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Cass. 18.6.2014 n. 13800
Data: 19.6.2014 12.57.00
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Cass. 18.6.2014 n. 13800
Svolgimento del processo
La Commissione tributaria della regione Emilia-Romagna con sentenza 14.12.2009 n. 112 ha
rigettato l'appello proposto dall'Ufficio di Forlì della Agenzia delle Entrate ritenendo che
l'appellante non aveva fornito riscontri probatori alla ipotesi di coinvolgimento della società Eu.
It. srl (successivamente trasformatasi in spa) in una complessa frode carosello, formulata nel
PVC redatto dalla Guardia di Finanza e posta a fondamento dell'avviso di accertamento con il
quale, ai sensi dell'art. 14 comma 4-bis della legge n. 537/1993 come modificato dall'art. 2
legge n. 289/2002, veniva disconosciuta la deducibilità, ai fini della determinazione
dell'imponibile IRPEG ed IRAP relativo all'anno 2003, dei costi indicati nelle fatture passive
emesse per operazioni soggettivamente inesistenti.
I Giudici territoriali ritenevano:
1.- che a fronte di una documentazione contabile formalmente regolare, l'Amministrazione era
onerata della prova difatti idonei a negare attendibilità alle risultanze contabili;
2.- che la sola conoscenza da parte della società di irregolarità od illeciti commessi dai propri
fornitori, e l'acquisto di beni a prezzi competitivi (idest a prezzi inferiori a quelli correnti di
mercato), non forniva prova della partecipazione alla frode, non potendo imputarsi alla
contribuente le condotte illecite (nella specie omesso versamento dell'IVA) dei soggetti cedenti,
essendo tenuta la cessionaria esclusivamente all'adempimento degli obblighi che scaturivano
dai contratti stipulati;
3.- che a supporto del mancato concorso della società nel reato di frode fiscale era da
considerare la sentenza penale del Tribunale di Forlì in data 10.6.2009 che aveva assolto per
difetto di dolo specifico il legale rappresentate di Eu. spa, e che poteva costituire indizio oggetto
di libera valutazione, pur se trattavasi di pronuncia resa in primo grado, non ancora divenuta
irrevocabile, ed afferente ad operazioni diverse in quanto effettuate in anno d'imposta distinto
da quello oggetto della controversia;
4.- che dalla CTU espletata nel corso del giudizio di primo grado su "un campione" delle società
fornitrici da cui Eu. spa acquistava i beni, era emerso che nessuna di esse poteva qualificarsi
come "cartiera", avendo dette società presentato nel corso degli anni regolari dichiarazioni
fiscali e liquidazioni periodiche ai fini IVA, non essendo emerse a carico delle stesse irregolarità
nella contabilità né accertamenti o contenziosi tributari, ed essendo stato accertato che i
predetti fornitori avevano tutti assolto l'IVA nel periodo in contestazione (salvo la T. C. R. srl
che nel periodo oggetto di indagine non risultava in debito verso l'Erario).
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione la Agenzia delle Entrate
deducendo sette motivi ai quali ha resistito la società contribuente con controricorso e ricorso
incidentale condizionato affidato a due motivi.
Motivi della decisione
La eccezione pregiudiziale di inammissibilità del ricorso proposta dalla resistente sull'asserita
violazione dell'art. 366 co. 1 n. 6 c.p.c. per omessa specifica indicazione degli atti sui quali il
ricorso si fonda è manifestamente infondata, avendo la Agenzia fiscale chiaramente individuato
nell'elenco numerato in calce al ricorso gli atti e documenti dei quali intende avvalersi a
supporto dei motivi formulati. La omessa indicazione di alcuni atti (quali il ricorso introduttivo
della società, la memoria integrativa presentata dalla società in primo grado e la perizia redatta
dall'ausiliario nel costi del medesimo giudizio) è del tutto irrilevante laddove i predetti atti non
rivestano nello specifico alcuna funzione strumentale rispetto alle singole critiche mosse alle
statuizione della sentenza di appello.
Rileva il Collegio che la pretesa tributaria fatta valere con l'avviso di accertamento trova il suo
referente normativo nell'art. 14 comma 4-bis della legge 24.12.1993 come modificato dalla
legge 27.12.2002 n. 289 , art. 2, che disponeva la indeducibilità dei costi e delle spese
"riconducibili a fatti, atti o attività qualificabile come reato". Il recupero del maggior imponibile
a fini IRPEG ed IRAP è stato quindi fondato, nel caso di specie, sulla premessa in fatto che i
costi relativi alle fatture passive utilizzate da Eu. srl si riferivano ad operazioni
"soggettivamente inesistenti" in quanto concluse con soggetto fittiziamente interposto rispetto
all'effettivo fornitore della società contribuente, ed inoltre che questa avesse partecipato alla
organizzazione della frode o che certamente ne avesse contezza quando effettuò le operazioni.
I motivi di ricorso per cassazione vertono su errori nell'attività di giudizio attinenti agli elementi
costitutivi della diversa fattispecie tributaria del diritto alla detrazione IVA che vengono tuttavia
ritenuti applicabili in via estensiva anche al diritto alla deduzione dei costi inerenti ex art. 75
TUIR (vecchio testo, attuale art. 109 TUIR) ai fini della determinazione dell'imponibile per la
liquidazione delle imposte dirette, ed ancora vertono su errori di fatto nella rilevazione ed
apprezzamento degli elementi indiziari - concernenti il coinvolgimento di Eu. srl nella frode
fiscale - forniti dall'Ufficio finanziario nel giudizio di merito. In particolare, premesso che
l'accertamento di un fenomeno evasivo riconducibile alla c.d. "frode carosello", attuato a mezzo
di società "cartiere" operanti nei livelli a monte della catena di cessioni terminante nei rapporti
commerciali oggetto della controversia, non è posto in contestazione, la critica mossa alla
sentenza di appello verte esclusivamente sulla interposizione fittizia o comunque sul
coinvolgimento nella organizzazione frodatoria delle società-cedenti - anche se non qualificate
come "cartiere" dalla perizia svolta in primo grado - che avevano intrattenuto i rapporti
commerciali con Eu. It. srl; sul grado di coinvolgimento di Eu. It. srl nella organizzazione
illecita, e comunque sulla sufficienza della mera consapevolezza da parte della società
contribuente che le operazioni che andava a compiere con tali soggetti si inquadravano nella
realizzazione di uno scopo illecito da quelli perpetrato con gli altri operatori intervenuti nei
precedenti livelli della catena delle cessioni.
Orbene, indipendentemente dalla errata operazione ermeneutica volta alla mera trasposizione
dei principi giurisprudenziali comunitari e nazionali in materia di indetraibilità dell'IVA liquidata
su fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti (ex artt. 19 e 21 DPR n. 633/72)
al distinto piano della disciplina della deducibilità dei costi inerenti all'esercizio della impresa
rilevante ai fini delle imposte sui redditi (ex art. 75 vecchio TUIR), atteso che la verifica della
"inerenza" del costo all'esercizio della attività economica risponde esclusivamente a criteri di
valutazione di tipo oggettivo (natura dell'attività in concreto svolta; ingresso in nuovi settori di
mercato contemplati dall'oggetto sociale; destinazione dei beni e servizi acquistati al ciclo
produttivo, alla costituzione di scorte di magazzino, al reimpiego nell'attività commerciale)
essendo del tutto indifferente l'elemento psicologico della condotta tenuta dall'imprenditore e
l'eventuale contesto illecito in cui si è realizzata la operazione di scambio (la circostanza che il
bene sia stato acquistato ad un costo inferiore a quello di mercato, in conseguenza della
elusione della imposizione fiscale da parte del fornitore o dei soggetti intervenuti nella catena di
cessioni, non impedisce, infatti, di riconoscere che il costo è stato comunque sostenuto per
l'acquisto di un bene strumentale all'esercizio dell'attività d'impresa, tanto se il cessionario
abbia partecipato attivamente alla frode, quanto che ne fosse soltanto consapevole), rileva il
Collegio che la introduzione del nuovo testo dell'art. 14 comma 4-bis della legge n. 537/1993,
ad opera dell'art. 8 co. 1 del decreto legge 2.3.2012 n. 16 convertito nella legge 26.4.2012 n.
44, il quale prevede che «Nella determinazione dei redditi di cui all'articolo 6, comma 1, del
testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22
dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle
prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili
come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l'azione penale o,
comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell'articolo
424 del codice di procedura penale ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi
dell'articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato
prevista dall'articolo 157 del codice penale», viene a spiegare diretta rilevanza nel presente
giudizio, operando quale "jus superveniens" che trova applicazione ex officio anche in sede di
legittimità in quanto il rapporto tributario controverso non è ancora esaurito, con conseguente
venire meno dell'interesse della parte ricorrente a coltivare i motivi di ricorso per cassazione,
avuto riguardo alla espressa previsione di efficacia retroattiva "in bonam partem" della norma
sopravvenuta disposta dal comma 3 dell'art. 8, DL n. 16 del 2012 conv. in legge n. 44/2012:
«Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano, in luogo di quanto disposto dal comma 4-bis
dell'articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, previgente, anche per fatti, atti o attività
posti in essere prima dell'entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli, tenuto
conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i
provvedimenti emessi in base al comma 4-bis previgente non si siano resi definitivi; resta
ferma l'applicabilità delle previsioni di cui al periodo precedente ed ai commi 1 e 2 anche per la
determinazione del valore della produzione netta ai fini dell'imposta regionale sulle attività
produttive».
Ne consegue che ai soggetti coinvolti nelle "frodi carosello" non è più contestabile, alla luce
della nuova norma, la deducibilità dei costi, in quanto i beni acquistati non sono stati utilizzati
direttamente "al fine di commettere il reato" ma, salvo prova contraria, per essere
commercializzati e venduti. Non è dunque più sufficiente il coinvolgimento od anche la
consapevolezza dell'acquirente in operazioni che siano fatturate da soggetto diverso
dall'effettivo fornitore perché non siano deducibili, ai fini delle imposte sui redditi, i costi relative
alle predette operazioni, in quanto la precedente condizione normativa di indeducibilità fondata
sul mero "collegamento'' tra i costi portati in deduzione e la condotta lecita, è stato sostituita
dalla necessità della prova che i costi si riferiscano all'acquisto di beni o servizi che vengono
direttamente utilizzati come "mezzo" o "strumento" per commettere un "delitto doloso", come
risulta inequivocamente dalla relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione
del decreto legge secondo cui: «Per effetto di questa disposizione, l'indeducibilità non trova
applicazione per i costi e le spese esposti in fatture o altri documenti aventi analogo rilievo
probatorio che riferiscono l'operazione a soggetti diversi da quelli effettivi, ferme restando le
regole generali in materia di detrazione della relativa imposta sul valore aggiunto di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 e in tema di deduzione previste
dal testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica
22 dicembre 1986, n. 91 ove del caso, l'indeducibilità dei costi rappresentati in documenti
emessi da soggetti che in tutto o in parte non hanno effettivamente posto in essere
l'operazione, sarà, comunque, rilevabile per effetto delle altre disposizioni normative
eventualmente applicabili e connesse ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza,
certezza, determinatezza o determinabilità dei componenti negativi».
Non essendo stata mai in contestazione la effettiva realtà economica delle operazioni
commerciali condotte da Eu. It. srl (la CTR ha infatti rilevato che i prodotti acquistati erano stati
materialmente consegnati ed Eu. aveva pagato regolarmente il corrispettivo, mentre l'Agenzia
fiscale ha sempre e soltanto contestato la interposizione fittizia del soggetto che aveva emesso
le fatture, fondando la pretesa tributaria esclusivamente sulla "inesistenza soggettiva" delle
operazioni, non essendo stata mai messa in dubbio la esistenza oggettiva dello scambio merce
contro prezzo, circostanza di fatto anzi che la stessa Agenzia fiscale ha ritenuto irrilevante in
relazione alla emissione di fatture da parte di soggetto estraneo alle parti che aveva realizzato
in concreto la operazione economica) risulta altresì del tutto irrilevante l'accertamento della
consapevolezza o meno della frode da parte della società cessionaria, rimanendo tuttavia fermi
i criteri ordinari che a norma del Testo unico delle imposte sui redditi approvato con DPR 22
dicembre 1986, n. 917, presiedono all'accertamento dei principi di effettività, inerenza,
competenza, certezza, determinatezza o determinabilità dei componenti negativi che possono
essere portati in deduzione dal reddito imponibile (cfr. Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 10167
del 20/06/2012; id. Sez. 5, Sentenza n. 12503 del 22/05/2013).
Pertanto, decidendo sul ricorso proposto dalla Agenzia fiscale e rilevata la applicabilità alla
fattispecie controversa del "jus superveniens" (art. 14 comma 4 bis della legge n. 537/1993,
nel testo modificato dall'art. 8col del decreto legge 2.3.2012 n. 16 convertito nella legge
26.4.2012 n. 44), va disposta la cassazione della sentenza impugnata con rinvio della causa
alla Commissione tributaria della regione Emilia Romagna che provvederà alla stregua della
normativa sopravvenuta, a verificare quali costi possano ritenersi deducibili, rideterminando le
eventuali imposte dirette dovute dalla società Eu. It. spa.
La società resistente ha formulato i motivi del ricorso incidentale (con il primo motivo deduce il
vizio di omessa motivazione in ordine alla eccepita violazione dell'art. 7 legge n. 212/2000 e
dell'art. 42 commi 2 e 3 del DPR n. 600/73 e con il secondo motivo deduce il vizio di omessa
motivazione pronuncia sulla eccezione di violazione degli artt. 41-bis e 42 del DPR n. 600/1973,
sostanzialmente riproduttivi dei motivi fatti valere con il ricorso introduttivo e con i motivi del
gravame incidentale e rimasti assorbiti nelle pronunce di merito) nell'ipotesi che il Collegio
fosse addivenuto -secondo quanto richiesto dalla Agenzia ricorrente- ad una pronuncia sul
merito della causa ai sensi dell'art. 384 co. 2 c.p.c. ritenendo superflua ulteriore attività
istruttoria.
Ne consegue che deve dichiararsi inammissibile il ricorso incidentale condizionato con il quale la
parte vittoriosa nel giudizio di merito deduca la mancata pronuncia del Giudice di merito su
questioni che siano rimaste assorbite, in quanto tali questioni, in caso di accoglimento del
ricorso principale, possono sempre essere riproposte davanti al Giudice di rinvio (cfr. Corte
cass. I sez. 18.10.2006 n. 22346; id. II sez. 28.2.2007 n. 4787; id. I sez. 15.2.2008 n. 3796;
id. III sez. 26.4.2010 n. 9907).
In conclusione, il ricorso principale trova accoglimento, il ricorso incidentale condizionato deve
essere dichiarato inammissibile, la sentenza impugnata va cassata con rinvio della causa ad
altra sezione della Commissione tributaria della regione Emilia-Romagna affinché, applicando la
normativa sopravvenuta, proceda alla rideterminazione delle eventuali imposte dirette dovute
dalla società resistente in relazione alle operazioni oggetto di contestazione nell'avviso di
accertamento, previa verifica della sussistenza dei requisiti (effettività, inerenza, competenza,
certezza, determinatezza o determinabilità) di deducibilità dei costi sostenuti dalla società Eu.
It. srl nel periodo d'imposta relativo all'anno 2003, liquidando all'esito anche le spese del
giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte:
- accoglie il ricorso principale, dichiara inammissibile il ricorso incidentale condizionato, cassa la
sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della Commissione tributaria della
regione Emilia-Romagna perché, in applicazione del "jus superveniens" (art. 14 comma 4-bis
della legge n. 537/1993, nel testo modificato dall'art. 8col del decreto legge 2.3.2012 n. 16
convertito nella legge 26.4.2012 n. 44), proceda alla rideterminazione della eventuali imposte
dirette dovute dalla società resistente in relazione alle operazioni oggetto di contestazione
nell'avviso di accertamento, previa verifica della sussistenza dei requisiti di deducibilità dei costi
sostenuti dalla società Eu. It. srl nel periodo d'imposta relativo all'anno 2003, liquidando
all'esito anche le spese del giudizio di legittimità.
Cass. 18.6.2014 n. 13806
Data: 19.6.2014 12.56.45
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Cass. 18.6.2014 n. 13806
Svolgimento del processo
La Commissione tributaria della regione Emilia-Romagna con sentenza 4.11.2011 n. 118 ha
rigettato l'appello proposto da E. I. spa, ed ha confermato la decisione di prime cure che aveva
dichiarato legittimi gli avvisi di accertamento con i quali veniva liquidata la maggiore IVA
dovuta per gli anni 2006 e 2007 in conseguenza della illegittima detrazione d'imposta operata
dalla società (al tempo srl) utilizzando fatture passive emesse per operazioni "soggettivamente"
inesistenti - aventi ad oggetto la cessione di materiale informatico - nelle quali la società
cedente S. srl figurava quale soggetto fittiziamente interposto ai reali fornitori individuati - nei
PPVVCC redatti dalla Guardia di Finanza - nella società D. I. srl con sede in San Marino e nella
ditta italiana P. C.. Con gli stessi avvisi veniva altresì liquidata l'IVA dovuta dalla cessionaria ai
sensi dell'art. 60-bis del DPR n. 633/72 corrispondente a quella riscossa in rivalsa dalla società
fittiziamente interposta e da questa non versata all'Erario, nonché venivano recuperati ad
imponibile IRES ed IRAP, per gli anni d'imposta 2006 e 2007, i costi documentati dalle fatture
emesse per le predette operazioni "soggettivamente" inesistenti ai sensi dell'art. 14 comma 4bis della legge n. 537/1993 come modificato dall'art. 2 comma 8 della legge n. 289/2002.
I Giudici territoriali ritenevano accertato che le operazioni concluse tra la società contribuente e
S. srl si inserivano in una complessa frode fiscale attuata attraverso società c.d. cartiere che,
omettendo di versare l'IVA fatturata, consentivano al destinatario finale della merce di
beneficiare di prezzi notevolmente inferiori a quelli di mercato oltre che di portare in detrazione
l'IVA. La frode emergeva dal complesso indiziario fornito dall'Ufficio da cui risultava:
1.- che S. srl e la ditta individuale P. non disponevano di struttura organizzativa ed aziendale;
2.- che le predette società non operavano solo come fornitori di Eu. srl ma risultavano essere a
loro volta clienti di Eu. srl, ravvisandosi un evidente anomalia in tale sistematica inversione dei
ruoli;
3.- che i pagamenti della società cessionaria, in contrasto con la prassi commerciale,
avvenivano contestualmente alla emissione fattura.
Secondo i Giudici di merito risultava pertanto raggiunta la prova che tutte le società avevano
posto in essere condotte funzionali alla realizzazione di una evasione d'imposta, rimanendo
esclusa la buona fede di Eu. It. srl.
Quanto alla pretesa fiscale concernente le imposte dirette, la CTR riteneva corretti gli avvisi di
accertamento in quanto la deducibilità dei costi rimaneva impedita in caso di illecito penale, e
nella specie risultava trasmessa in ordine ai fatti di causa "notitia criminis" alla Procura della
Repubblica ex art. 331 c.p.p. a carico dell'amministratore di Eu. srl Fo. Si. per il reato di cui
all'art. 2 della legge n. 74/2000.
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione la società contribuente
deducendo quattro motivi, articolati in dieci distinte censure, ai quali ha resistito la Agenzia
delle Entrate con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, articolato in tre distinte censure, la società censura la sentenza di appello
per vizi di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. che si vanno di seguito ad esaminare, dovendo
considerarsi al riguardo che l'eventuale accertamento del vizio processuale di omessa pronuncia
non determina per ciò stesso l'accoglimento del ricorso e la conseguente rimessione della causa
al giudice di rinvio affinché pronunci sulla questione pretermessa, allorquando la questione di
diritto sulla quale il Giudice di merito non ha pronunciato non richieda ulteriori accertamenti in
fatto, in quanto in tale ipotesi - secondo la costante giurisprudenza di legittimità - a questa
Corte è consentito, alla stregua di una interpretazione dell'art. 384 co. 2 c.p.c.
costituzionalmente orientata ai principi di economia processuale e della ragionevole durata del
processo di cui all'art. 111 Cost., di non disporre il rinvio della causa in seguito alla cassazione
della sentenza impugnata, e decidere la causa nel merito (cfr. Corte cass. II sez. 1.2.2010 n.
2313; id. I sez. 22.11.2010 n. 23581; id. sez. lav. 3.3.2011 n. 5139):
a) la società sostiene di avere eccepito in primo grado e quindi ancora con i motivi di gravame
la nullità degli avvisi di accertamento per "vizio di motivazione" ai sensi degli artt. 42 DPR n.
600/73 e art. 56 DPR n. 633/72, allegando la mancanza di chiarezza e coerenza delle
contestazioni mosse con i due atti notificati. A quanto è dato comprendere dalla esposizione del
motivo, l'Amministrazione finanziaria aveva contestato con gli avvisi la inesistenza "soggettiva"
delle operazioni ed aveva fondato la pretesa sull'art. 60-bis del DPR n. 633/72 (solidarietà della
società Eu. - cessionaria nella obbligazione tributaria della cedente - S. srl non avendo questa
versata l'IVA riscossa in rivalsa sulla fattura emessa). Successivamente, nel corso del primo
grado di giudizio, la stessa Amministrazione finanziaria aveva rinunciato a tale pretesa ed i
Giudici di primo grado avevano preso atto che la controversia era da ritenersi, quindi, limitata
alla sola questione della indetraibilità dell'IVA su fatture relative ad operazioni
"soggettivamente" inesistenti (pag. 5 ricorso). Con i motivi di gravame la società ha reiterato le
stesse eccezioni formulate nel ricorso introduttivo, tra cui quelle inerenti al vizio di nullità degli
avvisi di accertamento per illogicità e contraddittorietà della motivazione sostenendo la
incompatibilità logica della pretesa fiscale fondata sulla indetraibilità dell'IVA con la pretesa
fiscale relativa all'adempimento della obbligazione tributaria solidale avente ad oggetto l'IVA
dovuta dal soggetto passivo - S. srl).
La censura è inammissibile per difetto di autosufficienza.
La parte ricorrente sostiene infatti di aver dedotto fin dal primo grado di giudizio il vizio di
mancanza di (adeguata) motivazione degli avvisi di rettifica, ponendosi in contraddizione la
pretesa della Amministrazione volta a negare la detrazione dell'IVA corrisposta in rivalsa, in
considerazione della inesistenza soggettiva della operazione, con la pretesa volta a far valere la
responsabilità solidale della società cessionaria per l'omesso versamento dell'IVA fatturata dalla
società cedente. La questione risulta devoluta al Giudice di appello il quale ha omesso di
pronunciare in merito.
Tuttavia osserva il Collegio che se, da un lato, non trova adeguato riscontro l'affermazione
secondo cui la questione era stata sollevata fin dal primo grado, avendo omesso la società
ricorrente di trascrivere il contenuto dei motivi proposti con il ricorso introduttivo, e non
fornendo alcuna utile chiarimento del contenuto della censura mossa, la laconica indicazione
che tra i motivi formulati con il ricorso in grado, era stato dedotto anche il "vizio di motivazione
agli effetti IVA con riferimento al combinato disposto di cui agli arti. 54 e 56 DPR n. 633 del
1972" (cfr. pag. 4 ricorso per cassazione), dall'altro lato, la carenza di autosufficienza appare
manifesta laddove non viene fornito alcun elemento utile a verificare le motivazioni degli avvisi
di rettifica (non trascritte) ed in particolare a verificare se entrambe le pretese fiscali - ritenute
contraddittorie - si riferissero - come sembra sostenere la società - alle medesime operazioni
commerciali ovvero, invece, a distinte operazioni intercorse tra i medesimi soggetti economici,
in quest'ultimo caso rimanendo evidentemente esclusa una illogica interferenza tra le pretese
fatte valere dalla Amministrazione finanziaria, tenuto conto che, a quanto è dato rilevare dallo
stralcio della decisione di prime cure, riportato a pag. 5 del ricorso per cassazione, l'Ufficio
aveva inteso rinunciare "al recupero dell'IVA in forza dell'art. 60-bis del DPR n. 633/72 in
quanto atto questo di competenza di altro organo finanziario" e dunque per una ragione non
coincidente con la censura di illogicità in ipotesi formulata in primo grado dalla società.
In ogni caso la prospettata incompatibilità logica tra le pretese fatte valere dalla
Amministrazione finanziaria, non sarebbe stata comunque tale da inficiare da invalidità assoluta
l'avviso di rettifica (per carenza di motivazione ex art. 56 DPR n. 633/72). L'art. 60-bis del DPR
n. 633/72 presuppone - a differenza dell'art. 21 co. 7 - la effettività della operazione, sotto
fatturata rispetto al valore normale della cessione, tanto in relazione alla realtà economica,
quanto al rapporto intersoggettivo tra cedente e cessionario, e quindi consente a quest'ultimo
di portare in detrazione l'IVA non versata dal cedente e per la quale è stato chiamato al
pagamento come obbligato solidale: ne segue che in assenza di una operazione imponibile
(ipotesi che si verifica in caso di interposizione fittizia del cedente, che non essendo il soggetto
che realmente compie la operazione economica, non assume la qualità di soggetto passivo e
non è pertanto legittimato ad emettere fattura, né a pretendere l'IVA in rivalsa) il cessionario
non può certo essere chiamato a rispondere della inesistente obbligazione tributaria del fittiziocedente, mentre - ricorrendone i presupposti - potrà essere chiamato a rispondere in solido per
l'omesso versamento IVA, non fatturata, da parte del reale fornitore (effettivo cedente) della
merce nei confronti del quale si è realizzato il presupposto d'imposta. Orbene la evidente
incompatibilità tra le contestuali pretese concernenti la operazione soggettivamente inesistente,
ipotizzata dalla società ricorrente, non rende ex se "inconoscibile" la ragione della pretesa e
quindi non rende impossibile l'esercizio del diritto di difesa del contribuente: tanto è che la
società è stata in grado di svolgere compiutamente le proprie controdeduzioni con il ricorso
introduttivo - a quanto afferma - anche criticando la duplicazione d'imposta e la incompatibilità
della duplice pretesa. Ne segue che gli avvisi di rettifica - indipendentemente dalla valutazione
della fondatezza e congruità delle pretese fiscali - rendevano intellegibili le ragioni in fatto e
diritto in base alle quali si era proceduto alla notifica degli atti impositivi, e dunque la
motivazione dell'atto aveva raggiunto comunque lo scopo in funzione della quale è prescritta a
pena di nullità, avendo la società potuto comprendere e contestare i presupposti di fatto e le
ragioni in diritto poste a fondamento delle pretese: altro è, infatti, la impossibilità oggettiva di
comprendere le ragioni della pretesa e gli elementi in fatto valorizzati dall'Ufficio ai fini
dell'accertamento, altro è la infondatezza od incongruità della o di una delle pretese fiscali
vantate dall'Ufficio con l'atto impositivo (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 12394 del
22/08/2002; id. Sez. 5, Sentenza n. 1150 del 21/01/2008; id. Sez. 5, Sentenza n. 8136 del
23/05/2012).
b) La società deduce altresì l'omessa pronuncia da parte della CTR in ordine al motivo di
gravame con il quale veniva fatta valere la nullità processuale della sentenza di primo grado in
quanto ritenuta carente della motivazione.
La censura si palesa "ictu oculi" inammissibile alla stregua del consolidato principio di diritto per
cui "è inammissibile, per difetto di interesse, il motivo di ricorso in cassazione avverso la
sentenza di appello che abbia omesso di dichiarare la nullità della sentenza di primo grado,
qualora il vizio di questa, laddove esistente, non avrebbe comportato la rimessione della causa
al primo giudice, in quanto estraneo alle ipotesi tassative degli artt. 353 e 354 cod. proc. civ.
ed il giudice di appello abbia deciso nel merito su tutte le questioni controverse, senza alcun
pregiudizio per il ricorrente conseguente alla omessa dichiarazione di nullità" (cfr. Sez, L,
Sentenza n. 13781 del 07/11/2001; id. Sez. L, Sentenza n. 10869 del 11/05/2006; id. Sez, 1,
Sentenza n. 27777 del 21/11/2008; id. Sez. 3, Sentenza n. 5659 del 09/03/2010).
c) La società deduce ancora il vizio di omessa pronuncia della CTR sul motivo di gravame
relativo al vizio di nullità degli avvisi di accertamento in quanto il provvedimento irrogativo delle
sanzioni pecuniarie era stato emesso senza applicazione della "continuazione".
La censura è inammissibile sotto diversi profili:
1.- nel quesito formulato in calce alla censura sembra che la società ricorrente intenda far
valere un vizio di nullità processuale della sentenza di primo grado (per omessa pronuncia del
primo giudice), incorrendo in tal caso nella medesima sanzione della inammissibilità per
carenza di interesse rilevata nell'esame della precedente censura di cui alla lett. b);
2.- laddove la ricorrente abbia inteso invece censurare l'omesso esame da parte della CTR del
"motivo di gravame" diretto a far valere la nullità dell'atto irrogativo della sanzione pecuniaria
per "erronea o mancata indicazione delle norme sanzionatorie" (ricorso per cassazione pag.
24), la riscontrata omessa pronuncia del Giudice di appello non determina l'accoglimento della
censura in quanto il motivo di gravame si palesa manifestamente infondato atteso che la
irrogazione della sanzione, contestuale all'avviso di accertamento, era stata applicata "ai sensi
degli artt. 3, 7, 12 e 17 DLgs. n. 472/1997 e senza applicazione della continuazione..." (come è
dato evincere dallo stesso ricorso per cassazione pag. 3) e dunque il provvedimento
sanzionatorio risultava conforme alla prescrizione di cui all'art. 16 co. 1 DLgs. n. 472/1997 che
richiede la "indicazione delle norme applicate" (diversa questione, attinente al merito, era
invece quella relativa alla illegittima mancata applicazione dell'istituto della continuazione, che
è stata invece riconosciuta da entrambe le decisioni di merito).
Con il secondo motivo la società deduce, contestualmente, il vizio di violazione degli artt. 54 e
56 DPR n. 633/72 e dell'art. 42 DPR n. 600/73, nonché dell'art. 2697 c.c., nonché il vizio logico
di motivazione:
a) la società ricorrente denuncia la contraddittorietà della motivazione della sentenza di appello
in quanto la CTR, da un lato, aveva condiviso il precedente di questa Corte n. 6124/2009
(secondo cui la indetraibilità dell'IVA consegue ad una prova concreta della partecipazione
consapevole del contribuente al meccanismo fraudolento) e dall'altro aveva confermato la
sentenza di prime cure che, a quanto riferisce la ricorrente, aveva inteso aderire ad un risalente
precedente n. 8959/2003 (che tale prova non richiedeva) superato dalla successiva evoluzione
giurisprudenziale.
Il motivo, scarsamente intellegibile ed interamente basato sulla ipotesi congetturale che i
Giudici di appello abbiano risolto la controversia motivando "per relationem" agli argomenti in
diritto della sentenza n. 6124/2009, è infondato.
La società ricorrente, infatti, omette del tutto di considerare che il supporto motivazionale del
"decisum", diversamente da quanto da essa sostenuto, non è basato sul mero richiamo di
precedenti, ma si fonda sulla concreta valutazione probatoria dello specifico complesso
indiziario fornito dall'Ufficio con le risultanze del PVC redatto dalla Guardia di Finanza: la CTR ha
ritenuto, infatti, che gli indizi in questione (indicati in sentenza: 1.- nella anomala modalità dei
pagamenti eseguiti alla data di emissione delle fatture; 2.- nella continua inversione dei ruoli di
clienti-fornitori della ditta P. e di S. srl; 3.- nella mancanza, tanto con riferimento a S. srl
quanto a alla ditta P., di strutture organizzative e di personale nonché logistiche necessarie a
gestire l'attività d'impresa; 4.- nell'essersi rese le società fornitrici responsabili di gravi
irregolarità fiscali, non avendo S. srl versato l'IVA riscossa; 5.- nell'essere stata fornita la merce
"a prezzi altamente concorrenziali". Tali elementi indiziari risultano riportati anche nello stesso
ricorso alla pag. 27) consentissero di raggiungere la prova presuntiva, dotata dei requisiti ex
art. 2729 c.c., della partecipazione consapevole di Eu. It. srl al meccanismo di evasione
d'imposta, escludendo la buona fede allegata dalla società contribuente.
Se dunque la CTR ha fondato la propria decisione sulle prove offerte dall'Ufficio finanziario,
viene meno la denunciata contraddittorietà della motivazione (vizio che emerge esclusivamente
nel caso in cui due o più proposizioni contenute nella sentenza risultino tra loro in insanabile
collisione logica sicché non è dato individuare quale fra esse sia da porre a giustificazione del
decisum), atteso che i Giudici di appello - conformemente al precedente n. 6124/2009
richiamato nella sentenza, mentre non risulta operato alcun rinvio al diverso precedente
indicato dalla ricorrente - hanno ritenuto raggiunta la prova del coinvolgimento di Eu. It. srl nel
meccanismo fraudolento.
La ulteriore censura volta ad evidenziare la - inesistente - contraddizione della sentenza di
appello in cui, da un lato, sarebbe stato affermato che l'IVA relativa alle fatture di acquisto era
stata versata e poi - contraddittoriamente - veniva riconosciuta legittima la pretesa dell'Erario
avente ad oggetto nuovamente il pagamento dell'IVA già riscossa, è frutto di una evidente
svista nella lettura della motivazione della sentenza laddove viene chiaramente affermato che
"non sussiste dubbio … che l'IVA relativa alle fatture di acquisto … non sia stata versata
all'Erario ...".
Non integra il requisito della "decisività" del fatto oggetto di prova, previsto dall'art. 360 co. 1
n. 5 c.p.c. per l'ammissibilità del motivo di ricorso, l'elenco di considerazioni svolte dalla società
alle pag. 41 e 42 del ricorso, che si risolvono nella mera esposizione di una differente ipotesi
ricostruttiva della fattispecie concreta, e quindi in una diversa prospettazione soggettiva dei
fatti, contrapposta all'accertamento in fatto compiuto dai Giudici di merito, in tal modo
traducendosi la censura in una inammissibile richiesta alla Corte di una nuova valutazione di
merito delle emergenze istruttorie.
b) anche la censura concernente la dedotta violazione dell'art. 2697 c.c. è infondata.
La società sostiene che la violazione della norma di diritto sarebbe determinata dalla asserita
mancanza di "elementi probatori direttamente afferenti la società per sostenere una sua
partecipazione alla frode", essendo fondata la decisione della CTR sul mancato assolvimento
dell'onere probatorio - posto erroneamente a carico della società - volto a dimostrare la sua
estraneità dalla frode, "nonostante la mancanza della prova positiva fornita dall'Ufficio". Orbene
premesso che la norma generale di cui all'art. 2697 c.c. - intesa tanto quale criterio di
legittimazione a richiedere la ammissione ed assunzione dei mezzi di prova, quanto quale
regola finale di giudizio in difetto della formazione di un convincimento del giudice sui fatti
provati - ha avuto corretta applicazione nella controversia in esame, atteso che la CTR ha
ritenuto provati i fatti costitutivi della pretesa fiscale (ritenendo quindi assolto l'onere della
prova correttamente fatto gravare sulla Amministrazione finanziaria che contestava la
inesistenza soggettiva delle operazioni), risulta del tutto evidente che un eventuale errore
concernente la rilevazione e valutazione degli elementi fattuali posti a base della ricostruzione
della fattispecie concreta (tale è l'errore sulla rilevanza probatoria dei fatti selezionati dal
Giudice di merito come determinanti ai fini della ricostruzione della fattispecie da sussumere
nello schema normativo ritenuto applicabile), va ad incidere sull'apparato motivazionale della
sentenza e dunque in quanto "error facti" avrebbe dovuto essere dedotto con riferimento al
vizio tipico individuato dall'art. 360 co. 1 n. 5) c.p.c., risultando conseguentemente
inammissibile la censura formulata in relazione all'art. 360 co. 1 n. 3) c.p.c..
c) la società deduce, inoltre, la violazione degli artt. 54 e 56 DPR n. 633/72 e dell'art. 42 DPR
n. 600/73 sul presupposto che la CTR, ritenendo legittima la pretesa tributaria, abbia
"implicitamente" rigettato il motivo di gravame concernente il vizio di nullità degli avvisi di
accertamento per illogica e contraddittoria motivazione: la censura è formulata in via
alternativa alla analoga censura dedotta del primo motivo - di cui alla lett. a) - con la quale era
stata dedotta la "omessa pronuncia" della CTR sul medesimo motivo di gravame.
L'accertata omissione di pronuncia da parte della CTR e l'esame della censura, nel merito,
compiuta dal Collegio in sede di trattazione del primo motivo, privano di fondamento, per
esclusione logica, la censura prospettata in via meramente alternativa con il secondo motivo.
Con il terzo motivo la società censura la sentenza di appello per violazione e falsa applicazione
degli artt. 2727 e 2729 c.c., in relazione all'art. 360col n. 3 c.p.c., contestualmente deducendo
anche vizio logico della motivazione ex art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c..
Quanto al vizio di "error in judicando", la società contesta la mancata indicazione da parte della
CTR degli elementi indiziari da cui avrebbe tratto il convincimento del coinvolgimento di Eu. It.
srl nella frode, in ipotesi, perpetrata da altri soggetti, e dunque la errata applicazione dello
schema normativo presuntivo, difettando il fatto certo dal quale è stato tratto con nesso di
derivazione logica il fatto ignorato.
Così formulata la critica è infondata in quanto, come già evidenziato in precedenza, la CTR ha
specificamente individuato i fatti indiziari (indicati in sentenza: 1.- nella anomala modalità dei
pagamenti eseguiti alla data di emissione delle fatture; 2.- nella continua inversione dei ruoli di
clienti-fornitori della ditta P. e di S. srl; 3.- nella mancanza, tanto con riferimento a S. srl
quanto a alla ditta P., di strutture organizzative e di personale nonché logistiche necessarie a
gestire l'attività d'impresa; 4.- nell'essersi rese le società fornitrici responsabili di gravi
irregolarità fiscali, non avendo S. srl versato l'IVA riscossa; 5.- nell'essere stata fornita la merce
"a prezzi altamente concorrenziali". Tali elementi indiziari risultano riportati anche nello stesso
ricorso alla pag. 27) da cui ha dedotto la prova presuntiva della "partecipazione consapevole" di
Eu. srl alla condotta volta alla evasione d'imposta, applicando nessi di inferenza logica che la
società ricorrente non ha criticato in modo specifico, né in relazione alla capacità significativa
dei fatti certi risultanti dal PVC, né in relazione alla coerenza interna e relazionale dei singoli
elementi indiziari, né in relazione alla concludenza del complesso indiziario rispetto al fatto
oggetto di prova.
Quanto al vizio logico di motivazione (la cui esposizione sembra piuttosto voler integrare gli
argomenti a supporto del vizio di violazione dello schema normativo della presunzione), la
società sostiene che gli elementi indiziari addotti dall'Ufficio erano da ritenersi sforniti di
precisione, concordanza e concludenza in quanto l'elemento della mancanza di struttura
organizzativa delle ditte fornitrici, S. s.r.l. e P., poteva ridondare a prova della condotta illecita
tenuta da queste ultime nei rapporti con i terzi dai quali avevano acquistato i prodotti, ma non
anche fornire indicazioni sulla condotta illecita di Eu. srl.
Il motivo è infondato.
Con specifico riferimento alla fattispecie in esame, riconducibile alle c.d. "frodi carosello"
(caratterizzate dal fatto che la merce acquistata dal contribuente che esercita il diritto alla
detrazione IVA proviene in realtà da soggetto diverso da quello fittiziamente interposto che ha
emesso la fattura, incassando l'IVA in rivalsa ed omettendo poi di versarla all'Erario: tale
difformità tra la situazione apparente e quella reale - nel che consiste la simulazione relativa si traduce sul piano fiscale nella inesistenza "soggettiva" della operazione, con la conseguenza
che, quanto alla operazione "apparente" non sorge tra le parti alcun obbligo di natura fiscale - il
fittizio cedente non potendo pretendere il pagamento del prezzo e dell'IVA in rivalsa;
correlativamente, non insorgendo a favore del cessionario alcun diritto alla detrazione della
imposta liquidata nella falsa fattura -, quanto alla operazione "reale" condotta con il terzointerponente, trattandosi di operazione per la quale è stata omessa del tutto la fattura, alcun
diritto alla detrazione IVA potrà evidentemente essere esercitato dal cessionario), la
giurisprudenza di questa Corte ha stabilito che, una volta fornita dalla Amministrazione
finanziaria la prova della interposizione fittizia nella operazione commerciale effettivamente
posta in essere dal cessionario/committente con un diverso soggetto - cedente/prestatore - che
non figura nella fatturazione, prova che può essere data ad esempio anche attraverso indizi
sintomatici che rivelino la natura di società "cartiera o fantasma" o la funzione di "buffer"
(filtro) dell'apparente soggetto-cedente che ha emesso la falsa fattura (l'Amministrazione
finanziaria "è tenuta a dimostrare, in primo luogo, gli elementi di fatto della frode, attinenti il
cedente, ovvero la sua natura di "cartiera", la inesistenza di una struttura autonoma operativa,
il mancato pagamento dell'IVA come modalità preordinata al conseguimento di un utile nel
meccanismo fraudolento e in secondo luogo, la connivenza nella frode da parte del cessionario,
non necessariamente, però, con prova certa ed incontrovertibile, bensì con presunzioni
semplici, purché dotate del requisito di gravità, precisione e concordanza, consistenti nella
esposizione di elementi obiettivi tali da porre sull'avviso qualsiasi imprenditore onesto e
mediamente esperto sull'inesistenza sostanziale del contraente": cfr. Corte cass. V sez. n.
10414 del 12/5/2011; id. V sez. n. 23560 del 20/12/2012), spetta al contribuente
(cessionario/committente) che ha portato in detrazione l'IVA fornire la prova contraria che
l'apparente cedente/prestatore non è un mero soggetto (fìttiziamente) interposto e che la
operazione è stata "realmente" conclusa con esso, non essendo tuttavia sufficiente a tale scopo
la regolarità della documentazione contabile esibita e la mera dimostrazione che la merce sia
stata effettivamente consegnata o che sia stato effettivamente versato il corrispettivo,
"trattandosi di circostanze non concludenti, la prima in quanto insita nella stessa nozione di
operazione soggettivamente inesistente, e la seconda perché relativa ad un dato dì fatto
inidoneo di per sé a dimostrare l'estraneità alla frode" (cfr. Corte cass. V sez. 24.7.2009 n.
17377; id. 20.1.2010 n. 867; id. 11.3.2010 n. 5912; id. V sez. n. 12802 del 10/6/2011.
Giurisprudenza costante: Corte cass. 3.12.2001 n. 15228, id. 6.2.2003 n. 1779, id. 23.12.2005
n. 28695, id. 23.3.2007 n. 7146).
Occorre tuttavia precisare che il soggetto-cessionario, ove tenuto a fornire la prova contraria,
non può ritenersi vincolato esclusivamente alla dimostrazione della effettività della operazione,
bene potendo verificarsi l'ipotesi in cui lo stesso abbia svolto con scrupolosa diligenza le
trattative e concluso l'accordo negoziale conformemente alla condotta richiesta ad un accorto
operatore del settore, rimanendo non solo del tutto estraneo alla frode cui ha partecipato con
terzi il (fittizio) soggetto-cedente, ma addirittura ignaro della esistenza della stessa frode.
Correttamente è stato rilevato, infatti, come illeciti tributari commessi da altri soggetti non
possano ridondare -traducendosi in una sorta di responsabilità oggettiva - a sfavore del
contribuente in "buona fede", negandogli l'esercizio del diritto alla detrazione IVA versata in
rivalsa, ed è stato, pertanto, opportunamente specificato che il soggetto-cessionario, qualora
non sia in grado di dimostrare, con riferimento al cedente, che la operazione fatturata è "reale"
e non fittizia, può egualmente fornire idonea prova contraria, dimostrando che dagli elementi
conoscitivi acquisiti nel corso delle trattative e della operazione condotta con il soggettocedente non erano emerse circostanze o anomalie tali da indurre a sospetto e quindi escludere
l'incolpevole affidamento sulla regolarità fiscale della operazione.
Il nucleo del bilanciamento dell'"onus probandi" (art. 2697 c.c. ) nella materia in questione va
dunque individuato:
a) nella prova, anche presuntiva ex art. 2727 c.c., gravante sulla PA della inesistenza della
operazione (se trattasi di inesistenza "soggettiva", la prova avrà ad oggetto la interposizione
fittizia del soggetto cedente);
b) nella conseguente prova contraria, gravante sul contribuente che intende esercitare il diritto
alla detrazione - od al rimborso - ex art. 19 DPR n. 633/72, che avrà ad oggetto o la effettiva
corrispondenza tra la operazione documentata in fattura e quella in concreto realizzata, o
l'incolpevole affidamento sulla regolarità fiscale della operazione ingenerato dalla situazione
concreta conosciuta e conoscibile al momento della conclusione della operazione (in
quest'ultimo caso la "conoscibilità" deve essere rapportata al grado di attenzione e diligenza
normalmente richiesta nella conduzione degli affari all'operatore del settore di media
esperienza).
I principi sopra enunciati debbono, infatti, essere coordinati con la giurisprudenza comunitaria
formatasi sulla nozione di "buona fede" del soggetto passivo - da intendersi quale ignoranza
incolpevole in ordine agli accordi fraudolenti volti alla evasione dell'IVA intercorsi tra il soggetto
cedente/commissionario, che ha emesso la fattura, ed i soggetti intervenuti nelle operazioni
precedenti o successive-, sulla quale è imperniato il principio fondamentale del sistema comune
dell'IVA che riconosce il diritto alla detrazione IVA a tutti quei soggetti passivi che effettuino
operazioni di cessione di beni e di prestazioni di servizi nell'esercizio di una attività economica
(cfr. da ultimo Corte giustizia 6.9.2012 causa C-324/11, Gabor Toth, punti 23 28; id. 21.6.2012
cause riunite C-80/11 e C-142/11, Mahageben kft, e David), e che si sostanzia nella statuizione
del Giudice comunitario secondo cui "gli operatori che adottano tutte le misure che si possono
loro ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che le loro operazioni non facciano parte
della frode … devono poter fare affidamento sulla liceità di tali operazioni senza rischiare di
perdere il proprio diritto alla detrazione dell'IVA pagata a monte " (cfr. Corte giustizia
11.5.2006, in causa C-384/04, Federation of Technological Industries; id. sentenza 6.7.2006,
cause riunite C-439/04 e C-440/04, Kittel e Recolta Recycling sprl, punto 51). Come
chiaramente è stato precisato dal Giudice di Lussemburgo, spetta alla Amministrazione
finanziaria che contesti la inesistenza - anche soggettiva - delle operazioni fatturate, dimostrare
(anche in via presuntiva) che il soggetto passivo "sapeva o avrebbe dovuto sapere che con il
proprio acquisto partecipava ad una operazione che si iscriveva in una frode IVA", potendo
assolvere a tale onere, sia dando la prova che tale soggetto era direttamente coinvolto nel fatto
illecito (rimanendo in tal caso escluso il diritto alla detrazione, in base al principio di diritto
comunitario secondo cui "gli interessati non possono avvalersi abusivamente o
fraudolentemente" dei diritti loro riconosciuti dall'ordinamento comunitario: Corte giustizia
6.7.2006, Kittel e Recolta, cit. punto 53 e 54), sia fornendo anche soltanto la prova - diretta od
indiretta - della consapevolezza della frode commessa dai terzi, mediante indicazione di quegli
elementi oggettivi che, avuto riguardo alle concrete circostanze, avrebbero dovuto indurre un
normale operatore "eiusdem generis ac professionis" a sospettare della irregolarità della
operazione (dovendo in tal caso considerarsi il soggetto passivo che "sapeva o avrebbe dovuto
sapere" come "partecipante a tale frode, indipendentemente dalla circostanza che egli tragga o
meno beneficio dalla rivendita dei beni": id. 6.7.2006, Kittel e Recolta, punto 56 e 57, cfr. Corte
cass. V sez. 20.12.2012 n. 23560 che, dando atto dei principi espressi dalla giurisprudenza
comunitaria, ha affermato, con riferimento alla ipotesi di indebita detrazione IVA relativa a
fatture emesse per operazioni "soggettivamente'' inesistenti, che spetta alla Amministrazione
finanziaria fornire la prova, anche indiziaria, che il contribuente "sapesse o dovesse sapere" con
l'uso della appropriata diligenza della evasione d'imposta o della frode perpetrata da altri
soggetti). In tal caso si riversa sul contribuente l'onere di provare di essersi trovato nella
situazione di oggettiva inconoscibilità delle pregresse operazioni fraudolente intercorse tra il
cedente ed i precedenti fornitori, oppure, nonostante l'impiego della dovuta diligenza richiesta
dalle specifiche modalità in cui si è svolta l'operazione contestata, di non essere stato in grado
di abbandonare lo stato di ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni degli altri
soggetti collegati all'operazione (cfr. Corte cass. V sez. n. 23074 del 14/12/2012; id. V sez. n.
6229 del 13/03/2013 secondo cui "in ipotesi di fatturazione per operazione soggettivamente
inesistente risolventesi nella diretta acquisizione della prestazione da soggetto diverso da quello
che ha emesso fattura e percepito VIVA in rivalsa, la prova che la prestazione non è stata
effettivamente resa dal fatturante, perché sfornito di dotazione personale e strumentale
adeguata alla sua esecuzione, costituisce, di per sé, idoneo elemento sintomatico dell'assenza
di "buona fede" del contribuente, poiché l'immediatezza dei rapporti (cedente o prestatore fatturante - cessionario o committente) induce ragionevolmente ad escluderne l'ignoranza
incolpevole circa l'avvenuto versamento dell'IVA a soggetto non legittimato alla rivalsa, né
assoggettato all'obbligo del pagamento dell'imposta; con l'effetto che, in tal caso, sarà il
contribuente a dover provare di non essere a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del
bene o della prestazione era, non il fatturante, ma altri, altrimenti dovendosi negare il diritto
alla detrazione dell'IVA versata"; id. V sez. 11.9.2013 n. 20786).
L'affidamento incolpevole del soggetto-cessionario viene dunque a rivestire, nella prevalente
maggioranza dei casi, la chiave di volta del diritto alla detrazione IVA in caso di operazione che
viene ad inserirsi nel meccanismo di una frode "carosello", non potendo la relativa prova
ritenersi assolta solo mediante la dimostrazione della effettiva consegna della merce e del
pagamento del corrispettivo e dell'IVA fatturata, trattandosi di circostanze non decisive, rispetto
al "thema probandum", in rapporto alle peculiarità del meccanismo dell'IVA e dei relativi,
possibili, abusi (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 1950 del 30/01/2007; id. Sez, 5, Sentenza
n. 16492 del 18/06/2008; id. Sez. 5, Sentenza n. 9138 del 16/04/2010).
Tanto premesso, la CTR ha ritenuto che gli elementi indiziari consentissero di pervenire alla
certezza della funzione di mere "cartiere" svolta da S. srl e dalla ditta P., deducendo pertanto
che l'attività commerciale di tali società fosse meramente apparente in quanto volta a costituire
una interposizione fittizia (uno schermo soggettivo) tra il reale fornitore e il cessionario
destinatario della merce tra cui la operazione economica veniva effettivamente svolta.
Gli elementi costituenti fatti certi non debbono rivestire singolarmente i requisiti di cui all'art.
2729 c.c., ma bene possono raggiungerli ove considerati complessivamente nelle loro
reciproche interconnessioni e dipendenze logiche, dovendo riferirsi detti requisiti alla prova e
non ai singoli indizi che concorrono a formarla. La prova presuntiva posta a fondamento della
decisione di merito riveste i caratteri di cui all'art. 2729 c.c. laddove, diversamente da quanto
sostenuto dalla ricorrente, la "precisione" non attiene al momento della inferenza logica, ma è
una precondizione dello schema presuntivo in quanto va riferito alla certezza storica del fatto
che si assume come termine iniziale del ragionamento induttivo (la ratio legis è quella di evitare
che la inferenza venga applicata ad ipotesi anziché a fatti); la "concordanza" non riguarda la
pluralità delle conseguenze logiche - possibili - ritraibili dal fatto noto, quanto piuttosto la
valutazione di compatibilità-esclusione tra i molteplici fatti assunti come noti (fatti antinomici
non possono evidentemente coesistere nel medesimo procedimento logico: tutti i fatti devono
pertanto rapportarsi in modo plausibile con il fatto da dimostrare), la "gravità" o concludenza
attiene poi al livello di certezza del risultato probatorio che la inferenza della presunzione è in
grado di offrire (cfr. Corte cass. sez. lav. 6.8.2003 n. 11906). In relazione a tale ultimo
requisito occorre precisare che il livello di certezza richiesto dagli artt. 2727 e 2729 c.c. non
può evidentemente essere quello - tipico dei fenomeni rilevati con metodo di verifica scientifica
- della "necessità assoluta ed esclusiva" della derivazione causale: vertendosi infatti in tema di
prova logica, il nesso di derivazione causale tra fatto noto e fatto ignorato non può che essere
fondato su un giudizio probabilistico basato sull'"id quod plerumque accidit" non potendo quindi
escludersi altre possibili conseguenze, che tuttavia rivestono posizione meramente recessiva in
quanto verificabili in casi eccezionali o addirittura statisticamente mai rilevate (ed in tal caso
confinate nell'ambito delle astratte ipotesi). I requisiti di cui all'art. 2729 c.c. possono, pertanto,
ritenersi raggiunti le volte in cui il ragionamento presuntivo non pervenga a plurimi risultati
"inconciliabili", tutti egualmente "probabili" (cfr. Corte cass. V sez. 2.3.2012 n. 3281).
Orbene gli indizi valutati dalla CTR consentono di ritenere - in applicazione del criterio
probabilistico indicato - che in relazione al sistema di neutralità fiscale che contraddistingue
regime tributario dell'IVA, società che si rivelano essere "scatole vuote" e come tali prive di
capacità economica, intrattengano rapporti commerciali fittizi, esclusivamente in funzione della
emissione di fatture al fine di incassare l'IVA non riversata all'Erario e di consentire ai reali
soggetti economici - che di tali società si avvalgono - di fruire di vantaggi indebiti, sia
praticando e beneficiando di prezzi inferiori a quelli di mercato, sia utilizzando le fatture
soggettivamente false ai fini della detrazione della imposta.
Rispetto a tale inferenza probabilistica la obiezione della società ricorrente secondo cui la
"cartiera" può dirigere la propria attività illecita tanto "a monte" quanto "a valle" della catena
delle cessioni, non evidenzia alcun conflitto tra conseguenze egualmente probabili, atteso che:
a) la pluralità di atti illeciti (commessi a monte ed a valle) non solo non è incompatibile ma anzi
risulta del tutto funzionale ad un meccanismo che trova attuazione mediante un "carosello" di
operazioni di cessioni;
b) la inferenza probabilistica in ordine alla interposizione fittizia realizzata dalla società cedente
con la cessionaria Eu. It. srl non viene ad essere privata dei requisiti della prova presuntiva ex
art. 2729 c.c., ove risulti che la società cedente operava come "cartiera" ovvero, qualora dotata
di autonoma capacità organizzativa, abbia in precedenza "fittiziamente" acquistato la merce da
altra società "cartiera", inserendosi quale società "filtro" (buffer) tra il reale fornitore ed il reale
cessionario finale.
Se è vero è che i predetti elementi indiziari non consentono di pervenire con altrettanta
certezza probabilistica alla prova della diretta dolosa partecipazione del soggetto-cessionario al
disegno criminoso della "frode carosello" (concorso nel reato), dalla statuizione della sentenza
di appello secondo cui "tutte le società coinvolte hanno operato con lo scopo ben determinato di
pervenire ad una condotta funzionale ad una evasione d'imposta", emerge comunque
l'accertamento della consapevolezza da parte della società cessionaria del sistema fraudolento
organizzato da terzi nel quale venivano ad inserirsi le operazioni commerciali, atteso che gli
elementi indiziari utilizzati ai fini della prova presuntiva della interposizione fittizia della società
"cartiera" evidenziano aspetti anomali rispetto alla comune prassi commerciale - direttamente
conosciuti dalla società cessionaria -, quali in particolare la carenza di idonea struttura
aziendale della cedente, il prezzo della merce particolarmente vantaggioso, la richiesta di
pagamento del corrispettivo al momento di emissione della fattura anziché alla consegna della
merce, la inversione dei ruoli di cliente e fornitore tra le due società, e che forniscono un
quadro della situazione che avrebbe potuto e dovuto insospettire un operatore diligente sulla
qualità di cartiera della società contraente, tanto più nel caso in cui come nella specie tra le due
società vi erano già stati numerosi contatti per operazioni analoghe, risultando pertanto
corretta la statuizione della CTR che esclude la buona fede della società contribuente in quanto
consapevole del sistema di evasione fiscale (questa Corte, in proposito ha già avuto modo di
rilevare come "in ipotesi, tuttavia, di fatturazione per operazione soggettivamente inesistente
che abbia comportato l'acquisizione diretta, da parte del cessionario, di una prestazione
eseguita da soggetto diverso dall'emittente della fattura (emittente privo di dotazione personale
e strumentale adeguata alla sua esecuzione), l'immediatezza dei rapporti fra l'emittente ed il
destinatario della fattura è forte indice oggettivo capace di escludere l'ignoranza incolpevole del
cessionario: in tal caso, dunque, sarà il cessionario a dover provare di non essere a conoscenza
del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione era non l'emittente della fattura,
ma altro soggetto (espressamente in termini, Cass. n. 6229/2013, cit.; fa leva sull'onere di
diligenza dell'operatore avveduto anche Cass. 22 febbraio 2013, n. 4525)....": cfr. Corte cass. V
sez. 25.9.2013 n. 21992).
Con il quarto motivo la società ricorrente investe i capi di sentenza concernenti la indeducibilità
dei costi relativi alle operazioni soggettivamente inesistenti, ai fini della imposte sui redditi IRES
ed IRAP, deducendo il vizio di violazione dell'art. 14 commi 4 e 4-bis della legge n. 537/1993,
in relazione all'art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., replicato dal vizio logico di motivazione ex art. 360 co.
1 n. 5 c.p.c..
La società ritiene che la CTR ha male interpretato la norma, non coordinando le fattispecie
descritte al comma 4 (acquisizione alla base imponibile dei redditi derivanti da reato) ed al
comma 4-bis (indeducibilità dei costi ricollegabili a fatti reato), e non tenendo conto che dal
combinato disposto delle disposizione doveva concludersi che il Legislatore avesse inteso
escludere la deducibilità soltanto di quei costi strumentalmente utilizzati per la produzione di
ricavi illeciti.
Inoltre continua la ricorrente i Giudici avrebbero erroneamente richiamato l'affermazione della
CTP che faceva riferimento ai proventi anziché ai costi, incorrendo nel denunciato vizio di
motivazione.
Rileva il Collegio che l'evidente erronea citazione tratta dalla sentenza di primo grado - che
evidentemente ha equivocato tra comma 4 (relativo alla imponibilità dei redditi derivanti da
reato, che non viene in questione nella presenta controversia ) e comma 4-bis (che attiene alla
indeducibilità dei costi ricollegati a fattispecie illecita di rilevanza penale) della norma di cui
all'art. 14 della legge n. 537/1993-, non incide tuttavia sulla comprensione dell'argomento
logico posto a fondamento della sentenza di appello secondo cui, alla stregua della
interpretazione letterale, debbono considerarsi indeducibili "i costi" per il solo fatto che siano
"collegati ad atti, fatti od attività penalmente illeciti, indipendentemente dalla circostanza che
quei costi (recte i beni o servizi acquistati con tali spese) siano produttivi di reddito.
Tanto premesso i motivi debbono essere accolti alla stregua del jus superveniens essendo stato
sostituito, con efficacia retroattiva, il comma 4-bis dell'art. 14 della legge n. 537/1993, ad
opera dell'art. 8 co. 1 del decreto legge 2.3.2012 n. 16 convertito nella legge 26.4.2012 n. 44.
Occorre premettere che la pretesa tributaria fatta valere con gli avvisi di accertamento trova il
suo referente normativo nell'art. 14 comma 4-bis della legge 24.12.1993 n. 537 come
modificato dalla legge 27.12.2002 n. 289 , art. 2, che disponeva la indeducibilità dei costi e
delle spese "riconducibili a fatti, atti o attività qualificabile come reato". Il recupero del maggior
imponibile a fini IRES ed IRAP è stato quindi fondato, nel caso di specie, sulla premessa in fatto
che i costi relativi alle fatture passive utilizzate da Eu. It. srl si riferivano ad operazioni
soggettivamente inesistenti in quanto concluse con soggetto fittiziamente interposto rispetto
all'effettivo fornitore, ed altresì sul presupposto che la società cessionaria avesse partecipato
alla organizzazione della frode o che certamente ne avesse contezza quando effettuò le
operazioni.
Orbene la introduzione del nuovo testo dell'art. 14 comma 4-bis della legge n. 537/1993, ad
opera dell'art. 8 co. 1 del decreto legge 2.3.2012 n. 16 convertito nella legge 26.4.2012 n. 44,
il quale prevede che «Nella determinazione dei redditi di cui all'articolo 6, comma 1, del testo
unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre
1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di
servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività' qualificabili come delitto non
colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l'azione penale o, comunque, qualora
il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell'articolo 424 del codice di
procedura penale ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell'articolo 425 dello
stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall'articolo
157 del codice penale», viene a spiegare diretta rilevanza nel presente giudizio, operando quale
"jus superveniens" che trova applicazione ex officio anche in sede di legittimità in quanto il
rapporto tributario controverso non è ancora esaurito, avuto riguardo alla espressa previsione
di efficacia retroattiva "in bonam partem" della norma sopravvenuta disposta dal comma 3
dell'art. 8, DL n. 16 del 2012 conv. in legge n. 44/2012: «Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2
si applicano, in luogo di quanto disposto dal comma 4-bis dell'articolo 14 della legge 24
dicembre 1993, n. 537, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima
dell'entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli, tenuto conto anche degli
effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in
base al comma 4-bis previgente non si siano resi definitivi; resta ferma l'applicabilità delle
previsioni di cui al periodo precedente ed ai commi 1 e 2 anche per la determinazione del valore
della produzione netta ai fini dell'imposta regionale sulle attività produttive».
Ne consegue che, a seguito della modifica legislativa, ai soggetti coinvolti nelle "frodi carosello"
non è più contestabile, alla luce della nuova norma, la deducibilità dei costi, in quanto i beni
acquistati non sono stati utilizzati direttamente "al fine di commettere il reato" ma, salvo prova
contraria , per essere commercializzati e venduti. Non è dunque più sufficiente il
coinvolgimento od anche la consapevolezza dell'acquirente in operazioni che siano fatturate da
soggetto diverso dall'effettivo fornitore perché non siano deducibili, ai fini delle imposte sui
redditi, i costi relative alle predette operazioni, in quanto la precedente condizione normativa di
indeducibilità fondata sul mero "collegamento" tra i costi portati in deduzione e la condotta
lecita, è stato sostituita dalla necessità della prova che i costi si riferiscano all'acquisto di beni o
servizi che vengono direttamente utilizzati come "mezzo" o "strumento" per commettere un
"delitto doloso", come risulta inequívocamente dalla relazione di accompagnamento al disegno
di legge di conversione del decreto legge secondo cui: «Per effetto di questa disposizione,
l'indeducibilità non trova applicazione per i costi e le spese esposti in fatture o altri documenti
aventi analogo rilievo probatorio che riferiscono l'operazione a soggetti diversi da quelli effettivi,
ferme restando le regole generali in materia di detrazione della relativa imposta sul valore
aggiunto di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 e in tema di
deduzione previste dal testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del
Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 91 ove del caso, l'indeducibilità dei costi
rappresentati in documenti emessi da soggetti che in tutto o in parte non hanno effettivamente
posto in essere l'operazione, sarà, comunque, rilevabile per effetto delle altre disposizioni
normative eventualmente applicabili e connesse ai requisiti generali di effettività, inerenza,
competenza, certezza, determinatezza o determinabilità dei componenti negativi».
Non essendo stata mai in contestazione la effettiva realtà economica delle operazioni
commerciali condotte da Eu. It. srl risulta pertanto del tutto irrilevante ai fini della deducibilità
dei costi l'accertamento della consapevolezza o meno della frode da parte della società
cessionaria, rimanendo tuttavia fermi i criteri ordinari che, a norma del Testo unico delle
imposte sui redditi approvato con DPR 22 dicembre 1986, n. 917, presiedono all'accertamento
dei principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità dei
componenti negativi che possono essere portati in deduzione dal reddito imponibile (cfr. Corte
cass. Sez. 5, Sentenza n. 10167 del 20/06/2012; id. Sez. 5, Sentenza n. 12503 del
22/05/2013).
Pertanto, rilevata la applicabilità alla fattispecie controversa del "jus superveniens" (art. 14
comma 4 bis della legge n. 537/1993, nel testo modificato dall'art. 8col del decreto legge
2.3.2012 n. 16 convertito nella legge 26.4.2012 n. 44), va disposta la cassazione in "parte qua"
della sentenza impugnata con rinvio della causa ad altra sezione della Commissione tributaria
della regione Emilia Romagna che provvederà alla stregua della normativa sopravvenuta, a
verificare quali costi possano ritenersi deducibili, rideterminando le eventuali imposte dirette
dovute dalla società Eu. It. spa.ve In conclusione il ricorso deve essere accolto (quanto al
quarto motivo; infondati gli altri motivi), la sentenza impugnata deve essere cassata in ordine
alla statuizione concerne la legittimità degli avvisi di rettifica aventi ad oggetto la indeducibilità
dei costi ai fini IRES ed IRAP, la causa va rinviata ad altra sezione della Commissione tributaria
della regione Emilia-Romagna affinché, in applicazione del "jus superveniens" (art. 14 comma 4
bis della legge n. 537/1993, nel testo modificato dall'art. 8 co. 1 del decreto legge 2.3.2012 n.
16 convertito nella legge 26.4.2012 n. 44), proceda alla rideterminazione della eventuali
imposte dirette dovute dalla società resistente in relazione alle operazioni oggetto di
contestazione negli avvisi di accertamento, previa verifica della sussistenza dei requisiti di
deducibilità dei costi sostenuti dalla società Eu. It. srl nel periodo d'imposta relativo agli anni
2006 e 2007, liquidando all'esito anche le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte:
- accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata relativamente alle statuizioni indicate in parte
motiva e rinvia la causa ad altra sezione della Commissione tributaria della regione EmiliaRomagna affinché, in applicazione del "jus superveniens" (art. 14 comma 4 bis della legge n.
537/1993, nel testo modificato dall'art. 8col del decreto legge 2.3.2012 n. 16 convertito nella
legge 26.4.2012 n. 44), proceda alla rideterminazione della eventuali imposte dirette dovute
dalla società resistente in relazione alle operazioni oggetto di contestazione negli avvisi di
accertamento, previa verifica della sussistenza dei requisiti di deducibilità dei costi sostenuti
dalla società Eu. It. srl nel periodo d'imposta relativo agli anni 2006 e 2007, liquidando all'esito
anche le spese del giudizio di legittimità.