dispensa zani 2014

ARCIDIOCESI DI TRENTO Scuola Diocesana di Formazione Teologica Ufficio Catechistico Diocesano
LABORATORIO BIBLICO SULLA FEDE «Oggi devo fermarmi a casa tua» (Lc 19,5) Incontrare Gesù Cristo oggi. Una proposta di lettura del vangelo con gli adulti APPUNTI DI
DON LORENZO ZANI
Trento, 6- 13- 20- 27 settembre 2014
1. IL CAMMINO VOCAZIONALE DI SIMON PIETRO
«Sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5,1-11)
1. Il quadro introduttivo: con esso il racconto potrebbe finire; da notare la presenza della folla, la sottolineatura della parola annunciata da Gesù, l’insistenza sulla barca, il fatto che Gesù
si rivolge a Simone pregandolo.
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Mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di
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Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì
in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle
folle dalla barca.
2. Il racconto della pesca sterile e della pesca abbondante. Vanno notate l’alternanza tra i
verbi al plurale e al singolare, il titolo Maestro, la perplessità iniziale e l’obbedienza piena di
Simone, l’abbondanza della pesca.
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Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca».
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Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua
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parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si
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rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare.
3. La reazione di Simon Pietro e dei suoi soci e la chiamata di Gesù: di solito dopo un miracolo
il beneficiario non esprime la consapevolezza della propria situazione di peccatore.
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Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da
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me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui,
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per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di
Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini».
4. L’inizio della sequela di Simon Pietro e dei suoi soci.
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E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.
Premessa
In questo Laboratorio biblico sulla fede sono proposti alla nostra riflessione quattro testi, presi dai
tre vangeli sinottici. Questi brani hanno in comune il tema della vocazione o della conversione, presentate come un cammino; si tratta prima di tutto non di un cammino che è chiesto a noi, ma di un
cammino che Gesù percorre dentro di noi e assieme a noi. Nello svolgimento delle riflessioni verranno date anche alcune indicazioni sul modo di affrontare la lettura della Bibbia, tenendo presente
che essa è parola di Dio, scritta da uomini e alla maniera umana (cf. Dei Verbum, 11). Questo fatto
comporta un duplice genere di atteggiamenti.
1. Anzitutto, in quanto è parola di Dio la Bibbia non ha come primo scopo quello di dare informazioni, ma quello di rivolgere al lettore un appello al dialogo con Dio; perché questo avvenga, la lettura della Bibbia va sempre fatta in un clima di ascolto e di preghiera. Mediante il Salmo responsoriale la liturgia ci educa a una lettura dialogica della parola di Dio.
2. In secondo luogo, la Bibbia è scritta anche da uomini, perciò per comprendere il messaggio che
gli autori vogliono trasmettere, occorre porre in atto gli accorgimenti richiesti a chi si accosta a un
testo del passato. In particolare è utile:
- ambientare un brano nel suo contesto immediato (lettura verticale),
- cogliere la struttura letteraria del brano (come inizia, come termina, quali sono i termini principali
o quelli che ricorrono più volte, ecc.),
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- porre attenzione alla struttura narrativa del brano (quali sono gli attori coinvolti, quale trasformazione avviene o potrebbe avvenire in loro, quale appello viene rivolto al lettore, ecc.),
- individuare il genere letterario della pericope,
- tenere presenti i riferimenti espliciti (le citazioni) o impliciti ad altri testi della Bibbia (lettura intertestuale o canonica),
- fare un confronto con i passi paralleli degli altri vangeli sinottici (lettura orizzontale),
- fare una lettura esistenziale e spirituale, chiedendo che cosa dice quella parola di Dio nella mia situazione personale, ecclesiale, sociale (come mi coinvolge, come si rivela a me il volto di Dio e
dell’uomo, che preghiera fa nascere in me, quale decisione o incoraggiamento mi propone, ecc.).
Il testo biblico è sorto nella comunità dei credenti e va letto nella comunità dei credenti, specialmente durante la liturgia; s. Gregorio Magno afferma: «Molte cose che nella sacra Scrittura da solo
non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli».
La liturgia ci ricorda che ci si può accostare alla Bibbia con la lettura continua di un libro (il Lezionario feriale del Tempo ordinario propone la lettura continua dei vangeli sinottici e nel Tempo di
Pasqua quella degli Atti degli Apostoli), oppure con una lettura tematica (il Lezionario feriale del
primo periodo del Tempo di Avvento è incentrato sulle promesse messianiche e sul loro compimento in Gesù, quello delle prime tre settimane del Tempo di Quaresima sviluppa i temi della preghiera,
del digiuno, della elemosina, proposti da Gesù il Mercoledì delle ceneri).
L’ambientazione del brano e il confronto sinottico
Il racconto della pesca miracolosa e della chiamata di Simon Pietro è un brano proprio di Luca e
quindi particolarmente interessante per conoscere il modo con cui egli accosta e rilegge la tradizione evangelica. Luca situa questo episodio dopo che Gesù ha già iniziato la sua attività di insegnamento e di guarigione. Secondo Luca, nel momento iniziale della sua vita pubblica Gesù agisce da
solo: l’evangelista non nomina i suoi discepoli, perché vuole concentrare tutta l’attenzione su Gesù.
Nella sinagoga di Nazaret egli espone il suo programma: è venuto per evangelizzare i poveri, per
annunciare un anno, cioè un tempo di grazia del Signore. Gli uditori dapprima restano meravigliati,
poi si sdegnano contro di lui e lo cacciano dal loro paese. Allora Gesù scende a Cafarnao e lì in
giorno di sabato opera due miracoli a favore degli uomini: libera un indemoniato nella sinagoga,
guarisce la suocera di Simone e poi, terminato il sabato, guarisce tutti gli ammalati che gli vengono
portati, imponendo su ciascuno le sue mani. Parte quindi da Cafarnao e annuncia il vangelo in diverse sinagoghe. A questo punto Luca inserisce la chiamata dei primi discepoli e in particolare quella di Simon Pietro. Questa chiamata rivela che Gesù vede in Simone capacità nascoste, che si fida di
lui e perciò questa chiamata muta radicalmente la vita di quel pescatore e dei suoi soci.
Il brano dipinge la svolta esistenziale avvenuta in Pietro, offrendoci un’abbondanza di particolari,
assenti nei vangeli secondo Marco e secondo Matteo. Questi due evangelisti dicono che i primi
chiamati da Gesù sono quattro e che lo seguono, quando egli è ancora uno sconosciuto; Luca invece
dice che Pietro segue Gesù assieme ad altri due, Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo; Pietro segue
una persona che ha già sentito parlare e di cui ha già sperimentati i poteri. Finora Gesù agiva da solo. Adesso entra in scena il gruppo dei primi discepoli che dà inizio alla futura comunità cristiana.
La parola e l’opera potente di Gesù precedono la loro risposta e rendono più verosimile la loro disponibilità a seguirlo. Luca ha aperto il suo vangelo affermando che ha fatto ricerche accurate su
ogni circostanza, fin dagli inizi, e che intende scriverne un resoconto ordinato, allo scopo di confermare il lettore negli insegnamenti ricevuti (Lc 1,3-4).
La struttura della pericope
Il brano può essere diviso in quattro momenti o tappe che ci descrivono il cammino di crescita o di
maturazione di Pietro e dei suoi soci. I primi tre versetti del racconto costituiscono il quadro intro3
duttivo che contestualizza il momento della chiamata e annunciano già il tema fondamentale della
parola di Gesù (vv. 1-3). Segue il racconto della pesca miracolosa vera e propria che fa da contrasto
con la sterilità del precedente lavoro notturno dei tre pescatori (vv. 4-7). In terzo luogo,
l’evangelista presenta la reazione di Pietro, lo stupore dei suoi compagni, la promessa di Gesù di diventare pescatori di uomini (vv. 8-10). Il brano termina con la sequela di Simon Pietro e dei suoi
soci (v. 11). Questi quattro momenti rappresentano altrettante tappe di un itinerario di fede: esso
avviene in una comunità che ascolta la parola di Gesù, comporta un riconoscimento dei propri limiti, ma anche un fidarsi della parola di Gesù, porta a confessare la grandezza di Gesù e ad accogliere
concretamente la sua chiamata. Il tema vocazionale è presente non nella forma di una chiamata esplicita, ma nella forma di una promessa, di una profezia.
Colpisce nel racconto l’alternanza tra il singolare e il plurale. Già all’inizio, nel primo momento, si
passa dalla folla (v. 1) alle folle (v. 3). Al v. 4 ci sono le parole «prendi il largo» e «gettate le vostre
reti»; dunque Simone non è solo nella barca con Gesù. Pietro dapprima risponde: «Abbiamo faticato» e poi dice «sulla tua getterò le reti». Al v. 8 Pietro dice ancora «Allontanati da me» e poi nella
motivazione si dice che lo stupore aveva invaso non soltanto lui, ma anche tutti quelli che erano con
lui. Alla fine Gesù si rivolge solo a Pietro: «Non temere, sarai pescatore di uomini», ma subito dopo
riappaiono i compagni che «lasciarono tutto e lo seguirono» (vv. 10-11). Questa alternanza tra Simone e i suoi compagni sottolinea anzitutto che Pietro, oltre alla propria indiscutibile personalità,
rappresenta anche un gruppo, quello degli altri pescatori che lasceranno tutto per diventare discepoli
di Gesù. In secondo luogo, questa alternanza tra singolare e plurale allude al fatto che la pesca non è
un’opera solitaria, ma richiede la collaborazione di più persone. Quindi l’alternanza del singolare e
del plurale ci dice che gli apostoli non sono eroi individuali, ma sono persone che collaborano tra
loro, che vivono il loro ministero in rete. Oggi possiamo chiederci che cosa significa per un fedele
laico, per un religioso o un presbitero vivere in una collaborazione, fatta di corresponsabilità.
In questo brano si può notare anche il gioco della distanza. La folla fa ressa intorno a Gesù e Gesù
sale sulla barca di Pietro e gli chiede di allontanarsi un po’ da terra. Paradossalmente questa presa di
distanza avvicina ulteriormente Gesù alla folla, lo rende maggiormente visibile, ma nello stesso
tempo lo avvicina in modo particolare a Pietro e ai suoi compagni che stanno nella barca. Poi Gesù
ordina a Pietro di prendere il largo, letteralmente di allontanarsi dove l’acqua è profonda; lì deve calare le reti e alla fine queste non solo si riempiono, ma quasi fanno affondare le barche. Pietro è tentato di allontanare il Signore da sé. Alla fine la distanza tra Gesù e Pietro si ricompone e viene annullata anche la distanza con la folla, perché Pietro e i suoi compagni tirano le barche a terra, dove
c’era la folla, e seguono Gesù. Tutto questo ci dice che la chiamata di Pietro e dei suoi compagni
comporta un avvicinarsi a Gesù, affrontando e superando le distanze che separano da lui: è questo
l’itinerario della fede.
Il genere letterario
Al centro del brano c’è l’invito di Gesù: «Prendi il largo» (Duc in altum), ripreso da s. Giovanni
Paolo II come stimolo per l’evangelizzazione nel terzo millennio con rinnovato slancio. Siamo di
fronte a una pericope che a prima vista è il racconto di un miracolo, ma che è soprattutto un racconto di vocazione. Nei racconti di miracoli non c’è mai la richiesta che Gesù si allontani. Inoltre dopo
la pesca abbondante Simone è chiamato con il duplice nome di Simon Pietro: il mutamento del nome, a cominciare da Abramo, indica il passaggio da una condizione all’altra, indica che siamo di
fronte a una vocazione. Quindi il brano va letto in modo intertestuale, cioè tenendo presenti altri
passi biblici che parlano della chiamata di Dio a una missione.
Gesù proclama la parola di Dio alla folla dalla barca di Simone (Lc 5,1-3)
Dopo essere stato cacciato da Nazaret, Gesù scende a Cafarnao e opera diversi miracoli: libera un
indemoniato nella sinagoga, guarisce la suocera di Simone e tutti gli ammalati che, dopo il tramonto
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del sole, gli vengono portati. Parte quindi da Cafarnao e annuncia il vangelo in diverse sinagoghe. A
questo punto Luca inserisce la chiamata dei primi discepoli e in particolare quella di Simon Pietro.
Simone non è posto subito al centro dell’attenzione. La scena, invece, inizialmente è tutta dominata
dalla persona di Gesù che parla, ritto sulla riva del lago di Gennèsaret, e dalla folla che lo ascolta
volentieri. I primi versetti per sé non erano indispensabili per la narrazione della pesca miracolosa e
della chiamata di Simone; essi hanno però una funzione importante: servono da momento introduttivo che pone tutto l’evento, cioè la perca abbondante e la chiamata, in un contesto ecclesiologico;
Pietro e i suoi compagni sono chiamati in mezzo a una folla e a servizio di quella folla ben disposta,
che si accalca attorno a Gesù per ascoltare la sua parola. La figura di Pietro è collocata subito in un
ambito ecclesiale.
Dopo l’insuccesso sperimentato a Nazaret, Gesù trova altre persone disposte ad ascoltarlo.
L’evangelista mette subito in risalto il ruolo decisivo della parola di Dio. Questa parola è il vero
protagonista della scena: la folla faceva ressa attorno a Gesù per ascoltare la parola di Dio. Gesù,
ritto in piedi, come il Signore sovranamente presente in mezzo ai suoi, sta insegnando la parola di
Dio e la folla lo ascolta. Gesù è il primo evangelizzatore: proclama con efficacia la parola di Dio.
Ascoltare la parola di Dio è il primo atteggiamento dei discepoli di Gesù: gli ascoltatori della sua
parola costituiscono la sua famiglia (Lc 8,21) e per loro vale la beatitudine che Gesù rivolge a Maria, sua madre: «Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,28). Questa folla che ascolta la parola di Dio prefigura tutti coloro ai quali gli apostoli rivolgeranno la parola di
Dio, prefigura l’identità della Chiesa.
L’evangelista non riporta ciò che Gesù diceva, ma annota solo che le sue sono parole di Dio, in
quanto vengono da Dio, fanno capire chi è Dio, espongono il progetto di Dio, orientano verso Dio,
dicono anzitutto ciò che Dio opera e poi ciò che Dio domanda o, meglio, ciò che Dio vuol fare con
noi. Nella sinagoga di Nazaret tutti erano rimasti meravigliati delle parole di grazia che uscivano
dalla bocca di Gesù (Lc 4,22). Quando aveva guarito un indemoniato nella sinagoga di Cafarnao, la
folla aveva esclamato: «Che parola è mai questa, che comanda con autorità e potenza agli spiriti
impuri ed essi se ne vanno?» (Lc 4,36). Poco dopo Luca dirà che per ascoltare la parola di Gesù la
folla veniva da tutta la Giudea (Lc 6,18). Sullo sfondo di questa folla che fa ressa attorno a Gesù
lungo il lago per ascoltare la parola di Dio, si profila già l’immagine del futuro popolo di Dio, convocato dalla sua parola.
Poiché non riesce a farsi vedere e a farsi sentire da tutti, Gesù vuole avere bisogno di una delle barche presenti. Ce ne sono due, accostate alla riva, e Gesù sceglie proprio la barca di Simone: domanda a Simone che gli metta a disposizione la sua barca.
I pescatori lavavano le reti, stando a terra. Non avevano preso niente durante la notte e quindi non
c’era bisogno di riassettare, di riparare le reti, ma basta lavarle e prepararle per la prossima uscita.
Va notato che l’incontro di Gesù con Simone avviene nella vita quotidiana, caratterizzata dal lavoro, dalla stanchezza, dall’insuccesso, dalle contraddizioni, dalla paura di aver lavorato invano, di
aver sbagliato. Luca non dice che Simone fosse lì ad ascoltare Gesù, anzi dal contesto sembra che
egli fosse assorto dal proprio lavoro: credeva che ogni impegno fosse terminato e assieme agli altri
pescatori stava lavando le reti dopo l’inutile pesca. È Gesù che prende l’iniziativa di salire sulla
barca di Simone e lo prega di staccarsi da terra. Va notata la finezza del verbo «pregò» (erotesen);
Gesù è Maestro di umanità e ci insegna quali sono le parole che nel momento difficile danno speranza ed energia: non un comando secco, un’imposizione, un rimprovero, una critica, non il giudizio o l’ironia e neanche la compassione, ma una preghiera che fa appello a quello che Simone ha, a
quello che sa fare. A Cafarnao «pregarono» (erotesan) Gesù in favore della suocera di Simone che
era in preda alla febbre (Lc 4,38); ora Gesù prega Simone di scostarsi un poco da terra per poter insegnare a tutta la folla dalla sua barca.
Dopo una brutta nottata trascorsa in una pesca infruttuosa, dopo la fatica per il riassetto delle reti,
Simone risale con disponibilità e generosità sulla sua barca, pronto a eseguire la richiesta di quel
Maestro. Gesù ha scelto la barca di Pietro e lui risponde all’invito. Viene spontaneo pensare che
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questo pescatore, vedendo Gesù salire sulla sua barca, abbia rapidamente distolto lo sguardo dalle
reti, per dirigerlo compiacente verso il Maestro che lo stava onorando con tanta preferenza. Gesù
era già entrato come ospite nella sua casa e gli aveva guarito la suocera; ora sale sulla sua barca,
preferendola a quella ormeggiata a fianco. Gesù chiede a Simone di scostare la barca dalla riva e
poi, sedutosi, ammaestra la folla. Sul lago Gesù è il Signore che annuncia la parola di Dio alla folla
ben disposta. La barca di Simone gli fa da cattedra: assieme alla folla ascolta anche lui con particolare diligenza, data la sua vicinanza a Gesù. Dalla barca Simone può osservare anche gli occhi della
folla, attratti e diretti verso Gesù.
Non è senza significato il fatto che Gesù, dopo aver annunciato la parola di Dio dalla riva del lago,
ora la annunci proprio dalla barca di Simone. E’ facile cioè capire la portata ecclesiale di questo fatto. Il primo evangelizzatore nella Chiesa è Gesù. In Gesù, che sul lago annuncia con autorità la parola di Dio al popolo desideroso di ascoltarla, Luca vede il Signore che parla continuamente alla sua
Chiesa, vede il profeta attorno al quale sono riuniti i cristiani.
Il brano potrebbe finire qui e allora, dopo il congedo della folla, anche Simone avrebbe ripreso il
suo solito lavoro. Sembra che sulla barca l’incontro decisivo tra Gesù e Simone sia già avvenuto:
nessuno ha accolto e ascoltato così bene Gesù, come lo ha fatto Simone. Egli ha collaborato con
Gesù, mettendogli a disposizione la barca e scostandola dalla riva; grazie a Simone, Gesù ha potuto
farsi ascoltare da tutti. Simone può sentirsi soddisfatto, quasi orgoglioso: Gesù gli ha chiesto la barca, lui ha ascoltato la richiesta di Gesù e si è messo a sua disposizione. Simone pensa di aver fatto
abbastanza per Gesù e per la folla, ma l’evento decisivo, risolutivo non è ancora avvenuto. Questa
fase è solo l’inizio del brano che prosegue aprendo nuovi orizzonti. Certe azioni buone, fatte con disponibilità in situazioni di emergenza, non riescono ancora a cambiare del tutto la vita, a convertire
il cuore, ma certamente preparano il terreno per un ulteriore intervento di Dio, di Gesù.
La pesca abbondante, frutto della parola di Gesù e dell’obbedienza di Pietro (Lc 5,4-7)
Abbiamo visto che questo non è il primo incontro di Gesù con Simone. Egli lo aveva già incontrato
nella sinagoga e poi nella casa della sua suocera e Gesù con una parola efficace l’aveva liberata dalla febbre (Lc 4,38-39). Lì però Simone era rimasto sullo sfondo. Qui invece viene interpellato direttamente da Gesù, nella sua esistenza concreta. Dopo avergli chiesto la barca per annunciare la parola di Dio, ora Gesù impartisce a Simone e ai suoi soci un ordine strano e deciso: «Prendi il largo e
gettate le vostre reti per la pesca».
Può essere agevole e confortevole ascoltare il Maestro quando parla a tutti in genere, ma diventa
impegnativo, forse arduo ascoltarlo quando parla personalmente a qualcuno, quando la sua parola si
fa personale e puntuale. Prima Gesù aveva chiesto a Simone un favore personale, che però aveva un
significato e uno scopo molto chiari. Ora Gesù formula una richiesta più ardita, quasi priva di senso;
dà autoritariamente un ordine: uscire di nuovo per pescare, di giorno: sembra una domanda che deride l’abilità professionale di Simone. Dopo avergli chiesto un atto di cortesia, Gesù era chiede a
Simone l’obbedienza incondizionata della fede. Simone riceve un comando che riguarda proprio la
sua realtà di pescatore, il suo mestiere specifico. Gesù non porta Simone fuori dal suo mondo. Simone, cui appartiene la barca, deve prendere l’iniziativa di portarla nuovamente al largo e di buttare
le reti, coinvolgendo in questa impresa anche i suoi colleghi di lavoro.
Finora Pietro stava vivendo un momento di euforia, perché Gesù aveva scelto la sua barca per parlare alla folla. Ma quando Gesù gli ordina di andare al largo e di calare le reti per la pesca, Pietro capisce subito la fatica di eseguire questo comando: aveva già pulito e messo al loro posto le reti. Poi
c’è un’altra difficoltà nell’eseguire questo comando strano. Se durante la notte non era riuscito a
prendere nulla, com’è possibile pescare qualcosa in pieno giorno? Come può il figlio di un falegname, il Maestro dare quest’ordine a dei pescatori di professione? Del resto non c’era né urgenza,
né fretta di tornare a pescare. Eseguire l’ordine di Gesù significava esporsi al rischio di cadere nel
ridicolo. Anche questa è un’esperienza frequente per i discepoli di Gesù: obbedire alla sua parola
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che fa scorgere una luce, fa prendere il largo, dove non si vede più il fondo del lago, e conduce in
spazi aperti, comporta spesso andare contro la mentalità normale.
Pietro ha un attimo di esitazione; non contesta quell’ordine, ma in primo luogo confessa tutta la sua
fragilità, povertà e inadeguatezza, ammette che sta vivendo un momento di fatica e frustrazione,
perché con gli altri ha faticato tutta la notte senza prendere nulla. Dichiara di aver passato una notte
infruttuosa, riconosce la sua debolezza, il suo fallimento, pur avendo impiegato tutta la sua abilità e
averci messo tutta la fatica necessaria. Questo ci ricorda che molte volte il Signore ci spoglia, ci purifica, perché ci rendiamo conto che la nostra capacità viene da Dio (2Cor 3,5), perché ci chiediamo
se quello che stiamo facendo è davvero secondo il vangelo, se ci lasciamo ingannare dalla pigrizia,
dal vano timore, dall’amore ai nostri schemi, dai risultati.
Simone lascia capire che si fa fatica a fidarsi totalmente di Gesù, perché la sua parola talvolta va
contro il nostro buon senso e contro la nostra esperienza, però subito dopo quel pescatore supera la
sua perplessità, sente in sé la forza della parola di Gesù e risponde in maniera chiara e decisa: «Sulla tua parola getterò le reti». Pietro si rivolge a Gesù, chiamandolo Maestro (in greco epistates, colui che sta sopra, che presiede, è superiore, conduce, guida). Nel vangelo secondo Luca questo titolo
è usato sempre dai discepoli nei confronti di Gesù, eccetto in 17,13, dove è usato dai dieci lebbrosi.
Esternamente nulla sembra cambiato, ma Pietro non cede alla stanchezza, non teme di compiere un
gesto ridicolo e butta la rete con fiducia. È il primo autentico atto di fede presentato nel ministero
pubblico di Gesù. Pietro ora agisce non più guidato dalla propria bravura, ma guidato
dall’affidamento alla parola di Gesù. Più che alla propria competenza, alla propria sapienza, Pietro
dà ragione, dà retta alla parola di Gesù, anche se non è accompagnata da nessuna motivazione o da
nessun chiarimento. Per Pietro la parola di Gesù è più reale di ciò che empiricamente è certo. Pietro
aveva sperimentato l’efficacia della parola di Gesù nella sinagoga di Cafarnao (Lc 4,32.36), aveva
costatato la forza sanante di quella parola nei confronti della sua suocera (Lc 4,38-39). Ora è in gioco la sua personale esperienza e responsabilità, e Pietro si fida totalmente, sicuro che nella parola di
Gesù è presente la forza della parola di Dio e che vale anche per la parola di Gesù quanto spesso ripeteva nei salmi: «In Dio, di cui lodo la parola, nel Signore, di cui lodo la parola, in Dio confido»
(Sal 56,11); «Io spero, Signore, spera l’anima mia, attendo la sua parola» (Sal 130,5).
«Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le
reti»: va notato che queste sono le prime parole pronunciate da Pietro nel vangelo secondo Luca. In
queste prime parole di Pietro c’è tutto il discepolo ritratto al vivo. Esse esprimono il suo buon senso, la sua lucida competenza e professionalità, la sua povertà, la sua debolezza e soprattutto il suo
fidarsi incondizionato di Gesù. Simone manifesta la sua perplessità, fa notare a Gesù la difficoltà
dell’impresa, ma poi è disposto a fidarsi. Chiara era stata la richiesta di Gesù, altrettanto chiara è la
risposta di Pietro. Egli decide di andare a pescare, ma lo fa ormai con l’ottica del Maestro: gli crede
e gli obbedisce. Queste prime parole di Pietro sono già attraversate da una logica che ha il carattere
di una fiducia incondizionata. È molto diverso ascoltare con interesse Gesù e anche cooperare alla
diffusione della sua parola, rispetto al consegnarsi alla parola di Gesù con totale fiducia, fino ad agire anche in modo umanamente non del tutto motivabile.
La parola di Gesù rivela un’efficacia straordinaria: Pietro getta le reti e la parola di Gesù le riempie
di pesci, ma perché è stata una parola che Pietro ha preso sul serio, coinvolgendo anche i suoi compagni. I risultati oltrepassano ogni aspettativa. La notte della fatica sterile finisce, quando Pietro obbedisce alla parola del Maestro. Luca descrive ampiamente e quasi visualizza quella pesca eccezionale: c’è una grande quantità di pesci, le reti si spezzano, è necessario altro aiuto per caricare tutto il
pesce, le barche vengono riempite fino all’orlo, sin quasi ad affondare. I vangeli conoscono altri episodi di moltiplicazione generosa dei beni, i più noto dei quali sono quello del vino di Cana e quello della moltiplicazione dei pani. Questo episodio può venir riassunto con le parole di Gesù stesso:
«Senza di me non potete far nulla» e «chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto» (Gv 15,6).
Non è difficile scorgere in questo episodio un prolungamento del racconto dell’annunciazione a
Maria: anche lei è diventata feconda grazie all’ascolto della parola di Dio. In questo brano abbiamo
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anche un’anticipazione del ruolo di Pietro nella missione evangelizzatrice della prima Chiesa: gli
Atti degli Apostoli ce lo presentano mentre, assieme agli altri apostoli, è il testimone
dell’eccezionale forza della parola di Dio che opera l’espansione della Chiesa a Gerusalemme, nella
Giudea, in Samaria e tra i pagani. Ai suoi discepoli, ai suoi collaboratori Gesù in primo luogo domanda che non facciano affidamento sulla loro fatica o sulla loro capacità, ma che accolgano con
fede la sua parola. Ogni discepolato, ogni ministero nasce dall’ascolto della parola di Gesù e si poggia sull’ascolto della parola di Gesù. Anche la nostra pesca darà frutto oltre ogni aspettativa solo se
fondata sulla sua parola.
Simon Pietro, consapevole del suo peccato, è chiamato al servizio di Gesù e degli uomini (Lc
5,8-10)
A questo punto Luca individua il pescatore con il duplice nome «Simon Pietro». Al nome di famiglia l’evangelista aggiunge quello con il quale è riconosciuto nella comunità cristiana. Colui che ora
parla è Simone, il pescatore, ma è anche colui che Gesù sceglie come guida visibile della Chiesa. È
l’unica volta in cui Luca unisce immediatamente i due nomi per indicare questo apostolo ed è la
prima volta in cui impiega il termine Pietro. Tutto questo fa intravedere che siamo in un momento
particolarmente significativo della sua vita.
Simon Pietro riflette e attribuisce la pesca sovrabbondante non al caso o alla fortuna, ma alla parola
di Gesù. Pietro vede le barche piene di pesci e sente che anche la sua vita sta riempiendosi di speranza, di futuro. Non si confronta con gli altri, ma con Gesù: Pietro percorre un cammino interiore e
riconosce che colui che ha davanti a sé non è soltanto un Maestro, ma è il Signore. Non si getta al
collo di Gesù per ringrazialo di quel buon risultato, ma si getta ai suoi piedi, riconosce la potenza
del Signore e ne prova paura, perché gli si è avvicinato troppo e lo vuole allontanare. Pietro si chiede come può lui, che è un peccatore, stare vicino al Signore?
Dopo aver ascoltato la sua parola e dopo averne costatato la potenza, Pietro resta realista, sa di essere povero e pieno di paura, confessa la propria miseria e indegnità. La prima volta in sui
l’evangelista Luca usa il nome Pietro lo fa in un momento particolarmente espressivo, mentre si
prostra davanti a Gesù, riconosce che è il Signore e poi proclama di essere un peccatore. Pietro
prende l’iniziativa, si fa avanti, manifesta la sua fede nella identità di Gesù e confessa la propria identità di peccatore. Pietro si confessa peccatore non perché Gesù gli ha rivolto qualche rimprovero,
ma perché sente la pochezza di tutta la propria vita di fronte all’amore di Dio che lo ha toccato così
da vicino.
Il metro di paragone per Pietro non sono più gli altri, nei confronti dei quali forse poteva sentirsi
eguale o addirittura migliore, ma è Gesù stesso, la sua santità o vicinanza con Dio, e allora Pietro
confessa la sua povertà. Confessa che Gesù non è solo un Maestro che istruisce le folle, ma è il Signore, è colui che ha la regalità sovrana, la forza infinita, la santità che appartiene a Dio e confessa
di essere un uomo distante da quella santità. Pietro aveva già assistito a diverse manifestazioni della
grandezza del Signore, era già stato colpito dall’autorità della sua parola. Con la sua parola Gesù
aveva scacciato il demonio nella sinagoga di Cafarnao, aveva guarito la suocera di Pietro, aveva curato molti malati proprio davanti alla sua casa. Pietro aveva già incominciato a fare un confronto tra
se stesso e Gesù e questo confronto gli risultava inquietante: sentiva la propria indegnità, ma non
voleva abbandonare quel Maestro. L’esperienza della pesca abbondante, dovuta all’intervento prodigioso di Gesù ha aperto ulteriormente gli occhi di Pietro e ha visto la propria situazione, segnata
dalla debolezza e dalla miseria. Quando contro ogni speranza fa la pesca abbondante, la differenza
fra la sua povertà e la grandezza di Gesù diventa schiacciante. La potenza e la bontà del Signore costatate così da vicino, scuotono Pietro, lo dominano, lo spaventano: sperimenta in Gesù la prossimità di Dio. Prima aveva riconosciuto solo il suo insuccesso professionale e aveva ammesso la pesca
infruttuosa; adesso riconosce qualcosa di più radicale e totale, riconosce una cosa che riguarda tutta
la sua vita e il tutto il suo essere: «sono un peccatore».
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Nel vangelo secondo Luca, Pietro è il primo a riconoscersi peccatore. L’intervento prodigioso di
Gesù gli ha aperto gli occhi e scopre la sua situazione reale: vede tante cose sbagliate che contrastano con la santità del Signore. Pietro non nomina nessun peccato particolare, ma vede che tutta la sua
vita è segnata dalla debolezza e dalla miseria. Le parole «sono un peccatore» vanno intese non tanto
sul piano morale, come la confessione di una vita sregolata, peccaminosa, o di qualche peccato particolare, ma come espressione della distanza tra l’uomo e Dio. Gesù è la luce e solo nella sua luce si
evidenzia il male che invece è occultato dalle tenebre. Pietro domanda al Signore di allontanarsi da
lui: così lui potrà di nuovo sopportare la propria miseria, ritrovare la sua apparente pace. Pietro cade
in ginocchio, usa il titolo «Signore» e proclama la propria indegnità: lancia un’espressione spontanea e genuina della propria coscienza di essere peccatore. Riconosce la sua condizione creaturale,
reagisce come i personaggi biblici dell’Antico Testamento di fronte alla manifestazione potente di
Dio (Es 3,1-4,10; Gdc 6,22; 13,22; Is 6,5), si prostra davanti al Signore e gli chiede paradossalmente di allontanarsi. Si può dire che ora Pietro ha incontrato veramente il Signore. Gesù non è solo colui del quale condivideva la causa, del quale apprezzava e venerava la parola; è il Signore che riempie le sue reti vuote e che ha visitato in modo inimmaginabile la sua povertà. Quando fa esperienza
di Dio, l’uomo riconosce la sua condizione di peccato e quando riconosce e ammette sinceramente
questo, l’uomo riconosce realmente se stesso. Senza cadere nella sbagliata pedagogia dell’angoscia,
dobbiamo ricordare che inizio della sapienza è il timore del Signore. Imparando questo, impariamo
che egli ci ama e che noi possiamo amarlo.
Ascoltiamo, a commento delle parole di Pietro, una riflessione di L. Alonso Schökel: «Il Salmo 8
dice che i pesci tracciano sentieri nel mare; non ne tracciano anche gli uccelli nell’aria e i quadrupedi sulla terra? I sentieri dei pesci formano un tessuto irreperibile e nascosto: chi può fissare le loro
molteplici traiettorie? Chi attraversa con lo sguardo gli strati dell’acqua fino a scoprire esattamente
la rotta e la velocità di un branco di pesci? Senza dubbio, fin dal primo capitolo del libro della Genesi, l’uomo è signore degli uccelli, dei quadrupedi, dei pesci. Questo pieno dominio ideale ora viene realizzato da Gesù: Gettate le reti per pescare. Era necessario il precedente insuccesso durato tutta la notte, per stabilire il contrasto: ciò che non hanno saputo o potuto fare pescatori esperti, lo fa
Gesù con tutta naturalezza. Questa perizia dimostrata servirà per il salto trascendentale. Simone si
spaventa nel riconoscere che Gesù è un “uomo di Dio”. Gli occhi perspicaci che sorprendono il movimento nascosto in seno alle acque, potranno pure vedere i movimenti occulti, forse un po’ oscuri,
del cuore di Simone. Quali immagini e fantasie e desideri tracciano i sentieri in questa intimità? Dio
sonda cuore e reni (Ger 11,20; 12,3; Sal 17,3; 26,2; Pr 17,3). E, se lo sorprende, potrà attirare il castigo del cielo, come Elia, a cui una donna fenicia dice protestando: Non voglio avere nulla a che
fare con te, profeta! Sei venuto in casa mia a ricordarmi le colpe, i miei peccati e a uccidere mio figlio (1Re 17,18)? Benché sia contento per l’abbondante pesca, Simone trema davanti alla presenza
dell’uomo di Dio e chiede a Gesù: Allontanati da me, Signore, che sono un peccatore. Confessione
umile e timorosa. Pietro non confessa un particolare peccato, ma rivela la sua condizione peccatrice.
La presenza e l’azione di Gesù è stata come una luce, che illumina ciò che è nascosto, dissimulato,
dimenticato. Hai posto le nostre colpe dinanzi a te, i nostri segreti davanti alla luce del tuo volto
(Sal 90,8). Questa coscienza della propria condizione di peccato è il presupposto necessario per ricevere la nuova vocazione come se, per cambiare direzione nella vita, fosse necessario risalire alla
sorgente per ripulirla a fondo».
Pietro, di fronte alla manifestazione del divino che è presente in Gesù, avverte un senso di stupore
misto a spavento. Nei vv. 9-10a si dirà che anche gli altri due suoi compagni sperimentano un sentimento di paura. Si tratta dello spavento religioso che l’uomo prova al contatto col divino. Non è
una qualsiasi paura, ma un sentimento specifico, un fremito religioso simile a quello provato da
Mosè al roveto ardente (Es 3,6.11.13; 4,1.10) e da Isaia (Is 6,5.22). Sentono che non si tratta più di
ascoltare o meno la sua parola, di impegnarsi per una pesca, ma di mettersi di fronte a lui, di stabilire una relazione con lui.
Ancora una volta Gesù si rivolge a Simone. Non gli dice che non è un peccatore o che lo è meno
degli altri o che non peccherà più, ma gli dice due parole: «Non temere». Si tratta di due parole di
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incoraggiamento: Pietro deve superare il desiderio di fuggire o il desiderio che quel Maestro se ne
vada, si discosti da lui. L’invito a non temere è frequente nella Bibbia, e precede di solito il momento della vocazione di una persona, la consegna di una missione da svolgere; più che un invito è un
dono di Dio all’uomo chiamato, un dono senza il quale sarebbe impossibile accogliere e vivere la
chiamata di Dio. Questo vale per Pietro come per ogni altro uomo su cui Dio pone la sua benevolenza in vista di un suo progetto. L’invito a non temere è stato rivolto dall’angelo a Zaccaria, a Maria, ai pastori e sarà rivolto alle donne il mattino di pasqua (Mc 16,6). Ora Gesù lo rivolge a Pietro.
Gesù non dice a Pietro che non è vero che lui è peccatore, non assolve Pietro, non lo umilia, ma dice: «Non temere». È come se gli dicesse: «La tua situazione di povertà rimane, non viene annullata,
ma non può essere una scusa per allontanare il Signore, per evitare la sua presenza, per non impegnarsi con lui, per chiudersi al futuro. Non temere; il futuro conta più del presente e di tutto il passato; il bene che è possibile vale più del peccato di ieri; le reti piene di oggi valgono più di tutti i fallimenti di ieri. Non temere: le tue braccia, la tua barca e le tue reti mi vanno sempre bene, perché tu
puoi fare qualcosa di buono per gli uomini e quindi per Dio». La percezione della propria indegnità
è al tempo stesso una condizione per poter ricevere la grazia della vocazione, senza essere tentati di
attribuirla alle proprie qualità o ai propri meriti, ma riconoscendo che essa è puro dono di grazia,
manifestazione della generosità gratuita del Signore.
A questo punto Gesù pronuncia una parola dal chiaro sapore profetico; non è più la richiesta di un
atto di cortesia né la domanda di un atto di fede, ma è la proposta che plasma un futuro nuovo:
«D’ora in poi sarai pescatore di uomini». L’immagine della pesca normalmente nei profeti si riferiva al giudizio di Dio, alla sua punizione (Ger 16,16). Qui però Luca adopera il verbo greco zogreo,
che ricorre diverse volte nell’Antico Testamento (Nm 31,15.18; Dt 20,16; Gs 2,13; 6,25; 9,20;
2Sam 8,2; 2Cr 25,12; 2Mac 12,35) con il significato di catturare vivo, di lasciare in vita. Luca dà un
significato positivo, salvifico all’immagine di pescare gli uomini. È come se Gesù dicesse a Pietro:
«Resterai peccatore, ma sarai chiamato a una pesca singolare, sarai capace di cercare altri uomini, di
attirarli nella rete dell’amore di Dio e del suo regno, sarai capace di raccoglierli per una vita piena,
felice; sarai capace di una pesca per la rinascita; lascia perciò queste reti piene di pesci, non accontentarti di esse». «Sarai pescatore di uomini»: l’immagine della pesca è presa come simbolo del
nuovo ruolo di Pietro. D’ora in poi Pietro trarrà gli uomini alla vita, contribuirà non a soffocarli, a
sopprimerli, ma a salvare la loro vita. La vocazione che Gesù affida a Pietro è una promozione delle
sue possibilità, non un impoverimento, una riduzione delle sue energie vitali, della sua esperienza.
Si può dire che Pietro riceve una vocazione in sintonia con il suo mestiere, però a un livello più alto.
La vocazione che Pietro riceve si innesta sulla competenza che egli possiede, la esalta, la rinnova in
maniera radicale.
La parola di Gesù è una profezia che dichiara quale sarà d’ora in avanti la missione di Pietro. Siamo
a una svolta nella vita di Pietro, non solo per l’incontro che ha avuto con Gesù nella sua barca, non
solo per il miracolo cui ha assistito e neppure solo perché ha capito i suoi limiti, il suo essere peccatore, ma soprattutto per ciò che lo attende, per la prospettiva che gli si apre davanti, per la missione
che lo impegnerà per sempre. L’espressione «d’ora in poi» è frequente nel vangelo di Luca (Lc
1,48; 12,52; 22,18.69): con essa l’evangelista vuol dire che il compimento della promessa di Gesù
comincia a realizzarsi già ora, nell’istante in cui Simon Pietro la sente. La parola di Gesù è una profezia, ma che ha un effetto iniziale subito, nel presente, non solo dopo la morte e risurrezione del
Signore: stare con Gesù è già per Pietro diventare pescatore di uomini.
Le parole di Gesù non sono prima di tutto un comando fatto a Pietro, perché entri nella sua sequela;
sono piuttosto un dono, una profezia che dichiara quale sarà da ora in avanti la missione di Pietro:
egli abbandonerà il suo mestiere di pescatore per darsi totalmente alla pesca degli uomini. La pesca
miracolosa, antecedentemente compiuta, diventa segno e garanzia della fruttuosità dell’impegno
missionario di Pietro: anche questo si attuerà con frutti abbondanti, perché niente è impossibile alla
potenza della parola di Gesù. Il miracolo della pesca mostra che il rapporto tra Gesù e Pietro non è
fondato sulle capacità umane o professionali, ma è costruito sulla forza della parola di Gesù e sulla
forza della fede del discepolo.
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Pietro aveva dichiarato: «Sono un peccatore». Gesù gli ribatte: «Sarai pescatore di uomini». Quanto
più si avvicina a Gesù, che è la luce vera, tanto più Pietro si percepisce misero, fragile, ma la risposta di Gesù gli fa percepire che è sempre peccatore e nello stesso tempo amato e perdonato. Pietro
inizia un’esperienza che lo accompagnerà tutta la vita: essere un uomo che vive vicino al Signore, e
nello stesso tempo essere continuamente povero, peccatore, infinitamente lontano da Dio. Tramite
la continua riscoperta delle proprie miserie, Pietro entra in vera comunione con Gesù e nello stesso
tempo in autentica comunione con gli uomini, evitando la demoralizzazione davanti al Signore e il
sentimento di condanna o di superiorità nei confronti degli uomini. Chi si confessa peccatore e sente
di essere perdonato dall’amore di Dio, si trova nella situazione migliore per annunciare e offrire la
misericordia di Dio agli altri. Pietro è il primo dei discepoli a riconoscersi peccatore e il primo a essere chiamato al servizio apostolico. In ragione della consapevolezza di essere peccatore, Pietro si
affianca a Gesù per porsi al suo servizio nell’azione misericordiosa verso i peccatori. Questo rivela
che solo la grazia di Dio tocca i cuori e li muove a conversione. Gli uomini sono semplici strumenti,
tanto più idonei quanto più si svuotano di sé e lasciano trasparire e passare l’amore divino, unica
fonte di salvezza.
L’inizio della missione di Pietro e dei suoi due compagni (Lc 5,11)
«E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono». Le parole di Gesù sono una profezia che
diventa subito efficace. Pietro aveva sperimentato le conseguenze dell’obbedienza alla parola del
Signore, facendo la pesca miracolosa. La parola che ora Gesù gli ha rivolto diventa per lui un comando a cambiare l’impostazione della sua vita. Il miracolo della pesca e l’invito di Gesù a diventare pescatore di uomini operano in Pietro un nuovo inizio: questo evento di grazia che si realizza in
Pietro è il vero miracolo che Luca vuol mettere in evidenza. La pesca abbondante e le parole di Gesù portano Pietro ad abbracciare la nuova attività apostolica, ad accettare il nuovo impegno di stare
accanto a Gesù come collaboratore fedele e coraggioso. Si può dire che Pietro e gli altri due son stati pescati da Gesù, sono stati attratti da lui, sono caduti nella sua rete, sono stati catturati dalla sua
parola, dal suo amore.
Lo scopo dei miracoli biblici è farci aprire gli occhi sulla realtà personale. Ciò suppone, però, una
disposizione interiore, una sensibilità da parte di colui che riceve da Cristo il miracolo. Quando Gesù sazierà miracolosamente la folla con il pane, susciterà un grande entusiasmo e la decisione di farlo re. Il miracolo allora fallisce il suo effetto. Il contrario succede con Pietro e gli altri discepoli durante la pesca miracolosa: abbandonarono i pesci e lo seguirono. Vi sono quindi molti miracoli
compiuti da Gesù, ma non ad ogni miracolo segue una conversione interiore che è proprio lo scopo
del miracolo. Pietro è stato trasformato da peccatore in discepolo, da pescatore di pesci in pescatore
di uomini: questo è il vero miracolo che avviene sul lago di Gennèsaret. Il miracolo della pesca abbondante è certamente accaduto, ma esso è un segno della straordinaria trasformazione che sta avvenendo nella vita di Pietro: Gesù sta facendo di lui il primo dei suoi collaboratori. Il miracolo della
pesca rivela l’intenzione che Gesù ha di servirsi di Pietro per l’opera della salvezza.
«D’ora in poi sarai pescatore di uomini» aveva detto Gesù. Pietro si fida di quella parola, accoglie
l’invito e subito collabora, come aveva fatto gettando le reti. La pesca non era stata solitaria e così
neppure la risposta di Pietro alla parola di Gesù è un fatto solitario: Pietro intraprende il cammino di
discepolo assieme a Giacomo e Giovanni, qualificati come figli di Zebedeo e soprattutto come
compagni, soci (koinonoi), mentre nel vangelo secondo Marco sembrano una coppia di pescatori
indipendenti da Pietro. È da notare l’assenza di Andrea, che nel vangelo secondo Luca cede decisamente il posto a suo fratello, Simone, e ai due figli di Zebedeo. Luca mette insieme il gruppo dei
tre che la tradizione considera gli intimi di Gesù e li presenta come i primi dei discepoli chiamati
dal Signore. Anche nei primi capitoli degli Atti degli Apostoli la coppia Pietro e Giovanni prende il
posto di Pietro e Andrea (At 1,13; 3,1.4.11; 4,13.19; 8,14).
Il termine greco koinonoi è significativo, perché nel Nuovo Testamento si ricorre ad esso e a quelli
ad esso associati per indicare la comunione tra il gruppo dei credenti (At 2,42.44; 4,32; Rm 12,13;
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15,26.27). Pietro e i suoi due compagni rispondono non con le parole, ma con i fatti. Come Abramo,
anche Pietro e i due compagni obbediscono in silenzio: «Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e
lo seguirono». Da soci di pesca diventano soci di Gesù, uniti dall’invito di Gesù, uniti nella grazia
del miracolo dopo una notte senza frutto, uniti ora nella risposta e nella missione. La vocazione non
è una faccenda privata, non è un inseguire gli scopi di Gesù con calcoli propri. Lo spazio della vocazione è la Chiesa, è la comunione.
Quello che Gesù aveva detto circa l’attività missionaria di Pietro incomincia a realizzarsi subito, in
questo lasciare tutto per seguirlo. I tre discepoli lasciano tutto non per disprezzo verso il lavoro materiale, non per disinteresse verso le realtà create, non per fuggire impauriti dal mondo, ma per essere pienamente con Gesù, al suo ascolto e al suo servizio. I tre discepoli lasciano tutto ciò che costituiva la loro sicurezza riguardo al futuro, lasciano il precedente centro di coesione, lasciano la protezione economica e creano il vuoto, ma per seguire Gesù. In lui hanno intuito che sta il loro tutto e
perciò per lui lasciano tutto. Lasciano tutto per venire introdotti da Gesù in un altro genere di vita e
di lavoro. Lasciando tutto e stando con Gesù incominciano subito, fin d’ora la loro attività di pescatori di uomini. Per Luca quei tre pescatori rappresentano tutti noi: sono scelti dal mare della storia
non per venir sottratti al mondo, ma per un nuovo servizio al mondo.
Possiamo paragonare questi tre discepoli all’uomo che vende con gioia i suoi averi per possedere il
tesoro nascosto nel campo, al mercante di perle preziose che, trovata quella più preziosa, vende tutto e la compra (Mt 13,44-45). Possiamo paragonare questi tre discepoli a Paolo che afferma: «la
grazia di Dio in me non è stata vana» (1Cor 15,10). Pietro e i suoi due compagni possono richiamare ai sacerdoti e ai religiosi le scelte alla quali li ha portati la chiamata del Signore, possono richiamare loro l’inizio della vocazione, quando hanno lasciato la famiglia, può richiamare loro lo stato
d’animo al momento dell’ordinazione sacerdotale, la psicologia con la quale hanno vissuto l’inizio
del ministero sacerdotale. Pietro e i suoi due compagni possono richiamare agli sposi il momento in
cui si sono conosciuti, hanno celebrato il ministero della loro sponsalità, hanno vissuto la fecondità
del loro amore.
Conclusione
La pesca abbondante aiuta Pietro a trasferire la sua attività di pescatore su un altro piano: quello del
servizio apostolico. Il vero e proprio miracolo è questo nuovo inizio che l’azione e le parole di Gesù
hanno operato gratuitamente in Pietro. Lasciando tutto e ponendosi alla sequela di Gesù, egli inizia
già ad attuare, insieme con i due compagni, il suo nuovo ruolo di pescatore di uomini. La risposta di
Pietro ha una dimensione escatologia, cristologica ed ecclesiale.
Accanto a Gesù, profeta degli ultimi tempi, ecco alcuni uomini, e tra essi Simon Pietro è in prima
linea, che d’ora in poi cambiano rotta alla loro vita. In questo modo essi dimostrano di aver compreso che gli ultimi tempi sono già arrivati nella storia.
Accanto a Gesù, evangelizzatore mandato dal Padre, ecco Pietro che assieme ai suoi soci si fa araldo della notizia di Gesù, presente tra gli uomini per salvarli. Accanto a Gesù, portatore del vangelo
ai poveri, Pietro si dispone a collaborare per invitare gli uomini attorno a Gesù, in modo che
anch’essi diventino peccatori salvati, continuamente animati e avvolti dalla misericordia del Signore. Così Pietro manifesta la dimensione cristocentrica dei tempi in cui ormai ogni uomo vive.
Accanto a Gesù, capo e liberatore di Israele, Pietro non solo cambia professione, ma si dedica completamente alla costruzione di una nuova comunità di uomini, vivi perché salvati da Gesù, che è il
Vivente. È questo il modo di dire con i fatti che si crede alla dimensione ecclesiale della salvezza
operata da Gesù Cristo.
Pietro, Giacomo e Giovanni rappresentano tutti noi: Gesù passa anche nel mare della mia storia, sale sulla barca della mia vita, anche se l’ho tirata a terra ed è vuota, anche se testimonia scelte sbagliate o per lo meno infruttuose, e mi prega di prestargliela per stare con me, perché mi renda conto
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con stupore della sua fedeltà alla mia povertà, per chiedere il mio servizio al mondo. Il miracolo avvenuto sul lago non sono solo le barche riempite di pesci e neppure le barche abbandonate dai primi
discepoli; il miracolo grande è Gesù che non si lascia deludere dai nostri difetti, che ci affida il vangelo, ci fa ripartire da là dove ci eravamo fermati, pensando di aver concluso il nostro incarico.
Il miracolo è un Gesù che ci permette di dire: «Credo in te, Signore, perché tu prima credi in me; ti
do fiducia, perché tu prima mi dai la tua fiducia; ti seguirò, perché tu prima hai voluto salire sulla
mia barca. Resto peccatore, ma mi metto nelle tue mani e con te cerco di essere nella vita datore di
speranza e di vita; ti ripeto con fede le parole di Pietro: anche oggi sulla tua parola getto le reti,
compio il lavoro che tu mi affidi: poter annunciare e offrire agli altri quella fiducia, questa speranza,
quella misericordia che per primo sperimento e che dà senso e fecondità alla mia vita».
Per la riflessione
1. Quali sono le reazioni dei protagonisti umani di questo brano (quando Gesù parla alla folla,
quando sceglie la barca di Pietro e lo prega di scostarsi da terra, quando ordina di gettare la rete,
quando lo vuole fin d’ora pescatore di uomini)?
2. Ti vengono in mente altri brani, dell’Antico o del Nuovo Testamento, in cui si parla della vocazione di un uomo o di una donna?
3. Che cosa lasciano questi pescatori, che cosa li spinge a lasciare e che cosa trovano dopo aver lasciato?
4. Che titolo si potrebbe dare a questo brano?
Preghiera
«Credo in te, Signore, perché tu prima credi in me;
ti do fiducia, perché tu prima mi dai la tua fiducia;
ti seguirò, perché tu prima hai voluto salire sulla mia barca.
Resto peccatore, ma mi metto nelle tue mani
e con te cerco di essere nella vita datore di speranza e di vita.
Ti ripeto con fede le parole di Pietro:
anche oggi sulla tua parola getto le reti,
le getterò nei momenti calmi della fede accogliente,
e anche in quelli del dubbio e dell’apparente assenza di risultati.
Le getterò sostenendomi a vicenda con gli altri,
sapendo che non siamo nel tempo dei rimpianti, dell’evasione,
ma nel tempo della fiducia, della passione per il regno;
anche oggi compio il lavoro che tu mi affidi:
poter annunciare e offrire agli altri
quella speranza, quella misericordia
che per primo sperimento
e che dà senso e fecondità alla mia vita».
(C.M. Martini)
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2. IL CAMMINO PER USCIRE DAL LEGALISMO
«Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!» (Mc 2,23-3,6)
1. Il fatto che dà origine alla quarta controversia (indicazioni di tempo e di luogo)
Avvenne che di sabato Gesù passava fra campi di grano e i suoi discepoli, mentre camminavano,
si misero a cogliere le spighe.
2,23
2. La protesta dei farisei
I farisei gli dicevano: «Guarda! Perché fanno in giorno di sabato quello che non è lecito?».
24
3. La prima risposta di Gesù
25
Ed egli rispose (alla lettera: dice) loro: «Non avete mai letto quello che fece Davide quando si
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trovò nel bisogno e lui e i suoi compagni ebbero fame? Sotto il sommo sacerdote Abiatàr, entrò
nella casa di Dio e mangiò i pani dell’offerta, che non è lecito mangiare se non ai sacerdoti, e ne
diede anche ai suoi compagni!».
4. Due affermazioni conclusive di Gesù
27
E diceva loro: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!
dell’uomo è signore anche del sabato».
28
Perciò il Figlio
1. Tre protagonisti danno origine alla quinta controversia, ambientata ancora di sabato, però
non più all’aperto, ma nella sinagoga: Gesù, l’uomo dalla mano paralizzata (la sua mano è
nominata quattro volte e due volte si dice che è paralizzata), i farisei e le loro intenzioni
3,1
2
Entrò di nuovo nella sinagoga. Vi era lì un uomo che aveva una mano paralizzata, e stavano a
vedere se lo guariva in giorno di sabato, per accusarlo.
2. I tre interventi di Gesù, introdotti dal verbo «dire», e il silenzio immobile dei farisei
4
Egli disse all’uomo che aveva la mano paralizzata: «Àlzati, vieni qui in mezzo!». Poi domandò
(alla lettera: disse) loro: «È lecito in giorno di sabato fare del bene o fare del male, salvare una vita
5
o ucciderla?». Ma essi tacevano. E guardandoli tutt’intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori, disse all’uomo: «Tendi la mano!». Egli la tese e la sua mano fu guarita.
3
3. La decisione dei farisei: allearsi con gli erodiani per eliminare Gesù
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E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire.
Ambientazione
Dopo la giornata vissuta a Cafarnao (Mc 1,21-39) e la purificazione del lebbroso (Mc 1,40-45), la
predicazione di Gesù non conosce solo l’accoglienza entusiasta della folla. Il suo parlare così nuovo
e per certi aspetti così sconvolgente, la sua vittoria radicale su satana, il suo mettersi sempre in nome di Dio dalla parte dell’uomo non potevano attirargli solo applausi e consensi.
In Mc 2,1-3,6 troviamo una prima serie di cinque controversie; più tardi l’evangelista riferirà una
seconda serie di controversie, ambientate a Gerusalemme a conclusione della vita pubblica di Gesù,
subito prima della sua morte e risurrezione (Mc 11,27-12,37). Le cinque dispute narrate in Mc 2,13,6 hanno in comune il fatto che culminano intorno a un’affermazione importante di Gesù. Inoltre la
prima e l’ultima raccontano un miracolo che assume carattere dimostrativo dell’autorità di Gesù e
sul quale si innesta una controversia. Nelle tre dispute centrali viene criticato un comportamento di
Gesù e sono coinvolti anche i suoi discepoli; queste tre controversie centrali toccano problemi concreti della comunità cristiana, come il pasto con quelli che erano ritenuti peccatori pubblici, la que14
stione del digiuno e l’osservanza del sabato. Queste dispute non sono un semplice dibattito di scuola, ma veicolano una grande rivelazione dell’identità di Gesù e dei suoi discepoli.
Ognuna delle cinque controversie può essere letta in se stessa, ma si può fare anche una loro lettura
d’insieme per comprendere meglio il comportamento, il messaggio di Gesù, la natura del regno che
egli è venuto a portare e le motivazioni dell’opposizione che ha incontrato. Leggendole assieme,
emerge la particolare importanza della terza, cioè di quella centrale, dove Gesù proclama di essere
lo sposo che però verrà tolto (Mc 2,19-22), e dell’ultima che termina con un complotto che già preannuncia la croce di Gesù (Mc 3,6).
È difficile analizzare adeguatamente le due ultime controversie, perché coinvolgono non solo la ragione, la logica, ma anche i sentimenti, soprattutto quello duro, presuntuoso dei farisei e quello della compassione, della tenerezza di Gesù che mediante il suo comportamento vuole rivelare la compassione e la tenerezza di Dio e chiede ai farisei di ogni tempo di correggere le loro concezioni
troppo rigide di Dio e le loro interpretazioni rigoristiche della sua legge.
Queste controversie parlano dei tempi di Gesù, ma possiedono anche una perenne attualità, perché
rivelano l’identità messianica di Gesù, il suo profilo interiore, il suo chinarsi sui bisogni e sui desideri degli uomini, e ci rivelano anche le resistenze dell’uomo a questo Messia che non si impone
con la sua potenza, che ci vuole coinvolgere nel suo amore e ci dice a quale conversione è sempre
chiamata la comunità dei suoi discepoli. Queste dispute ci ricordano un’altra realtà: Gesù certamente sapeva e poteva spiegarsi meglio di quanto possiamo fare noi nella nostra vita, eppure anche lui è
stato incompreso, criticato e contestato. Non meravigliamoci se anche noi e la Chiesa talvolta non
veniamo compresi, se non abbiamo l’ascolto di tutti.
Confronto sinottico
Le cinque dispute sono riprese anche dagli altri due sinottici, cioè da Matteo e da Luca. Matteo però
smembra i cinque racconti; ne inserisce tre fra le dieci opere compiute da Gesù (Mt 9,1-17), dopo il
discorso della montagna che presenta il suo insegnamento, superiore a quello di Mosè (Mt 5-7); riporta poi le altre due nel complesso delle controversie narrate nel capitolo 12. Luca riferisce le cinque dispute nello stesso ordine di Marco, ma le sdrammatizza notevolmente; basta osservare la conclusione di Mc 3,6: «E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per
farlo morire» e quella di Lc 6,11: «Ma essi, fuori di sé dalla collera, si misero a discutere tra loro su
quello che avrebbero potuto fare a Gesù». Un confronto più dettagliato sarà presentato successivamente.
La quarta disputa: il sabato, l’uomo e il Figlio dell’uomo (Mc 2,23-28)
Anzitutto va tenuta presente l’ambientazione di tempo e di luogo di questa quarta disputa. Anzitutto
siamo in un giorno di sabato, come pure di sabato è ambientato il brano successivo. Il primo sabato
della vita pubblica di Gesù era stato esplicitamente menzionato in Mc 1,21-23; qui siamo al secondo
sabato esplicitamente nominato. Molti pensano che l’evangelista abbia voluto presentare intenzionalmente l’inizio della vita pubblica di Gesù mediante un ciclo che dura una settimana (Mc 1,213,6). Anche la conclusione della vita pubblica di Gesù è collocata nel quadro di un’intera settimana:
dal suo trionfale ingresso in Gerusalemme al giorno della sua risurrezione (Mc 11,1-16,8). Il primo
sabato è presentato da Marco come giorno della riunione settimanale nella sinagoga (Mc 1,21).
Questo secondo sabato viene considerato come giorno del riposo settimanale, perciò l’evangelista
presenta una disputa avvenuta nei campi e non in una sinagoga.
Il precetto del sabato
L’osservanza del sabato, insieme alla pratica della circoncisione e all’astensione da determinati cibi
considerati impuri, sono per Israele il segno dell’adesione alla volontà divina, il segno della risposta
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alla sua elezione: costituiscono ciò che lo caratterizza in rapporto a tutte le altre nazioni. I romani,
che non interrompevano con una festa settimanale il ritmo del lavoro umano, ammiravano e perfino
invidiavano questo venerabile costume. Il precetto dell’osservanza del riposo sabbatico è presente
in tutti i testi legislativi del Pentateuco, è ricordato nella letteratura profetica, nei libri delle Cronache, di Neemia e quindi è il precetto più ricorrente nell’Antico Testamento e il più sviluppato.
Nella prima pagina della Bibbia e nel decalogo presente in Es 20,8-11 il sabato è collegato con la
creazione: «Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né
tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato». Il sabato ha a che fare con lo spazio e con il tempo, rende il tempo a portata dell’uomo,
manifesta che esso è orientato verso il riposo. L’uomo è a immagine di Dio in quanto lavora, ma lo
è soprattutto in quanto è capace di riposare, di essere più forte della propria forza, perché sa alternare il lavoro e il riposo, sa anche riposare. Il sabato è il giorno benedetto da Dio e la benedizione ha a
che fare con la pienezza di vita: il lavoro è fecondo se è accompagnato dall’astensione dal lavoro. Il
sabato riassume la settimana e le dà significato.
Ogni settimana è una ricapitolazione del modello primordiale della settimana della creazione. Durante sei giorni l’uomo completa la creazione mediante il suo lavoro. Ai giorni del lavoro deve seguire quello del riposo non solo perché l’uomo ricuperi le energie fisiche, ma soprattutto perché
l’uomo resti uomo e abbia tempo per vivere in comunione con Dio e in dialogo con gli altri, perché
l’uomo torni all’origine e si apra al mondo nuovo, futuro, sia capace di ricordare il passato e di sperare nel futuro. Il lavoro dell’uomo completa la creazione, è fecondo solo se è accompagnato
dall’osservanza delle leggi. Il lavoro e il tempo hanno a che fare con il corpo dell’uomo, lasciano le
loro tracce sul corpo dell’uomo; il sabato e l’astensione dal lavoro sono quindi anche per il corpo
dell’uomo.
Nel decalogo presente in Dt 5,12-15 il sabato è collegato invece con l’uscita d’Israele dall’Egitto:
«Osserva il giorno del sabato per santificarlo, come il Signore, tuo Dio, ti ha comandato. Sei giorni
lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non
farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue,
né il tuo asino, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te, perché il tuo schiavo e la
tua schiava si riposino come te. Ricòrdati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto e che il Signore,
tuo Dio, ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore, tuo Dio, ti ordina
di osservare il giorno del sabato». Per il Deuteronomio il riposo sabbatico ha il suo fondamento nella liberazione dalla schiavitù egiziana ad opera di Dio, che ha agito con mano forte e braccio teso, e
quindi l’osservanza del sabato diventa un gesto di liberazione. Dio non rende schiavi, non opprime,
ma libera; il servizio di Dio comporta che l’uomo sia libero da altri padroni. La schiavitù non è solo
un problema di ingiustizia, ma è anche un problema religioso, perché impedisce all’uomo di essere
servo del Signore. La vera libertà consiste nel saper lavorare e nel saper fare anche un esodo dal lavoro; il sabato è un uscire dalla schiavitù che coinvolge tutti, uomini, donne, adulti, bambini, servi,
padroni e perfino gli animali, per ritrovare la libertà in vista della comunione con Dio. Il riposo del
sabato è una critica al sistema sociale basato sullo sfruttamento, sulla produzione, sul consumo, sul
mercato, è una misura anti idolatrica contro l’alienazione del lavoro e anche contro tutto ciò che
spersonalizza e menoma l’umanità dell’uomo.
Il sabato è quindi il giorno della valorizzazione dell’uomo. Il riposo del sabato ha lo scopo di ricordare che la creazione e il tempo sono dono di Dio, ci sono stati dati per incontrare lui; ha poi lo scopo di ricordare la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto: è il segno visibile della liberazione di Israele dal faraone, da altri padroni, dagli idoli, dal lavoro forzato e dalla stessa dipendenza che il lavoro
di ogni giorno provoca; con il riposo del sabato si vuole ricordare che Dio non è estraneo ai movimenti di vera liberazione perché sta dalla parte dei poveri, si vuole impedire che l’uomo perda la libertà ricevuta in dono da Dio, si vuole impedire che l’uomo sia alienato da un lavoro incessante e
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che i più deboli, come gli stranieri, i bambini, le donne e gli schiavi, vengano sfruttati ogni giorno.
Ogni uomo è servo di Dio e quando si fa schiavo di idoli o di padroni umani non può realizzare in
pieno il rapporto con il suo Signore. L’osservanza del sabato scaturisce dall’esperienza dell’amore
di Dio per l’uomo e diventa espressione gioiosa di gratitudine verso di lui.
I testi biblici indicano in maniera piuttosto generica in che cosa consiste il riposo del sabato, quali
sono i lavori interdetti in questo giorno; con il passare del tempo le disposizioni riguardanti il sabato
si fecero sempre più dettagliate. Con il ritorno dall’esilio il sabato incominciò a diventare quasi un
valore fine a se stesso. Venne imbastita una casistica così complessa che era difficile districarsi nei
meandri delle interpretazioni. Al centro dell’attenzione non si pose più l’uomo nella sua relazione
con Dio e con gli altri, ma una puntigliosa legislazione. Nella Mishna, cioè nella prima raccolta ufficiale delle tradizioni ebraiche, specialmente giuridiche, troviamo l’elenco di trentanove gruppi di
lavori interdetti in giorno di sabato. A loro volta queste trentanove categorie sono state suddivise in
altre trentanove classi, per un totale di 1521 lavori proibiti.
Per farci un’idea di come queste norme venivano ulteriormente spiegate nel Talmud, cioè nel testo
che commenta la Mishna, basta qualche spigolatura. In giorno di sabato era proibito sciogliere o
stringere un nodo di fune, spegnere la lampada, scrivere due lettere dell’alfabeto, trasportare un oggetto fuori di casa, mettere due punti di cucito a un indumento. Se il sacerdote si feriva un dito, poteva medicarlo, ma dentro il tempio; chi aveva mal di denti poteva sciacquarsi la bocca con l’aceto,
ma poi non poteva risputarlo; se uno si lussava il piede o la mano poteva bagnarli con acqua, ma
senza agitarli, altrimenti avrebbe compiuto un lavoro. I dottori della legge sapevano suggerire anche
delle scappatoie: si poteva fare o sciogliere un nodo, se si riusciva a farlo con una mano sola; si poteva tirar su un bue o una pecora da un fosso con il voto di immolarli, anche se dopo non lo si adempiva. All’epoca di Gesù andava imponendosi sempre più il principio detto piqquach nefesh,
cioè cura della vita, salvare una vita: in caso di pericolo di morte le regole restrittive del riposo sabbatico non restavano in vigore.
Gesù non pensò mai di sopprimere la legge del sabato, ma volle restituirle il suo significato autentico: essa è sempre per il bene, il riposo, la vita delle creature; non tollerò però mai che questa legge
impedisse alla gente di sperimentare la bontà di Dio Padre, manifestata dai suoi doni. Gesù, e dopo
di lui i primi cristiani, hanno liberato la legge del sabato dalle sovrastrutture abusive e ingombranti,
per ridonarle il primitivo splendore e riporla a servizio dell’uomo. Per Gesù c’è il primato della carità e perciò sottolinea che la legge è al servizio dell’uomo; per il giudaismo prima c’è la legge e
l’uomo è al servizio della legge; per Gesù c’è in primo piano l’uomo, la vita; per il giudaismo in
primo piano c’è il codice, il rito. Gesù ci insegna che le persone sono più importanti delle norme, il
che non vuol dire che per ogni capriccio siamo autorizzati ad agire contro le norme.
L’azione dei discepoli di Gesù e la critica dei farisei
Gesù sta passando attraverso i campi con i suoi discepoli ed essi, durante il cammino, si mettono a
strappare le spighe. Il motivo di tale azione non è detto esplicitamente, ma al momento è sottinteso:
intendono sfamarsi. Marco sottolinea solo l’azione dello strappare le spighe ed è proprio su questo
fatto che verte la critica dei farisei. Passare attraverso un campo seminato e cogliere qualche frutto
per sfamarsi era esplicitamente permesso dalla legge e quindi non costituiva peccato: gli ebrei avevano una concezione molto umana della comunione dei beni. Ma cogliere le spighe e sfregarle poteva essere considerato un atto proibito in giorno di sabato, perché equivalente a fare un raccolto, a
mietere. Partendo da Es 34,21che dice «Per sei giorni lavorerai, ma nel settimo riposerai; dovrai riposare anche nel tempo dell’aratura e della mietitura», tra le principali attività proibite in giorno di
sabato c’era la mietitura, alla quale era assimilato lo strappare le spighe. Quell’atto poteva essere
considerato proibito anche perché equivaleva a preparare il pasto e anche questo era proibito in
giorno di sabato.
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I farisei sono lì ad osservare Gesù, quasi come custodi della legge, e subito manifestano ripetutamente il loro disaccordo, come sottolinea il temo all’imperfetto del verbo «dicevano». In questo
racconto emerge la triplice ripetizione del verbo «dire»: i farisei «dicevano», Gesù «dice» loro, Gesù «diceva». Il primo e l’ultimo uso del verbo «dire» sono all’imperfetto; in mezzo il verbo è usato
al presente. L’imperfetto indica da un lato l’insistenza della critica dei farisei e dall’altro lato la solennità dell’affermazione finale di Gesù. L’uso del tempo presente al centro indica una presa di posizione puntuale fatta da Gesù. Marco sa usare le sfumature della lingua greca e queste vanno colte.
I farisei non si rivolgono ai discepoli, ma parlano insistentemente a Gesù che in quanto maestro è
responsabile del loro comportamento. Gesù è rimproverato non perché i suoi discepoli colgono le
spighe, ma perché lo fanno in giorno di sabato. Con un «Guarda!» iniziale esprimono la loro sorpresa di vedere compiere un’azione proibita e richiamano l’attenzione di Gesù su quello che i suoi discepoli stanno facendo, dichiarandosi indirettamente pronti a prendere i necessari provvedimenti.
La prima risposta di Gesù
Gesù si assume tutta la responsabilità di quanto fanno i suoi discepoli e risponde ai farisei ponendo
loro un’altra domanda che è un po’ ironica: chiede se per caso hanno mai letto ciò che fece Davide.
Certamente essi conoscono il testo di 1Sam 21. Gesù ama rispondere ponendo un’altra domanda
(Mc 2,19) e anche citando le Scritture (Mc 12,10.26). Questa era un’usanza diffusa nelle discussioni
rabbiniche. Il racconto veterotestamentario al quale Gesù allude subisce alcune modifiche e sottolineature. Davide fugge dal re Saul e si reca a Nob dal sacerdote. Il nome di Abiatar è un errore: si
trattava di suo padre, Achimèlec. L’errore è scusabile, per il fatto che la relazione di Davide con il
sacerdote Abiatar fu più lunga, durò per tutto il suo regno, e quindi era più nota. Inoltre in 1Sam 21
si dice che Davide era solo e che il sacerdote Achimèlec si meravigliò di questo, mentre Gesù parla
di Davide e dei suoi compagni.
Quindi ponendo la sua domanda Gesù, che è assieme ai suoi discepoli, si mette anzitutto in relazione con Davide e i suoi compagni. Questa associazione con Davide esprime la consapevolezza che
Gesù aveva di essere figlio di Davide e può esprimere anche la coscienza che pure lui aveva una
missione urgente da compiere: la venuta del regno e questa venuta comporta dei diritti e delle libertà.
Gesù insiste sulla libertà di Davide: egli anzitutto entrò nella casa di Dio. I farisei rimproverano Gesù per il modo con cui i suoi discepoli vivono il sabato, cioè il tempo sacro; Gesù risponde evidenziando come Davide entrò nella casa di Dio, cioè come visse nello spazio sacro. Davide e i suoi
compagni mangiano i pani dell’offerta, che venivano sostituiti ogni sabato e che una volta ritirati
erano riservati solo ai sacerdoti (Lv 24,9); anche i discepoli di Gesù fanno un lavoro che secondo i
farisei non è lecito fare di sabato. Davide ha interpretato la legge e ha esteso la sua interpretazione
anche ai suoi compagni, a quelli che stavano con lui. Sia da parte di Davide come da parte di Gesù
c’è grande libertà nell’interpretare le norme riguardanti lo spazio sacro e il tempo sacro e le concessioni che erano riconosciute in pericolo di morte.
Il comportamento di Davide mostra che nessun precetto è un assoluto, nemmeno quello del luogo
sacro e del cibo sacro, ma che va interpretato in funzione dell’uomo, dei suoi bisogni. La stessa
Scrittura lo conferma. Se Davide, in quanto eletto di Dio, poté assumere un atteggiamento così libero, perché era nel bisogno e perché i suoi compagni avevano fame, tanto più lo può fare Gesù, che è
superiore a Davide. Questa libertà nasce dalla consapevolezza del primato dell’uomo, dal rendersi
conto dei suoi bisogni fondamentali, dal subordinare la legge alle necessità dell’uomo. Gesù ricorre
a un testo profetico (i libri di Samuele per gli ebrei fanno parte dei testi profetici) per interpretare i
testi della Torah riguardanti il sabato. I farisei, invece, interpretano a modo loro la legge del sabato,
passando sotto silenzio i testi biblici che non danno loro ragione. In tal modo Gesù confuta
l’interpretazione farisaica dei precetti della legge. Il passo di 1Sam 21 mostra che nessun precetto
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nemmeno quello del sabato, è un assoluto, ma va interpretato in funzione dell’uomo, del suo bisogno.
Le due affermazioni di Gesù
Gesù non attende la risposta dei farisei alla sua domanda e invece procede non più ponendo delle
domande, ma enunciando ripetutamente («diceva») un doppio principio: uno riguarda il valore del
sabato e uno riguarda la signoria del Figlio dell’uomo.
Il primo enunciato è espresso nello stile del parallelismo antitetico e pone uno di fronte all’altro il
sabato e l’uomo. Mediante il verbo «è stato fatto» (egeneto), Gesù rinvia indirettamente i suoi oppositori al racconto della creazione dell’uomo e del sabato. Molti rabbini e molti farisei ritenevano
che il sabato è talmente importante che perfino Dio deve sottomettersi ad esso. Gesù invece dichiara
che il precetto del sabato non è eterno, non è un valore assoluto, esistente ancora prima della creazione. Esso fu promulgato in un momento storico per la gioia dell’uomo, al suo servizio, e non contro l’uomo. La legge del sabato è stata data perché la vita dell’uomo proceda meglio, è stata data a
beneficio non di un solo uomo o di un gruppo di uomini, ma a beneficio di tutti gli uomini. Dicendo
che il sabato «è stato fatto» per l’uomo, Gesù lascia capire che non solo lui la pensa così, ma che
Dio stesso ha voluto che fosse così. Non solo tutto ciò che è stato creato prima dell’uomo è stato
creato in vista dell’uomo, ma anche il sabato, che viene nominato dopo la creazione dell’uomo, è
stato fatto per l’uomo, è stato dato all’uomo come aiuto per la sua crescita, per la sua libertà.
L’affermazione di Gesù ha una forma positiva, rafforzata poi da una forma negativa: «non l’uomo
per il sabato». La parte negativa del detto ribadisce la dichiarazione positiva e si oppone a tutte le
speculazioni della dottrina farisaica sulla legge del sabato.
A questo punto Gesù aggiunge un’ultima solenne affermazione che conclude tutta la discussione:
«Perciò il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato». Queste parole comprendono due titoli cristologici molto importanti: «Figlio dell’uomo» e «Signore». Gesù non parla più della modalità con
la quale l’uomo deve vivere il sabato e quindi tutta la legge, ma afferma che lui è al di sopra anche
del sabato perché è il Signore. Nessuno, all’infuori di Dio, è il Signore dei comandamenti. Nessuno
li può abolire o interpretare arbitrariamente. Gesù dichiara di avere una potestà, una signoria che gli
permette di disporre del sabato e della sua retta interpretazione. Qui viene espressa tutta la confessione di fede cristologica della Chiesa. Nella prima di queste cinque dispute Gesù aveva rivendicato
di avere il potere di rimettere i peccati (Mc 2,10); ora rivendica il potere di esercitare la sua signoria
sul sabato. La controversia sul sabato diventa così epifania della natura davidica, messianica di Gesù e di quella divina. La sua signoria si estende ben al di là del sabato e delle sue prescrizioni e diventerà piena con la sua risurrezione. Egli, infatti, è il Figlio dell’uomo annunciato da Dan 2,10, che
è vittorioso su tutte le vicissitudini della storia. Una proclamazione di fede analoga è presente anche
in Gv 9. In giorno di sabato Gesù ha guarito il cieco dalla nascita e gli oppositori ritengono che lui
non può venire da Dio, perché trasgredisce la legge del sabato. Alla fine del racconto Gesù domanda al cieco guarito se crede nel Figlio dell’uomo e lui risponde: «Io credo, Signore» (Gv 9,35-38).
Il racconto di Matteo
Né Matteo né Luca hanno conservato il v. 27 di Marco («Il sabato è stato fatto per l’uomo e non
l’uomo per il sabato!»).
Matteo arricchisce il dibattito tra Gesù e gli oppositori. Anzitutto Gesù non si limita a citare il comportamento di Davide, ma si appella alla legislazione contenuta in Nm 28,9 per affermare che nel
giorno di sabato i sacerdoti lavorano nel tempio e tuttavia sono senza colpa (Mt 12,5). Successivamente Gesù rincara la dose: proclama che, se i farisei avessero compreso le parole del profeta Osea
«Misericordia io voglio e non il sacrificio» (Os 6,6), non avrebbero condannato persone senza colpa
(Mt 12,7). Matteo aveva già riportato questo versetto di Osea (Mt 9,13): per l’evangelista queste pa19
role del profeta offrono la chiave per una corretta comprensione di tutti i comandamenti. Il sabato è
il giorno in cui l’uomo incontra prima di tutto la misericordia di Dio e manifesta il proprio bisogno
di misericordia. La misericordia di Dio può essere paragonata all’amore materno e lascia trasparire
un Dio coinvolto profondamente nelle vicende del suo popolo. La misericordia è una qualità costitutiva dell’essere e dell’agire di Dio Padre e quindi anche dell’essere e dell’agire di Gesù; la misericordia diventa pure la qualità costitutiva del discepolo di Gesù.
Il cuore, il centro della fede risiede non nel sacrificio legalisticamente attuato, ma nella misericordia
che precede e accompagna lo stesso sacrificio. I farisei non hanno capito che l’esercizio della misericordia va oltre le prescrizioni rituali o le interpretazioni letterali. Qui la parola misericordia significa coinvolgimento responsabile. Per essere credenti non basta il culto, il ritualismo che poi lascia
invariate le relazioni comunitarie e sociali, perché il culto è sempre memoria di Dio che ha creato
l’uomo per amore e di ciò che Dio di sua iniziativa ha fatto per Israele, trattato ingiustamente in Egitto: lo ha fatto uscire da una situazione di sfruttamento e di oppressione, da un lavoro disumano
del quale non si vedeva il motivo e del quale soprattutto non si godevano i frutti.
Il detto di Gesù sulla misericordia e sul sacrificio non può essere ridotto alla superficiale contrapposizione tra le opere della carità e il culto, per tranquillizzare chi è lontano dalla preghiera, dalla pratica religiosa. Il sacrificio che Gesù subordina alla misericordia non coincide solo con il culto, ma si
identifica con il facile appello all’ordine costituito, alle regole, al buon senso, alla ragionevolezza,
impedendo che l’amore prenda manifestazioni concrete e visibili. Non c’è vero culto senza misericordia; è vuoto il culto che lascia invariate le relazioni sociali, perché il vero culto è la memoria di
ciò che Dio di sua iniziativa, mosso dall’amore, ha fatto per Israele e per tutti gli uomini. L’amore è
il criterio in base al quale bisogna giudicare tutto. L’amore disinteressato è inquietante, rompe sempre gli schemi. Per imparare il primato, l’ostinazione dell’amore di Gesù bisogna andare alla sua
scuola. Quando esiste il problema pratico di un conflitto tra comandamenti diversi, bisogna lasciarsi
ispirare dal criterio superiore che è la misericordia e non il sacrifico, inteso come tutto ciò che è ritualità, precetto formale. Dopo aver fatto queste aggiunte rispetto al testo di Marco, Matteo ha ritenuto opportuno omettere l’affermazione sullo scopo del sabato, riportata da Mc 2,27.
Non sappiamo il motivo per cui anche Luca ha omesso il detto di Gesù sullo scopo del sabato. Forse
al tempo di questo evangelista non c’erano più le discussioni con la sinagoga sul sabato e si era ormai pienamente certi che Gesù, in quanto Figlio dell’uomo, ha autorità sulla terra di portare a compimento il sabato ebraico, creando un nuovo giorno, il giorno del Signore, nel quale i suoi discepoli
si riuniscono per fare memoria della sua morte e risurrezione e per ricevere da lui un pane nuovo.
Riflessioni conclusive su questa quarta disputa
La vita umana tende a tradurre i valori in regole, a istituzionalizzarsi. Va ricordato che le regole o le
leggi che aiutano gli uomini a vivere, a incarnare determinati valori in primo luogo sono sempre inferiori a quei valori e poi per di più dipendono molto anche dal contesto storico e sociale in cui vengono fatte. Una delle regole fondamentali dell’Antico Testamento è il riposo del sabato, che l’uomo
non può trasgredire. Secondo molti farisei, Gesù stava sovvertendo la vita religiosa degli israeliti: al
paralitico ha perdonato i peccati senza un congruo periodo di pentimento, mangiava anche con i
peccatori, non imponeva ai suoi discepoli il digiuno. Qui lo vediamo mentre permette che i suoi discepoli sgranino delle spighe in giorno di sabato.
Toccando il sabato, Gesù mette in discussione quello che era ritenuto il cuore della legge, della rivelazione: il comandamento del riposo sabbatico contraddistingueva e contraddistingue ancora oggi
Israele da tutti i popoli, ma era divenuto forse il più snervante e fastidioso dei comandamenti, perché per non perdere la gioia del sabato, per non infrangere il suo riposo bisognava continuamente
stare all’erta di non compiere una delle azioni proibite. Il sabato non era più in funzione del riposo,
della libertà, della festa, dell’incontro con Dio, ma era divenuto quasi un’entità esistente per se stessa. Il giorno della libertà si era trasformato nel giorno della casistica circa le azioni permesse e quel20
le proibite, quindi diventava il giorno della schiavitù, perché l’uomo lo voleva trasformare nel giorno in cui poteva quasi soddisfare la sua bramosia di essere perfetto, di essere quasi eguale a Dio o
per lo meno di essere meritevole della sua grazia.
Gesù non risponde ai farisei con tattica, come forse avremmo fatto noi, dicendo: «È vero, è sabato,
però non è proibito prendere delle spighe per sfamarsi; avete ragione voi, ma cercate di scusare i
miei discepoli, perché è un caso di necessità». Invece Gesù attacca direttamente l’osservazione, la
respinge: vede che i suoi oppositori non hanno capito la Scrittura, credono di conoscerla, mentre la
loro mentalità è ideologica, rigida, lontana da quella di Dio. Gesù vuole condurre i suoi obiettori alla concezione originaria del sabato come culmine della creazione, come riconoscimento del primato
dell’uomo nella creazione: l’uomo ha il primato sulle cose, e quindi anche sulle leggi. Gesù rivela
che Dio è umano, che è vicino all’uomo e gli vuole bene; a lui interessa che tutto promuova la centralità dell’uomo, il suo vero bene. In questo contesto Gesù pronuncia la frase che costituisce già la
sua condanna a morte: «il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!».
Tutta la legge, ogni legge, anche quella del sabato, è stata fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge. Questa frase ricorda all’uomo di Chiesa che non è il precetto ad essere prioritario, ma la persona
che gli sta di fronte; ricorda ai genitori e agli educatori che prima non ci sono contenuti da trasmettere, ma relazioni da rendere più piene e vitali; ricorda al giudice che non è il codice ad avere la
precedenza, ma l’uomo che deve essere giudicato e ricuperato; ricorda al teorico dell’economia, sia
egli marxista o capitalista, che non sono le leggi di mercato ad avere la preminenza, ma quell’uomo
a favore del quale talvolta bisogna deviare dalle stesse leggi; ricorda ad ogni Stato che prima delle
strettoie della burocrazia c’è l’uomo. Non ci deve essere più una legge al di sopra dell’uomo, ma a
favore della sua maturazione. La libertà e la dignità di ogni uomo è più preziosa di qualunque legge,
della stessa lettera divina, che non può mai venire imposta con la forza.
Dio vuole la nostra realizzazione, il nostro vero bene, che però non coincide con ciò che è più facile, più comodo, con ciò che noi progettiamo. Questo è esemplificato in Gesù, Figlio dell’uomo, Signore del sabato. In Gesù, Dio mostra ciò che intende fare per noi. Per questo è importante e fondamentale la considerazione dell’intera vita di Gesù, fino alla croce: il Padre non l’ha risparmiata al
Figlio, perché attraverso la croce Gesù ci può dare la piena manifestazione di quanto il Padre ci ama, di ciò che vuole fare per noi.
La quinta disputa: la guarigione della mano paralizzata (Mc 3,1-6)
Gesù ha detto che lui è Signore anche del sabato. Per dimostrare la verità di questa affermazione
torna nella sinagoga, sempre di sabato e quindi certamente in continuità con l’episodio precedente. I
due episodi delle spighe strappate e dell’uomo dalla mano paralizzata sono strettamente posti uno
accanto all’altro in tutti e tre i vangeli sinottici. La sinagoga, chiamata anche casa del popolo (bet
‘am) o casa della comunità (bet hakneset), era il luogo sacro, dove si riuniva il popolo di Dio in
giorno di sabato per pregare, per ascoltare la lettura dei libri sacri e la spiegazione che ne veniva data da uno dei presenti per la comune edificazione. Dopo la famiglia, la sinagoga era l’istituzione più
importante per la formazione del popolo di Dio e per la santificazione del giorno di riposo. Gesù ha
manifestato sempre un grande rispetto per la sinagoga e nei suoi discorsi non si è mai scagliato contro di essa.
I tre protagonisti e la struttura del racconto
Nella sinagoga dove entra Gesù è presente un uomo dalla mano paralizzata, atrofizzata, un uomo
quindi limitato nelle sue potenzialità. La sua invalidità è ricordata due volte (vv. 1.3) e la sua mano
è nominata quattro volte: vv. 1.3.5[bis]. Accanto a questo personaggio anonimo, che rimane costantemente muto, non sono nominati i discepoli di Gesù o altri fedeli, ma soltanto coloro che stanno in
agguato, pronti ad accusare Gesù; l’identità di questi oppositori non viene specificata ulteriormente
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perché sono gli stessi dell’episodio precedente; alla fine della disputa si preciserà che sono i farisei
(Mc 3,6). Il racconto è stringato e presenta quindi solo i tre poli del dramma: Gesù, il malato e i farisei.
Gesù prende subito l’iniziativa e dirige tutta l’operazione, senza che sia interrogato dal malato o dagli oppositori. Interviene per tre volte, tutte introdotte dal verbo «dire» (vv. 3.4.5), mentre gli oppositori complottano, ma tacciono, perché non vogliono esprimersi (v. 4). Gesù si rivolge anzitutto
all’uomo dalla mano malata: non lo guarisce subito, ma lo invita quasi provocatoriamente ad alzarsi
e a collocarsi in mezzo. Poi si rivolge agli oppositori, ponendo loro una duplice domanda. Infine
torna a rivolgersi al malato e gli ordina di stendere la mano. Una frase conclusiva (v. 6) manifesta la
non conversione dei farisei e il loro accordo con gli erodiani per eliminare Gesù.
Sembra quasi che l’uomo dal braccio paralizzato rappresenti tutto il pubblico che frequenta la sinagoga e che la mentalità dei farisei sia responsabile della paralisi in cui si trovano i fedeli. I farisei
sono venuti non per pregare, ma con l’intenzione di spiare Gesù: si aspettano che compia un’altra
infrazione del sabato e che offra loro così un altro motivo per accusarlo. Pensano di avere il compito
di sorvegliare sempre tutto, di stare attenti che tutto si svolga secondo le norme, e così sono pronti a
respingere ogni sorpresa di Dio. Gesù aveva la fama di profeta che teneva comportamenti innovativi. Era quindi dovere dei farisei verificare come si comportava e che cosa diceva. A prima vista dovremmo dare loro ragione se lo osservavano. Però il valore del loro osservare dipende dalla intenzione. È prudente essere cauti nel credere a qualcuno. Ma questa cautela può nascondere
l’atteggiamento presuntuoso di chi ritiene di sapere già tutto e guarda una persona attraverso i propri pregiudizi, per coglierla in fallo, se si ritiene che sbagli. Nessuno dei farisei però ammette di
giudicare per simpatia o antipatia; tutti cercano di camuffare il proprio dissenso o il proprio odio
con nobili motivi o con interessi superiori. Per i farisei la cosa da difendere era la legge di Mosè: chi
la osservava era buono, chi la trasgrediva era cattivo. La legge imponeva il riposo del sabato. Se
Gesù la trasgrediva, il suo comportamento era condannabile. Quanto odio personale oggi viene giustificato non più in base all’osservanza della legge di Mosè, ma in base ai cosiddetti diritti, agli interessi dell’umanità.
Un miracolo che rivela la premura di Dio e che ai farisei non sembra lecito
Abbiamo detto che al tempo di Gesù negli ambienti farisaici venne imponendosi il principio generale per cui salvare uno in pericolo di vita aveva la precedenza sull’osservanza del sabato. Tuttavia
per le malattie che non comportavano un pericolo mortale le regole restrittive rimanevano in vigore
ed era proibito, per esempio, preparare un medicamento nel giorno di sabato. I vangeli riportano diverse guarigioni operate da Gesù in giorno di sabato: la guarigione dell’indemoniato nella sinagoga
di Cafarnao (Mc 1,21-28; Lc 4,31-37), della suocera di Pietro (Mc 1,29-31; Mc 8,14-15; Lc 4,3839), dell’uomo con la mano paralizzata (Mc 3,1-6; Mt 12,9-14; Lc 6,6-11), della donna curva e
dell’idropico (Lc 13,10-17; 14,1-6; questi due miracoli sono narrati solo da Luca), del paralitico alla
piscina di Betzatà e del cieco nato (Gv 5,1-18; 9,1-41; questi due miracoli sono narrati solo da Giovanni). Si tratta sempre di guarigioni operate senza che le condizioni della persona malata fossero
così gravi da richiedere immediatamente un intervento proprio in giorno di sabato. Con queste guarigioni Gesù vuole mostrare che il servizio di Dio lo si vive pienamente aiutando il prossimo subito,
con premura, senza aspettare, se ci è possibile aiutarlo immediatamente.
Gesù è la tenerezza di Dio, fatta carne. Secondo i farisei, e forse anche secondo molti lettori superficiali, una mano paralizzata non è una emorragia, un infarto: non costituisce pericolo di morte e
può quindi aspettare, non è necessario curarla con urgenza di sabato. Quella mano paralizzata rappresenta però molte cose: tutti sappiamo che la mano è l’organo per eccellenza della cura, del dono,
del contatto; accanto alla parola, la mano è un mezzo fondamentale per entrare in relazione, per esprimere le relazioni. Genitori, coniugi, figli, fratelli sanno bene che cosa significa una mano paralizzata nelle loro carezze, nei loro rapporti, nell’aiutarsi; tutti sappiamo che una mano irrigidita è
come staccata dalla fonte della vita, rappresenta quindi le nostre incapacità di agire liberamente,
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rappresenta l’incapacità o il rifiuto di raggiungere l’altro, a causa dei nostri limiti o in nome delle
regole che abbiamo reso a nostra misura, rappresenta tutti i sistemi e tutte le ideologie, costruiti originariamente per aiutare ad amare Dio e il prossimo, e poi trasformatisi in sbarramenti, che hanno
inaridito mani e cuore; inventati per dare o favorire la libertà, i sistemi stanno creando spesso persone alienate.
Alla situazione dell’uomo dalla mano paralizzata è particolarmente sensibile l’uomo di oggi, che è
molto attento alla qualità significativa della vita, a una vita piena, che si sviluppa mediante relazioni
autentiche, a una relazionalità ricca e soddisfacente. Anche Gesù si mostra attento alla pienezza della esistenza dell’uomo dalla mano paralizzata; nella sua dimensione compassionevole, Gesù vede e
condivide la sofferenza segreta di quell’uomo, che può diventare o e già diventata scoraggiamento,
si sente lui stesso ferito da quella mano arida e vuole manifestare subito la sua vicinanza a
quell’uomo, vuole manifestare che egli è l’Emmanuele, l’uomo-Dio che è compagnia per ogni uomo, soprattutto per chi soffre.
Gesù si trova davanti a quella mano paralizzata di sabato, giorno in cui gli ebrei celebrano la potenza e la relazionalità della mano di Dio, il giorno in cui nella sinagoga ricordano che Dio ha plasmato
l’uomo e il mondo con le sue mani, con le sue dita (Sal 8,4; 19,2; 95,4; 102,26), ricordano che Dio
li ha liberati dall’Egitto con mano potente e con braccio teso (Es 15,6.12; Dt 4,34; 5,15; 6,21; 7,19;
9,26; 11,2; 26,8), comunicando la sua forza e la sua autorità divina anche alla mano di Mosè (Es
7,19; 8,6; 9,22; 10,12.21.22; 14,16.21.26.27); nella sinagoga in quel sabato gli ebrei stanno celebrando Dio che rende il suo popolo libero dagli idoli e da tutte le forme di schiavitù, compresa quella di non avere l’uso di una mano.
Come avviene per ogni legge difficile da vivere, gli uomini si sono impadroniti della legge del riposo sabbatico e l’hanno fatta diventare una serie di restrizioni a se stesse, una successione di steccati,
di regolette che pretendono di avere il potere di salvarci, e che in qualche modo soddisfano il nostro
bisogno di certezze. Davanti all’uomo dalla mano paralizzata Gesù coglie l’occasione per sottolineare che l’amore del sabato per il sabato, della legge per la legge, sfocia nell’oppressione dell’uomo
o nel formalismo. Per i farisei, presenti quel sabato nella sinagoga, la religione è un legame che obbliga a osservare delle norme: è religio religans. Gesù vuole che passino invece alla religio liberans, alla religione di chi è convinto che Dio non ci vuole accalappiare con il fascino della sua onnipotenza o con il timore dei suoi castighi, ma vuole attirarci a sé con il fascino del suo amore, con
il suo curvarsi su noi per amore, come ha fatto nella creazione e nell’esodo dall’Egitto, con il suo
desiderio che noi siamo veramente liberi, capaci di vivere al massimo le potenzialità che egli ci ha
dato. Gesù entra nell’aridità della situazione di quella mano, nell’aridità con la quale era interpretata
la legge. Vuole che l’uomo in quel giorno di sabato torni a diventare collaboratore di Dio creatore,
torni ad essere liberato da ogni schiavitù.
Il sabato è il giorno in cui l’uomo è chiamato a celebrare l’amore di Dio, per poter poi esprimere
con tutta la pienezza possibile la gratitudine a Dio e l’amore verso gli altri. Il sabato per Gesù non è
un cumulo di leggi da osservare, ma è piuttosto il giorno nel quale ci si incontra con l’amore di Dio
e con gli uomini che sono da lui amati. Gesù è venuto perché tutti, in modo particolare i poveri e i
malati, possano vivere una vita piena: allora il sabato irrompe nella vita degli uomini, diventa il
giorno in cui Dio esprime il suo amore per l’uomo e in cui l’uomo sente di essere stato creato da
Dio per entrare in relazione con lui con gli altri. Gesù ci ricorda che dobbiamo amare gli uomini
prima di amare le leggi: esse hanno senso quando diventano fonte di libertà, di condivisione e non
imposizione di precetti, osservando i quali possiamo poi avere la pretesa o l’illusione di salvarsi da
soli.
Le domande di Gesù e il silenzio dei farisei
A quanti lo osservano Gesù pone una domanda: di sabato è permesso fare del bene o fare del male?
Fare il bene è guarire un malato, restituirgli l’integrità fisica, oppure approvare chi compie tale ge23
sto; fare il male può significare omettere di compiere questa guarigione, oppure accusare chi si impegna per il bene dell’uomo. Poi Gesù domanda se è lecito salvare una vita anziché ucciderla: togliere un uomo dalla sua situazione miserabile, dargli vigore, integrità, è nella linea della vita, della
salvezza, omettere il soccorso oppure accusare chi lo porta è nella linea della morte. Gesù si muove
all’interno del principio del piqquach nephes (salvare una vita), ma ritiene che questo principio,
cioè l’opera della salvezza, ha tutta la sua legittimità, anche se non c’è immediato pericolo di vita.
Per Gesù appartiene all’essenza del sabato fare del bene, potenziare la vita e la libertà dell’uomo,
perché questo è lo scopo messianico del sabato. Se il sabato serve a celebrare la liberazione dal lavoro e dalla schiavitù, esso è anche il giorno più adatto per liberare gli ammalati dalla loro sofferenza e far loro sperimentare l’amore liberante di Dio, è il giorno in cui si può vivere un’anticipazione
del godimento del regno di Dio, della vita che Dio desidera per l’uomo. Gesù di sabato ha già guarito un indemoniato nella sinagoga e la suocera di Pietro dalla febbre (Mc 1,21-31); adesso nella sinagoga non aspetta il giorno successivo per guarire l’uomo dalla mano paralizzata: non ci sono scuse per non aiutare il prossimo.
Gesù si sbilancia sempre verso la nostra pienezza, verso il nostro diventare veramente umani. In
questo modo, come aveva proclamato nelle sue prime parole riportate dall’evangelista Marco, il
tempo è compiuto e il regno di Dio si è fatto è vicino (Mc 1,15). Dando la guarigione, Gesù non ha
violato il sabato, ma lo ha portato alla sua radicalità, alla sua dimensione escatologica di incontro
con Dio, lo ha ricondotto al suo significato profondo per quanti nella storia lo avevano perduto. Così le guarigioni in giorno di sabato acquistano anche il valore profetico di anticipazione del sabato
eterno, della redenzione piena, connessa con la venuta del regno di Dio.
I farisei non rispondono alla domanda di Gesù: nella risposta sarebbero stati costretti ad abbandonare la loro posizione di inquisitori, ad accettare di mettersi in una nuova direzione, a riconoscere che
Gesù faceva bene a curare di sabato. Quindi preferiscono tacere piuttosto che cambiare opinione e
dare ragione a colui che avevano già classificato come avversario. Il silenzio dei farisei presenti nella sinagoga manifesta la durezza del loro cuore, l’incomprensione della centralità che l’uomo ha nel
progetto di Dio. Sullo sfondo vi sono due modi diversi di concepire le modalità della incarnazione
della volontà di Dio: per i farisei essa si attua nell’osservanza rigida del sabato, per Gesù si attua nel
servizio a favore della vita dell’uomo in tutte le sue espressioni e dimensioni, a partire dalla sua
stessa integrità fisica. I farisei sono contrari all’interpretazione del sabato data da Gesù: per loro gli
uomini sono al servizio della legge, dei precetti; secondo loro i precetti non sono fatti per portare
l’uomo alla vera libertà, a vivere la sua dignità di figlio di Dio, ma per fargli sentire la sua condizione di suddito di fronte a Dio. Per loro il massimo cui l’uomo può aspirare non è essere figlio di
Dio, libero, ma essere un osservante fedele della legge, sottomesso minuziosamente ad essa. Perciò
non rispondono alla domanda di Gesù. Non accettano il ragionamento di Gesù e, tacendo, mantengono la loro posizione. Non accettando il ragionamento di Gesù, non riconoscono Dio come colui
che ama veramente l’uomo.
La guarigione operata da Gesù
Gesù guarda i farisei con ira e nello stesso tempo con afflizione, causate dal fatto che i farisei non
sono capaci di vedere la loro identità di persone create a immagine e somiglianza di Dio, sono travolti dalla durezza del loro cuore, dal loro accecamento, dalla loro incomprensione. Gesù prova ira
e afflizione perché quei farisei sono protesi a proteggere il giorno di riposo da eventuali trasgressori
e a loro non interessa nulla dei problemi e del dolore degli altri. Si sono fossilizzati in un intransigente rigorismo legale e il loro cuore si è fatto arido, refrattario a ogni sentimento di comprensione,
di compassione e di attenzione per le ferite degli altri nell’anima e nel corpo. Per la smania di ordine, di perfezione, di difesa dei diritti di Dio, non riescono a vedere il volto sofferente dell’altro. Gesù percepisce che non è compreso nella sua identità e che quindi Dio stesso non è compreso. Sia
l’ira come l’afflizione di Gesù nascono dal suo amore: l’ira nasce dal vedere la situazione in cui è
tenuto il popolo, l’afflizione nasce dall’amore anche per gli stessi farisei.
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Poi Gesù si rivolge all’altro polo, al malato; gli dà un ordine («Tendi la mano!») e lo guarisce immediatamente: gli restituisce la libertà. Da un lato c’è la durezza di cuore, dall’altro lato c’è la potenza dell’amore di Gesù che si fa tenerezza e permette a quell’uomo paralizzato l’estensione della
sua mano. Gesù pone quel malato in mezzo all’assemblea, in mezzo alla rete delle relazioni che dovrebbe avere con i familiari e con i fratelli. Quella mano paralizzata in mezzo all’assemblea è una
mano che si sottrae alla sua fonte, diventa secca, non è più vivente, non è più in contatto con il Signore che vuole raggiungere ogni persona, non permette contatti autentici con gli altri. Gesù guarisce quella mano; ora la carezza, il gesto concreto, l’operosità di quella mano può incontrare finalmente l’altro e così quel malato vive il vero riposo sabbatico: un riposo che non è ozio, noia o disimpegno egoistico, ma pace vera.
Con questo gesto Gesù ci fa comprendere che prima di imporre principi etici bisogna far capire alla
persona che Dio vuole la sua vita, la sua piena realizzazione. Ciò che è primario per Gesù è credere
alla tenerezza di Dio che si fa evento di grazia rivolto alla totalità della persona; da qui nasce la pacificazione del cuore, lo sguardo disponibile verso la vita sofferente, l’attenzione all’uomo in difficoltà, per aiutarlo gradualmente a guarire dalla sua malattia, per stimolare in lui una nuova mentalità.
La reazione dei farisei
Dopo la guarigione del’uomo dalla mano paralizzata dai farisei non sale un’onda di gioia per la grazia che hanno visto con i loro occhi. I farisei non condividono lo stupore dell’uomo guarito, non vedono che in Gesù si sta rivelando la misericordia, la tenerezza di Dio, ma vedono solo la trasgressione del sabato. Quei farisei diventano i seppellitori della gioia, i mestieranti della religione, incapaci di condividere gli atteggiamenti del cuore misericordioso di Gesù. Gesù che ama gli uomini più
delle leggi è ritenuto dagli avversari un sovversivo. Richiamare al vero senso della libertà è sentito
come una minaccia dai custodi dell’ordine costituito che ora vengono indicati con il loro nome: sono farisei. Tutti escono dalla sinagoga, ma soltanto di loro si dice che escono per recarsi dagli erodiani. Anche se erano ideologicamente e politicamente molto distanti tra di loro, i farisei, che odiavano i romani, e gli erodiani, che erano simpatizzanti del potere dei romani, ritengono Gesù pericoloso per l’ordine che essi sognano e perciò decidono di collaborare per eliminare questo profeta da
loro ritenuto troppo ingombrante. I farisei non possono condannare a morte nessuno perciò cercano
l’aiuto del braccio secolare, si alleano con gli erodiani perché questi stanno dalla parte di un potere
politico che non solo può condannare a morte, ma può anche eseguire la sentenza. L’ultima parola
di questo episodio e di tutte le cinque dispute è «farlo perire». La vittoria dell’amore di Gesù comporta questo passaggio.
Con questa cupa atmosfera si chiude il primo tratto del vangelo di Marco. Gesù è venuto per liberare l’uomo dai limiti nei quali si dibatte e per correggere la falsa immagine di Dio che egli si era fatto; ma questo suo agire liberatorio è stato contestato: le autorità ebraiche fanno fatica a riconoscere
questa novità, perché ciò significava accettare che morisse ciò che faceva parte delle loro certezze:
rifiutano un Dio che ama indistintamente tutti, che è così amorevolmente presente nelle vicende degli uomini. Il dramma di Gesù comincia a consumarsi già in questa prima sezione del vangelo, legata a due sabati (Mc 1,21; 2,23): di fronte all’opera di liberazione e di salvezza di Gesù, l’uomo si
chiude nel suo orgoglio ed egoismo, e progetta di eliminare il suo liberatore. Così l’ombra della
croce è già presente all’inizio del ministero di Gesù: si intuisce fin da subito che la morte del profeta
di Nazaret avverrà a motivo della sua fedeltà alla volontà di Dio e al vero bene dell’uomo.
Riflessioni conclusive su questa quinta disputa
Ci sono tante forme di libertà. Forse quella più difficile è la libertà da quella perfezione che si pretende di raggiungere con le proprie forze. Un segno di questa mancanza di libertà dalla perfezione è
giudicare in modo severo gli altri, perché sembra che trasgrediscano l’osservanza delle leggi e che
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siano peggiori di noi. Diverse volte i vangeli ci dicono che le persone, convinte di dover raggiungere la perfezione con le proprie osservanze della legge, criticano Gesù per le guarigioni fatte in giorno di sabato. Significativa a questo proposito è la lunga disputa tra Gesù e i giudei riportata da Giovanni dopo la guarigione del paralitico, operata a Gerusalemme in giorno di sabato (Gv 5,10-46):
Gesù è il Figlio che guarda ciò che fa il Padre per incarnare il suo modo di agire. Gesù ci ha detto di
essere perfetti come il Padre che è nei cieli (Mt 5,48), però subito prima ha detto che, proprio perché è il Padre, Dio è ricco di magnanimità, è buono con tutti, fa splendere il suo sole sui buoni e sui
cattivi, manda la pioggia sul campo dei giusti e su quello degli ingiusti. La misericordia, la sollecitudine per gli altri ci liberano da quella falsa libertà che ci propone o che pretende di raggiungere la
santità solo con i nostri sforzi.
Nessuno è falso religioso come il falso zelante; nessuno è così lontano dallo spirito del Signore
quanto colui che fa della legge, anche spirituale, un assoluto, mentre nel piano di Dio ogni legge è
per l’uomo e nella Chiesa anche i sacramenti sono per l’uomo. I farisei si credono virtuosi e giusti e
perciò si arrogano il diritto di criticare il profeta di Nazaret. Non hanno capito che nulla è così urgente come salvare una persona malata, nessun atto è così religioso come soccorrere una persona,
perché l’amore è la perfezione di ogni legge e di ogni profezia.
È sorprendente che i farisei, anziché ringraziare Dio per le guarigioni operate da Gesù e per la libertà che egli porta, cerchino di attaccarlo con astio e meschinità perché ha guarito in giorno di sabato.
D’altra parte ci domandiamo perché Gesù difende con tanta forza la sua libertà nel vivere il sabato?
Di per sé avrebbe potuto guarire i malati un giorno prima o un giorno dopo: perché tanta insistenza
a guarirli proprio di sabato? La prima ragione del comportamento di Gesù sta nel fatto che egli vuole rivelare il Padre e vuol far capire che è il Figlio dell’uomo, Signore anche del sabato, quindi che è
il Figlio di Dio. Affronta i farisei non solo per un fatto etico, ma per un fatto teologico: bisogna che
sappiano che egli è in comunione unica con il Padre e che è in grado di rivelarne il vero volto. C’è
poi una seconda ragione per cui afferma la libertà nel sabato: intende difendere la libertà e la dignità
di ogni persona umana.
Da parte loro i farisei non comprendono Gesù per un certo integrismo e formalismo: si scandalizzano di fronte alla violazione del sabato e non si meravigliano per la grandiosità dei miracoli da lui
operati, dal suo amore. Non vogliono sentire le sue ragioni. Dietro questo formalismo c’è il rifiuto
di accettare Dio come è, di accettare la sua libertà e novità, la sua capacità di rivelarsi al di là di ciò
che abbiamo già compreso di lui. Talora noi ci fissiamo su una parola ascoltata e dimentichiamo di
farci ascoltatori incondizionati della libertà che Dio ha nel rivelarsi. Non si ammette che Dio possa
rivelarsi diversamente da quanto noi pensiamo. Questo spiega tante resistenze.
Il tratto iniziale del vangelo secondo Marco ci presenta la grande capacità di Gesù di amare gli uomini perché conosce il Padre, e la resistenza che gli oppongono gli uomini, rappresentati specialmente dai farisei. Dal punto di vista esterno i farisei sembrano ricalcare le orme dei profeti. In un
mondo pagano, come era quello dell’impero romano, immerso nel materialismo pratico, in un mondo in cui molti ebrei erano tentati di non osservare la legge di Dio, i farisei scelsero di osservare in
maniera scrupolosa tutte le prescrizioni della legge e le tradizioni. Si sforzavano così di conservare
la fede e di operare una riforma morale. In questo senso anche Gesù era d’accordo con loro: era venuto a portare a compimento la legge. Ma Gesù obbliga i farisei a chiedersi se la legge abbia un valore assoluto. I farisei pensavano di sì. Per Gesù, invece, come del resto per tutta la Bibbia, il valore
assoluto è l’alleanza tra Dio e gli uomini, è l’amore di Dio verso gli uomini, è quindi l’accoglienza
dei doni di Dio e il riconoscere il valore di ogni persona. Il fine della legge è sempre l’amore di Dio,
inseparabile dall’amore al prossimo, è amare il prossimo perché Dio lo ama e come Dio lo ama, è
amare noi stessi, perché Dio ci ama. Noi siamo cristiani non perché osserviamo determinate leggi e
nemmeno perché amiamo Dio, ma perché crediamo che Dio ci ama. La salvezza nasce dal fatto che
lui ci ama e non dal fatto che noi amiamo lui. Allora si può dire che l’amore vale più di tutti i comandamenti. Trascurando l’amore di Dio per noi e il valore di ogni persona, la legge diventa un idolo e la sua osservanza diventa la presunzione di salvarsi da soli. Proprio qui è il problema e lo
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sbaglio dei farisei. Proprio per l’idolatria della legge decidono di condannare a morte colui che era
il senso supremo della legge, l’amore di Dio incarnato.
Per la riflessione
1. In queste due dispute Gesù ci fa comprendere che, prima di imporre principi etici, norme comportamentali, bisogna capire e far capire alla persona che Dio la ama, vuole la sua vita, la sua piena
realizzazione.
2. Da quale parte ci saremmo collocati noi in quel sabato, in mezzo ai campi o in quella sinagoga?
Certo oggi conosciamo il vangelo e naturalmente ci mettiamo con Gesù, ma perché molte volte nella vita concreta ragioniamo come i farisei? Perché questo modo di ragionare, legato alla rigida osservanza della legge, tante volte è molto vicino alla nostra mentalità? Noi da un lato pensiamo che
la religione consista nell’impegno a salvarsi da soli, con le nostre forze, oppure osservare un codice
di leggi ben precise, dimenticando che credere è accogliere e testimoniare il dono dell’amore, della
salvezza che ci viene offerto da Dio; dall’altro lato ci abituiamo presto alla fame, ai bisogni e alle
sofferenze degli altri. Come i farisei, forse avremmo pensato che l’osservanza rigorosa del sabato è
più importante di sfamarsi o della guarigione di un uomo, malato cronico e non in pericolo di morte.
3. Abbiamo molto da imparare da queste due dispute sul sabato, perché tendiamo a ricadere nella
mentalità che blocca la carità per non andare oltre le regole comuni, per non turbare il buon ordine.
Seguendo Gesù, si intraprende un cammino lungo, che nella fatica e nella complessità di ogni esodo
si rivela tuttavia un’esperienza di liberazione. Seguendo Gesù, impariamo a conoscere e a far conoscere l’amore di Dio verso tutti, ad accogliere e a diffondere così il suo regno. Domandiamo a Gesù
che metta in noi il desiderio di vivere nella vera libertà e ci renda partecipi della sua premura verso
chi si trova in necessità, quando ci è possibile.
Preghiera
«O Dio, che in ogni settimanale celebrazione della pasqua ci illumini con la gloria che splende sul
volto di Cristo, donaci la forza del tuo Spirito, perché testimoniamo, in un rapporto nuovo con i fratelli e con tutto il creato, la verità che ci fa liberi e promotori di liberazione. Per il nostro Signore
Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen».
(Dalla Liturgia della nona Domenica del Tempo Ordinario, anno B).
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3. IL CAMMINO DEI DISCEPOLI VERSO I PAGANI
«Gesù disse loro: Passiamo all’altra riva» (Mc 4,35-41)
1. L’ambientazione del brano
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In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la
folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui.
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2. La grande tempesta, la reazione di Gesù e quella dei discepoli
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai (la bar38
ca) era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero:
«Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
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3. Gesù placa la grande tempesta e c’è una grande bonaccia
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia.
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4. Dopo il miracolo, Gesù rimprovera i discepoli
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Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
5. Reazione finale dei discepoli, fatta di grande timore, seguito da una domanda
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il
vento e il mare gli obbediscono?».
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L’ambientazione e la struttura del brano
Gesù ha terminato la giornata di predicazione in parabole. L’evangelista Marco ne riporta tre, incentrate sul seminatore e sul seme: quella del seminatore, quella del seme che cresce da solo e quella
del granello di senape. Giunta la sera, Gesù congeda la folla e prende l’iniziativa di passare assieme
ai suoi discepoli all’altra riva del lago: quella abitata dai pagani. Il lago, infatti, ha una riva giudaica
e una riva pagana. Gesù dà con autorità ai discepoli un comando che richiede fiducia e obbedienza;
impedisce loro di riposarsi sugli allori, di riscuotere quasi i complimenti perché stanno con quel
Maestro, e li costringe a cambiare luogo. Gesù e i discepoli non ritornano a casa a riposarsi, come
sarebbe logico aspettarsi, ma con sorpresa lasciano una condizione tranquilla, di un certo prestigio
ormai conquistato presso la gente, e se ne vanno.
Dalla barca Gesù aveva parlato alla folla degli ebrei, dicendo che il regno di Dio è come il seme che
viene gettato nella terra, che il regno di Dio quindi aspetta di estendersi a tutta l’umanità; ora ordina
ai discepoli di andare con lui con la stessa barca dalla quale aveva parlato, verso l’altra sponda: non
per pescare, ma certamente con un altro scopo. Nella parabola del seminatore Gesù aveva detto che
occorre mettere in conto anche un parziale fallimento ed ora la storia prende un nuovo corso. Alla
fine del discorso in parabole l’evangelista aveva segnalato che Gesù spiegava tutto in privato ai suoi
discepoli. Adesso Gesù li vuole accanto a sé protagonisti di una nuova esperienza: l’attraversata del
lago verso l’altra riva.
Possiamo articolare il brano in cinque tratti successivi.
- Il racconto inizia con la precisazione del momento cronologico, con l’ordine impartito da Gesù ai
soli discepoli e la loro pronta obbedienza (Mc 4,35-36).
- Viene poi presentata la grande tempesta che suscita due reazioni diverse in Gesù e nei discepoli
(Mc 4,37-38).
- Successivamente Gesù interviene con la sua parola autorevole ed efficace (Mc 4,39).
- Segue il rimprovero rivolto da Gesù ai discepoli con una duplice domanda (Mc 4,40).
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- Il brano termina con la reazione finale dei discepoli e il loro interrogativo prolungato (Mc 4,41).
Il brano può essere anche letto tenendo conto delle sorprese che presenta. Una prima sorpresa è data
dal fatto che pure coloro che hanno preso con sé Gesù nella barca durante l’attraversata del lago
possono andare incontro a una grande tempesta che ostacola il loro percorso. Una seconda sorpresa
è costituita dal sonno di Gesù durante la grande tempesta. Una terza sorpresa è suscitata dal suo totale e autorevole dominio sul vento e sul mare, al punto che anche i discepoli si chiederanno: «Chi è
dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?». Una quarta sorpresa nasce dal rimprovero che Gesù rivolge ai discepoli dopo aver placato la tempesta. Il racconto lascia in sospeso
anche un ultimo interrogativo: che esperienza hanno fatto quelli delle altre barche, che sono nominate all’inizio del racconto e poi non sono più ricordate?
La tempesta sedata è un tipo di miracolo effettuato sulla natura e l’uomo moderno fa fatica ad accettarlo. Tuttavia non esistono argomenti convincenti per negarne la storicità. Va riconosciuto, però,
che il racconto trasmesso da ciascuno dei tre vangeli sinottici testimonia la fede della Chiesa nella
potenza del Risorto: i discepoli, infatti si rivolgono direttamente a Gesù e non a Dio. Inoltre ciascuno dei tre sinottici presenta una sua precisa prospettiva e lascia intravedere la particolare situazione
della Chiesa per la quale scrive.
«Passiamo all’altra riva» (Mc 4,35-36)
L’espressione «l’altra riva» è simbolica in tutta la letteratura; può esprimere il passaggio dalla vita
materiale a quella spirituale, un ribaltamento di valori, la conversione, il passaggio a una novità che
incute paura. Passare all’altra riva può significare anche accogliere l’offerta di un dono più grande.
Questo invito di Gesù ci ricorda che occorre anche uscire dalla propria situazione per raggiungere
l’altra sponda che può essere quella della libertà vera, quella dell’esistenza autentica, quella di un
nuovo impegno, quella dell’annuncio del vangelo a chi non lo ha ancora sentito. Del resto
nell’evento dell’esodo la Bibbia ci ricorda che la prima esperienza dell’uomo è proprio l’uscire.
I discepoli eseguono l’ordine di Gesù senza discutere, lo prendono nella barca «così com’era», ossia
probabilmente senza nemmeno sbarcare, senza tornare a casa, dopo che per tutto il giorno aveva insegnato alla folla stando sulla barca (Mc 4,1). Siamo alla sera: la sera è il momento della solitudine,
il momento in cui si vorrebbe stare tranquilli, nell’intimità, nella pace. Ma questa indicazione temporale allude forse anche alla scarsità o mancanza di luce, quindi metaforicamente indica che quelli
che accompagnano Gesù stanno per entrare in una situazione di incertezza, di non comprensione
della realtà. La vita dei discepoli è stare con Gesù, è ascoltare la sua parola, ma è descritta anche
come un viaggio, un’attraversata notturna per raggiungere l’altra sponda, dove si trova il mondo pagano. Gesù desiderava preparare tutto Israele alla imminente venuta del regno di Dio, ma non disdegna di andare in una regione niente affatto giudaizzata. Egli allarga bruscamente il suo raggio di
azione e offre la sua predicazione anche ai pagani. La coscienza messianica di Gesù contiene sempre una doppia prospettiva: la salvezza di tutto Israele, ma anche la salvezza rivolta alle nazioni.
Dopo aver dato l’ordine, Gesù resta passivo e i discepoli prendono in mano la situazione. Gesù rimane come assente e tale apparirà anche al momento della grande tempesta: dopo aver parlato, dopo aver gettato il seme, si affida agli altri. Quelli che lo avevano ascoltato diventano il soggetto attivo: si distaccano dalla folla.
Assieme a quella di Gesù ci sono altre barche, le quali però non sono più nominate, neppure nella
conclusione del racconto. La barca che porta Gesù e i discepoli è stata giustamente intesa dai Padri
come simbolo della Chiesa. Non nominando più le altre barche forse l’evangelista vuole dire che i
discepoli quasi cercano di monopolizzare Gesù, di portarlo via, lasciando da parte gli altri; a loro
non interessa che altri prendano parte alla loro missione o vengano a conoscere meglio chi è Gesù.
Per raggiungere l’altra sponda, quella dei pagani, Gesù e suoi discepoli devono attraversare il mare.
L’esperienza umana ha sempre percepito l’acqua anzitutto come elemento indispensabile per la vita,
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poi come elemento privo di forma propria e quindi difficilmente dominabile, potenzialmente pericoloso e capace di inghiottire inesorabilmente, infine come realtà necessaria per la pulizia. Di conseguenza anche la Bibbia vede l’acqua in tre modalità. Anzitutto la vede come sorgente benefica e potente della vita, come un grande utero vitale: l’uomo ha bisogno dell’acqua che lo ristora, lo disseta,
e ne prova nostalgia; poi l’acqua è vista come forza che è fuori del dominio dell’uomo, che è paragonabile al caos, che può sconvolgere e devastare la terra, può inghiottire i viventi, diventando sorgente di morte e non di vita, cessando di essere utero vitale e diventando piuttosto sepolcro: di
quest’acqua l’uomo prova paura e repulsione; infine l’acqua è vista come mezzo che purifica le persone e le cose dalle immondezze contratte nel corso degli incontri quotidiani, rendendole materialmente e spiritualmente pure, più preparate per accedere a Dio e al culto.
Gli ebrei percepivano il mare soprattutto come acque caotiche, quindi non come il luogo delle ferie
o dei commerci, ma piuttosto come il simbolo dell’instabilità, dell’immenso smarrimento che fa
precipitare nella disperazione; per loro il mare era una realtà che ricorda come tutta la vita nel suo
insieme ha spesso l’aspetto di un caos non del tutto vinto, le cui fauci possono spalancarsi in ogni
momento sotto di noi. L’acqua sembra essere stata, con le tenebre e l’abisso, un elemento primordiale che precedette la creazione. In Gen 1,2.6-10 sembra quasi che Dio non abbia creato l’acqua,
bensì che abbia separato le acque dei cieli da quelle sotterranee e che abbia fatto indietreggiare
l’acqua perché apparisse la terra asciutta. Nella Bibbia le acque del mare e le tenebre sono considerate elementi negativi che Dio riconduce all’ordine dividendo, separando, vincendole, perché la creazione, la vita e l’uomo possano prendere forma. Dio deve dunque padroneggiare le acque del mare,
ma esse rimangono, secondo l’uomo biblico, una minaccia primordiale. La creazione è presentata
come un passaggio da una situazione indescrivibile, immaginata come vuoto, solitudine oscura, pericolo (noi parliamo del «nulla») a un mondo in cui si può ammirare l’ordine, la sicurezza, la vitalità.
Inoltre non va dimenticato che il mar Rosso costituì il grande ostacolo alla liberazione dall’Egitto
che Dio intendeva concedere al suo popolo: questo mare ha sbarrato il piano della salvezza e Dio ha
dovuto prosciugarlo o tagliarlo in due, permettendo al suo popolo di passare indenne (Es 14,31);
Dio ha vinto le acque al momento dell’ingresso del suo popolo nella terra promessa, facendogli attraversare all’asciutto il fiume Giordano in piena (Gs 3,15). Gli israeliti non cesseranno mai di celebrare la duplice vittoria di Dio sul mare: alla creazione e al momento dell’esodo. Il mare, quindi, per
gli ebrei è causa di paura in quanto mette in contatto con una dimensione di inconoscibilità e di incontrollabilità, fa percepire l’ignoto e il misterioso. Di conseguenza nella Bibbia spesso le acque del
mare sono metafora dell’angoscia: «Mi circondavano i flutti della morte, mi atterrivano torrenti esiziali» (2Sam 22,5; cfr. Sal 18,5); «Salvami, o Dio: l’acqua mi giunge alla gola. Affondo nel fango e
non ho sostegno; sono caduto in acque profonde» (Sal 69,2-3; cfr. Sal 88,18; 91,3; Gb 18,8;
22,10.11; 27,20) o del terrore causato dal nemico: «Per questo, ecco, il Signore gonfierà contro di
loro le acque del fiume, impetuose e abbondanti: cioè il re assiro con tutto il suo splendore, irromperà in tutti i suoi canali e strariperà da tutte le sue sponde» (Is 8,7; cfr. Is 17,12-13; Ger 46,7-8;
47,2; Sal 18,17; 124,4-5). Nella Bibbia le acque del mare sono metafora di tutte quelle forze che attaccano la creazione e l’uomo, che ostacolano il piano divino, che non vogliono che la vita scorra e
l’uomo viva, che odiano la creazione di Dio e la liberazione da lui data e compiuta. A queste forze
noi oggi diamo nomi diversi: il male in tutti i suoi aspetti, il nulla, la morte, l’assurdo, il subcosciente, il pensiero debole che è caratterizzato dal suo amore per una penombra equivoca. Personificando
queste forze avverse nel mare, l’israelita faceva già un atto di fede: sapeva che l’opposizione al piano di Dio, originaria o storica che fosse, era fin dall’inizio destinata a fallire. Dio, infatti, aveva domato le acque primordiali e quelle del mar Rosso.
La tempesta e la reazione di Gesù e dei discepoli (Mc 4,37-38)
Gesù affronta per la prima volta il mare con i suoi discepoli o, forse meglio, il mare attacca Gesù
per impedirgli di far nascere un mondo nuovo nei discepoli e nel territorio pagano verso il quale si
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dirige. L’evangelista ci ha ricordato che è sera e che stanno per scendere le tenebre; al loro sopraggiungere scoppia improvvisa una grande tempesta, la cui potenza e pericolosità sono descritte nei
dettagli: la tempesta è così forte e le onde si scagliano contro la barca con tale violenza che essa minaccia di affondare. Del resto la barca è piuttosto carica, perché in essa ci sono Gesù e i Dodici.
Abbiamo qui una prima sorpresa: i Dodici hanno ascoltato fiduciosamente Gesù, lo hanno preso
con sé, sono con lui, eppure contro di loro si scatena la tempesta. Sembra che per chi crede la vita
dovrebbe essere più serena, più tranquilla e che i problemi, le difficoltà riguardino chi non crede,
chi ha abbandonato la fede, chi vive male, chi non è nella barca con Gesù. Invece proprio i credenti
che hanno preso con sé Gesù sperimentano una grande tempesta. Dio non devia sempre dalla nostra
vita le tempeste, non ci evita i problemi. Quindi essi non sono e non vanno ritenuti per nulla un castigo, mandato da Dio.
Subito il lettore si domanda chi è più forte: la potenza contraria del mare, che vuol mandare a fondo
i discepoli, o Gesù? Riuscirà il mare a fermare Gesù, oppure riuscirà Gesù a vincere il mare? Riuscirà Gesù a vincere anche la paura sorta nei discepoli e a raggiungere con loro la sponda dei pagani? Riusciranno le forze oscure del male a sopraffare la piccola comunità dei discepoli di Gesù? Il
brano oltre a una risposta a queste domande ne suscita soprattutto delle nuove, fatte o dai discepoli a
Gesù o da Gesù ai discepoli o dai discepoli a se stessi, e quindi non è facile la sua interpretazione
Mentre i discepoli attraversavano il mare, si leva una tempesta, probabilmente una vera e propria
tromba d’aria, rapida, potente, che causa una specie di tsunami. possiamo domandarci La tempesta
scoppia quando nell’aria c’è un grande sbalzo termico: è il tentativo di riequilibrare le correnti calde
e quelle fredde. Si può dire che anche fra la mentalità di Gesù e il mondo pagano ci sono, in senso
metaforico, grandi differenze di temperatura e chi passa da una riva all’altra può venire colpito da
una grande tempesta. Solitamente essa nasce come un turbamento interiore, una inquietudine.
Sant’Agostino descrive molto bene questo stato d’animo, quando parla delle difficoltà al momento
della sua conversione: anche se da tempo aveva intuito la verità divina, sentiva che in lui c’erano
molte resistenze per incominciare una vita nuova. La vita non è sempre una bonaccia, una attraversata tranquilla. Esiste il male, esistono le forze avverse dentro e fuori di noi. Talvolta è difficile avanzare, perché siamo circondati da problemi più grandi di noi e ci pare di sprofondare.
Possiamo domandarci quali sono le tempeste della nostra vita. Possono essere difficoltà esistenziali,
personali o familiari (insuccessi, fallimenti, malattie, affari andati male, scelte difficili da fare), possono essere tempeste collettive, oscurità epocali nelle quali si entra come gruppo, come popolo, o
tempeste ideologiche nelle quali c’è un offuscamento dei valori guida, non si sa bene dove si sta andando e non c’è più nemmeno la coscienza di fare male.
I discepoli sono in balia del mare, del vento e stanno per sopraggiungere le tenebre della notte; sono
in balia di tre forze irresistibili e oscure: il mare, il vento, le tenebre. L’impeto del vento sul mare
suscita le onde e queste riempiono d’acqua la barca, provocando la paura nei discepoli. Abbiamo
qui una seconda sorpresa: mentre i discepoli erano agitati per il pericolo di morte, Gesù non è intervenuto subito, ma dormiva imperturbabile. La costruzione perifrastica (stava dormendo) indica la
stanchezza di Gesù e la durata del suo sonno. Egli sembra assente, indifferente, impotente o addirittura ostile nei confronti dei discepoli. La barca doveva avere una certa copertura a poppa e Gesù si è
rannicchiato là sotto, dove le onde si sentono di meno. Dorme su un guanciale, perché è stanco e
non si accorge di nulla. L’unica volta in cui i vangeli dicono esplicitamente che Gesù dorme, lo
fanno in una circostanza in cui, dal nostro punto di vista non avrebbe dovuto abbandonarsi al sonno.
Gesù ha dato ordine di fare questa attraversata e ora dorme in mezzo alla tempesta. Questo sonno
profondo ci sembra un po’ scandaloso: come può dormire così tranquillamente e comodamente e
per di più proprio nel luogo in cui il pilota della barca deve dirigere le manovre? Non siamo lontani
dal paradosso della parabola dell’agricoltore che getta il seme nel terreno; dorma o vegli, il seme
continua a crescere. Il seminatore ha affidato il seme alla terra, Gesù si è affidato alla competenza e
all’impegno dei suoi discepoli.
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Il sonno di Gesù non è quindi semplicemente conseguenza della stanchezza per la sua spossante attività di predicatore, non è condizionato dalla notte che incomincia, ma è espressione della sua sovranità e sicurezza, di dominio della situazione.
Per capire il sonno di Gesù in una barca piena di acqua ci aiuta il confronto con la vicenda di Giona,
che pure scende nella zona più riposta della barca e dorme profondamente in piena tempesta (Gio
1,4-16). Ci sono altri elementi di contatto tra la vicenda di Giona e quella di Gesù: i marinai di Giona da un lato e i discepoli di Gesù dall’altro sono presi da grande paura, si rivolgono con una domanda a colui che dorme e lo svegliano, colui che dorme ottiene la salvezza, i racconti terminano
con il timore nei confronti del Signore. Il racconto di Marco non è però una ripetizione di quello di
Giona, ma nei suoi confronti presenta delle differenze, che permettono di sottolineare le amplificazioni della nuova situazione. Le differenze mostrano il di più in cui ci troviamo.
Queste differenze riguardano da un lato Giona e Gesù, e dall’altro lato i marinai e i discepoli. Giona
è nella stiva per nascondersi, per fuggire di fronte all’ordine del Signore di andare tra i pagani di
Ninive, sa che la tempesta si scatena per causa della sua disobbedienza, dorme perché non vuole ascoltare la voce del Signore e preferisce morire piuttosto che convertirsi e obbedire all’ordine divino; alla fine però nolente o volente diventa profeta che proclama la misericordia di Dio. Gesù invece va di sua iniziativa verso i pagani, dorme perché si fida di Dio, soprattutto non supplica Dio, come fa Giona nella sua lunga preghiera in fondo al mare (Gio 2,3-10), ma placa la tempesta con la
forza della sua parola. Per quanto riguarda i marinai e i discepoli di Gesù, i primi obbediscono agli
ordini del profeta e alla fine credono nella grandezza del Dio di Giona; i discepoli di Gesù si rivolgono a lui, chiamandolo Maestro, lasciando intravedere così la potenza della sua parola, ma non arrivano a credere totalmente in lui e alla domanda di Gesù: «Non avete ancora fede?», rispondono
disorientati con un’altra domanda: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».
Gesù nella barca dorme, perché è tranquillo e sereno come un bimbo svezzato in braccio a sua madre (Sal 3,6; 131,2): dorme perché ha piena fiducia nel Padre, perché non si sente minacciato dalla
tempesta. Gesù dorme per un altro motivo: perché in quel giorno, narrando le parabole ha annunciato il regno di Dio, ha esaurito il suo compito e ormai può fidarsi anche dei suoi discepoli. Il fatto
che egli dorma, che la sua presenza cioè non si faccia sentire, anticipa la situazione che la Chiesa
sperimenta dopo la pasqua. Il racconto si snoda così tra una serie continua di contrasti: tra la burrasca e il sonno di Gesù; tra il suo riposo e l’angoscia dei discepoli; tra l’invocazione con la quale riconoscono la potenza della parola di Gesù e la loro mancanza di fede; tra la tempesta e la bonaccia.
I discepoli sono impauriti di fronte alla potenza del mare, sono stizziti, quasi esasperati davanti al
sonno con il quale Gesù sembra estraniarsi alla loro difficoltà; hanno capito che da soli non sono
capaci di superare il pericolo; volevano agire senza di lui, ma vedono che così vanno alla rovina.
Allora, sentendosi quasi spacciati, lo svegliano bruscamente. Si rivolgono a lui eccitati con una parola di rimprovero, e gli chiedono: «Maestro, non ti importa che moriamo?» (Mc 4,38). È una invocazione rude, quasi disperata, e fa venire in mente quella rivolta da Marta a Gesù (Lc 10,40). Matteo la trasformerà in una preghiera liturgica solenne e accorata: «Salvaci, Signore, siamo perduti!»
(Mt 8,25). Il titolo Maestro (didaskalos) ricorre qui per la prima volta nel vangelo secondo Marco e
sottolinea che i discepoli hanno ascoltato con familiarità la sua parola. Essi, in particolare i quattro
che sono stati chiamati fin dall’inizio della sua attività (Mc 1,16-20), sono stati testimoni di tutto
quanto Gesù aveva detto e fatto. Lo ritenevano uno che insegna con autorità (Mc 1,22.27), uno che
mediante la sua parola manifesta il suo pieno potere sulle malattie e sui demoni. Tutti poi erano stati
chiamati a stare con lui, a partecipare del suo potere e ad annunciare il vangelo (Mc 3,13-19). Inoltre questo brano iniziava sottolineando che siamo in quello stesso giorno in cui Gesù ha narrato le
parabole, incentrate sulla potenza della sua parola. Ai discepoli aveva spiegato a parte, in casa, in
privato, il mistero del regno, annunciato con le parabole (Mc 4,10-12.34). Li aveva invitati a salire
con lui sulla barca per passare all’altra parte del lago (Mc 4,35). Adesso siamo verso sera, nel momento del pericolo, in una situazione nella quale la parola che ha annunciato, dovrebbe esprimere la
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sua potenza vittoriosa. Invece sembra che Gesù non partecipi alla situazione pericolosa che i discepoli stanno vivendo.
I discepoli lo avevano preso con sé, distinguendosi da quelli che erano fuori, facendo con lui un
gruppo, al quale in privato viene spiegata ogni cosa (Mc 4,34). Lo hanno preso così come era, cioè
senza frapporre nessuna esitazione al suo ordine di andare all’altra riva in mezzo ai pagani. Durante
la tempesta lo chiamano Maestro, con chiaro riferimento alla potenza della sua parola, della quale
aveva parlato poco prima nelle parabole. Con questo titolo ricordano a Gesù che loro, in qualche
modo, gli appartengono e soprattutto che riconoscono la potenza della sua parola.
Subito dopo però manifestano che il modo con cui lo svegliano non esprime in realtà una grande fede: pur chiamandolo Maestro, gli rimproverano di non curarsi di loro, lo accusano di disinteresse:
«Non ti importa che siamo perduti?». Gli apostoli sembrano dire: «non solo non ti comprendiamo,
ma non possiamo capire come mai in questa situazione tu continui a dormire». Lo scarto tra ciò che
Gesù prova e ciò che provano i discepoli è enorme. Non chiedono solo un incoraggiamento morale,
ma che dia loro una mano a buttare fuori anche lui l’acqua dalla barca. È normale avere paura di
fronte alla tempesta, ma il loro rimprovero verso Gesù lascia capire che per loro è come se egli fosse altrove, assente; la loro fede in lui è molto minore di quella che i marinai avevano manifestato
verso il Dio di Giona. Dopo il discorso in parabole i discepoli danno a Gesù il titolo adeguato di
Maestro, ma non hanno ancora riconosciuto chi è, e solo quando si conosce la sua identità si può
avere veramente fede in lui. Prima di svegliarlo avevano confidato in se stessi, nelle proprie forze;
quando non vedono altro che la rovina imminente, ricorrono a Gesù, chiamandolo Maestro, ma in
realtà non si fidano della potenza della sua parola e, nel pregarlo, lo rimproverano di disinteresse,
esprimono la loro mancanza di fede, la loro delusione.
Va notato che il rimprovero rivolto a Gesù per la sua mancanza di interesse e di amore non è diretto,
ma è espresso in forma di domanda, è quindi come lasciato in sospeso, diventa, in ultima analisi,
come un invito. Con le loro parole i discepoli sollecitano Gesù a interessarsi di loro, a liberarli dal
pericolo mortale, per non meritarsi quindi da loro quel rimprovero. Le parole dei discepoli dimostrano una certa fede: se svegliano Gesù è perché si attendono da lui cura e protezione. Però se lo
rimproverano è perché interpretano il suo sonno come disinteresse nei loro confronti: hanno dimenticato che «non si addormenta, non prende sonno il custode di Israele» (Sal 121,3-4). In questo salmo «dormire» significa essere inetti, impotenti, inefficienti, interrompere il contatto con la realtà,
non servire più a nulla.
Gesù si desta e placa la tempesta (Mc 4,39)
Gesù accoglie immediatamente l’invito che gli viene rivolto: si risveglia (il testo greco dice: «risorge», si alza cioè dal sonno) e con grande autorità prima agisce, salva i suoi dalla tempesta, poi risponderà loro. Gesù non reagisce subito al rimprovero dei discepoli rivolgendosi a loro, ma prima
pronuncia la sua parola autoritativa e miracolosa contro il vento e il mare, sconfiggendoli. Abbiamo
qui una terza sorpresa: Gesù è più forte del vento e del mare che si sono scatenati contro quella
barca. Si rivolge ad essi come ad esseri viventi e li doma. Al vento dice la sua minaccia: lo sgrida. Il
verbo «minacciare» o «intimare» è stato usato da Marco per indicare gli ordini dati da Gesù agli
spiriti impuri (1,25; 3,12) ed è usato nell’Antico Testamento per indicare il rimprovero di autorità
che Dio fa alle potenze negative (Sal 9,6; 67,31; 105,9; 118,21). Nel brano si parla quattro volte del
vento (vv. 37.39.39.41): il vento è visto qui come una grande forza contraria a Dio. Al mare ordina
di tacere e di calmarsi, cioè di fare silenzio, zittire e di restare zitto (il verbo pephimoso è al perfetto): trattandolo come un essere demoniaco, nemico dell’uomo, gli dà l’interdizione di prolungare la
sua pericolosità. Questo ordine di Gesù è una specie di esorcismo contro il potere del male e allude
a due scene accadute in una sinagoga. Il primo membro dell’ordine, il silenzio, ricorda il silenzio
ostile al quale erano stati ridotti i farisei di fronte alla domanda di Gesù sul precetto del sabato (Mc
3,5). Il secondo membro dell’ordine, il calmarsi, lo stare zitto, è simile all’ordine che Gesù aveva
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dato allo spirito immondo nella sinagoga di Cafarnao (Mc 1,25). Gesù comanda al vento come a un
demonio e apostrofa direttamente il mare come un soggetto personale.
Le potenze della natura obbediscono alla parola di Gesù: il vento cessò, cadde come stremato dalla
lotta e si fece calma grande. L’aggettivo «grande», messo alla fine, sottolinea il cambiamento radicale. Il subentrare della tranquillità è in netto contrasto con il levarsi della tempesta. Nella descrizione della cessazione del vento e della bonaccia del mare ricorre il motivo del potere assoluto di
Dio sulle onde, sulla tempesta e sul mare, ripetutamente descritto e celebrato nell’Antico Testamento. In esso domina l’idea che Dio salva dall’angustia: «Tu domini l’orgoglio del mare, tu plachi il
tumulto dei suoi flutti» (Sal 89,10; cf. Sal 107,29-30; Sal 65,8; Is 40,12; 51,15; Ger 31,35; Am 5,8;
9,6; Gb 12,15), ma c’è anche l’immagine della lotta di Dio contro le potenze del caos: «Tu con potenza hai diviso il mare, hai schiacciato la testa dei draghi sulle acque» (Sal 74,13; cfr. Sal 89,10.11;
104,6-9; Gb 26,12-13; 38,8-10). L’autorità riconosciuta a Dio nell’Antico Testamento viene ora esercitata da Gesù: egli non fa accadere il prodigio per mezzo di una preghiera, ma per la pienezza
del suo potere. Egli mostra così la sua condizione di Uomo-Dio.
A leggere bene il miracolo, si scopre che esso è compiuto non tanto per trarre d’impiccio i discepoli, quanto per mostrare loro che avere paura, quando Gesù è presente, è del tutto fuori posto. Gesù
non ha a cuore principalmente il rivolgimento del mondo di quaggiù, ma piuttosto l’educazione fatta ai discepoli a rendersi attenti alla sua presenza misteriosa sì, ma reale. «Risveglia Cristo in te,
scuoti la tua fede… e si farà grande bonaccia» (s. Agostino). È il mondo interiore dei discepoli che
deve cambiare da quando nella barca è salito Gesù. Dopo che egli è salito nella barca, chi pensa che
egli dorma o taccia deve ancora imparare a credere. Gesù è presente e agisce non per cambiare prima di tutto le strutture, ma per cambiare il cuore dell’uomo. Questo viene precisato nelle domande
successive di Gesù ai suoi discepoli.
Gesù rimprovera i discepoli (Mc 4,40)
I discepoli hanno fatto bene a confidare nel suo aiuto, a svegliarlo per ottenere salvezza. Ma la fine
della tempesta non coincide con la fine della narrazione. Gesù ricorre alla sua autorità di maestro
nei confronti dei discepoli e a questo punto chiede ragione del loro comportamento, li fa riflettere
sul loro stato d’animo, rivolgendo loro a sua volta un rimprovero con una duplice domanda: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (Mc 4,40). Abbiamo qui una quarta sorpresa: il rimprovero di Gesù stupisce, ci pare strano: non ha senso chiedere a persone in pericolo perché abbiano
paura. In che cosa hanno sbagliato? Non hanno agito bene, quando nella necessità si sono rivolti al
Maestro? L’aspetto strano del rimprovero viene aumentato se si nota che Gesù si rivolge ai discepoli non con una affermazione («Siete stati presi dal panico, perché non avevate ancora fede»), ma con
una duplice domanda: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Va però notato il tempo presente dei due verbi: la paura, la codardia dei discepoli non consiste semplicemente nella reazione di
timore di fronte alla tempesta perché, anche dopo che è passato il pericolo, la paura continua a essere presente; nonostante l’esperienza appena vissuta, essi sono ancora pieni di paura (alla lettera: sono «vili», «codardi»), perché non hanno ancora fede, perché non riconoscono ancora Gesù e la sua
potenza, non conoscono che il programma della sua missione è unicamente risanare e salvare la vita
degli uomini, non sono capaci di fidarsi di Dio Padre, come sta facendo continuamente lui. Gesù lascia capire che per loro la fede sarà un continuo cammino. In tal modo Gesù considera la paura dei
discepoli non come una fragilità psicologica, ma come un cedimento nella fede; stabilisce che c’è
una stretta relazione tra la loro paura e la loro mancanza di fede, suggerisce di cercare quale è la
causa della paura e lascia ai discepoli, cioè a noi, il compito di precisare il rapporto tra paura e fede.
La lezione che Gesù dà ai discepoli è abbastanza ruvida. Prima dorme, poi placa il vento e il mare,
infine risponde alla domanda dei discepoli facendo loro due domande provocatorie. Tante volte
pensiamo che Gesù sia un fornitore obbligato e inesauribile di risposte alle nostre domande. Invece
nei vangeli pone continuamente domande agli uomini. Non quelle domande artificiali che noi talvolta facciamo nei dibattiti, ma le domande vere, che pongono la questione fondamentale, quella
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che vorremmo evitare. Gesù è uno che ascolta. Sua prerogativa però è anche porre le domande più
impegnative.
Chiedendo: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?», Gesù invita i discepoli a precisare la loro posizione, indica quale rotta deve prendere la loro fede, quale atteggiamento devono prendere nei
suoi confronti. La paura dei discepoli può sembrare quella degli stolti che non credono in Dio e non
si affidano a lui. Se avessero avuto una fede piena, si sarebbero affidati a Dio e non avrebbero temuto per la loro vita. La fede avrebbe dovuto consentire loro di superare con sufficiente serenità i propri limiti; del resto Gesù, dormendo, ha manifestato la sua piena confidenza nella bontà e nella cura
di Dio per le sue creature (Sal 3,6; 4,9; Pr 3,24; Gb 11,18-19). In parte si può dire che questa è la situazione dei discepoli: sono avvolti dalla paura perché non hanno ancora una fede piena.
Ma questa interpretazione non è del tutto esatta, perché è incompleta: non si può equiparare il comportamento dei discepoli a quello degli stolti che non hanno fede. I discepoli hanno già avuto una
comunione di vita abbastanza lunga con Gesù. Nel momento del pericolo ricorrono a lui, si affidano
a lui. Quindi hanno ancora fede in lui. Ma nel rivolgersi a lui, pur chiamandolo Maestro, quasi lo
accusano: il suo dormire li ha sorpresi, come se fosse disinteressato nei loro confronti. Sanno che
Gesù è il Maestro, ma li sorprende il modo con cui si cura di loro. Non sono stati capaci di accettare
la sorpresa del suo comportamento. Pensano solamente a se stessi e non sono stati capaci di condividere il pericolo con Gesù. La situazione si ripeterà all’annuncio della passione (Mc 8,32; 10,32) e
nella loro fuga davanti alla croce (Mc 14,50). La mancanza di fede incomincia quando il credente
per paura non è più capace di affrontare e superare il pericolo unito a Gesù e agli altri fratelli. Non
sono giunti a una fede che non si scandalizza, non si vergogna del modo di pensare e di comportarsi
di Gesù e quindi di Dio (Mc 8,38). Non sono giunti a una fede che li renda disponibili al Maestro
anche quando non li gratifica, soddisfacendo immediatamente le loro attese. Non sono ancora giunti
a questa fede. Gesù fa capire loro che non basta svegliarlo, quando non si sa più dove sbattere la testa. Occorre che credano in lui, anche quando sembra assente e inattivo. Quindi in un certo senso si
può dire che i discepoli hanno fatto un cammino di fede con Gesù, testimoniato dalla loro preghiera,
ma nello stesso tempo pregano come se non avessero una vera fede in lui.
I discepoli hanno paura di fidarsi di Gesù fino in fondo. Prima di allora non avevano sperimentato la
paura. Avevano detto «sì» al Signore, mettendosi fra i suoi uditori; avevano detto «sì», quando aveva loro proposto di seguirlo, ma quel «sì» non era radicato profondamente ed era necessario che
fosse vagliato dalla tribolazione. Ogni «sì» della vita che vuole essere serio («sì» a Gesù, alla moglie, al marito, a un impegno coraggioso) deve saper passare attraverso la prova, la fatica, la solitudine, l’incomprensione degli altri. La paura, se è coltivata, diventa un chiudersi in se stessi, dicendo:
«non ce la faccio più», e questo è un atteggiamento grave, connesso con l’incredulità, perché la fede
di sua natura scaccia la paura. L’incredulità è l’inadeguata comprensione della storia nascosta del
regno di Dio, descritta nelle parabole. Il regno di Dio c’è, ma molte volte non lo si vede; Gesù dorme, ma è là e non c’è da temere, se ci si è affidati a lui. Chi non comprende la storia nascosta del
regno di Dio, non comprende neanche il cammino di Gesù verso la croce, come accadde a Pietro:
non comprende che Dio è con noi in tutti i momenti misteriosi e difficili della nostra esistenza.
Il tema della paura è caro a Marco: la donna emorroissa si getterà ai piedi di Gesù impaurita e tremante (Mc 5,33); i discepoli avranno paura quando rimarranno sorpresi dal modo con cui Gesù, che
prima li aveva lasciati soli, si farà loro vicino, camminando sull’acqua (Mc 6,49-50); avranno paura
di interrogare Gesù, sorpresi dall’annuncio della sua morte e risurrezione (Mc 9,32; 10,32). Prima
del suo arresto Gesù stesso sarà preso dalla paura e dall’angoscia, si affiderà alla volontà del Padre;
i discepoli, invece, reagiranno dormendo, mentre il Maestro veglia (Mc 14,32-42), abbandonandolo
al momento dell’arresto (Mc 14,50), rinnegandolo quando viene interrogato (Mc 14,66-72). Le
donne rimarranno impaurite all’annuncio dell’angelo il mattino di pasqua (Mc 16,8).
Quella dei discepoli non è la paura dello stolto che non crede in Dio e perciò è esposto all’angoscia,
ma è la paura dell’uomo religioso che attende l’intervento di Dio ed è preso dal panico, perché Dio
delude le sue aspettative, la sua attesa di salvezza. Le parabole del seme hanno illustrato ampiamen35
te la forza e nello stesso tempo la debolezza di Dio. Credere è proprio conservare la fiducia anche in
mezzo alla pochezza dei risultati, in mezzo alla tempesta. La fede non preserva il credente dalla paura: come tutti egli sperimenta la fragilità della sua natura e le minacce di morte alle quali è continuamente esposto. Non l’insorgere spontaneo della paura è segno della mancanza di fede, ma è il
modo di reagire alle difficoltà che rivela la fragilità della loro fede; non è il panico provocato dalla
tempesta, ma è l’accusa di disinteresse, mossa a Gesù, a dimostrare che i discepoli non sono ancora
pienamente credenti.
Reazione e commento dei discepoli (Mc 4,41)
L’episodio non è finito, ma termina con la reazione dei discepoli. Di fronte al miracolo improvviso
della tempesta calmata e di fronte al rimprovero fatto dal Maestro con due domande, i discepoli non
danno una risposta. La loro reazione non è di adesione o di avvicinamento a Gesù, ma di terrore, di
grande paura. Prima hanno paura della tempesta e accusano il Maestro; ora hanno paura di Gesù che
li ha salvati dalla tempesta e si interrogano sulla sua identità. Non hanno capito né il loro errore, né
l’amore potente di Gesù. Egli li ha rimproverati con le sue due domande, ma loro non gli chiedono
aiuto per credere. Al contrario si ripiegano su se stessi, perché sono invasi da un nuovo timore, e incominciano a parlare ripetutamente tra di loro, nuovamente in forma interrogativa. Hanno sperimentato la vicinanza divina, la manifestazione divina e questa manifestazione fa nascere una nuova paura. La paura ha molte facce, ha molte fogge.
Che relazione c’è tra la paura che hanno sperimentato durante la tempesta e quella che sperimentano dopo il miracolo fatto da Gesù? La paura può essere provocata da cause diverse tra loro: può essere una reazione alla minaccia del mare in burrasca, ma può essere anche una reazione alla stessa
azione salvifica di Gesù, alla manifestazione della sua grandezza. La paura della tempesta, della
morte si è trasformata in paura di fronte al divino. Tale trasformazione si ritrova in altri eventi biblici. Prima del passaggio del mar Rosso gli israeliti furono assaliti dalla paura, quando videro gli egiziani al loro inseguimento (Es 14,10); dopo l’intervento prodigioso di Dio, la narrazione si conclude
così: «Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l’Egitto e il popolo
temette il Signore e credette in lui e nel suo servo Mosè» (Es 14,31). Nel libro di Giona si dice che i
marinai hanno avuto paura di fronte al pericolo mortale (Gio 1,5); quando Giona viene gettato in
mare e ritorna la calma, nei marinai domina ancora la paura: «E gli uomini ebbero grande timore del
Signore» (Gio 1,16). Anche dopo l’intervento di Dio si continua a parlare di paura, perché
l’incontro con il trascendente è un incontro con il mistero e l’uomo è sempre spaventato da ciò che
non conosce. Si prova paura di fronte alla minaccia di morte e si prova paura di fronte all’intervento
liberatore di Dio.
Le due forme di paura sono diverse: la seconda indica una relazione, una intimità, o almeno una vicinanza con il Trascendente, indica il timore reverenziale di chi avverte di essere davanti a un mistero che lo supera. L’esperienza del timore in questo caso non è un fattore negativo, ma costituisce
uno stimolo per un approfondimento del rapporto con Dio, ricorda al credente che l’oggetto della
sua fede resta in definitiva sempre al di là delle sue possibilità di comprensione. Questo timore di
solito porta a comportamenti positivi: ad affidarsi a Dio (Es 14,31), a lodarlo (Es 15), a offrirgli un
sacrificio di ringraziamento (Gio 1,16), ad avere fiducia nella sua tenerezza.
Nel brano di Marco, invece, la paura di fronte al miracolo compiuto da Gesù non porta immediatamente a una fede più esplicita, ma fa nascere una nuova domanda prolungata (il verbo «si dicevano» è all’imperfetto): «Chi è dunque costui, che anche il mare e il vento gli obbediscono?» (Mc
4,41). Non approfondiscono la domanda di Gesù riguardante la loro fede, ma si chiedono ripetutamente chi è «costui». Probabilmente il pronome «costui» lascia intuire che vi è ancora una certa estraneità tra i discepoli e il Maestro. Per loro Gesù è un personaggio misterioso che dispiega una potenza che non conoscevano e che non avevano sperato. Avevano portato con sé il Maestro e si ritrovano con un Gesù che non sanno inquadrare bene. Costatano che il vento e il mare gli obbediscono,
si rendono conto cioè della potenza strettamente divina che Gesù ha dimostrato, ma non hanno il
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coraggio di dedurre che se agisce come Dio egli è il Figlio di Dio, è Dio presente sulla terra, in
mezzo a loro. Non aprono del tutto gli occhi alla nuova rivelazione. Hanno paura di una fede piena,
di vivere alla presenza di Dio, senza però poterlo possedere. La loro fede non è ancora capacità di
affidamento effettivo e affettivo. Sono ancora come un terreno sul quale il seme della parola fa fatica ad attecchire. Però hanno capito una cosa: che solo la conoscenza di Gesù permette una vera relazione con lui e libera dalla paura di vivere e da quella di morire.
Il racconto termina con questo interrogativo, motivato dalla modalità con cui si è realizzata la salvezza dei discepoli di Gesù. Finora pensavano che solo Dio può impartire ordini al vento e al mare,
e invece il vento e il mare hanno obbedito al loro Maestro, a quello che poco prima durante la tempesta dormiva tranquillo. Ciò che li impaurisce è la misteriosa relazione tra il Trascendente e Gesù
al quale si erano rivolti con una certa familiarità, anzi addirittura bruscamente. Sono presi da paura,
perché di fronte a quel miracolo sentono di dover concludere, con la confessione della Chiesa delle
origini, che «Gesù è Signore» (1Cor 12,3). L’uomo che dormiva in mezzo a loro è il Signore. L’uso
del verbo conclusivo «obbediscono» al presente accentua la realtà attuale del potere di Cristo nella
Chiesa di fronte a ogni tribolazione.
La tempesta aveva provocato paura, perché il Maestro dormiva; il miracolo provoca paura, perché il
Maestro è capace di comandare al vento e al mare. In tutti e due i casi è la «sorpresa cristologica»,
la sorpresa di chi è Gesù e di come si comporta a causare la paura. Nel primo caso la paura diventa
un rimprovero rivolto al Maestro e questo rimprovero a sua volta provoca la reazione di Gesù: «Non
avete ancora fede?». Durante la tempesta i discepoli erano assillati dallo spavento, perché non avevano ancora fede sufficiente: se Gesù è il Maestro, perché il mare rumoreggia e deve essere calmato? Se è il Signore, perché prima deve morire e poi risorgere, perché il mare della morte deve inghiottirlo e poi può risorgere? Perché non può evitare per sé e per noi la morte? A sua volta il miracolo fa nascere una nuova paura che si esprime nell’interrogativo sul’identità del Maestro: «Chi è
dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?», «Chi è dunque costui, che è risuscitato dai morti?». Questa seconda paura indica che l’evento di salvezza ci porta a un continuo «oltre»: l’evento pasquale nel quale Dio si rivela oltrepasserà sempre la fede del discepolo.
La salvezza dalla tempesta avrebbe dovuto provocare in loro gioia e riconoscenza, invece provoca
una nuova paura. Dopo il miracolo nei discepoli la paura nasce da una seria percezione dei valori
che sono in campo nel loro rapporto con Gesù e nella propria esistenza di fede. Questa paura è un
sentimento che incontra e vive chiunque faccia un cammino entro la fede. Come percepire, ad esempio, che è una immensa grazia la possibilità di rivolgerci filialmente a Dio, se contemporaneamente non percepiamo anche il tremendum del mistero divino e del poter avvicinarci ad esso? E
come restare vigilanti verso il senso dell’enorme dignità che abbiamo, come alleati di Dio, senza
contemporaneamente avvertire la nostra altrettanto enorme responsabilità e, in essa, l’enorme forza
negativa dei nostri limiti e dei nostri peccati?
Anche alla fine del vangelo, quando le donne andate al sepolcro si sentiranno rivolgere l’annuncio
della risurrezione (Mc 16,8), la loro sarà una reazione di paura: essa è la necessaria reazione
dell’uomo davanti al punto di vista di Dio manifestato pienamente nell’evento pasquale. La paura
può quindi avere un ruolo positivo nei confronti della fede non solo in quanto esprime la reazione
dell’uomo cosciente di trovarsi di fronte al trascendente e quindi all’ignoto, ma anche perché essa
sottolinea la presa di coscienza dello scarto che vi è tra la irruzione di Dio nella storia di Gesù e la
capacità di comprendere del discepolo, la sua disponibilità di fede. Se l’uomo di fronte a tale scarto
non cede all’accusa, ma si apre all’interrogativo, la paura da lui vissuta è occasione di crescita.
La risposta all’interrogativo dei discepoli non è registrata in questo racconto. La domanda
sull’identità di Gesù attraversa e struttura tutto il vangelo secondo Marco (1,27; 2,7; 4,41; 6,2-3.1415; 8,27-29; 14,61; 15,2). I discepoli sono chiamati a un lungo cammino per giungere a focalizzare
il mistero dell’identità del Maestro e a sconfiggere così il loro timore. In questa fatica essi appaiono
spesso come perdenti o increduli (Mc 6,52; 7,18; 8,17-21; 9,6.10.29.32; 10,32.35; 14,10.27.2931.32-41.43-45.50.66-72). L’apparente riuscita della risposta di Pietro: «Tu sei il Cristo» (Mc 8,29)
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è momentanea e poi viene smentita da una incomprensione ancora più grave (Mc 8,32-33). Ciò sottolinea che il discepolo deve operare un continuo riadattamento delle sue attese e della sua fede.
Questo cammino sarà portato a termine dal centurione. Egli è capace di vedere nella morte di Gesù
un Dio che discende nell’abisso di un uomo solo e abbandonato, intuisce che anche le tenebre rientrano in un piano e hanno un senso, quando sono abitate dal Dio vivente. Il centurione vede con accuratezza ciò che realmente accade e risponde alla morte di Gesù riconoscendo la sua vera identità:
«avendolo visto spirare in quel modo, disse: Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39).
Secondo Marco, quindi, per conoscere e per proclamare chi è Gesù non bisogna avere troppa fretta:
occorre mettersi ai piedi della croce accettare lo scandalo della sua croce. Se non si accetta anche la
sua croce, ci si illude di aver compreso Gesù e di poterlo annunciare agli altri.
Anche il credente, che è confortato dalla luce pasquale, non è dispensato dal costante confronto con
il punto di vista di Dio, rivelato da Gesù; la paura è il segno che accompagna tale confronto, perché
esso assume i tratti di una ricerca sconcertante. Si tratta infatti di credere a un Maestro, Figlio di Dio, sovrano della creazione, che si rivela in una storia: in quella della vita stessa di Gesù, ma anche in
quella dell’esperienza personale del credente e della comunità. Questa storia è intessuta di silenzi, di
apparenti contraddizioni: il Cristo pasquale, cioè il Cristo che comanda al vento e al mare, è il Gesù
terreno, cioè il Maestro che dorme. È facile credere in Dio, in Gesù, quando siamo colmati di gratificazioni e consolazioni. Ma credere in un Dio che tace, in un Gesù che dorme, che sembra assente,
non è facile. Il silenzio di Dio ha sempre pesato sul credente; la domanda «Dov’è il tuo Dio? Dov’è
il mio Dio» nasce da molteplici situazioni di sofferenza: malattia, drammi familiari, ingiustizie e
oppressioni nel mondo, dolore degli innocenti, situazione della Chiesa. Il silenzio di Dio e il suo
comportarsi oltre i nostri schemi diventano talvolta il martirio del credente. Il silenzio di Dio è il
fatto più difficile nella storia dell’uomo. Il silenzio di Dio suscita in noi disappunto e paura. Per
giungere alla fede pasquale il discepolo è chiamato a diventare uno che sa convivere con la paura,
un «esperto» nella paura, fino a quando non potrà dare una risposta completa e definitiva alla domanda «Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?» (Mc 4,41).
Dopo il miracolo, i discepoli sentono la potenza di Gesù quasi come una minaccia. L’intervento
immediato di Gesù doveva rendere evidente come l’amore di Gesù li aveva salvati dal pericolo, ma
essi non capiscono questo amore, né vedono in lui il Salvatore: vedono in lui solo il potente che può
comandare, imporsi e castigare. Per loro la teofania che hanno percepito non rivela l’amore Gesù,
ma solo il suo potere e ne provano grande timore. La fede consiste nel credere che Dio, che Gesù
ama e perciò salva; la paura consiste nel credere soltanto che egli è capace di comandare, di imporsi
e di punire quanti non gli vogliono obbedire. Ognuno è chiamato a compiere il cammino non sempre facile che porta dalla paura di fronte a Dio alla fede in lui, ricordando quanto scrisse P. Tillich:
«L’uomo che non ha mai tentato di fuggire, non ha mai sperimentato il Dio che è veramente Dio».
«Ciascuno di noi ha in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, che si interrogano a
vicenda, che rimandano continuamente domande pungenti e inquietanti l’uno all’altro» (C.M. Martini). Molte domande del non credente non sono estranee al cuore del credente. Solo dando voce con
pazienza e con metodo a queste due voci si può raggiungere la maturità umana e cristiana. Il credente è così invitato a interrogarsi sulla parte di incredulità che scopre in se stesso e ad accettare quindi
una grande solidarietà con chi si dichiara non credente. Dobbiamo accettare la debolezza e la fragilità della nostra fede, che non sono una vergogna. La religione e la fede, infatti, non sono fatte soltanto da una somma di risposte già date, di certezze assolute e declamate, ma anche da una continua
ricerca di cui ognuno di noi è responsabile. In noi abita l’incomprensibile; l’enigma è costitutivo del
nostro essere; ragioni non evangelizzate, abissi di incredulità sono nel nostro più profondo. Ci sono
attorno a noi e in noi delle acque tempestose in cui sprofondiamo, se non invochiamo colui che può
calmarle. Inoltre troppe volte pensiamo che Dio è conosciuto, è scontato, mentre invece dobbiamo
sentire sempre la sua novità, capace di trasformare la nostra vita, la nostra quotidianità, la nostra
routine. Se Dio è veramente l’immenso, l’infinito, perfino quando arriveremo alla casa del Padre
potremo dire in qualche modo che Dio sarà sempre nuovo, non del tutto conosciuto. La nostra fede
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è sempre esigua e quando vogliamo accrescerla non ci resta che la invocazione al Dio che è semper
maior e perciò anche semper novus, sempre più grande ed anche sempre nuovo.
Le altre barche
Resta un ultimo tratto da decifrare, una quinta sorpresa in questo racconto: la presenza delle molte
altre barche, che sono nominate all’inizio e poi sono, per così dire, dimenticate. Diversi sono stati i
tentativi di spiegare questo particolare, ritenuto addirittura inutile da alcuni esegeti, residuo di uno
stadio del racconto precedente al suo inserimento nel vangelo secondo Marco. Non è però molto logico conservare un particolare di un racconto, senza poi attribuirgli alcun significato. Altri ritengono che queste barche sono nominate solo per sottolineare che gli apostoli si staccano da esse e vogliono tenere Gesù solo per sé, vogliono quasi impossessarsi di lui.
Probabilmente la presenza di queste barche ha un significato più profondo. Il lettore intuisce che naturalmente anche le persone che sono su queste barche sono sul lago e hanno fatto esperienza sia
della tempesta come della sua cessazione improvvisa. Queste persone non sono così bene informate,
come quelle che sono sulla barca di Gesù o come il lettore del racconto, non sanno chi è Gesù, quale forza ha la potenza di Gesù, ma sperimentano e mostrano però che l’intervento salvifico di Gesù
opera anche su di loro, testimoniano che egli ha un ruolo universale nella storia. Anche chi non sa
esattamente chi è lui, che cosa succede nella sua barca, come sono la fede e la preghiera di quelli
che si trovano in quella barca con Gesù, anche chi non lo vede, chi non lo può svegliare, chi non
conosce la sua potenza, coglie tutti i benefici del suo intervento. Gesù fa giungere a riva la sua barca
e anche le altre barche. Ciò che Gesù opera per la sua barca, riguarda pure per le altre barche, anche
se non lo portano direttamente con sé, anche se non hanno potuto notare che la cessazione della
tempesta viene direttamente da lui. Tutta la storia, anche quella esterna alla barca di Gesù, è inclusa
nella sua opera salvifica. La salvezza viene da Gesù e questo vale per quelli che lo sanno e per quelli che non lo sanno, per quelli che sono immediatamente con lui e per tutti quelli che in altre barche
solcano il mare della storia. È questa la quinta sorpresa di questo racconto.
Il racconto secondo Matteo (Mt 8,23-27)
Nel vangelo secondo Matteo anzitutto è diverso il contesto anteriore a questo fatto. Non precede il
racconto in parabole (Mt 13,1-54), ma il discorso della montagna (Mt 5-7). Il racconto poi è inserito
nella raccolta dei dieci miracoli mediante i quali Gesù, dopo essersi mostrato potente in parole, appare potente nelle opere (Mt 8,1-9,34). I primi tre miracoli erano stati coronati da una citazione
scritturale (Mt 8,17). La seconda serie di tre miracoli è caratterizzata dal tema della sequela di Gesù.
Essa è evidenziata dai termini «andarsene» (Mt 8,18.19.21); «discepoli» (Mt 8,21-23); «seguire»
(Mt 8,22-23) e dal fatto che questa raccolta è preceduta e seguita da racconti di chiamate: in Mt
8,19-21 Gesù presenta le esigenze della vocazione e in Mt 9,9-13 viene narrata la chiamata di Matteo. I miracoli sono quindi atti di una persona la cui parola ha autorità sia sui cuori che si donano a
lei, sia sulle potenze ostili. Nell’assalto del mare scatenato l’evangelista mostra come i discepoli devono approfondire l’impegno di seguire Gesù. Per divenire discepoli scoprono che bisogna seguire
Gesù incondizionatamente, ovunque vada, in qualsiasi circostanza si trovi. In questo episodio la
comunità cristiana viene invitata a seguire Gesù più da vicino, senza paura. L’inserimento prima del
miracolo dei versetti sulla sequela di Gesù e l’aggiunta della vocazione di Levi dopo la serie dei miracoli mette in risalto il carattere ecclesiale della pericope.
In secondo luogo Matteo apporta anche delle modifiche al racconto del miracolo. All’inizio
dell’episodio egli centra la sua attenzione non sulla tempesta, ma sulla barca in difficoltà, che viene
ricoperta dalle onde (Mt 8,24). Alla fine dell’episodio non sono più i discepoli che rimangono ammirati, ma gli uomini, la gente (Mt 8,27). Questo termine in Matteo designa i non credenti, la gente
di questo mondo, i lontani da Dio (Mt 4,19; 5,13.16.19; 10,17.32.33; 16,13.23). Poi Matteo spoglia
tutta la scena dei suoi caratteri pittoreschi (non nomina il cuscino a poppa, il turbine del vento, le
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onde sopra la barca) e le dà un tono solenne, ieratico. Il grido di aiuto è rivolto al Signore, cioè a
Gesù ormai glorificato: «Salvaci, Signore, siamo perduti!» (Mt 8,25), ed erompe da una barca scossa da un seismòs, da un sisma di colorazione escatologica (il termine ritorna in Mt 24,7; 27,54;
28,2). Gesù rimprovera i discepoli non perché non hanno ancora fede, ma perché hanno poca fede.
Il racconto di Matteo può essere suddiviso in sette scene, al centro delle quali vi è il rimprovero di
Gesù per la poca fede: a) la tempesta; b) Gesù che dorme; c) il grido di aiuto; d) il rimprovero per la
poca fede; e) la minaccia al mare; f) la calma del mare; g) lo stupore ammirato della gente. Tutto
l’episodio è comandato dal tema della oligopistìa, della poca fede, termine caro a Matteo. Ogni volta che i discepoli entrano in causa, manifestano la loro poca fede (Mt 6,30; 8,26; 14,31; 16,8;
17,20). In tutti questi testi ci sono sempre tre elementi fondamentali: un pericolo superiore alle forze
umane; Gesù è percepito come assente; i discepoli reagiscono come chi si sente abbandonato. I discepoli sono ormai la comunità postpasquale che sa chi è Gesù, lo invoca in modo solenne, quasi
liturgico: le loro parole sono il grido della Chiesa al suo Signore e Salvatore.
La fede è riconosciuta grande da Gesù solo in coloro che compaiono un istante sulla sua strada e poi
spariscono subito, come il centurione (Mt 8,10), quelli che portano il paralitico (Mt 9,2),
l’emorroissa (Mt 9,22), la cananea (Mt 15,28). I discepoli che comprendono (a differenza di quanto
avviene nel vangelo secondo Marco) e che riconoscono in Gesù il Figlio di Dio, credono, ma la loro
fede è poca, rimane loro da viverla. I loro atti non corrispondono a quanto la bocca professa, basta
una difficoltà e mancano di fiducia. In Marco non hanno fede in quanto rappresentano la comunità
prepasquale; in Matteo la loro fede è poca e questo è doloroso nella comunità postpasquale che segue Gesù. Fede e paura, fede e incredulità si annidano nel cuore del credente, del discepolo. Il discepolo ha poca fede perché non vive secondo la luce che la sua fede gli dà. Praticamente le due
prospettive di Marco e di Matteo finiscono così per congiungersi. Marco fa passare i discepoli
dall’incredulità alla fede pasquale; Matteo educa la fede postpasquale per renderla pienamente viva.
Significativo è anche lo spostamento del rimprovero di Gesù ai discepoli: non avviene dopo aver
placato la tempesta, ma prima, come sovrapponendosi al fragore delle onde. Forse perché nella esperienza ecclesiale non c’è mai un «dopo la tempesta», oppure perché più che un rimprovero vuole
essere un invito a non aver paura proprio mentre la tempesta ancora infuria.
La lezione di Matteo alla comunità rimane sempre attuale: gli uomini di tutti i tempi che leggono il
racconto sono invitati a porsi nel cammino che li impegna al seguito di Gesù; devono resistere
all’incredulità che può minacciare la loro fede; avendo scoperto chi è Gesù, sono trascinati con lui
nel mistero della totale fiducia in Dio.
Matteo incentra il racconto sulla Chiesa, imbarcata con il suo Signore, e gli conferisce una maggiore unità e una più evidente attualità. I credenti di tutti i tempi possono facilmente riconoscervi la
condizione itinerante della loro fede che, minacciata dalla incredulità al momento del pericolo, deve
allora superare la tentazione di mancanza di fiducia nel Signore Gesù: l’imminenza del pericolo non
significa che egli cessi di essere presente nella sua Chiesa durante il tempo della traversata. Imbarcarsi con Gesù nella barca che è la Chiesa significa subire l’assalto delle potenze malefiche, accettare il rischio della tempesta e della morte, ma nella certezza che con Gesù, nella Chiesa, la traversata
conduce alla meta, alla terraferma, alla patria. Nulla vi è da temere nella traversata, costituita dalla
nostra vita e dalla nostra storia, poiché è con noi con Colui che ha vinto il mondo (Gv 16,33).
Il racconto secondo Luca (Lc 8,22-25)
In Luca il racconto della tempesta calmata non conclude direttamente la giornata delle parabole,
come in Marco, ma è collegato più direttamente con la pericope precedente sulla vera parentela di
Gesù: è questa sua famiglia che ora segue il maestro e fa esperienza della tempesta. Nessun’altra
barca accompagna quella che porta Gesù e i suoi discepoli, quindi la manifestazione di Gesù è riservata a quelli che costituiscono la sua famiglia. L’attraversata non avviene più la sera di quel
giorno, ma in uno di quei giorni, quindi il sonno di Gesù non più visto come la logica conseguenza
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della sua stanchezza, ma prende valore in sé. Può essere segno anticipatore della sua grande sovranità sulla natura oppure può rassicurare la Chiesa sulla presenza di Gesù, anche se sembra assente
durante le bufere che deve superare sulla terra. L’attraversata non ha per nulla lo scopo di sottrarre
Gesù alla folla o di concedere al Maestro un necessario riposo, ma ha chiaramente lo scopo di compiere un viaggio di missione tra i pagani.
Luca manifesta la sua tendenza a smussare la durezza di parole troppo rudi: i discepoli svegliano
Gesù, ma lo fanno con rispetto. Anzitutto si avvicinano a lui con atteggiamento quasi liturgico, lo
chiamano due volte col titolo Maestro, nel senso di capo (epistates), ma senza rimproverarlo, e gli
fanno presente che stanno per perire. La loro invocazione è il prolungamento di tanti appelli presenti nei salmi (Sal 107,28-29). Gesù manifesta il potere di realizzare la calma, poi non rimprovera i
discepoli perché non hanno fede, ma domanda dov’è la loro fede. Uno degli scopi dell’attraversata è
far fare ai suoi discepoli una prova della loro fede. Essi possono basare la loro fede su un Maestro
che ha il potere di Dio e che è sempre presente in mezzo a loro. Il pericolo offre loro l’occasione per
provare la loro fede e per confermare la loro fiducia nella potenza divina di Gesù. L’altro scopo del
viaggio è approdare alla riva opposta ala Galilea, quella dei geraseni, come dice l’inizio della pericope successiva (Lc 8,26). Va notato che è l’unica volta nel terzo vangelo che Gesù si reca in terra
pagana. Il viaggio diventa quindi l’anticipo della grande missione narrata nel libro degli Atti.
Luca conserva ancora il primitivo orientamento del racconto, presente in Marco, ma lo attenua, omettendo la parola «grande»: parla della paura e dello stupore dei discepoli, che esprimono così la
costante reazione dell’uomo, quando è posto davanti a un intervento divino, e che si domandano chi
è costui che manifesta una sovranità pari a quella di Dio.
Per l’approfondimento
1. Il tema centrale del brano è il superamento della paura e perciò può essere intitolato: «Uscire dalla paura e fidarsi di Gesù», oppure «Uscire dalla paura di fidarsi di Gesù». I discepoli hanno paura
di fidarsi di lui fino in fondo, calcolano sulle proprie forze, si accorgono che non ce la fanno e
scoppia in loro prima la paura per la grande tempesta e poi anche la paura di Gesù.
2. La vita comporta un ripetuto uscire verso l’altra riva. Ogni «sì» della vita, ogni «sì» che vuole essere serio («sì» a Gesù, a un amico, a una donna, a un uomo, a un impegno coraggioso) deve saper
passare attraverso la prova mediante la fiducia in Gesù.
3. Perché non prendiamo certe decisioni, che pure sono importanti? Perché, dopo averle magari prese, siamo assaliti dall’ansia, dall’angoscia, e ci tiriamo indietro?
4. Quali sono le tempeste della mia vita? Ho avuto paura di vivere? E di morire? Che cosa c’è dentro di noi e che cosa Gesù vince in noi, proponendoci di uscire dalla paura?
5. Quando il silenzio di Dio per me è stato particolarmente difficile da comprendere?
6. Gesù si meraviglia della condizione della fede umana. Mi stupisco dello stato della mia fede?
Preghiera
«Signore, attraverso la contemplazione di te,
che risvegliandoti dal sonno e risorto dalla morte, mi dai fiducia,
concedimi di non spaventarmi per l’alternarsi delle ombre e delle luci,
insegnami a credere che anche nell’oscurità io cammino con te.
Sciogli, ti prego, i miei timori, le mie paure, le mie indecisioni,
i miei blocchi nelle scelte importanti, nelle amicizie, nel perdono,
nei rapporti con gli altri, negli atti di coraggio, per manifestarti la mia fede.
Sciogli i miei blocchi, Signore, e fa che giunga a cogliere
i segni della tua presenza!».
(C.M. Martini)
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4. IL CAMMINO SPONSALE DEI DISCEPOLI CON GESÙ
«Prendete il mio giogo sopra di voi» (Mt 11,25-30)
1. L’ambientazione del brano
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In quel tempo Gesù disse:
2. La preghiera di lode di Gesù
«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra,
perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti
e le hai rivelate ai piccoli.
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Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza.
3. L’autorivelazione di Gesù
27
Tutto è stato dato a me dal Padre mio;
nessuno conosce il Figlio se non il Padre,
e nessuno conosce il Padre se non il Figlio
e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
4. L’invito di Gesù fatto con tre imperativi, legato a una promessa, ripetuta due volte, e basato
su una motivazione
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Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi (alla lettera: appesantiti),
e io vi darò ristoro.
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Prendete il mio giogo sopra di voi
e imparate da me, che sono mite e umile di cuore,
e troverete ristoro per la vostra vita.
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Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Contesto del brano
Per capire il significato di questa preghiera e di questa autorivelazione di Gesù è utile esaminare la
circostanza in cui egli si trova. Il passo incomincia con l’espressione «In quel tempo Gesù disse»,
che indica simultaneità, piuttosto che successione cronologica con quanto precede. Secondo
l’evangelista Matteo, Giovanni Battista, in carcere, ha sentito parlare delle opere del Messia, ma
non è pienamente convinto, rimane incerto, dubbioso. Dopotutto lui è in carcere e quel Messia non
lo ha liberato. Perciò invia i suoi discepoli da Gesù per sapere se è veramente il Messia o se bisogna
aspettarne un altro. Si direbbe che il Battista è rimasto un po’ deluso da Gesù: gli sembra che realizzi tutte le aspettative messianiche.
Gesù capisce la perplessità del Battista, si rende conto che le opere da lui realizzate non rappresentano una dimostrazione inoppugnabile. Perciò nella sua risposta afferma che è beato chi non si
scandalizza di lui. Gesù ammette che qualcuno, dopo averlo incontrato, possa scandalizzarsi di lui.
La beatitudine messianica è per chi non si scandalizza della piccolezza di Gesù e di alcune sue opere che magari umanamente possono apparire ben poca cosa o insufficienti. Subito dopo Gesù rende
una testimonianza al Battista che culmina nelle parole sul più grande tra i nati di donna e il più piccolo nel regno dei cieli. Secondo alcuni, questo piccolo è proprio Gesù, che però è il più grande secondo il metro del regno dei cieli.
In seguito Gesù rimprovera severamente le città del lago di Gennèsaret, perché non gli avevano dato
accoglienza: «Guai a te, Corazìn! Guai a te, Betsàida! Perché, se a Tiro e a Sidone fossero avvenuti
i prodigi che ci sono stati in mezzo a voi, già da tempo esse, vestite di sacco e cosparse di cenere, si
sarebbero convertite. Ebbene, io vi dico: nel giorno del giudizio, Tiro e Sidone saranno trattate me42
no duramente di voi. E tu, Cafàrnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai!» (Mt 11,21-23). Gesù registra il fallimento della sua predicazione e della sua attività in tre città
non grandi, però importanti e significative, influenti in quella regione. Quelle città rappresentavano
la cultura di quel territorio; in esse Gesù è sceso, lasciando Nazaret; in quelle città, che erano il luogo del commercio, del lavoro duro, del nuovo, dell’insicurezza, dell’incontro tra culture diverse,
della modernità, del pluralismo, ha annunciato l’amore di Dio, accompagnando questo annuncio
con la prodigalità delle sue opere potenti, ma esse non si sono convertite.
L’annuncio dell’amore di Dio verso tutti ha costituito uno scandalo: preferivano la logica della ricompensa dovuta ai buoni e della condanna o per lo meno del severo rimprovero per i cattivi. La loro ostinazione ad accogliere l’amore di Dio a prima vista stava vanificando gran parte del ministero
di Gesù. Ma l’insuccesso non irretisce, non scoraggia il Maestro. Egli vive ogni momento della sua
missione in dialogo profondo col Padre ed è in questa luce che interpreta gli eventi positivi e negativi che sperimenta.
Quindi Gesù pronuncia queste parole di autorivelazione dopo un magro bilancio della sua attività:
molti non hanno creduto in lui e perfino il Battista sta dubitando. A sua volta questo brano è seguito
dall’opposizione degli scribi e dei farisei, che contestano l’agire di Gesù e dei suoi discepoli e che
sono la rappresentanza qualificata di quella che Gesù chiama «generazione malvagia e adultera»
(Mt 12,39). Questa autorivelazione di Gesù, che è collocata tra le invettive alle città che lo hanno
respinto e la serie di controversie che sono narrate nel capitolo 12; costituisce quindi una pausa inaspettata ed è stata intitolata: «Una fresca oasi di pace tra i deserti del rifiuto».
Struttura del brano
Questo brano si compone di tre piccole unità, collegate tra loro.
Nel primo tratto Gesù ringrazia il Padre per la gratuità del suo comportamento; viene evidenziata
l’opposizione tra i sapienti e i dotti, che ritenevano di avere l’accesso alle cose divine, e i piccoli,
che invece accolgono con gioiosa disponibilità Dio che si rivela loro gratuitamente nel Figlio (vv.
25-26).
La seconda parte della pericope è un’autorivelazione vera e propria di Gesù: egli parla del rapporto
tra il Figlio e il Padre, della reciproca conoscenza perfetta del Figlio e del Padre e di come il Figlio
la comunica a chi vuole, in piena obbedienza al Padre; egli, infatti, è il perfetto rivelatore autorizzato dal Padre (v. 27).
Nella terza parte vi è l’invito di Gesù ad andare a lui, a imparare da lui e a portare il suo giogo per
superare la stanchezza e trovare il riposo nella vita (vv. 28-30).
Anche l’ultimo capitolo del Siracide si articola in tre parti: inizia con un inno di ringraziamento o
confessione (51,1-12), sviluppa un monologo sulla ricerca della sapienza (51,13-22), termina con un
invito a mettersi alla scuola della sapienza e a prendere su di sé il suo giogo (51,23-30). Questo accostamento al libro del Siracide ci ricorda che per comprendere l’identità di Gesù, oltre al messianismo regale, è necessario tenere presente anche il messianismo sapienziale: Gesù è il vero re davidico, ma è anche la Sapienza divina, venuta tra gli uomini.
Mentre le due prime parti della pericope che analizziamo sono riportate anche nel vangelo secondo
Luca, la terza è esclusiva del vangelo secondo Matteo. Diverso tuttavia è il contesto in cui Luca colloca queste parole di Gesù: secondo Luca, Gesù ringrazia il Padre per il successo che i discepoli
hanno conseguito nella loro esperienza missionaria (Lc 10,21-22). Invece non un solo versetto di
tutta questa pericope si trova in Marco.
Per quanto riguarda la struttura della pericope si può notare che la prima parte, cioè il grido di giubilo di Gesù, è composta di quattro tratti; la sua autorivelazione è composta di quattro tratti; il suo
invito è composto di sei tratti. Il grido di giubilo e l’autorivelazione sono collegati mediante la parola «Padre» e il verbo «rivelare». I versetti di questo brano richiamano altri testi del vangelo secondo
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Matteo, come ad esempio l’inizio del Padre nostro (Mt 6,9), le parole conclusive di Gesù risorto
(Mt 28,18), la confessione di fede di Pietro (Mt 16,17-18).
La preghiera di lode di Gesù
Gesù è presentato in un momento di preghiera fatta non in solitudine, ma a voce alta, attorniato dai
suoi discepoli e forse anche dalla folla. Il Maestro si sente libero di aprire il cuore e di dare voce ai
suoi sentimenti. Si rivolge al Padre con poche parole, densissime, delle quali non troveremo mai il
termine, perché sono tra le più alte del vangelo secondo Matteo.
L’opposizione dei farisei, che ritengono ingiusto l’amore di Gesù e di Dio per tutti, si è fatta sempre
più aspra, ma Gesù ha l’intima certezza che la sua opera non è stata vana, costata che ci sono persone in grado di accettare la sua proposta e perciò, anziché trovare disappunto per l’opposizione permessa da Dio, anzitutto lo loda, gli esprime la sua ammirazione e gratitudine. È una delle poche
preghiere del Maestro riportate dai vangeli, quindi abbiamo qui uno dei rari squarci che permettono
di contemplare con sorpresa e con totale rispetto l’esperienza personale di Gesù in rapporto al Padre.
Gesù incomincia a pregare con una formula mutuata dalle preghiere bibliche e giudaiche: «Ti rendo
lode, o Padre» (Sal 9,1; 75,2; 110,1; 137,1.4; 2Sam 22,50; Sir 51,1; Dn 2,23). Il verbo «ti rendo lode» ha il significato di riconoscere pubblicamente, proclamare con una connotazione di lode e ringraziamento. Gesù si rivolge a Dio e anzitutto lo ringrazia, lo loda non tanto per la propria attività,
ma per quella del Padre. È lui, infatti, che agisce nelle pieghe della storia.
Durante la sua vita Gesù assumeva spontaneamente l’atteggiamento dell’amore riconoscente,
l’atteggiamento cioè del Figlio che riceve tutto dal Padre e che lo riconosce con gioia e gratitudine.
I vangeli ci riferiscono diversi casi in cui Gesù ha reso grazie in pubblico; si tratta molte volte di situazioni nelle quali noi non avremmo pensato di ringraziare Dio, perché erano situazioni di sconfitta, di mancanza o di lutto. Una situazione di mancanza, di carestia è quella che precede la moltiplicazione dei pani: ci sono cinquemila persone da sfamare e solo cinque pani a disposizione, che sono
in realtà piccole focacce. Non sembrerebbe proprio il caso di rendere grazie, ma in questa situazione
di carestia Gesù prende in mano i pani e incomincia col ringraziare, poi li distribuisce, e inaspettatamente i pochi pani bastano per saziare tutti, anzi c’è sovrabbondanza. Davanti alla tomba del suo
amico Lazzaro, Gesù che prima aveva pianto, fa aprire il sepolcro e prega dicendo: «Padre, ti rendo
grazie, perché mi hai ascoltato». È una preghiera completamente inaspettata in un momento in cui
l’esaudimento non si è ancora manifestato e sembra quasi impossibile.
Anche nell’ultima cena Gesù rende grazie al Padre, per fissare così il suo atteggiamento definitivo
verso il Padre. Questa volta i discepoli, sentendo Gesù ringraziare il Padre, hanno ritenuto normale
quella preghiera di lode: il cibo c’era, era dono di Dio sorgente di ogni vita, simbolo del suo amore
che nutre e rallegra il cuore degli uomini. Gesù però sapeva che quel pane e quel vino pasquali non
sarebbero rimasti un cibo ordinario, ma sarebbero diventati un dono più grande, più sostanzioso, un
segno del suo amore fino alla morte: avrebbero sancito l’alleanza definitiva, avrebbero comunicato
la vita divina e per questo ringrazia il Padre.
Nel passo che oggi stiamo leggendo Gesù ringrazia il Padre perché la sua predicazione non è stata
accolta dalla gente perbene, perché viene respinto dai sapienti e dai dotti di questo mondo, perché è
rigettato, scartato come pietra non utilizzabile e perché invece è stato mandato da Dio per comunicare la sua rivelazione ai piccoli, a quelli che umanamente contano poco. Qui Gesù ringrazia il Padre per l’anticipo del mistero pasquale. Molti salmi contenevano l’invito a ringraziare il Signore per
i suoi doni già ricevuti, per il suo intervento col quale ha già liberato da un pericolo: «Ringrazino il
Signore per la sua misericordia, per i suoi prodigi a favore degli uomini» (Sal 107,8.15.21.31). Gesù
non ringrazia dopo che il pericolo è stato superato, ma ringrazia subito, mentre vive la situazione
difficile, umanamente negativa, perché è certo che l’amore del Padre lo accompagna, è certo della
vittoria divina, che è anche la vittoria del suo cuore mite e umile.
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Rivolgendosi a Dio, anzitutto lo riconosce come Padre: questa parola, che nella lingua materna di
Gesù è Abbà e che ricorre ben cinque volte in questa preghiera, indica l’affetto profondo, indica il
rapporto filiale unico che Gesù ha con Dio, un rapporto fatto di confidenza infinita e di devota sottomissione. Dio per Gesù è anzitutto l’Abbà, il Padre che ha cura di lui.
La prova se sentiamo o no Dio come Padre nostro e di tutti può essere data da alcune verifiche:
quando preghiamo il Padre Nostro, sperimentiamo qualcosa della pace, della gioia, della pienezza
che ci è data dal saperci figli, amati dal Padre che è nei cieli? Ci sentiamo di ringraziare per tutto
quello che ci accade? Senti di poter dominare l’angoscia o l’affanno per le cose che incombono,
senza con ciò perdere il contatto con le situazioni reali? Sei capace di affrontare un’ingiustizia, senza recriminare continuamente in cuor tuo, giustificandoti e difendendoti? Sei capace di abbandonarti alla fedeltà di Dio ora e sempre (Sal 52,10)? Che cosa dice la conoscenza di Dio come Padre riguardo al nostro essere padri e madri sulla terra? Come vivo la fraternità che scaturisce dal riconoscerci figli dell’unico Padre?
Poi Gesù, nella sua preghiera, aggiunge il nome della dignità e potenza del Padre suo e lo chiama
«Signore, cioè creatore, del cielo e della terra»: è colui che ha fatto tutte le cose, perciò le possiede,
le guida; è colui che regge saggiamente nelle sue mani la storia del mondo, è colui del quale quindi
ci si può fidare.
Gesù onora e confessa il Padre perché ha tenuto nascoste queste cose. Prima di chiederci a chi si nasconde e a chi si rivela, è bene fermarsi su un fatto fondamentale: Il Padre non nasconde sempre e
non rivela sempre, ma è libero di nascondere o di rivelare. Dio non è mai prigioniero delle idee che
noi possiamo farci di lui.
Quali sono «queste cose» che il Padre rivela o nasconde? Sono le opere di Gesù, il senso messianico
delle sue opere, il segno che in esse è presente il tempo escatologico, il regno dell’amore di Dio, la
manifestazione definitiva della sua bontà. Le «cose» cui Gesù accenna sono il significato globale
della sua persona e della sua opera, sono un modo particolare di concepire la relazione di Dio con
noi e quindi di concepire la nostra vita. Gesù è venuto per raccontare «la rivoluzione della tenerezza
di Dio» (papa Francesco). Le cose rivelate ai piccoli non si possono recintare in una dottrina, non
costituiscono un sistema di pensiero. Si tratta, infatti, di capire che Dio si china su di noi, si fa piccolo ed entra nella nostra storia, esige una totale fiducia in lui e che quanti credono in lui otterranno
non principalmente benefici materiali, ma il bene più grande: l’amore di Dio stesso.
Il Padre ha nascosto il significato vero delle azioni di Gesù a coloro che si credono sapienti e dotti.
Dal momento che rifiutano la rivelazione di Gesù, non sono sapienti, ma si credono tali. Si tratta dei
capi del popolo, dei dottori della legge, degli aderenti a varie sette qualificate del tempo (esseni, farisei, apocalittici). Il regno di Dio non è un privilegio di una setta di conoscitori o di iniziati, non è
fatto per gli specialisti. Dio si è nascosto a chi riteneva di avere l’accesso alla sua rivelazione, di poterla giudicare e disapprovare o di non averne bisogno, a coloro che credevano di aver già raggiunto
la pienezza della conoscenza nella religione, di essere i maestri definitivi, di non avere la necessità
di imparare più nulla.
Altrove queste persone vengono chiamate da Gesù «i sani», «i giusti» (Mt 9,12-13), per i quali la
sua venuta è inutile: coloro che si credono già sani e giusti non riconoscono e quindi non apprezzano la salvezza che lui porta gratuitamente e perciò non la riceveranno. La sapienza umana per sé
non va considerata un ostacolo alla conoscenza di Dio; ciò che impedisce di comprendere Dio e di
aprirsi a lui è quella sapienza che ci separa dagli altri, quella sapienza che ci rende pieni di noi stessi, incapaci di apertura al mistero, di stupore e di rinnovamento. Questa presunta sapienza mette
l’uomo in crisi di fronte a Dio, lo allontana da Dio, lo chiude alla sua venuta. Gesù viene per chi
ammette di avere bisogno di luce e di salvezza, e di conseguenza per chi lo invoca ogni giorno; per
chi invece ritiene di essere a posto, si chiude la porta, come è accaduto alle vergini stolte che pensavano di avere l’olio sufficiente, ma in realtà non lo avevano e la loro lampada nel momento decisivo
si è spenta.
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Contrapposto all’affermazione molto dura riguardante i sapienti e i dotti, notiamo l’aspetto positivo:
il Padre ha rivelato queste cose ai piccoli. Al tempo di Gesù questi piccoli erano chiamati «il popolo
della terra», gente che lavora da mattina a sera e che alla sera è stanca, non ha modo di studiare, di
leggere, gente che non ha pretese. I piccoli sono il popolo semplice della Galilea che si sta aprendo
al regno di Dio, sono gli umili nei ragionamenti, che hanno però il cuore e la mente aperti, liberi da
ogni arroganza intellettuale e religiosa. Le cose, nascoste ai sapienti e rivelate ai piccoli, sono espresse così da Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente; tu solo hai parole di vita eterna».
Riconoscere nell’umiltà della carne di Gesù la pienezza della divinità, il segno della paternità di Dio
è l’oggetto della rivelazione fatta ai piccoli, che nessuna scienza umana potrà mai raggiungere, perché è dono che consegue alla fede. Per dono di Dio l’identità di Gesù è compresa dai piccoli quasi
per connaturalità, per una sorta di riflesso spontaneo; Gesù è capito e accolto come colui che dà la
risposta da tempo attesa e quasi insperata. È per questo che Gesù ringrazia il Padre: non tanto perché nasconde agli uni, a quanti si ritengono sapienti e intelligenti, quanto perché rivela agli altri, ai
piccoli; Gesù ringrazia il Padre perché ha rivelato ai piccoli cose che neppure i sapienti potrebbero
capire, perché ha adeguato la rivelazione di se stesso al livello e alle attese dei piccoli.
La preghiera di Gesù si conclude con un atto di abbandono bellissimo: «Sì, o Padre, poiché così hai
deciso nella tua benevolenza». Questa preghiera ci commuove, perché ci fa capire che il mistero del
rifiuto e quello dell’accoglienza è parte del piano divino. Il rifiuto diventa motivo di lode in quanto
mostra l’accoglienza di coloro a cui non si era pensato: è qui contenuto il carattere provvidenziale
della croce, la gratuità del vangelo, l’imprevedibilità del disegno divino. Sono tutte verità che abbiamo continuamente bisogno di riascoltare, dal momento che siamo portati quasi d’istinto a configurarci ad agenzie educative che misurano il loro risultato dal «sì» al messaggio educativo, secondo
gli strumenti propri del consenso. Gesù loda Dio Padre perché non ha consenso dove ci si aspettava
che lo avrebbe incontrato. Questo atto di abbandono sarà ripetuto anche al Getsemani, in un momento di dolore, ma qui è frutto di un momento di esultanza: «Tu, o Padre, non hai voluto che la rivelazione del Figlio avvenisse come un tuono e una folgore, in maniera da sconvolgere il mondo e
da costringerlo a credere, ma l’hai affidata all’umiltà della carne del Figlio». Ne deriva che il vangelo non si impone a noi e non va imposto agli altri con la forza degli argomenti umani e nemmeno
pretendendo la folgorazione di segni dal cielo, ma lo si accoglie e lo si annuncia accettando e proclamando l’umiltà e la fragilità dell’agire di Gesù e chiedendo a Dio che offra lui stesso la grazia di
capire questa sua umiltà e fragilità. Per Gesù dire di sì al Padre è assentire a quello che gli vuole, è
accettare la propria fragilità umana, la propria debolezza, l’insuccesso, quella vita che lo condurrà a
essere incatenato, torturato, ucciso; la sua disponibilità sarà la vera rivelazione del Padre. Per Gesù
dire di sì al Padre significa riconoscere che nessuno può credere nella sua missione se il Padre non
lo attira (Gv 6,44).
La prima parte di questo inno di giubilo di Gesù ci fa capire che il primo atteggiamento della sua vita spirituale è rimanere ammirato di fronte alla bontà di Dio e ringraziarlo, è l’amore riconoscente:
Dio ci dà il suo amore gratuito, la sua grazia e noi perciò dobbiamo anzitutto rendere grazie. Il ringraziamento è molto importante. Dobbiamo chiedere a Gesù di capire meglio l’importanza di questo
atteggiamento spirituale fondamentale. È vero che in molte circostanze occorre fare uno sforzo per
poter discernere la grazia che Dio ci offre, però questo sforzo è molto importante. Occorre imparare
da Gesù e dagli apostoli a ringraziare Dio sempre, a ringraziarlo per le circostanze della vita, per le
persone che incontriamo, per le meraviglie che opera in esse, anche se immediatamente questo non
appare sempre, per le croci che egli ci prepara, anche se noi non ci rendiamo conto della loro positività. Dio aspetta l’amore riconoscente proprio per poter portare al colmo la sua bontà.
Gesù non ha reagito agli insuccessi crescenti né con l’amarezza né con la fuga, ma lodando il Padre,
riconoscendo che si stava manifestando il mistero di Dio. È un punto sul quale dobbiamo confrontarci spesso. Gesù vive il suo fallimento abbandonandosi al Padre e a ciò che piace al Padre. La croce non è un momento casuale del messaggio di Gesù, bensì la vita stessa di lui, il suo modo di proporsi persuasivo, attraverso la debolezza dell’amore, della predicazione. Spesso nell’ultima preghiera della Messa, dopo la comunione, la Chiesa ci invita a chiedere di «vivere continuamente nel ren46
dimento di grazie». Riceviamo continuamente la salvezza e perciò possiamo vivere sempre nel rendimento di grazie. La grazia fondamentale della nostra vita è quella di vivere sempre in rendimento
di grazie, perché Gesù con la sua pasqua ha aperto una prospettiva positiva per tutti gli eventi della
nostra esistenza, ha aperto una prospettiva di vittoria dell’amore e dell’obbedienza su tutte le forze
del male. Con Gesù, con l’apostolo Pietro e con l’apostolo Paolo possiamo sempre benedire Dio.
Chiediamoci allora come viviamo le situazioni positive e quelle difficili nelle quali entriamo nella
nostra vita, specialmente a causa del vangelo.
Il rapporto tra il Padre e il Figlio
La seconda parte dell’autorivelazione di Gesù spiega ulteriormente il contenuto della prima strofa,
parlando del rapporto reciproco tra il Padre e il Figlio, della loro conoscenza reciproca, unica, totale, fatta di amore, di intuizione, di intelligenza e di volontà. Per questo il Figlio è l’unico mediatore
storico della rivelazione del Padre. Il Figlio proclama che tutto gli è stato dato dal Padre suo: «tutto»
può significare ogni autorità, un potere cosmico, la signoria sulla storia come Gesù tornerà a dire
dopo la sua risurrezione, alla conclusione della sua presenza visibile sulla terra (Mt 28,18). Ma nel
contesto di questa preghiera «tutto» significa piuttosto la conoscenza piena del Padre che egli ha e il
dono di trasmettere a sua volta questa rivelazione, questo rapporto intimo e salvifico, questo amore
del Padre. «Il Padre ama il Figlio e ha rimesso tutto nelle sue mani», scrive il quarto evangelista (Gv
3,35).
Tra il Figlio e il Padre c’è una perfetta conoscenza, una perfetta comprensione e intesa. Gesù ha ricevuto la piena conoscenza del Padre e la piena capacità e autorizzazione a rivelare il Padre. Gesù
ha ricevuto dal Padre la conoscenza di lui e anche la capacità necessaria per comunicarla agli uomini. Questa consapevolezza di avere ricevuto tutto dal Padre costituisce un aspetto fondamentale per
comprendere la coscienza che Gesù ha di se stesso e la sua spiritualità. Gesù è cosciente del suo
rapporto unico col Padre, sa che è in un rapporto unico col Padre, che è stato innalzato dal Padre al
vertice della storia, al centro della salvezza. Gesù è uguale al Padre: è pienamente consapevole della
sua divinità e afferma che al di fuori di lui non c’è altra persona al mondo che possa farci conoscere
il Padre, che possa introdurci nel rapporto col Padre. Sa che è il mediatore perfetto tra Dio e
l’umanità. Abbiamo qui un passo dei vangeli sinottici in cui la divinità di Gesù e la sua missione
vengono espresse molto chiaramente. Noi accogliamo questa rivelazione con riverenza e gratitudine.
Queste parole della seconda parte dell’autorivelazione di Gesù ci aiutano a capire qualcosa del mistero profondo della sua identità. La domanda dell’apostolo Paolo: «Che cosa mai possiedi che tu
non abbia ricevuto? » (1Cor 4,7) vale perfino per Gesù sia in quanto vero Figlio di Dio, sia in quanto vero uomo. Egli è «Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero». Il Padre è la fonte
dell’amore, è l’eterno Amante; il Figlio è da sempre l’Amore accogliente, l’Amore pienamente recettivo, colui che si lascia amare dal Padre da sempre. Il Figlio è da sempre esistenza accolta e lo è
diventato in maniera a noi visibile con la sua incarnazione, diventando uomo. Gesù sa che non possiede nulla in proprio. È solo l’inviato di Dio Padre. I suoi pensieri e i suoi progetti sono i pensieri e
i progetti del Padre suo; le parole che trasmette non sono sue, ma del Padre (Gv 3,34; 7,16;
8,26.38.40; 14,10.24; 17,8.14); non compie opere personali, ma quelle del Padre (Gv 5,17,19-20.3036; 8,28; 10,25.37; 14,10; 17,4), non fa la sua volontà, ma quella del Padre (Gv 4,34; 5,30; 6,38).
Per Gesù la coscienza di aver ricevuto tutto dal Padre è una convinzione piena, vitale, che dirige costantemente la sua esistenza quotidiana. Egli vive in continua comunione col Padre, legge e interpreta tutta la sua vita in dialogo confidente col Padre, sapendo pienamente chi è il Padre. Per questo
è in grado di farlo conoscere agli uomini. La parola di Gesù è una buona notizia, è evangelo perché
parte dalla sua conoscenza del Padre. Gesù sa che Dio è amore, che Dio rimane fedele. La presenza
di Gesù tra gli uomini ha come scopo fondamentale manifestare Dio come amore che si dona, che si
lascia crocifiggere. Dio ha inviato il suo Figlio per noi: ecco la prova che Dio è Padre anche nei
confronti di tutti gli uomini. Attraverso la intera storia di Gesù si può vedere che Dio ci ama e come
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Dio ci ama. Dio ci ama per primo, cioè gratuitamente; Dio ci ama senza risparmiarsi, cioè fino a
giungere al dono estremo: quello Figlio unico e amato. L’amore di Dio libera, strappa dal male e
converte.
Gesù ci assicura che Dio si è fatto visibile e raggiungibile in lui, che è il Figlio: «nessuno conosce il
Padre, se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo vuole rivelare». Questa ultima espressione non significa che il dono della rivelazione è lasciato a un arbitrio quasi capriccioso di Gesù. La frase «e
colui al quale il Figlio lo vuole rivelare» sottolinea che la libertà di Gesù consiste nella sua piena disponibilità ad adeguarsi alla volontà del Padre. Nella strofa precedente era stato detto che la volontà
del Padre è rivelarsi ai piccoli. Gesù è pienamente d’accordo con la scelta del Padre di farsi conoscere ai piccoli. L’amore del Padre, rivelato da Gesù, l’uomo non lo comprende anzitutto con
l’intelligenza, ma lo comprende e lo esperimenta soltanto quando si fa piccolo, riconoscendo di avere bisogno di essere amato, lo esperimenta lasciandosi amare.
«Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare». Chiediamoci: come si può giungere personalmente a conoscere il Padre e come si può farlo conoscere? Come va impostata l’attività di evangelizzazione? La conoscenza di Gesù e del Padre rimane un dono dall’alto, rimane qualcosa che non ci è dovuto e che dobbiamo invocare per noi e per gli altri. È un dono che noi non possiamo trasmettere: possiamo però
trasmettere il desiderio di averlo, l’impegno a invocarlo, possiamo suggerire la disciplina del cuore
attraverso cui l’uomo impara a riconoscersi piccolo e attraverso cui avviene l’umile richiesta di questo dono della conoscenza del Padre e del Figlio.
L’invito di Gesù
Finora Gesù ha parlato al Padre e del suo rapporto con il Padre; adesso si rivolge alle persone che
sono stanche e affaticate. Proprio perché è conosciuto dal Padre e proprio perché conosce pienamente il Padre come colui che si rivela ai piccoli, Gesù a questo punto può rivolgere a quanti sono
stanchi e affaticati l’invito sponsale ad andare da lui, a fidarsi di lui, a imparare da lui, diventando
suoi discepoli, a farsi carico insieme con lui del suo giogo.
Struttura dell’invito
L’invito di Gesù è riportato solo da Matteo e contiene un’eco delle beatitudini rivolte ai poveri e ai
miti. Gesù rivolge a tutti tre imperativi: «venite», «prendete», «imparate»; a questi imperativi è associata per due volte la promessa del ristoro, espressa sempre al futuro: «vi darò ristoro», «troverete
ristoro per la vostra vita»; il detto di Gesù è concluso da una motivazione finale: «il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero». Ricorrono due volte i termini «giogo» e «ristoro»; si può inoltre
notare la corrispondenza tra «quelli che sono appesantiti» e il «peso» di Gesù che è leggero. In questo invito, accanto ai tre imperativi, ci sono tre parole importanti: ristoro, giogo, peso.
Il primo imperativo: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi»
L’invito incomincia con la parola «venite» (deute). Essa ricorre anche in Mt 4,19; 21,38; 22,4;
24,34: si tratta di un verbo che esprime un invito pressante e gioioso alla sequela. Nel contesto di
questo passo l’imperativo contiene anche un invito a rompere con gli altri maestri per attaccarsi al
solo vero Maestro. Mentre i rabbini contemporanei invitavano a seguire la legge, Gesù invita ad attaccarsi alla sua persona.
Chi sono concretamente gli stanchi e gli oppressi ai quali Gesù si rivolge? Leggendo queste parole
siamo tentati di applicarle subito a noi, che spesso siamo affaticati dalla molteplicità e dalla gravità
degli impegni della vita. Ma se diamo ad esse questo senso, non dobbiamo nasconderci che queste
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parole anzitutto ci rimproverano: se il giogo di Gesù è soave e leggero, come mai siamo stanchi di
portarlo, sentiamo la fatica di vivere?
Il termine «stanchi» evoca l’immagine di un uomo che lavora duro e che sente le sue forze venire
meno. Il termine «oppressi» descrive l’uomo che cammina curvo, quasi schiacciato sotto un carico
troppo pesante. L’essere stanchi e oppressi non riguarda la fatica di vivere, ma si riferisce a coloro
che penano sotto l’interpretazione farisaica, rigorista, quasi disumana della legge: parla del popolo
semplice, di coloro che faticano sotto l’interpretazione della legge fatta senza misericordia, sotto le
complicate prescrizioni farisaiche che staccano da Dio, perché lo presentano come un padrone severo, e caricano la gente di pesi eccessivi (Mt 23,4). Il giogo leggero si riferisce, invece, alla interpretazione della legge fatta da Gesù, improntata alla misericordia di Dio, autore della stessa legge. Nel
contesto di queste parole, la stanchezza e la oppressione derivano dall’interpretazione troppo umana
della parola di Dio, sono il frutto di un insegnamento religioso carico soltanto di doveri, di cose da
fare, per cui alla fine non se ne può più. Le persone, invece di sentirsi ogni giorno amate da Dio e
perdonate, rimangono schiacciate sotto un peso insopportabile, con l’intimo tormento di non essere
riuscite a eseguire ogni precetto. Possiamo essere anche noi affaticati e oppressi da un tipo di religione, da una vita, da un insegnamento che non annuncia prima di tutto l’amore di Dio, non dà respiro, non dà spazio al cuore, e invece di poter dire come il salmista: «Non vado in cerca di cose
grandi superiori alle mie forze. Io sono tranquillo e sereno come un bimbo svezzato in braccio a sua
madre» (Sal 131,2-3), ci sentiamo costretti a rincorrere continuamente cose grandi, superiori alle
nostre forze, e a costatare che non siamo capaci di realizzarle. Questa è la stanchezza dalla quale
Gesù ci vuole liberare, per donarci prima di tutto la gioia di essere amati, sostenuti e salvati da Dio.
«Questo invito di Gesù si estende fino ai nostri giorni, per raggiungere tanti fratelli e sorelle oppressi da condizioni di vita precarie, da situazioni esistenziali difficili e a volte prive di validi punti di
riferimento. Nei paesi più poveri, ma anche nelle periferie dei paesi più ricchi, si trovano tante persone stanche e sfinite sotto il peso insopportabile dell’abbandono e dell’indifferenza.
L’indifferenza: quanto male fa ai bisognosi l’indifferenza umana! E peggio, l’indifferenza dei cristiani! Ai margini della società sono tanti gli uomini e le donne provati dall’indigenza, ma anche
dall’insoddisfazione della vita e dalla frustrazione. Tanti sono costretti ad emigrare dalla loro patria,
mettendo a repentaglio la loro vita. Molti di più portano ogni giorno il peso di un sistema economico che sfrutta l’uomo, gli impone un “giogo” insopportabile, che i pochi privilegiati non vogliono
portare. A ciascuno di questi figli del Padre che è nei cieli, Gesù ripete: “Venite a me, voi tutti”. Ma
lo dice anche a coloro che possiedono tutto, ma il cui cuore è vuoto e senza Dio. Anche a loro, Gesù
indirizza questo invito: “Venite a me”. L’invito di Gesù è per tutti. Ma in modo speciale per questi
che soffrono di più» (papa Francesco, Angelus del 6 luglio 2014).
Il secondo imperativo: «Prendete il mio giogo sopra di voi»
Con un tono quasi polemico, nel secondo imperativo Gesù dice: «Prendete il mio giogo sopra di
voi». Nella letteratura biblica e nella tradizione giudaica il giogo indica l’alleanza, la legge del Signore, la sapienza identificata con i comandamenti di Mosè (Ger 2,20; 5,5; Sir 51,26). Il giogo dal
quale Gesù vuole liberarci è costituito dal gravame di tanti precetti; il suo giogo è quello che lui
porta per primo, è la volontà del Padre che ama gli uomini e li vuole figli liberi e non servitori ossequienti. «Gesù, infatti, incarna la grandiosa e pura bontà di Dio, che non vuole aggravare il nostro
fardello, ma viene ad aiutarci a portarlo. Non ci libera dal peso della natura umana, che rimane abbastanza pesante. Ma non siamo soli a portarlo, lui ci sorregge» (J. Ratzinger).
Con queste parole Gesù non vuole buttare all’aria il giogo della legge, dichiarando che è sorpassata,
ma ci invita a mettere un ordine nella vita, ad assumere un ritmo, un equilibrio, affidandoci al fascino della sua persona. La liberazione offerta da Gesù non è una vita spensierata e senza freni: Gesù
non ha abolito la legge, ma l’ha ricondotta al suo centro, che è la carità. Il discorso della montagna è
molto più esigente della legge di Mosè, perché coinvolge la persona umana in profondità, impegnandola anzitutto in un atteggiamento interiore. La liberazione offerta da Gesù include quindi
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l’accoglienza della disciplina e l’obbedienza, include l’assunzione del suo giogo, però include prima
di tutto una nuova conoscenza di Dio, una nuova relazione con Dio, basata sulla libertà; Gesù ci libera perché ci dona una forza che è costituita dalla presenza dell’amore di Dio dentro di noi. Il giogo di Gesù consiste anzitutto nella certezza che Dio è Padre e noi siamo suoi figli, è un vivere
l’esistenza ogni giorno ripartendo da Dio e lasciandosi portare dalla forza del suo Spirito: per questo
il suo giogo è leggero. Soltanto la certezza di questa intima presenza dell’amore di Dio in noi è la
sorgente di una forza morale che rende portabile e leggero il peso della vita. Rivelando a noi che
Dio è Padre, Gesù pone fine ad un’obbedienza servile e la sostituisce con un comportamento nuovo:
quello di chi è mosso dallo Spirito e dalla libertà e vive con fiducia l’esistenza sotto lo sguardo del
Padre. «Il “giogo” del Signore consiste nel caricarsi del peso degli altri con amore fraterno» (papa
Francesco).
Invitandoci a portare il suo giogo, Gesù ci assicura che egli lo condivide con noi, lo porta assieme a
noi: rimane con noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo. Parlando del «mio giogo», egli ci rivela
che porta lo stesso giogo con noi, è cioè «con-iugato» con noi, è nostro sposo. Gesù è il Figlio a cui
tutto è stato dato dal Padre, è l’unico che conosce il Padre e può rivelarlo ai piccoli. Non si limita
però a questo, ma si mette nel numero dei piccoli, assieme a loro, condivide la loro situazione. Dio
si rivela ai piccoli e manifesta la sua grandezza (o, meglio, il suo amore) attraverso il Figlio che si
mette accanto ai piccoli. Nell’Antico Testamento c’è una proibizione apparentemente strana: «Non
devi arare con un bue e un asino aggiogati insieme» (Lv 19,19; Dt 22,10). Gli animali aggiogati devono essere eguali. Questo vale ancora di più per due persone che devono portare lo stesso giogo
della vita: devono essere simili tra di loro, soprattutto devono amarsi, andare d’accordo. Gesù ci assicura che non dobbiamo portare da soli il giogo della nostra vita, ma che egli lo condivide con noi:
si fa nostro coniuge, nostro sposo, da un lato assumendo la povertà della nostra natura umana e
dall’altro lato dandoci la grazia di possedere la sua identità di Figlio di Dio.
Gesù è lo sposo che sta tra gli uomini. Certamente nessuno, vedendolo, pensava a uno sposo, ma
piuttosto a un maestro o a un profeta. Gesù invita a fare un salto di qualità. I profeti parlavano di
Dio come sposo in contesti di promessa messianica: «Tuo sposo è il tuo creatore»; «Come gioisce
lo sposo per la sposa, così gioirà per te il tuo Dio» (Is 54,5; 62,5). Con la venuta di Gesù è entrato
definitivamente nella storia il tempo della tenerezza, della fedeltà di Dio che si unisce per sempre
con gli uomini. Ormai è giunto il tempo in cui gli uomini stanno con lo sposo e sono invitati a fare
festa con lui. Gesù è lo sposo atteso, perennemente immerso nella realtà umana, unito per sempre
con la sua Sposa. La liturgia di Natale ci fa cantare queste antifone: «Quando sorgerà il sole, vedrete il Re dei re: come lo sposo dalla stanza nuziale egli viene dal Padre» (Primi Vespri, antifona al
Magnificat); «Come uno sposo il Signore esce dalla stanza nuziale» (Ufficio delle Letture, antifona
al secondo salmo); «Tutta la vita cristiana porta il segno dell’amore sponsale di Cristo e della Chiesa» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1617).
L’amore sponsale di Gesù è sicuro e perciò si può gioire. Egli è lo sposo che parla sul nostro cuore;
ciascuno di noi diventa il suo trono, la pagina sulla quale egli scrive: «io ho bisogno di te e tu hai
bisogno di me». Gesù è lo sposo che già da ora ama la sua sposa, dà se stesso per lei e la riempie di
una serena speranza. L’eucaristia è la massima espressione di questo rapporto nuziale di Gesù con
noi: «chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (Gv 6,56). Ogni messa
è un banchetto festoso, è un segno, un anticipo delle nozze finali; per questo in ogni eucaristia ci
sentiamo dire: «Beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello!». Se l’amore a Gesù è di tipo
sponsale, è un amore di totalità, è un amore di affettività e non di volontarismo e in seguito a una
decisione puramente razionale, è un amore di intimità, che si esprime nel dialogo con un tu che si è
rivelato a noi nella sua nascita, nella sua vita, nel suo vangelo, nella croce, nella risurrezione, nella
eucaristia. Gesù ci ricorda il piacere della fede, ci presenta il cristianesimo come festa, come religione di persone che si incontrano con Dio e fra di loro e non come religione di leggi. Ogni volta
invece che il volto di Gesù sposo si offusca, nel cuore dell’uomo prende il posto il volto di un Signore che è giudice severo ed esigente, e l’uomo si considera un servo ossessionato dai meriti.
L’attesa di questo giudice diventa paura, la vita è vista come un cammino verso una scadenza che
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mette angoscia, come preparazione a un verifica severa, come sforzo per salvarsi da soli, e allora si
fa di tutto per non pensarci o per sotterrare i talenti ricevuti, per paura di non viverli bene. Ecco perché nella nostra società c’è un certo tabù culturale a manifestare la gioia. Si pensa che per far festa
occorre dimenticare la fede, perché riteniamo che questa ci deve rendere sempre pensosi e tristi. Allora più della gioia, sono a portata di mano i festini, le carnevalate, dove magari ci si costringe ad
essere allegri.
A proposito della sponsalità di Gesù, così scrisse il beato Isacco del monastero di Stella: «Come tutte le cose del Padre sono del Figlio e quelle del Figlio sono del Padre, essendo una cosa sola per natura, così lo sposo ha dato tutte le cose sue alla sposa, e lo sposo ha condiviso tutto quello che era
della sposa, che pure rese una cosa sola con se stesso e con il Padre. Voglio, dice il Figlio al Padre,
pregando per la sposa, che come io e tu siamo una cosa sola, così anch’essi siano una cosa sola con
noi (Gv 17,21). Lo sposo pertanto è una cosa sola con il Padre e uno con la sposa; quello che ha
trovato di estraneo nella sposa l’ha tolto via, configgendolo alla croce, dove ha portato i peccati di
lei sul legno e li ha eliminati per mezzo del legno. Quanto appartiene per natura alla sposa ed è sua
dotazione, lo ha assunto e se ne è rivestito; invece ciò che gli appartiene in proprio ed è divino l’ha
regalato alla sposa. Egli annullò ciò che era del diavolo, assunse ciò che era dell’uomo, donò ciò
che era di Dio. Per questo quanto è della sposa è anche dello sposo».
Forse la sponsalità ci sembra una dimensione non importante della fede, perché riteniamo che la fede sia prevalentemente un fatto dell’intelligenza, riguardi un insieme di cose da sapere. La voce
«fede» su Wikipedia inizia così: «La fede è definibile come l’adesione a un messaggio o a un annuncio fondata sull’accettazione di una realtà invisibile, la quale non risulta cioè immediatamente
evidente, e viene quindi accolta come vera nonostante l’oscurità che l’avvolge». La fede non si riduce però a questo. Nell’enciclica di papa Francesco Lumen fidei, alla cui stesura ha pure contribuito Benedetto XVI, è assai forte lo sforzo di dare una fisionomia e una strutturazione compiuta alla
fede cristiana. Al n. 18 dice che «Cristo non è soltanto Colui in cui crediamo, la manifestazione
massima dell’amore di Dio, ma anche Colui al quale ci uniamo per poter credere. La fede, non solo
guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo
modo di vedere». La fede coincide con un guardare con gli occhi di Gesù, prima di un sapere prima
di una dottrina è un modo di abitare il mondo, riconoscendovi sia le tracce dell’amore del Padre che
ha cura di tutti i suoi figli, sia l’invito ad abbracciare l’esistenza come un impegno perché tutti gli
uomini e le donne possano aprirsi a questo amore. La specificità della fede cristiana è data dalla partecipazione all’essere filiale di Gesù: «Colui che crede, nell’accettare il dono della fede, è trasformato in una creatura nuova, riceve un nuovo essere, un essere filiale, diventa figlio nel Figlio. “Abbà, Padre” è la parola più caratteristica dell’esperienza di Gesù, che diventa centro dell’esperienza
cristiana (cfr Rm 8,15)» (Lumen fidei, 19). Poi l’enciclica aggiunge: «Nella fede, l’“io” del credente
si espande per essere abitato da un Altro, per vivere in un Altro, e così la sua vita si allarga
nell’Amore. Qui si situa l’azione propria dello Spirito Santo. Il cristiano può avere gli occhi di Gesù, i suoi sentimenti, la sua disposizione filiale, perché viene reso partecipe del suo Amore, che è lo
Spirito. È in questo Amore che si riceve in qualche modo la visione propria di Gesù. Fuori da questa
conformazione nell’Amore, fuori della presenza dello Spirito che lo infonde nei nostri cuori (cfr Rm
5,5), è impossibile confessare Gesù come Signore (cfr 1Cor 12,3)» (Lumen fidei, 21). Al n. 22
l’enciclica ricorda che lo Spirito ci rende pure membri della Chiesa, cui è affidato il compito primario dell’annuncio. L’enciclica ribadisce, quindi, che credere è alla fine dei conti esperienza di un
amore che si riceve e che si desidera trasmettere a propria volta. Questo amore, come ogni amore,
permea tutto di sé: testa, cuore, mani, intelligenza, corpo, sentimento, sensi, affetto, convinzioni,
sapere, ricordi e desideri, passato, presente e futuro.
Il terzo imperativo: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore»
Poi con un terzo imperativo Gesù specifica che occorre imparare che lui è mite e umile di cuore,
oppure che occorre a imparare da lui, perché è mite e umile di cuore. Egli è maestro di vita perché è
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pienamente fedele al Padre, è dedito a lui, è fiducioso in lui. Il verbo «imparare» (manthano, da cui
deriva il termine «discepolo», mathetes) non significa non solo «apprendere», ma anche «seguire»,
«farsi discepoli»: indica un atteggiamento che tocca non solo l’intelligenza, ma anche tutta la persona e tutta la vita. Per prendere da Gesù il suo giogo, dobbiamo imparare da lui come viverlo, come portarlo, come esprimerlo e allora troveremo riposo.
Gesù invita a imparare. Proclamando di essere «mite e umile di cuore», Gesù ci insegna come egli è
e come noi siamo chiamati a essere. Queste parole meritano di venire approfondite, perché nei vangeli sinottici le autopresentazioni di Gesù sono molto rare (Lc 22,27). L’aggettivo «mite», che ricorre solo quattro volte nel Nuovo Testamento, è riferito due volte a Gesù nel vangelo secondo Matteo:
qui e in Mt 21,5. Per questo evangelista la mitezza è quindi un tratto caratteristico della persona di
Gesù e nessun’altra sua qualità è così rimarcata. Anche l’apostolo Paolo esorta i cristiani di Corinto
richiamando loro «la dolcezza e la mansuetudine di Cristo» (2Cor 10,1).
Per capire in che cosa consiste la mitezza di Gesù è opportuno tenere presente altri passi del vangelo secondo Matteo. Mentre qui Gesù si presenta come il Maestro mite e umile, nel discorso contro
gli scribi e farisei egli descrive un altro tipo di maestri, dai quali occorre mettersi in guardia: sono
duri (Mt 23,4), orgogliosi (Mt 23,5-7) ed impongono carichi pesanti (Mt 23,4). Anche nel brano che
descrive l’ingresso di Gesù in Gerusalemme l’evangelista sottolinea la mitezza del Signore (Mt
21,1-11). Quando dispone la sua entrata nella città santa, egli vuole cavalcare un asino, presentandosi così come il re messianico, annunciato dal profeta Zaccaria (Zc 9,9-10). Non viene come un
guerriero, su di un cavallo da guerra, ma come un re giusto, cioè fiducioso in Dio, vittorioso, cioè
salvato da Dio e oggetto della sua protezione, e mite, cioè non violento. Il fatto che l’evangelista citi
in modo non completo, ma selettivo il passo di Zc 9,9, tralasciando le parole «re giusto e vittorioso»
e conservando solo il termine «re mite», mostra che egli è interessato non solo a presentare Gesù
come il re messianico, ma anche a sottolineare la mitezza quale tratto caratteristico della sua regalità
messianica. Gesù non è solo il Maestro mite, ma è anche il re mite e la mitezza determina la sua attività in Gerusalemme. Gesù è mite perché è benevolo e delicato con gli uomini. Egli infatti riassumerà il suo ministero nella città con parole che esprimono la sua premura materna verso gli uomini:
«Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te,
quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali,
e voi non avete voluto!» (Mt 23,37).
Un’altra sottolineatura della mitezza di Gesù si trova in Mt 12,18-21. Descrivendo l’atteggiamento
di Gesù verso i malati e verso coloro che lo rifiutano, l’evangelista cita questa parole di Isaia 42,14: «Ecco il mio servo, che io ho scelto; il mio amato, nel quale ho posto il mio compiacimento. Porrò il mio spirito sopra di lui e annuncerà alle nazioni la giustizia. Non contesterà né griderà né si udrà nelle piazze la sua voce. Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta, finché non abbia fatto trionfare la giustizia; nel suo nome spereranno le nazioni» (Mt 12,18-21).
Il termine «mite» non c’è in questa citazione, ma la mitezza di Gesù è presentata tramite la considerazione delle azioni che egli si astiene dal fare.
Infine va tenuto presente che la caratterizzazione di Gesù come Maestro mite è inserita tra la rivelazione della sua relazione con il Padre (Mt 11,27) e l’applicazione pratica del suo insegnamento durante le forti controversie con i farisei (Mt 12,1-14). Gesù è mite e umile di cuore anzitutto perché
sa che ha ricevuto e perché continua a ricevere tutto se stesso con estrema fiducia e con piena obbedienza dal Padre, perché continua a fare sue le scelte del Padre. La mitezza di Gesù viene poi illustrata anche dal suo atteggiamento verso gli uomini, come emerge bene nelle due controversie sul
sabato che immediatamente seguono il nostro brano: quella riguardante i discepoli che colgono le
spighe di grano e quella riguardante l’uomo dalla mano paralizzata, nelle quali la misericordia di
Gesù si contrappone alla rigidità della legislazione farisaica. I farisei pensano a un Dio rigido, che
vuole assolutamente osservata la legge del riposo durante il sabato, senza capire le necessità
dell’uomo. Gesù invece, dopo aver difeso i suoi discepoli e dopo aver operato la guarigione
dell’infermo, cita per la seconda volta le parole di Osea 6,6: «Misericordia voglio e non sacrificio»,
e in tal modo ricorda a tutti che ogni precetto va vissuto nella carità e che l’amore vero si adatta a
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tutte le circostanze, ci rende duttili, misericordiosi. Certo, la religione dell’amore è più difficile, è
più esigente di una religione che riduce tutto a legge inflessibile e immutabile, perché l’amore non
ha mai fine. I farisei non si lasciano convincere e decidono di ucciderlo, ma Gesù si allontana e si
mette a guarire tutti quelli che lo seguono, facendosi carico dei loro problemi. In tal modo Gesù insorge contro i custodi di un ordine solo formalmente religioso, strappa l’uomo dal giogo delle prescrizioni umane elevate a norma divina, vuole che la religione sia una relazione di fiducia verso Dio
e di solidarietà verso gli uomini, con quel senso di gratuità che è tipico dei poveri, che riconoscendo
di avere ricevuto gratuitamente sanno poi anche condividere gratuitamente.
La mitezza di Gesù in Mt 11,29, come in altri passi biblici (cf. Sof 3,12), è congiunta con l’umiltà.
Le due virtù infatti sono molto simili. Anche nell’inno presente nella lettera ai Filippesi la storia di
Gesù è descritta come un umiliarsi e poi è precisata come un assumere la condizione di servo e farsi
obbediente. Umile (tapeinos) significa basso, piegato al suolo, sottomesso, di modesta condizione.
Nella lingua greca spesso ha il significato negativo di vile. Nel mondo giudaico invece esprime la
giusta posizione che uno assume di fronte a Dio e agli uomini. In direzione di Dio l’umiltà è la totale sottomissione, accompagnata dalla fiducia incondizionata di chi si sente bisognoso e non sa a chi
altro appoggiarsi. In direzione degli uomini l’umiltà è la volontà di stare con gli altri, al loro livello,
servendo anziché dominando, chinandosi su di loro anziché elevandosi. L’umiltà di Gesù consiste
nel far spazio a ogni dono di Dio Padre e alla dignità e alla libertà degli uomini. Gesù è umile perché è riconoscente verso il Padre, è umile perché sa fare spazio a noi uomini, perché ci accetta, perché non esagera nell’imporsi, perché è condiscendente, comprensivo e non oppressivo. Vi è in lui
come un’autolimitazione perché noi possiamo esistere nella nostra libertà: egli non vuole salvarci
contro la nostra volontà. Egli, che ha ricevuto tutto dal Padre, accetta di limitare la propria potenza
davanti al mistero dell’uomo. Gesù è umile perché è mosso dall’amore e quindi è rispettoso fino in
fondo della libertà dell’uomo.
Possiamo dire che mite e umile indicano l’atteggiamento di Gesù verso Dio e verso gli uomini. Verso Dio ha un atteggiamento di confidenza, obbedienza, docilità. Verso gli uomini ha un atteggiamento di accoglienza, pazienza, discrezione, disponibilità al perdono, al servizio. L’aggiunta «di
cuore» non è senza importanza. Indica che le disposizioni di Gesù verso il Padre e verso i fratelli si
radicano nella sua interiorità e coinvolgono tutta la sua persona. Gesù non è mite e umile in forza di
una necessità e coinvolgono tutta la sua persona, ma nella libertà e nell’assenso. Gli atteggiamenti
di Gesù sono una scelta, il frutto di un amore profondo e personale
Lo stile della vita di Gesù e della sua predicazione rivela il mistero di Dio e dell’incarnazione: un
mistero che per manifestarsi non si serve della grandezza, ma della mitezza e dell’umiltà. Vale la
pena vivere il cristianesimo come amicizia con Gesù: ci accorgeremo allora che un nuovo respiro
viene donato alla nostra esistenza e i pesi diventano meno insopportabili. «La mitezza e l’umiltà del
cuore ci aiutano non solo farci carico del peso degli altri, ma anche a non pesare su di loro con le
nostre vedute personali, i nostri giudizi, le nostre critiche o la nostra indifferenza» (papa Francesco).
Per l’evangelista Matteo la mitezza e l’umiltà esprimono un comportamento molto importante nelle
relazioni con Dio e con gli altri. La mitezza e l’umiltà comprendono e determinano le relazioni essenziali: quelle cioè con sé, con Dio e con gli altri. Chi è mite e umile è caratterizzato dal dominio
delle proprie emozioni e tendenze, dalla libertà e apertura riguardo alla volontà di Dio, dall’amore
rispettoso verso il prossimo. La mitezza, insieme con l’umiltà, è una disposizione interiore che non
può essere realizzata mediante uno sforzo umano, perché si basa sulla relazione filiale dell’uomo
con Dio.
Mentre i maestri religiosi di tutti i tempi rischiano di cade nell’orgoglio, perché credono di possedere tutta la verità e di doverla imporre, Gesù, proprio perché possiede dentro di sé la Verità, proprio
perché è la Verità, proprio perché vive in pienezza la relazione filiale col Padre, non si impone con
violenza, con durezza, con rigidità, ma dice: «Seguitemi», «mettetevi alla mia scuola, statemi vicino, fate come me e vi porterò al Padre». Gesù è mite e umile perché si fida totalmente di Dio e perciò rispetta noi sue creature, non ci schiaccia mai sotto il peso dei nostri peccati, non ci disprezza
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per i nostri errori, non ci costringe, ma ci accoglie come fratelli; offeso, ci perdona, non si vendica,
ha pazienza, non ce la fa pagare, non ci punta il dito, non ci fa cadere col soffio delle sua bocca, non
s’impone. Quanto rispetta la nostra piccolezza Gesù, mite e umile di cuore! Parla con noi alla pari,
come se fossimo eguali a lui. Anche se siamo peccatori, continua a chiamarci amici (Gv 15,15).
Non si vergogna mai di chiamarci fratelli (Eb 2,11); non spezza chi è una canna infranta e non spegne in nessuno il lucignolo fumigante (Mt 12,20). Gesù inaugura un discepolato che mette l’uomo
in relazione con Dio e che si diffonde per contagio, per irradiazione, non per imposizione.
Gesù è mite e umile di cuore: oggi la mitezza spesso è confusa con la debolezza, con la facile accondiscendenza, talvolta è perfino confusa con l’imperturbabilità di chi controlla tutto per calcolo o
per capacità politica. Al contrario la mitezza di Gesù è fiducia in Dio e rispetto per la dignità
dell’uomo, è la verità dell’atteggiamento umano di fronte alla sfera dello spirito, è la capacità di distinguere la sfera della materia, dove opera la forza, dalla sfera dello spirito, dove opera la persuasione e la verità. La mitezza è la capacità di capire che nelle relazioni personali non ha luogo la costrizione o la prepotenza, ma è più efficace la passione persuasiva, il calore dell’amore.
Mitezza e umiltà indicano l’atteggiamento proprio di chi si fida di Dio. Certamente chi è mite e umile non prevarica del proprio potere, non esagera nell’imporsi, perché ha imparato da Dio ad essere condiscendente e comprensivo. L’uomo mite e umile secondo il vangelo è colui che, malgrado
l’ardore dei suoi sentimenti, rimane duttile, sciolto, non possessivo, interiormente libero, sommamente rispettoso del mistero della persona, imitatore, in questo, di Gesù che tutto opera nel sommo
rispetto per l’uomo e muove l’uomo all’amore e all’obbedienza senza mai fargli violenza. La mitezza e l’umiltà si oppongono così ad ogni forma di prepotenza materiale e morale; queste due virtù
segnano la vittoria della pace sulla guerra, la vittoria del dialogo sulla sopraffazione. L’uomo mite e
umile, anche quando è fermamente coerente e dimostra una forza eroica, mantiene il rispetto verso
ogni persona umana, verso il misterioso operare della grazia in ogni uomo, e non usa mai durezza,
prepotenza, assalto mordace delle parole, sentimenti di rancore o di vendetta. Mitezza e umiltà manifestano la capacità di credere nella forza trasformante dell’amicizia di Dio verso di noi.
La duplice promessa del ristoro
«E io vi darò ristoro»; «troverete ristoro per la vostra vita». Gesù promette solennemente: «Voi troverete ristoro per la vostra vita, se verrete a me, se prenderete su di voi il mio giogo, se imparerete
da me che sono mite e umile di cuore». L’unione tra osservanza della legge e riposo è frequente nella Bibbia (Ger 6,16; Sir 6,24-28; 51,26-27). Per i profeti si tratta del riposo escatologico. Per il Siracide si tratta della tranquillità, della serenità della vita. Per Gesù il riposo non è solo una realtà escatologica, il premio finale, ma è una qualità della vita cristiana presente: si tratta di una nuova esperienza di Dio. A chi si trova oppresso, ma viene a lui, prende il suo giogo e impara da lui, Gesù
promette ristoro, pace, liberazione, promette la felicità messianica, annunciata da Dio e cercata inutilmente altrove: non dovremo rimanere stanchi e oppressi per la nostra debolezza e povertà, perché
Gesù ci ha promesso quel ristoro, cioè quel conforto nelle angustie quotidiane e quella serenità interiore che nascono da un nuovo rapporto filiale con Dio e dall’adempimento filiale della sua volontà.
La motivazione finale
Gesù conclude il suo invito dicendo che il suo giogo è dolce e il suo peso è leggero. Con questa motivazione Gesù non intende dire che le sue proposte sono più dolci, più leggere perché sono meno
radicali. Il suo giogo è dolce e il suo peso è leggero per altri motivi.
Anzitutto, il giogo di Gesù è dolce e il suo peso è leggero perché egli ha ricondotto tutta la legge al
suo centro, chiaro, lineare, ricco di movimento che è la carità; ha liberato quindi la legge da tutta
una precettistica complicata, dagli eccessi di una religiosità palpabile.
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In secondo luogo, il giogo di Gesù è dolce e il suo peso leggero perché egli non fa precedere la legge, ma la grazia, il dono, la gioia della notizia del regno, la rivelazione della paternità di Dio. È questa la fondamentale novità del giogo di Gesù. Egli non chiede di meno, ma chiede diversamente.
Prima c’è lo stupore del regno, la gratitudine perché Dio ci ama fino a quel punto e perché noi siamo preziosi presso Dio fino a quel punto. Dopo, e solo dopo come gioiosa risposta a Dio Padre, c’è
le legge morale, accolta quindi e vissuta non come costrizione che opprime la libertà personale, non
come ansia di doverci salvare da soli, con le nostre prestazioni, ma come espressione della nostra
filialità.
In terzo luogo, il giogo di Gesù è dolce e il suo peso è leggero perché sono vicini al cuore
dell’uomo, come dice Dt 30,11-14, non sono costituiti da norme esterne, ma da comandamenti, da
impegni che scaturiscono dall’interno, dal cuore dell’uomo nuovo il quale sente che corrispondono
alla sua identità di figlio di Dio (1Gv 5,3).
In quarto luogo, il giogo di Gesù è dolce e il suo peso è leggero perché egli non è un maestro che ci
istruisce e che poi ci abbandona a noi stessi: egli ha promesso di essere con noi tutti i giorni; per
Matteo, Gesù è il Dio con noi, anche in mezzo alle nostre impurità; egli ci offre sempre la grazia di
vivere da figli di Dio, in sintonia con la volontà del Padre.
In quinto luogo, il giogo di Gesù è dolce e il suo peso è leggero perché egli è con noi come amore
crocifisso, che non inganna mai, è con noi come amore disarmato, che non si impone, è con noi come amore vincente ogni male, ogni buio, è con noi come amore indissolubile, dal quale nulla mai ci
potrà separare (Rm 8,38).
Infine, il giogo di Gesù è dolce e il suo peso è leggero perché, quando abbiamo sbagliato, egli stesso
prende, porta su di sé il carico dei nostri peccati e ci assicura che la misericordia, il perdono di Dio
non vengono mai meno. Per questo Gesù non è un maestro di vita come gli altri, ma è il Figlio che
ci rende possibile vivere nella gratitudine la nostra filialità divina.
Riflessioni conclusive
Gesù ci dice continuamente: «Venite a me, voi tutti, stanchi e oppressi dal peso della vita, dalla
stanchezza e dalle delusioni molteplici. Non vergognatevi della vostra povertà, non reagite con
l’abbattimento, con l’evasione, con la superficialità, con l’arroganza, con la pretesa di farcela da soli, se i tempi o le persone che vi stanno attorno fossero diversi. Venite a me. Io vi ripeto con il salmista che “Dio perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie; salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e misericordia. Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande
nell’amore” (Sal 103,3-4.8). Ascoltando questo annuncio troverete ristoro». Nessuno su questa terra
può dirci parole come queste di Gesù: «Riconosci la tua stanchezza, la tua povertà, ma sappi che
non sei solo: io ti amo, io ti conduco al Padre». Essere credenti, essere sacerdoti, religiosi, laici per
la nuova evangelizzazione non significa sapere molte notizie religiose, progettare grandi piani pastorali, fare molte cose, ma riascoltare col cuore come rivolte a noi le parole di Gesù: «Venite a me
voi tutti stanchi e oppressi, imparate da me a conoscere il Padre, a fidarvi del Padre, imparate da me
ad essere sicuri che siete figli di Dio e a considerare gli uomini come fratelli e allora nel vostro impegno troverete riposo». In Gesù, Dio ci manifesta la sua sollecitudine.
Lo ha capito molto bene l’evangelista Matteo. Mentre gli altri due sinottici, Marco e Luca, quando
narrano la sua chiamata lo chiamano Levi, il primo evangelista invece insiste nell’usare il nome
Matteo, con il quale era conosciuto come pubblicano, insiste cioè nel presentarsi come uno di quei
pubblicani poco onesti e disprezzati, in quanto collaboratori dei romani. Matteo presenta se stesso
come un pubblicano perdonato e chiamato, e così ci fa capire in che cosa consiste la sua vocazione
di apostolo: è prima di tutto il riconoscimento della misericordia del Signore nei propri confronti.
Matteo si presenta come un peccatore perdonato. Ha capito che è qui il fondamento dell’apostolato:
nell’aver ricevuto la misericordia del Signore, nell’aver capito la propria povertà e pochezza,
nell’averla accettata come il luogo in cui si effonde l’immensa misericordia di Dio.
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Una persona che ha un profondo sentimento della misericordia di Dio, non in astratto, ma perché
l’ha sperimentata nella propria esistenza, è preparata a un autentico apostolato. Chi non possiede il
senso della misericordia di Dio, anche se è chiamato, difficilmente può toccare le persone in profondità, perché non comunica loro l’amore misericordioso di Dio. Il vero apostolo, come dice san
Paolo, è pieno di umiltà, di mansuetudine, di pazienza, avendo sperimentato per se stesso la pazienza, la mansuetudine e l’umiltà divina: l’umiltà divina si china sui peccatori, li rialza pazientemente e
quindi li chiama ad un apostolato autentico, che consiste sempre nell’annuncio della misericordia
divina. Occorre domandare al Signore di avere il profondo sentimento della propria pochezza e della sua grande misericordia; siamo tutti peccatori perdonati. Se non avessimo commesso peccati gravi, dobbiamo sempre dire che Dio ci ha perdonato in anticipo i peccati che per sua grazia non abbiamo commesso. Come s. Agostino dobbiamo lodare la misericordia di Dio che ci ha perdonato i
peccati commessi per nostra colpa e quelli che per pura grazia abbiamo evitato. Tutti dunque possiamo ringraziare il Signore per la sua infinita misericordia e riconoscere la nostra povertà di peccatori perdonati, esultando di gioia per la bontà divina. Non è dunque importante anzitutto costruire la
Chiesa, dedicarsi all’apostolato, ma occorre contemplare e gustare prima la misericordia di Gesù,
imparare da lui a conoscere la bontà del Padre e poi seguirlo. È il seguire Gesù, il guardare a lui per
primo, il partecipare alla sua vita che ci fa Chiesa, assemblea di coloro che sono figli di Dio in Gesù
Cristo e perciò fratelli fra di loro e annunciatori della misericordia del Padre.
Perché possiamo trovare riposo, perché possiamo trovare nella vita un senso che la riempie di serenità anche nel momento della sofferenza, Gesù non ci dice solo: «Venite a me voi tutti», ma in ogni
eucaristia ci dice: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo donato per voi; accogliete questo segno efficace del mio amore e dell’amore del Padre e qui troverete la forza per camminare nella speranza e nell’impegno». Non ci dice soltanto di imparare da lui, che è mite e umile di cuore, ma ci
dona il suo cuore. Vivere una vita piena, realizzata significa accogliere il Cristo che si dona al nostro spirito inquieto. Ne deriva che tutto ciò che tende a deprimerci, ad abbatterci, a scoraggiarci
non viene dal Signore, non è il suo giogo. Le interpretazioni deprimenti, capaci di oscurare la fede
nell’amore di Dio, capaci di chiuderci il cuore, di spegnere la speranza, di bruciare gli slanci non
vengono da lui, che è Maestro mite e umile di cuore, che considera attentamente le situazioni di ciascuno, promuovendone il bene.
Certo, non bastano queste riflessioni per esprimere qualcosa del mistero di Colui che si dichiara mite e umile di cuore nel suo rapporto col Padre e con noi, di Colui che invita a sé tutti quelli che sono
oppressi dal giogo di una religiosità farisaica, fatta solo di prescrizioni e di proibizioni, fatta perciò
soprattutto di paura, però forse intuiamo in quale linea vanno interpretate le parole che Gesù ha rivolto al Padre e quale gioia da esse può venire. Con quella preghiera Gesù continua a dirci che Dio
è con noi per aiutarci a trovare le vere ragioni del vivere personale e del vivere insieme. Abbiamo
sempre bisogno che Gesù ci insegni a ripartire da Dio, cioè a trovare in lui senso, slancio, motivazioni per amare, per osare di più, per andare oltre i limiti dei nostri piccoli traguardi.
Chiediamoci allora: è davvero leggero il mio giogo? Possiamo dire con sincerità nella preghiera:
«Signore, tu mi hai rivelato il volto del Padre e il tuo giogo è leggero per me, la mia sorte è caduta
su luoghi deliziosi, la mia eredità è magnifica»? E se non lo sentiamo leggero, se facciamo tanta fatica a vivere questo nostro tempo, di chi è la colpa: mia o del Signore? Da quali pesantezze devo liberarmi per intraprendere il cammino di rinnovamento, di riforma, di conversione, di rinuncia alla
pretesa e alla volontà di salvarmi da solo per fondare tutto sulla grazia, sull’amore di Dio? Gesù ci
farà comprendere quello che desidera farci comprendere e quello di cui ciascuno di noi ha bisogno;
in ogni caso credo che la preghiera su questa pagina dell’evangelista Matteo ci porterà per la via di
una maggiore semplificazione interiore e di una maggiore riconoscenza verso Dio Padre. Ricordiamoci che la mentalità evangelica dell’umiltà e della mitezza di cuore, cioè la capacità di gustare la
bontà del Signore e di accogliere con gratitudine il suo amore misericordioso, matura soltanto lentamente nel singolo cristiano e nell’esperienza dei popoli. Occorre essere passati attraverso molte
prove, delusioni, amarezze per capire che Dio non ci abbandona e per capire che la violenza di ogni
tipo, compresa quella morale e ideologica, non paga, perché la prepotenza è un atteggiamento alla
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fine perdente. Nella mitezza e nell’umiltà evangeliche noi entriamo quando, dopo sconfitte talora
pungenti, ammettiamo la nostra povertà e ci arrendiamo alla bontà di Dio, alla mansuetudine di Cristo, alla grazia dello Spirito, alla tenerezza di Maria.
Non è possibile comprendere la ricchezza di questa preghiera di Gesù, ma siamo certi che essa ci
aiuta a semplificare le complicazioni della nostra coscienza e della nostra vita. Ascoltare il passo del
vangelo sul quale ci siamo soffermati vuol dire risentire l’invito del profeta Daniele che cantiamo
tante volte nella recita delle Lodi: «Benedite, sacerdoti del Signore, il Signore, lodatelo ed esaltatelo
nei secoli. Benedite, servi del Signore, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli. Benedite santi e
umili di cuore il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli» (Dan 3,84-85.87). Voi, sacerdoti del Signore, servi suoi, voi che avete imparato da Gesù a essere miti e umili di cuore, cioè a fidarvi di Dio, benedite assieme a lui il Padre per tutti i suoi doni, beneditelo per i successi e per gli insuccessi,
per il peso e per le gioie della vita. Beneditelo, perché la certezza di essere accompagnati dal suo
amore e dal suo perdono dà alla vostra vita la sua unificazione interiore. Allora, restando uniti a Gesù, voi diventate Chiesa dell’amore; allora nella vostra vita e nelle vostre relazioni con gli uomini
non ci sarà più la paura, l’inquietudine, la fatica opprimente, ma la fiducia di chi ogni giorno riparte
da Dio e sulla sua parola getta la rete.
Per la riflessione
1. Com’è il mio modo di rivolgermi a Dio, nei momenti sereni e in quelli difficili, quando il bilancio della mia vita mi sembra povero, deludente, e quando sperimento in me o negli altri i suoi doni?
2. Perché noi siamo tante volte stanchi e oppressi e perché il giogo di Gesù è dolce?
3. «Tutta la vita cristiana porta il segno dell’amore sponsale di Cristo e della Chiesa» (Catechismo
della Chiesa Cattolica, 1617). Mi è familiare contemplare Gesù anche come sposo, mite e umile di
cuore, pieno di amore per la sua Chiesa e quindi per ciascuno di noi?
4. Mi riconosco nella categoria di coloro che trovano ristoro nel Signore? Ricordo vie mediante le
quali il Signore è stato per me riposo? Sto imparando da chi è mite e umile di cuore?
Preghiera
«Gesù, mostraci il Padre! Rivelaci il Padre!
Fa’ che contemplando te, guardando te,
noi possiamo comprendere chi è il vero Dio,
il desiderio unico ed ultimo della nostra vita.
Donaci, Gesù, di metterci davvero alla tua scuola,
di imparare a conoscere Dio Padre
e di imparare a conoscere chi siamo noi,
come dobbiamo vivere e come dobbiamo amarci,
come dobbiamo impostare la nostra esistenza
e come dobbiamo fare le nostre scelte.
Signore, tu inviti ciascuno di noi a fidarsi di te,
a credere nella misericordia del Padre.
Confidiamo che non ci lascerà mai soli,
che guiderai i nostri passi sulle vie della sua pace.
Speriamo che tu, sposo fedele della tua Chiesa,
non ci lascerai mancare il tuo aiuto»
(C.M. Martini).
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