua attenzione le risultanze delle operazioni ispettive”
Cass. civ., sez. I, 5 novembre 2003, n. 16608, Aversa e altri C.
Ministero del Tesoro e altri, in Foro it., 2004, 1, 1829.
(14) Per una rassegna in argomento vedi ancora Camilli,
Clarich, op. cit.
(15) Testualmente si afferma ivi: «Con alcune sentenze
(Cass. 25 maggio 2001, n. 7143; Cass. 18 giugno 2001, n.
8257; Cass. 19 giugno 2001, n. 8342 e 8343; Cass. 25 giugno
2001, n. 8657) si è deciso che «esclusivamente quando la Consob-collegio sia investita del risultato delle indagini ispettive, e
sia chiamata a decidere sulla ravvisabilità di illeciti amministrativi da contestare, vengono a concorrere i presupposti per definire la constatazione come accertamento dell’infrazione, con il
connesso inizio del decorso del termine entro cui all’accertamento stesso deve far seguito la contestazione», sicché è ininfluente l’eventuale «carattere ingiustificato del ritardo verificatosi tra la conclusione dell’indagine ispettiva e la convocazione
in seduta collegiale della Consob». A tale conclusione si è pervenuti, essenzialmente, in base al rilievo che per le violazioni di
norme in materia di intermediazione mobiliare era normativamente prevista (dal D.L. 8 aprile 1974, n. 95, art. 2, conv. con
L. 7 giugno 1974, n. 216, applicabile in quei giudizi ratione
temporis) e lo è tuttora (dal D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art.
4) una precisa distinzione, nell’ambito della Consob, tra gli organi incaricati della constatazione delle irregolarità e quello deputato alla loro valutazione: rispettivamente, i dipendenti nell’esercizio delle funzioni di vigilanza e la Commissione in composizione collegiale. Con altre sentenze (Cass. 5 novembre
2003, n. 16608, 7 maggio 2004, n. 8692) si è ritenuto invece
che la suddetta ripartizione di compiti «sia inidonea a determinare una distinta imputazione delle rispettive attività» e quindi
non valga ad escludere che l’accertamento «pur non essendo
assoggettato ad una durata predeterminata, deve tuttavia svol-
726
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Processo, arbitrato e mediazione
come in tutte le decisioni fosse pacifico il principio
fondante di ogni tipo di procedimento sanzionatorio; quello per cui ove la contestazione non possa
avvenire nell’immediatezza dell’illecito, essa deve
comunque avvenire entro termini perentori.
L’affermazione che precede serve a ritenere che
costituisca cardine dell’ordinamento quello per cui
l’accertamento di un’infrazione amministrativa non
può che avvenire in un lasso temporale definito.
Ciò risponde da un lato alla necessità di prestare
ossequio al principio del buon andamento e dell’efficienza dell’amministrazione - che subirebbe lesione ove si consentisse al soggetto pubblico di estendere senza alcun limite il proprio potere d’accertamento - dall’altro all’esigenza di evitare pregiudizi
al soggetto coinvolto, derivanti dalla prosecuzione
indeterminata dell’istruttoria.
Peraltro non può farsi a meno di rilevare che
l’attività di accertamento presso la Consob, che
precede la formale contestazione degli illeciti, viene svolta senza la partecipazione dell’interessato,
cui viene concesso un termine per deduzioni solo
all’esito della comunicazione di tale atto.
Al riguardo la giurisprudenza s’è orientata a ritenere che l’amministrazione, anche in virtù del carattere inquisitorio del procedimento, in tale fase
abbia sostanzialmente mano libera (16), con una
potenziale compressione delle aspettative dell’incolpato ancora maggiore.
Ciò senza tacere che la formale contestazione dell’illecito determina una delimitazione dell’oggetto
del contendere, che pure influisce sul diritto di difesa della parte.
In altri termini, se solo con l’invio di tale atto
s’instaura il contraddittorio tra amministrazione ed
interessato e, d’altro canto, quest’ultimo trova in
qualche modo già delimitate le sue istanze dalla
predisposizione unilaterale degli addebiti, non v’è
chi non veda come risulti assolutamente importante stabilire quando maturi il dies a quo d’interesse a
carico del soggetto pubblico.
Il rischio, altrimenti, è che il presunto autore dell’illecito si veda doppiamente leso, per il lasso di
tempo decorso dai fatti all’incolpazione e per l’impossibilità di svolgere in tale arco ogni sua difesa (17).
L’individuazione esatta della decorrenza del termine per l’accertamento propedeutico alla contestazione, pare inoltre strumentale alla certezza dei
rapporti giuridici, laddove in generale la “continenza” dei tempi del procedimento sanzionatorio risulta obiettivamente utile sia in funzione special-preventiva, che quale deterrente di carattere generale
rispetto a propositi illeciti (18).
Orbene, nel tentativo di pervenire allo scopo
della precisa identificazione di tale dies a quo, nello
svolgere la sua funzione monofilattica la Suprema
Corte – nell’arresto riferito – ha preso atto del convincimento per cui “la pura “constatazione” dei fatti nella loro materialità non coincide necessariamente con l’“accertamento”: vi sono ambiti, come
appunto quello dell’intermediazione finanziaria,
che richiedono valutazioni complesse, non effettuabili nell’immediatezza della percezione”.
Su tale condiviso presupposto, ha tuttavia soggiunto che a dette valutazioni si debba procedere
in un tempo “ragionevole” e che in sede di opposizione il giudice, ove l’interessato abbia fatto valere
il ritardo come ragione di illegittimità del provvedimento sanzionatorio, sia abilitato a individuare il
momento iniziale del termine per la contestazione
non nel giorno in cui la valutazione è stata compiuta, ma in quello in cui avrebbe potuto - e quindi dovuto - esserlo.
In effetti la Corte ha preso atto che la precedente divergenza - che aveva dato luogo al contrasto
rimesso alla sua attenzione – nasceva a proposito
della rilevanza (rispetto al ritardo nella conclusione dell’indagine) delle disposizioni che affidavano
le attività ispettive e quelle valutative ad organi diversi, nell’ambito della Consob.
Al riguardo ha finito per sostenere che «attribuire
valore decisivo a questa distinzione, peraltro interna
ad un medesimo ente, significherebbe consentire
inammissibili elusioni del fondamentale principio
sancito dalla norma che impone di contestare l’infrazione, quando non è possibile farlo immediatamente, entro un preciso termine di decadenza, de-
gersi entro un tempo ragionevole, correlato alle caratteristiche
e alla complessità della situazione concreta», con la conseguenza che il dies a quo per la contestazione va individuato
«nella data di deposito della relazione ispettiva conclusiva» posta a disposizione della Commissione, non potendo consentirsi
che eventuali ritardi nel suo esame compromettano «le possibilità di difesa del soggetto indicato come trasgressore».
(16) Sul tema si veda Cass. 27 aprile 2001, n. 6097. In dottrina G. Colla-G. Manzo, Le sanzioni amministrative, Milano,
2001, 382.
(17) Sulla compressione del diritto di difesa nell’ambito dei
procedimenti amministrativi diretti all’irrogazione di sanzioni,
si confronti Travi, Nota a Corte Cost. 17 giugno 1996, n. 198,
in Foro it., 1996, 2289; P. De Biasi, Persuasione e castigo: le
sanzioni amministrative nel t.u.b. e nel t.u.f., Milano, 2003, 183.
Entrambi in Camilli-Clarich, nota 8), opera cit.
(18) Nei termini cfr. Regolamento sul procedimento sanzionatorio della Consob del 5 agosto 2013, reperibile sul sito dell’autorità.
Le Società 6/2014
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Giurisprudenza
Processo, arbitrato e mediazione
corrente dall’accertamento: norma che ha la funzione di consentire la piena esplicazione delle possibilità di difesa, anche in sede giudiziale, da parte dell’interessato: possibilità che potrebbero risultare menomate dopo un lasso di tempo eccessivo» (19).
Per i Supremi Giudici in specie si verte in tema
di tutela di un diritto di cui è costituzionalmente
sancita l’inviolabilità, a fronte del quale deve necessariamente cedere il contrapposto interesse pubblico
all’esercizio della potestà sanzionatoria, che non sia
rispettoso dei tempi stabiliti a garanzia del privato.
La conclusione che ne hanno tratto è che i ritardi che eventualmente derivino dalla distinzione tra
gli organi di indagine e di valutazione, per disfunzioni burocratiche o per artificiosa protrazione nello svolgimento dei compiti rispettivamente loro affidati, non possono andare a scapito del diritto a ricevere una tempestiva contestazione della violazione. Quindi, che il momento dell’accertamento degli illeciti amministrativi in materia d’intermediazione finanziaria, non deve essere fatto coincidere,
necessariamente e automaticamente, né con il
giorno in cui l’attività ispettiva è terminata, né
con quello in cui è stata depositata la relazione dell’indagine, né con quello in cui la Commissione si
è riunita per prenderla in esame: si legge al riguardo “non con il primo, perché la pura “constatazione” dei fatti non comporta di per sé il loro “accertamento”, se occorre una successiva attività istruttoria e valutativa, che nella specie, secondo i ricorrenti, era necessaria; non con il secondo o con il
terzo, perché sia la redazione della relazione, sia il
suo esame da parte della Commissione, debbono
essere compiuti nel tempo strettamente indispensabile, senza ingiustificati ritardi” (20).
In altre parole, anche per le violazioni delle norme in materia d’intermediazione finanziaria, occorre individuare il momento in cui ragionevolmente
la constatazione avrebbe potuto essere tradotta in
accertamento: momento dal quale deve farsi decorrere il termine per la contestazione.
V’è da dire che la questione dell’irrilevanza
esterna della ripartizione delle competenze all’interno dell’ufficio onde individuare i termini finali
del procedimento, come affermata dalla Corte nell’arresto esaminato, relativamente a caso insorto
sotto l’egida della normativa previgente, ha perso
poi di rilevanza, atteso che a seguito delle modifiche intervenute nel 2005 e dell’intervento regolamentare successivo della Consob, come visto è la
Divisione Competente che provvede alla preistruttoria ed alla formulazione della lettera di contestazione, firmata dal Direttore Generale e dal Responsabile di Divisione.
Risulta eliminato il passaggio della trasmissione
degli esiti d’indagine alla competente Commissione, per la formalizzazione degli addebiti e, quindi,
rimosso un elemento che poteva influire sui tempi
complessivi della fase d’accertamento.
Cionondimeno permane la validità dell’altro
principio espresso dalla Corte, ovvero quello per
cui il dies a quo del termine per la contestazione
deve essere individuato nel momento in cui viene
compiuta l’ultima operazione d’indagine necessaria,
secondo una ragionevole sequenza temporale dell’attività istruttoria (21).
Di seguito alla decisione delle Sezioni Unite rimane quindi la determinabilità di una data da cui
far decorrere il termine per la contestazione, quindi
un presupposto ancora non del tutto certo.
Va aggiunto che la durata della fase d’indagine
propedeutica non può non tener in considerazione
la complessità degli accertamenti da svolgere.
In tal senso è possibile rinvenire arresti della
giurisprudenza amministrativa che, di recente, hanno rammentato la necessità di prendere in esame
l’aspetto con riferimento alla regola generale in
materia di procedimenti sanzionatori, dettata in
partenza dall’art. 14 della legge sulla depenalizzazione (22).
(19) Così Cass., sez. un., n. 5395/2007, in motivazione.
(20) Ancora Cass., sez. un., n. 5395/2007, in motivazione.
(21) In questi esatti termini Mangoni, Osservazioni al documento di consultazione relativo al regolamento sul procedimento
sanzionatorio della Consob (5 agosto 2013), in [email protected]
(22) V. testualmente, a proposito delle attività sanzionatorie
delle autorità indipendenti «La regola giuridica compendiata
nell’art. 14 della legge n. 689/1981 (Depenalizzazione), che impone di contestare l’infrazione, quando non è possibile farlo
immediatamente, entro un preciso termine di decadenza decorrente dall’accertamento, onde consentire la piena esplicazione del diritto di difesa dell’interessato, non può significare
che la rilevazione dei fatti nella loro materialità coincide necessariamente con l’accertamento degli estremi della violazione;
vi sono infatti ambiti di applicazione delle sanzioni amministrative, quali generalmente quelli in cui operano le autorità indipendenti, nei quali, essendo l’accertamento basato su una
complessa valutazione ed interpretazione giuridica dei fatti
constatati, l’osservanza del predetto termine decadenziale va
valutata tenendo conto delle particolarità dei singoli casi ed indipendentemente dalla data di compilazione e ricezione delle
note informative e dei verbali ad opera dei soggetti incaricati
delle attività di vigilanza. Nel caso di specie, le ispezioni svolte
presso le sedi delle società hanno interessato una molteplicità
di profili riguardanti l’attività di distribuzione del gas, dalla qua-
728
Il termine per la contestazione dell’illecito
dopo le riforme del 2005
Le Società 6/2014
Giurisprudenza
Processo, arbitrato e mediazione
D’altra parte, lo spazio per censurare la condotta
dell’amministrazione, a proposito della dilazione
dell’istruttoria, deve collocarsi nel rispetto della discrezionalità del soggetto pubblico.
Spetta quindi al giudice di merito verificare, a
fronte dell’opposizione dell’incolpato che eccepisca
la tardività della notificazione degli estremi della
violazione, la congruità del tempo impiegato per
l’esito del procedimento di accertamento, tenendo
in debito conto la complessità dell’indagine ed il
complesso degli accertamenti compiuti dalla amministrazione procedente.
Tale valutazione non può tuttavia mai portare a
sostituirsi alla stessa amministrazione nel valutare
l’opportunità di atti istruttori collegati ad altri e
compiuti senza apprezzabile intervallo temporale (23).
Tuttavia l’autorità dovrà specificare quali accertamenti, indispensabili ai fini delle indagini, abbia
eseguito e quale ne sia stata la durata - determinare
il tempo ragionevolmente necessario all’Amministrazione per giungere ad una simile, completa conoscenza, in modo da individuare il dies a quo di
decorrenza del termine nel caso concreto, tenendo
conto della maggiore o minore difficoltà del caso
stesso e della necessità, comunque, che tali indagini, pur nell’assenza di limiti temporali predeterminati, avvengano entro un termine congruo a seconda delle circostanze (24).
Conclusioni
Nelle decisioni in commento emerge chiaramente a quali esiti può portare l’assenza di certezza sul
dies a quo per la contestazione degli illeciti di competenza della Consob.
lità del servizio alla sicurezza della distribuzione, non è irragionevole dunque che l’Autorità per l’Energia elettrica ed il gas
(AEEG) abbia compiuto le contestazioni soltanto in esito all’analisi della complessa documentazione acquisita, volta a verificare la rilevanza delle risultanze delle ispezioni, di tal che non
appare corretto far coincidere la decorrenza del termine per la
contestazione degli illeciti con quello della acquisizione del
materiale probatorio da parte della Guardia di Finanza, in sede
di visita ispettiva. Pertanto, l’AEEG non ha esorbitato dai canoni della ragionevolezza nel contestare, a distanza di alcuni mesi dalla acquisizione dei verbali degli organi ispettivi, le violazioni in materia di qualità commerciale e sicurezza del servizio
di distribuzione del gas naturale» Cons. Stato, sez. VI, 2 febbraio 2012, n. 582 Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas C. Irpina Distribuzione Gas S.p.A. e altri, Sito Diritto dei Servizi
Pubblici.it, 2012.
(23) Cfr. Cass. civ., sez. lav., 8 agosto 2005, n. 16642, Prov.
Le Società 6/2014
Più precisamente, pur partendo dai medesimi
elementi obiettivi (trattandosi di un’unica indagine a base della delibera impugnata dai due diversi
soggetti interessati, uno quale insider primario ed
uno quale insider secondario), ovvero dalla complessità delle vicende (tre diverse ipotesi di abuso
d’informazioni privilegiate) e degli elementi istruttori acquisiti, la Corte d’Appello di Milano è giunta a due conclusioni opposte.
Il presente contributo non ha da prendere posizione su quale delle due visioni sia preferibile, dovendosi limitare a considerare che lo stato dell’arte
potrà portare ad ulteriori casi simili.
Del resto la dottrina ha giustamente rilevato che
la Consob, che nelle more tra le sentenze in esame
e la pubblicazione di questa nota, ha provveduto a
modificare il regolamento adottato nel 2005, nel
senso di addivenire a scelte idonee a semplificare
ed accelerare il procedimento sanzionatorio (25),
ha però perso l’occasione di fissare ivi un elemento
di certezza e di regolamentare in maniera predeterminata la scansione dei tempi della fase istruttoria
precedente l’accertamento (26).
Non rimane pertanto che attendere sviluppi ulteriori che, partendo proprio da ipotesi quali quelle
verificatesi nelle fattispecie in esame, inducano ad
una consapevole resipiscenza l’autorità di vigilanza,
consentendo di abbandonare la strada segnata dalla
Corte a Sezione Unite, ovvero quella di una determinazione ex post della legittima estensione della
fase di accertamento lasciata, attraverso l’applicazione del principio di ragionevolezza, al giudice del
merito (27).
Aut. Trento C. Zambon ed altro, In Mass. Giur. it., 2005, in CED
Cassazione, 2005, già citata.
(24) (Cfr., e plurimis, Cass. nn. 9456/2004, 8692/2004,
7346/2004, 9357/2003, 10355/2000, 2088/2000, 1866/2000,
12737/1999).
(25) Cfr. Delibera n. 18750 Adozione del Regolamento sul
procedimento sanzionatorio della Consob, ai sensi dell’articolo
24 della legge 28 dicembre 2005, n. 262 e successive modificazioni, del 19 dicembre 2013 con annesso regolamento sono
stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 5 dell’8 gennaio 2014. Il regolamento è stato poi modificato dalla delibera n. 18774 del 29 gennaio 2014, pubblicata
nella G.U. n. n. 33 del 10 febbraio 2014.
(26) In questi sensi Mangoni, opera citata.
(27) Per le stesse conclusioni vedi ancora Camilli, Clarich,
op. cit.
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Opinioni
Diritto penale commerciale
Delitti di corruzione
La riforma dei delitti
di corruzione alla verifica
della prassi: prime risposte
e questioni aperte
di Daniela Tonon (*)
L’articolo, dopo una sintetica indicazione delle ragioni di politica legislativa e dei lineamenti generali della
recente legge di riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione (l. 6 novembre 2012, n. 190: c.d.
“Legge Severino”), analizza gli essenziali nuclei innovativi del sistema di tutela penale della Pubblica Amministrazione, per poi verificare quale sia stato il primo impatto della riforma nella prassi. Si è così sottoposta a vaglio critico la giurisprudenza - essenzialmente di legittimità - nel frattempo formatasi, e riguardante in particolare i problemi di diritto intertemporale, nonché il dilemma interpretativo rappresentato
dalla distinzione fra le “nuove” figure di “Concussione” e, rispettivamente, di “Induzione indebita a dare o
promettere utilità”. L’A. conclude con una riflessione sui problemi lasciati aperti dalla riforma, soprattutto
in relazione ai reciproci rapporti strutturali e contenutistici intercorrenti fra le diverse figure di “delitti di
corruzione” vigenti dopo la riforma nell’ordinamento italiano.
1.1. Come noto, la c.d. “Legge Severino” (l. 6 novembre 2012, n. 190) ha profondamente modificato il vigente sistema di tutela penale della Pubblica
Amministrazione, avendo come principali connotati caratterizzanti, sotto il profilo strettamente penalistico, da un lato un sensibile aumento delle
cornici edittali di pena, dall’altro la ristrutturazione
delle principali figure di corruption-crime, cui sono
state aggiunti ulteriori tipi “satellite”, come il
“Traffico di influenze illecite” (art. 346bis) e la
“Corruzione tra privati” (come è stata più propriamente “ribattezzata”, con qualche - peraltro non
sostanziale - modifica della figura, la “vecchia” fat-
tispecie di “Infedeltà a seguito di dazione” di cui all’art. 2635 c.c.) (1).
Indubbiamente, nell’attuale realtà socio-economica
i “reati di corruzione” hanno assunto una dimensione particolare, fuoriuscendo nella sostanza dall’orbita tradizionale dei “delitti contro la pubblica
amministrazione” (cui la topografia codicistica
continua formalmente a tenerli vincolati), per ambientarsi in un contesto, anche criminologico, assai
più ampio.
In effetti, nella tradizione i delitti in questione corrispondevano al tipico modello di reato mono-offensivo, contro un bene, sia pure “istituzionale” (la
“Pubblica Amministrazione”, nell’impostazione ori-
(*) Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee.
(1) Sulla riforma fra i molti interventi si vedano in particolare
i saggi di: G. Balbi, Alcune osservazioni in tema di riforma dei
delitti contro la Pubblica Amministrazione, in Dir pen. cont.,
2012 Riv. Trim., III-IV, 5 s. E. Dolcini, La legge 190/2012. Contesto, linee di intervento e spunti critici, in Dir. pen. cont., 2012,
3, 152 s.; E. Dolcini - F. Viganò, Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, in Dir. pen. cont. Riv. trim., 2012, I, 232 s.; G.
Fiandaca, Induzione indebita a dare o promettere utilità: una fattispecie ambigua e di dubbia efficacia, in Foro it., 2013, 4, II,
205 s.; A. Manna, La scissione della concussione in due fattispecie distinte, nell’ambito di un quadro d’insieme, in Arch pen.,
2013, 1 s.; D. Pulitanò, La novella in materia di corruzione, in
Cass. pen., 12 (suppl.), 2012, 3 s.; S. Seminara, I delitti di concussione, corruzione per l’esercizio della funzione e induzione indebita, in Dir. pen. e proc., 8 (suppl.) 15 s.; T. Padovani, Metamorfosi e trasfigurazione. La disciplina nuova dei delitti di concussione e di corruzione, in Arch. Pen., 2012, 783 s.; F. Palazzo,
Concussione, corruzione e dintorni. una strana vicenda, in Dir.
pen. cont. Riv. trim., 2012, I, 227 s. ; V. Valentini, Dentro lo scrigno del legislatore penale, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2013, 2,
118 s.; F. Viganò, Sui supposti guasti della riforma della concussione, in Dir. pen. cont., 2013, 2, 143 s. Si vedano inoltre le
opere generali: Mattarella - Pelissero (a cura di), La legge anticorruzione. Prevenzione e repressione della corruzione, Torino,
2013; M. Romano, I delitti contro la Pubblica amministrazione. I
delitti dei pubblici ufficiali, III ed., Milano, 2013.
1. Introduzione
Le Società 6/2014
731
Opinioni
Diritto penale commerciale
ginaria del ‘30 declinata nelle prerogative della
“autorità e prestigio”, nel vigente quadro costituzionale espressa nelle doti di “imparzialità e buon
andamento”), dal perimetro ben definito; o, al più,
potevano corrispondere a modelli di reato bi-offensivo, combinando la tutela del bene pubblico alla
tutela di un caratteristico bene individuale (patrimonio, come nel caso del peculato, o libertà morale, come nel caso della concussione).
Viceversa, nell’evoluzione moderna i reati di corruzione occupano uno spazio molto più largo, sia rispetto al perimetro degli interessi sociali in concreto aggrediti o posti in pericolo, sia con riguardo alle forme di manifestazione - alla fenomenologia dei comportamenti tipici, integranti le corrispondenti fattispecie delittuose.
Sotto il primo aspetto, i fatti corruttivi, non solo
quelli privati (art. 2635 c.c.) ma anche quelli nella
sfera pubblica sono da considerarsi a tutti gli effetti
reati economici. Da un lato, perché nella predominanza dei casi la corruzione, eretta a sistema, non
solo coinvolge interi settori economici, anche di
cruciale rilievo, ma diviene addirittura veicolo e
strumento di strategia e prassi economico-aziendale
(si pensi al settore degli appalti). Dall’altro lato, e
in modo correlato, perché il metodo corruttivo,
fungendo da primario fattore distorsivo della libera
concorrenza e, quindi, in ultima analisi, del mercato, non solo in ambiti settoriali e “locali”, ma a più
elevati livelli, sia nazionali che internazionali, attacca direttamente proprio quegli interessi collettivi che, riqualificati come beni giuridici “finali”,
meta-individuali o istituzionali “di nuova emersione” rappresentano oggi (sub specie di “Mercato”,
“Pubblica Economia”, etc.) l’oggetto giuridico assegnato appunto alla (sempre più vasta) categoria
dei “reati economici” (2).
Sotto il secondo aspetto, della sua “orma di manifestazione”, invece, emerge con sempre maggior
evidenza, nella prassi, che la corruzione, proprio
per la sua dimensione eminentemente economica e
il suo potenziale di strategicità imprenditoriale,
nella realtà economica moderna è sempre meno un
fatto individuale, e sempre più un fatto collettivo o
collegiale, che vede - con assoluta predominanza il soggetto agente coinvolto non uti singulus, ma
come rappresentante o dipendente di realtà economico-aziendali complesse, quali, precipuamente, le
società di capitali. Non è un caso, del resto, a conferma di ciò, che, su impulso degli organismi internazionali, l’introduzione nel nostro, come in altri
Paesi vicini, della responsabilità c. d. “amministrativa” della persona giuridica per i delitti commessi
dai suoi rappresentanti ha avuto come primo e fondamentale bersaglio i reati di corruzione (v. art. 25
d.lgs. n. 231 del 2001): appunto perché l’esperienza
internazionale segnalava la bribery come il più frequente e il più insidioso, per gli interessi della comunità sovranazionale, dei reati commessi in nome
e per conto delle companies; reati dei quali era indispensabile - a fini di prevenzione generale - rendere responsabili tali entità, non fisiche, ma dotate di
personalità giuridica.
1.2. Anche la legge n. 190 del 2012 nasce su input
sovranazionale (3), nella specie in attuazione della
Convenzione di Merida del 2003 (“Convenzione
dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la
corruzione” del 31 ottobre 2003, ratificata dall’Italia nel 2009) e della Convenzione di Strasburgo
del 1999 (“Convenzione penale sulla corruzione
del Consiglio d’Europa” del 27 gennaio 1999, ratificata dall’Italia con la l. 28 giugno 2012, n.
110) (4).
In particolare, la Convenzione di Merida all’art. 15
sotto l’intitolato di “Bribery of national public officials” impone di configurare come reato (“to establish as criminal offences”) il fatto di «(a) promettere, offrire o concedere a un pubblico ufficiale, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio, per se stesso o per un’altra persona o ente, affinché compia od ometta di compiere un atto inerente ai suoi doveri pubblici»; nonché il fatto di
«(b) sollecitare o accettare, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio, per se stesso o per
un’altra persona o ente affinché compia od ometta
di compiere un atto inerente ai suoi doveri pubblici».
Dal canto suo, la Convenzione di Strasburgo, negli
artt. 2 e 3, rispettivamente sotto la rubrica “Corruzione attiva di pubblici ufficiali nazionali” e “Corruzione passiva di pubblici ufficiali nazionali”, prevede gli
stessi obblighi di penalizzazione, espressi, praticamente, con le medesime forme lessicali.
Va segnalato sin d’ora, che le indicazioni convenzionali in materia si traducevano in quattro punti
fermi: (i) parificazione nella punibilità e (pare
(2) Cfr. in proposito G. Forti (a cura di), Il prezzo della tangente, Milano, 2003.
(3) Diffusamente, in proposito, V. Mongillo, La corruzione
tra sfera interna e dimensione internazionale, Napoli, 2012,
spec. 47 s.
(4) Cfr. in particolare V. Mongillo, La corruzione tra sfera interna e dimensione internazionale, cit., 488 s.
732
Le Società 6/2014
Opinioni
Diritto penale commerciale
comprendersi) nella misura della pena fra corruzione attiva e corruzione passiva, senza margini di impunità per il privato anche nell’ipotesi in cui la
“sollecitazione” provenga dal pubblico ufficiale;
(ii) fissazione del discrimine tra corruzione attiva e
corruzione passiva, individuandolo esclusivamente
nel criterio dell’iniziativa; (iii) cancellazione di
ogni distinguo tra corruzione propria e corruzione
impropria (per atto contrario vs per atto dovuto);
(iv) obbligo di incriminazione della sola corruzione
antecedente, con esclusione dalla punibilità dei
fatti di corruzione susseguente.
In effetti, le sollecitazioni internazionali da tempo
andavano nella direzione dei principi di politica legislativa sopra enunciati.
Al nostro ordinamento si richiedeva, in particolare:
(i) Di garantire una maggiore effettività della repressione del fenomeno corruttivo (anche in ragione del fatto che il nostro Paese si trova da tempo
confinato sugli ultimi gradini della speciale scala
compilata dall’ente internazionale “Transparency”
per dare conto degli indici di diffusione della corruzione in ogni singolo Paese considerato) (5).
(ii) Di assicurare una certa ed effettiva punizione
soprattutto della corruzione attiva, chiudendo al
privato corruttore le vie di fuga che il nostro modello di disciplina, proprio per la sua particolare
struttura e complessità, finiva, nella prassi, con il
concedere.
(iii) Di superare la scansione, all’interno del sistema di tutela penale della P.A., fra la fattispecie di
concussione (nella quale il privato “che paga” risulta vittima del reato, e dunque immune da pena)
e le fattispecie di corruzione (che vedono sempre il
privato nel ruolo di autore, ovviamente, come tale,
punibile). Si tratta di una dicotomizzazione propria
ed esclusiva del nostro ordinamento, che non ha
paragoni in Europa, e nella quale si ravvisava la
causa forse principale del deficit di tutela in questo
campo. Proprio le difficoltà interpretative nella fissazione dei rispettivi confini delle due figure di illecito (di cui si discuterà specificamente nel prosieguo) hanno infatti fornito facili scappatoie a privati corruttori che si “travestivano” (o cercavano di
travestirsi) da vittime di concussione; e ciò è stato
reso ancor più agevole dal consolidarsi nella prassi,
a partire dagli anni ‘90, della figura di creazione
giurisprudenziale della c. d. “concussione ambientale” (che “espelleva” dalla fattispecie qualsiasi
2.1. La “Legge Severino” nelle intenzioni ha voluto venire incontro a queste esigenze avvertite a livello sovranazionale, peraltro soddisfacendovi solo
in parte.
La nuova normativa, infatti, sotto il profilo politico-criminale non ha nella sostanza adempiuto al
più pressante degli obblighi che al nostro ordinamento venivano accollati (quello legato al superamento della dicotomia corruzione/concussione), e
per di più sembra aver aggravato le difficoltà ermeneutiche che la prassi da sempre ha incontrato in
questa materia, poiché la novella, senza risolvere le
“vecchie”, ha creato alla giurisprudenza nuove difficoltà, sia nell’interpretazione di singole norme,
sia più complessivamente sul piano sistematico.
Come si è anticipato, gli interventi più incisivi, oltre al generale inasprimento delle pene, hanno riguardato: (1) la “scomposizione”, mantenendola in
vita, della figura delittuosa della concussione, ora
articolata in due distinte fattispecie delittuose; (2)
il rimodellamento della tipologia di figure corruttive, cui è stata aggregata la fattispecie “satellite” del
“Traffico di influenze illecite” (art. 346bis c.p.).
2.1.1 L’originaria figura della concussione è rimasta, con pene ulteriormente aumentate, al suo posto (art. 317 c.p.) nella sola componente della costrizione; mentre la sotto-fattispecie di “concussione per induzione” è trasmigrata in calce alla serie
delle “corruzioni” sotto l’intitolato “Induzione indebita a dare o promettere utilità” (art. 319quater);
a differenza della prima, che incrimina la condotta
del solo pubblico ufficiale e assegna al privato il
ruolo della persona offesa dal reato (che continuerà
pertanto a potersi costituire in giudizio come parte
civile), la seconda norma penale ha come destinatari sia il pubblico ufficiale, sia il privato, anch’egli
punito benché con pena assai più contenuta (un
(5) V. C. Davigo - G. Mannozzi, La corruzione in Italia, Bari,
2007; G. Mannozzi Percezione della corruzione e dinamiche po-
litico-criminali di contenimento e repressione del fenomeno corruttivo, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2011, 445 s.
Le Società 6/2014
connotato di diretta ed esplicitata coazione). E a
conferma di quanto sopra affermato, è significativo
segnalare che tale figura è emersa e ha prosperato
soprattutto nell’ambito di ben individuati settori
economico-imprenditoriali (dominati da companies
– anche di standing multinazionale – piuttosto che
da imprenditori individuali) e in relazione a specifici rapporti pubblico/privato (i contratti d’appalto,
il rapporto tributario).
2. I lineamenti generali della “Riforma
Severino”
733
Opinioni
Diritto penale commerciale
massimo di tre anni, a fronte del massimo edittale
di otto anni comminato al pubblico ufficiale).
2.1.2. Dal canto loro, le figure di corruzione, pur
permanendo nell’originaria duplice versione “propria” e “impropria”, hanno subito un restyling significativo, gravido di conseguenze sia sotto il profilo
interpretativo che sistematico.
In particolare si è operata la:
- Eliminazione del requisito dell’“atto conforme ai
doveri d’ufficio”, ora sostituito dalla locuzione “per
l’esercizio delle sue funzioni”;
- Eliminazione di ogni riferimento al concetto di
“retribuzione” limitandosi la norma, nel descrivere
la condotta tipica, alla “ricezione” o alla “promessa” del denaro (o di altra utilità);
- Soppressione, in un tutt’una con la caducazione
dell’originario secondo comma dell’art. 318, della
distinzione tra corruzione antecedente e corruzione
susseguente, con derivata neo-incriminazione della
corruzione impropria attiva susseguente. E a tale
inevitabile esito interpretativo conduce il diverso
“peso” semantico acquisito dalla preposizione “per”
(“per l’esercizio delle funzioni” e non più “per compiere un atto”): nel nuovo contesto normativo a
tale locuzione non si può infatti non attribuire una
duplice valenza, tanto finalistica (al fine di attivarsi), quanto causale (perché già attivatosi) a indebito - prezzolato - favore del privato.
Va ancora solo aggiunto che è stato modificato anche l’art. 320 (“Corruzione di persona incaricata di
pubblico servizio”), sicché ora l’art. 318 c.p. risulta
applicabile all’incaricato di pubblico servizio, anche qualora questi non rivesta la qualità di pubblico impiegato. In altri termini, il nuovo art. 320
c.p. non richiede più che l’incaricato sia legato all’ente pubblico da un rapporto di lavoro subordinato che lo faccia entrare a far parte dell’organizzazione dell’ente.
Non è stato invece modificato l’art. 321 (“Pene
per il corruttore”). Tuttavia, la modifica dell’art.
318 c.p., eliminando sostanzialmente la distinzione
tra corruzione antecedente e corruzione susseguente, ha di fatto parificato, rispetto alla fattispecie de
qua, il regime sanzionatorio tanto del pubblico ufficiale quanto del privato.
Come si è detto, la novella ha infine aggiunto, sia
pure collocandola diversamente sotto il profilo topografico, una sorta di “reato-ostacolo” di corruzione, rappresentato dal “traffico di influenze”; fattispecie sussidiaria (viene esclusa dal concorso del
privato nei reati-fine di corruzione) che punisce,
con tutela fortemente anticipata, la “mediazione”
corruttiva, cioè il passaggio di denaro da privato a
734
privato, volto a remunerare l’“interessamento” finalizzato a una successiva realizzazione di un patto
corruttivo, ovvero destinato a costituire la “provvista” per future tangenti prima che il patto corruttivo venga in essere.
2.2. La “nuova sistematica” dei reati contro la
P.A. anche in prima applicazione ha dato adito a
una serie di problemi interpretativi, in parte già affrontati dalla giurisprudenza anche di legittimità.
Un primo nucleo problematico è rappresentato
certamente dalla ricollocazione delle figure di corruzione in senso stretto, principalmente disegnate
dalla coppia di norme di cui agli artt. 318/319 c.p.
Anche su questo terreno, rispetto alle indicazioni
convenzionali, il legislatore del 2012 in parte è stato recettivo, in parte refrattario.
Ha infatti senz’altro recepito il principio di fondo
(in parte anche - ma maldestramente - applicato
nella gemmazione della “induzione indebita” dal
ceppo della concussione) vigente in tutta l’area
giuridica europea, secondo il quale c’è corruzione
punibile per entrambi i partners dell’accordo, sol
che corra denaro non legittimamente dovuto fra il
privato e il pubblico ufficiale: a prescindere dalla
ragione per cui tale dazione/promessa venga fatta.
Non è stata viceversa mantenuto il limite che le
stesse Convenzioni apponevano a tale principio generale: cioè che il mercimonio punibile debba riguardare condotte future del pubblico ufficiale,
escludendosi la rilevanza di corruzioni susseguenti.
Così come, contraddittoriamente, si è voluta mantenere la suddivisione, scandita dalle due norme
distinte, tra corruzione propria e impropria.
Dal punto di vista sistematico ne deriva, in sintesi,
il quadro seguente.
La corruzione impropria (per continuare a usare la
terminologia tradizionale), di cui all’art. 318 c.p.,
si caratterizza sotto il profilo della tipicità degli elementi costitutivi, non tanto “in positivo”, quanto
“in negativo”: non cioè, in ragione della qualità
dell’atto da compiersi (o compiuto) quanto della
presenza/assenza dell’atto stesso: si integrerà l’art.
318 solo in assenza di un atto, cioè quando l’atto
(uno specifico atto amministrativo) non sia identificabile o comunque non sia identificato.
Viceversa, la corruzione propria (art. 319 c.p.) si
caratterizza per il doppio requisito, della presenza
di un atto, e della sua contrarietà al dovere.
Ora, tale sviluppo normativo, da un lato sancisce
un dato di fatto prasseologico: nel “diritto vivente”
giurisprudenziale si era da tempo assistito (contra il
principio di tipicità) alla “scomparsa” dell’atto dallo spettro della fattispecie; con il conseguente, an-
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cor più discutibile, corollario interpretativo di un
pressoché totale condensamento prasseologico delle due fattispecie, “assorbite” dalla più grave: non
indagandosi l’atto, si presumeva che fosse contrario (6).
D’altra parte, la nuova fattispecie consente di correttamente inquadrare il ben noto fenomeno della
“messa a libro paga” di un pubblico ufficiale da parte di un privato corruttore; in vista di atti favorevoli futuri, o per una generalizzata e (non ancora)
meglio specificata “benevolenza” del titolare di un
potere pubblico, di solito, autorizzativo, o di vigilanza, nei confronti del gestore di interessi privati,
per lo più collegati ad attività di impresa (7).
Ora, la sostanziale “interpretazione autentica” da
parte del legislatore del 2012 di una soluzione di
diritto penale giurisprudenziale può essere intesa
come una scelta di garanzia: purché poi garantisticamente venga d’ora in poi interpretata.
Ci sembra, in proposito, che fra le due norme si
debba instaurare pertanto un rapporto complesso,
sia di specialità (ex art. 15 c.p.) che di sussidiarietà.
Nel senso che, in linea generale, solo in assenza di
un ben identificato atto sarà di regola applicabile –
appunto sussidiariamente – l’art. 318; mentre prevarrà, perché in rapporto di specialità, l’art. 319
ogni qual volta sia stato identificato l’atto e questo
risulti contrario ai doveri d’ufficio (specialità per
aggiunta e per specificazione). Non identificato
l’atto, si rientrerà nello spettro della norma, sotto
questo profilo (più) generale, di cui all’art. 318; né
potrà valere, a far “riespandere” la sfera di applicazione dell’art. 319, la supposta identificazione non
di uno specifico atto ma del “genere” di atti (congetturati come “contrari”) che il pubblico funzionario si accingerebbe in un prossimo futuro a compiere dietro compenso.
Resta da decifrare l’ipotesi in cui l’atto sia presente
e identificato, ma non contrario a doveri d’ufficio
(fatto tipico secondo il “vecchio” art. 318, ma non
più considerato dal “nuovo”); anche in questo caso
la soluzione dovrebbe condurre all’applicazione
della norma meno severa: sia perché rispetto al tipo delittuoso più grave manca comunque l’indispensabile elemento costitutivo della contrarietà
(l’ipotesi prospettata è atipica rispetto all’art. 319),
sia perché la remunerazione di un atto d’ufficio
rientra semanticamente nella (più ampia) categoria
di “remunerazione per l’esercizio delle funzioni”.
Sembra restare, invece, irrisolto il problema del
c.d. “limite bagatellare” del tipo delittuoso di corruzione (non della concussione) collegato al problema dei c.d. “munuscula” (8), cioè quei donativi
di modico valore e di scambio tradizionale (il “cesto natalizio” piuttosto che la coppia di bottiglie,
etc.) che la giurisprudenza escludeva dal perimetro
della fattispecie corruttiva, ma essenzialmente
sfruttando l’elemento costitutivo della “retribuzione” che invece - come detto - è scomparso dal dettato della norma de qua. L’argomento della necessaria proporzione almeno “di massima” fra dazione
e valore della controprestazione “pubblica” (illecita) viene dunque a cadere e resta aperta l’eventualità di un’escalation del rigorismo applicativo, sino
a colpire anche condotte inoffensive o “socialmente adeguate” ogni qual volta vi sia un passaggio
non altrimenti giustificato di beni o cose (il denaro
in sé, anche se di modesta quantità, è sempre stato
escluso dal concetto di “munuscula”) fra il soggetto
privato e l’uomo pubblico. Per evitare tale esiti l’unica risorsa interpretativa sembra affidata all’applicazione del principio di offensività, il cui pratico
utilizzo da parte della giurisprudenza, oltre ad essere stato sempre assai parco, ha mantenuto forti
margini di incertezza, sia nell’an che nelle dimensioni della sua sfera d’azione.
(6) Cfr. per tutte, Cass. pen., sez. VI, 5 febbraio 1998, n.
2894, Lombardi; Cass. pen., sez. VI, 28 marzo 2001, n. 22638,
Sarritzu.
(7) T. Padovani, La messa “a libro paga” del pubblico ufficia-
le ricade nel nuovo reato di corruzione impropria, in Guida al
dir., n. 48, 2012, p. IX s.
(8) Se ne lamenta in particolare G. Balbi, Alcune osservazioni, cit., 10.
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3. Gli interventi della giurisprudenza
(di legittimità)
3.1. Già in questa fase di prima applicazione della
riforma Severino – in ogni caso percepibilmente
incisiva della materia – la giurisprudenza è stata
chiamata a intervenire e lo ha fatto a partire dal
grado più alto di giudizio, quello di legittimità. Ciò
non deve sorprendere, ed è dovuto agli immediati
problemi di diritto intertemporale che sono sorti
rispetto a giudizi conclusi nel merito sotto la vigenza della normativa del ‘90; segnatamente, con riguardo alle figure delittuose che hanno visto più
sensibilmente ritoccati i contorni della fattispecie,
o suoi singoli elementi costitutivi, o addirittura (è
il caso dello “spacchettamento” della originaria fattispecie di concussione) manipolata radicalmente
la struttura del tipo delittuoso.
735
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L’attenzione, nella specie, della Suprema Corte –
la cui prima giurisprudenza è qui interesse considerare, anche perché è ragionevole pensare che il suo
compendio rappresenterà di qua in avanti, e per un
periodo non brevissimo, le ‘linee guida’ dell’interpretazione delle Corti di merito – si è focalizzata:
- In generale, sui rapporti fra le diverse figure
astratte di reato, per verificarne la reciproca “continenza” (o meno) e decidere, di conseguenza, se la
casistica offerta al vaglio di legittimità integrasse
ipotesi di successione modificativa piuttosto che di
pura abolitio criminis.
- In particolare, sui reciproci rapporti e sulla ricognizione dei confini intercorrenti tra il “vecchio”
art. 317 “snellito” e la “nuova” “concussione per
induzione” (meglio: l’“Induzione indebita”) di cui
all’art. 319quater.
3.1.1. Con riguardo al tema generale dei rapporti
tra fattispecie (tra versione antecedente e versione
susseguente alla novella), la Suprema Corte si è
anzitutto pronunciata (nella specie in relazione alla
figura di corruzione prevista dall’art. 318 c.p.), negando – in via di principio generale, e in osservanza dei canoni in giurisprudenza ormai consolidati
in tema di successione di leggi – che sussista tra le
due figure astratte un fenomeno di abolitio criminis, ravvisando, viceversa, una successione meramente modificativa, ai sensi dell’art. 2, comma 4
c.p., tra il “vecchio” e il “nuovo” art. 318.
I fatti di corruzione per atto d’ufficio commessi prima della riforma del 2012, pertanto, in quanto sicuramente rientranti nel più ampio perimetro semantico-concettuale di “esercizio delle sue funzioni”, continueranno ad essere punibili, ma con la
pena in concreto più favorevole al reo (si farà cioè
riferimento alla disciplina di cui al previgente art.
318 c.p., che prevedeva la reclusione da sei mesi a
tre anni, laddove il “nuovo” art. 318 commina una
pena più elevata tanto nel minimo quanto nel
massimo edittale - la reclusione da uno a cinque
anni -) (9).
Il nuovo art. 318 c.p. - così ha ragionato la Corte lungi dall’abolire, in tutto o in parte, la punibilità
delle condotte già previste dal vecchio testo dell’articolo, ha all’opposto determinato un’estensione
dell’area di punibilità, in quanto ha sostituito alla
precedente causale del compiendo o compiuto atto
dell’ufficio, già oggetto di “retribuzione”, il più generico collegamento della dazione o promessa di
utilità ricevuta o accettata all’esercizio (non temporalmente collocato e, quindi, suscettibile di coprire entrambe le situazioni già previste nei due
commi del precedente testo dell’articolo) delle funzioni o dei poteri del pubblico ufficiale o incaricato
di pubblico servizio (quest’ultimo - a seguito della
contestuale modifica dell’art. 320 c.p. - non più
necessariamente “pubblico impiegato”). Così configurandosi, per i fenomeni corruttivi non riconducibili all’area dell’art. 319 c.p., una fattispecie di generale mercificazione del munus pubblico, sganciata da uno specifico sinallagma e idonea a superare i
limiti applicativi che il vecchio testo, anche a voler adottare un’interpretazione estensiva, esibiva in
relazione alle ipotesi di accordo corruttivo nelle
quali non era identificabile un atto determinato (10).
Né danno d’altra parte adito a particolari difficoltà
interpretative del regime intertemporale le modifiche più di dettaglio (come l’estensione della punibilità per corruzione all’incaricato di pubblico servizio-non pubblico impiegato) o più “di sostanza”
(come l’introdotta incriminazione della corruzione
attiva susseguente).
E, dunque.
Qualora, ratione temporis, risulti applicabile la normativa previgente, l’incaricato di pubblico servizio
che non rivesta altresì la qualifica di pubblico impiegato non sarà punibile (11).
Non è stato invero modificato l’art. 321 (“Pene per
il corruttore”). Tuttavia, la modifica dell’art. 318
c.p., eliminando sostanzialmente la distinzione tra
corruzione antecedente e corruzione susseguente,
ha di fatto parificato, rispetto alla fattispecie de
qua, il regime sanzionatorio tanto del pubblico ufficiale quanto del privato; ne consegue che, in base
al combinato disposto degli artt. 318, 320, 321
c.p., risulta, sì, attualmente punibile anche l’ipotesi
di corruzione impropria attiva susseguente, vale a
dire l’ipotesi in cui il soggetto privato retribuisca il
pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio
per un atto (purché non contrario ai doveri d’ufficio) già compiuto, ma tale punibilità potrà valere
solo per il futuro e non già per condotte precedenti.
3.1.2. Anche con riferimento allo “spacchettamento” del delitto di concussione il Giudice di legittimità si è pronunciato in punto di continuità
legislativa piuttosto che di abolitio; in questo caso il
(9) Così Cass. pen., sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 19189.
(10) Ibidem.
(11) Così Cass. pen., n. 27719/2013 (il caso riguardava il
presidente di una società di gestione di una tratta autostradale).
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raffronto è però, per così dire “a tre”: (i) “vecchia”
figura unitaria; (ii) “nuova” fattispecie con identico nomen juris (art. 317 ora vigente); (iii) figura
creata ex novo per gemmazione sotto l’intitolato di
“Induzione indebita a dare o promettere utilità”
(art. 319quater).
Anche in questo caso la conclusione è a favore
della continuità legislativa, e dunque dell’applicazione dell’art. 2, comma 4 c.p. (conservazione della
punibilità, sia pure alla stregua del regime sanzionatorio più favorevole).
Nel dettaglio.
In relazione al raffronto fra “vecchio” e “nuovo”
delitto di concussione, la Suprema Corte ha ritenuto che vi sia «totale continuità normativa tra
presente e passato con riguardo alla posizione del
soggetto qualificato, chiamato a rispondere di fatti
già riconducibili, in relazione all’epoca di commissione degli stessi, nel paradigma del previgente
art. 317 c.p.» (12). Nulla è mutato infatti rispetto
alla posizione del pubblico ufficiale, considerato
che i più risalenti fatti di abuso costrittivo da questi commessi continuano ad essere, sia pure con
pena meno grave dell’attuale, puniti; ciò dal momento che la formulazione testuale del nuovo art.
317, è assolutamente sovrapponibile - espunta
l’“induzione” - all’insieme degli elementi costitutivi della norma prima della sua riforma. All’appello manca anche l’elemento tipizzante, in relazione
alla qualifica soggettiva, rappresentato dalla figura
dell’ “incaricato di pubblico servizio”; ma la condotta costrittiva di questi non ha mai cessato – ribadisce la Corte – di essere punibile, sia pure sotto diverso titolo di reato (a seconda del concreto
manifestarsi del fatto: estorsione aggravata - artt.
629 e 61 c.p. -; violenza privata aggravata - artt.
610 e 61 c.p. -, in assenza di deminutio patrimoni;
violenza sessuale - art. 609bis c.p. - qualora la
“contro-prestazione” richiesta consista in un favore sessuale).
Sussiste però continuità legislativa, limitatamente
alla posizione del pubblico agente, anche tra la
previgente figura “onnicomprensiva” di concussione e il nuovo reato di induzione indebita, nell’ipotesi in cui la condotta del pubblico agente non sia
costrittiva, bensì “meramente” induttiva.
La soluzione in giurisprudenza è unanime, ma diversi sono gli itinerari argomentativi per giungere
a questo approdo unitario.
Una voce in seno alla giurisprudenza di legittimità (13) si è espressa in tal senso motivando sulla
struttura della nuova disposizione, che integrerebbe
«una “norma a più fattispecie”, nel senso che prevederebbe due autonome figure di reato plurisoggettivo, l’induzione qualificata dell’intraneus, del
tutto identica, nella sua formulazione testuale, alla
corrispondente parte del previgente art. 317 c.p.;
la promessa o la dazione indotta di utilità da parte
dell’extraneus» (14).
Diversamente suona la motivazione del comune
esito interpretativo di continuità normativa fornita dalle Sezioni Unite. Muovendo dall’innegabile
struttura di “reato contratto” (15) (in re illicita)
esibita anche dalla nuova figura di reato, le Sezioni Unite qualificano la fattispecie come una ‘comune’ figura di «reato plurisoggettivo proprio o
normativamente plurisoggettivo» (16). E dunque
– esclusa ovviamente la punibilità del privato indotto per fatti pregressi, in piena osservanza del
comb. disp. art. 25 comma 2 Cost. e art. 2 comma
1 c.p. – la correità necessaria insita nell’illecito di
cui all’art. 319quater certifica, rispetto al pubblico
agente, la continuità normativa, nella misura in
cui: «a) il volto strutturale dell’abuso induttivo è
rimasto immutato; b) la prevista punibilità dell’indotto non investe direttamente la struttura tipica del reato, ma interviene, per così dire solo
“al suo esterno”; c) la vecchia descrizione tipica
già contemplava infatti la dazione/promessa del
privato (…); d) finanche sotto il profilo assiologico la nuova incriminazione è in linea con quella
previgente, anche se ne restringe la portata offensiva alla sola dimensione pubblicistica del buon
andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione» (17).
In conclusione, sul punto: non sembra dunque al
momento seriamente in discussione, né fonte di
criticità, il quadro dei rapporti intertemporali fra
disciplina previgente e disciplina novellata.
(12) Cass., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 10, Maldera e a. ,
p. 46. Nello stesso senso, Cass. pen., sez. VI, 11 gennaio
2013, n. 19189.
(13) Cass. pen., sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 17285, Vaccaro.
(14) Ibidem.
(15) Sui rapporti fra questa categoria di reati e il paradigma
della fattispecie plurisoggettiva, nelle sue diverse varianti, cfr.
I. Leoncini, Reato e contratto (nei loro reciproci rapporti), Milano, 2006, 213 s.
(16) Cass. pen., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 10, Maldera e
a., cit., 47.
(17) Ibidem.
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4. I difficili rapporti tra concussione e
induzione indebita
4.1. La parte più consistente di decisioni di legittimità si è però concentrata, com’era facile intuire,
sulla linea di confine che corre tra il vigente delitto di concussione (quel che ne resta nell’antico alveo della norma così intitolata) e la figura ricavatane ex novo “per separazione” (sotto l’intitolato
“Induzione indebita a dare o promettere utilità”).
A ben guardare, la norma originaria è stata letteralmente spaccata in due come il guscio di una noce: nel primo emiguscio è rimasto il fatto tipico
proprio del solo pubblico ufficiale (non più anche
dell’incaricato di pubblico servizio) che esercita
una azione costrittiva – è autore, cioè, di una condotta tipica di costrizione; nel secondo emiguscio è
invece trasmigrato il fatto tipico proprio, sia del
pubblico ufficiale, sia dell’incaricato di pubblico
servizio che esercitino una azione induttiva – che
si rendano cioè autori di una condotta di induzione. La fattispecie di concussione risulta pertanto
soltanto diminuita di alcuni elementi caratterizzanti, relativi alla soggettività propria e alla modalità
di condotta; la nuova fattispecie di induzione invece risulta, rispetto alla figura “di provenienza”, diminuita del solo elemento caratterizzante relativo
alla modalità di condotta (coercitiva), ma al contempo accresciuta di un elemento costitutivo relativo alla soggettività (la figura del privato nel ruolo
di partecipe necessario proprio, cioè punibile),
nonché dell’ulteriore elemento strutturale rappresentato dalla clausola di riserva (“Salvo che il fatto
non costituisca più grave reato”).
Quanto alla clausola di riserva, risultava necessaria
per la proliferazione - determinata dalla nuova sistematica - di “zone grigie” di possibile sovrapposizione tra norme applicabili nel caso concreto: e,
dando per scontato che la clausola, anche se non
richiamata expressis verbis nel secondo comma, che
si riferisce puntualmente a “i casi previsti dal primo
comma”, si applichi anche al fatto-reato del privato indotto (18), la stessa avrà portata diversa a seconda della qualifica soggettiva di volta in volta ricorrente. La sussidiarietà, cioè, scatterà per l’agente
pubblico solo in rapporto alla corruzione per atto
contrario (art. 319 c.p.), mentre per l’agente privato si attiverà in rapporto sia alla corruzione per atto contrario sia in rapporto alla corruzione per l’e-
sercizio della funzione (art. 319 e art. 318 in comb.
disp. con l’art. 321 c.p.).
Nessun problema di interferenza/sovrapposizione
(nel senso cioè di un possibile concorso apparente
di norme) dovrebbe porsi, in relazione all’agente
pubblico, tra il vigente delitto di concussione e il
delitto di induzione indebita. Qui prevale evidentemente la logica classificatoria dell’aut/aut; i due
moduli di condotta sono, devono essere strutturalmente alternativi e tra loro “ontologicamente” incompatibili: il pubblico ufficiale, o coarta, o induce.
Tuttavia, è proprio sulla distinzione tra i due tipi
di condotta che sono emerse le più consistenti criticità, in prima applicazione della legge di riforma;
e infatti è proprio su questo tema che la giurisprudenza di legittimità ha proliferato con un numero
non esiguo di decisioni fra loro contrastanti, fomento, a loro volta, a meno di due anni dall’entrata in vigore della novella, di una (prima?) decisione a Sezioni Unite, resasi evidentemente necessaria per il clima di incertezza creatosi intorno al nucleo più innovativo della riforma.
4.2. Come risulta evidente, il nucleo centrale tanto dell’una quanto dell’altra fattispecie, che inevitabilmente si misurano, a confronto, nella prassi è
rappresentato dal mezzo delittuoso, ossia dalla modalità della condotta dispiegata, segnatamente, dal
pubblico agente. La sussunzione sotto l’uno piuttosto che sotto l’altro tipo delittuoso è infatti gravida
di conseguenze, sia per l’agente pubblico, sia per il
privato: in termini di (sensibile) diversità di pena
per quanto riguarda il pubblico ufficiale, addirittura
in termini di rilevanza penale (punibilità vs impunità) per quanto riguarda il privato.
Da ciò si spiega il fermento di questioni, proposte
in via di applicazione di diritto transitorio, per processi non ancora pervenuti al giudicato, e perciò
rapidamente e direttamente approdati in Cassazione; la quale a sua volta – va riconosciuto – nella
sua decisione non è certo stata facilitata dalla genetica della nuova norma (delle nuove norme) di
cui veniva richiesta l’applicazione al caso concreto
sottoposto. Provenendo, il fatto già giudicato nel
merito, da un quadro normativo che parificava perfettamente le due condotte sotto il profilo della penale tipicità, è più che comprensibile lo scarso approfondimento dedicato in sede di merito al tipo
di condotta in concreto realizzatasi: tanto che - co-
(18) Va peraltro al contrario avviso l’autorevole opinione di
T. Padovani, La messa “a libro paga” del pubblico ufficiale, cit.,
XI.
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In materia di reati di corruzione, per la verità,
un’azione di ricognizione di confini tra figure delittuose limitrofe era costume che la giurisprudenza la
operasse. Ma, ovviamente, questa era focalizzata
sul binomio concussione/corruzione, e si rivelava
particolarmente spinosa rispetto a situazioni che la
giurisprudenza aveva cominciato a qualificare come
(eventuali) ipotesi di concussione “ambientale” (rispetto alle quali cioè, vigendo un consolidato e risaputo sistema di mercificazione del munus publicum, una coazione vera e propria neppure era necessaria, e l’induzione stessa poteva essere “tacita”
o “implicita”, o addirittura sostituita da una “spontanea” iniziativa del privato).
Anche all’epoca i punti essenziali su cui condurre
una diagnosi differenziale fra i due diversi tipi delittuosi riguardavano il nucleo caratterizzante della
condotta, cioè il tipo di comunicazione intercorso
fra i soggetti (pubblico e rispettivamente privato),
e le reciproche posizioni, oggettive (di interesse) e
soggettive (di “rapporto interpersonale”).
In tale contesto, nel tempo erano state individuate
tre principali teorie (sia in dottrina che in giurisprudenza) per qualificare la tipicità di un fatto di
concussione distinguendola dalla tipicità della corruzione (19):
(a) la teoria dell’iniziativa (del pubblico ufficiale);
(b) la teoria della genesi dell’accordo: coartante
“metus publicae potestatis” (tipico della concussione)
contrapposto al (consensuale) “pactum sceleris” (tipico della corruzione);
(c) la teoria della controprestazione: riparo da un
danno ingiusto (obiettivo tipico del concusso) contrapposto all’ottenimento di un vantaggio illecito
(obiettivo tipico del corruttore).
(aa) La teoria dell’iniziativa, la più risalente e la
prima a essere abbandonata, distingueva le due figure di reato in base alla circostanza che l’iniziativa
della mercificazione venisse assunta dal privato
(caso di corruzione) piuttosto che dal pubblico ufficiale (caso di concussione) (20).
(bb) Avverso questa teoria, incentrata su di un criterio formale (e perciò ritenuta troppo formalistic)
si è successivamente affermata – basata su di un
criterio, invece, sostanziale – la teoria della genesi
dell’accordo: se determinato dal “metus publicae potestatis” che produce un consenso viziato da violenza (psicologica), l’accordo corruttivo integra la
concussione; si versa invece in ipotesi di corruzione ogni qual volta si manifesti un puro “pactum
sceleris”, consensualmente stipulato.
Questa criteriologia distintiva spostava l’attenzione
sul processo psicologico di formazione della volontà dei soggetti. La corruzione sarebbe stata caratterizzata dalla spontaneità dell’accordo (il pactum sceleris, appunto) che si forma su un piano sostanzialmente paritario fra il pubblico ufficiale ed il privato, il quale agirebbe, perciò, manifestando liberamente la propria volontà diretta ad un fine illecito;
nella fattispecie di concussione, invece, l’accordo
illecito fra i due soggetti non si porrebbe su un piano paritario, venendo meno la par condicio contrattuale propria della corruzione; ciò, ovviamente,
non solo nelle situazioni-limite di vis compulsiva,
cioè di costrizione ottenuta attraverso minacce o
violenze poste in essere dal pubblico ufficiale, ma
anche nelle ipotesi in cui la promessa o la dazione
del denaro o delle altre utilità fosse la conseguenza
di uno “stato di soggezione” del privato rispetto al
pubblico ufficiale, purché però risultasse provata
una superiorità del pubblico agente intesa come
“preminenza prevaricatrice” idonea ad intimorire il
privato e a viziarne la volontà che sarebbe perciò
stata mossa esclusivamente dal c.d. metus publicae
potestatis; in tale circostanza sarebbe stato in realtà
il pubblico ufficiale, abusando dei propri poteri o
della propria qualifica, a porre in essere la causa
determinante della volontà altrui (21).
(cc) Negli ultimi tempi, sino a giungere a ridosso
della riforma, l’orientamento giurisprudenziale che
sembrava avere la meglio approdava a una terza
(19) In proposito per tutti, v. C. Benussi, I delitti contro la
pubblica amministrazione. I, I delitti dei pubblici ufficiali, Padova,
2001, 395 s.
(20) Questa tesi ha tuttavia continuato a essere autorevolmente sostenuta, sia pure con riferimento alla sola corruzione
impropria, da A. Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte speciale. I, Delitti contro la pubblica amministrazione, 10^ Milano,
2008, 201 s.
(21) Fra le molte, prima della riforma: Cass. pen., sez. VI, 8
ottobre 2002, n. 52; Cass. pen., sez. VI, 14 novembre 2002, n.
14353; Cass. pen., sez. VI, 19 giugno 2008, n. 33843; Cass.
pen., sez. VI, 7 marzo 2012, n. 36. Più risalenti: Cass. pen.,
sez. VI, 13 novembre 1997, Meda; Cass. pen., sez. VI, 19 gennaio 1998, n. 5116.
me risaputo - era assai frequente, in passato, la descrizione già nel Capo di Imputazione della condotta contestata secondo il seguente stilema: “costringeva o comunque induceva”.
Ora è invece indispensabile distinguere, e la conquista di nozioni generali solide, alle quali poter
con sicurezza ricondurre i casi di volta in volta indagati, è assurta a priorità assoluta.
4.1.1. I criteri di distinzione previgenti
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5.1. Come anticipato, nel breve arco di tempo trascorso dall’entrata in vigore della “Legge Severino”, si è registrata una inconsuetamente convulsa
attività nomofilattica, che la Cassazione ha dovuto
svolgere sul diritto intertemporale, in applicazione
dell’art. 2 comma 4 c.p. (si è sopra precisato che il
principio generale dalla stessa Corte, una volta per
tutte, fissato va nel senso della successione modificatrice, e non dell’abolitio). E, con assoluta prevalenza. tali decisioni hanno proprio riguardato il regolamento di confini tra l’art. 317 e l’art. 319quater.
Analizzando questo filone giurisprudenziale si sono
potuti rintracciare tre distinti orientamenti, corrispondenti a tre diversi schemi, o criteri di distinzione, mentre la sentenza delle Sezioni Unite ha
poi fornito una soluzione di sintesi che tuttavia lo si vedrà - non sembra aver sciolto il nodo gordiano, né semplicemente rappresentato il compendio dei tre orientamenti, quanto piuttosto avere
della questione offerto una “quarta soluzione” (23).
Nei primi commenti gli schemi di distinzione di
cui sopra sono stati contrassegnati con il nome del
“caso” relativo (ossia con il nome dell’imputato): si
sono così susseguiti, nell’ordine (di pronunciamento): (i) lo schema Nardi; (ii) lo schema Roscia; (iii)
lo schema Melfi. Collegati ad alcuni di questi, individuati come leading cases, sono poi ravvisabili ulteriori tipi di soluzione offerte da altrettante decisioni e interpretabili come varianti del criterio-base. A provvisoria chiusura di questa sequela si pone
ora la decisione a Sezioni Unite in re Maldera, introduttiva di un ulteriore e più articolato criterio
di distinzione tra le due figure delittuose.
È quindi opportuno analizzare, in sintesi, innanzitutto i tre primi approcci alla questione.
(i) Lo schema Nardi (24).
In questo primo contesto interpretativo il giudice
della legge fonda la sua proposta di lettura muovendo dalla premessa che le due condotte “separate” dal legislatore hanno conservata intatta, e
identica, la loro fisionomia anche nella nuova collocazione topografica (argomento a contrario: altrimenti occorrerebbe prendere atto di una discontinuità normativa che invece la stessa Cassazione ha
escluso). Da questa premessa discende la scelta di
far tesoro della giurisprudenza pre-Severino che,
pur finalizzando - ovviamente - tale sforzo interpretativo delle nozioni di costrizione/induzione alla distinzione fra delitto di concussione e delitto di corruzione, ha tuttavia fornito un contributo conoscitivo alla medesima questione nel tempo consolidatosi.
Su questa base, allora, il fulcro della distinzione
viene ricercato nelle modalità di esercizio dell’abuso (delle qualità e dei poteri) da parte dell’agente
pubblico, abuso che in questa impostazione viene
individuato - sembra di capire - come il modello di
condotta generale del tipo concussivo, di cui costrizione e, rispettivamente, induzione non sono
che le specifiche forme di manifestazione.
La distinzione vien pertanto fissata in termini gradualistici, considerando la costrizione come progressione quantitativa della induzione (o, viceversa, l’induzione una forma di manifestazione attenuata della costrizione):
- «L’abuso di potere e di qualità si atteggia in modo
diverso a seconda che il soggetto passivo soggiaccia
alla costrizione oppure all’induzione. Nel primo caso vi è timore per un danno minacciato dal pubbli-
(22) Cass. 5 febbraio 1996, Arigliano; Cass. 17 ottobre
1994, Armanini; Cass.1 dicembre 1995, Filisetti; Cass., 5 febbraio 1996, Fadda.
(23) Su tale evoluzione giurisprudenziale v. diffusamente M.
Scoletta, I mobili confini tra concussione e induzione indebita
nelle prime sentenze della Corte di Cassazione, in Neldiritto,
2013, 5, p. 886 s. Con particolare riguardo alla sentenza delle
Sezioni Unite, v. M. A. Bartolucci, Concussione, induzione indebita e corruzione propria: un’actio finium regundorum tra tipicità e politica criminale, in Dir. pen. cont., 2014 (in corso di pubblicazione: i n. di pag. si riferiscono alle bozze).
(24) Cass. pen., sez. VI, 4 dicembre 2012, n. 8695.
opzione discretiva, motivando questo cambio di
paradigma sulla fragilità, e scarsa praticabilità, soprattutto probatoria di un criterio, come il precedente, fondato su valutazioni di tipo psicologico.
Da una prospettiva soggettivistica ci si era dunque
spostati su di una prospettiva oggettivistica, individuando nella natura delle conseguenze (dell’atto, o
comunque dell’attività pubblica) il fulcro distintivo: in un danno ingiusto, che fosse prospettato dal
pubblico ufficiale, e che il privato con la sua dazione tendesse ad evitare, si ravvisava l’elemento in
concreto tipizzante la fattispecie di concussione;
mentre elemento costitutivo in concreto della fattispecie di corruzione sarebbe stato, viceversa, un
illecito vantaggio che il privato tendesse a perseguire attraverso la manipolazione prezzolata della
funzione pubblica (secondo le espressioni di maniera: il privato, nella concussione “certat de damno vitando”; nella corruzione, “certat de lucro captando”) (22).
5. La giurisprudenza sulla “Legge
Severino”: i criteri distintivi tra
concussione induzione indebita
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Diritto penale commerciale
co ufficiale, nel secondo la soggezione di preminenza su cui il medesimo, abusando della propria
qualità o funzione, fa leva, per suggestionare, persuadere, o convincere a dare o promettere qualcosa
allo scopo di evitare un male maggiore. In questo
caso, la volontà del privato è repressa dalla posizione di preminenza del pubblico ufficiale, il quale,
quand’anche senza avanzare aperte ed esplicite pretese, operi di fatto in modo da ingenerare nel soggetto privato la fondata persuasione di dover sottostare alle sue decisioni per evitare il pericolo di subire un pregiudizio eventualmente maggiore» (25).
In questo schema criteriologico è abbastanza riconoscibile, anche sulla base della premessa di “continuità normativa” posta dalla Corte, il “recupero”
della “teoria del metus” sopra citata, teoria sorta
proprio al fine di recuperare alla concussione, sub
specie di “induzione”, i casi di pressione soft o addirittura solo allusiva o implicita (come ricordato caratteristica delle situazioni di “concussione ambientale”).
Questo primo approccio non risulta isolato, perché
altre contemporanee sentenze sono riconducibili
allo stesso alveo. Lo sono, in particolare, la sentenza nel caso Aurati, nella quale la formula del “metus” è expressis verbis evocata (26), nonché altre decisioni che pur con varianti descrittive seguono la
stessa ratio: quella nel caso Vaccaro (27), in cui si
stressa l’argomento gradualistico soprattutto in termini di intensità oggettiva della pressione, e quella, per contro, nel caso Sarno, che valorizza il diverso grado di percezione psicologica della pressione da parte del soggetto privato (28) (29).
(ii) Lo schema Roscia (30).
In netto contrasto con questo primo schema si pone la decisione – peraltro sempre emessa dalla stessa sezione – nel caso Roscia (e nel contestuale caso
Gori) (31).
Qui la Corte parte proprio dalla critica allo schema
precedente, sospettandone addirittura l’incostituzionalità, nella misura in cui il criterio gradualistico-quantitativo, per la sua indubbia vaghezza/elasticità rimette totalmente al giudice una valutazione caso per caso, discrezionale e pertanto contraria
all’art. 25 comma 2 Cost.
Rovesciando la lettura della fattispecie, si pongono
in alternativa strutturale le due condotte di costri-
zione e induzione, interpretate come ontologicamente diverse, anziché come due varianti, in quantitativa progressione, di un medesimo modulo comportamentale. Ora, il fulcro della condotta costrittiva viene individuato nella minaccia, e nella violenza morale che vi è insita; ciò premesso, dovranno valere gli stessi criteri interpretativi usati per il
corrispondente delitto “comune” (quello preveduto
e punito dall’art. 612 c.p.), in primo luogo riferiti
all’oggetto della minaccia stessa, per definizione
corrispondente a un danno ingiusto. La conclusione è presto tratta: la differenza non è gradualisticoordinatoria (più/meno) ma alternativo-classificatoria (aut/aut), cioè di tipo, in ultima istanza, qualitativo. Si avrà concussione quando viene prospettato, qualunque sia il grado di “pressione”, un danno ingiusto; si ravviserà invece induzione indebita
quando la dazione venga rappresentata come il
prezzo da pagare per evitare conseguenti sfavorevoli, sì, per il privato, ma de jure date, derivanti dall’applicazione della legge: quando, in altri termini,
la prospettazione riguardi l’acquisizione per il privato di un vantaggio illecito, nella specie consistente nell’evitare un danno “giusto” (jure datum).
E tale soluzione viene giustificata, dalla sentenza
Roscia, anche sotto il profilo sistematico/politicocriminale: «sotto l’aspetto assiologico è comprensibile perché chi prospetti un male ingiusto è punibile più gravemente di chi prospetti un danno che
derivi dalla legge. E ancora e soprattutto si veste di
ragionevolezza prevedere in quest’ultimo caso la
punizione di chi aderisce alla violazione della legge
per un suo tornaconto. Viceversa, punire chi si è
piegato alla minaccia, ancorché essa si sia presentata in forma blanda, significa richiedere al soggetto virtù civiche ispirate a concezioni di Stato etico
proprie di ordinamenti che si volgono verso concezioni antisolidaristiche e illiberali» (32).
Anche in questo caso non è difficile riconoscere la
matrice culturale di tale schema discretivo: è la più
recente delle teorie pre-Severino, che si è prima ricordata come “teoria della controprestazione”
(danno ingiusto vs illecito vantaggio): e tra le pieghe della decisione si può leggere altresì che rientrerebbero ora nella figura delittuosa dell’induzione
indebita anche quelle ipotesi in cui il privato “certat de lucro captando” non per evitare i rigori della
(25) Ibidem, p. 6.
(26) Cass. pen., sez. VI, 21 gennaio 2013, n. 3093, Aurati.
(27) Cass. pen., sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 17285, Vacca-
A. Bartolucci, Concussione, induzione indebita e corruzione propria, cit., 5.
(30) Cass. pen., sez. VI, 3 dicembre 2012, n. 3251, Roscia.
(31) Cass. pen., sez. VI, 3 dicembre 2012, n. 3251, Gori.
(32) Cass. pen., sez. VI 3 dicembre 2012, Roscia, cit., 12.
ro.
(28) Cass. pen., sez. VI, 15 marzo 2013, n. 12388, Sarno.
(29) Su questo filone v. le considerazioni sistematiche di M.
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Diritto penale commerciale
legge (danno “giusto”), ma per avvantaggiarsi in
modo puro e semplice di un’applicazione distorta a
suo favore della legge (si pensi ai casi, emersi in
passato nella prassi, di una pressione pubblica volta
a consentire dietro compenso lo “scavalcamento”
di una graduatoria concorsuale, o, in campo sanitario, la “scalata” di una lunga fila d’attesa per interventi diagnostici od operatori).
(iii) Lo schema Melfi (33).
Di fronte a un così netto contrasto di opzioni interpretative, che pari pari riproduceva insanate
contrapposizioni del passato anche rispetto a una
normativa fortemente innovata, non poteva mancare il tentativo mediatorio, o, come è stato definito, sincretistico (34).
La decisione nel caso Melfi si gioca questa carta:
parte innanzitutto dalla critica allo schema Roscia,
e in particolare dal suo rifiuto del criterio gradualistico-quantitativo. Per i giudici in re Melfi la modifica legislativa non ha cambiato i contenuti strutturali della figura originaria, nella quale le due modalità di condotta, in quanto rappresentate nella
norma da «formule lessicali entrambe capaci di indicare sia la condotta che l’effetto», si pongono fra
loro in rapporto di maggiore/minore intensità: «la
prima descrive una più netta iniziativa finalizzata
alla coartazione psichica dell’altrui volontà che pone l’interlocutore di fronte a un aut-aut (voluit quia
coactus); la seconda una più tenue azione di pressione psichica sull’altrui volontà, che spesso si concretizza in forme di persuasione o di suggestione ed
ha come effetto quello di condizionare ovvero di
“spingere” taluno a dare o promettere, ugualmente
soddisfacendo i desiderata dell’agente (coactus tamen voluit)» (35). Fra l’altro, rimarca la Corte sempre in chiave critica, la tesi che essa contrasta sottovaluterebbe ingiustificatamente il ruolo dell’elemento-abuso (in questo caso della funzione), tenuto conto che una “minaccia” penalmente rilevante
è integrata anche dalla prospettazione, a fini distorsivi, di un male “giusto” (jure datum perché derivante da applicazione di legge) come concordemente ritiene la giurisprudenza di legittimità in tema di estorsione (art. 629 c.p.), nel caso di abuso
(in quel caso del diritto) per ottenere vantaggi indebiti per il mancato esercizio di un diritto.
Quello che precede viene confermato come il criterio discretivo principale.
Facendosi però carico anche dei profili di indubbia
vaghezza rivestiti da questo schema discretivo, soprattutto nelle ipotesi-limite, la sentenza in re Melfi
fa spazio, come criterio accessorio, complementare
di giudizio anche all’elemento del danno/vantaggio:
- «Tale indice integrativo è ragionevolmente rappresentato dal tipo di vantaggio che il destinatario
della pretesa indebita consegue per effetto della dazione. Egli è certamente persona offesa di una concussione se il pubblico agente lo ha posto di fronte
all’alternativa “secca” di accettare la pretesa indebita oppure di subire il prospettato pregiudizio oggettivamente ingiusto. Al contrario il privato è punibile come coautore nel reato se il pubblico agente formula una richiesta di dazione ponendola come condizione per un atto da cui il destinatario
della pretesa trae direttamente un vantaggio indebito» (36).
Da notarsi. Dal tenore della sentenza si ricava in
realtà l’impressione che il rapporto tra i due criteri
più che di complementarietà sia di alternatività;
l’uno o l’altro, a seconda dei casi dovrebbe soccorrere il giudice, optandosi di volta in volta per quello di più facile applicazione o pertinenza al caso
concreto. Dal che si deduce, però, che, senza evitare le criticità esibite dai due schemi precedenti,
questo terzo compromissorio ne aggiunga di ulteriori (37); si pensi ai casi di contraddittorietà fra i
due criteri: quid juris nel caso in cui una pressione
soft si accompagni alla prospettazione di un danno
ingiusto, o, all’opposto, una coazione intensa sia
applicata (in ragione di una coincidenza di interessi fra agente pubblico e privato) per mercificare un
atto che al privato non spetterebbe ottenere, ma
che a lui è estremamente favorevole?
5.2. L’intervento delle Sezioni Unite si è rivelato
a questo punto indispensabile, ma è dubbio che sia
risultato altrettanto risolutivo.
(iv) Lo schema Maldera. (38)
La remissione relativa al caso omonimo ha in effetti provocato una sentenza assai voluminosa e di
notevole complessità, che non si è limitata a dare
la propria risposta al quesito sui confini tra le due
figure di illecito, ma ha altresì riconsiderato i prin-
(33) Cass. pen., sez. VI, 12 marzo 2013, n. 11794, Melfi.
(34) M. Scoletta, I mobili confini, cit., 888.
(35) Cass. pen., sez. VI, 12 marzo 2013, cit., 11.
(36) Ibidem, 13.
(37) È questa la critica mossa da M. Scoletta, I mobili confini, cit., 890
(38) Cass. pen., sez. un., 24 ottobre 2013, cit. Per una prima lettura della sentenza, v. G. L. Gatta, Dalle Sezioni Unite il
criterio per distinguere concussione e ‘induzione indebita’: minaccia di un danno ingiusto vs. prospettazione di un vantaggio
indebito, in www.penalecontemporaneo.it, 17 marzo 2014.
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Diritto penale commerciale
cipi nella specie applicabili sotto il profilo del diritto intertemporale, nonché analizzato i profili più
propriamente sistematici, concernenti i rapporti
tra le diverse figure, “vecchie” e “nuove”, di bribery
incriminata dal legislatore italiano del 2012.
Il sommario della decisione si può compendiare in
quattro parti: (1) la ricostruzione storica della disciplina dei reati di corruzione negli ordinamenti
interno e internazionale; (2) la riepilogazione dei
(tre) schemi interpretativi emersi sino a quel momento nella giurisprudenza di legittimità; (3) l’enunciazione del proprio modello di soluzione; (4)
la collocazione delle due figure, così ricostruite nei
loro reciproci rapporti, nella sistematica complessiva dei delitti contro la P. A., e in particolare in relazione alle fattispecie di corruzione.
Per quanto riguarda la ricognizione dei confini,
che qui innanzitutto interessa, l’argomentazione
della Cassazione è proceduta per steps e quasi in
dialettica con se stessa.
Il primo step coincide con la pars destruens, cioè
con la critica ai tre precedenti schemi, ciascuno
dei quali «evidenzia aspetti che sono certamente
condivisibili, ma non autosufficienti, se isolatamente considerati a fornire un sicuro criterio discretivo».
Virando poi verso la pars construens del proprio discorso, le Sezioni Unite sembrano soprattutto condizionate dall’esigenza di differenziare le due figure
sotto il profilo dei (diversi) rapporti che intercorrono fra i concorrenti necessari nelle due coppie di
agenti (autore/vittima nella concussione; coautori
entrambi nell’induzione illecita). È su questa lunghezza d’onda che si sintonizza in primo luogo la
ratio della decisione. Da un lato, tornando ad accogliere la tesi delle “distinte modalità di un’unica
condotta” consistente nell’abuso, e perciò restaurando, in sostanza, il criterio quantitativo del metus
(della progressione di intensità); dall’altro lato, però, recuperando – soprattutto per caratterizzare meglio l’induzione “spiegandone” la struttura di fattispecie plurisoggettiva necessaria propria (punibilità
di entrambi i soggetti) – il criterio “sussidiario” del
danno/vantaggio, che più che un complemento diviene un integratore della criteriologia distintiva
quando da identificarsi sia il concetto di “induzione”.
Ci sembrano particolarmente significativi in merito i seguenti passi:
(39) Ibidem, 34.
(40) Ibidem, 38.
Le Società 6/2014
- «In sintesi: la costrizione evoca una condotta di
violenza o di minaccia. La minaccia, in particolare,
quale vis compulsiva, ingenera ab extrinseco il timore
di un male contra ius, per scongiurare il quale il destinatario finisce con l’aderire alla richiesta dell’indebita dazione o promessa» (39).
- «La tipicità della fattispecie induttiva è quindi
integrata dai seguenti elementi: 1) l’abuso prevaricatore del pubblico agente; 2) il fine determinante
di vantaggio indebito dell’extraneus. Conclusivamente, il funzionario pubblico, ponendo in essere
l’abuso induttivo, opera comunque da una posizione di forza e sfrutta la situazione di debolezza psicologica del privato, il quale presta acquiescenza alla
richiesta non certo per evitare un danno contra ius,
ma con l’evidente finalità di conseguire un vantaggio indebito (certat de lucro captando)» (40).
Come si vede, l’approdo sin qua è sovrapponibile
allo schema Melfi, salvo l’ulteriore complicazione
di una sostanziale compenetrazione dei due criteri
alternativi, che in quel modello di soluzione parevano piuttosto distanziati, sia nella posizione gerarchica (principale/accessorio) sia nell’iter della verifica (prima il principale, se questo è insufficiente
subentri il complementare). In ogni caso, gli stessi
rilievi critici – e di criticità interpretativa – mossi
a quel modello sarebbero riproponibili, forse rafforzati, nei confronti dello schema Maldera.
Proprio di ciò sembra avvedersi, a questo punto, la
Corte, e con una brusca sterzata vien ad affermare
quanto segue:
- «Devesi, tuttavia, rilevare che il percorso argomentativo sin qui sviluppato nel tracciare il discrimen tra i concetti di costrizione e di induzione è
certamente fruibile, senza alcuna difficoltà, in quei
casi in cui la situazione di fatto non evidenzia incertezze di sorta, nel senso che appare chiaro, sul
piano probatorio, l’effetto perentoriamente coartante ovvero quello persuasivo che l’abuso del pubblico agente cagiona sulla libertà di autodeterminazione della controparte. Non possono però sottovalutarsi casi più ambigui, border line, che si collocano al confine tra concussione e induzione indebita,
per i quali non sempre è agevole affidarsi, quasi in
automatico, al modello interpretativo qui privilegiato» (41).
Lapalissiano. Ma sono proprio i casi border line, la
“zona grigia”, come la definirà la stessa Corte, a richiedere solidi principi discretivi. E di tale zona
grigia le Sezioni Unite si affrettano, peraltro, a for(41) Ibidem, 40.
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Diritto penale commerciale
nire un nutrito catalogo di esempi, così sintetizzabili:
- Abuso generico di qualifica (42): il caso del pubblico agente che «fa pesare, per conseguire la dazione,
tutto il peso della sua posizione soggettiva, senza
alcun riferimento al compimento di uno specifico
atto del proprio ufficio o servizio»;
- Prospettazione di un danno generico, «che il destinatario, per autosuggestione o per metus ab intrinseco, può caricare di significati negativi, paventando
di poter subire un’oggettiva ingiustizia» (43);
- Minaccia-offerta o minaccia-promessa: tipico caso
che «che ricorre quando il pubblico agente che
non si sia limitato a minacciare un danno ingiusto
(ad es., l’illegittima e arbitraria esclusione da una
gara d’appalto) ma abbia allettato contestualmente
il suo interlocutore con la promessa di un vantaggio indebito (aggiudicazione certa dell’appalto pubblico a scapito dei concorrenti)» (44);
- Minaccia dell’uso di un potere discrezionale: a seconda del tipo di segnale circa il concreto uso della discrezionalità amministrativa (sfavorevole vs favorevole al privato) il confine si può spostare dall’una
all’altra delle figure, ma in questo ambito l’indeterminatezza dei confini e dei contenuti del potere
esercitato non rendono facilmente percepibile, o
facilmente equivocabile lo stesso “messaggio” manipolatorio della volontà del privato (45).
Al cospetto di tali casi critici la sentenza – preso
atto che «il criterio del danno-vantaggio non sempre consente, se isolatamente considerato nella sua
nettezza e staticità, di individuare il reale disvalore
di vicende che occupano la c.d. “zona grigia”» (46)
– sembra allora perdere le sue certezze, volgendosi
ad allargare, ma anche impropriare il proprio modello interpretativo; da un lato reso evanescente
dall’evocazione di parametri assolutamente generici
e impraticabili in un processo garantista (quale il
“bilanciamento dei beni giuridici in conflitto”),
dall’altro lato integrato da ulteriori criteri che tuttavia appaiono come un puro e semplice ritorno all’antico.
Si consideri in particolare la fissazione di seguenti
principi-indice che hanno tutta l’apparenza di criterio finale o “di chiusura”:
- «L’“elemento differenziatore” risiede nella presenza o meno di una “soggezione psicologica” dell’extraneus nei confronti dell’agente pubblico. Solo
(42) Ibidem eod. loco.
(43) Ibidem, 41.
(44) Ibidem eod. loco.
(45) Ibidem, 43.
(46) Ibidem, 44.
744
l’induzione indebita è caratterizzata da uno stato di
soggezione psicologica e da un processo volitivo
che non è spontaneo ma è innescato, in sequenza
causale, dall’abuso del funzionario pubblico, che
volge a suo favore la posizione di debolezza psicologica del primo. Indice sintomatico dell’induzione è
certamente quello dell’iniziativa assunta dal pubblico agente. Il requisito che contraddistingue, nel
suo peculiare dinamismo, la induzione indebita e la
differenzia dalle fattispecie corruttive è la condotta
comunque prevaricatrice dell’intraneus, il quale,
con l’abuso dei suoi poteri, convince l’extraneus alla indebita dazione o promessa» (47).
Con una certa sorpresa bisogna costatare, dunque,
che alla “stretta finale” la criteriologia distintiva
torna a volgersi, nell’individuazione dell’indice “di
chiusura”, al requisito formale della iniziativa, cioè
il primo, storicamente, ad essere abbandonato. Né
vale a dire che esso è pur sempre indicato come
“sintomo” piuttosto che come criterio puro e semplice, nella misura in cui, in definitiva, nella “zona
grigia” della variegata casistica corruttiva resta l’unico privo di equivocità e di facile accertamento
probatorio (48).
6. Conclusioni provvisorie: il precario
assetto sistematico e interpretativo dei
“delitti di corruzione”
6.1. In conclusione, il quadro complessivo dell’ermeneutica che si sta, almeno provvisoriamente,
consolidando sulla nuova sistematica dei delitti
contro la P.A. non sembra confortante: sia per le
indubbie criticità e contraddizioni interne che il
frettoloso confezionamento della riforma ha prodotto e lasciato a carico degli interpreti; sia per i
non sicuri orientamenti che i giudici del diritto
hanno saputo (o non saputo) fornire ai destinatari
delle norme. Fra gli altri, e non fra gli ultimi, alle
governances delle Società di capitali, che - come a
tutti è evidente - sono particolarmente esposti alle
ricadute che il rischio-reato corruzione può produrre al loro interno. La nuova disciplina impone
un’indispensabile revisione della compliance e dei
Modelli organizzativi per adeguarli alle modifiche,
in senso estensivo (si pensi alla neo-incriminazione
del privato indotto, con corrispondente modifica
dell’art. 25 d.lgs. n. 231/2001 oppure alla neo-in(47) Ibidem, 49.
(48) Valorizza questo criterio come l’unico, in definitiva,
realmente praticabile M. A. Bartolucci, Concussione, induzione
indebita e corruzione propria, cit., 17 s.
Le Società 6/2014
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Diritto penale commerciale
criminazione della corruzione attiva susseguente),
o in senso solo rimodulatorio (si pensi al “nuovo
volto” dell’art. 318 c.p.) del perimetro della punibilità, introdotte dalla “Legge Severino”. A questi
fini, ovviamente, una chiara visione, non solo del
quadro normativo-formale, ma anche del “diritto
vivente” di formazione giurisprudenziale risulta viatico indispensabile, tanto per la dirigenza quanto
per l’O.d.V. di un ente sottoposto al regime della
231.
In proposito, sui punti fermi sembrano però prevalere le questioni aperte o i nodi che appaiono addirittura inestricabili per via interpretativa, perché
dovuti a vizi genetici della norma.
Provando allora a riassumere.
(i) Nel rapporto fra concussione e induzione indebita, anche dopo l’intervento nomofilattico a Sezioni Unite della Cassazione la ricognizione dei
confini continua a essere lasciata alla discrezionalità del giudice, che, in linea di massima, opererà
inevitabilmente con la tecnica del “caso per caso”.
Tuttavia, alcuni paletti, derivanti dallo stesso sistema, o da singoli nuclei precettivi, non saranno superabili. Si consideri, ad esempio, che la clausola
di riserva dell’art. 319quater, da un lato, e il tenore
del combinato disposto degli artt. 318-321, dall’altro lato, dovrebbero comportare, al di là dei singoli
criteri discretivi di volta in volta individuati (metus piuttosto che danno/vantaggio), le seguenti conseguenze:
- Risolto in qualche modo il conflitto fra 317 e
319quater a favore della seconda norma, al privato,
per non farlo rispondere del più grave reato di corruzione, dovranno essere riconosciuti, non solo una
finalità di vantaggio, nell’accettazione del “pactum
sceleris” (altrimenti - pare di capire alla stregua dello schema Maldera, - subentra la concussione), ma
anche un condizionamento psicologico causato dal
pubblico agente; e se così è, parrebbe davvero difficile non ricorrere sempre al soccorso del criterio
formale dell’iniziativa per dipanare la matassa.
Le Società 6/2014
- Per contro, se si ritenesse in un caso concreto applicabile (secondo la schema Maldera, o anche altro modello interpretativo) l’art. 319quater, il pubblico ufficiale, per sfuggire alla tagliola della clausola di riserva, dovrebbe veder riconosciuta la non
contrarietà al dovere dell’atto mercificato (l’art.
319 per il pubblico agente prevede una comminatoria penale nel complesso superiore); se ne deve
dedurre che l’induzione può avere ad oggetto solo
atti conformi, o attività pubbliche non concretizzate in singoli, specifici atti?
(ii) Nel raffronto invece fra “condotte induttive”,
al di là della diversa opinione espressa nella sentenza in re Maldera, sembra davvero difficile ricavare spazio per un tentativo punibile di “Induzione
indebita” (comb. disp. artt. 56 e 319quater c.p.).
L’art. 322, configurando la punibilità dell’istigazione corruttiva non accolta del pubblico agente, deroga al divieto di punibilità del tentativo di partecipazione fissato a livello generale dall’art. 115
c.p.; l’iniziativa (la “sollecitazione”) del pubblico
agente in questo caso è intrinseca, e tipizzante la
condotta, mentre rispetto all’art. 319quater non è
concepibile un’iniziativa istigatoria del privato nei
confronti dell’agente pubblico. In breve: il privato
che “prenda l’iniziativa” istigando un pactum sceleris risponderà ex art. 322 di istigazione alla corruzione; l’agente pubblico che “solleciti”, prendendo
l’iniziativa, una dazione al privato senza riuscire a
“indurlo” quanto meno alla promessa avrà già integrato l’art. 322, che quindi “esaurisce” con la consumazione la sovrapponibile fattispecie di induzione illecita tentata.
Come si vede le questioni aperte restano molte e
non si prospettano di facile e rapida soluzione; sarà
dunque affidato al compito, per il momento della
Cassazione, di dare risposta coerente e stabile a
questi molti quesiti, orientando in modo meno
frammentario i destinatari delle norme, persone
giuridiche comprese.
745
Diritto commerciale e societario
Giurisprudenza
Osservatorio di giurisprudenza
di legittimità
di Vincenzo Carbone
con la collaborazione di Romilda Giuffrè
AMMINISTRATORI
AMMINISTRATORI DI FATTO E RESPONSABILITÀ
Cassazione civile, sez. I, 11 aprile 2014, n. 8591 - Pres.
Rordorf - Rel. Mercolino - P. c. Fallimento Amministrazione Condomini s.r.l.
Società - Società di capitali - Amministratori - Amministratori di fatto - Responsabilità
(Cod. civ. artt. 2392, 2393)
Il mero esercizio delle funzioni gestorie costituisce il
presupposto dell’azione di responsabilità contemplata
nell’art. 2393 c.c., in quanto, per costante insegnamento
giurisprudenziale, le norme che disciplinano la responsabilità degli amministratori delle società di capitali sono applicabili anche a coloro i quali, come amministratori di fatto, si siano ingeriti nella gestione sociale in assenza di una qualsivoglia investitura da parte della società, a condizione che lo svolgimento delle funzioni gestorie non si sia esaurito nel compimento di atti di natura eterogenea ed occasionale, ma abbia avuto carattere di sistematicità e completezza, sì da condizionare
le scelte operative dell’ente (massima non ufficiale).
Il principio di diritto viene ribadito dalla Suprema Corte per
cassare con rinvio la sentenza della Corte di Appello di Roma che, confermando quella resa dal Tribunale di Viterbo,
aveva accolto la domanda di condanna alla restituzione di
somme, formulata dalla Curatela fallimentare di una s.r.l.
nei confronti, tra l’altro, di un socio ritenuto - erroneamente, secondo i giudici di legittimità - anche amministratore
di fatto della società.
Giurisprudenza pacifica e costante.
RESPONSABILITÀ: AZIONE DEL TERZO ED AZIONE
DELLA SOCIETÀ
Cassazione civile, sez. I, 11 aprile 2014, n. 8458 - Pres.
Salmè - Rel. Bisogni - Fallimento Donati s.r.l. c. S.M. ed
altri
Società - Società di capitali - Amministratori - Responsabilità - Ex art. 2395 c.c. - Presupposti soggettivi - Diversità rispetto alla responsabilità ex art. 2394 c.c. - Fattispecie
(Cod. civ. artt. 2394, 2395)
In tema di azioni nei confronti dell’amministratore di società, a norma dell’art. 2395 c.c., il terzo è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all’esperimento dell’azione (di natura aquiliana) per ottenere il risarcimento
746
dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall’amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l’ente, ovvero il ceto
creditorio per effetto della cattiva gestione, essendo altrimenti proponibile la diversa azione (di natura contrattuale) prevista dall’art. 2394 c.c., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore, ai sensi dell’art. 146
della Legge fallimentare (massima non ufficiale).
Il Tribunale di Genova, in accoglimento della corrispondente domanda formulata dalla Curatela fallimentare di una
s.r.l., condanna gli amministratori di altra s.r.l. al risarcimento dei danni ex art. 2395 c.c. per aver costoro svuotato
il patrimonio della società da loro amministrata, impedendo il soddisfacimento di un credito della fallita, derivante
dalla risoluzione di un contratto di fornitura di materiali pronunciata, con sentenza passata in giudicato, dal Tribunale
di Venezia. La Corte di appello accoglie il gravame dei soccombenti, ritenendo che la domanda fosse fondata su un
fatto (il depauperamento della società) non riconducibile alla previsione dell’art. 2395, ma piuttosto a quella del 2394
c.c. I Giudici di legittimità cassano la sentenza con rinvio,
ritenendo necessario accertare in fatto se il depauperamento fosse stato teso unicamente a sottrarre la società
dall’obbligo di adempiere il credito accertato con forza di
giudicato dal tribunale veneziano oppure se esso fosse stato posto in essere con lo scopo di tenere indenne la società, i soci ed i creditori dalle conseguenze negative dell’adempimento, con conseguente applicazione della norma di
cui all’art. 2394 c.c.
Principio pacifico.
BANCHE
RESPONSABILITÀ PER CATTIVA GESTIONE DEL RISPARMIO
Cassazione civile, sez. I, 24 febbraio 2014, n. 4393 Pres. Vitrone - Rel. Didone - X ed altro c. Banca Y
Banca - Gestione patrimoniale - Negligenza - Per singoli
periodi temporali - Valutazione globale - Esclusione
(Cod. civ. artt. 1176, 1218, 1476, 1710)
Secondo i principi più volte enunciati da questa Corte,
non è giustificabile una valutazione globale della gestione patrimoniale operata da una banca, che compensi perdite e guadagni realizzati in separati contesti temporali, laddove ciò che conta è la persistenza del comportamento diligente del gestore durante tutto il tempo
della gestione (massima non ufficiale).
Le Società 6/2014
Diritto commerciale e societario
Giurisprudenza
Il Tribunale di Verona aveva accolto la domanda proposta
dall’attore nei confronti di una banca, tesa ad ottenerne la
condanna al risarcimento dei danni derivanti dalla negligente gestione del proprio patrimonio mobiliare. La Corte
di appello di Venezia aveva riformato la sentenza di primo
grado, ritenendo che la valutazione del comportamento
della banca dovesse essere operata nel suo complesso,
per cui l’illegittimo comportamento da questa serbato nell’ultimo anno di gestione, durante il quale il cliente, senza
essere avvisato delle operazioni compiute, aveva conseguito una minore redditività del proprio investimento rispetto
ai due anni precedenti, era sanato, per compensazione, dai
risultati favorevoli ottenuti nel primo biennio.
La Suprema corte cassa la sentenza impugnata dagli originari attori, ritenendo che la violazione dei principi di negligenza si debba valutare non nel suo complesso, ma per
singole “operazioni” e che nessun onere di contestazione
con relativa decadenza ricada, di anno in anno, sul cliente.
Principio pacifico.
SOCIETÀ DI CAPITALI
FUSIONE PER INCORPORAZIONE: REPETITA IUVANT
Cassazione civile, sez. I, 11 aprile 2014, n. 8600 - Pres.
Vitrone - Rel. Didone - G. ed altro c. Unicredit Credit
Management Bank s.p.a.
Società - Fusione - Effetti - Fattispecie
La fusione per incorporazione, che si sia verificata prima dell’entrata in vigore del novellato art. 2504 bis c.c.,
determina l’estinzione della società incorporata, non
avendo la nuova disciplina normativa della fusione, introdotta dal D.lgs. n. 6/2003, carattere interpretativo ed
efficacia retroattiva, ma esclusivamente innovativo. Le
fusioni anteriori alla novella, pur dando luogo ad un fenomeno successorio, si diversificano dalla successione
mortis causa (con conseguente inapplicabilità della disciplina dell’interruzione di cui agli artt. 299 ss. c.p.c.)
perché la modificazione dell’organizzazione societaria
dipende esclusivamente dalla volontà delle società partecipanti, con la conseguenza che quella estinta non è
pregiudicata dalla continuazione di un processo del
quale era a conoscenza, così come nessun pregiudizio
subisce l’incorporante (o la società risultante dalla fusione), che può intervenire nel processo ed impugnare
la decisione sfavorevole (massima non ufficiale).
Il Tribunale di Palermo, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto dal Banco di Sicilia nel 2002, dichiara
estinto il processo interrotto per la dichiarata incorporazione del Banco in Capitalia s.p.a., in quanto - a suo dire - tardivamente e/o malamente riassunto dagli opponenti. La
Corte di appello rigetta il gravame. La Cassazione, in accoglimento del ricorso, rinvia al primo Giudice, ribadendo i
suestesi principi, sanciti anche dalle Sezioni Unite: per i
Giudici di legittimità, infatti, il processo non avrebbe mai
dovuto essere dichiarato interrotto.
Principio pacifico.
Giurisprudenza pacifica.
(Cod. civ. art. 2504 bis)
Le Società 6/2014
747
Diritto commerciale e societario
Giurisprudenza
Osservatorio di giurisprudenza
di merito
a cura di Alessandra Stabilini
FALLIMENTO
EFFETTI INTERRUTTIVI DEL FALLIMENTO E DECORRENZE
DEI TERMINI PER LA RIASSUNZIONE DEL GIUDIZIO
Tribunale di Milano 27 marzo 2014 - G.U Riva Crugnola
- D.R. c. Socrate Medical
Società - Società di capitali - Fallimento - Effetto interruttivo sui giudizi pendenti - Decorrenza del termine per la
riassunzione.
(l.fall. art. 43)
Sebbene, ai sensi dell’art. 43 l.fall., la dichiarazione di
fallimento spieghi automaticamente l’effetto di interrompere tutti i giudizi in cui è parte la società, ai fini
della riassunzione del giudizio il termine trimestrale
non decorre dalla dichiarazione di fallimento, bensì dal
giorno in cui la parte interessata alla riassunzione ne è
venuta a conoscenza (nel caso di specie, la conoscenza
legale dell’evento interruttivo è stata fatta coincidere
con la dichiarazione in udienza dell’intervenuto fallimento della società).
La Socrate Medical S.r.l. ha ottenuto un decreto ingiuntivo
per Euro 1.250.000,00 nei confronti del signor D.R., a fronte del mancato versamento, da parte del resistente, dei
conferimenti per l’ingresso del medesimo nella compagine
sociale di detta società.
D.R. ha proposto opposizione avverso tale decreto ingiuntivo. Alla prima udienza, tenutasi il 17 aprile 2013, la difesa
dell’opposta ha dato atto dell’intervenuto fallimento, in data 29 marzo 2013, di Socrate Medical. Il giudizio è stato,
quindi, dichiarato interrotto dal G.I. ed è stato poi riassunto
dall’opponente con ricorso depositato il 9 luglio 2013.
Il Fallimento, nel costituirsi in giudizio a seguito della riassunzione, ha eccepito l’estinzione del processo (e il conseguente consolidamento del decreto opposto) per tardività
della riassunzione, posto che la stessa sarebbe intervenuta
a seguito della scadenza del termine trimestrale di cui all’art. 305 c.p.c. (termine che, nelle prospettazioni dell’opposto, deve decorrere dalla dichiarazione di fallimento, stante
l’effetto interruttivo automatico ex art. 43 l.fall.).
A riguardo va considerato che:
- l’art. 43, terzo comma, l.fall. configura l’interruzione del
processo quale conseguenza automatica della dichiarazione di fallimento, così elidendo la disciplina generale dettata
dall’art. 300 c.p.c.;
- una lettura costituzionalmente orientata della norma, tuttavia, impone di fare decorrere il termine per la riassunzione del giudizio interrotto dalla data in cui la parte che ha interesse alla riassunzione ha avuto legale conoscenza dell’evento interruttivo;
748
- secondo il Fallimento opposto la data di legale conoscenza dell’apertura di fallimento andrebbe individuata nella data di iscrizione della sentenza dichiarativa di fallimento
presso il registro delle imprese;
- tale conclusione, tuttavia, non pare condivisibile posto
che l’iscrizione della sentenza di fallimento spiega soli effetti concorsuali senza che possa trarsi alcuna rilevanza a
livello endoprocessuale di tale circostanza;
- tale interpretazione trova conferma nell’analogo orientamento di legittimità in tema di irrilevanza endoprocessuale
della presunzione ex art. 2193 c.c. di conoscenza in capo
ai terzi dei fatti iscritti nel Registro delle Imprese, orientamento espresso in particolare nella sentenza delle sezioni
unite n. 19509/2010.
Per tali motivi, sebbene, ai sensi dell’art. 43 l.fall., la dichiarazione di fallimento spieghi automaticamente l’effetto di
interrompere tutti i giudizi in cui è parte la società, ai fini
della riassunzione del giudizio il termine trimestrale non decorre dalla dichiarazione di fallimento, ma dalla dichiarazione in udienza dell’intervenuto fallimento.
Al rigetto dell’eccezione preliminare consegue la prosecuzione del giudizio per la quale si provvede con separata ordinanza.
Conformi alla massima sopra estesa Trib. Milano 31
gennaio 2013, n. 1392 in DeJure 2013 e Trib. Bari 14 dicembre 2010, in Giur. merito 2011, 9, 2137.
FINANZIAMENTO SOCI
SUL PRIVILEGIO IN SEDE FALLIMENTARE PER IL SOCIO
CHE HA ISCRITTO IPOTECA GIUDIZIALE SU UN IMMOBILE
DELLA SOCIETÀ A FRONTE DI UN FINANZIAMENTO SOCI
Tribunale di Milano 5 febbraio 2014 - G.U. E. Riva Crugnola - Generali-Troise c/ St. Andrews
Finanziamento soci - Credito - Credito postergato - Condizione di inesigibilità del credito.
(Cod. civ. art. 2467, comma 2)
La condizione di inesigibilità del credito posta dalla lettera dell’art. 2467, comma 2, c.c. può essere eccepita
dagli amministratori nei confronti del socio finanziatore
soltanto laddove il finanziamento sia stato disposto e il
rimborso richiesto in presenza di una situazione di specifica crisi della società, in quanto la disciplina normativa mira ad evitare che i soci - non conferendo capitale
ma assumendo la veste di creditori - possano traslare il
rischio di impresa sugli altri creditori, così proseguendo
l’attività sociale in danno di questi ultimi.
Le Società 6/2014
Diritto commerciale e societario
Giurisprudenza
Finanziamento soci - Credito - Credito postergato - Condizione di inesigibilità del credito.
(Cod. civ. art. 2467, comma 2)
In presenza dei presupposti di cui al secondo comma
dell’art. 2467 c.c. sia al momento di esecuzione del finanziamento sia al momento della richiesta di rimborso, gli amministratori sono tenuti ad eccepire la condizione di inesigibilità del credito derivante dalla postergazione al socio richiedente il rimborso del finanziamento, laddove al momento del rimborso sussistano
creditori “ordinari” titolari di crediti scaduti e non soddisfatti ovvero ancora non scaduti.
Gli eredi del socio Generali adivano il Tribunale di Milano
per vedere condannare la società St. Andrews alla restituzione della somma mutuata dal de cuius nel periodo dal
2006 al 2010 alla società, credito caduto in successione e
quindi acquisito dagli eredi stessi. In via subordinata, gli
eredi chiedevano al Tribunale che, qualora dovessero ritenersi provate le condizioni di postergazione di cui all’art.
2467 c.c., ferma la pronuncia di accertamento della sussistenza del credito, fosse dichiarato il credito così accertato
postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori
della società.
La società convenuta resisteva contestando la qualificazione della somma versata dal Generali quale finanziamento
soci, affermandone la natura di conferimento di capitale di
rischio, ed eccependo in via subordinata la postergazione
del credito, essendo sempre stata la società in situazione
di crisi.
Il Tribunale di Milano, quindi, torna ad analizzare la ratio
della disciplina dettata dal codice civile sul tema della postergazione del credito del socio finanziatore, interrogandosi sulla portata del tenore letterale dell’art. 2467 c.c. e, in
particolare, sull’applicabilità della disposizione solamente
in sede di attuazione della garanzia patrimoniale nell’ambito di procedure esecutive individuali o concorsuali ovvero
nell’ambito della liquidazione, con esclusione, quindi, di
una più ampia rilevanza dell’istituto durante societate.
Ricordando l’esistenza di due tesi contrapposte sul tema, il
Tribunale ritiene che la dicotomia tra le due posizioni esistenti possa essere superata ove si acceda a un’interpretazione della disciplina dei presupposti di postergazione ex
art. 2467 c.c. che individua nella elencazione normativa di
tali presupposti la esemplificazione di una nozione unitaria
definibile come “rischio di insolvenza”, che dia luogo ad un
concorso potenziale tra tutti i creditori. In conformità a tale
considerazione, la norma perseguirebbe lo scopo di evitare
che i soci, assumendo la veste di finanziatori in un momento di crisi della società, possano traslare il rischio di impresa su altri creditori.
In tale ottica, il Tribunale considera quindi preferibile ritenere la norma applicabile ogni volta in cui il finanziamento ed
il relativo rimborso siano intervenuti in un periodo di crisi,
escludendo che sia necessaria l’esistenza di una procedura
concorsuale ovvero di liquidazione, dovendosi piuttosto reputare, conformemente all’interpretazione data dalla Corte
di Cassazione (24 luglio 2007, n. 16393), che l’art. 2467
c.c. sia stato introdotto per le imprese che siano entrate o
stiano per entrare in crisi, al fine di prevedere un principio
di corretto finanziamento la cui violazione comporta una riqualificazione imperativa del prestito in prestito postergato
rispetto alla soddisfazione degli altri creditori.
Le Società 6/2014
Sulla base di tale interpretazione, il Tribunale di Milano rigetta la domanda di condanna degli attori, ma accoglie la
domanda subordinata, riconoscendo che le somme erano
state versate dal Generali in un momento di andamento negativo della società, come provato dalla convenuta e non
contestato, e dovendo quindi ritenere dimostrata la sussistenza dei presupposti di postergazione ex 2467 c.c. come
individuato secondo l’orientamento sopra riportato e come
rilevabile, nel caso di specie, dalle pattuizioni negoziali riportate nei documenti contabili.
Conformi alla prima massima, si vedano Trib. Milano 15
gennaio 2014, in Giur. comm., fasc. 2, 2013, 260; Trib.
Milano, sez. VIII, 11 novembre 2010, in Riv. soc., 2013,
1089.
Conforme alla seconda massima, si veda Trib. Milano,
sez. VIII, ord., 2 luglio 2013, in Giur. comm., fasc. 5,
2012, 804.
SOCIETÀ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA
REVOCA DELL’AMMINISTRATORE DA PARTE DEL SOCIO
Tribunale di Milano 10 febbraio 2014 - G.U A. Dal Moro
- R.P. + 4 c. Milano Ristorazione S.p.A. + 1
Società - Società di capitali - Società a partecipazione
pubblica - Natura della società - Società in house.
(d.l. n. 95/2012 art. 4, comma 8, e d.l. n. 223/2006, art.
13, conv. in l. 248/2006)
Non è sufficiente che una società sia interamente partecipata da soci pubblici affinché vengano integrati tutti i
presupposti della società in house. A tale fine, infatti, è
altresì necessario che sussistano i requisiti (i) del controllo analogo (inteso nel senso che l’organo amministrativo della società non deve avere rilevanti poteri gestionali, poteri attribuiti all’ente pubblico partecipante
nei cui confronti si instaura un rapporto di vera e propria subordinazione gerarchica) e (ii) della prevalenza
dell’attività svolta a favore dell’ente pubblico affidante.
Società - Società di capitali - Società a partecipazione
pubblica - Natura della società - Società in house.
(d.l. n. 95/2012 art. 4, comma 8, e d.l. n. 223/2006, art.
13, conv. in l. 248/2006)
Il modello della società in house comporta forti deroghe
alla disciplina prevista dal legislatore per le società di
capitali (in particolare dal momento che gli amministratori sono soggetti a condizionamenti radicali, decisivi
per l’operatività aziendale da parte del socio pubblico
in contrasto con l’art. 2380 c.c. e la centralità riconosciuta all’organo amministrativo dalla legge) e, pertanto, ha carattere eccezionale.
Società - Società di capitali - Società a partecipazione
pubblica - Natura della società - Diritto del socio pubblico
di nominare e revocare gli amministratori - Revoca dell’amministratore - Giusta causa di revoca.
(Cod. civ. art. 2383)
749
Diritto commerciale e societario
Giurisprudenza
Quando l’ente pubblico partecipa ad una società per
azioni soggiace alla natura strettamente privatistica del
modello societario.
Società - Società di capitali - Società a partecipazione
pubblica - Natura della società - Diritto del socio pubblico
di nominare e revocare gli amministratori - Revoca dell’amministratore - Giusta causa di revoca.
(Cod. civ. art. 2383)
Nel caso in cui lo statuto di una società a partecipazione pubblica preveda che il potere di nomina degli amministratori venga esercitato direttamente dall’ente
pubblico ex art. 2449 c.c., quest’ultimo nell’esercizio di
tale diritto speciale agisce come organo della società.
In capo agli amministratori nominati, pertanto, si instaura un rapporto di mandato solo con la società.
Società - Società di capitali - Società a partecipazione
pubblica - Natura della società - Diritto del socio pubblico
di nominare e revocare gli amministratori - Revoca dell’amministratore - Giusta causa di revoca.
(Cod. civ. art. 2383)
Posto che - anche in caso di società partecipate da enti
pubblici cui è attribuito il potere di nomina degli amministratori ex art. 2449 c.c. - in capo agli amministratori
nominati si instaura un rapporto di diritto solo con la
società, è solo nella prospettiva dell’ordinamento societario che vanno valutate le conseguenze della revoca
anticipata del mandato gestorio. Ne consegue che, anche in tali ipotesi, in mancanza di giusta causa di revoca
gli amministratori hanno diritto di chiedere alla società
il risarcimento del danno patrimoniale ai sensi dell’art.
2383 c.c.
Milano Ristorazione è società interamente partecipata dal
Comune di Milano, nel cui statuto è presente una clausola
tale per cui la nomina e la revoca degli amministratori è appannaggio del socio pubblico e non dell’assemblea.
Esercitando tale potere, con provvedimento in data 14 luglio 2011, il nuovo sindaco di Milano ha disposto la revoca
dei signori R.P. + 3 che, all’epoca, rivestivano la carica di
amministratori di detta società. A fondamento del provvedimento di revoca, il sindaco non ha indicato alcuna giusta
causa, limitandosi a menzionare gli estremi normativi che
avrebbero consentito di disporre la predetta revoca.
In un tale contesto, R.P. + 3 hanno convenuto in giudizio
Milano Ristorazione e il Comune di Milano chiedendo di (i)
accertare che la loro revoca è stata disposta senza una giusta causa e che il provvedimento di revoca è nullo e, per
l’effetto di (ii) condannare la società Milano Ristorazione e
il Comune di Milano al pagamento degli emolumenti che
sarebbero loro spettati fino alla scadenza del mandato nonché al risarcimento del danno all’immagine asseritamente
patito dagli attori in conseguenza della revoca.
Costituendosi in giudizio, Milano Ristorazione ha eccepito
(i) il difetto di giurisdizione per essere il provvedimento di
revoca un atto amministrativo compiuto dal Comune di per
sé soggetto alla giurisdizione del TAR, (ii) il difetto, quindi,
di legittimazione passiva della società per essere legittimato attivo il solo Comune di Milano quale socio che ha disposto la revoca degli amministratori. Nel merito, la convenuta ha eccepito che la fattispecie sarebbe da ricondurre
750
non già alla disciplina dettata dall’art. 2383 c.c., ma alla diversa disciplina speciale prevista dall’art. 2449 c.c. che, in
caso di società a partecipazione pubblica, non fa alcun riferimento alla giusta causa di revoca.
Il Comune di Milano ha eccepito l’inapplicabilità nella specie dell’art. 2383 c.c. per essere Milano Ristorazione una
società in house pertanto sottratta alla disciplina societaria
e per essere, invece, applicabile l’art. 50 D.Lgs. n.
267/2000.
Quanto alle eccezioni svolte dalle convenute, il Tribunale rileva quanto segue.
- Milano Ristorazione non può essere considerata società
in house. Come noto, infatti, non è sufficiente che una società sia interamente partecipata da soci pubblici affinché
vengano integrati tutti i presupposti della società in house.
A tale fine, infatti, è altresì necessario che sussistano i requisiti (i) del controllo analogo (inteso nel senso che l’organo amministrativo della società non deve avere rilevanti poteri gestionali, poteri attribuiti all’ente pubblico partecipante nei cui confronti si instaura un rapporto di vera e propria
subordinazione gerarchica) e (ii) della prevalenza dell’attività svolta a favore dell’ente pubblico affidante. Né può sostenersi una lettura analogica del modello della società in
house, posto che detto modello comporta forti deroghe alla
disciplina prevista dal legislatore per le società di capitali
(in particolare dal momento che gli amministratori siano
soggetti a condizionamenti radicali, decisivi per l’operatività aziendale da parte del socio pubblico in contrasto con
l’art. 2380 c.c. e la centralità riconosciuta all’organo amministrativo dalla legge) e, pertanto, ha carattere eccezionale
essendo incompatibile con la disciplina della S.p.A.
Nel caso di specie, non solo non vi è controllo analogo (per
essere sottoposta Milano Ristorazione alla direzione e coordinamento del Comune - che è cosa ben diversa), ma non
sussiste nemmeno il criterio della prevalenza. Pertanto alla
società convenuta sono applicabili tutte le previsioni relative alla disciplina delle società a partecipazione pubblica.
- Vi è giurisdizione del giudice ordinario. E, invero, quando
l’ente pubblico partecipa ad una società per azioni soggiace alla natura strettamente privatistica del modello societario. Ne consegue la giurisdizione dell’AGO a conoscere delle controversie originate dalla revoca senza giusta causa
degli amministratori;
- Vi è, altresì, la legittimazione passiva di Milano Ristorazione. Nel caso in cui lo statuto di una società a partecipazione pubblica preveda che il potere di nomina degli amministratori venga esercitato direttamente dall’ente pubblico ex
art. 2449 c.c., quest’ultimo nell’esercizio di tale diritto speciale agisce come organo della società. In capo agli amministratori nominati, pertanto, si instaura un rapporto di
mandato solo con la società che, conseguentemente, è legittimata passiva nella controversia.
Venendo al merito della controversia, le eccezioni delle
convenute appaiono infondate. E, invero, se come si è detto (i) in capo agli amministratori nominati si instaura un
rapporto di mandato solo con la società la quale (ii) agisce
alla stregua di qualsiasi altra società di diritto privato, allora
è evidente che (iii) è solo nella prospettiva dell’ordinamento
societario che vanno valutate le conseguenze della revoca
anticipata del mandato gestorio. Richiamati, dunque, i principi sopra illustrati, deve ritenersi che il potere di revoca
debba essere esercitato dal socio ente pubblico che ha
provveduto alla nomina nel rispetto dei limiti previsti dal diritto comune, onde se la decisione di revoca, imputabile
per quanto detto alla società, non è corredata da giusta
Le Società 6/2014
Diritto commerciale e societario
Giurisprudenza
causa, sorgerà per gli amministratori revocati il diritto di
chiedere alla società stessa il risarcimento del danno patrimoniale.
Pertanto, in via conclusiva, deve essere escluso che nella
specie gli amministratori siano stati revocati in presenza di
una giusta causa e va affermato il loro diritto al risarcimento del danno.
Conformi alla prima massima, si vedano Cass., sez. un.,
25 novembre 2013, n. 26283, in questa Rivista, 2014, 1,
55 nonché Consiglio di Stato, 30 settembre 2010, n.
7214, in Foro amm. CDS 2010, 9, 1884 (s.m).
Quanto alla terza massima si vedano Cass., sez. un., 15
aprile 2005, n. 7799, in Dir. e giust. 2005, 21, 27, nonché,
più di recente, Cass., sez. un., 30 dicembre 2011, n.
30167, in Giust. civ. Mass. 2011, 12, 1910.
Conforme alla quarta e alla quinta massima, si veda
Cass. 15 ottobre 2013, n. 23381, in Giustizia Civile Massimario 2013. Contra, App. Milano 5 maggio 2010, in
questa Rivista, 2011, 262.
Non si sono rinvenuti precedenti conformi alla seconda
massima.
SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA
IMPUGNAZIONE DELLA DELIBERA ASSEMBLEARE
DI ESCLUSIONE DEL SOCIO DI S.R.L. E EFFICACIA
DEL PRINCIPIO TRASLATIO IUDICII NEI RAPPORTI
TRA ARBITRATO IRRITUALE E RITO ORDINARIO
Tribunale di Milano 28 febbraio 2014 - Pres. Est. Riva
Crugnola - Hoga Italia S.r.l. c. R.G.
Società - Società a responsabilità limitata - Sospensione
d’urgenza dell’efficacia della delibera - Clausola compromissoria - Arbitrato irrituale - Traslatio iudicii.
(Cod. civ. artt. 2479ter, 2377, 2378; D.Lgs. n. 5/2003
artt. 34, 35, 36; Cod. proc. civ. artt. 10, 819ter)
Alla luce di una interpretazione costituzionalmente
orientata, anche nei rapporti tra processo ed arbitrato
irrituale si deve riconoscere applicabile il principio della
transatio iudicii - così come la Corte Costituzionale ha
già statuito per i rapporti tra processo ordinario e arbitrato rituale - risultando infatti valide, anche rispetto a
tale tipo di arbitrato, le considerazioni ivi svolte, in particolare con riferimento al fatto che la scelta di ricorrere
agli arbitri per far valere i propri diritti non deve avere
ricadute negative sulla loro effettiva tutela.
Società - Società a responsabilità limitata - Clausola compromissoria - Impugnazione di delibera assembleare - Sospensione d’urgenza dell’efficacia della delibera - Competenza.
(Cod. civ. artt. 2479ter, 2377, 2378; Cod. proc. civ. art.
669quinquies; D.Lgs. n. 5/2003 art. 35)
L’art. 35, comma 5, D.Lgs. n. 5/2003, da ritenersi speciale rispetto alla generale previsione di cui all’art.
669quinquies c.p.c., ha introdotto una spartizione di poteri per così dire diacronica tra arbitri ed autorità giudiziaria, tale per cui la cognizione cautelare in materia di
sospensione dell’efficacia della delibera assembleare
Le Società 6/2014
impugnata appartiene in linea di principio esclusivamente ai primi allorché l’organo arbitrale si sia già costituito, residuando invece la competenza cautelare del
giudice ordinario fino a quel momento, al fine di garantire nella sua pienezza il diritto costituzionale di difesa
– del quale la tutela cautelare è parte integrante - in tutte le fasi della controversia e del procedimento arbitrale.
Società - Società a responsabilità limitata - Esclusione del
socio - Cause determinanti l’esclusione - Statuto.
(Cod. civ. art. 2473bis)
È nulla la clausola statutaria di una società a responsabilità limitata che, nel prevedere una causa di esclusione del socio, risulta priva del necessario requisito di
specificità, limitandosi a fare riferimento alla clausola
generale prevista ex art. 2286 c.c. in tema di inadempimento del socio alla legge e allo statuto. Così statuendo, infatti, essa finisce per risolversi in un generico richiamo ai basilari doveri del socio, che di per sé non
consente di apprezzare ex ante la rilevanza - ai fini della
esclusione - di una specifica condotta e lascia quindi indeterminata l’area dei comportamenti che potranno essere dalla maggioranza valutati ai fini di imporre l’exit ad un membro della compagine: così, in sostanza,
disattendendo la ratio della previsione normativa.
Il socio R.G. impugnava - tempestivamente, avanti al Tribunale delle Imprese di Milano - la delibera assembleare di
Hoga Italia S.r.l., con la quale veniva deliberata la sua
esclusione ex art. 2473bis c.c., in forza di una clausola statutaria della società che prevedeva tale facoltà ogni qual
volta un socio si fosse “reso gravemente inadempiente alle
obbligazioni che derivano dalla Legge e dal presente Statuto”. Contestualmente all’avvio dell’azione di merito, l’attore
depositava apposito ricorso cautelare, ex art. 2378 c.c., per
l’ottenimento di un provvedimento di sospensione anticipata dell’esecuzione della predetta delibera.
La società resistente argomentava le proprie difese, deducendo, in via preliminare, l’incompetenza del giudice adito
in sede ordinaria - in virtù di una clausola arbitrale (irrituale
e d’equità) prevista all’interno dello statuto societario - e,
conseguentemente, sempre in via preliminare, l’inammissibilità del procedimento cautelare instaurato dall’ex socio,
in quanto questi, ormai decaduto dal diritto di impugnare
la delibera in oggetto avanti al giudice competente (poiché
nel frattempo erano scaduti i termini previsti ex lege), non
avrebbe più potuto instaurare la successiva e indispensabile fase di merito. Peraltro, la società resistente deduceva altresì la regolarità del procedimento assembleare impugnato, sia nelle forme che nei contenuti, rappresentando, in
particolare, la fondatezza delle contestazioni poste a fondamento dell’esclusione del socio ricorrente.
Il Giudice del reclamo, confermando l’ordinanza di accoglimento del ricorso, emesso durante la fase di primo grado
del procedimento cautelare, statuiva l’applicabilità, anche
nei rapporti tra procedimento ordinario e arbitrato irrituale,
del principio della traslatio iudicii previsto ai sensi dell’art.
50 c.p.c., disattendendo l’esplicita norma derogatoria di
cui all’art. 819ter, comma 2, c.p.c.
Il Giudice, in particolare, adottando un’interpretazione
estensiva dell’orientamento espresso di recente dalla Corte
Costituzionale (sent. n. 223/2013) - secondo cui l’art.
819ter, comma 2, c.p.c. è da ritenersi illegittimo nei rappor-
751
Diritto commerciale e societario
Giurisprudenza
ti tra arbitrato rituale e procedimento ordinario - riconosceva l’avvenuto spiegamento, nel caso di specie, di tutti gli
effetti dell’impugnazione, sia processuali che sostanziali,
già con la precedente (e tempestiva) instaurazione del giudizio di merito avanti al Tribunale ordinario.
Sulla base di tale principio, il Giudice considerava pienamente ammissibile il ricorso cautelare proposto dal socio
impugnante e considerava altresì competente - sulla scorta
del principio di cui alla seconda massima qui proposta - il
Tribunale adito in tale fase, fintanto che il procedimento arbitrale, alla data del deposito dl ricorso introduttivo, non
era ancora stato instaurato.
Anche nel merito, il Giudice del reclamo confermava quanto statuito nella fase di primo grado, ritenendo invalida una
752
clausola statutaria di esclusione siffatta, per i motivi di cui
alla seconda massima qui riportata.
Non si sono rinvenuti precedenti conformi alla prima
massima. Per il principio di illegittimità costituzionale
dell’art. 819ter, comma 2, c.p.c., si rimanda, comunque,
a Corte Cost. sent. 19 luglio 2013, n. 223, in Foro it.
2013, 10, I, 2690 (s.m.) con nota di D'alessandro, Acone
e Frasca.
Conforme alla seconda massima, si veda Trib. Milano,
sez. VIII, ord., 27 febbraio 2013, in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it.
Quanto alla terza massima si veda Trib. Treviso 17 giugno 2005, in Notariato, 2007, 2, 451 (s.m.) con nota di
Miceli e Trimarchi.
Le Società 6/2014
Diritto dei mercati finanziari
Documentazione
Osservatorio Consob
a cura di Matteo Bet
EMITTENTI
MERCATI
MODALITÀ DI STOCCAGGIO E DEPOSITO
OPERATIVITÀ IN VIOLAZIONE DELLE REGOLE
DELLE INFORMAZIONI REGOLAMENTATE
DI FUNZIONAMENTO DEI MERCATI REGOLAMENTATI
Comunicazione 10 aprile 2014, n. 0029658 - @ In Bollettino Consob 4.1/2014
Informazione societaria - Meccanismi di stoccaggio autorizzati - Autorizzazione
(D.lgs. n. 58/1998, art. 113 ter; Reg. Consob
11971/1999, artt. 116 novies e ss.)
La Commissione ha autorizzato l’esercizio del meccanismo di stoccaggio centralizzato delle informazioni regolamentate denominato “1Info”.
Consob, con la delibera n. 18852 del 9 Aprile 2014, ha
autorizzato la società “Computershare s.p.a.” alla gestione
del meccanismo di stoccaggio centralizzato delle informazioni autorizzate, definite dall’art. 113 ter del T.U.F.
Con l’inizio dell’attività del meccanismo di stoccaggio - fissato al 19 maggio 2014 - sono, dunque,diventate efficaci le
disposizioni del Regolamento Emittenti in materia di stoccaggio e deposito delle informazioni (art. 116 novies e ss.)
approvate con delibera n. 16850 del 1° aprile 2009, ed è
cessato il periodo transitorio previsto nella delibera medesima.
Ai sensi delle citate disposizioni regolamentari, dalla data
del 19 maggio 2014, gli emittenti sono tenuti a trasmettere
le informazioni regolamentate al meccanismo di stoccaggio ed, a tal fine, gli stessi devono aver aderito, entro il 18
maggio 2014, al meccanismo di stoccaggio autorizzato,
mediante la stipulazione di apposito contratto con il gestore del servizio. Le informazioni trasmesse al meccanismo
di stoccaggio si intendono trasmesse anche alla Consob.
La Commissione ha ritenuto opportuno evidenziare che, a
decorrere dalla data di inizio dell’attività del meccanismo di
stoccaggio: (i) le comunicazioni di internal dealing (Allegato
6 del RE) sono pubblicate in formato PDF testo tramite trasmissione al sistema di diffusione (SDIR) e al meccanismo
di stoccaggio. Le medesime informazioni sono trasmesse
al meccanismo di stoccaggio anche in formato XML; (ii) le
comunicazioni di buy back (Allegato 3F del RE) sono pubblicate - entro i primi sette giorni lavorativi del mese successivo a quello di effettuazione delle operazioni - tramite
trasmissione in formato PDF testo al sistema di diffusione
(SDIR) e al meccanismo di stoccaggio. Le medesime informazioni sono trasmesse al meccanismo di stoccaggio anche in formato XML.
Dalla data di inizio dell'attività del meccanismo di stoccaggio delle informazioni è, infine, abrogata la Comunicazione
Consob n. 12027454 del 5 aprile 2012, nella parte in cui disciplinava il regime transitorio.
Le Società 6/2014
ED INTEGRITÀ DEI MERCATI
Delibera del 12 marzo 2014, n. 18828 - @ In Bollettino
Consob 4.1/2014
Mercati ed intermediari - Violazione delle regole di funzionamento dei mercati - Violazione dell’art. 25, comma 3
TUF - Sanzioni amministrative
(D.lgs. n. 58/1998, art. 25, comma 3; Reg. Merc. gestiti
ed organizzati da Borsa Italiana s.p.a., artt. 3.3.1 e 4.11)
Viola l’obbligo di comportarsi con diligenza, correttezza
e trasparenza al fine di assicurare l’integrità dei mercati
sancito dall’art. 25, comma 3 T.U.F. l’intermediario che
non opera in conformità alle regole di funzionamento
dei mercati regolamentati.
La Commissione ha accertato che una banca di investimento italiana, operando per conto di un cliente in qualità
di ope-ratore ammesso alle negoziazioni sul MTA: (i) aveva
assunto, nel periodo intercorrente tra il 19 ed il 27 luglio
2012, una posizione lunga su azioni quotate di una compagnia di assicurazioni tramite l’esercizio di strumenti finanziari derivati (opzioni call) negoziati sull’IDEM e, nell’arco
della medesima giornata, aveva operato in vendita sul
MTA per una quantità corrispondete delle medesime azioni; (ii) a fronte della vendita di n. 994.000 azioni della compagnia, non aveva consegnato nelle giornate di liquidazione previste, n. 494.618 azioni, pari all’13,48% del capitale
ordinario dell’emittente all’epoca disponibile, per un controvalore di circa € 1,6 mln. (le azioni oggetto di fail erano
state consegnate solamente il 2 agosto 2012, giornata nella quale erano state rese disponibili azioni di nuova emissione della compagnia rivenienti dall’esercizio dei diritti di
opzione, con un ritardo medio di poco più di 2 giorni di liquidazione e una durata dei fail di 3 giornate); (iii) aveva
permesso al proprio cliente di operare in vendita sulle azioni medesime, a fronte dell’esercizio di strumenti derivati
negoziati sugli stessi titoli, anche dopo il 24 luglio 2012,
quando era o avrebbe dovuto essere a conoscenza della
mancata consegna a favore dello stesso cliente, da parte
di alcune controparti di mercato, di parte consistente delle
azioni rivenienti dall’esercizio degli strumenti derivati.
Consob ha ravvisato nella condotta della banca la violazione di tre disposizioni del Regolamento dei Mercati organizzati e gestiti da Borsa Italiana, nella parte relativa ai mercati
MTA (mercato nel quale erano trattati i titoli azionari in
questione) e I-DEM. In particolare, secondo la Commissione, la banca aveva violato:
- l’articolo 3.3.1, comma 1 del Regolamento, nella parte relativa al MTA, il quale prevede che «Gli operatori rispettano
il Regolamento, le Istruzioni, gli Avvisi di Borsa Italiana e i
753
Diritto dei mercati finanziari
Documentazione
documenti di carattere tecnico-operativo di accompagnamento al Regolamento e relative Istruzioni, ivi inclusi i Manuali dei Servizi. Gli operatori mantengono una condotta
improntata a principi di correttezza, diligenza e professionalità nei rapporti con le controparti di mercato, negli
adempimenti verso Borsa Italiana e nell’utilizzo dei sistemi
di negoziazione»;
- il comma 8 del medesimo articolo, il quale prescrive che:
«Gli operatori devono dotarsi di efficaci forme di controllo
al fine di monitorare le posizioni contrattuali assunte sul
mercato ed evitare situazioni che possano ostacolare l'ordinato svolgimento delle negoziazioni e la regolare liquidazione dei contratti presso i sistemi di regolamento. Gli operatori devono attuare precise strategie al fine di assicurare il
regolamento dei contratti. Nel caso in cui ravvisino di non
essere più in grado di liquidare nei termini previsti i contratti conclusi su uno strumento finanziario, gli operatori possono compiere nuove operazioni di vendita di tale strumento in conto proprio o per conto di singoli clienti solo se assistite da forme di copertura che assicurino la disponibilità
degli strumenti finanziari nella stessa giornata di liquidazione prevista per l’operazione di vendita»;
- l’art. 4.11, comma 3, il quale dispone che i contratti di
compravendita su titoli azionari conclusi sul MTA siano
compensati presso la Cassa di Compensazione e Garanzia
S.p.A., in qualità di controparte centrale, e siano regolati
presso il servizio di liquidazione Express II gestito da Monte
Titoli S.p.A. il terzo giorno di borsa aperta successivo alla
loro stipula.
La Commissione, rilevato che il mancato rispetto delle regole di funzionamento dei mercati regolamentati da parte
degli operatori comporta la violazione dell’articolo 25, comma 3, del T.U.F., disposizione che prevede l’obbligo per
questi ultimi di comportarsi “con diligenza, correttezza e
trasparenza al fine di assicurare l’integrità dei mercati”, ha
sanzionato la banca ai sensi dell’art. 190, comma 2, lettera
d-ter del T.U.F. Una analoga sanzione è stata inflitta, con la
Delibera n. 18829 del 12 marzo 2014 (pubblicata sul Bollettino 4.1/2014), ad una SIM, che aveva posto in essere sul
titolo della compagnia di assicurazioni attività identiche a
quelle contestate alla banca, nel medesimo periodo di tempo.
OFFERTA AL PUBBLICO DI PRODOTTI FINANZIARI
ASSENZA DI PROSPETTO INFORMATIVO
Delibera 12 febbraio 2014, n. 18799 - @ In Bollettino
Consob 4.2/2014
Appello al pubblico risparmio - Offerta al pubblico di sottoscrizione e vendita - Sanzioni amministrative
(D.lgs. n. 58/1998, art. 94, comma 1)
La promozione tramite sito internet di un contratto di
associazione in partecipazione la cui sottoscrizione consente all’associato di accedere, verso il pagamento di
una quota, ad un programma di investimento che preveda la compravendita di valute e strumenti finanziari,
costituisce offerta al pubblico di prodotti finanziari e deve, pertanto, essere svolta nel rispetto della disciplina
dettata dagli artt. 94 e ss. del T.U.F.
754
Nel novembre 2011 una banca italiana aveva segnalato a
Consob presunte irregolarità commesse da un proprio promotore finanziario. Dagli accertamenti svolti dall’intermediario, era emerso che: (i) il promotore aveva avviato nei
confronti di alcuni soggetti residenti in Italia l’offerta di un
contratto di associazione in partecipazione denominato
Top Access Limited (il nome derivava dalla denominazione
una società inglese a cui il promotore risultava legato da
rapporti di “collaborazione industriale” e di cui era, tra l’altro, risultato, direttore; (ii) l’offerta era avvenuta tramite un
sito internet riconducibile al promotore e redatto in lingua
italiana; (iii) tramite il sito, l’utente poteva accedere,mediante appositi collegamenti (indicati come “My link”), a
quattro ulteriori siti, tra cui un blog riconducibile al promotore, un video di presentazione dell’offerta ed il sito del
“Club JVFX”; (iv) attraverso uno dei possibili collegamenti
sopra indicati, l’utente aveva poi la possibilità di accedere
alla pagina di presentazione del programma denominato
“Club JVFX - Club Joint Venture Forex&Futures”, in cui era
pubblicata una “Lettera del Direttore ai Soci”, nella quale il
promotore definiva l’iniziativa come un “club privato di imprenditori - investitori” a cui era possibile aderire previo
versamento di una quota associativa di 1.000 GBP ed in
cui all’associato veniva offerta la possibilità di “acquistare
prodotti e servizi a lui riservati”, come il “Programma privato di collocamento in indici, valute e materie prime”, caratterizzato, tra l’altro, da un’aspettativa di rendimento elevata
e allettante (R.O.I. 100% per il co-venture); (v) attraverso
l’adesione al Club, l’associato avrebbe avuto la possibilità
di scegliere tra varie strategie d’investimento, allo scopo di
percepire i prospettati rendimenti, senza tuttavia poter intervenire nelle scelte attinenti la gestione (in particolare,
nel sito era presente una sezione denominata “Strategie
Forex” in cui il promotore illustrava tre distinte strategie di
investimento per la compravendita di valute sul “Forex”);
(vi) in relazione ai prospettati guadagni, nella pagina del sito del “Club JVFX” denominata “Opportunità di guadagno”, il promotore faceva presente che “il Club offre ai soci
due opportunità di guadagno: 1) guadagno diretto: ripartizione dei profitti maturati dalla joint venture e partecipazione diretta a programmi privati di collocamento (Private Placement Program) su indici valute e materie prime; 2) guadagno indiretto, con la ripartizione dei profitti maturati dalle
joint venture dei soci che tu hai invitato al club”.
Nel luglio 2012, Consob era già intervenuta nei confronti
del promotore, sospendendo in via cautelare l’offerta al
pubblico delle quote associative al Club JVFX posta in essere tramite i suddetti siti internet, in ragione del fondato
sospetto circa la promozione di un’offerta al pubblico di
prodotti finanziari in violazione della disciplina dettata dal
T.U.F. (Delibera 4 luglio 20132, n. 18266). Successivamente, nel settembre 2012, la Commissione, aveva disposto il
divieto dell’attività di offerta, ai sensi dell’art. 99, comma 1,
lett. c), del T.U.F. (Delibera 26 settembre 2012, n. 18327).
Con la Delibera in commento, la Commissione, anche alla
luce dell’attività istruttoria effettuata in occasione delle precedenti decisioni relative al caso in questione, ha disposto
le sanzioni a carico del promotore.
Secondo la Commissione, l’attività posta in essere dal promotore, volta ad offrire, per il tramite dei sopra indicati siti
internet, le quote associative al “Club JVFX”,era idonea a
configurare un’“offerta al pubblico di prodotti finanziari”,
come definita dall’art. 1, comma 1, lettera t), del T.U.F. Ciò
in quanto, nel caso di specie,era emerso che:
Le Società 6/2014
Diritto dei mercati finanziari
Documentazione
a) la quota di partecipazione al “Club”, connessa allo svolgimento di servizi finanziari, era qualificabile come prodotto finanziario, sub specie di “forma di investimento di natura finanziaria” ex art. 1, comma 1, lett. u), del TUF, in ragione della rilevata compresenza degli elementi qualificanti tali
fattispecie, rinvenibili, secondo la Commissione: (i) nell’impiego del capitale; (ii) in una aspettativa di rendimento; (iii)
nel rischio connesso all’impiego del capitale conferito. Al
riguardo, la Commissione rilevava che dalle evidenze documentali acquisite era emerso che la partecipazione al
“Club” costituiva solo il primo dei passaggi che consentivano all’associato di fruire dei prodotti/servizi forniti dal
medesimo “Club”, tra cui era compreso il servizio di natura
finanziaria per mezzo del quale all’associato veniva offerta
la possibilità, mediante specifiche e predefinite strategie, di
impiegare somme di denaro (per importi minimi e/o massimi prestabiliti) allo scopo di percepire i prospettati rendimenti finanziari. Lo schema negoziale proposto consentiva,
infatti,all’investitore di eventualmente scegliere la strategia
ritenuta più adeguata, senza tuttavia consentirgli di intervenire nelle scelte attinenti la gestione, e l’adesione al “Club”
si poneva, pertanto, come funzionale alla sottoscrizione di
prodotti/servizi “predefiniti”.
b) l’attività di offerta delle quote di adesione al “Club” era
svolta tramite i citati siti internet ed era, dunque, rivolta ad
un pubblico indeterminato di potenziali investitori. In particolare, nei siti veniva fornita la rappresentazione delle caratteristiche e delle condizioni essenziali dell’investimento
proposto, quali, ad esempio, l’indicazione del capitale investibile, del potenziale rendimento, nonché della durata dell’investimento medesimo, che costituivano, secondo la
Commissione, elementi potenzialmente idonei a mettere i
risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno ad uno
dei programmi di investimento proposti e di scegliere quello ritenuto più confacente alle proprie esigenze.
c) tale attività di offerta era rivolta agli investitori italiani in
quanto i predetti siti erano redatti in lingua italiana;
d) l’offerta del programma non ricadeva in alcuna delle ipotesi di esenzione dall’applicazione della disciplina in materia di “appello al pubblico risparmio” di cui agli artt. 93 bis
e ss. del T.U.F.
Quanto sopra premesso, Consob, rilevato che l’attività in
questione, “equiparabile ad una offerta permanente di prodotti finanziari rivolta alla generalità del pubblico”, era stata
posta in essere senza il previo deposito e la successiva
pubblicazione del prospetto informativo, ha applicato al
promotore la sanzione prevista dall’art. 94, comma 1,
T.U.F.
SANZIONI AMMINISTRATIVE
MANIPOLAZIONE DEL MERCATO
Delibera 20 marzo 2014, n. 18839 - @ In Bollettino Consob 4.1/2014
nato il loro Presidente ed Amministratore delegato ai
sensi dell’art. 187 ter comma 1, T.U.F.
Consob ha accertato la falsità delle determinazioni della riserva sinistri r.c. auto e natanti (nel prosieguo «RCA») nei
bilanci consolidati relativi all’anno 2010 di due compagnie
di assicurazioni italiane, ad oggi entrambe incorporate in
una terza compagnia. La Commissione ha, in particolare,
rilevato, con riferimento ad entrambe le imprese, che le informazioni inerenti le determinazioni relative alla riserva sinistri RCA: (i) erano state diffuse al pubblico, in quanto
contenute nei documenti contabili di società quotate, messi a disposizione del pubblico ai sensi dell’art. 154ter del
TUF; (ii) erano false, in quanto le due compagnie, nei bilanci consolidati 2010, non avevano rappresentato in modo
corretto l’ammontare della riserva sinistri RCA delle generazioni 2009 e precedenti, a causa di gravi carenze nelle
procedure di riservazione adottate; 3) erano suscettibili di
«fornire indicazioni false ovvero fuorvianti» in merito alle
azioni delle due compagnie di assicurazioni, in quanto la
corretta determinazione del valore della riserva sinistri RCA
avrebbe comportato variazioni significative nelle voci dei
bilanci consolidati 2010 di entrambe relativamente al patrimonio netto e alla perdita netta, con l’effetto di evidenziare
una situazione economico-patrimoniale delle stesse società
migliore di quella reale, idonea ad influenzare il prezzo delle
loro azioni e le decisioni degli investitori, anche in merito
all’adesione all’aumento di capitale sociale da entrambe
realizzato nel 2011.
Consob ha, quindi, ritenuto che la fattispecie descritta integrasse tutte le circostanze idonee all’applicazione dell’art.
187 ter, comma 1 del T.U.F. ed ha applicato al Presidente
ed Amministratore Delegato della prima compagnia, ed al
Presidente e Amministratore Delegato della seconda (che
era anche amministratore delegato della prima), le sanzioni
amministrative previste dalla citata disposizione, sul presupposto che i due soggetti erano titolari di ampie deleghe
e che essi, in virtù dei ruoli rivestiti, avrebbero dovuto presiedere al corretto svolgimento del processo di riservazione, apprestando a tal fine procedure idonee, che, invece, si
erano rivelate mancanti. Si segnala, infine, che, nel marzo
u.s., Consob aveva applicato sanzioni amministrative alla
società che aveva svolto l’attività di revisione sulla valutazione delle suddette riserve sinistri (rami r.c. auto e natanti
del bilancio di esercizio al 31.12.2010) di una delle due
compagnie sopra citate, riserve la cui determinazione è risultata falsa ai sensi della Delibera in commento, per la violazione di numerosi principi di revisione (si veda la Delibera
4 marzo 2014, n. 18821, nel precedente numero di questa
Rivista).
VIOLAZIONE DELLA DISCIPLINA IN MATERIA
DI INFORMAZIONE SOCIETARIA
Delibera 26 marzo 2014, n. 18847 - @ In Bollettino Consob 4.2/2014
Informazione societaria - Sanzioni amministrative
Manipolazione del mercato - Sanzioni amministrative
(D.Lgs. n. 58/1998, art. 154 ter e 114, comma 5)
(D.lgs. 58/1998, art. 187 ter, comma 1)
La Commissione ha sanzionato un’emittente che, avendo presentato una domanda di concordato preventivo
c.d. in bianco, non aveva provveduto ad approvare il resoconto intermedio di gestione relativo al terzo trimestre di esercizio.
La Commissione ha accertato la falsità delle determinazioni di alcune riserve nei bilanci di due compagnie di
assicurazioni italiane ed ha, conseguentemente, sanzio-
Le Società 6/2014
755
Diritto dei mercati finanziari
Documentazione
Una società emittente aveva reso noto al mercato,con comunicato stampa del 14 novembre 2012, di voler posticipare di “qualche giorno” l’approvazione del resoconto consolidato intermedio di gestione al 30 settembre 2012, in ragione “dei recentissimi ingressi ai livelli apicali … del Dirigente Preposto” e “per permettere di completare le necessarie verifiche in tema di applicazione dei principi contabili
adottati dalla Capogruppo e dal Gruppo”. Con un successivo comunicato stampa del 19 dicembre 2012, la medesima
società - in riferimento alla notizia riguardante la decisione
di rimandare l’approvazione del citato resoconto consolidato intermedio di gestione al 30 settembre 2012 - aveva poi
comunicato di voler “procedere direttamente con l’approvazione dei conti propri e del gruppo al 31 dicembre 2012,
una volta completate tutte le analisi e valutazioni … tipicamente effettuate in sede di redazione di bilancio annuale”.
La società aveva rappresentato la necessità “di effettuare
valutazioni di alcune poste di bilancio specificamente richieste in scenari di incertezza, nonché di procedere con
un’analisi di dettaglio relativamente agli effetti che la nuova
manovra finanziaria, ancora in corso di definizione, avrebbe
determinato sia sul bilancio della capogruppo che a livello
consolidato”. L’emittente aveva, in particolare, giustificato
la propria decisione con la circostanza del deposito della
domanda di ammissione alla procedura di concordato pre-
756
ventivo (ai sensi dell’art. 161, comma 6, L.F.). Con comunicato stampa del 18 marzo 2013, l’emittente aveva poi reso
noto che il Tribunale competente aveva rigettato l’istanza
di proroga del termine per la presentazione della proposta
concordataria, del piano e della documentazione di cui all’art. 160, commi 2 e 3 L.F. ed aveva pubblicato la sentenza
dichiarativa di fallimento. A tal proposito, veniva aggiunto
che il Consiglio di Amministrazione della società aveva deliberato di impugnare il provvedimento di rigetto e che “era
in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza per decidere sulla relativa impugnazione”.
La Commissione - accertato quanto sopra, e rilevato che la
società non aveva provveduto all’approvazione ed alla pubblicazione del resoconto intermedio di gestione al 30 settembre 2012 entro il termine di 45 giorni dalla chiusura del
terzo trimestre di esercizio (che, nel caso di specie, era scaduto in data 14 novembre 2012), ed, inoltre, che la medesima Società non aveva ottemperato alla richiesta formulata
dalla Commissione stessa di pubblicare dei comunicati
stampa mensili contenenti, tra l’altro, “ogni informazione
utile per un compiuto apprezzamento dell'evoluzione della
situazione societaria” - ha inflitto all’emittente le sanzioni
amministrative pecuniarie previste dagli artt. 154 ter e 114,
comma 5 del T.U.F.
Le Società 6/2014
Fisco e Società
Sintesi
Osservatorio fiscale
a cura di Massimo Gabelli
ACCERTAMENTO
ALL’ESTERO DELLA SEDE LEGALE DELLA SOCIETÀ SENZA
DISCONTINUITÀ
Cassazione civile, sez. trib., 19 marzo 2014, n. 6388 Pres. E. Cirillo - Rel. A. Valitutti
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6388, ha affermato che il trasferimento della sede legale di una società
all’estero non determina il venir meno della continuità giuridica della società trasferita e non ne comporta, quindi, in
alcun modo, l’estinzione, e, di conseguenza, la cancellazione degli obblighi e adempimenti pregressi verso l’Amministrazione finanziaria.
Il caso oggetto della sentenza de qua origina da un ricorso
presentato dai rappresentanti legali di una società che aveva trasferito la sua sede legale in Francia ottenendo la cancellazione dal Registro delle imprese italiano. La società
aveva già ricevuto un avviso di accertamento per omessa
presentazione della dichiarazione IVA riferita a periodi d’imposta precedenti con conseguente irrogazione della relativa sanzione amministrativa.
L’atto impositivo veniva impugnato dai rappresentanti legali dinanzi la Commissione Tributaria Provinciale che rigettava il ricorso. Del pari veniva rigettato l’appello proposto dinanzi la Commissione Tributaria Regionale che riteneva del tutto corretta l’affermazione della responsabilità dei
rappresentanti legali per i fatti oggetto dell’atto impositivo,
operata dai giudici di prime cure. I rappresentanti legali
proponevano, pertanto, ricorso in Cassazione.
La Suprema Corte ha stabilito che qualora la cancellazione
di una società dal registro delle imprese italiano sia avvenuta, non a compimento del procedimento di liquidazione
dell’ente, o per il verificarsi di altra situazione che implichi
la cessazione dell’esercizio dell’impresa e da cui la legge
faccia discendere l’effetto necessario della cancellazione,
bensì come conseguenza del trasferimento all’estero della
sede della società (nella specie, in Francia), non può considerarsi verificata l’estinzione dell’ente, ai sensi dell’art.
2495 c.c. Tale norma, invero, stabilisce che l’estinzione della società vada, inequivocabilmente, collegata alla cancellazione avvenuta all’esito dell’approvazione del bilancio finale di liquidazione, a norma del comma 1dello stesso art.
2495 c.c.
Inoltre, il trasferimento della sede all’estero non determina
il venir meno della continuità giuridica della società trasferita e non comporta, quindi, in alcun modo, la cessazione
dell’attività. Ciò è dato modo desumersi, peraltro, del tutto
agevolmente dagli artt. 2437 (S.r.l.) e 2473 (S.p.A.) c.c. laddove prevedono la possibilità di recesso dall’ente “dei soci
che non abbiano concorso alle deliberazioni riguardanti il
trasferimento della sede sociale all’estero”.
I giudici di legittimità hanno concluso che, nel caso di specie, si debba escludere l’estinzione della società.
Le Società 6/2014
La Suprema Corte ha, in seguito, affrontato la questione relativa alla responsabilità dei rappresentanti legali per le
sanzioni irrogate dall’Amministrazione finanziaria.
A tal riguardo, la Corte di Cassazione ha accolto il quarto
motivo del ricorso relativo alle sanzioni comminate per
omessa presentazione della dichiarazione IVA. Invero, la
Suprema Corte ha constatato che la violazione contestata
era stata posta in essere prima dell’entrata in vigore del
D.lgs. n. 472 del 1997 ma l’Agenzia delle Entrate aveva applicato retroattivamente le disposizioni contenute negli articoli 2 e 11 dello stesso decreto. Conseguentemente, la violazione contestata era imputabile alla sola società, quale
soggetto passivo del rapporto tributario, e non alle persone
fisiche dei suoi rappresentanti.
DECADENZA DAL REGIME FISCALE AGEVOLATO DEI PIANI
URBANISTICI PARTICOLAREGGIATI
Risoluzione Agenzia delle Entrate 9 aprile 2014, n. 37/E
L’Agenzia delle Entrate, nella Risoluzione n. 37/E (la “Risoluzione”), ha risposto ad un quesito in merito all’eventuale
irrogazione di sanzioni nelle seguenti ipotesi di decadenza
dal regime agevolato dei piani urbanistici particolareggiati
diretti all’attuazione dei programmi di edilizia residenziale:
i) mancata utilizzazione edificatoria dei terreni nei cinque
anni successivi alla registrazione dell’atto di acquisto; ii)
alienazione dell’immobile prima del termine quinquennale.
La norma di riferimento è l’art. 1, comma 25 della Legge
24 dicembre 2007, n. 244 (e successive modificazioni) che
ha inserito all’art. 1 della Tariffa, Parte prima, del d.P.R. n.
131/1986, un regime fiscale agevolato in base al quale il
trasferimento di immobili compresi in piani urbanistici particolareggiati diretti all’attuazione di programmi di edilizia
residenziale, sono assoggettati all’imposta di registro
dell’1% a condizione che l’intervento cui è finalizzato il trasferimento sia completato entro cinque anni. Si precisa
che il termine è stato prorogato di ulteriori sei anni dall’art.
6, comma 6, del D.L. n. 102/2013, per complessivi undici
anni.
La Risoluzione ha chiarito, con riferimento alle ipotesi di
decadenza per decorso del termine (punto 1), che L’Ufficio
territoriale effettua, con l’ausilio della procedura Campione
Unico in cui vanno iscritti gli atti che fruiscono di agevolazioni, un’attività di controllo per appurare il completamento
edificatorio. Nessun obbligo di denuncia ex art. 19 del
d.P.R. n. 131/1986 può, quindi, essere imposto al contribuente che, pur avendo acquistato con aliquota agevolata,
non completi l’edificazione nel termine di undici anni.
Nell’ipotesi di decadenza a seguito dell’alienazione dell’immobile prima del termine dell’edificazione negli undici anni
previsti (punto 2) la Risoluzione ha chiarito che la presentazione dell’atto di trasferimento dell’immobile per la registrazione ad un Ufficio territoriale consente all’Amministrazione finanziaria di venire a conoscenza dell’evento che determina la decadenza dall’agevolazione. Anche in questa
ipotesi, quindi, nessun obbligo di denuncia ex art. 19 del
d.P.R. n. 131/1986 può essere imposto al contribuente.
757
Fisco e Società
Sintesi
In entrambe le ipotesi di decadenza dall’agevolazione l’Ufficio deve: liquidare l’imposta complementare (differenza fra
l’aliquota ordinaria e quella agevolata già versata dal contribuente), con applicazione degli interessi di mora a far data dalla registrazione dell’atto di acquisto del terreno edificabile inserito in piano urbanistico particolareggiato.
Pertanto, essendo escluso per entrambe le ipotesi di decadenza l’obbligo di presentazione della denuncia prevista
dall’art. 19 del d.P.R. 131/1986, l’Agenzia delle Entrate precisa che non trova applicazione la relativa sanzione amministrativa di cui all’art. 69 del d.P.R. n. 131/1986.
Inoltre, ai sensi dell’art. 76, comma 2, lettera a) del d.P.R.
n. 131/1986 l’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate notifica l’avviso di liquidazione entro tre anni: (i) dal decorso del termine di undici anni dall’acquisto senza che il contribuente abbia soddisfatto la condizione di ultimare l’edificazione di
unità abitative; (ii) dalla registrazione dell’atto di trasferimento dell’immobile.
DISPOSIZIONI URGENTI IN MATERIA TRIBUTARIA
E CONTRIBUTIVA E DI RINVIO DI TERMINI RELATIVI
AD ADEMPIMENTI TRIBUTARI E CONTRIBUTIVI
D.L. 28 gennaio 2014, n. 4 - G.U. 29 gennaio 2014, n.
23
È stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 74 del 29 marzo 2014 la legge 28 marzo 2014, n. 50 di conversione in
legge, con modif., del d.l. 28 gennaio 2014, n. 4 recante
“Disposizioni urgenti in materia tributaria e contributiva e di
rinvio di termini relativi ad adempimenti tributari e contributivi”.
Il provvedimento è entrato in vigore a partire dal 30 marzo
2014.
Si osserva che il D.L. n. 4/2014 racchiude ciò che è rimasto
della versione originaria del provvedimento, dopo la decisione di svuotarne i contenuti relativi alla procedura sulla
voluntary disclosure che formerà oggetto di un disegno di
legge.
Nella legge di conversione del D.L. n. 4/2014 è stata, tuttavia, inserita una norma tesa alla salvaguardia degli effetti
prodotti dalle norme sulla voluntary disclosure durante la vigenza provvisoria di guisa da garantire l’avvio della procedura di regolarizzazione per i contribuenti che avevano già
presentato l’istanza di regolarizzazione all’Amministrazione
finanziaria. In particolare, l’art. 1, comma 2, prevede che
“restano validi gli atti e i provvedimenti adottati e sono fatti
salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti” sulla base dell’art. 1 del D.L. n. 4/2014.
In sede di conversione parlamentare, inoltre, è stata inserita una disposizione volta a escludere dagli obblighi di monitoraggio in dichiarazione dei redditi (quadro RW del Modello Unico PF): “i depositi e conti correnti bancari costituiti
all’estero il cui valore massimo complessivo raggiunto nel
corso del periodo d’imposta non sia superiore a 10.000 euro”.
Si tratta, a ben vedere, di una soglia opportuna per evitare
obblighi dichiarativi non banali a una platea numerosa di
soggetti. Va evidenziato, però, che mentre l’importo è invariato rispetto a quello previgente (art. 4, comma 5, del D.L.
n. 167/1990), la soglia appare depotenziata sia perché il riferimento è al valore massimo nel corso dell’anno - con i
conseguenti gravosi obblighi di controllo - sia perché si riferisce solo ai depositi e conti correnti bancari, escludendo
tutte le altre tipologie di asset. Sotto questi aspetti sarebbe
758
auspicabile un ripensamento della norma per dare una
maggiore, adeguata, proporzionalità tra obblighi e obiettivi.
Si pensi, per esempio, agli immobili all’estero di modesto
valore, che pure possono interessare una platea amplissima di residenti, tra i quali, anche, immigrati extraeuropei.
IL COMPENSO DELL’AMMINISTRATORE PUÒ ESSERE
DEDOTTO SOLO SE DELIBERATO DALL’ASSEMBLEA
Cassazione civile, sez. V trib., 7 marzo 2014, n. 5349 Pres. A. Cappabianca - Rel. R. Cruciti
La Corte di Cassazione, nella sentenza n. 5349, è intervenuta sulla questione dei compensi agli amministratori senza delibera, statuendo, analogamente ai suoi precedenti interventi, che in mancanza di una delibera societaria che abbia preventivamente qualificato il compenso degli amministratori, il relativo costo è indeducibile.
Il caso oggetto della sentenza origina da un avviso di accertamento emesso nei confronti di una società per azioni
per l’anno di imposta 1994 in cui l’Ufficio contestava come
indebite, tra le altre, la deduzione di compensi erogati ai
consiglieri di amministrazione in assenza della delibera assembleare.
Il ricorso proposto dalla società avverso l’atto impositivo
veniva accolto dall’adita Commissione Tributaria Provinciale. La decisione veniva parzialmente riformata dalla sentenza emessa dalla Commissione Tributaria Regionale.
In particolare, i giudici di secondo grado respingevano i
motivi di appello relativi alla deducibilità dei compensi degli
amministratori, ritenuti deducibili in primo grado anche se
non deliberati dall’assemblea, in quanto inerenti alla gestione dell’impresa. La società proponeva ricorso per Cassazione avverso la sentenza anche su questo punto.
La Suprema Corte, ribadendo quanto già affermato nella
sentenza n. 21933 del 29 agosto 2008, ha chiarito che, con
riferimento alla determinazione della misura del compenso
degli amministratori di società di capitali, qualora non sia
stabilita dallo statuto, è necessaria un’esplicita delibera assembleare, non essendo possibile assimilare indirettamente a tale intento deliberativo l’approvazione del bilancio attesa la natura imperativa ed inderogabile della previsione
normativa (art. 2389 c.c.), discendente dall’essere la disciplina del funzionamento della società dettata, anche, nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività
economica, oltre che dalla previsione come delitto della
percezione di compensi non previamente deliberati dell’assemblea.
Conseguentemente, l’approvazione del bilancio contenente
la posta relativa ai compensi degli amministratori non è
idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall’art.
2389 c.c., salvo che un assemblea convocata solo per l’approvazione del bilancio, essendo totalitaria, non abbia
espressamente discusso e deliberato la proposta di determinazione dei compensi degli amministratori.
NON PUÒ ESSERE ATTIVATA LA PROCEDURA
DI OTTEMPERANZA IN DIFETTO DI UNA SENTENZA
DI CONDANNA DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
Commissione Tributaria Regionale Milano il 21 marzo
2014, n. 1485 - Pres. G.B. Rollero - Rel. G. Chiametti
La Commissione Tributaria Regionale di Milano, nella sentenza n. 1485/2014, ha chiarito che non può essere legitti-
Le Società 6/2014
Fisco e Società
Sintesi
mamente attivata la procedura di ottemperanza nel caso in
cui in una sentenza non vi sia stata la condanna dell’Amministrazione finanziaria al rimborso di imposte.
Il caso oggetto della sentenza origina dal ricorso in appello
per giudizio di ottemperanza promosso da un contribuente
nei confronti dell’Agenzia delle Entrate a seguito del mancato riconoscimento del decreto di estinzione del giudizio
emesso dalla Corte di Cassazione.
In particolare, il contribuente, a cui era stato notificato un
avviso di accertamento relativo a IRPFE - ILOR 1987 che
aveva impugnato dinanzi agli organi di prime cure, aveva
aderito al condono fiscale delle liti fiscali pendenti ai sensi
dell’art. 16 della Legge n. 289/2002, versando la relativa
imposta. A seguito di ciò, l’Ufficio depositava presso la Suprema Corte la certificazione della regolarità del condono e
questa, in data 4 febbraio 2009, emetteva decreto di estinzione del giudizio.
L’Agenzia delle Entrate, nelle more del giudizio, procedeva,
tuttavia, ad iscrivere a ruolo le imposte succitate a cui facevano seguito due cartelle di pagamento.
Con ricorso per ottemperanza l’appellante eccepiva la nullità e l’inefficacia delle cartelle de quibus in quanto evidenziava che la vertenza con l’Amministrazione finanziaria era
da considerare validamente estinta a seguito di condono.
Per tale motivo riteneva anche che l’originario diritto di credito, sulla base del quale erano state emesse le cartelle di
pagamento, era da considerare estinto, tenuto conto, altresì, del decreto di estinzione del processo emesso dalla Corte di Cassazione.
I giudici milanesi hanno ritenuto non potersi dare corso nel
caso in esame al giudizio di ottemperanza.
Invero, nel caso de quo non può essere applicato l’istituto
di cui all’art. 70 del D.lgs. n. 546/1992 in quanto il giudizio
di ottemperanza nasce nell’ambito della giurisdizione amministrativa quale istituto attivo delle pronunce giurisdizionali passate in giudicato che non siano state spontaneamente eseguite dall’Amministrazione soccombente in giudizio. Quindi, l’ambito applicativo dello stesso deve essere
messo in atto per l’ottemperanza degli obblighi derivanti
dalle sentenze delle Commissioni tributarie passate in giudicato sia che tali obblighi consistano nel pagamento di
somme di denaro, sia che essi abbiano tutt’altra natura e
oggetto, consistendo in obblighi di fare o di restituzione a
carico dell’ente, dove è presente l’interesse del contribuente ad ottenere dal giudice dell’ottemperanza la messa in atti della determinazione giudiziale. Pertanto, non può essere
legittimamente attivata la procedura di ottemperanza nel
caso in cui in una sentenza non vi sia stata la condanna
dell’Amministrazione finanziaria al rimborso di imposte o
da quanto corrisposto dal contribuente.
La Commissione Tributaria regionale ha concluso che, tenuto conto che, nel caso di specie, non vi è una sentenza
passata in giudicato che trova l’Agenzia delle Entrate soccombente al pagamento di somme, non sussistono i presupposti di legge per applicare l’istituto di cui all’art. 70 del
D.lgs. n. 546/1992.
NULLO L’ACCERTAMENTO ANTICIPATO ANCHE CON
TERMINI IN SCADENZA
Cassazione civile, sez. trib., 28 marzo 2014, n. 7315 Pres. A. Merone - Rel. F. Terrusi
La Corte di Cassazione, nella sentenza n. 7315 del 28 marzo 2014, ha ribadito quanto già affermato dalle Sezioni Uni-
Le Società 6/2014
te nella sentenza n. 18184/2013, ovvero che è nullo l’accertamento notificato in violazione del termine di cui all’art.
12, comma 7 della Legge n. 212/2000 (cd. “Statuto del
Contribuente”) in assenza di ragioni di particolare e motivata urgenza, le quali non possono consistere nell’approssimarsi dei termini di decadenza dell’attività accertatrice.
Il caso oggetto della sentenza origina da un avviso di accertamento di maggiore imponibile ai fini delle imposte dei
redditi, IRAP e IVA relativo all’annualità 1999 emesso dall’Ufficio nei confronti di una società immobiliare e dei suoi
soci, dopo una verifica effettuata sui conti correnti degli
stessi soggetti.
Sia la società che i soci impugnavano l’avviso di accertamento dinanzi la Commissione Tributaria Provinciale che lo
annullava in quanto lo stesso risultava essere stato emesso
prima dello spirare del termine previsto dall’art. 12, comma
7 della Legge n. 212/2000. Si rammenta che secondo la
previsione citata l’Amministrazione finanziaria non può
emettere l’avviso di accertamento prima del decorso di
sessanta giorni dal rilascio del Processo Verbale di Constatazione, periodo durante il quale il contribuente può presentare memorie che devono essere valutate dagli Uffici.
La decisione veniva confermata dalla Commissione Tributaria Regionale in quanto l’atto impositivo era stato notificato prima della scadenza del menzionato termine dilatorio
sebbene in “mancanza di valide ragioni e motivazioni di
giustificata urgenza”.
L’Amministrazione finanziaria proponeva ricorso per Cassazione avverso la sentenza di secondo grado, ribadendo
la legittimità del proprio operato ed evidenziando che il
“motivo base dell’urgenza nell’effettuare la notifica dell’atto impositivo era l’imminente scadenza del termine di decadenza per la rettifica dell’annualità 1999” termine che sarebbe maturato, ai sensi dell’art. 43 del d.P.R. n. 600 del
1973, il 31 dicembre 2006. In questo senso, secondo l’Amministrazione finanziaria, le ragioni di particolare urgenza,
legittimanti la deroga del termine, “ben possono essere costituite dall’imminenza della decadenza del potere di accertamento”.
La Suprema Corte ha richiamato, al riguardo, la sentenza
delle Sezioni Unite n. 18184/2013 che ha stabilito che l’atto
impositivo emesso prima del decorso di sessanta giorni è
nullo, perché preclude l’effettivo dispiegarsi del contraddittorio con il contribuente, violando così principi di derivazione costituzionale.
Naturalmente, come previsto dalla disposizione statutaria,
la nullità dell’atto impositivo non si verifica in presenza della causa esimente, che il legislatore ha individuato nella
sussistenza di casi di “particolare e motivata urgenza”.
Nella sentenza si da, peraltro, evidenza del fatto che i giudici di legittimità, per delimitare l’ambito operativo della locuzione anzidetta, hanno impiegato diverse pronunce, pervenendo a soluzioni talvolta contrastanti. In particolare,
con il filone giurisprudenziale di cui è espressione la sentenza della Corte della Cassazione n. 20769/2013 è stato
stabilito che “la ratio di evitare la decadenza dal potere impositivo, iscrivendosi nell’esigenza di carattere pubblicistico connessa all’efficiente esercizio della potestà amministrativa nel fondamentale settore delle entrate tributarie
(art. 97 Cost.), giustifica la notificazione dell’avviso di accertamento prima del decorso del predetto termine dilatorio”. Nello stesso senso, si veda Corte di Cassazione sentenza n. 11944/2012.
Tuttavia, il Collegio giudicante, nella sentenza in commento, ha evidenziato che la sentenza n. 20769/2013 richiama-
759
Fisco e Società
Sintesi
ta è una decisione appartenente ad un orientamento anteriore alla pronuncia delle Sezioni Unite e che, quindi, non
tiene conto dei nuovi principi sanciti dalla sopravvenuta decisione delle Sezioni Unite. Da questi ultimi, a giudizio della
Suprema Corte, deve desumersi che la ratio della norma in
oggetto non consente di affermare le ragioni d’urgenza “riferibili a profili o a deficienze organizzative tutte interne” all’Amministrazione finanziaria, come peraltro già stabilito
con la sentenza della Corte di Cassazione n. 1869/2014.
La Corte di Cassazione ha, inoltre, aggiunto che il principio
di legalità non consente all’Amministrazione finanziaria di
travalicare i limiti imposti dalla legge, assumendo posizioni
di potere o di preminenza. Inoltre, il contraddittorio procedimentale deve rilevare alla stregua di criterio orientativo
per il legislatore e per l’interprete. Dinnanzi a siffatto contesto, pertanto, è illogico attribuire effetto di sanatoria a
eventi, come l’approssimarsi del termine di decadenza dell’azione accertatrice, cui la posizione del soggetto tutelato
(il contribuente) è completamente indifferente. Ciò è illogico, a giudizio della Suprema Corte, perché la lesione del diritto al contraddittorio “verrebbe così degradata a una
semplice questione formale (o inessenziale), suscettibile di
cedere il passo dinnanzi ad esigenze altre rispetto a quella
in effetti tutelata” quali quelle dipendenti dalla scelta dei
tempi e le modalità dell’azione amministrativa.
EVASIONE
È POSSIBILE SEQUESTRARE I BENI DELL’IMPRENDITORE
SOLO SE È IMPOSSIBILE TROVARE IN AZIENDA IL PROFITTO
DELL’EVASIONE
Cassazione penale, sez. III, 16 aprile 2014, n. 16698
(ud.18 marzo 2014) - Pres. C. Squassoni - Rel. M. Gentile.
La Corte di Cassazione, nella sentenza del 16 aprile 2014,
n. 16698 ha chiarito che in caso di evasione fiscale tramite
l’utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, non è consentito il sequestro preventivo finalizzato
alla confisca per equivalente dei beni personali dell’imprenditore, qualora i beni direttamente riconducibili al profitto
del reato siano già sussistenti nel patrimonio aziendale.
Con la sentenza in parola la Suprema Corte ha accolto il ricorso proposto dal legale rappresentante di una società, a
cui erano stati sequestrati beni immobili, mobili registrati e
le posizioni bancarie personali, in quanto direttamente riconducibili al profitto del reato tributario commesso dalla
società rappresentata.
In particolare, la Corte ha affermato che «non è consentito
il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per
reati tributari da costoro commessi, nel caso in cui detto
sequestro sia possibile direttamente in capo a persona
(compresa quella giuridica) non estranea al reato».
In altri termini, prima di predisporre il sequestro finalizzato
alla confisca per equivalente nei confronti dei beni personali del legale rappresentante è necessaria una preventiva
escussione dei beni riconducibili al patrimonio sociale dell’azienda ed accertare che i beni costituenti il profitto del
reato non siano eventualmente sussistenti in tale patrimonio. Pertanto, non essendo stato effettuato alcun accertamento preliminare in sede di richiesta di riesame, risulta illegittimo il sequestro disposto dal Tribunale il quale, in par-
760
ticolare, non motiva sulla «impossibilità, anche soltanto
transitoria e reversibile, del reperimento dei beni costituenti
il profitto del reato tributario nell’ambito del patrimonio
aziendale».
FATTURAZIONE ELETTRONICA
FATTURA ELETTRONICA VERSO LA PA DAL 6 GIUGNO,
EMANATA LA CIRCOLARE INTERPRETATIVA
Ministero dell’economia e delle finanze - Ministero per
la pubblica amministrazione, Circolare 31 marzo 2014
n. 1/DF
Il Dipartimento delle Finanze e il Dipartimento della Funzione pubblica, con la circolare interpretativa n. 1 (la “Circolare”), hanno fornito le prime indicazioni per il corretto
adempimento dell’obbligo di fatturazione elettronica delle
cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate dalle imprese nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni, introdotto dall’art. 1, commi dal 209 al 214, della L. n.
244/2007, come modificato dall’art. 10 comma 13duodecies del D.L. n. 201/2011.
Al riguardo, si ricorda che il D.M. 3 aprile 2013, n. 55
(“D.M. 55/2013”) è il provvedimento che ha definito le regole tecniche di operatività del regime di fatturazione elettronica.
Secondo il D.M. 55/2013 l’obbligo di fatturazione elettronica si applica dal prossimo 6 giugno per Ministeri, Agenzie
fiscali ed Enti nazionali di previdenza e di assistenza sociale
e dal 6 giugno 2015 per tutte le altre amministrazioni centrali. Secondo quanto precisato dal comunicato stampa
che ha accompagnato la Circolare l’obbligo di fatturazione
elettronica decorrerà dal 6 giugno 2015 anche per le Amministrazioni locali, data concordata nell’ambito della Conferenza Unificata e che sarà formalizzata in un decreto ministeriale di prossima emanazione. Si osserva, tuttavia, al
riguardo che per effetto dell’art. 25 del D.L. 24 aprile 2014
n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale
- cd. Decreto - Legge Irpef - spending review) (G.U. Serie
Generale n. 95 del 24 aprile 2014) viene anticipata ed allineata al 31 marzo 2015 la data di partenza per tutte le Amministrazioni centrali e locali. L’anticipazione comporta che
entro il prossimo 31 dicembre 2014 dovranno essere individuati gli uffici delle Amministrazioni destinatari di fattura
elettronica. La Circolare ha fornito le indicazioni necessarie
per il corretto adempimento dell’obbligo di fatturazione
elettronica e ha risposto ai numerosi quesiti posti sia dalle
Pubbliche Amministrazioni che dai fornitori di queste ultime. In particolare, le indicazioni operative riguardano: il termine per il caricamento delle anagrafiche degli uffici adibiti
alla ricezione delle fatture elettroniche nell’Indice delle Pubbliche Amministrazioni (“IPA”) istituito all’art. 11 del
D.P.C.M. 31 ottobre 2000, l’emissione della fattura elettronica, il divieto di pagamento in assenza di fattura elettronica e il trattamento dei casi in cui risulti impossibile, per ragioni tecniche, il recapito della fattura elettronica all’Amministrazione.
Venendo al primo aspetto, l’art. 6, comma 5, del D.M.
55/2013 stabilisce che il termine entro il quale ciascuna
Pubblica Amministrazione deve completare il caricamento
in IPA dell’anagrafica dei propri uffici deputati alla ricezione
delle fatture elettroniche precede di tre mesi la data di decorrenza dell’obbligo di fatturazione elettronica. L’IPA prov-
Le Società 6/2014
Fisco e Società
Sintesi
vede, quindi, ad assegnare un codice univoco a ciascuno
degli uffici e a renderlo pubblico tramite il proprio sito
www.indicepa.gov.it.
Si rammenta che, come indicato nel paragrafo 4 dell’allegato D al D.M. 55/2013, ciascuna Pubblica Amministrazione, una volta ottenuti dall’IPA i codici ufficio, è tenuta a
darne comunicazione ai fornitori, unitamente alla relativa
associazione con i contratti vigenti, che hanno l’obbligo di
utilizzarli in sede di emissione delle fatture da inviare al Sistema di Interscambio (“SdI”), demandato alla relativa gestione. Per ogni ufficio destinatario di fatturazione elettronica è pubblicata in IPA la data a partire dalla quale il servizio
di fatturazione elettronica è attivo.
Con riguardo all’emissione della fattura elettronica, la Circolare ha chiarito che nel caso in cui l’inoltro all’amministrazione committente abbia avuto esito positivo, la conseguente ricevuta di consegna recapitata al soggetto che ha
inviato la fattura è certamente sufficiente a provare sia l’emissione della fattura elettronica, sia la sua ricezione da
parte della Pubblica amministrazione committente. Diversamente, nel caso in cui l’inoltro all’amministrazione committente abbia avuto esito negativo il soggetto che ha inviato la fattura riceve dal SdI una notifica di mancata consegna. Tale notifica di mancata consegna è sicuramente
sufficiente a provare la ricezione della fattura da parte del
SdI, e, conseguentemente, l’avvenuta trasmissione della
fattura da parte del soggetto emittente verso il SdI. La Circolare ha sottolineato che da tali elementi emerge, quindi,
che la fattura elettronica può darsi per emessa, ai sensi
dell’ art. 21, comma 1, del d.P.R. n. 633/72, anche a fronte
del rilascio dal parte del SdI della notifica di mancata consegna di cui al paragrafo 4 dell’allegato B al D.M. 55/2013.
La Circolare ha precisato, con riguardo al divieto di pagamento in assenza di fattura elettronica, che l’art. 6, comma
6, del D.M. 55/2013 individua un periodo di transizione di
tre mesi, decorrenti per i Ministeri e soggetti assimilati dal
6 giugno 2014, durante i quali possono essere accettate e
pagate fatture emesse prima di tale data in forma cartacea,
mentre i fornitori, a partire dallo stesso 6 giugno 2014, non
possono più emettere fattura in forma cartacea. Ove allo
scadere del termine del 6 settembre 2014 una Pubblica
Amministrazione coinvolta stesse ancora processando una
fattura emessa in forma cartacea prima del 6 giugno 2014,
l’Amministrazione dovrà portare a termine il relativo procedimento e, ove sussistano tutte le altre condizioni, procedere al pagamento.
Da ultimo si osserva che un’altra novità introdotta dal cd.
Decreto - Legge Irpef - risiede nella indicazione, tra le informazioni obbligatorie delle fatture elettroniche, del Codice
identificativo di gara (CIG) ed il Codice unico di Progetto
(CUP) salve le esclusioni normativamente previste.
IMPOSTE IN GENERE
NOVITÀ SULLA DECADENZA A EFFETTO RETROATTIVO
Risoluzione Agenzia delle Entrate 19 marzo 2014, n.
32/E
L’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione 32/E del 19 marzo 2014, è intervenuta rispondendo ad alcune richieste pervenute in merito all’applicabilità della nuova disciplina sulle
dilazioni di pagamento di somme iscritte a ruolo (art. 52,
comma 1, lett. a), n. 2), decreto - legge n. 69 del 2013,
Le Società 6/2014
“D.L. n. 69/2013”) ai piani di rateazioni in essere alla data
del 22 giugno 2013, data di entrata in vigore del D.L. n.
69/2013.
Si rammenta che il D.L. n. 69/2013 ha modificato la disciplina della dilazione di pagamento delle somme iscritte a
ruolo prevista dall’art. 19 del D.P.R. n. 602 del 1973, innalzando da due a otto il numero delle rate il cui mancato pagamento determina la decadenza dal beneficio della rateazione, ed ha previsto la possibilità di aumentare in numero
massimo di rate a centoventi nel caso in cui il debitore si
trovi “per ragioni estranee alla propria responsabilità, in
una comprovata e grave situazione di difficoltà legata alla
congiuntura economica”.
L’art. 4 del decreto di attuazione del 6 novembre 2013 ha
stabilito che i piani di rateazione già in essere alla data di
entrata in vigore della modifica normativa possano essere
aumentati fino a 120 rate su richiesta del debitore. Inoltre,
secondo l’Agenzia delle Entrate, dal momento che la ratio della norma risulta quelle di agevolare i contribuenti che
si trovino in grave difficoltà, tale disposizione è applicabile
anche quanto alla previsione di maggior favore circa il numero di rate non pagate ai piani di rateazione approvati
precedentemente al 22 giugno 2013.
IMPOSTE INDIRETTE
DETRAIBILE L’IVA SULL’ACQUISITO DI BENI STRUMENTALI
PUR IN ASSENZA DI OPERAZIONI ATTIVE DOVUTE ALLA
MANCANZA DI AUTORIZZAZIONI COMUNALI PER LO
SVOLGIMENTO DELL’ATTIVITÀ
Cassazione civile, sez. trib., 21 marzo 2014, n. 6664 Pres. M. Adamo - Rel. R. G. Conti
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6664 del 21
marzo 2014, ha affermato che è detraibile l’IVA assolta sull’acquisto di beni e servizi da utilizzare nell’ambito dell’attività d’impresa anche se non sono state compiute operazioni attive imponibili in assenza dell’autorizzazione amministrativa indispensabile per operare nello specifico settore
economico.
Il caso oggetto della sentenza origina dal ricorso presentato da un contribuente che nel 1997 aveva aperto una partita IVA per l’esercizio dell’attività d’impresa, nella specie
consistente nella fabbricazione di birra e nella ristorazione.
Nell’agosto del 1997 il contribuente chiedeva al comune il
rilascio delle autorizzazioni necessarie all’attività di somministrazione che, tuttavia, venivano rilasciate solo nel 2001.
Nel novembre del 1997 e nel corso dell’anno successivo il
contribuente effettuava spese per l’acquisto di beni strumentali per i quali chiedeva il rimborso dell’IVA, pur avendo ceduto i beni aziendali a uso gratuito ad un’associazione munita di autorizzazione alla somministrazione. L’Ufficio, rilevata l’esistenza di ricavi, procedeva al recupero dell’IVA.
Nei primi due gradi di giudizio la contestazione dell’Ufficio
veniva ritenuta fondata in quanto il contribuente, seppur
avesse predisposto la struttura necessaria per l’attività imprenditoriale, non era stato in grado di svolgere la predetta
attività per l’assenza delle autorizzazioni amministrative.
Peraltro, va aggiunto che, secondo i giudici di merito, il
contratto di comodato della durata di quattro mesi stipulato dal contribuente con un’associazione ricreativa, titolare
della licenza per lo svolgimento dell’attività in esame, risul-
761
Fisco e Società
Sintesi
tava finalizzato ad eludere le norme di legge che avevano
impedito al comune di rilasciare le autorizzazioni richieste.
Nell’analisi della fattispecie compiuta dalla Suprema Corte
vengono richiamate le disposizioni comunitarie di riferimento, fra le quali vanno ricordate l’abrogata direttiva
n.388/77/CEE (“VI direttiva”) e la vigente direttiva n.
2006/112/CE che considerano detraibile l’IVA versata per
l’acquisto di beni e servizi utilizzati per effettuare operazioni
soggette ad imposta.
In particolare, l’art. 168, paragrafo 1, lettera a), direttiva n.
2006/112/CE, corrispondente all’art. 17, par. 2, lettera a),
dell’abrogata VI direttiva, stabilisce che nella misura in cui
beni e i servizi sono impiegati ai fini delle sue operazioni
soggette ad imposta, il soggetto passivo ha il diritto, nello
Stato membro in cui effettua tali operazioni, di detrarre dall’importo dell’imposta di cui è debitore. E ciò (Corte di Giustizia, sentenza 18 dicembre 2008, C-488/07) indipendentemente dallo scopo o dai risultati di dette attività, purché
queste siano, in linea di principio, di per sé soggette all’IVA.
Con specifico riferimento all’esercizio della detrazione per
le spese propedeutiche all’attività d’impresa, in relazione al
quale è sorta la controversia in esame, la Suprema Corte si
è limitata a ricordare la posizione della giurisprudenza nazionale, la quale - è il caso di puntualizzare - trae fondamento dai principi espressi, in più occasioni, dalla Corte di
Giustizia.
Orbene, in merito al carattere potenziale e prospettico della
detrazione, è stato ritenuto che occorre accertare che le
spese di investimento relative ad un’attività imprenditoriale
siano effettivamente inerenti all’esercizio dell’impresa, cioè
compiute in stretta connessione con le sue finalità, senza
tuttavia che sia richiesto il concreto esercizio dell’impresa,
con la conseguenza che la detrazione spetta anche in assenza di operazioni attive.
Tale è da considerare anche l’operazione finalizzata alla costituzione delle condizioni necessarie affinché l’attività
d’impresa possa concretamente iniziare; si tratta, infatti, di
acquisti aventi carattere meramente preparatorio, essendo
posti in essere, per definizione, in una fase in cui non si
producono ancora ricavi, rispetto ai quali, anzi, la detrazione è ammessa indipendentemente dall’effettiva realizzazione di operazioni attive soggette a IVA, non essendo richiesto il collegamento tra il diritto alla detrazione, da un lato, e
il fatto che le spese di investimento si traducano in operazioni imponibili (Cass., 3 luglio 2013, n. 16697; Cass., 12
maggio 2008, n. 11765; Cass., 31 marzo 2011, n. 7344).
Sulla base dei principi sopra esposti, la Suprema Corte ha
censurato la decisione d’appello e ha rinviato ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale, rilevando un
triplice errore di diritto in cui è incorsa la Commissione Tributaria Regionale.
Invero, in primo luogo, essa ha escluso la rilevanza della
detrazione in assenza di operazioni attive che il contribuente non poteva compiere proprio per effetto del mancato rilascio delle autorizzazioni ma che, per ciò solo, non poteva
escludere, alla stregua della giurisprudenza precedentemente richiamata, in riferimento alle spese propedeutiche
all’avvio dell’attività per la quale è stato attribuito il numero
di partita IVA.
In secondo luogo, per come evidenziato, la detrazione è
correlata alla natura preparatoria dell’attività che il contribuente intende svolgere, ragion per cui il mancato rilascio
dell’autorizzazione amministrativa non poteva, per ciò solo,
escludere il diritto alla detrazione ove non imputabile all’e-
762
sistenza dei presupposti; indagine che i giudici d’appello
non hanno in alcun modo compiuto.
In terzo luogo, perché la detrazione non poteva essere negata in considerazione della natura elusiva della condotta
del contribuente correlata alla conclusione del contratto di
comodato stipulato con l’associazione ricreativa, in quanto
l’imposta recuperata in detrazione non era collegata a tale
negozio giuridico, ma - più in generale - all’attività successivamente svolta, cioè dopo l’ottenimento della licenza.
OMESSI VERSAMENTI IVA, RESPONSABILITÀ DA PROVARE
PER L’EX MANAGER
Cassazione penale, sez. III, 2 aprile 2014, n. 15119 Pres. A. Teresi - Rel. S. Amoresano
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15119/2014, ha
chiarito che in caso di omesso versamento IVA da parte di
una società in concordato preventivo, la responsabilità penale dell’amministratore non più in carica alla scadenza
dell’adempimento è subordinata all’esistenza di specifici
elementi probatori da cui desumere che la pregressa gestione era destinata all’evasione IVA.
Il caso oggetto della sentenza riguarda una società che veniva posta in concordato preventivo il 28 aprile 2011 e il
concordato veniva omologato il 19 ottobre successivo con
la nomina di un liquidatore giudiziale. Il 27 dicembre 2011
veniva superato il termine ultimo del reato di omesso il versamento IVA relativo al periodo di imposta 2010, per un
importo superiore alla soglia penale.
Su richiesta del Pubblico Ministero, il Giudice per le Indagini Preliminari disponeva il sequestro dei beni del precedente amministratore della società, ritenuto responsabile, secondo la tesi accusatoria,dell’omesso accantonamento dell’IVA che non aveva consentito al subentrato commissario
il versamento dell’IVA dovuta in violazione dell’art. 10ter
del D.lgs. n. 74/2000.
Il Tribunale del riesame, cui si rivolgeva l’amministratore,
confermava la legittimità della misura cautelare applicata.
Invero, i giudici, pur dando atto del concordato preventivo
e della nomina di un commissario (cui incombeva materialmente l’adempimento IVA in questione), ritenevano il precedente amministratore non estraneo a tale incombenza,
in quanto le somme incassate a titolo di IVA e destinate ad
essere versate all’Erario non erano nella libera disponibilità
dello stesso e avrebbero dovute essere da questi accantonate. Secondo il Tribunale il precedente rappresentante legale “ha inequivocabilmente fornito un contributo causale
alla commissione del fatto, creando materialmente i presupposti per il successivo omesso versamento”.
L’ex amministratore ricorreva per Cassazione, lamentando
tra l’altro che, con il concordato preventivo e la nomina del
commissario giudiziale, non aveva più la disponibilità delle
somme per provvedere al versamento dell’IVA dovuta. La
conseguenza sarebbe che egli era del tutto estraneo al fatto penalmente rilevante. Peraltro, non era stato dimostrato
che la sua gestione pregressa fosse stata volta all’evasione
dell’IVA.
La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato questo motivo
di ricorso ed ha annullato la sentenza con rinvio. Secondo
la Suprema Corte, infatti, per “il soggetto non più formalmente in condizioni di poter adempiere” bisogna accertare
l’esistenza di specifici elementi probatori da cui desumere
che la pregressa gestione fosse stata volta all’evasione del-
Le Società 6/2014
Fisco e Società
Sintesi
l’IVA ed a tale scopo fossero destinati i mancati accantonamenti dell’imposta.
Diversamente, la sentenza del Tribunale non argomentava
nulla al riguardo. Nulla diceva, ad esempio, con riguardo
all’eventuale residuo di cassa trovato dal commissario liquidatore e, ancora, se la somma fosse stata, o meno, sufficiente, per l’esecuzione del pagamento o se vi fossero,
nel passivo fallimentare altri debiti aventi grado anteriore al
fine di comprendere così se l’omissione del versamento alla scadenza potesse essere ricondotto al precedente amministratore o al commissario.
PUÒ NON ESSERE PUNITO PER L’OMESSO VERSAMENTO
DELL’IVA L’IMPRENDITORE IN CRISI PER I CLIENTI CHE
NON PAGANO
Cassazione penale, sez. III, 3 aprile 2014, n. 15176 (ud.
6 febbraio 2014) - Pres. C. Squassoni - Rel. V. Di Nicola
La Corte di Cassazione, nella sentenza n. 15176 del 3 aprile
2014, ha precisato che è legittima l’assoluzione dell’amministratore di una società che ometta il versamento dell’IVA
per importi superiori alla soglia di rilevanza penale perché
costretto dal tardivo pagamento delle fatture da parte dei
clienti.
Nel caso oggetto della sentenza il Tribunale di Milano assolveva l’amministratore di una società a responsabilità limitata dalla fattispecie di omesso versamento dell’IVA di
cui all’art. 10ter del DLgs. n. 74/2000 dal momento che
non riteneva configurabile l’elemento soggettivo del reato
(o, quantomeno, riteneva la presenza di un ragionevole
dubbio sull’esistenza dello stesso) sul rilievo dell’esistenza
di una obiettiva situazione di illiquidità della società, dovuta
a sistematici e gravissimi ritardi nei pagamenti da parte dei
clienti della stessa società.
Invero, dal bilancio 2007 emergeva un volume d’affari pari
a 6.700.000 euro, con crediti esigibili entro 12 mesi pari ad
oltre 4.000.000 di euro. Il tardivo pagamento da parte dei
propri clienti costringeva la S.r.l. a ricorrere allo sconto
bancario delle fatture per oltre 1.500.000 euro. Tale liquidità veniva utilizzata per effettuare alcuni versamenti mensili
dell’IVA, nonché per il pagamento dei dipendenti e dei debiti contributivi nei loro confronti.
Alla scadenza dei termini previsti per evitare l’integrazione
della fattispecie penale (vale a dire il 27 dicembre 2008),
però, non era possibile reperire ulteriori fondi. Anzi, come
evidenziato dal bilancio relativo al 2008, la situazione era
peggiorata dal momento che i ritardi nei pagamenti si erano aggravati ulteriormente.
Il Tribunale, quindi, riteneva che la crisi di liquidità avesse
comportato una mancanza di volontà dell’omissione in
considerazione di una sorta di causa di impossibilità relativa, da valutarsi in relazione a quanto umanamente esigibile
dal soggetto su cui incombe il dovere di adempiere. Conseguentemente, assolveva l’amministratore.
Il Procuratore Generale ricorreva per l’annullamento della
sentenza di assoluzione dinanzi alla Corte di Cassazione ricordando i numerosi precedenti della giurisprudenza di legittimità che, alla luce della sufficienza del dolo generico e
della necessità di accantonare l’imposta in vista del successivo versamento, hanno negato qualsiasi efficacia scriminante a situazioni di mancanza di liquidità.
La Suprema Corte ha ritenuto infondato il ricorso. Secondo
i giudici di legittimità, infatti, l’organo di merito, attraverso
un accertamento di fatto, è pervenuto a qualificare come
Le Società 6/2014
inesigibile una condotta alternativa rispetto a quella concretamente adottata dalla S.r.l. Tale accertamento è stato
fondato sulle prove fornite dall’imputato che hanno condotto ad una motivazione priva di illogicità e di incongruità,
ed, anzi, “particolarmente concreta, lineare e dettagliata”.
In particolare, il Tribunale, con logica ed adeguata motivazione, senza mettere in discussione i principi consolidati in
materia di dolo della fattispecie e di obbligo di accantonamento dell’IVA, ha ritenuto il comportamento dell’imputato
come caratterizzato dall’assenza di profili di rimproverabilità.
Ciò in quanto a fronte di un obbligo tributario che derivava
dalla semplice emissione delle fatture (a prescindere, quindi, dall’effettiva riscossione del credito per le prestazioni
eseguite) e dei sistematici, gravissimi ritardi nel pagamento
delle stesse da parte dei clienti, e nonostante il ricorso al
credito bancario (nei limiti disponibili), questi aveva dovuto
affrontare una gravissima carenza di liquidità non ascrivibile a sua colpa.
D’altra parte, ha osservato la Corte, come recentemente affermato dallo stesso organo di legittimità (cfr. Cass. 4 febbraio 2014, n. 5467), sono ipotizzabili casi - il cui apprezzamento è devoluto al giudice di merito e, come tale, insindacabile in sede di legittimità e congruamente motivato - in
cui è possibile invocare l’assenza di dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere l’obbligazione tributaria. A tali fini,
è, tuttavia, necessario provare che l’improvvisa crisi finanziaria non sia imputabile al soggetto tenuto al pagamento
dell’imposta e che la stessa non possa essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso ad idonee misure, da
valutarsi in concreto.
REATO DI OMESSO VERSAMENTO IVA. IL VERDETTO
CORTE COSTITUZIONALE
DELLA
Corte Costituzionale 8 aprile 2014, n. 80 - Pres. G. Silvestri - Rel. G. Frigo
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 80 dell’8 aprile
2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10
ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, nella parte in cui, con
riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011,
punisce l’omesso versamento dell’IVA dovuta in base alla
relativa dichiarazione annuale, per importi non superiori,
per ciascun periodo d’imposta, a euro 103.291,38.
La questione è stata sollevata dal Tribunale di Bergamo,
con ordinanza del 17 settembre 2013 n. 274, che ha denunciato l’illegittimità dell’art. 10ter del d.lgs. 10 marzo
2000, n. 74, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, “nella parte in cui prevede, per l’omesso versamento dell’IVA,
una soglia di punibilità inferiore a quelle stabilite per la dichiarazione infedele e l’omessa dichiarazione dagli artt. 4 e
5 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, prima delle modifiche
apportate dal D.L. n. 138 del 2011”; ovvero rispettivamente
euro 103.291,38 e euro 77.468,53 (soglie che il richiamato
D.L. n. 138/2011 ha abbassato rispettivamente a 50.000 ed
a 30.000 euro dal 18 settembre 2011).
Nel caso esaminato dal Tribunale il legale rappresentante
di due distinte società a nome collettivo era imputato del
reato di omesso versamento IVA per avere omesso di versare nel termine stabilito l’IVA risultante dalla dichiarazione
per l’anno 2008, pari a 87.475 euro, quanto alla prima società, e a 58.431 euro, quanto alla seconda. Il tutto avveniva - secondo i giudici - in un contesto normativo che rivelava una situazione paradossale.
763
Fisco e Società
Sintesi
Infatti, osservava il Tribunale, se l’imputato, quale rappresentante legale della seconda delle due società, in luogo di
presentare regolarmente la dichiarazione IVA e non versare
l’imposta dovuta in base ad essa (per 58.431 euro), avesse
“omesso” di presentare la relativa dichiarazione, non si sarebbe reso responsabile di alcun reato, non risultando superata la soglia di punibilità prevista dall’art. 5 del D.Lgs. n.
74/2000.
In senso analogo, se l’imputato, quale rappresentante legale dell’altra società, anziché presentare regolarmente la dichiarazione IVA e non versare l’imposta dovuta in base ad
essa (per 87.475 euro), avesse presentato una dichiarazione “infedele”, finalizzata ad occultare il debito d’imposta,
non sarebbe incorso in responsabilità “penale”, rimanendo
la violazione al di sotto della soglia prevista dall’art. 4 del
D.Lgs. n. 74/2000.
Pertanto, secondo il Tribunale, la norma viola il principio di
eguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione dal momento che punisce il contribuente che, dopo avere regolarmente presentato la dichiarazione annuale IVA, ometta il
versamento dell’imposta da lui stessa autoliquidata, con
un trattamento paradossalmente deteriore rispetto a quello
riservato al contribuente che, per evadere l’IVA, non presenti la dichiarazione o presenti una dichiarazione infedele,
occultando il debito d’imposta: condotte, queste ultime,
più insidiose, in quanto implicanti, oltre all’evasione di imposta, anche un ostacolo all’accertamento tributario.
La Corte Costituzionale ha ritenuto fondata la questione
sollevata dal Tribunale di Bergamo.
I giudici della Consulta hanno osservato che, per il modo in
cui è strutturata, la previsione punitiva di cui all’art. 10ter
del DLgs. n. 74/2000 protegge l’interesse del Fisco alla riscossione dell’imposta così come “autoliquidata” dal contribuente. Presupposto per la sua applicazione è, infatti,
che il soggetto di imposta abbia presentato la dichiarazione annuale ai fini dell’IVA, dalla quale risulti un debito superiore a 50.000 euro, senza che sia seguito il pagamento,
entro il termine previsto, della somma indicata come dovuta. A fronte di ciò, è evidente il difetto di coordinamento tra
la soglia di punibilità del delitto in esame pari a 50.000 euro
e quelle relative ai delitti di cui agli artt. 4 e 5 del DLgs.
74/2000: “difetto di coordinamento foriero di sperequazioni
sanzionatorie che, per la loro manifesta irragionevolezza,
rendono censurabile l’esercizio della discrezionalità spettante al legislatore nella costruzione delle fattispecie astratte di reato”.
Come osservato dal Tribunale di Bergamo, prima delle modifiche del D.L. n. 138/2011, veniva effettivamente trattato
in modo deteriore chi avesse presentato regolarmente la
dichiarazione IVA, senza versare l’imposta dovuta in base
ad essa, rispetto a chi non avesse presentato la dichiarazione, evadendo del pari l’imposta. Nel primo caso, infatti, il
contribuente avrebbe dovuto rispondere del reato di omesso versamento dell’IVA, stante il superamento della prescritta soglia di punibilità, mentre nel secondo caso sarebbe rimasto esente da pena, non risultando superato il limite
di rilevanza penale per la configurazione del reato di omessa dichiarazione.
Analoga discrasia era ravvisabile, a giudizio della Corte Costituzionale, in rapporto alla dichiarazione infedele. In tale
contesto la lesione del principio di eguaglianza emerge dal
fatto che l’omessa dichiarazione e la dichiarazione infedele
costituiscono illeciti incontestabilmente più gravi - sul piano dell’attitudine lesiva degli interessi del Fisco - dell’omesso versamento dell’IVA e ciò come, peraltro, rivelato dal
764
più rigoroso trattamento sanzionatorio (i.e., reclusione da
uno a tre anni, per i primi due reati; da sei mesi a due anni,
per il terzo).
Del resto, hanno proseguito i giudici costituzionali, è lo
stesso legislatore ad aver mostrato di essersi avveduto dell’incongruenza riducendo, come evidenziato, la soglia di
punibilità dell’omessa dichiarazione a 30.000 euro e quella
della dichiarazione infedele a 50.000 euro; dunque, a un
importo inferiore, nel primo caso, e pari, nel secondo, a
quello della soglia di punibilità dell’omesso versamento
dell’IVA, rimasta per converso inalterata.
In tal modo, la distonia sistematica è venuta meno; ma, come ha osservato la Consulta, tali modifiche sono applicabili, per espressa previsione di legge, ai soli fatti successivi al
17 settembre 2011, mentre la violazione del principio costituzionale permane per i fatti commessi sino alla predetta
data.
La Corte Costituzionale ha affermato, dunque, conclusivamente che, per rimuovere del tutto la duplice violazione del
principio di eguaglianza è necessario allineare la soglia di
punibilità dell’omesso versamento dell’IVA - quanto ai fatti
commessi sino al 17 settembre 2011 - alla più alta fra le
soglie di punibilità delle violazioni in rapporto alle quali si
manifesta l’irragionevole disparità di trattamento: quella,
cioè, della dichiarazione infedele (103.291,38 euro).
IMPOSTA SOSTITUTIVA
CEDOLARE SECCA RIDOTTA PER I CONTRATTI A CANONE
CONCORDATO
Decreto Legge 28 marzo 2014, n. 47 - G.U. 28 marzo
2014, n. 73
È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 73 del 28 marzo 2014 il Decreto Legge 28 marzo 2014, n. 47 (“D.L. n.
47/2014”) “Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il
mercato delle costruzioni e per EXPO 2015” che ha introdotto numerose novità tra le quali, all’art. 9, la riduzione al
10% dell’aliquota della cedolare secca per i cosiddetti contratti a canone concordato.
Giova rammentarsi che la “ cedolare secca” è il regime opzionale di imposizione sostitutiva sul reddito fondiario derivante dalla locazione di immobili abitativi, introdotta nell’ordinamento dall’art. 3 del D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23.
In particolare, se si sceglie di optare per la cedolare secca,
l’IRPEF e le relative addizionali, nonché l’imposta di registro annuale e l’imposta di bollo sono sostituite da un’unica imposta sostitutiva (la “cedolare secca”, appunto), che
si applica con due sole aliquote vale a dire: (i) quella del
21%, per i contratti ordinari; e (ii) quella del 10% (modificata per le annualità 2014-2017), per i c.d. contratti a canone
concordato, ovvero i contratti stipulati secondo le disposizioni di cui agli artt. 2 comma 3, e 8 della L. n. 431/98, in riferimento ad abitazioni ubicate nei Comuni di cui all’art. 1,
comma 1, lett. a) e b) del Decreto Legge 30 dicembre
1988, n. 551, convertito nella Legge 21 febbraio 1989, n.
61, e negli altri Comuni ad alta tensione abitativa individuati dal CIPE con apposite delibere.
Si osserva che la riduzione al 10% per le annualità 20142017 interviene non solo sui nuovi contratti, ma anche su
quelli già in corso, seppur limitatamente al citato quadriennio.
Le Società 6/2014
Fisco e Società
Sintesi
Il D.L. n. 47/2014 ha inoltre esteso la platea dei locatari che
permettono l’opzione per l’imposta sostitutiva dalle sole
persone fisiche - e non nell’esercizio di impresa, arte o professione - anche alle unità immobiliari abitative locate nei
confronti di cooperative o enti senza scopo di lucro di cui
al libro I, titolo II, del codice civile, purché sublocate a studenti universitari con rinuncia all’aggiornamento del canone di locazione o assegnazione.
MODELLO UNICO 2014
QUADRO RW DEL MODELLO UNICO 2014 - PERSONE
FISICHE: L’AGENZIA DELLE ENTRATE MODIFICA LE
ISTRUZIONI
Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate 4 aprile 2014
prot. n. 48537
Con il provvedimento dell’ Agenzia delle Entrate prot. n.
48537/2014 sono state approvate alcune modifiche al qua-
Le Società 6/2014
dro RW (investimenti e attività finanziarie all’estero) del
modello di dichiarazione “Unico 2014-PF” - ed alle relative
istruzioni - da presentare nell’anno 2014 per il periodo
d’imposta 2013. Le modifiche si sono rese necessarie alla
luce di una serie di recenti novità normative, tra cui quelle
in materia di monitoraggio fiscale.
In particolare, si osserva che vengono recepite all’interno
delle istruzioni del quadro RW le novità introdotte dalla legge di conversione del D.L. n. 4/2014 di cui sopra per cui
l’obbligo di monitoraggio non sussiste per i depositi ed i
conti correnti bancari costituiti all’estero il cui valore massimo complessivo raggiunto nel corso del periodo d’imposta
non sia superiore a 10.000 euro.
Resta fermo, invece, l’obbligo di compilazione del quadro
RW laddove sia dovuta l’IVAFE. Infatti, occorre tenere presente che, per i conti correnti e i libretti di risparmio detenuti all’estero, l’obbligo di liquidazione di tale imposta è obbligatorio quando il valore medio di giacenza annuo risultante dagli estratti conto e dai libretti è superiore a 5.000
euro ovvero è dovuta in misura fissa.
765
Società e Unione europea
Sintesi
Osservatorio comunitario
a cura di Silvia Olivieri
Fiscalità diretta
SULLA COMPATIBILITÀ CON IL DIRITTO DELL’UE DI UNA NORMATIVA NAZIONALE CHE PREVEDE UNO
SGRAVIO FISCALE DI GRUPPO NELL’AMBITO DI UN CONSORZIO
Corte di Giustizia dell’Unione europea, 1 aprile 2014, causa C-80/12, Felixstowe Dock and Railway Company
Ltd ed altri/The Commissioners for Her Majesty’s Revenue Customs
L’1 aprile 2014, la Corte di giustizia dell’Unione europea si è pronunciata, dietro rinvio pregiudiziale proposto
dal First-tier Tribunal (Tax Chamber), sulla compatibilità con le libertà fondamentali di cui agli articoli 49 TFUE
e 54 TFUE dell’Income and Corporation Taxes Act 1988 (c.d. ICTA), ovvero della legge del Regno Unito del
1988 relativa alle imposte sul reddito e sulle società. Nello specifico, la domanda pregiudiziale è stata presentata nell’ambito di una controversia sorta tra la Felixstowe Dock and Railway Company Ltd, la Savers Health
and Beauty Ltd, la Walton Container Terminal Ltd, la WPCS (UK) Finance Ltd, la AS Watson Card Services
(UK) Ltd, la Hutchison Whampoa (Europe) Ltd, la Kruidvat UK Ltd e la Superdrug Stores plc, da un lato, e i
Commissioners for Her Majesty’s Revenue & Customs, dall’altro, in merito all’applicazione della normativa
che regola lo sgravio fiscale di gruppo nell’ambito di un consorzio, nello specifico degli articoli 402 (1), 406 (2)
e 413 (3) dell’ICTA. Detta controversia trae origine da una serie di fatti che vedono come protagonista la Hutchison Whampoa Ltd (c.d. “società controllante ultima”), con sede a Hong Kong e che controlla le società richiedenti lo sgravio fiscale, le quali invece hanno sede nel Regno Unito e fanno parte, a fini fiscali, di un gruppo ex articolo 413, paragrafo 3, lettera a), dell’ICTA. La società Hutchison 3G UK Ltd (c.d. “società cedente”),
con sede nel Regno Unito, è detenuta indirettamente da un consorzio, e pertanto, a fini fiscali, rileva come società di tale consorzio ai sensi dell’articolo 406, paragrafo 1, lettera b), dell’ICTA. Di tale consorzio fa parte la
Hutchison 3G UK Investment Sàrl, con sede in Lussemburgo, la quale, essendo anche parte del gruppo di cui
sopra, funge da società di collegamento (c.d. “società di collegamento”) ai sensi dell’articolo 406, paragrafo
1, lettera a), dell’ICTA. Detta “società di collegamento” risulta interamente controllata dalla Hutchison Europe
Telecommunications Sàrl, con sede in Lussemburgo, la quale a sua volta è detenuta indirettamente dalla società controllante ultima attraverso diverse società, alcune delle quali hanno sede in Stati terzi. Nell’ambito di
questo complesso quadro societario, la “società cedente”, che ha per oggetto sociale la creazione e la gestione di una rete di telefonia mobile, ha effettuato rilevanti investimenti, i quali hanno gravato sensibilmente sui
suoi bilanci di esercizio dal 2002 dal 2005. Poiché, secondo quanto disposto nell’ICTA, le perdite della “società cedente” potevano essere imputate come sgravi fiscali agli utili fiscali di altre società residenti facenti parte
del gruppo o del consorzio, le due società aventi sede nel Regno Unito, che invece avevano conseguito degli
utili nel corso dei medesimi esercizi di bilancio, hanno fatto domanda di sgravio fiscale. Specificatamente, esse hanno chiesto alle autorità fiscali del Regno Unito uno sgravio di gruppo nell’ambito di un consorzio sulla
base degli articoli 402, paragrafo 3, e 406 dell’ICTA. Tale richiesta è stata però respinta dall’amministrazione
fiscale del Regno Unito, sul presupposto che la “società di collegamento” non aveva residenza fiscale nel Regno Unito, o comunque un’attività commerciale esercitata attraverso una stabile organizzazione. Le ricorrenti
hanno quindi presentato ricorso al First-tier Tribunal (Tax Chamber), il quale ha sospeso il procedimento per
sottoporre alla Corte di giustizia due questioni pregiudiziali. Il giudice del rinvio ha chiesto, in sostanza, se gli
(1) L’articolo 402 dell’ICTA dispone che: «Fatte salve le disposizioni del presente capitolo nonché dell’articolo 492, paragrafo 8,
uno sgravio per le perdite commerciali nonché qualsiasi altro importo ammissibile allo sgravio dall’imposta sulle società possono
essere trasferiti, nei casi indicati in prosieguo ai paragrafi 2 e 3, da una società (denominata “società cedente”) e, su richiesta di
un’altra società (denominata “società richiedente”), possono essere concessi alla società richiedente sotto forma di sgravio dall’imposta sulle società, denominato “sgravio di gruppo”».
(2) L’articolo 416 dell’ICTA dispone che: «1. Ai fini del presente articolo si intende per:
a) “società di collegamento” una società che è al tempo stesso membro di un consorzio e di un gruppo di società;
b) “società del consorzio”, in relazione a una società di collegamento, una società detenuta dal consorzio di cui è membro la
società di collegamento;
c) “società facente parte del gruppo”, in relazione a una società di collegamento, una società che è membro del gruppo di cui
fa parte anche la società di collegamento ma che non è essa stessa membro del consorzio di cui è membro la società di collegamento.
2. Fatti salvi i paragrafi 3 e 4 seguenti, ove la società di collegamento possa (indipendentemente da un’eventuale mancanza di
utili) effettuare una richiesta nell’ambito del consorzio relativamente alla perdita o ad altro importo ammissibile allo sgravio di un
periodo contabile pertinente di una società del consorzio, una società membro del gruppo può presentare qualsiasi richiesta nell’ambito del consorzio che potrebbe essere effettuata dalla società di collegamento; (...)».
(3) L’articolo 413 dell’ICTA dispone che: «[S]i ritiene che due società facciano parte di un gruppo di società se una di esse è
controllata per il 75% dall’altra o se entrambe sono controllate per il 75% da una terza società; (...)».
766
Le Società 6/2014
Società e Unione europea
Sintesi
articoli 49 TFUE e 54 TFUE debbano essere interpretati nel senso che ostano alla normativa di uno Stato
membro che consente ad una società residente facente parte di un gruppo di ottenere il trasferimento delle
perdite subite da un’altra società residente facente parte di un consorzio, qualora una «società di collegamento» facente parte nel contempo del gruppo e del consorzio in questione risieda anch’essa nel suddetto Stato
membro, e ciò indipendentemente dalla residenza delle società che detengono, direttamente o attraverso società intermediarie, il capitale della società di collegamento e delle altre società interessate dal trasferimento
delle perdite, mentre la stessa normativa esclude tale possibilità quando la società di collegamento è stabilita
in un altro Stato membro. Nell’affrontare, congiuntamente, i quesiti pregiudiziali, la Corte di giustizia rammenta che la libertà di stabilimento, di cui all’articolo 49 TFUE, consente ai cittadini dell’UE l’accesso alle attività non subordinate ed il loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese, alle stesse condizioni
previste dalle leggi dello Stato membro di stabilimento per i propri cittadini. Secondo quanto disposto, poi, all’articolo 54 TFUE, la libertà di stabilimento comprende, per le società costituite a norma delle leggi di uno
Stato membro, e che abbiano la sede sociale, l’amministrazione centrale o la sede principale all’interno dell’Unione, il diritto di svolgere la loro attività nello Stato membro di cui trattasi mediante una controllata, una
succursale o un’agenzia (4). Orbene, la normativa di cui al procedimento principale subordina la possibilità di
trasferire, mediante sgravio, perdite subite da una società con residenza fiscale in uno Stato membro, e facente parte di un consorzio, ad un’altra società con residenza fiscale nello stesso Stato membro, la quale fa
parte di un gruppo alla condizione che una società di collegamento, facente parte al contempo del gruppo e
del consorzio in questione, risieda nello Stato membro, ovvero vi eserciti un’attività commerciale mediante
una stabile organizzazione. La condizione di residenza appena enunciata introduce una differenza di trattamento tra le società residenti legate tra loro, ai sensi della normativa fiscale nazionale, da una società di collegamento con sede nel Regno Unito, da un lato, e le società residenti legate tra loro mediante una società di
collegamento stabilita in un altro Stato membro, le quali non ne godono, dall’altro. Questa differenza di trattamento, osserva la Corte, rende fiscalmente meno conveniente stabilire una società di collegamento in un altro Stato membro, dal momento che la normativa nazionale applicabile concede l’agevolazione fiscale solo
nel caso in cui le società di collegamento siano stabilite nel Regno Unito. A tal proposito, è irrilevante che nel
caso di specie non siano le società richiedenti aventi sede nel Regno Unito a veder limitata la loro libertà di
stabilimento. Il giudice dell’UE ricorda infatti che una società può invocare, a fini fiscali, una restrizione della
libertà di stabilimento di un’altra società ad essa legata, nei limiti in cui tale restrizione incide sull’imposizione
che la riguarda direttamente (5). Pertanto, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, affinché la libertà di stabilimento sia effettiva, la normativa fiscale deve contemplare la possibilità per le società
richiedenti di avvalersi dello sgravio; in caso contrario, queste ultime riceverebbero un trattamento fiscale meno favorevole di quello che avrebbero ricevuto se fossero state legate alla società cedente attraverso una società di collegamento avente sede nel Regno Unito. La Corte ricorda a questo punto che una simile differenza
di trattamento può essere considerata compatibile con il diritto dell’UE qualora investa situazioni che non sono oggettivamente comparabili, ove la comparabilità di una situazione transfrontaliera con una situazione interna deve essere esaminata tenendo conto dell’obiettivo perseguito dalle disposizioni nazionali in questione,
ovvero qualora sia giustificata da un motivo imperativo di interesse generale (6). Orbene, a giudizio del giudice dell’UE, le società soggetti passivi d’imposta, legate tra loro mediante una società di collegamento con sede nel Regno Unito, e quelle legate tra loro mediante una società di collegamento con sede in un altro Stato
membro, si trovano in situazioni obiettivamente comparabili rispetto alla possibilità di scambiarsi tra loro, attraverso uno sgravio di gruppo nell’ambito di un consorzio, perdite subite nel Regno Unito. In merito, invece,
ai motivi imperativi di interesse generale che possono giustificare una tale differenza di trattamento, la Corte
osserva che spetta al giudice del rinvio accertare quali siano gli obiettivi perseguiti dalla normativa nazionale
controversa. Nondimeno, al fine di permettere a tale giudice di decidere la controversia di cui è investito, rileva che non potrebbero validamente essere invocati né il mantenimento del potere impositivo tra Stati membri
né la lotta all’elusione fiscale. Da un lato, ancorché il mantenimento del potere impositivo tra gli Stati membri
sia stato considerato legittimo allo scopo di preservare la simmetria tra il diritto di tassare gli utili e la possibilità di dedurre le perdite (7), in una situazione come quella in analisi tale potere impositivo non risulterebbe in
alcun modo pregiudicato dall’eliminazione della differenza di trattamento in questione (8). Dall’altro, sebbene
sia vero che una siffatta restrizione della libertà di stabilimento potrebbe essere giustificata dalla necessità di
contrastare costruzioni puramente artificiose volte ad eludere la normativa fiscale di uno Stato membro, ovvero i paradisi fiscali (9),per essere giustificata, detta restrizione dovrebbe avere come finalità specifica quella di
ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività econo(4) CGUE, 21 settembre 1999, causa C-307/97, Compagnie de Saint-Gobain, punto 35; CGUE, 13 dicembre 2005, causa C446/03, Marks & Spencer, punto 30.
(5) CGUE, 6 settembre 2012, causa C-18/11, Philips Electronics, punto 39.
(6) CGUE, 6 settembre 2012, causa C-18/11, Philips Electronics, punto 17 e giurisprudenza ivi citata.
(7) CGUE, 29 novembre 2011, causa C-371/10, National Grid Indus, punto 45; CGUE, 15 maggio 2008, causa C-414/06, Lidl
Belgium, punto 33.
(8) CGUE, 6 settembre 2012, causa C-18/11, Philips Electronics, punti 25 e 26.
(9) CGUE, 16 luglio 1998, causa C-264/96, ICI, punto 26; CGUE, 12 dicembre 2002, causa C-324/00, Lankhorst-Hohorst, punto
37; CGUE, 11 marzo 2004, causa C-9/02, Hughes de Lasteyrie du Saillant, punto 50; CGUE, 13 dicembre 2005, causa C-446/03,
Marks & Spencer, punto 57; CGUE, 12 settembre 2006, causa C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas,
punto 55.
Le Società 6/2014
767
Società e Unione europea
Sintesi
mica e finalizzate a eludere la normale imposizione sugli utili generati da attività svolte nel territorio nazionale.
Tale circostanza non ricorre nel caso di specie; la normativa controversa costituisce quindi una restrizione vietata dagli articoli 49 e 54 TFUE. Alla luce delle suesposte considerazioni, la Corte di giustizia dell’UE dichiara
che:
«... Gli articoli 49 TFUE e 54 TFUE devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa di uno Stato
membro che prevede la possibilità per una società residente, facente parte di un gruppo, di ottenere il trasferimento delle perdite subite da un’altra società residente, facente parte di un consorzio, allorché una «società di
collegamento», facente parte nel contempo di tale gruppo e di tale consorzio, sia anch’essa residente nel suddetto Stato membro - e ciò indipendentemente dalla residenza delle società che detengono, direttamente o attraverso società intermedie, il capitale della società di collegamento e delle altre società interessate dal trasferimento
delle perdite -, mentre la stessa normativa preclude tale possibilità quando la società di collegamento è stabilita
in un altro Stato membro ...».
Fiscalità indiretta
SUL DIRITTO ALLA DETRAZIONE DELL’IVA DI UN SOCIO DI UNA SOCIETÀ CHE ACQUISISCE DA QUESTA PARTE
DELLA CLIENTELA ALLO SCOPO DI CEDERLA DIRETTAMENTE, A TITOLO GRATUITO E A FINI DI ATTIVITÀ
D’IMPRESA, AD UN’ALTRA SOCIETÀ, DI NUOVA COSTITUZIONE, DI CUI EGLI È IL SOCIO PRINCIPALE
Corte di Giustizia dell’Unione europea, 13 marzo 2014, causa C-204/13, Finanzamt Saarlouis/Heinz Malburg
In data 13 marzo 2014, la Corte di giustizia dell’Unione europea, dietro rinvio pregiudiziale proposto dalla Corte tributaria federale tedesca (c.d. Bundesfinanzhof), si è pronunciata sull’interpretazione della sesta direttiva
IVA (10), nello specifico dell’articolo 4, paragrafi 1 e 2 (11), ed articolo 17, paragrafo 2, lettera a) (12). Tale rinvio ha origine da una controversia sorta tra il Finanzamt Saarlouis (c.d. Finanzamt), l’ufficio delle imposte del
comune tedesco di Saarlouis, ed il sig. Malburg, in merito al diritto alla detrazione dell’IVA versata a monte
da un socio, in occasione dell’acquisizione di parte della clientela, nell’ambito della divisione patrimoniale di
una società di consulenza fiscale. Nello specifico, sino al 31 dicembre 1994 il sig. Malburg deteneva il 60%
delle quote della società tedesca di consulenza fiscale Malburg & Partner (c.d. vecchia società), mentre il restante 40% era detenuto, in parti uguali, da altri due soci. Alla data di cui sopra, la società veniva sciolta ed
ognuno dei tre soci riceveva una parte della relativa clientela, continuando ad esercitare l’attività di consulenza fiscale in qualità di libero professionista. Allo stesso tempo, il sig. Malburg costituiva una nuova società
(c.d. nuova società), di cui possedeva il 95% delle quote, ed alla quale conferiva, a titolo gratuito, la clientela
acquisita in seguito allo scioglimento della vecchia società. Nel frattempo, lo scioglimento della vecchia società veniva accertato con una sentenza del giudice di primo grado del 24 settembre 2003. Il Finanzamt poneva quindi a carico della vecchia società l’IVA relativa alla cessione della clientela avvenuta nel 1994; il relativo
avviso di accertamento veniva regolarmente saldato. Circa un anno dopo, la vecchia società emetteva nei
confronti del sig. Malburg una fattura, datata 16 agosto 2004, relativa alla divisione patrimoniale del 1994,
nella quale l’importo dell’IVA era indicato separatamente. Sulla base di tale fattura, il sig. Malburg detraeva
un determinato importo a titolo di IVA, importo che gli era stato fatturato per l’acquisizione della clientela. Avverso la decisione del Finanzamt di respingere tale detrazione, il sig. Malburg proponeva un reclamo che veniva rigettato sul presupposto che la clientela non era stata impiegata nell’impresa del reclamante. Segnatamente, l’amministrazione fiscale riteneva che la clientela, quale bene economico, fosse stata impiegata dalla
nuova società, impresa distinta da quella del sig. Malburg; quest’ultimo non aveva pertanto diritto alla detrazione IVA effettuata. A seguito dell’accoglimento, da parte del Finanzgericht des Saarlandes (Corte tributaria
del Land della Saar), del ricorso giurisdizionale proposto dal sig. Malburg, il Finanzamt ricorreva in cassazione. Il Bundesfinanzhof (Corte tributaria federale), investito della controversia, pur condividendo la tesi del Sig.
Malburg, riteneva esistessero dubbi riguardo all’esatta interpretazione delle disposizioni della sesta direttiva
di cui sopra. Decideva conseguentemente di sospendere il procedimento per chiedere alla Corte di giustizia
se alla luce del principio di neutralità, gli articoli 4, paragrafi 1 e 2, e 17, paragrafo 2, lettera a), della sesta di(10) Direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri
relative alle imposte sulla cifra di affari - Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, GUUE L 145
del 13 giugno 1977, pag. 1, come modificata dalla direttiva 95/7/CE del Consiglio, del 10 aprile 1995, GU L 102, del 5 maggio
1995, pag. 18.
(11) L’articolo 4, paragrafi 1 e 2, della sesta direttiva dispone che: «1. Si considera soggetto passivo chiunque esercita in modo
indipendente e in qualsiasi luogo una delle attività economiche di cui al paragrafo 2, indipendentemente dallo scopo o dai risultati
di detta attività.
2. Le attività economiche di cui al paragrafo 1 sono tutte le attività di produttore, di commerciante o di prestatore di servizi,
comprese le attività estrattive, agricole, nonché quelle delle professioni liberali o assimilate. Si considera in particolare attività economica un’operazione che comporti lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi un certo carattere di stabilità (…)».
(12) L’articolo 17, paragrafo 2, lettera a), della sesta direttiva recita che: «Nella misura in cui beni e servizi sono impiegati ai fini
di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo è autorizzato a dedurre dall’imposta di cui è debitore: a) l’[IVA] dovuta
o assolta all’interno del paese per i beni che gli sono o gli saranno ceduti e per i servizi che gli sono o gli saranno resi da un altro
soggetto passivo».
768
Le Società 6/2014
Società e Unione europea
Sintesi
rettiva, consentano di riconoscere al socio di una società, esercente attività di consulenza fiscale, che acquisisce da questa parte della clientela, al solo scopo di cederla subito dopo, a titolo gratuito ed a fini di attività
d’impresa, ad altra società di nuova costituzione, nella quale ha una rilevante partecipazione, il diritto alla detrazione dell’imposta relativa all’acquisizione della clientela. Nell’affrontare il quesito pregiudiziale il giudice
dell’UE rileva, in via preliminare, che i fatti all’origine della sentenza resa dalla Corte di giustizia nella causa
Polski Trawertyn (13) e richiamata nel corso del contenzioso nazionale, sono specifici a quella causa. Con
quella pronuncia il giudice dell’UE ha dichiarato che gli articoli 9, 168 e 169 della direttiva 2006/112/CE del
Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, devono essere
interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale che non consenta né ai soci né alla società
stessa di far valere il diritto alla detrazione dell’IVA versata a monte su spese di investimento sostenute dai
soci stessi prima dell’istituzione e della registrazione di detta società, ai fini ed in funzione della sua attività
economica. In quel caso, i soci di una futura società, conformemente alla normativa nazionale applicabile,
non avevano potuto far valere un diritto alla detrazione dell’IVA sulle spese d’investimento che essi, a titolo
personale e prima della registrazione e dell’identificazione di tale società ai fini dell’IVA, avevano effettuato ai
fini ed in funzione dell’attività economica della società medesima, atteso che il conferimento del bene d’investimento di cui trattasi costituiva un’operazione esente. Ciò considerato, la Corte aveva dichiarato che in una
situazione come quella oggetto del procedimento principale la menzionata normativa nazionale non solo non
consentiva a detta società di avvalersi della detraibilità dell’IVA versata sul bene d’investimento in questione,
ma impediva altresì ai soci, che avevano sostenuto le spese d’investimento, di far valere tale diritto. Si tratta
quindi, ora, di vedere se gli elementi che sono stati alla base di detta pronuncia sono applicabili per analogia
ad una situazione come quella oggetto del procedimento principale. A tal proposito, la Corte osserva, da un
lato, che secondo l’articolo 4, paragrafi 1 e 2, della sesta direttiva sono soggette a imposizione e danno diritto, se del caso, alla detrazione a valle, prevista all’articolo 17, paragrafo 2, lettera a), della medesima direttiva,
le attività economiche e, in particolare, le operazioni che comportino lo sfruttamento di un bene materiale o
immateriale per ricavarne introiti aventi un certo carattere di stabilità. Dall’altro, rileva che, ai sensi dell’articolo 17, paragrafo 2, lettera a), della sesta direttiva, nella misura in cui i beni e i servizi sono impiegati ai fini di
sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo è autorizzato a detrarre dall’imposta di cui è debitore
l’IVA dovuta o assolta all’interno del paese per le merci che gli sono o gli saranno fornite e per i servizi che gli
sono o gli saranno prestati da un altro soggetto passivo. Il giudice dell’UE ricorda a questo punto che, affinché il diritto a detrarre l’IVA assolta a monte sia riconosciuto in capo al soggetto passivo ed al fine di determinare la portata di siffatto diritto, è necessario sussista un nesso diretto ed immediato tra una specifica operazione a monte e una o più operazioni a valle (14). Orbene, mentre nella causa che ha dato luogo alla citata
sentenza Polski Trawertyn l’operazione a valle effettuata dai due futuri soci, vale a dire il conferimento di un
bene immobile alla società quale spesa d’investimento ai fini dell’attività economica di quest’ultima, rientrava
indubbiamente nell’ambito di applicazione dell’IVA, ma costituiva un’operazione esente da tale imposta, nella
controversia oggetto del procedimento principale, l’operazione a valle non rientra nell’ambito di applicazione
dell’IVA, poiché la cessione, a titolo gratuito, della clientela alla nuova società non può essere considerata
un’«attività economica» ai sensi della sesta direttiva. Ne discende che nel caso di specie non esiste nemmeno
un nesso diretto e immediato tra una specifica operazione a monte e un’operazione a valle che conferisca un
diritto alla detrazione, conformemente all’articolo 17, paragrafo 2, lettera a), della sesta direttiva. Poiché il
giudice del rinvio chiede inoltre se, in considerazione del principio di neutralità fiscale, la citata sentenza Polski Trawertyn si applichi per analogia al caso di specie, la Corte richiama la giurisprudenza secondo cui il principio di neutralità fiscale, inteso come regola di interpretazione (15), trova riscontro nel regime delle detrazioni, in quanto è volto a sgravare interamente l’imprenditore dall’onere dell’IVA dovuta o pagata nell’ambito di
tutte le sue attività economiche. Il sistema comune dell’IVA garantisce, di conseguenza, la perfetta neutralità
dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di dette
attività, purché queste siano di per sé soggette all’IVA (16). Ciò premesso, la Corte dichiara che il principio di
neutralità fiscale non trova applicazione nel caso di specie, dal momento che la cessione a titolo gratuito della
clientela ad una società non costituisce un’operazione rientrante nell’ambito di applicazione dell’IVA. Da ultimo, il giudice dell’UE rileva che i fatti all’origine della controversia che ha dato luogo alla citata sentenza Polski Trawertyn si differenziano anche per altri aspetti dalla situazione di cui al procedimento principale. Infatti,
in quest’ultima, la nuova società era già costituita quando il sig. Malburg ha acquisito la clientela e, contrariamente alla situazione in oggetto nella causa che ha dato luogo alla citata sentenza, non vi è stato alcun conferimento del bene d’investimento, in questo caso della clientela, nel patrimonio di tale società. Infine, non è
la società nuovamente costituita che ha chiesto di poter detrarre l’IVA versata a monte da un socio nell’ambito di un atto preparatorio dell’attività di quest’ultima.
Sulla base di queste considerazioni la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha statuito che:
(13) CGUE, 1 marzo 2012, causa C-280/10, Kopalnia Odkrywkowa Polski Trawertyn P. Granatowicz, M. Wąsiewicz spó³ka jawna/Dyrektor Izby Skarbowej w Poznaniu.
(14) CGUE, 21 febbraio 2013, causa, C-104/12, Finanzamt Köln-Nord/Wolfram Becker, punto 19 e giurisprudenza ivi citata.
(15) CGUE, 19 luglio 2012, causa C-44/11, Deutsche Bank, punto 45.
(16) CGUE, 14 febbraio 1985, causa 268/83, Rompelman, punto 19; CGUE, 3 marzo 2005, causa C-32/03, Fini H, punto 25 e
giurisprudenza ivi citata.
Le Società 6/2014
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Società e Unione europea
Sintesi
«... Gli articoli 4, paragrafi 1 e 2, nonché 17, paragrafo 2, lettera a), della sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari - Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, come modificata dalla direttiva 95/7/CE del Consiglio, del 10 aprile 1995, devono essere interpretati, in relazione al
principio di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto, nel senso che il socio di una società di diritto civile
esercente attività di consulenza fiscale, che acquisisca dalla società medesima parte della clientela al solo
scopo di cederla direttamente, a titolo gratuito e a fini di attività d’impresa, ad altra società di consulenza fiscale, di nuova costituzione, di cui egli è il socio principale, senza però che tale clientela rientri nel patrimonio
della società di nuova costituzione, non ha diritto di detrarre l’imposta sul valore aggiunto versata a monte
sull’acquisizione della clientela di cui trattasi ...».
770
Le Società 6/2014
Indici
Le Societa`
INDICE DEGLI AUTORI
Bet Matteo
Avvocato in Genova e dottore di ricerca presso la Facolta`
di Giurisprudenza dell’Universita` di Genova
Osservatorio Consob ......................................
753
Bonavera Enrico Erasmo
Avvocato in Genova
Questioni processuali e sostanziali in tema di nullita`
di contratto di cessione di quote sociali per violazione del divieto di patto commissorio ....................
675
Carbone Vincenzo
Presidente Emerito onorario della Suprema Corte di cassazione
Osservatorio di giurisprudenza di legittimita` ..........
746
Celentano Paolo
Magistrato in Napoli
La riforma del ‘‘tribunale delle imprese’’ ..............
711
Salafia Vincenzo
Presidente aggiunto onorario della Corte di cassazione
Il funzionamento dell’organizzazione societaria ......
649
Stabilini Alessandra
Avvocato in Milano e Ricercatore di Diritto Commerciale
nell’Universita` degli Studi di Milano
Osservatorio di giurisprudenza di merito ..............
748
Tonon Daniela
Avvocato in Milano e dottore di ricerca in diritto penale
presso l’Universita` degli Studi di Macerata
La riforma dei delitti di corruzione alla verifica della
prassi: prime risposte e questioni aperte ..............
INDICE CRONOLOGICO
DELLA LEGISLAZIONE
D.L. 23 dicembre 2013, n. 145 ..........................
De Campo Valentina
Dottore in Giurisprudenza
Condotte illecite del terzo: i confini della tutela riconosciuta ai singoli soci ....................................
D.L. 28 marzo 2014, n. 47 ...............................
D.L. 28 gennaio 2014, n. 4 ...............................
688
Di Bitonto Cosimo
Avvocato in Milano
La c.d. ‘‘scissione negativa’’ (reale) e` inammissibile
661
1 aprile 2014, causa C-80/12 ............................
13 marzo 2014, causa C-204/13 ........................
8 aprile 2014, n. 80 ........................................
11 aprile 2014, n. 8600 ...................................
746
11 aprile 2014, n. 8591 ...................................
11 aprile 2014, n. 8458 ...................................
Acquisto di partecipazione di controllo, fattispecie a
formazione progressiva, informazione privilegiata e
insider secondario .........................................
19 marzo 2014, n. 6388 ..................................
697
28 marzo 2014, n. 7315 ..................................
21 marzo 2014, n. 6664 ..................................
7 marzo 2014, n. 5349 ....................................
24 febbraio 2014, n. 4393 ................................
Olivieri Silvia
Avvocato in Bruxelles
11 dicembre 2013, n. 27733 ............................
766
20 novembre 2013, n. 26043 ...........................
16 aprile 2014, n. 16698 .................................
688
3 aprile 2014, n. 15176 ...................................
2 aprile 2014, n. 15119 ...................................
Quaranta Enrico
Magistrato in Napoli
La decadenza dal potere sanzionatorio della Consob
Le Societa` 6/2014
747
746
746
759
761
757
758
746
653
661
Cassazione penale
Proverbio Davide
Avvocato in Milano
Opzioni put e divieto di patto leonino ..................
763
Cassazione civile
Lombardo Stefano
Professore Aggregato di Diritto dell’Economia nella Libera Universita` di Bolzano
Osservatorio comunitario ................................
766
768
Corte costituzionale
757
Giuffre` Romilda
Avvocato in Napoli
Osservatorio di giurisprudenza di legittimita` ..........
INDICE CRONOLOGICO
DELLA GIURISPRUDENZA
Corte di Giustizia UE
Gabelli Massimo
Dottore commercialista in Milano
Osservatorio fiscale .......................................
711
764
758
653
Del Bianco Alessandra
Avvocato in Milano
Opzioni put e divieto di patto leonino ..................
731
760
763
762
Corte d’Appello
719
Milano 4 aprile 2013 ......................................
697
771
Indici
Le Societa`
Mercati finanziari
Tribunale
Bari 15 aprile 2014 ........................................
Milano 27 marzo 2014 ....................................
Milano 28 febbraio 2014 .................................
Milano 10 febbraio 2014 .................................
Milano 5 febbraio 2014 ...................................
Milano 3 ottobre 2013 ....................................
Milano 3 ottobre 2013 ....................................
649
748
751
749
748
675
688
Accertamento
La decadenza dal potere sanzionatorio della Consob
(App. Milano, sez. I, 4 aprile 2013; App. Milano, sez.
I, 23 agosto 2013, n. 2603) commento di E. Quaranta .............................................................
758
Informazione finanziaria
Modalita` di stoccaggio e deposito delle informazioni
regolamentate (Comunicazione 10 aprile 2014, n.
0029658 - Osservatorio Consob) .......................
INDICE CRONOLOGICO
DELLA PRASSI
Risoluzione 9 aprile 2014, n. 37/E ......................
Risoluzione 19 marzo 2014, n. 32/E ....................
765
757
761
Acquisto di partecipazione di controllo, fattispecie a
formazione progressiva, informazione privilegiata e
insider secondario (App. Milano, sez. I, 4 aprile
2013) commento di S. Lombardo .......................
Sanzioni amministrative
Violazione della disciplina in materia di informazione
societaria (Delibera 26 marzo 2014, n. 18847 - Osservatorio Consob) ........................................
Consob
Intermediari finanziari
Delibera 26 marzo 2014, n.18847 ......................
Delibera 20 marzo 2014, n. 18839 ......................
Delibera 12 marzo 2014, n. 18828 ......................
Delibera 12 febbraio 2014, n. 18799 ...................
753
755
755
753
754
697
Informazione societaria
Ministero dell’economia e delle finanze - Ministero
per la pubblica amministrazione
Circolare 31 marzo 2014, n. 1/DF .......................
760
Comunicazione 10 aprile 2014, n. 0029658 ...........
753
Informazione privilegiata
Agenzia delle Entrate
Provvedimento 4 aprile 2014, n. 48537 ................
719
Emittenti
Commissioni tributarie
Milano 21 marzo 2014, n. 1485 .........................
Abuso di informazioni privilegiate
755
Responsabilita`
Operativita` in violazione delle regole di funzionamento dei mercati regolamentati ed integrita` dei mercati
(Delibera 12 marzo 2014, n. 18828 - Osservatorio
Consob) .....................................................
753
Manipolazione del mercato
Sanzioni amministrative
INDICE ANALITICO
Manipolazione del mercato (Delibera 20 marzo
2014, n. 18839 - Osservatorio Consob) ................
Banche
Offerta al pubblico di prodotti finanziari
Gestione patrimoniale
Sanzioni amministrative
Assenza di prospetto informativo (Delibera 12 febbraio 2014, n. 18799 - Osservatorio Consob) .........
Negligenza
Responsabilita` per cattiva gestione del risparmio
(Cass. 24 febbraio 2014, n. 4393 - Osservatorio di
giurisprudenza di legittimita`) .............................
746
755
754
Regime fiscale
Accertamento
Fallimento
Contenzioso
Effetti interruttivi
Termini
Effetti interruttivi del fallimento e decorrenze dei termini per la riassunzione del giudizio (Trib. Milano 27
marzo 2014 - Osservatorio di giurisprudenza di merito) ............................................................
772
748
All’estero della sede legale della societa` senza discontinuita` (Cass., sez. trib., 19 marzo 2014, n. 6388
- Osservatorio fiscale) .....................................
Decadenza dal regime fiscale agevolato dei piani urbanistici particolareggiati (Risoluzione Agenzia delle
Entrate 9 aprile 2014, n. 37/E - Osservatorio fiscale)
Il compenso dell’amministratore puo` essere dedotto
757
757
Le Societa` 6/2014
Indici
Le Societa`
solo se deliberato dall’assemblea (Cass., sez. V, 7
marzo 2014, n. 5349 - Osservatorio fiscale) ...........
Non puo` essere attivata la procedura di ottemperanza in difetto di una sentenza di condanna dell’Amministrazione finanziaria (Commissione Tributaria Regionale Milano il 21 marzo 2014, n. 1485 - Osservatorio fiscale) .................................................
758
Disciplina
758
Nullo l’accertamento anticipato anche con termini in
scadenza (Cass., sez. trib., 28 marzo 2014, n. 7315 Osservatorio fiscale) ......................................
758
759
Revoca dell’amministratore da parte del socio (Trib.
Milano 10 febbraio 2014 - Osservatorio di merito) ...
749
Societa` a responsabilita` limitata
Assemblea
Impugnazione della delibera assembleare
760
Imposte dirette
Imposta sostitutiva
Impugnazione della delibera assembleare di esclusione del socio di s.r.l. e efficacia del principio traslatio iudicii nei rapporti tra arbitrato irrituale e rito ordinario (Trib. Milano 28 febbraio 2014 - Osservatorio
di merito) ....................................................
751
Finanziamento dei soci
764
Imposte in genere
Decadenza
Novita` sulla decadenza a effetto retroattivo (Risoluzione Agenzia delle Entrate 19 marzo 2014, n. 32/E Osservatorio fiscale) ......................................
Amminitratori
Revoca
Misure di contrasto
Cedolare secca ridotta per i contratti a canone concordato (Decreto Legge 28 marzo 2014, n. 47 - Osservatorio fiscale) ..........................................
731
Societa` a partecipazione pubblica
Evasione
E` possibile sequestrare i beni dell’imprenditore solo
se e` impossibile trovare in azienda il profitto dell’evasione (Cass. pen., sez. III, 16 aprile 2014, n.
16698 - Osservatorio fiscale) ............................
Delitti di corruzione
La riforma dei delitti di corruzione alla verifica della
prassi: prime risposte e questioni aperte di D. Tonon .
Termini
Disposizioni urgenti in materia tributaria e contributiva e di rinvio di termini relativi ad adempimenti tributari e contributivi (D.L. 28 gennaio 2014, n. 4 - Osservatorio fiscale) ..........................................
Responsabilita` amministrativa
delle persone giuridiche
Credito
Sul privilegio in sede fallimentare per il socio che ha
iscritto ipoteca giudiziale su un immobile della societa` a fronte di un finanziamento soci (Trib. Milano 5
febbraio 2014 - Osservatorio di merito) ................
748
Quote
761
Imposte indirette
Cessioni
Questioni processuali e sostanziali in tema di nullita`
di contratto di cessione di quote sociali per violazione del divieto di patto commissorio (Trib. Milano 3
ottobre 2013) commento di E. E. Bonavera ..........
675
Iva
Detraibile l’IVA sull’acquisito di beni strumentali pur
in assenza di operazioni attive dovute alla mancanza
di autorizzazioni comunali per lo svolgimento dell’attivita` (Cass., sez. trib., 21 marzo 2014, n. 6664 - Osservatorio fiscale) ..........................................
Omessi versamenti IVA, responsabilita` da provare
per l’ex manager (Cass. pen., sez. III, 2 aprile 2014,
n. 15119 - Osservatorio fiscale) .........................
Puo` non essere punito per l’omesso versamento
dell’IVA l’imprenditore in crisi per i clienti che non
pagano (Cass. pen., sez. III, 3 aprile 2014, n. 15176 Osservatorio fiscale) ......................................
Reato di omesso versamento IVA. Il verdetto della
Corte Costituzionale (Corte Cost. 8 aprile 2014, n.
80 - Osservatorio fiscale) .................................
Le Societa` 6/2014
Societa` cooperative
Socio
761
Assemblea dei soci
Il funzionamento dell’organizzazione societaria (Trib.
Bari 15 aprile 2014) commento di V. Salafia ..........
649
762
Societa` di capitali
763
Amministratori
Responsabilita`
763
Amministratori di fatto e responsabilita` (Cass. 11
aprile 2014, n. 8591 - Osservatorio di legittimita`) ....
746
773
Indici
Le Societa`
Responsabilita`: azione del terzo ed azione della societa` (Cass. 11 aprile 2014, n. 8458 - Osservatorio di
legittimita`) ...................................................
(Corte di Giustizia Ue, 13 marzo 2014, causa C-204/
13 - Osservatorio comunitario) ..........................
768
746
Fusione
Effetti
Fusione per incorporazione: repetita iuvant (Cass. 11
aprile 2014, n. 8600 - Osservatorio di legittimita`) ....
747
Scissione
Scissione negativa
La c.d. ‘‘scissione negativa’’ (reale) e` inammissibile
(Cass., sez. I, 20 novembre 2013, n. 26043) commento di C. Di Bitonto ....................................
661
Soci
Danno diretto ai soci
Condotte illecite del terzo: i confini della tutela riconosciuta ai singoli soci (Cass., sez. I, 11 dicembre
2013, n. 27733) commento di V. De Campo ..........
653
Societa` per azioni
Patto leonino
Divieto
Opzioni put e divieto di patto leonino (Trib. Milano 3
ottobre 2013) commento di A. Del Bianco e D. Proverbio ........................................................
688
Tribunale delle imprese
Competenza
Disciplina
La riforma del ‘‘tribunale delle imprese’’ (Decreto
Legge 23 dicembre 2013, n. 145) commento di P.
Celentano ...................................................
711
Unione europea
Fiscalita` diretta
Sgravi fiscali
Sulla compatibilita` con il diritto dell’Ue di una normativa nazionale che prevede uno sgravio fiscale di
gruppo nell’ambito di un consorzio (Corte di Giustizia
Ue, 1 aprile 2014, causa C-80/12 - Osservatorio comunitario) ...................................................
766
Fiscalita` indiretta
Iva
sul diritto alla detrazione dell’iva di un socio di una
societa` che acquisisce da questa parte della clientela allo scopo di cederla direttamente, a titolo gratuito
e a fini di attivita` d’impresa, ad un’altra societa`, di
nuova costituzione, di cui egli e` il socio principale
774
Le Societa` 6/2014