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SENTENZA CORTE GIUST. UE SEZ. II 24
ARABADJIEV DROZDOVS BALTIKUMS AAS
OTTOBRE
2013 C-277/12 PRES. SILVA
DE
LAPUERTA REL.
Assicurazione obbligatoria r.c. auto - Incidente stradale - Decesso dei genitori del richiedente
minorenne - Diritto del figlio al risarcimento - Danno immateriale - Risarcimento - Copertura
da parte dell’assicurazione obbligatoria.
72/166/CEE
84/5/CEE
90/232/CEE
DIRETTIVE
Assicurazione obbligatoria r.c. auto - Incidente stradale - Decesso dei genitori del richiedente
minorenne - Diritto del figlio al risarcimento - Danno immateriale - Risarcimento - Copertura
da parte dell’assicurazione obbligatoria.
1. Gli articoli 3, paragrafo 1, della Direttiva 72/166/CEE del Consiglio, del 24 aprile 1972,
concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e di controllo
dell’obbligo di assicurare tale responsabilità, e 1, paragrafi 1 e 2, della seconda Direttiva
84/5/CEE del Consiglio, del 30 dicembre 1983, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante
dalla circolazione di autoveicoli, devono essere interpretati nel senso che l’assicurazione
obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli deve coprire il risarcimento dei danni immateriali subiti dai congiunti di vittime decedute in un
incidente stradale nei limiti in cui tale risarcimento sia previsto a titolo di responsabilità
civile dell’assicurato dalla normativa nazionale applicabile alla controversia oggetto del
procedimento principale.
2. Gli articoli 3, paragrafo 1, della Direttiva 72/166 e 1, paragrafi 1 e 2, della seconda
Direttiva 84/5 devono essere interpretati nel senso che essi ostano a disposizioni nazionali ai
sensi delle quali l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli copre il risarcimento dei danni immateriali dovuto, secondo la normativa nazionale sulla responsabilità civile, per il decesso di un prossimo congiunto in un
incidente stradale solo sino a concorrenza di un massimale inferiore agli importi fissati
all’articolo 1, paragrafo 2, della Direttiva 84/5.
Sentenza
1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 3, paragrafo
1, della direttiva 72/166/CEE del Consiglio, del 24 aprile 1972, concernente il ravvicinamento delle
legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante
dalla circolazione di autoveicoli e di controllo dell’obbligo di assicurare tale responsabilità (GU
L 103, pag. 1; in prosieguo: la « prima direttiva »), nonché dell’articolo 1, paragrafi 1 e 2, della
seconda direttiva 84/5/CEE del Consiglio, del 30 dicembre 1983, concernente il ravvicinamento
delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli (GU 1984, L 8, pag. 17; in prosieguo: la « seconda direttiva »).
2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra il sig. Drozdovs,
rappresentato dalla sig.ra Balakireva, e la Baltikums AAS (in prosieguo: la « Baltikums »), società
di assicurazioni, in merito al risarcimento da parte di quest’ultima, a titolo di responsabilità civile
risultante dalla circolazione di autoveicoli, dei danni morali subiti dal sig. Drozdovs derivanti della
morte dei suoi genitori in un incidente stradale.
Contesto normativo
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Il diritto dell’Unione
3. L’articolo 1 della prima direttiva così enuncia:
« Ai sensi della presente direttiva, s’intende per:
(...)
2. persona lesa: ogni persona avente diritto alla riparazione del danno causato da veicoli;
(...) ».
4. L’articolo 3, paragrafo 1, della prima direttiva prevede quanto segue:
« Ogni Stato membro adotta tutte le misure necessarie (...) affinché la responsabilità civile
relativa alla circolazione dei veicoli che stazionano abitualmente nel suo territorio sia coperta da
un’assicurazione. I danni coperti e le modalità dell’assicurazione sono determinati nell’ambito di
tali misure ».
5. L’articolo 1, paragrafi 1 e 2, della seconda direttiva così recita:
« 1. L’assicurazione di cui all’articolo 3, paragrafo 1, della [prima direttiva] copre obbligatoriamente i danni alle cose e i danni alle persone.
2. Salvo importi maggiori di garanzia eventualmente prescritti dagli Stati membri, ciascuno
Stato membro esige che gli importi per i quali tale assicurazione è obbligatoria ammontino:
— per i danni alle persone, ad almeno [EUR] 350 000 quando vi sia una sola vittima; quando
vi siano più vittime implicate in uno stesso sinistro questo importo si moltiplica per il loro numero,
per i danni alle cose, ad almeno [EUR] 100 000 per ciascun sinistro indipendentemente dal
numero delle vittime.
Gli Stati membri possono prevedere, in sostituzione degli importi minimi di cui sopra, un
importo minimo di [EUR] 500 000 per i danni alle persone, qualora vi siano più vittime di uno
stesso sinistro ovvero, per i danni alle persone e alle cose, un importo minimo globale di [EUR] 600
000 per sinistro, indipendentemente dal numero delle vittime o dalla natura dei danni ».
6. L’articolo 1, primo comma, della terza direttiva 90/232/CEE del Consiglio, del 14 maggio
1990, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione
della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli (GU L 129, pag. 33; in prosieguo: la « terza direttiva »), dispone che « l’assicurazione di cui all’articolo 3, paragrafo 1, della
[prima direttiva] copre la responsabilità per i danni alla persona di qualsiasi passeggero, diverso
dal conducente, derivanti dall’uso del veicolo ».
Il diritto lettone
7. L’articolo 15 della legge relativa all’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile dei
proprietari di autoveicoli, [Sauszemes transportlīdzekļu īpašnieku civiltiesiskās atbildības
obligātās apdrošināšanas likums, Latvijas Vēstnesis, 2004, n. 65 (3013)], nella sua versione in
vigore alla data dei fatti di cui al procedimento principale (in prosieguo: la legge « OCTA »),
intitolato « Limite della responsabilità dell’assicuratore », così disponeva:
« (1) In caso di sinistro, l’assicuratore che ha preso in carico l’assicurazione della responsabilità civile del proprietario del veicolo che ha causato l’incidente o il consorzio delle imprese di
assicurazione degli autoveicoli (qualora sia il Fondo di garanzia che debba corrispondere l’indennizzo) risarcisce il danno, nei limiti della responsabilità dell’assicuratore:
1) sino a 250 000 lats [lettoni (LVL)] per ciascuna vittima di un danno alla persona;
2) sino a [LVL] 70 000 per danno alle cose, a prescindere dal numero dei terzi, vittime del
sinistro.
(2) I terzi possono richiedere un risarcimento, secondo il diritto comune, per i danni non
risarciti ai sensi della presente legge o che superino i limiti della responsabilità dell’assicuratore ».
8. L’articolo 19 della legge OCTA, intitolato « Danni alle persone », così enunciava:
« (1) Si considerano danni materiali causati alle vittime implicate in un incidente stradale:
1) le spese per cure mediche;
2) l’incapacità lavorativa temporanea;
3) l’invalidità lavorativa definitiva;
4) la morte.
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(2) Per danni immateriali si intendono i danni collegati a dolori e patimenti psicologici, vale a
dire:
1) il trauma fisico subito dalla vittima;
2) la mutilazione o l’invalidità della vittima;
3) il decesso della persona da cui si dipende economicamente, di una persona a carico o del
coniuge;
4) l’invalidità del gruppo 1 della persona dalla quale si dipende, di una persona a carico o del
coniuge.
(3) L’importo e le modalità di calcolo dei risarcimenti assicurativi dei danni materiali e immateriali causati alle persone sono fissati dal Consiglio dei Ministri ».
9. L’articolo 23 della legge OCTA, intitolato « Danni conseguenti al decesso della vittima », così
recitava:
« (1) Hanno diritto a un risarcimento assicurativo in caso di morte della persona dalla quale
dipendono:
1) i figli, anche adottivi:
a) fino alla loro maggiore età,
(...) ».
10. L’articolo 5 del codice civile, nella sua versione in vigore alla data dei fatti di cui al
procedimento principale (Civillikums, Latvijas Republikas Saeimas un Ministru Kabineta
Ziņotājs, 1993, n.1), nella sua versione in vigore alla data dei fatti di cui al procedimento principale
(in prosieguo: il « codice civile »), disponeva quanto segue:
« Quando una controversia è decisa secondo equità o secondo diritto, il giudice statuisce ai
sensi dei principi generali di diritto ».
11. L’articolo 1635 del codice civile così enunciava:
« Ogni danno ingiusto, vale a dire ogni fatto illecito, attribuisce a chi ne è stata la vittima il
diritto di chiedere un risarcimento a colui che l’ha posto in essere, nei limiti in cui tale azione gli
possa essere imputata ».
12. L’articolo 2347 del codice civile prevedeva quanto segue:
« Se una persona cagiona, con un atto che le è imputabile e che è illecito, un danno fisico a
un’altra persona, essa deve risarcire a quest’ultima persona le spese mediche e, secondo la
valutazione del giudice, gli eventuali mancati guadagni.
Chi esercita un’attività di elevata pericolosità per chi gli stia attorno (trasporto, industria,
lavori di costruzione, sostanze pericolose, etc.) è obbligato a risarcire i danni conseguenti da tale
pericolosità se non può dimostrare che il danno sia stato dovuto a forza maggiore, a colpa della
vittima o a grave negligenza. Qualora il controllo della fonte di pericolosità sia sfuggito al proprietario, al detentore o all’utilizzatore, senza che ciò corrisponda a un suo errore, a causa del fatto
illecito di un’altra persona, quest’ultima è responsabile del danno cagionato. Se anche il detentore
(proprietario, possessore, utilizzatore) ha agito in modo illecito, è possibile invocare la responsabilità per il danno cagionato tanto della persona che ha utilizzato l’oggetto, fonte di elevata
pericolosità, quanto del suo detentore, secondo il grado di colpa di ciascuno ».
13. Ai sensi dell’articolo 22 del codice di procedura penale [Kriminālprocesa likums, Latvijas
Vēstnesis, 2005, n.74 (3232)], intitolato « Diritto al risarcimento del danno subito »:
« Il diritto di chiedere e ottenere di diritto il risarcimento dei danni morali e patrimoniali è
garantito alla persona che ha subito un danno derivante da un fatto illecito, compresi i danni
morali, le lesioni fisiche e i danni ai beni ».
14. Gli articoli 7 e 10 del decreto n.331 del Consiglio dei Ministri, relativo all’importo e alle
modalità di calcolo dei risarcimenti assicurativi per i danni morali cagionati alle persone (Noteikumi par apdrošināšanas atlīdzības apmēru un aprēķināšanas kārtību par personai nodarītajiem
nemateriālajiem zaudējumiem), del 17 maggio 2005 [Latvijas Vēstnesis, 2005, n.80 (3238); in
prosieguo: il « decreto »)], che attuano l’articolo 19, paragrafo 3, della legge OCTA, enunciano
quanto segue:
« Articolo 7
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L’importo dei risarcimenti assicurativi per dolori e patimenti psicologici conseguenti al decesso di una persona da cui si dipende economicamente, di una persona a carico o del coniuge è
pari a [LVL]100 per ciascun richiedente e per persona ai sensi dell’articolo 23, paragrafo 1, della
legge relativa all’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile dei proprietari di autoveicoli.
(...)
Articolo 10
L’importo totale dei risarcimenti assicurativi è limitato a [LVL]1000 per ciascuna vittima
d’incidente stradale se tutti i danni di cui ai punti 3, 6, 7 e 8 sono risarciti ».
Procedimento principale e questioni pregiudiziali
15. Il 14 febbraio 2006 i genitori del sig.Drozdovs sono deceduti in un incidente stradale
avvenuto a Riga (Lettonia). Il sig.Drozdovs, che è nato il 25 agosto 1995, è stato, di conseguenza,
posto sotto la tutela della sig.raBalakireva (in prosieguo: la « tutrice »).
16. Tale incidente è stato causato dal conducente di un’auto assicurata con la Baltikums.
L’autore del predetto incidente, che si trovava in stato di ubriachezza, che guidava a eccessiva
velocità un veicolo in cattive condizioni dal punto di vista tecnico e che aveva effettuato, al
momento di detto incidente, una manovra di sorpasso pericolosa, è stato condannato con sentenza
penale a sei anni di pena detentiva e alla sospensione della patente di guida per autoveicoli per
cinque anni.
17. Il 13 dicembre 2006 la tutrice ha informato la Baltikums dell’incidente e ha invitato
quest’ultima a corrispondere gli indennizzi previsti, tra cui quello dovuto a titolo di danni morali,
che era stato calcolato in LVL200000. Il 29 gennaio 2007 la Baltikums ha versato, conformemente
all’articolo 7 del decreto, una somma di LVL200 a titolo di risarcimento delle sofferenze psicologiche sopportate dal sig.Drozdovs, nonché un importo di LVL4497,47 a titolo di danni patrimoniali, che non è oggetto di controversia.
18. Il 13 settembre 2007 la tutrice ha proposto, nei confronti della Baltikums, un ricorso diretto
al versamento di un’indennità pari a LVL200000 a titolo di danni morali subiti dal sig.Drozdovs.
Tale ricorso, che era motivato sul fatto che la morte dei genitori ha causato al sig.Drozdovs
sofferenze piscologiche a motivo della sua giovane età, si fondava sugli articoli 15, paragrafo 1,
primo comma, 19, paragrafo 2, terzo comma, e 39, paragrafi 1 e 6, della legge OCTA, nonché
sull’articolo 1, paragrafo 2, della seconda direttiva.
19. Essendo stati respinti il predetto ricorso e l’impugnazione proposta dalla tutrice, segnatamente sulla base dell’articolo 7 del decreto, quest’ultima ha proposto un ricorso in cassazione
dinanzi al giudice del rinvio, chiedendo l’annullamento della sentenza pronunciata dal giudice
d’appello e il rinvio della causa a tale giudice per un nuovo esame.
20. Con il predetto ricorso, la tutrice ha fatto valere in particolare che il giudice d’appello aveva
erroneamente applicato l’articolo 15, paragrafo 1, primo comma, della legge OCTA, in quanto tale
disposizione dovrebbe essere interpretata in conformità, segnatamente, della prima e della seconda direttiva. Orbene, risulterebbe da tale normativa dell’Unione che uno Stato membro non
può fissare limiti del risarcimento inferiori agli importi minimi previsti all’articolo 1 della seconda
direttiva. Ne conseguirebbe che l’articolo 7 del decreto viola i limiti del risarcimento fissati all’articolo 15, paragrafo 1, primo comma, della legge OCTA e dalle direttive summenzionate.
21. Il giudice del rinvio rileva che l’articolo 1 della seconda direttiva fissa un importo di
garanzia obbligatorio per i danni alle persone e i danni alle cose, ma non prende in considerazione
direttamente i danni morali causati alle persone. Inoltre, la Corte avrebbe riconosciuto che la
prima e la seconda direttiva non sono dirette ad armonizzare i regimi di responsabilità civile degli
Stati membri, per cui questi ultimi rimarrebbero liberi di determinare il regime applicabile agli
incidenti stradali. Se ne potrebbe dedurre che le direttive interessate non riguardino l’importo del
risarcimento dei danni morali causati alle persone.
22. Tuttavia, il giudice del rinvio ritiene che sarebbe del pari possibile affermare che le
predette direttive ostano a normative degli Stati membri che fissino un limite massimo a un
regime di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli.
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Infatti, la finalità di tale assicurazione sarebbe di risarcire, almeno parzialmente, a favore delle
vittime di incidenti stradali i danni che possono essere valutati in modo oggettivo, segnatamente i
danni causati alle cose e alle persone, compresi i danni morali.
23. Inoltre, la Corte avrebbe dichiarato che le direttive interessate vietano sia di rifiutare o di
limitare in modo sproporzionato il risarcimento dei danni subiti dalle vittime di incidenti stradali,
sia di prevedere importi minimi di garanzia inferiori agli importi minimi di garanzia fissati all’articolo 1, paragrafo 2, della seconda direttiva.
24. Orbene, il giudice del rinvio osserva anche che un sistema di assicurazione della responsabilità civile efficace deve mirare a conciliare i diversi interessi delle vittime di incidenti stradali,
dei proprietari di autoveicoli e delle loro imprese assicuratrici. Limiti di risarcimento chiari garantirebbero alle vittime gli indennizzi previsti per i danni subiti, limiterebbero i premi assicurativi a somme ragionevoli e consentirebbero alle imprese assicuratrici di fruire di un reddito.
25. Il giudice del rinvio precisa che il legislatore nazionale ha limitato il risarcimento da parte
dell’assicurazione obbligatoria a titolo di responsabilità civile risultante da incidenti stradali fissando dei massimali e che esso ha delegato al governo il compito di stabilire le norme relative
all’importo e alle modalità di calcolo del risarcimento da parte dell’impresa assicuratrice dei danni
non patrimoniali causati alle persone. Orbene, secondo esso, tali regole limitano in modo sproporzionato il diritto al risarcimento da parte della predetta impresa assicuratrice, segnatamente
mediante la concessione di un’indennità « irrisoria » di LVL100 prevista per la sofferenza psicologica causata dalla morte di una persona dalla quale la persona interessata dipende economicamente.
26. Ciò premesso, l’Augstākās tiesas Senāts ha deciso di sospendere il procedimento e di
sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
« 1) Se il risarcimento obbligatorio del danno alle persone, previsto all’articolo 3 della [prima
direttiva] e [all’articolo 1, paragrafo 2,] della [seconda direttiva] includa anche il danno morale.
2) In caso di risposta affermativa alla prima questione, se l’articolo 3 della [prima direttiva] e
[l’articolo 1, paragrafo 2,] della [seconda direttiva] debbano essere interpretati nel senso che tali
disposizioni non autorizzano uno Stato membro a limitare l’importo massimo del risarcimento del
danno immateriale (morale), fissando un limite sostanzialmente inferiore al limite della responsabilità assicurativa fissato dalle direttive e dalla legge nazionale ».
Sulle questioni pregiudiziali
Sulla prima questione
27. Con la sua prima questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli articoli 3,
paragrafo 1, della prima direttiva e 1, paragrafo 2, della seconda direttiva debbano essere interpretati nel senso che l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli debba coprire il risarcimento dei danni immateriali subiti dai congiunti di
vittime decedute in un incidente stradale.
28. Si deve ricordare che dai preamboli della prima e della seconda direttiva emerge che
queste sono dirette a garantire, da un lato, la libera circolazione sia dei veicoli che stazionano
abitualmente nel territorio dell’Unione europea, sia delle persone che vi si trovano a bordo e,
dall’altro, a garantire che le vittime degli incidenti causati da tali veicoli beneficeranno di un
trattamento comparabile, indipendentemente dal luogo dell’Unione in cui il sinistro è avvenuto
(sentenza del 23 ottobre 2012, Marques Almeida, C-300/10, non ancora pubblicata nella Raccolta,
punto 26 e la giurisprudenza ivi citata).
29. La prima direttiva, come precisata e integrata dalla seconda e dalla terza direttiva, impone
quindi agli Stati membri di garantire che la responsabilità civile risultante dalla circolazione di
autoveicoli che stazionano abitualmente sul loro territorio sia coperta da un’assicurazione e
precisa, in particolare, i tipi di danni e i terzi vittime che siffatta assicurazione deve coprire
(sentenza Marques Almeida, cit., punto 27 e la giurisprudenza ivi citata).
30. Occorre tuttavia ricordare che l’obbligo di copertura, da parte dell’assicurazione della
responsabilità civile, dei danni causati ai terzi dagli autoveicoli è distinto dalla portata del risarcimento di detti danni a titolo di responsabilità civile dell’assicurato. Infatti, mentre il primo è
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definito e garantito dalla normativa dell’Unione, la seconda è sostanzialmente disciplinata dal
diritto nazionale (sentenza Marques Almeida, cit., punto 28 e giurisprudenza ivi citata).
31. Al riguardo, la Corte ha già dichiarato che dall’oggetto della prima, della seconda e della
terza direttiva, nonché dal loro tenore letterale, risulta che esse non sono dirette ad armonizzare i
regimi di responsabilità civile degli Stati membri e che, allo stato attuale del diritto dell’Unione,
questi ultimi restano liberi di stabilire il regime di responsabilità civile applicabile a sinistri
derivanti dalla circolazione di autoveicoli (sentenza Marques Almeida, cit., punto 29 e giurisprudenza ivi citata).
32. Di conseguenza, e alla luce segnatamente dell’articolo 1, punto 2, della prima direttiva, allo
stato attuale del diritto dell’Unione, gli Stati membri restano in linea di principio liberi di stabilire
i loro regimi di responsabilità civile, in particolare i danni causati dagli autoveicoli che devono
essere risarciti, la portata del risarcimento di tali danni e le persone che hanno diritto al predetto
risarcimento.
33. Tuttavia, la Corte ha precisato che gli Stati membri devono esercitare le loro competenze
in tale settore nel rispetto del diritto dell’Unione e che le disposizioni nazionali che disciplinano il
risarcimento dei sinistri risultanti dalla circolazione di autoveicoli non possono privare la prima, la
seconda e la terza direttiva del loro effetto utile (sentenza Marques Almeida, cit., punto 31 e
giurisprudenza ivi citata).
34. Per quanto riguarda la copertura da parte dell’assicurazione obbligatoria dei danni causati
dagli autoveicoli che devono essere risarciti ai sensi della normativa nazionale sulla responsabilità
civile, l’articolo 3, paragrafo 1, seconda frase, della prima direttiva lasciava, certamente, come
rilevato dal governo tedesco, agli Stati membri il compito di determinare i danni coperti nonché le
modalità dell’assicurazione obbligatoria (v., in tal senso, sentenza del 28 marzo 1996, Ruiz Bernáldez, C-129/94, Racc. pag. I-1829, punto 15).
35. Tuttavia, proprio al fine di ridurre le disparità sussistenti quanto alla portata dell’obbligo di
assicurazione tra le normative degli Stati membri, l’articolo 1 della seconda direttiva ha imposto, in
materia di responsabilità civile, la copertura obbligatoria dei danni alle cose e dei danni alle
persone, sino a concorrenza di determinati importi. L’articolo 1 della terza direttiva ha esteso tale
obbligo alla copertura dei danni alla persona di qualsiasi passeggero diverso dal conducente
(sentenza Ruiz Bernáldez, cit., punto 16).
36. Pertanto, gli Stati membri sono obbligati a garantire che la responsabilità civile risultante
dalla circolazione di autoveicoli applicabile secondo il loro diritto nazionale sia coperta da un’assicurazione conforme alle disposizioni delle direttive prima, seconda e terza (sentenza Marques
Almeida, cit., punto 30 e giurisprudenza ivi citata).
37. Ne consegue che la libertà che gli Stati membri hanno di determinare i danni coperti
nonché le modalità di assicurazione obbligatoria è stata limitata dalla seconda e dalla terza
direttiva, in quanto esse hanno reso obbligatoria la copertura di taluni danni sino a concorrenza di
importi minimi determinati. Figurano in particolare tra tali danni la cui copertura è obbligatoria i
danni alle persone, come precisa l’articolo 1, paragrafo 1, della seconda direttiva.
38. Orbene, come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi da 68 a 73 delle sue conclusioni
e come dichiarato dalla Corte EFTA nella sua sentenza del 20 giugno 2008, Celina Nguyen/The
Norwegian State (E-8/07, EFTA Court Report, pag.224, punti 26 e 27), occorre considerare, alla
luce delle diverse versioni linguistiche degli articoli 1, paragrafo 1, della seconda direttiva e 1,
primo comma, della terza direttiva, nonché della finalità di tutela delle tre direttive di cui sopra,
che rientra nella nozione di danni alle persone qualsiasi danno, nei limiti in cui il suo risarcimento
sia previsto a titolo di responsabilità civile dell’assicurato da parte del diritto nazionale applicabile
alla controversia, derivante da una lesione all’integrità della persona, il che comprende le sofferenze sia fisiche che psicologiche.
39. Infatti, secondo una giurisprudenza costante, le disposizioni del diritto dell’Unione devono
essere interpretate e applicate in modo uniforme alla luce delle versioni vigenti in tutte le lingue
dell’Unione. In caso di difformità tra le diverse versioni linguistiche di un testo di diritto dell’Unione, la disposizione di cui è causa dev’essere interpretata in funzione dell’economia generale e
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della finalità della normativa di cui essa fa parte (v., in particolare, sentenza dell’8 dicembre 2005,
Jyske Finans, C-280/04, Racc. pag. I-10683, punto 31 e giurisprudenza ivi citata).
40. Pertanto, posto che le differenti versioni linguistiche dell’articolo 1, paragrafo 1, della
seconda direttiva utilizzano, in sostanza, le nozioni sia di « danno alla persona » che di pregiudizio
immateriale, occorre attenersi all’economia e alla finalità di siffatte disposizioni e di tale direttiva.
In proposito, è necessario, da un lato, rilevare che tali nozioni si aggiungono a quella di « danno
alle cose » e, dall’altro, rammentare che le disposizioni e la direttiva predette sono dirette, in
particolare, a rafforzare la tutela delle vittime. Ciò premesso, occorre accogliere l’interpretazione
estensiva di dette nozioni che è riportata al punto 38 della presente sentenza.
41. Di conseguenza, tra i danni che devono essere risarciti conformemente alle direttive
prima, seconda e terza figurano i danni immateriali il cui risarcimento è previsto a titolo di
responsabilità civile dell’assicurato dal diritto nazionale applicabile alla controversia.
42. Per quanto concerne la questione di sapere quali siano le persone che possono richiedere
il risarcimento di tali danni immateriali, da un lato, occorre rilevare che risulta dal combinato
disposto degli articoli 1, punto 2, e 3, paragrafo 1, prima frase, della prima direttiva che la tutela
chedeve essere assicurata in virtù di tale direttiva si estende a ogni persona che ha diritto, ai sensi
della normativa nazionale sulla responsabilità civile, al risarcimento dei danni causati da autoveicoli.
43. Dall’altro, occorre precisare che, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 78 delle
conclusioni e contrariamente a quanto fa valere il governo tedesco, la terza direttiva non ha
limitato la cerchia di persone tutelate, bensì, al contrario, ha reso obbligatoria la copertura dei
danni subiti da determinate persone ritenute particolarmente vulnerabili.
44. Altresì, tanto più che la nozione di danno riportata all’articolo 1, punto 2, della prima
direttiva non è circoscritta, niente consente di considerare, contrariamente a quanto sostengono i
governi lettone e lituano, che determinati danni, come i danni immateriali, nei limiti in cui
debbano essere risarciti ai sensi della normativa nazionale sulla responsabilità civile applicabile,
dovrebbero essere esclusi da tale nozione.
45. Nessun elemento della prima, della seconda o della terza direttiva consente di affermare
che il legislatore dell’Unione abbia desiderato limitare la tutela assicurata da tali direttive alle sole
persone direttamente coinvolte in un evento dannoso.
46. Di conseguenza, gli Stati membri sono obbligati a garantire che il risarcimento dovuto, ai
sensi della loro normativa nazionale sulla responsabilità civile, a motivo dei danni immateriali
subiti dai familiari di vittime di incidenti stradali sia coperta dall’assicurazione obbligatoria sino a
concorrenza degli importi minimi stabiliti all’articolo 1, paragrafo 2, della seconda direttiva.
47. Nel caso di specie, questo sarebbe il caso posto che, secondo le indicazioni del giudice del
rinvio, una persona che si trovi nella situazione del sig.Drozdovs ha diritto, in virtù della normativa
nazionale lettone sulla responsabilità civile, al risarcimento dei danni immateriali subiti derivanti
dalla morte dei suoi genitori.
48. Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, occorre rispondere alla prima questione
dichiarando che gli articoli 3, paragrafo 1, della prima direttiva e 1, paragrafi 1 e 2, della seconda
direttiva devono essere interpretati nel senso che l’assicurazione obbligatoria della responsabilità
civile risultante dalla circolazione di autoveicoli deve coprire il risarcimento dei danni immateriali
subiti dai congiunti di vittime decedute in un incidente stradale nei limiti in cui tale risarcimento
sia previsto a titolo di responsabilità civile dell’assicurato dalla normativa nazionale applicabile
alla controversia oggetto del procedimento principale.
Sulla seconda questione
49. Con la sua seconda questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli articoli 3,
paragrafo 1, della prima direttiva e 1, paragrafo 2, della seconda direttiva debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a disposizioni nazionali ai sensi delle quali l’assicurazione
obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli copre il risarcimento dei danni immateriali derivanti, secondo la normativa nazionale sulla responsabilità civile,
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dal decesso di familiari in un incidente stradale solo sino alla concorrenza di un massimale
inferiore a quelli fissati all’articolo 1, paragrafo 2, della seconda direttiva.
50. Si è affermato al punto 46 della presente sentenza che gli Stati membri sono obbligati a
garantire che il risarcimento dovuto, ai sensi della loro normativa nazionale sulla responsabilità
civile, a motivo dei danni immateriali subiti dai congiunti prossimi delle vittime di incidenti
stradali sia coperto dall’assicurazione obbligatoria sino a concorrenza degli importi minimi stabiliti all’articolo 1, paragrafo 2, della seconda direttiva.
51. Occorre del pari ricordare che la Corte ha avuto modo di dichiarare che l’articolo 1,
paragrafo 2, della seconda direttiva osta ad una normativa nazionale che prevede massimali di
garanzia inferiori agli importi minimi di garanzia fissati da detto articolo (v., in tal senso, sentenza
del 14 settembre 2000, Mendes Ferreira e Delgado Correia Ferreira, C-348/98, Racc. pag. I-6711,
punto 40, nonché ordinanza del 24 luglio 2003, Messejana Viegas, C-166/02, Racc. pag. I-7871,
punto 20).
52. Poiché la Baltikums sostiene che il legislatore nazionale possa prevedere, per categorie
specifiche di danni, massimali di garanzia inferiori agli importi minimi di garanzia fissati dal
predetto articolo qualora sia garantito che, per la totalità dei danni, gli importi minimi di garanzia
fissati dal medesimo articolo siano rispettati, occorre rilevare, da un lato, che l’articolo 1, paragrafo
2, della seconda direttiva non prevede né autorizza una distinzione, tra i danni coperti, diversa da
quella stabilita tra danni alle persone e danni alle cose.
53. Dall’altro lato, occorre ricordare che è stato rilevato al punto 33 della presente sentenza che
gli Stati membri devono esercitare le loro competenze in tale settore nel rispetto del diritto
dell’Unione e che le disposizioni nazionali che disciplinano il risarcimento dei sinistri risultanti
dalla circolazione di autoveicoli non possono privare le tre direttive del loro effetto utile.
54. Orbene, se il legislatore nazionale potesse prevedere, per ciascuna delle differenti categorie specifiche di danni identificati, eventualmente, nella normativa nazionale, massimali di
garanzia inferiori agli importi minimi di garanzia fissati all’articolo 1, paragrafo 2, della seconda
direttiva, i predetti importi minimi di garanzia e, pertanto, tale articolo sarebbero privati del loro
effetto utile.
55. Risulta altresì dal fascicolo sottoposto alla Corte che, a differenza delle circostanze che
hanno dato luogo alla citata sentenza Marques Almeida, la normativa nazionale controversa nel
procedimento principale non è diretta a determinare il diritto della vittima a un risarcimento a
titolo di responsabilità civile dell’assicurato, né l’eventuale portata di tale diritto, ma è idonea a
limitare la copertura da parte dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile di un
assicurato.
56. Infatti, la tutrice ha rilevato, e in udienza dinanzi alla Corte il governo lettone ha confermato, che, secondo il diritto lettone, la responsabilità civile dell’assicurato a titolo, segnatamente,
dei danni immateriali subiti da talune persone a causa di un incidente stradale può eccedere gli
importi coperti, ai sensi della normativa nazionale controversa, dall’assicurazione obbligatoria.
57. Orbene, ciò premesso, si deve affermare che la normativa nazionale controversa nel
procedimento principale pregiudica la garanzia, sancita dal diritto dell’Unione, che la responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, determinata secondo la normativa nazionale applicabile, sia coperta da un’assicurazione conforme alla prima, alla seconda e alla terza
direttiva (v., in tal senso, sentenza Marques Almeida, cit., punto 38 e la giurisprudenza ivi citata).
58. Ne deriva che si deve rispondere alla seconda questione dichiarando che gli articoli 3,
paragrafo 1, della prima direttiva e 1, paragrafi 1 e 2, della seconda direttiva devono essere
interpretati nel senso che essi ostano a disposizioni nazionali ai sensi delle quali l’assicurazione
obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli copre il risarcimento dei danni immateriali dovuto, secondo la normativa nazionale sulla responsabilità civile,
per il decesso di un prossimo congiunto in un incidente stradale solo sino a concorrenza di un
massimale inferiore agli importi fissati all’articolo 1, paragrafo 2, della seconda direttiva.
Sulle spese
59. Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un
⎪ P.8
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incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese
sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:
1) Gli articoli 3, paragrafo 1, della direttiva 72/166/CEE del Consiglio, del 24 aprile 1972,
concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione
della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e di controllo dell’obbligo di
assicurare tale responsabilità, e 1, paragrafi 1 e 2, della seconda direttiva 84/5/CEE del Consiglio,
del 30 dicembre 1983, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in
materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli,
devono essere interpretati nel senso che l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile
risultante dalla circolazione di autoveicoli deve coprire il risarcimento dei danni immateriali subiti
dai congiunti di vittime decedute in un incidente stradale nei limiti in cui tale risarcimento sia
previsto a titolo di responsabilità civile dell’assicurato dalla normativa nazionale applicabile alla
controversia oggetto del procedimento principale.
2) Gli articoli 3, paragrafo 1, della direttiva 72/166 e 1, paragrafi 1 e 2, della seconda direttiva
84/5 devono essere interpretati nel senso che essi ostano a disposizioni nazionali ai sensi delle
quali l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli copre il risarcimento dei danni immateriali dovuto, secondo la normativa nazionale sulla
responsabilità civile, per il decesso di un prossimo congiunto in un incidente stradale solo sino a
concorrenza di un massimale inferiore agli importi fissati all’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva
84/5. (Omissis).
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SENTENZA CORTE GIUST. UE SEZ. II 24 OTTOBRE 2013 C-22/12 PRES. SILVA DE LAPUERTA REL. ARABADJIEV HAASOVÁ
Assicurazione obbligatoria r.c. auto - Incidente stradale - Decesso di un passeggero - Diritto al
risarcimento del coniuge e del figlio minore di età - Danno immateriale - Risarcimento Copertura fornita dall’assicurazione obbligatoria.
84/5/CEE
84/5/CEE
90/232/CEE
DIRETTIVA
L’articolo 3, paragrafo 1, della Direttiva 72/166/CEE del Consiglio, del 24 aprile 1972,
concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e di controllo
dell’obbligo di assicurare tale responsabilità, l’articolo 1, paragrafi 1 e 2, della seconda
Direttiva 84/5/CEE del Consiglio, del 30 dicembre 1983, concernente il ravvicinamento
delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile
risultante dalla circolazione di autoveicoli, quale modificata dalla Direttiva 2005/14/CE
del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005, e l’articolo 1, comma 1, della
terza Direttiva 90/232/CEE del Consiglio, del 14 maggio 1990, relativa al ravvicinamento
delle legislazioni degli Stati Membri in materia di assicurazione della responsabilità civile
risultante dalla circolazione di autoveicoli, devono essere interpretati nel senso che l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli
deve garantire il risarcimento dei danni immateriali subiti dai congiunti di vittime, decedute, di incidenti stradali, qualora tale risarcimento sia previsto, in forza della responsabilità
civile dell’assicurato, dalla normativa nazionale applicabile alla controversia nel procedimento principale.
Sentenza
1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 3, paragrafo
1, della direttiva 72/166/CEE del Consiglio, del 24 aprile 1972, concernente il ravvicinamento delle
legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante
dalla circolazione di autoveicoli e di controllo dell’obbligo di assicurare tale responsabilità (GU
L 103, pag. 1) (in prosieguo: la « prima direttiva »), e dell’articolo 1, primo comma, della terza
direttiva 90/232/CEE del Consiglio, del 14 maggio 1990, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla
circolazione di autoveicoli (GU L 129, pag. 33) (in prosieguo: la « terza direttiva »).
2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra, da un lato, la sig.ra Haasová, che agisce in nome proprio e in nome di sua figlia minore di età, Kristína Haasová,
nata il 22 aprile 1999, e, dall’altro, il sig. Petrík e la sig.ra Holingová, vertente sul risarcimento da
parte di questi ultimi, a titolo della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli,
del danno conseguente al decesso del sig. Haas, coniuge della sig.ra Haasová e padre di Kristína
Haasová, a causa di un incidente stradale avvenuto in territorio ceco.
Contesto normativo
Diritto internazionale privato
3. L’articolo 3 della Convenzione sulla legge applicabile in materia di incidenti della circolazione stradale, adottata a L’Aia il 4 maggio 1971 (in prosieguo: la « Convenzione dell’Aia del 1971
»), ratificata dalla Repubblica slovacca, dalla Repubblica ceca e da altri Stati membri dell’Unione
europea, nonché da alcuni paesi terzi, stabilisce quanto segue:
« La legge applicabile è la legge nazionale dello Stato sul cui territorio l’incidente è avvenuto
».
⎪ P.10
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4. L’articolo 4 di tale convenzione dispone quanto segue:
« Fatto salvo l’articolo 5, sono ammesse deroghe all’articolo 3 nei seguenti casi:
a) Quando nell’incidente è coinvolto un solo veicolo, e tale veicolo è immatricolato in uno Stato
diverso da quello sul cui territorio è avvenuto l’incidente, si applica la legge nazionale dello Stato
d’immatricolazione alla responsabilità
— verso il conducente, il detentore, il proprietario o qualsiasi altra persona che vanti un
diritto sul veicolo, senza tenere conto della loro residenza abituale,
— verso il passeggero rimasto vittima dell’incidente, se questi aveva la propria residenza
abituale in uno Stato diverso da quello sul cui territorio è avvenuto l’incidente,
— verso la persona rimasta vittima dell’incidente che si trovava sul luogo dell’incidente al di
fuori del veicolo, se essa aveva la propria residenza abituale nello Stato d’immatricolazione.
In caso di più vittime la legge applicabile è determinata separatamente per ciascuna di esse.
b) Quando più veicoli sono coinvolti nell’incidente le disposizioni di cui alla lettera a) sono
applicabili soltanto se tutti i veicoli sono immatricolati nello stesso Stato.
(...) ».
5. L’articolo 8 di detta convenzione è formulato come segue:
« La legge applicabile stabilisce in particolare:
1. le condizioni e l’estensione della responsabilità;
2. i motivi di esonero, nonché ogni limitazione e ripartizione della responsabilità;
3. l’esistenza e la natura dei danni risarcibili;
4. le modalità e l’entità del risarcimento;
5. la trasferibilità del diritto al risarcimento;
6. i soggetti aventi diritto al risarcimento del danno personalmente subito;
7. la responsabilità del preponente per il fatto del preposto;
8. i casi di prescrizione e decadenza, incluse le norme sulla decorrenza, l’interruzione e la
sospensione dei termini ».
La normativa dell’Unione
6. L’articolo 28 del regolamento (CE) n. 864/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio,
dell’11 luglio 2007, sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali (« Roma II ») (GU L
199, pag. 40) (in prosieguo: il « regolamento Roma II »), intitolato « Rapporti con altre convenzioni
internazionali in vigore », stabilisce quanto segue:
« 1. Il presente regolamento non osta all’applicazione delle convenzioni internazionali di cui
uno o più Stati membri sono parti contraenti al momento dell’adozione del presente regolamento
e che disciplinano i conflitti di leggi inerenti ad obbligazioni extracontrattuali.
2. Tuttavia, il presente regolamento prevale, tra Stati membri, sulle convenzioni concluse
esclusivamente tra due o più di essi nella misura in cui esse riguardano materie disciplinate dal
presente regolamento ».
7. L’articolo 1 della prima direttiva così dispone:
« Ai sensi della presente direttiva, s’intende per:
(...)
2. persona lesa: ogni persona avente diritto alla riparazione del danno causato da veicoli;
(...) ».
8. L’articolo 3, paragrafo 1, della prima direttiva così dispone:
« Ogni Stato membro adotta tutte le misure necessarie (...) affinché la responsabilità civile
relativa alla circolazione dei veicoli che stazionano abitualmente nel suo territorio sia coperta da
un’assicurazione. I danni coperti e le modalità dell’assicurazione sono determinati nell’ambito di
tali misure ».
9. L’articolo 1, paragrafi 1 e 2, della seconda direttiva 84/5/CEE del Consiglio, del 30 dicembre
1983, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli (GU 1984, L 8, pag. 17),
quale modificata dalla direttiva 2005/14/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio
2005 (GU L 149, pag. 14) (in prosieguo: la « seconda direttiva »), prevede quanto segue:
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.11
⎪
« 1. L’assicurazione di cui all’articolo 3, paragrafo 1, della [prima direttiva] copre obbligatoriamente i danni alle cose e i danni alle persone.
2. Salvo importi maggiori di garanzia eventualmente prescritti dagli Stati membri, ciascuno
Stato membro esige che l’assicurazione sia obbligatoria almeno per gli importi seguenti:
a) nel caso di danni alle persone, un importo minimo di copertura pari a 1 000 000 EUR per
vittima o a 5 000 000 EUR per sinistro, indipendentemente dal numero delle vittime;
b) nel caso di danni alle cose, 1 000 000 EUR per sinistro, indipendentemente dal numero delle
vittime.
Ove opportuno, gli Stati membri possono stabilire un periodo transitorio fino a cinque anni
dalla data di attuazione della direttiva [2005/14], entro il quale adeguare i propri importi minimi di
copertura agli importi di cui al presente paragrafo.
Gli Stati membri che stabiliscono il suddetto periodo transitorio ne informano la Commissione
e indicano la durata del periodo transitorio.
Entro 30 mesi dalla data di attuazione della direttiva [2005/14], gli Stati membri devono
aumentare gli importi di garanzia ad almeno la metà dei livelli previsti nel presente paragrafo ».
10. L’articolo 1 della terza direttiva prevede, segnatamente, che « l’assicurazione di cui all’articolo 3, paragrafo 1 della [prima direttiva] copre la responsabilità per i danni alla persona di
qualsiasi passeggero, diverso dal conducente, derivanti dall’uso del veicolo ».
La normativa nazionale
La normativa slovacca
11. L’articolo 11 della legge n. 40/1964, che istituisce il codice civile (in prosieguo: il « codice
civile slovacco »), dispone quanto segue:
« La persona fisica ha diritto alla tutela della propria persona, in particolare alla tutela della
vita e della salute, dell’onore e della dignità, nonché della riservatezza, del nome e delle espressioni di natura personale ».
12. L’articolo 13 del codice civile slovacco prevede quanto segue:
« 1) La persona fisica ha in particolare il diritto di esigere che si desista da comportamenti
illegittimi lesivi dei propri diritti della personalità, che si eliminino le conseguenze di tali comportamenti e che le venga riconosciuta una riparazione adeguata.
2) Qualora una riparazione adeguata ai sensi del paragrafo 1 non sia possibile, in particolare
in quanto sia stata gravemente lesa la dignità di una persona fisica o sia stato gravemente leso il
suo prestigio sociale, quest’ultima ha altresì il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale
in forma pecuniaria.
3) L’entità del risarcimento ai sensi del paragrafo 2 è stabilita dal giudice con riguardo alla
gravità del danno immateriale emerso e alle circostanze in cui è avvenuta la violazione del diritto
».
13 L’articolo 4 della legge n. 381/2001, in materia di contratto di assicurazione obbligatoria
della responsabilità civile risultante dalla circolazione di veicoli a motore (in prosieguo: la « legge
slovacca relativa all’assicurazione obbligatoria »), stabilisce quanto segue:
« 1) L’assicurazione della responsabilità civile trova applicazione nei confronti di chiunque
risponda del danno risultante dalla circolazione del veicolo a motore indicato nel contratto di
assicurazione.
2) In base all’assicurazione della responsabilità civile l’assicurato ha il diritto che l’assicuratore rimborsi il danneggiato, per suo conto, a fronte di affermate e comprovate pretese:
a) di risarcimento del danno alla salute e di rimborso delle spese in caso di decesso,
b) di risarcimento del danno che trae origine dalla lesione, distruzione, sottrazione o perdita
della cosa,
c) di rimborso delle spese sostenute normalmente connesse alla rappresentanza legale per
l’esercizio delle pretese risarcitorie di cui alle lettere a), b) e d), qualora l’assicuratore non abbia
adempiuto agli obblighi previsti dall’articolo 11, paragrafo 6, lettera a) o b), oppure abbia illegittimamente rifiutato di fornire la prestazione assicurativa, o abbia illegittimamente ridotto la
prestazione assicurativa fornita,
⎪ P.12
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
d) di risarcimento per la perdita di guadagno.
3) In base all’assicurazione della responsabilità civile l’assicurato ha il diritto a che l’assicuratore rimborsi all’ente preposto, qualora l’assicurato risulti obbligato nei confronti del suddetto
ente, i costi fatti valere, comprovati e pagati, per l’assistenza sanitaria, le indennità di malattia, le
indennità di malattia per agenti di polizia e militari, le indennità per infortuni, le indennità per
infortuni per agenti di polizia e militari, i trattamenti pensionistici, i trattamenti pensionistici per
agenti di polizia e militari, i trattamenti pensionistici da fondi pensione complementare ».
La normativa ceca
14. L’articolo 11 della legge n. 40/1964, che istituisce il codice civile (in prosieguo: il « codice
civile ceco »), dispone quanto segue:
« La persona fisica ha diritto alla tutela della propria persona, in particolare alla tutela della
vita e della salute, dell’onore e della dignità, nonché della riservatezza, del nome e delle espressioni di natura personale ».
15. L’articolo 13 del codice civile ceco prevede quanto segue:
« 1) La persona fisica ha in particolare il diritto di esigere che si desista da comportamenti
illegittimi lesivi dei propri diritti della personalità, che si eliminino le conseguenze di tali comportamenti e che le venga riconosciuta una riparazione adeguata.
2) Qualora una riparazione adeguata ai sensi del paragrafo 1 non sia possibile, in particolare
in quanto sia stata gravemente lesa la dignità di una persona fisica o sia stato gravemente leso il
suo prestigio sociale, quest’ultima ha altresì il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale
in forma pecuniaria.
3) L’entità del risarcimento ai sensi del paragrafo 2 è stabilita dal giudice con riguardo alla
gravità del danno immateriale emerso e alle circostanze in cui è avvenuta la violazione del diritto
».
16. L’articolo 444 di tale codice dispone quanto segue:
« 1) In caso di danno alla persona, la sofferenza della persona lesa e il pregiudizio da essa
subito nell’ambito dei rapporti sociali danno luogo a un risarcimento forfettario.
(...)
3) In caso di decesso, agli aventi diritto è riconosciuto un risarcimento forfettario pari a:
a) 240 000 [corone ceche (CZK)] per la perdita del coniuge;
(...) ».
17. L’articolo 6 della legge n. 168/1999 sull’assicurazione della responsabilità civile risultante
dalla circolazione di altri veicoli (in prosieguo: la « legge ceca relativa all’assicurazione obbligatoria
»), ha il seguente tenore:
« 1) L’assicurazione della responsabilità trova applicazione nei confronti di chiunque risponda del danno risultante dalla circolazione del veicolo indicato nel contratto di assicurazione.
2) Salvo diversa disposizione della presente legge, l’assicurato ha diritto a che la compagnia
assicuratrice risarcisca per suo conto al danneggiato, nella misura e nell’importo previsti dal
codice civile,
a) il danno causato alla salute o con la morte,
b) il danno che trae origine da danneggiamento, distruzione o perdita della cosa, nonché il
danno che trae origine dalla sottrazione della cosa, qualora la persona fisica abbia perso la
capacità di occuparsene,
c) il mancato guadagno,
d) le spese effettivamente sostenute connesse con la rappresentanza legale per l’esercizio
delle pretese risarcitorie di cui alle lettere a), b) e c); tuttavia relativamente al danno di cui alle
lettere b) o c) solo nel caso in cui il termine di cui all’articolo 9, paragrafo 3, sia già trascorso o nel
caso in cui la compagnia assicuratrice abbia illegittimamente rifiutato oppure illegittimamente
ridotto la prestazione assicurata,
purché il danneggiato abbia fatto valere e dimostrato la sua pretesa e purché l’evento dannoso, che ha dato origine a tale danno e per il quale risponde l’assicurato, sia avvenuto nel periodo in
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cui era in vigore l’assicurazione della responsabilità, ad eccezione del periodo d’interruzione di
quest’ultima ».
Procedimento principale e questioni pregiudiziali
18. Dalla domanda di pronuncia pregiudiziale e dalle precisazioni fornite dal giudice del rinvio
in risposta a una domanda di chiarimenti rivoltagli dalla Corte ai sensi dell’articolo 101 del suo
regolamento di procedura, risulta che il sig. Haas è deceduto il 7 agosto 2008 in territorio ceco, a
causa di un incidente stradale provocato dal sig. Petrik, che guidava un automobile da turismo
appartenente alla sig.ra Holingová.
19. L’automobile della sig.ra Holingová, immatricolata nella Repubblica slovacca, nella quale
si trovava il sig. Haas, si è scontrata con un automezzo pesante immatricolato nella Repubblica
ceca. Al momento dell’incidente la sig.ra Haasová e sua figlia erano nella Repubblica slovacca.
20. Con sentenza resa nell’ambito di un procedimento penale dall’Okresný súd Vranov nad
Topľou (Repubblica slovacca), il sig. Petrík è stato riconosciuto colpevole di omicidio e di lesioni
personali ed è stato condannato a una pena di detenzione di due anni con misura alternativa alla
detenzione. Ai sensi degli articoli 50, paragrafo 2, e 51, paragrafo 4, lettera c), del codice penale
slovacco, egli è stato condannato al risarcimento del danno, incluso il pagamento dell’importo di
EUR 1 057,86 per il danno subito dalla sig.ra Haasová.
21. Inoltre, la sig.ra Haasová e sua figlia hanno chiesto la condanna del sig. Petrik e della sig.ra
Holingová al risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla perdita, rispettivamente,
del coniuge e del padre, ai sensi dell’articolo 13, paragrafi 2 e 3, del codice civile slovacco. In primo
grado il sig. Petrik e la sig.ra Holingová sono stati condannati a versare alla sig.ra Haasová un
importo pari a EUR 15 000 a titolo di risarcimento di detto danno. Tutte le parti hanno proposto
appello avverso tale sentenza di condanna dinanzi al Krajský súd v Prešove (Repubblica slovacca).
22. Tale giudice considera che, tenuto conto delle circostanze di fatto, dev’essere applicato il
diritto sostanziale ceco e, in particolare, l’articolo 444, paragrafo 3, del codice civile ceco, il quale
prevede, in caso di decesso, che il coniuge avente diritto della vittima benefici di un risarcimento
forfettario pari a CZK 240 000. Orbene, sorgerebbe la questione dell’adeguatezza di tale risarcimento e, di conseguenza, quella del diritto a un risarcimento integrativo in base all’articolo 11 di
tale codice.
23. Al riguardo, il giudice del rinvio considera che i diritti della sig.ra Haasová e di sua figlia
derivano da quelli della vittima, dato che la vita del sig. Haas è stata tutelata dall’articolo 11 di detto
codice. Esso precisa che gli articoli da 11 a 16 dei codici civili slovacco e ceco garantiscono la tutela
della persona, che include la tutela della vita, della salute, dell’onore, della dignità, della vita
privata, del nome e della libera espressione contro i « pregiudizi », termine utilizzato per indicare
un danno immateriale derivante da una violazione del diritto a tale tutela.
24. Il giudice del rinvio sottolinea altresì che, in forza della legge slovacca sull’assicurazione
obbligatoria, il proprietario di un autoveicolo ha il diritto di esigere che l’assicuratore garantisca
per suo conto, alla vittima di un sinistro da cui sorge la responsabilità di detto proprietario, il
risarcimento di un danno attuale accertato, nei limiti previsti da tale legge e in base alle condizioni
assicurative, e, di conseguenza, il risarcimento del danno alla persona e il rimborso delle spese
connesse al decesso.
25. Nel caso di specie la sig.ra Holingová avrebbe stipulato un contratto di assicurazione
obbligatoria della responsabilità civile con la Allianz-Slovenská poisťovňa a.s. (in prosieguo: la «
Allianz »). Poiché la persona che ha causato il danno può rivolgersi all’assicuratore affinché
risarcisca per suo conto il danno di cui essa deve rispondere, l’assicuratore dovrebbe essere
chiamato in causa nell’ambito del procedimento risarcitorio in qualità di interveniente, dal momento che ha un interesse legittimo alla soluzione della controversia. Pertanto, la Allianz, su
iniziativa del giudice del rinvio, sarebbe stata chiamata in causa in tale qualità.
26. Orbene, la Allianz avrebbe un siffatto interesse legittimo solo se il diritto esercitato rientrasse nella copertura della responsabilità civile fornita dall’assicurazione obbligatoria. Infatti, se
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responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
il danno non patrimoniale controverso nel procedimento principale non fosse coperto dall’assicurazione obbligatoria, l’intervento della Allianz nel procedimento non sarebbe giustificato.
27. Secondo il giudice del rinvio, il risarcimento dei danni alla persona riguarda in parte anche
il pregiudizio non patrimoniale, vale a dire corrispondente alle sofferenze e al deterioramento
della vita sociale. La nozione di danno coperta dal contratto di assicurazione includerebbe pertanto anche pregiudizi di natura non patrimoniale, segnatamente danni immateriali, morali o
lesioni alla sfera affettiva.
28. Tale giudice considera inoltre che gli Stati membri sono tenuti, in forza delle direttive
prima e terza, ad adottare tutte le misure necessarie affinché la responsabilità civile per i danni
risultanti dalla circolazione degli autoveicoli che stazionano abitualmente nel loro territorio sia
coperta da un’assicurazione, al fine di tutelare gli assicurati e le vittime di incidenti, e affinché ogni
danno o pregiudizio coperto dall’assicurazione obbligatoria dei passeggeri degli autoveicoli dia
luogo a un risarcimento.
29. Orbene, la Allianz rifiuterebbe di risarcire il danno non patrimoniale subito in quanto il
risarcimento di tale danno ai sensi dell’articolo 13 del codice civile slovacco non sarebbe coperto
dal contratto di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione
di un autoveicolo, poiché il diritto a un risarcimento siffatto esulerebbe dalla copertura prevista
dalle leggi slovacca e ceca relative all’assicurazione obbligatoria.
30. Il giudice del rinvio considera tale questione determinante, dal momento che si dovrebbe
risarcire anche il danno non patrimoniale subito dall’avente diritto della vittima di un incidente
stradale, danno che sarebbe possibile risarcire ai sensi dell’articolo 13, paragrafi 2 e 3, del codice
civile applicabile e che, secondo un’ampia interpretazione, dovrebbe essere considerato un danno
alla persona, di cui all’articolo 4, paragrafo 2, lettera a), della legge slovacca sull’assicurazione
obbligatoria. Ne conseguirebbe che il risarcimento di tale danno non patrimoniale rientrerebbe
nell’ambito della responsabilità dell’assicuratore in forza del contratto di assicurazione obbligatoria.
31. Ciò premesso, il Krajský súd v Prešove ha deciso di sospendere al procedimento e di
sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
« 1) Se l’articolo 1, primo comma, della [terza direttiva], in combinato disposto con l’articolo 3,
paragrafo 1, della [prima direttiva] debba essere interpretato nel senso che esso osta a una
disposizione di diritto nazionale (quale quella di cui all’articolo 4 della legge slovacca [sull’assicurazione obbligatoria] e all’articolo 6 della legge ceca [sull’assicurazione obbligatoria]), ai sensi
della quale la responsabilità civile risultante dall’uso di veicoli a motore non copre il danno non
patrimoniale, espresso in forma pecuniaria, sofferto dai superstiti delle vittime di un incidente
stradale derivante dall’uso di veicoli a motore.
2) Nel caso in cui alla prima questione si risponda che la summenzionata norma di diritto
interno non è in contrasto con il diritto comunitario, se le disposizioni di cui all’articolo 4, paragrafi
1, 2 e 4, della legge slovacca [sull’assicurazione obbligatoria] e all’articolo 6, paragrafi da 1 a 3, della
legge ceca [sull’assicurazione obbligatoria], debbano essere interpretate nel senso che non ostano
a che il giudice nazionale, in conformità all’articolo 1, primo comma, della [terza direttiva] in
combinato disposto con l’articolo 3, paragrafo 1, della [prima direttiva], riconosca agli aventi diritto
delle vittime di un incidente stradale derivante dall’uso di veicoli a motore, nella loro qualità di
soggetti lesi, il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale anche in forma pecuniaria ».
Sulla ricevibilità delle questioni pregiudiziali
32. Il governo slovacco e la Commissione hanno manifestato dubbi quanto alla ricevibilità
delle questioni pregiudiziali, rilevando che la decisione di rinvio non contiene alcuna esposizione
dei fatti relativi all’incidente stradale indispensabili alla comprensione della controversia di cui al
procedimento principale. Il governo slovacco ritiene, inoltre, che tali questioni non siano pertinenti ai fini della composizione di tale controversia, poiché la Allianz non sarebbe parte nel
procedimento e la decisione del giudice nazionale nell’ambito di quest’ultimo non sarà vincolante
per tale impresa assicurativa.
33. Al riguardo occorre rilevare che, rispondendo alla domanda di chiarimenti rivoltagli dalla
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⎪
Corte in applicazione dell’articolo 101 del suo regolamento di procedura, da un lato, il giudice del
rinvio ha descritto i fatti relativi all’incidente stradale all’origine del procedimento principale, e,
dall’altro, ha precisato che la risposta della Corte sarà determinante ai fini della valutazione
dell’intervento della Allianz in detto procedimento principale e quindi rispetto al carattere vincolante della sentenza che interverrà nel medesimo nei confronti di tale impresa.
34. Le questioni pregiudiziali devono pertanto essere considerate ammissibili.
Sulle questioni pregiudiziali
Sulla prima questione
35. Con la sua prima questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli articoli 3,
paragrafo 1, della prima direttiva e 1, primo comma, della terza direttiva debbano essere interpretati nel senso che l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di veicoli a motore deve garantire il risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dai
congiunti delle vittime di un incidente stradale.
36. Preliminarmente si deve rilevare che il giudice del rinvio, da un lato, ha precisato che la
normativa sulla responsabilità civile applicabile alla fattispecie di cui al procedimento principale,
in base agli articoli 3 e 4 della Convenzione dell’Aia del 1971 e all’articolo 28 del regolamento Roma
II, è la legge ceca, e, dall’altro, ha indicato che le questioni sollevate non riguardano la copertura da
parte dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile disciplinata nella sesta parte del
codice civile ceco e quindi il risarcimento forfettario previsto all’articolo 444 di detto codice. Infatti,
tale giudice considera che gli articoli 11 e 13 del codice civile ceco, riguardanti la tutela della
persona, si applicano indipendentemente da tali disposizioni relative alla responsabilità civile e
ha precisato che le suddette questioni riguardano esclusivamente la copertura da parte dell’assicurazione obbligatoria del risarcimento del danno immateriale dovuto in base alle disposizioni di
tutela della persona.
37. A tale riguardo, occorre rammentare che dal preambolo della prima e della seconda
direttiva emerge che queste sono dirette a garantire, da un lato, la libera circolazione sia degli
autoveicoli che stazionano abitualmente nel territorio dell’Unione europea, sia delle persone che
vi si trovano a bordo e, dall’altro, a garantire che le vittime degli incidenti causati da tali veicoli
beneficeranno di un trattamento comparabile, indipendentemente dal luogo dell’Unione in cui il
sinistro è avvenuto (sentenza del 23 ottobre 2012, Marques Almeida, C-300/10, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 26 e giurisprudenza ivi citata).
38. La prima direttiva, come precisata e integrata dalla seconda e dalla terza direttiva, impone
quindi agli Stati membri di garantire che la responsabilità civile risultante dalla circolazione degli
autoveicoli che stazionano abitualmente sul loro territorio sia coperta da un’assicurazione e
precisa, in particolare, i tipi di danni e i terzi vittime che tale assicurazione deve coprire (sentenza
Marques Almeida, cit., punto 27 e giurisprudenza ivi citata).
39. Occorre tuttavia ricordare che l’obbligo di copertura, mediante assicurazione della responsabilità civile, dei danni causati ai terzi dagli autoveicoli si distingue dalla questione dell’entità del
risarcimento di detti danni a titolo di responsabilità civile dell’assicurato. Infatti, mentre il primo è
definito e garantito dalla normativa dell’Unione, la seconda è sostanzialmente disciplinata dal
diritto nazionale (sentenza Carvalho Ferreira Santos, cit., punto 28 e la giurisprudenza ivi citata).
40. Al riguardo, la Corte ha già statuito che dall’oggetto della prima, della seconda e della terza
direttiva, nonché dal loro tenore letterale, risulta che queste ultime non mirano ad armonizzare i
regimi di responsabilità civile degli Stati membri e che, allo stato attuale del diritto dell’Unione,
questi ultimi restano liberi di stabilire il regime di responsabilità civile applicabile ai sinistri
derivanti dalla circolazione dei veicoli (sentenza Marques Almeida, cit., punto 29 e la giurisprudenza ivi citata).
41. Di conseguenza, e tenuto conto in particolare dell’articolo 1, punto 2, della prima direttiva,
allo stato attuale del diritto dell’Unione, gli Stati membri restano in linea di principio liberi di
determinare, nell’ambito dei loro regimi di responsabilità civile, in particolare, quali danni causati
dai veicoli devono essere risarciti, l’entità del risarcimento degli stessi e le persone aventi diritto a
detto risarcimento.
⎪ P.16
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
42. Tuttavia la Corte ha precisato che gli Stati membri devono esercitare le loro competenze in
tale settore nel rispetto del diritto dell’Unione e che le disposizioni nazionali che disciplinano il
risarcimento dei sinistri risultanti dalla circolazione dei veicoli non possono privare la prima, la
seconda e la terza direttiva del loro effetto utile (sentenza Marques Almeida, cit., punto 31 e
giurisprudenza ivi citata).
43. Riguardo alla copertura, fornita dall’assicurazione obbligatoria, dei danni causati dai
veicoli che devono essere risarciti si sensi della normativa nazionale della responsabilità civile,
l’articolo 3, paragrafo 1, seconda frase, della prima direttiva, lasciava certamente agli Stati membri, come ha osservato il governo tedesco, la competenza per determinare i danni coperti nonché
le modalità dell’assicurazione obbligatoria (v., in tal senso, sentenza del 28 marzo 1996, Ruiz
Bernáldez, C-129/94, Racc. pag. I-1829, punto 15).
44. Tuttavia, al fine di ridurre le disparità sussistenti quanto alla portata dell’obbligo di
assicurazione tra le legislazioni degli Stati membri l’articolo 1 della seconda direttiva ha imposto,
in materia di responsabilità civile, la copertura obbligatoria dei danni alle cose e dei danni alle
persone, sino a concorrenza di determinati importi. L’articolo 1 della terza direttiva ha esteso
taleobbligo alla copertura dei danni alla persona causati ai passeggeri diversi dal conducente
(sentenza Ruiz Bernáldez, cit., punto 16).
45. Pertanto, gli Stati membri sono tenuti a garantire che la responsabilità civile risultante
dalla circolazione di autoveicoli applicabile secondo la loro normativa nazionale sia coperta da
un’assicurazione conforme alle disposizioni della prima, della seconda e della terza direttiva
(sentenza Marques Almeida, cit., punto 30 e la giurisprudenza ivi citata).
46. Ne consegue che la libertà degli Stati membri di determinare i danni coperti e le modalità
dell’assicurazione obbligatoria è stata limitata dalla seconda e dalla terza direttiva, dal momento
che esse hanno reso obbligatoria la copertura di taluni danni a concorrenza di importi minimi
determinati. In particolare figurano tra tali danni la cui copertura è obbligatoria i danni alla
persona, come precisato dall’articolo 1, paragrafo 1, della seconda direttiva.
47. Orbene, come ha rilevato l’avvocato generale ai punti da 68 a 73 delle sue conclusioni e
secondo quanto dichiarato dalla Corte EFTA nella sua sentenza del 20 giugno 2008, Celina
Nguyen/The Norwegian State (E-8/07, EFTA Court Report, pag. 224, punti 26 e 27), si deve
considerare, avuto riguardo alle diverse versioni linguistiche degli articoli 1, paragrafo 1, della
seconda direttiva e 1, primo comma, della terza direttiva, nonché all’obiettivo di tutela delle tre
direttive summenzionate, che rientra nella nozione di danno alla persona ogni danno, il cui
risarcimento è previsto a titolo della responsabilità civile dell’assicurato dalla normativa nazionale
applicabile alla controversia, arrecato all’integrità della persona, che include le sofferenze sia
fisiche sia psicologiche.
48. Infatti, secondo una giurisprudenza costante, le disposizioni del diritto dell’Unione devono
essere interpretate e applicate in maniera uniforme, alla luce delle versioni redatte in tutte le
lingue dell’Unione. In caso di difformità tra le diverse versioni linguistiche di un testo di diritto
dell’Unione, la disposizione di cui trattasi deve essere intesa in funzione del sistema e della finalità
della normativa di cui fa parte (v., in particolare, sentenza dell’8 dicembre 2005, Jyske Finans,
C-280/04, Racc. pag. I-10683, punto 31 e giurisprudenza ivi citata).
49. In tal senso, poiché le diverse versioni linguistiche dell’articolo 1, paragrafo 1, della
seconda direttiva impiegano, in sostanza, le nozioni di « danno alla persona » e di pregiudizio
immateriale, ci si deve basare sul sistema e sulla finalità di tali disposizioni e di tale direttiva. A tale
riguardo, si deve, da una parte, rilevare che tali nozioni si aggiungono a quella di « danno alle cose
» e, dall’altra, che tali disposizioni e tale direttiva mirano, in particolare, a rafforzare la tutela delle
vittime. Pertanto ci si deve attenere all’ampia interpretazione di dette nozioni quale figura al
punto 47 della presente sentenza.
50. Di conseguenza, tra i danni che devono essere risarciti conformemente alla prima, alla
seconda e alla terza direttiva figurano i danni immateriali il cui risarcimento è previsto a titolo
della responsabilità civile dell’assicurato dalla normativa nazionale applicabile alla controversia.
51. Per quanto riguarda la questione di quali siano le persone che possono esigere il risarci-
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⎪
mento di tali danni immateriali, si deve da un lato rilevare che da una lettura combinata degli
articoli 1, punto 2, e 3, paragrafo 1, prima frase, della prima direttiva risulta che la tutela da
assicurare ai sensi di tale direttiva è estesa a chiunque abbia diritto, in base alla normativa
nazionale sulla responsabilità civile, al risarcimento del danno causato da autoveicoli.
52. Dall’altro lato, occorre precisare che, come ha rilevato l’avvocato generale al paragrafo 78
delle conclusioni e contrariamente a quanto rileva il governo tedesco, la terza direttiva non ha
limitato l’ambito soggettivo di tutela, ma, al contrario, ha reso obbligatoria la copertura dei danni
subiti da alcune categorie di persone considerate particolarmente vulnerabili.
53. Inoltre, poiché la nozione di danno che figura all’articolo 1, punto 2, della prima direttiva
non risulta ulteriormente circoscritta, nulla permette di considerare, contrariamente a quanto
sostiene il governo estone, che taluni danni, come i pregiudizi immateriali, nella misura in cui
devono essere risarciti secondo la normativa nazionale sulla responsabilità civile applicabile,
debbano essere esclusi da tale nozione.
54. Nessuna indicazione nella prima, nella seconda o nella terza direttiva permette di concludere che il legislatore dell’Unione avrebbe inteso limitare la protezione assicurata da tali direttive
alle sole persone direttamente interessate da un evento dannoso.
55. Di conseguenza, gli Stati membri devono garantire che il risarcimento dovuto, secondo il
loro diritto nazionale sulla responsabilità civile, a causa del pregiudizio immateriale subito dai
congiunti delle vittime di incidenti stradali sia coperto dall’assicurazione obbligatoria a concorrenza degli importi minimi stabiliti all’articolo 1, paragrafo 2, della seconda direttiva.
56. Tale conclusione dovrebbe valere nel caso di specie, dal momento che, secondo le indicazioni del giudice del rinvio, persone che si trovano nella situazione della sig.ra Haasová e di sua
figlia hanno diritto, ai sensi degli articoli 11 e 13 del codice civile ceco, al risarcimento del danno
immateriale subito a causa del decesso del loro rispettivo coniuge e padre.
57. Tale valutazione non può essere rimessa in discussione dalla circostanza, invocata dal
governo slovacco, secondo cui tali articoli rientrano in una parte del codice civile ceco e di quello
slovacco, che riguarda le lesioni dei diritti della persona ed è autonoma rispetto a quella riguardante la responsabilità civile propriamente detta, ai sensi di tali codici.
58. Infatti, poiché la responsabilità dell’assicurato che risulta secondo il giudice del rinvio, nel
caso di specie, dagli articoli 11 e 13 del codice civile ceco trova origine in un incidente stradale ed
ha natura civilistica, nessun elemento permette di considerare che una siffatta responsabilità non
rientri nell’ambito del diritto nazionale materiale della responsabilità civile cui le direttive summenzionate rinviano.
59. Tenuto conto di tutte le considerazioni che precedono, si deve rispondere alla prima
questione che gli articoli 3, paragrafo 1, della prima direttiva, 1, paragrafi 1 e 2, della seconda
direttiva e 1, primo comma, della terza direttiva devono essere interpretati nel senso che l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli deve
garantire il risarcimento dei danni immateriali subiti dai congiunti di vittime, decedute, di incidenti stradali, qualora tale risarcimento sia previsto, in forza della responsabilità civile dell’assicurato, dalla normativa nazionale applicabile alla controversia nel procedimento principale.
Sulla seconda questione
60. Tenuto conto della risposta fornita dalla Corte alla prima questione, non occorre rispondere alla seconda questione.
Sulle spese
61. Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un
incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese
sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:
L’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 72/166/CEE del Consiglio, del 24 aprile 1972, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della
responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e di controllo dell’obbligo di assi-
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curare tale responsabilità, l’articolo 1, paragrafi 1 e 2, della seconda direttiva 84/5/CEE del Consiglio, del 30 dicembre 1983, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri
inmateria di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli,
quale modificata dalla direttiva 2005/14/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio
2005, e l’articolo 1, primo comma, della terza direttiva 90/232/CEE del Consiglio, del 14 maggio
1990, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri in materia di assicurazione
della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, devono essere interpretati
nel senso che l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile risultante dalla circolazione di
autoveicoli deve garantire il risarcimento dei danni immateriali subiti dai congiunti di vittime,
decedute, di incidenti stradali, qualora tale risarcimento sia previsto, in forza della responsabilità
civile dell’assicurato, dalla normativa nazionale applicabile alla controversia nel procedimento
principale. (Omissis).
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SENTENZA CORTE GIUST. UE SEZ. II 10 OTTOBRE 2013 C-306/12 PRES. SILVA
BONICHOT SPEDITION WELTER GMBH AVANSSUR SA
DE
LAPUERTA REL.
Assicurazione della r.c. auto - Mandatario incaricato della liquidazione dei sinistri - Procura a
ricevere la notifica di atti giudiziari - Normativa nazionale che subordina la validità della
notifica all’esplicita concessione di una procura a riceverla - Interpretazione conforme.
DIRETTIVA
2009/103/CE, ART. 21, PARAGRAFO 5
L’articolo 21, paragrafo 5, della Direttiva 2009/103/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 16 settembre 2009, concernente l’assicurazione della responsabilità civile
risultante dalla circolazione di autoveicoli e il controllo dell’obbligo di assicurare tale responsabilità, deve essere interpretato nel senso che, tra i poteri sufficienti ai fini della rappresentanza di cui deve disporre il mandatario incaricato della liquidazione dei sinistri, è ricompresa la procura a ricevere validamente la notifica degli atti giudiziari necessari ai fini
dell’introduzione di un procedimento per risarcimento di un sinistro dinanzi al giudice
competente. Di conseguenza, in una fattispecie come quella di cui al procedimento principale,
in cui la normativa nazionale ha ripreso testualmente le disposizioni dell’articolo 21,
paragrafo 5, della Direttiva 2009/103, il giudice del rinvio è tenuto, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo insieme ed applicando i metodi ermeneutici riconosciuti da
quest’ultimo, a interpretare il diritto nazionale in un senso che sia conforme all’interpretazione data a tale direttiva dalla Corte di giustizia dell’Unione europea.
Sentenza
1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 21, paragrafo
5, della direttiva 2009/103/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 settembre 2009,
concernente l’assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e
il controllo dell’obbligo di assicurare tale responsabilità (GU L 263, pag. 11).
2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Spedition Welter
GmbH (in prosieguo: la « Spedition Welter »), società di trasporti avente sede in Germania, e la
Avanssur SA (in prosieguo: la « Avanssur »), compagnia assicuratrice avente sede in Francia,
riguardo al risarcimento di un sinistro.
Contesto normativo
Il diritto dell’Unione
3. Nella direttiva 2009/103 si trovano i seguenti considerando:
« (...)
(20) Occorre garantire che le vittime di sinistri della circolazione automobilistica ricevano un
trattamento comparabile indipendentemente dal luogo della Comunità ove il sinistro è avvenuto.
(...)
(34) Una persona lesa in un incidente automobilistico rientrante nell’ambito di applicazione
della presente direttiva e avvenuto in uno Stato diverso dallo Stato in cui risiede dovrebbe poterrichiedere nel proprio Stato membro di residenza un risarcimento al mandatario per la liquidazione dei sinistri designato per tale Stato dall’impresa di assicurazione del responsabile. Tale
soluzione fa sì che un sinistro verificatosi al di fuori dello Stato membro di residenza della persona
lesa venga trattato secondo modalità a essa familiari.
(35) Un sistema di questo tipo, basato su un mandatario incaricato della liquidazione di sinistri
nello Stato membro in cui risiede la persona lesa, non modifica il diritto materiale applicabile alla
fattispecie né ha effetti sulla competenza giurisdizionale.
(...)
(37) È opportuno prevedere che lo Stato membro nel quale l’impresa di assicurazione è
autorizzata esiga che l’impresa designi dei mandatari per la liquidazione di sinistri, residenti o
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stabiliti negli altri Stati membri, incaricati di raccogliere tutte le informazioni necessarie in relazione alle richieste d’indennizzo risultanti da tali incidenti e di adottare le misure appropriate per
la liquidazione del sinistro in nome e per conto dell’impresa di assicurazione, compreso il pagamento degli indennizzi. Il mandatario per la liquidazione dei sinistri dovrebbe essere dotato di
poteri sufficienti per rappresentare l’impresa di assicurazione nei confronti delle persone che
hanno subito un danno in seguito a tali incidenti e per rappresentarla dinanzi alle autorità
nazionali e, se necessario, dinanzi ai tribunali, compatibilmente con le norme di diritto internazionale privato sull’attribuzione della competenza giurisdizionale ».
4. L’articolo 19 della direttiva 2009/103, rubricato « Procedura di indennizzo dei sinistri », è del
seguente tenore:
« Gli Stati membri istituiscono la procedura di cui all’articolo 22 per la liquidazione dei sinistri
provocati da un veicolo assicurato ai sensi dell’articolo 3.
(...) ».
5. A termini dell’articolo 20 di tale direttiva, rubricato « Disposizioni particolari riguardanti il
risarcimento delle persone lese in seguito a un sinistro avvenuto in uno Stato membro diverso da
quello di residenza »:
« 1 Gli articoli da 20 a 26 stabiliscono disposizioni specifiche relative a persone lese aventi
diritto a risarcimento per danni a cose o a persone derivanti da sinistri avvenuti in uno Stato
membro diverso da quello di residenza della persona lesa e provocati dall’uso di veicoli che sono
assicurati e stazionano abitualmente in uno Stato membro.
(...)
2. Gli articoli 21 e 24 si applicano soltanto nel caso di incidenti causati dalla circolazione di un
veicolo:
a) assicurato tramite uno stabilimento situato in uno Stato membro diverso da quello di
residenza della persona lesa;
b) che staziona abitualmente in uno Stato membro diverso da quello di residenza della
persona lesa ».
6. L’articolo 21 della direttiva medesima, rubricato « Mandatario per la liquidazione dei sinistri
», così recita:
« 1. Ogni Stato membro adotta tutte le misure necessarie affinché ogni impresa di assicurazione che copre i rischi classificati nel ramo 10 del punto A dell’allegato della direttiva 73/239/CEE,
esclusa la responsabilità civile del vettore, designi un mandatario per la liquidazione dei sinistri in
ogni Stato membro diverso da quello in cui ha ricevuto l’autorizzazione amministrativa.
Il mandatario è incaricato della gestione e della liquidazione dei sinistri dovuti a incidenti nei
casi di cui all’articolo 20, paragrafo 1.
Il mandatario per la liquidazione dei sinistri risiede o è stabilito nello Stato membro per il
quale è designato.
(...).
4. Il mandatario per la liquidazione dei sinistri raccoglie tutte le informazioni necessarie in
merito alla liquidazione dei sinistri stessi e prende le misure necessarie per negoziarne la liquidazione.
L’obbligo di designare un mandatario non esclude il ricorso diretto della persona lesa o della
sua impresa di assicurazione contro la persona che ha causato il sinistro o la sua impresa di
assicurazione.
5. Il mandatario per la liquidazione dei sinistri è dotato di poteri sufficienti a rappresentare
l’impresa di assicurazione nei confronti delle persone lese nei casi di cui all’articolo 20, paragrafo
1, e a soddisfare interamente le loro richieste di indennizzo.
Egli deve essere in grado di esaminare il caso nella o nelle lingue ufficiali dello Stato membro
di residenza della persona lesa.
(...) ».
La normativa tedesca
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⎪
7. La direttiva 2009/103 è stata trasposta nell’ordinamento tedesco attraverso il Versicherungsaufsichtsgesetz (legge sul controllo delle imprese di assicurazione, in prosieguo: il « VAG »).
8. A termini dell’articolo 7b del VAG, relativo al mandatario per la liquidazione dei sinistri nel
contesto della responsabilità civile per gli autoveicoli:
« 1. (...) [L]’impresa di assicurazione designa un mandatario per la liquidazione dei sinistri in
tutti gli altri Stati membri dell’Unione europea e negli altri Stati parti contraenti dell’accordo sullo
Spazio economico europeo. In nome dell’impresa di assicurazione, questi tratta e gestisce le
domande di risarcimento di danni alle persone e alle cose conseguenti a un sinistro che si è
verificato in uno Stato membro diverso da quello di residenza della persona lesa e causato dalla
circolazione di un veicolo che è assicurato e staziona abitualmente in uno Stato membro.
2. Il mandatario per la liquidazione dei sinistri risiede o è stabilito nello Stato membro per il
quale è designato. Potrà agire per conto di uno o di diversi enti assicurativi. Egli è dotato di poteri
sufficienti a rappresentare l’impresa di assicurazione nei confronti delle persone lese e a soddisfare interamente le loro richieste di indennizzo. Il mandatario deve essere in grado di esaminare
il caso nella o nelle lingue ufficiali dello Stato per il quale è designato.
3. Il mandatario per la liquidazione dei sinistri raccoglie, quanto ai sinistri causati da un
veicolo assicurato da tale impresa di assicurazione, tutte le informazioni necessarie in merito alla
liquidazione dei sinistri stessi (...) ».
9. La Zivilprozessordnung (codice di procedura civile), nella versione applicabile al procedimento principale, prevede, all’articolo 171, relativo alla notifica al mandatario:
« La notifica può essere effettuata, con gli stessi effetti giuridici, ad un rappresentante designato con atto negoziale o al rappresentato. Il rappresentante comprova il possesso del mandato
con un documento scritto ».
Procedimento principale e questioni pregiudiziali
10. Il 24 giugno 2011, a seguito di un incidente stradale, un autocarro appartenente alla
Spedition Welter veniva danneggiato, nella periferia di Parigi (Francia), da un altro veicolo,
assicurato presso la Avanssur.
11. La Spedition Welter chiedeva al giudice tedesco adito in primo grado un risarcimento
dell’importo di EUR 2 382,89. L’atto di citazione non veniva notificato alla Avanssur, ma al
mandatario nominato da quest’ultima in Germania, vale a dire la AXA Versicherungs AG (in
prosieguo: la « AXA »).
12. Detto giudice dichiarava la domanda irricevibile in base al rilievo che essa non era stata
validamente notificata alla AXA, che non possedeva una procura relativa alla ricezione di notifiche.
13. Avverso tale decisione la Spedition Welter interponeva appello dinanzi al Landgericht
Saarbrücken.
14. Secondo il giudice del rinvio, l’esito dell’appello dipende dall’interpretazione da dare alla
direttiva 2009/103. La ricevibilità dell’azione proposta dalla Spedition Welter contro la Avanssur
dipenderebbe dalla possibilità di interpretare o meno l’articolo 21, paragrafo 5, di tale direttiva nel
senso che il mandatario per la liquidazione dei sinistri è abilitato a ricevere le notifiche per conto
della resistente nel procedimento principale. In caso di soluzione affermativa, occorrerebbe ancora verificare se tale disposizione della stessa direttiva sia incondizionata e sufficientemente
precisa perché la Spedition Welter possa avvalersene per affermare che la Avanssur ha conferito
alla AXA una procura a ricevere tali notifiche.
15. Alla luce di queste considerazioni, il Landgericht Saarbrücken ha deciso di sospendere il
procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
« 1) Se l’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva [2009/103] debba essere interpretato nel senso
che i poteri del mandatario per la liquidazione dei sinistri ricomprendono una procura relativa alla
ricezione di notifiche per l’impresa assicurativa cosicché, nell’ambito della causa promossa dal
danneggiato contro l’impresa assicurativa al fine di ottenere il risarcimento del danno derivante
da sinistro, può essere effettuata una notifica giudiziale, con efficacia nei confronti dell’impresa
assicurativa, al mandatario per la liquidazione dei sinistri da essa nominato.
⎪ P.22
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Nel caso in cui la prima questione venga risolta affermativamente:
2) Se l’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva [2009/103] abbia effetto diretto cosicché il
danneggiato vi si può richiamare dinanzi al giudice nazionale con la conseguenza che detto
giudice, quando una notifica sia stata effettuata al mandatario per la liquidazione dei sinistri in
qualità di “rappresentante” dell’impresa assicurativa, deve ritenere che la notifica sia stata effettuata validamente nei confronti di tale impresa, anche se non è stata rilasciata una procura a
ricevere le notifiche e la normativa nazionale non prevede, in tal caso, una procura ex lege, fermo
restando che la notifica soddisfa tutte le altre condizioni previste dal diritto nazionale ».
Sulle questioni pregiudiziali
Sulla prima questione
16. Con la sua prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 21,
paragrafo 5, della direttiva 2009/103 vada interpretato nel senso che tra i poteri sufficienti ai fini
della rappresentanza di cui deve disporre il mandatario per la liquidazione dei sinistri è ricompresa la sua procura a ricevere validamente le notifiche degli atti giudiziari necessari ai fini
dell’introduzione di un procedimento di risarcimento di un sinistro dinanzi al giudice competente.
17. In via preliminare, va ricordato che, per determinare la portata di una disposizione del
diritto dell’Unione, occorre tener conto allo stesso tempo del suo tenore letterale, del suo contesto
e delle sue finalità (sentenza del 9 aprile 2013, Commissione/Irlanda, C-85/11, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 35 e giurisprudenza ivi citata).
18. Nella specie, se è pur vero che, secondo il disposto dell’articolo 21, paragrafo 5, della
direttiva 2009/103, il mandatario per la liquidazione dei sinistri è dotato di poteri sufficienti a
rappresentare l’impresa di assicurazione nei confronti delle persone lese e a soddisfare interamente le loro richieste di indennizzo, tale disposizione, che fissa in tal modo gli obiettivi di detta
rappresentanza, non precisa l’esatta portata dei poteri conferiti a tal fine.
19. In tale contesto, occorre ricordare che la direttiva 2009/103 è intesa a garantire alle vittime
di sinistri della circolazione automobilistica un trattamento comparabile indipendentemente dal
luogo dell’Unione ove il sinistro è avvenuto. A tal fine, le vittime devono poter far valere nel
proprio Stato membro di residenza il diritto al risarcimento nei confronti del mandatario per la
liquidazione dei sinistri designato per tale Stato dall’impresa di assicurazione del responsabile.
20. A termini del considerando 37 della direttiva 2009/103, gli Stati membri devono prevedere
che tali mandatari per la liquidazione dei sinistri siano dotati di poteri sufficienti per rappresentare l’impresa di assicurazione nei confronti delle vittime e per rappresentarla dinanzi alle autorità nazionali nonché, se necessario, dinanzi ai tribunali, compatibilmente con le norme di diritto
internazionale privato sull’attribuzione della competenza giurisdizionale.
21. Risulta pertanto chiaramente da tali rilievi che il legislatore dell’Unione ha voluto che la
rappresentanza delle imprese di assicurazione, quale prevista dall’articolo 21, paragrafo 5, della
direttiva 2009/103, senza poter mettere in questione il rispetto delle norme di diritto internazionale privato, includesse quella che deve consentire alle persone lese di agire validamente dinanzi
ai giudici nazionali per il risarcimento del danno subito.
22. D’altronde, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 25 delle conclusioni, risulta
dai lavori preparatori delle direttive che hanno preceduto la direttiva 2009/103, direttive codificate
da quest’ultima nel settore delle assicurazioni, che il potere di rappresentanza esercitato da un
assicuratore nello Stato di residenza della vittima doveva, secondo le intenzioni del legislatore,
comprendere una procura a ricevere la notifica degli atti giudiziari, benché di portata limitata, dal
momento che non doveva alterare le norme di diritto internazionale privato sull’attribuzione della
competenza giurisdizionale.
23. Conseguente, ed entro tali limiti, tra i poteri sufficienti ai fini della rappresentanza di cui
deve disporre il mandatario per la liquidazione dei sinistri è ricompresa la procura a ricevere le
notifiche degli atti giudiziari.
24. Escludere tale procura priverebbe d’altronde la direttiva 2009/103 di una delle sue finalità.
Infatti, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 32 delle conclusioni, la funzione del
mandatario per la liquidazione dei sinistri consiste proprio, conformemente agli obiettivi di cui
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.23
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alla direttiva 2009/103, nel facilitare le formalità espletate dalle vittime di sinistri, in particolare nel
consentire loro di presentare reclamo nella propria lingua. Sarebbe pertanto in contrasto con tali
obiettivi privare tali vittime, una volta espletate le formalità previe direttamente dinanzi al mandatario stesso, e potendo esse esperire un’azione diretta nei confronti dell’assicuratore, della
possibilità di notificare gli atti giudiziari al mandatario stesso ai fini dell’esercizio dell’azione
risarcitoria dinanzi al giudice competente secondo il diritto internazionale.
25. Alla luce delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alla prima questione dichiarando che l’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva 2009/103 deve essere interpretato nel senso che,
tra i poteri sufficienti ai fini della rappresentanza di cui deve disporre il mandatario per la
liquidazione dei sinistri, è ricompresa la procura a ricevere validamente la notifica degli atti
giudiziari necessari ai fini dell’introduzione di un procedimento per risarcimento di un sinistro
dinanzi al giudice competente.
Sulla seconda questione
26. Alla luce della risposta alla prima questione, occorre rispondere alla seconda, con la quale
il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se, in una fattispecie come quella di cui al procedimento
principale, un privato possa invocare l’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva 2009/103 per giustificare la validità della notifica di un atto giudiziario al mandatario incaricato della liquidazione dei
sinistri ove detto mandatario non sia stato incaricato con atto negoziale di ricevere tale notifica e la
normativa nazionale non preveda una procura ex lege in tal caso.
27. Nel contesto del procedimento principale, il giudice del rinvio intende in tal modo chiarire
se, alla luce della soluzione fornita alla prima questione, debba, per accogliere la domanda di un
privato che invoca l’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva 2009/103, disapplicare le disposizioni di
diritto nazionale in forza delle quali il mandatario per la liquidazione dei sinistri non può ricevere
la notifica di atti giudiziari in assenza di conferimento di procura con atto negoziale.
28. In proposito occorre ricordare che la questione se una disposizione nazionale, ove sia
contraria al diritto dell’Unione, debba essere disapplicata, si pone solo se non risulta possibile
alcuna interpretazione conforme di tale disposizione (sentenza del 24 gennaio 2012, Dominguez,
C-282/10, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 23).
29. Risulta da giurisprudenza costante che, nell’applicare il diritto interno, i giudici nazionali
sono tenuti ad interpretarlo quanto più possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva in
questione, così da conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’articolo 288, terzo comma, TFUE. Tale obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale è
infatti inerente al sistema del Trattato FUE, in quanto consente ai giudici nazionali di assicurare,
nell’ambito delle rispettive competenze, la piena efficacia del diritto dell’Unione quando risolvono
le controversie ad essi sottoposte (v., in particolare, sentenze del 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a., da
C-397/01 a C-403/01, Racc. pag. I-8835, punto 114 e Dominguez, cit., punto 24).
30. Il principio di interpretazione conforme esige che i giudici nazionali si adoperino al meglio,
nei limiti delle loro competenze, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo insieme ed
applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena
efficacia della direttiva di cui trattasi e di pervenire ad una soluzione conforme allo scopo perseguito da quest’ultima (v., in tal senso, sentenze Dominguez, cit., punto 27 e del 5 settembre 2012,
Lopes Da Silva Jorge, C-42/11, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 56).
31. Orbene, nel procedimento principale è pacifico che l’articolo 7b, paragrafo 2, del VAG
traspone letteralmente l’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva 2009/103. Tali disposizioni di
diritto nazionale vanno pertanto interpretate conformemente al diritto dell’Unione nel senso che
il mandatario incaricato della liquidazione dei sinistri è abilitato a ricevere la notifica degli atti
giudiziari.
32. Alla luce delle suesposte considerazioni, alla seconda questione occorre rispondere nel
senso che, in una fattispecie come quella di cui al procedimento principale, in cui la normativa
nazionale ha ripreso testualmente le disposizioni dell’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva
2009/103, il giudice del rinvio è tenuto, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo
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responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
insieme ed applicando i metodi ermeneutici riconosciuti da quest’ultimo, a interpretare il diritto
nazionale in un senso che sia conforme all’interpretazione data a tale direttiva dalla Corte.
Sulle spese
33. Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un
incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese
sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:
1) L’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva 2009/103/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 settembre 2009, concernente l’assicurazione della responsabilità civile risultante
dalla circolazione di autoveicoli e il controllo dell’obbligo di assicurare tale responsabilità, deve
essere interpretato nel senso che, tra i poteri sufficienti ai fini della rappresentanza di cui deve
disporre il mandatario incaricato della liquidazione dei sinistri, è ricompresa la procura a ricevere
validamente la notifica degli atti giudiziari necessari ai fini dell’introduzione di un procedimento
per risarcimento di un sinistro dinanzi al giudice competente.
2) In una fattispecie come quella di cui al procedimento principale, in cui la normativa
nazionale ha ripreso testualmente le disposizioni dell’articolo 21, paragrafo 5, della direttiva
2009/103, il giudice del rinvio è tenuto, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo
insieme ed applicando i metodi ermeneutici riconosciuti da quest’ultimo, a interpretare il diritto
nazionale in un senso che sia conforme all’interpretazione data a tale direttiva dalla Corte di
giustizia dell’Unione europea. (Omissis).
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.25
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SENTENZA CASS. CIV. 20 FEBBRAIO 2013 N. 4274 SEZ. II PRES. ROVELLI REL. PROTO P.M. CAPASSO
Notaio - Negozio di rinuncia all’eredità - Forma - Atto pubblico - Necessità - Scrittura privata
autenticata - Nullità - Illecito disciplinare - Sussistenza.
L.
16 FEBBRAIO 1913, N. 89, ART. 28
519
C.C. ART.
Sussiste la responsabilità disciplinare del notaio ex art. 28, n. 1, l. n. 89/1913, per aver
redatto un atto espressamente proibito dalla legge, a seguito dell’effettuazione di rinunzia
all’eredità con scrittura privata autenticata e non con atto pubblico, come richiesto dall’art.
519 c.c.
FATTO. M.I., notaio in **, proponeva reclamo alla Corte di Appello di Venezia avverso il
provvedimento della COREDI per il Trentino Alto Adige, Friuli e Veneto con il quale gli era
irrogata la sanzione disciplinare pecuniaria di Euro 1.000,00 per avere autenticato le sottoscrizioni
in calce ad un atto di rinuncia pura e semplice all’eredità ex art. 519 c.p.c. anziché redigere l’atto in
forma pubblica e, quindi, in violazione dell’art. 519 c.c. e dell’art. 28 legge notarile, sanzionato
dall’art. 138, comma 2, stessa legge.
La Corte di Appello di Venezia, con sentenza depositata il 20 dicembre 2011 (e che in ricorso
si.afferma notificata il 20 gennaio 2012) riteneva la responsabilità disciplinare del notaio osservando:
- che sulla necessità dell’atto pubblico per la rinuncia all’eredità si era già pronunciata questa
Corte con sentenza 11 gennaio 2011, n. 444;
- che era infondato il motivo di reclamo secondo il quale non potrebbe ravvisarsi nullità per
inosservanza della forma solenne in mancanza di espressa normativa al riguardo; la Corte territoriale rilevava che, invece, il divieto era violato perché il notaio aveva ricevuto un atto nullo, tale
dovendosi ritenere la rinuncia all’eredità priva del requisito della forma solenne espressamente
prescritto dall’art. 519 c.c., non potendosi neppure affermare una incertezza interpretativa in
merito alla necessità dell’atto pubblico;
- che il reclamo incidentale del P.M. diretto ad escludere le attenuanti generiche riconosciute
da COREDI, pur essendo ammissibile, doveva essere rigettato.
Avverso questa sentenza M.I. ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi
(numerati fino al 6 perché dopo il motivo numero tre il motivo successivo è numerato con il
numero cinque invece che con il numero quattro).
Non hanno svolto attività difensiva gli intimati Ministero della Giustizia, Amministrazione
Autonoma Archivi Notarili, Archivio notarile di Udine, Consiglio notarile di Udine Procuratore
Generale presso la Corte di Appello di Venezia e Procuratore della Repubblica presso il Tribunale
di Udine.
DIRITTO. 1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 519 c.c. con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3. Assume il ricorrente che quando il
codice civile impone l’atto pubblico come forma esclusiva, introduce una previsione espressa e
che la forma solenne non coincide con l’atto pubblico essendo considerata redatta in forma
solenne anche la scrittura privata autenticata.
1.1. Il motivo è manifestamente infondato. Questa Corte ha già enunciato il principio di
diritto, secondo il quale, nel sistema delineato dagli artt. 519 e 525 c.c. in tema di rinunzia all’eredità, la quale determina la perdita del diritto all’eredità ove ne sopraggiunga l’acquisto da parte
degli altri chiamati, l’atto di rinunzia deve essere rivestito di forma solenne con una dichiarazione
resa davanti al notaio o al cancelliere e la successiva iscrizione nel registro delle successioni
(Omissis). In coerenza con questo orientamento, si è espressamente escluso che la rinuncia
all’eredità possa essere fatta mediante scrittura privata autenticata; in tal senso questa Corte (v.
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responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
Cass., 11 gennaio 2011, n. 444) si è già espressa affermando (in motivazione): « del tutto infondata
risulta la tesi in diritto del ricorrente, secondo cui la rinuncia all’eredità può anche essere fatta con
scrittura privata autenticata, sia perché contraria alla disciplina di cui agli artt. 519 e 525 c.c., come
statuito da questa Corte (tra le altre, Cass. n. 4846/2003), sia perché atto di notevole incidenza in
tema di successione ereditaria, riguardo, in particolare, ai chiamati all’eredità e ai creditori ».
Il ricorrente contesta questa interpretazione con argomenti per nulla decisivi:
- il verbo « ricevere » che compare nell’art. 519 c.c. può essere riferito anche alla dichiarazione
scritta che viene autenticata;
- la non coincidenza tra forma solenne e atto pubblico, il principio della libertà di forma, la
pretesa equipollenza probatoria tra scrittura autenticata e atto pubblico e una equivalenza delle
due forme anche sul piano sostanziale, il fatto che l’accettazione dell’eredità può essere fatta
anche con scrittura privata autenticata;
- il fatto che per altri atti di eguale importanza non è richiesto l’atto pubblico. Occorre al
riguardo osservare che gli atti notarili devono essere stipulati nella forma dell’atto pubblico, come
si desume dallo stesso art. 1 della legge notarile così formulato: I notari sono ufficiali pubblici
istituiti per ricevere gli atti tra vivi e di ultima volontà, attribuire loro pubblica fede, conservarne il
deposito, rilasciarne le copie i certificati e gli estratti; solo in casi particolari e su richiesta delle
parti, viene utilizza la forma della scrittura privata autenticata.
L’atto pubblico è definito dall’art. 2699 c.c. come « il documento redatto, con le richieste
formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel
luogo dove l’atto è formato »; la caratteristica di atto pubblico attiene ad ogni suo elemento od
aspetto, mentre la scrittura autenticata, come risulta dalla disciplina degli artt. 2702 e 2703 c.c. è
una scrittura tra privati con la caratteristica peculiare che il pubblico ufficiale ne attesta e certifica
la paternità delle sottoscrizioni nonché la data di sottoscrizione senza peraltro attestare che la
dichiarazione è stata da lui raccolta, attestando semplicemente che la firma sulla dichiarazione è
autentica; la fede privilegiata, in questo caso, copre esclusivamente l’autenticità della firma nonché la provenienza della stessa da determinati ed individuati soggetti, nonché la data delle sottoscrizioni, senza poter in alcun modo inerire al contenuto delle dichiarazioni.
È senz’altro corretto affermare che, sotto profili diversi dell’efficacia probatoria, la differenza
tra atto pubblico e scrittura privata si è attenuata. Infatti, la l. n. 246/2005, art. 12, comma 1, lett. a),
riformulando l’art. 28 legge notarile, ha fatto divieto al notaio, non solo di ricevere, ma anche di
autenticare atti espressamente proibiti dalla Legge o manifestamente contrari al buon costume o
all’ordine pubblico e così ha esteso il controllo di legalità del notaio anche sulle scritture private
che egli autentica. L’art. 72, comma 3, della legge notarile nella nuova formulazione, ha vietato al
notaio di rilasciare alle parti in originale quelle scritture private autenticate idonee a essere
riportate nei registri immobiliari o nel registro delle imprese. Tuttavia non può affermarsi che nel
nostro ordinamento la scrittura privata e l’atto pubblico siano stati assimilati a tutti gli effetti e il
principio di libertà di forma non è applicabile quando, come nella specie, è espressamente prevista la forma dell’atto notarile pubblico.
Quanto all’espressione letterale dell’art. 519 c.c. si deve osservare che ciò che il notaio è
chiamato a ricevere non è un documento del quale egli autentica la sottoscrizione, ma è una
dichiarazione; in altri termini, il notaio deve attestare non già che la firma è autentica (in conformità alla definizione contenuta dell’art. 2702 c.c.), ma che il soggetto comparso davanti a lui ha
reso una dichiarazione e di tale evidente differenza è traccia nella stessa legge notarile: l’art. 28 (Il
notaro non può ricevere o autenticare atti...), appunto, distingue l’attività del ricevere l’atto dalla
diversa attività di autenticarlo. In conclusione non sussistono ragioni per discostarsi dai principi
affermati nei richiamali precedenti e il motivo deve essere rigettato.
2. Con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta la « violazione e falsa applicazione
degli artt. 1418 e 1325 quanto alla ritenuta nullità della dichiarazione di rinunzia all’eredità non
fatta per atto pubblico con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 ». Il ricorrente sostiene: che la nullità
sussiste, ai sensi dell’art. 1325 c.c., solo quando la forma risulta prescritta dalla legge sotto pena di
nullità, mentre nessuna disposizione prevede che la rinuncia all’eredità debba farsi per atto
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pubblico sotto pena di nullità; che mentre l’art. 520 c.c. espressamente sancisce la nullità della
rinuncia fatta sotto condizione o a termine, sulla si prevede per la rinunzia fatta con forma diversa
dell’atto pubblico; inoltre l’art. 525 c.c. nulla dispone quanto alla forma della revoca della rinuncia.
2.1. Il motivo è manifestamente infondato in quanto l’art. 519 c.c. stabilisce che la rinuncia
all’eredità deve essere fatta con le formalità ivi previste (che, come detto, non possono essere
sostituite da una scrittura privata autenticata) e l’art. 1350 c.c. stabilisce che devono farsi a pena di
nullità per atto pubblico o per scrittura privata quelli ivi elencati, tra i quali « gli atti specialmente
indicati dalla legge »; nella fattispecie, come detto, per la rinuncia all’eredità è specificamente
indicato dall’art. 519 c.c. l’atto pubblico, né ha fondamento normativo e neppure logico l’interpretazione dell’art. 1350, n. 13, c.c., proposta dal ricorrente, secondo la quale nella formula « gli altri
atti specialmente indicati dalla legge » dovrebbe ravvisarsi non un rinvio a tutti gli atti per i quali
è prevista una determinata forma, ma solo un rinvio agli atti per i quali la forma è prevista a pena
di nullità; tale interpretazione, all’evidenza, implicherebbe; la necessità di una doppia previsione
di nullità: a quella prevista dall’art. 1350 c.c. dovrebbe aggiungersi una nullità che dovrebbe essere
ribadita tutte le volte in cui il legislatore prevede una forma vincolata, conclusione che costituisce
l’esatto contrario di quanto si era proposto il legislatore, stabilendo al comma 1 la nullità per tutti
gli atti per i quali non è rispettato il requisito di forma previsto nei numeri da 1 a 13.
3. Con il terzo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta la « violazione e falsa applicazione degli
artt. 1418 e 1325 in relazione all’art. 28 della legge notarile con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 ».
Il ricorrente sostiene che l’art. 28 della legge notarile vieta al notaio di ricevere atti « espressamente vietati dalla legge », ma nella fattispecie, secondo il ricorrente, manca il presupposto
dell’espresso divieto in quanto la nullità sarebbe riconducibile non ad una norma specifica, ma ad
una interpretazione giurisprudenziale costituita da un unico precedente, per giunta successivo
all’atto per il quale è stata applicata la sanzione disciplinare.
3.1. Il motivo è manifestamente infondato perché l’atto non era affetto da una nullità virtuale,
ossia priva di quella evidenza testuale cui la norma rinvia, ma era affetto da una nullità formale
che riguardava, appunto, la forma dell’atto prescritta dalla legge (art. 519 c.c.) a pena di nullità (art.
1350 c.c., n. 13), come, del resto, riconosciuto anche in dottrina che ha affermato che la rinunzia è
« un atto negoziale formale ad substantiam actus ».
In giurisprudenza già con Cass. n. 3500/1975 si era riconosciuta la nullità della rinunzia senza
l’osservanza delle forme dell’art. 519 c.c. seppure con salvezza dell’atto nei rapporti tra i coeredi
che avessero posto in essere comportamenti dai quali desumersi con certezza la rinuncia.
4. Con il quarto motivo di ricorso (indicato, tuttavia con il numero 5), il ricorrente lamenta la
« violazione e falsa applicazione dell’art. 28 della legge notarile con riferimento all’art. 360 c.p.c., n.
3 » e sostiene che, secondo la dottrina (che non menziona) la previsione dell’art. 28, n. 1, della legge
notarile, sanzionerebbe esclusivamente le nullità per illiceità della causa ai sensi dell’art. 1343 c.c.
e non anche le nullità formali.
4.1. Il motivo è manifestamente infondato e l’affermazione ivi contenuta contrasta con il
consolidato orientamento giurisprudenziale per il quale la prescrizione dell’art. 28, secondo la
quale « Il notaio non può ricevere o autenticare atti; 1° se essi sono espressamente proibiti dalla
legge, o manifestamente contrari al buon costume o all’ordine pubblico », si riferisce non solo agli
atti vietati singolarmente e specificamente dalla legge, ma altresì a tutti gli altri atti comunque
contrari a disposizioni cogenti della legge stessa, ossia non aderenti alla normativa legale, di
ordine formale o sostanziale, per essi prevista a pena di inesistenza, nullità (non solo dall’art. 1418
c.c., comma 1, ma anche dai commi successivi) o annullabilità (Cass., 21 aprile 1983, n. 2745; Cass.
11 novembre 1997; Cass., 1° febbraio 2001, n. 1394).
La giurisprudenza richiamata e che qui si condivide è coerente con gli stessi fondamenti della
responsabilità disciplinare del notaio che deriva dall’avere tradito, per negligenza, imperizia e
imprudenza l’aspettativa del cittadino di ottenere dal notaio un atto che non sia nullo o che presti
il fianco a facili impugnazioni; in questo senso deve essere interpretato, quindi, l’art. 28 che, come
in dottrina si è efficacemente osservato, non regola la nullità degli atti, ma la responsabilità
disciplinare del notaio.
⎪ P.28
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
5. Con il quinto motivo di ricorso (indicato, tuttavia con il numero 6), il ricorrente lamenta la
« violazione e falsa applicazione dell’art. 158 della legge notarile in relazione all’art. 333 c.p.c. in
relazione alla ritenuta ammissibilità del reclamo incidentale del P.M. con riferimento all’art. 360
c.p.c., n. 3 » e sostiene che la Corte di Appello non avrebbe dovuto rigettare l’appello incidentale
del P.M. ma dichiararlo inammissibile perché l’appello incidentale del P.M. non è previsto da
alcuna norma e per il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione penale, applicabile al
giudizio disciplinare, non sarebbero ammissibili le impugnazioni non espressamente previste; in
ogni caso avrebbe dovuto riconoscerlo ammissibile solo limitatamente ai capi investiti dall’appello
principale e comunque il Procuratore Generale avrebbe rinunciato all’appello incidentale del
P.M. essendo intervenuto chiedendo solo la conferma del provvedimento reclamato.
5.1. Il motivo è inammissibile in quanto sulla statuizione del giudice di appello relativa al
reclamo incidentale del P.M. l’odierno ricorrente non è stato parte soccombente nel giudizio di
appello perché il reclamo è stato rigettato; pertanto non può impugnare la decisione, mancando
l’interesse all’impugnazione e non potendo, dall’impugnazione (manifestazione del generale
principio dell’interesse ad agire), derivare alcun vantaggio al ricorrente.
Il motivo e altresì manifestamente infondato: come questa Corte a Sezioni Unite ha già
rilevato, « è priva di ogni supporto normativo la tesi del ricorrente, secondo cui la proposizione di
reclami incidentali tardivi, nei procedimenti disciplinari a carico dei notai, sarebbe preclusa ai
titolari dell’azione (Cass., Sez. Un., 31 luglio 2012, n. 13617).
La l. n. 89/1913, art. 158-bis, (ora abrogato, ma qui applicabile ratione temporis) richiamava la
disciplina dettata per i procedimenti in camera di consiglio dal codice di procedura civile. Per tali
procedimenti non si è mai dubitato, nella giurisprudenza di legittimità, che sia consentita la
proposizione di impugnazioni incidentali, anche tardive (cfr., Cass., 20 gennaio 2006, n. 1176), né
che siano stabilite limitazioni nelle impugnazioni (nel sistema della procedura civile qui applicabile) per le « parti pubbliche ».
La stessa conclusione vale a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2011, art. 26, nel
quale viene fatto ora rinvio al rito sommario di cognizione, anziché, come in precedenza, agli artt.
737 c.p.c. ss. (Omissis).
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SENTENZA TRIB. TRIESTE 28 OTTOBRE 2013 G.U. PICCIOTTO
Sport - Responsabilità civile - Concorso di responsabilità contrattuale e aquiliana - Esclusione.
C.C. ARTT.
1218, 1228, 2043, 2049, 2050.
A fronte di un evento che sia al contempo inadempimento di un’obbligazione e illecito
extracontrattuale, il rimedio invocabile è quello della responsabilità contrattuale, maggiormente specifico rispetto a quello aquiliano.
FATTO E DIRITTO. 1. Espone G.M. di essersi iscritto nel mese di ottobre 2008 ad un corso
base di arrampicata sportiva per apprendere tecniche di sicurezza in movimento presso la palestra gestita dall’Associazione sportiva dilettantistica Olympic Rock Trieste (d’ora in avanti:
Olympic Rock Trieste), in Trieste. A tal fine aveva sempre avuto rapporti con M.E. Il corso si
articolava in lezioni di ginnastica e attività teorico-pratica: all’inizio di febbraio 2009, l’attore
sostiene di essere stato automaticamente iscritto ad un corso intermedio per approfondimento e
miglioramento delle tecniche di sicurezza e di arrampicata, sotto la direzione di C.M. In data 2
aprile 2009, verso le 21.00, stava effettuando con il compagno di corso F.L. attività di arrampicata,
secondo il programma preparato dall’istruttore. In particolare otto persone formavano quattro
gruppi, di cui un soggetto sulla parete ed uno a terra con il compito di assicurare la corda di
trattenuta, secondo il sistema « conetto-secchiello » e moschettone a ghiera. Mentre l’attore si
trovava a circa 7 metri di altezza, nella fase di discesa, il compagno di esercizio F.L. non riusciva a
compiere la manovra di « sicura », consistente nell’accompagnare la discesa del compagno in
parete, mantenendo la mano che tiene la corda verso il basso in modo tale da chiuderne l’angolo
e quindi dare corda poco alla volta, per permettere una discesa controllata ed in sicurezza: per tale
ragione G.M. cadeva rovinosamente al suolo, su pavimento in parquet in legno non coperto da
materassi.
1.1. Veniva soccorso da un compagno, medico, e dopo poco anche dall’istruttore. A causa
della sussistenza di forti dolori, il giorno seguente si recava in pronto soccorso dove veniva
riscontrato un trauma da precipitazione, sacro-coccigeo, e calcaneare sinistro. All’indagine radiologica si evidenziava la contusione al calcagno, al rachide lombosacrale, TDRC, trauma cranico
non commotivo, lieve contrattura della muscolatura paravertebrale. Era prescritto collare ortopedico per sei giorni. Stante la persistenza del dolore al piede sinistro, in data 20 aprile 2009 eseguiva
una risonanza magnetica che rilevava una « stria ipointensa a decorso obliquo nei settori basali
del calcagno con intenso edema della spongiosa ossea circostante in un quadro da riferire
frattura composta ». Seguivano ulteriori controlli ortopedici con diagnosi di cervicalgia e lombosciatalgia, con prescrizioni di riposo assoluto e cicli di magnetoterapia. In particolare, ancora a fine
maggio 2009 persistevano la contrazione muscolare al collo ed alle spalle, il dolore al calcagno e le
cefalee. Solo nel mese di dicembre 2009 terminavano le cure specifiche.
1.2. Già in data 7 aprile 2009 F.L. aveva denunciato il sinistro alla propria compagnia assicuratrice della responsabilità civile, ammettendo la propria responsabilità. Tuttavia nessuno dei
convenuti di persona, né la compagnia assicuratrice di F.L., facevano lo stesso.
1.3. Ha quindi illustrato i profili di responsabilità contrattuale in capo all’Olympic Rock Trieste, con la quale concorrerebbe ai sensi dell’articolo 38 c.c. quella di M.E., soggetto che all’epoca
dei fatti rappresentava l’associazione ed agiva in nome e nell’interesse della stessa. Tale responsabilità discenderebbe dall’obbligo contrattuale di garantire con mezzi organizzati idonei l’incolumità fisica degli allievi, organizzando i corsi, vigilando sull’attività degli istruttori e sull’andamento delle lezioni, per fornire un servizio di istruzione ed assistenza qualificato. In particolare
sarebbe stata omessa la cautela consistente nel controllo costante delle manovre svolte dall’allievo
a terra, incaricato di assicurare, con la tenuta della corda, l’incolumità fisica dell’attore. Altro
profilo di responsabilità consisterebbe nel mancato posizionamento a terra di materassini o altro
materiale atto a evitare o quantomeno attenuare le conseguenze di incidenti del genere.
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1.4. Quanto a F.L., la sua condotta sarebbe colposa ai sensi dell’articolo 2043 c.c, per non avere
eseguito la manovra di « sicura » in modo idoneo. Del pari, quanto all’associazione sportiva,
sussisterebbero profili di responsabilità extracontrattuale per la mancanza di controllo adeguato
e costante da parte dell’istruttore sull’operato degli allievi. Sia l’associazione, che il suo rappresentante, avrebbero inoltre dovuto posizionare presidi a protezione di cadute.
1.5. Infine, sostenendo la natura pericolosa dell’attività sportiva di alpinismo, ha addebitato
quanto accaduto ai convenuti M.E. e Olympic Rock Trieste ai sensi dell’articolo 2050 c.c.
1.6. Ha chiesto quindi la condanna di tutti i condebitori in solido al risarcimento dei danni
nella sfera patrimoniale, consistiti in inabilità lavorativa per sette giorni e di risarcimento delle
spese mediche, e nella sfera biologica, con postumi permanenti pari a 7% e danni da inabilità
temporanea parziale: il tutto oltre al danno morale ed alla vita di relazione, per complessivi Euro
27.581,92, con personalizzazione nella misura massima del danno biologico. Al riguardo, ha
sostenuto di non riuscire più a svolgere le attività sportive e di svago in precedenza abitualmente
tenute, e di essere costretto ad indossare ciabatte anche sul lavoro per il fastidioso dolore al
tallone, non riuscendo a mantenere la stazione eretta per più di due ore, né sollevare pesi ingenti,
né guidare a lungo l’autovettura.
2. Si è costituito F.L. sostenendo la responsabilità di G.M. che, senza aver dato il minimo
avvertimento al compagno, si sarebbe lanciato nel vuoto dando inizio la manovra di discesa:
l’inaspettato strappo ricevuto determinava l’impossibilità per F.L. di trattenere efficacemente la
corda. In ogni caso il convenuto sarebbe stato semplice compagno di corso dell’attore, durante
un’esercitazione che era avvenuta sotto la supervisione dell’istruttore, senza che nessun addebito
possa essergli mosso: ciò, sia per la grave avventatezza e imprudenza dell’attore ai sensi dell’articolo 1227 c.c., sia per la posizione assorbente di garanzia rivestite dell’istruttore e dell’associazione sportiva sensi degli articoli 1228 e 2049 c.c.
In via subordinata ha contestato la quantificazione dei danni e chiesto, ai sensi dell’articolo
2055 c.c., di potersi rivalere nei confronti degli altri soggetti coinvolti nel caso di condanna nella
misura delle rispettive responsabilità.
3. Con la medesima comparsa si sono costituiti M.E. e l’Olympic Rock Trieste, contestando il
primo l’applicabilità del disposto dell’art. 38 c.c. al caso di specie; la convenuta ha invece sostenuto
che all’atto dell’iscrizione l’attore sarebbe divenuto socio dell’associazione, oltre che aderente alla
specifica associazione nazionale F.A.S.I. (Federazione Arrampicata Sportiva Italiana) e titolare di
polizza assicurativa: non potrebbe pertanto agire in via contrattuale contro i convenuti stessi. Nel
merito, sarebbero stati adottati tutti gli strumenti di prevenzione possibili, ed unico responsabile
del sinistro sarebbe il convenuto F.L.
3.1. Lamentano ancora i convenuti che, malgrado la presunta responsabilità dell’istruttore C.,
lo stesso non sia stato chiamato in giudizio dall’attore e, per l’inconcessa ipotesi di una qualche
propria responsabilità in ordine al comportamento dello stesso, hanno chiesto di essere autorizzati alla sua chiamata in causa per esserne manlevati. In conclusione hanno invocato un accertamento di eventuali responsabilità concorrenti.
4. L’istanza di chiamata in causa non è stato autorizzata, non essendo state delineate le
ragioni a sostegno della stessa, e non essendo stato possibile valutare il tipo di domanda che si
intendeva proporre, e quindi la sua ammissibilità ed opportunità.
4.1. Le domande ed eccezioni non sono state modificate.
4.2. Raccolte le prove parzialmente ammesse, disposta consulenza tecnica medico-legale,
sulle conclusioni di cui in premessa la causa giunge quindi la decisione dopo il deposito degli scritti
conclusivi e delle repliche.
5. Occorre trattenersi in generale sulla qualificazione della fattispecie.
5.1. Pur prescindendo dal dato assorbente dell’esistenza di un rapporto contrattuale tra G.M.
e Olympic Rock Trieste, di cui si dirà oltre, e quindi ferma l’applicabilità del disposto dell’art. 1218
c.c., merita spendere alcune considerazioni intorno alla natura dell’attività praticata nella palestra
in cui è avvenuto il sinistro. Esse ritorneranno utili allorché si tireranno le fila di tutti i passaggi
necessari per la soluzione del caso, e rispetto ai quali l’indagine causale è solo uno degli elementi
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che il giudice deve tenere presenti nel processo risarcitorio, « nella ricerca di chi debba farsi
carico di cosa, ed in quale misura », come recentemente evidenziato da attenta dottrina comparatistica.
5.2. È noto il tradizionale insegnamento della Suprema Corte di cassazione, secondo cui
costituiscono attività pericolose, ai sensi dell’art. 2050 c.c., non solo le attività che tali sono qualificate dalla legge di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali, ma anche quelle che comportino la
rilevante probabilità del verificarsi del danno, per la loro stessa natura e per le caratteristiche dei
mezzi usati, sia nel caso di danno che sia conseguenza di un’azione, sia nell’ipotesi di danno
derivato da omissione di cautele che in concreto sarebbe stato necessario adottare in relazione alla
natura dell’attività esercitata alla stregua delle norme di comune diligenza e prudenza (da ultimo,
Cass. sent. n. 919/2013).
5.3. Non ignora il giudice il recentissimo arresto di Cass., sent. n. 12900/2012, che ha qualificato come « pericolosa » l’attività svolta da una scuola di alpinismo senza fini di lucro, e, conseguentemente, condannato ex art. 2050 c.c. la scuola al risarcimento del danno, patito da un allievo
caduto durante un’arrampicata).
5.3.1. In realtà la fattispecie ivi discussa era molto diversa da quella che viene qui in considerazione. Nel caso deciso dai giudici milanesi e poi giunto in Cassazione, un allievo di un corso di
alpinismo per principianti curato da un’associazione privata, altresì sezione del Club Alpino
Italiano, durante una scalata organizzata dall’associazione lungo una via ferrata perse l’appoggio
del piede sinistro, scivolò per alcuni metri lungo il cavo d’acciaio cui era assicurato e, ruotando nel
vuoto, riportò la frattura della caviglia destra nell’urto contro il predellino d’acciaio che serviva per
agevolare la salita.
5.3.2. La Suprema Corte di cassazione ha messo in rilievo che oggetto del giudizio non era
tanto il « corso di alpinismo », ma l’escursione alpinistica organizzata nell’ambito di detto corso, «
la prima dopo un’unica lezione teorica e consisteva in un’ascensione per via ferrata lungo una
parete verticale lunga circa 200 metri effettuata da un principiante ». Ed in questo contesto la
Corte ha ritenuto corretto assumere che la pericolosità dell’attività potesse essere apprezzata in
relazione alle specifiche caratteristiche proprie del caso concreto, e ha giudicato condivisibile
l’affermazione secondo cui « anche le escursioni alpinistiche più facili presentano elementi di
rischio elevato per soggetti sprovvisti o che hanno appena appreso le tecniche di tali escursioni,
principalmente quando l’attività viene esercitata per le prime volte ». Inoltre, i giudici di legittimità hanno dato rilievo, ai fini della qualificazione dell’attività come pericolosa, a talune circostanze, definite come « certamente suscettibili di essere valutate ex ante », quali « le descritte
caratteristiche dell’ascensione alla luce della considerata inesperienza dell’allievo e dell’unicità
della lezione teorica impartita prima dell’escursione alpinistica ».
5.4. Nel caso qui a giudizio, invece, si tratta di un corso di arrampicata sportiva ben strutturato,
frequentato da diversi mesi, altamente ripetitivo quanto ad esercizi base, e sorvegliato generalmente nel suo svolgimento da parte del personale istruttore. L’istruttoria disimpegnata ha consentito di accertare come durante i corsi si desse la massima attenzione al corretto svolgimento
delle manovre di trattenuta, stimate — a buona ragione — più importanti rispetto alle attitudini
all’arrampicata. In particolare venivano impiegati diversi mesi per curare l’apprendimento della
trattenuta, e alla fine del primo corso si poteva passare a quello seguente solo dopo un esame.
Anche se alcuni testi non sono stati precisi al riguardo di un esame formale, piuttosto che di
una valutazione demandata all’istruttore, il passaggio non era automatico, e non tutti venivano
giudicati idonei, come lasciava supporre la versione fornita dall’attore.
5.4.1. Elemento di prima valutazione per giudicare l’attitudine degli « allievi » sarebbe quindi
proprio la manovra di « sicura », mentre solo secondario sarebbe l’apprezzamento per le tecniche
di arrampicata (teste P.). Molto rilevante, sul punto, la precisa deposizione del teste GU. che
frequentava lo stesso corso dell’attore e del convenuto F.L.: merita attenta lettura per comprendere come vi fossero controlli continui, anche « a sorpresa » sulla corretta tecnica di « sicura ». Tutti
i partecipanti erano stati ritenuti idonei per il corso intermedio, e non più principianti, e svolge-
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vano gli esercizi a loro ormai noti: comunque, alla ripresa del corso dopo l’interruzione estiva,
erano state riviste le procedure in questione, « per vedere se si erano conservate le abilità ».
5.5. Ne consegue che in questo caso, a differenza di quello giudicato dalla Suprema Corte di
cassazione, il danneggiato aveva un’esperienza che gli consentiva pienamente la partecipazione
all’esercitazione, conosciuta e più volte eseguita; ma, soprattutto, lo stesso era a dirsi per il suo
compagno. Non vi è quindi un’attività concretamente pericolosa, per ragioni contingenti, o per
particolari qualità dei luoghi o dei partecipanti. Tutto era assolutamente uguale agli esercizi
normalmente praticati.
5.6. Ed allora, poiché non v’è questione in ordine alla natura dei mezzi adoperati che sono
quelli usuali (vedi documenti tecnici acquisiti), occorre prestare attenzione alla natura dell’attività, alla sua eventuale potenzialità offensiva oggettiva, ed al grado di possibilità del verificarsi di un
danno, ed agli equilibri economici che contornano la vicenda, oltre che alle caratteristiche dei
soggetti coinvolti: tutto ciò per dipanare quel « reticolo di dettagli che compone ogni conflitto », e
non abbandonarsi a vuote considerazioni su un nesso di causalità « in the air », come suggerito da
attenta dottrina citata, ed arrivare ad un corretto giudizio sulle responsabilità in ordine all’accaduto.
5.6.1. L’attività di palestra, con attrezzistica o senza, comporta in genere l’utilizzo di strutture
o mezzi finalizzati all’esercizio fisico. Entrano in gioco diversi elementi fisici, sostanzialmente
collegati alle leggi della gravità o della meccanica. Non perciò solo si può ritenere che si tratti di
un’attività pericolosa in astratto: è tuttavia indiscutibile che, qualora un soggetto inesperto venga
avviato senza adeguata preparazione all’uso di un attrezzo pericoloso e non conosciuto, o ad un
esercizio di tal genere, allora in concreto si possa stimare (non dissimilmente da quanto ritenuto
dalla Cassazione al punto 5.3.2. di cui sopra) che la specifica attività, alla luce dell’inesperienza
dell’allievo e della mancanza di insegnamenti teorici e pratici, possa essere pericolosa. Ciò, si
ribadisce, va detto in termini generali, non necessariamente in quelli ristretti e relativi all’applicazione dell’art. 2050 c.c., che nel caso di specie non è possibile, sussistendo rapporto contrattuale
tra danneggiato ed associazione sportiva.
5.6.2. Non può, in altri termini, concludersi generalmente ed astrattamente per la natura
pericolosa dell’attività in esame, anche in mancanza di qualsiasi dato in ordine al numero di
incidenti; anzi, proprio il fatto che si tratti di attività aperta anche ai giovanissimi delle scuole
elementari pubbliche (teste R.), lascia fondatamente ritenere che non vi sia un’astratta pericolosità.
5.6.3. Queste considerazioni, astrattamente poco rilevanti in quanto vi è rapporto contrattuale
tra G.M. e Olympic Rock Trieste che impedisce l’applicazione della norma di cui all’art. 2050 c.c.,
rimangono tuttavia utili per la valutazione della misura dell’adempimento, della rilevanza causale
del comportamento dei debitori, dell’indagine in tema di corresponsabilità, e di ciò si dirà oltre.
6. Conviene a questo punto, prima di esaminare la posizione dell’Olympic Rock Trieste,
passare ad analizzare la condotta di F.L. e il suo apporto causale in relazione all’evento. Il tutto con
una fondamentale precisazione: egli potrà essere chiamato a rispondere in via esclusiva del fatto
proprio solo nei limiti in cui si ritenga che nessun inadempimento possa essere contestato al
contraente Olympic Rock Trieste, e si concluda che la condotta antigiuridica del F. non sia
rapportabile a quella dell’Olympic Rock Trieste, secondo lo schema dell’art. 1228 c.c. Ma di ciò si
dirà oltre, per coerenza di sviluppo della motivazione.
6.1. È pacifico che F.L. avesse tutte le attitudini per eseguire il tipo di esercizio praticato, da lui
disimpegnato molte volte e senza riferite conseguenze negative: aveva passato esami di valutazione, e non era più un esordiente; si trattava di un esercizio routinario, ripetitivo, ormai appreso.
È altrettanto pacifico che egli abbia assunto su di sé la responsabilità dell’accaduto (risposta in
sede di interpello ai capitoli 27 e 28 della memoria istruttoria di M.E. e Olympic Rock Trieste), per
avere sbagliato la manovra di trattenuta in un momento di distrazione.
6.2. Per contro, non è stata assolutamente provata l’esistenza di un fatto imprevisto, come la
presunta scelta sconsiderata (eccepita dalla difesa di F.L.) da parte di G.M. di iniziare la discesa
all’improvviso: non può quindi ritenersi concorrere un comportamento colposo del danneggiato,
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il quale è caduto senza poter fare nulla per evitarlo: come si legge nella verbalizzazione dell’interpello del FL, l’attore è caduto in terra in meno di due secondi, dopo che il compagno qui
convenuto aveva perso la presa della corda di trattenuta.
6.3. La responsabilità del convenuto sembra essere quindi pacifica, per avere egli omesso di
adottare le opportune cautele, sulle quali confidava l’attore per la riuscita dell’esercizio in sicurezza, e che era in suo potere prestare. Non sussisteva tra le parti alcun vincolo giuridico obbligatorio di tipo contrattuale, ma il dovere generale del neminem laedere imponeva al convenuto di
attivarsi per evitare il danno, nei limiti dell’esigibilità, avendo egli ricoperto una funzione fattuale
(e non giuridica) (1) di protezione nei riguardi del danneggiato.
6.4. In seguito si trarranno le conclusioni in tema di eventuale corresponsabilità e di ripartizione degli obblighi risarcitori, oltre che di diritto al regresso.
7. Ciò posto, si può tornare ad analizzare la posizione dell’Olympic Rock Trieste.
7.1. È incontestabile l’esistenza di un rapporto contrattuale tra l’associazione e l’attore, ma
non certo di natura associativa, come vorrebbe qualificarlo la parte convenuta nella sua concisa
eccezione, proposta in comparsa di costituzione e risposta. Sono note le ragioni, anche tributarie,
per le quali si tende a far figurare come « associato » colui il quale, a tutti gli effetti, è un cliente che
usufruisce dei locali e delle attrezzature dietro esborso di denaro: ciò non può però valere a
modificare il rapporto (v. Cass., sent. n. 22578/2012 (2) che dura fin quando si paga la retta mensile,
e che non ha alcun serio connotato associativo. Si tratta in realtà di un vero e proprio rapporto
contrattuale di erogazione di servizi nel quale, a fronte di una prestazione in denaro, il gestore si
impegna ad avviare ad una pratica sportiva, insegnandone la tecnica e, ovviamente, adottando
tutti i necessari accorgimenti a tutela dell’integrità fisica del praticante. Alla fine della frequenza
del corso cessa il rapporto « associativo ». Che si tratti formalmente di un privato, di un imprenditore, o di un artigiano, tutto ciò sposta poco, ai fini di causa, nel senso che occorre guardare alla
sostanza del rapporto.
7.1.1. L’esistenza del vincolo contrattuale esonera dall’indagine sulla possibile esistenza di
una responsabilità da contatto sociale, come detto, e dalla concreta qualificazione dell’attività
come pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 c.c. Non di meno merita rammentare che lo sport riceve
tutela, anche a livello costituzionale, proprio in segno di riconoscimento dei diritti inviolabili delle
formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità del singolo: a tale riconoscimento si accompagna però il dovere di garantire lo svolgimento della pratica sportiva nel rispetto dei primari
diritti della persona, tra cui quello alla salute. Quindi, nel rapporto contrattuale vengono ad
assumere rilievo preminente gli obblighi protettivi a carico della parte che eroga la prestazione
significativa.
7.1.2. Posto infatti che l’allievo/contraente, fino a prova contraria e comunque fino ad una
completa maturità tecnica, non è libero di eseguire attività a piacimento, ma deve praticare gli
esercizi suggeriti nel corso secondo le modalità tecniche illustrate, insegnate e controllate, sembra
indubbio che tra gli obblighi a carico del contraente/associazione sportiva vi sia anche quello di
protezione dell’allievo. Egli deve potersi esercitare venendo ragionevolmente protetto dai rischi
connessi sia all’attività, che al luogo in cui è disimpegnata, che all’attrezzatura fornita, indipendentemente dalla natura pericolosa o meno di tale attività.
7.2. Occorre quindi giudicare se Olympic Rock Trieste abbia adempiuto a questa obbligazione
di protezione.
7.3. È evidente che nel caso di specie l’attività di protezione e tutela non fosse esperita
direttamente ed in via esclusiva dall’istruttore, ma vi fosse solo un controllo, una supervisione
indiretta e non constante. Si tratta di quell’attività, alla quale hanno fatto riferimento i testi,
apprestata durante l’apprendimento iniziale, e poi durante le verifiche, o in sede di esame per il
passaggio al grado di abilità successivo; ma si tratta anche di quei « controlli » improvvisi, che
venivano esercitati per non far sentire troppo rilassati gli allievi nella pratica della « sicura ».
Tuttavia, una volta appreso l’esercizio, il suo svolgimento veniva del tutto delegato ad un altro
allievo, che a terra svolgeva l’attività di sicura. Di fatto, gli atleti che si presentavano a lezione
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venivano smistati o separati in piccoli gruppi, per « allenarsi » sostanzialmente a coppie, sotto la
direzione di un solo istruttore.
7.3.1. È innegabile che questo sistema di « allenamento », oltre ad arricchire — fino ad un
certo punto — di esperienza l’allievo, comporti sempre per il gestore un sensibile risparmio
nell’impiego di personale e di tempo: invece di riservare al solo istruttore/dipendente l’attività di
controllo e protezione, di essa viene « investito » un allievo, che viene così ad assumere, oltre ad un
ruolo di ausiliario, anche precise responsabilità civili che, altrimenti, avrebbero fatto capo al
gestore.
7.3.2. Questa scelta organizzativa consente, quindi, di ottimizzare tempi e costi, e di far praticare esercizi ad un numero maggiore di allievi: non più un singolo istruttore per agevolare fase di
risalita e discesa di un singolo atleta, ma tanti « delegati alla sicura » per quanti atleti si esercitano
in parete; non, quindi, un impiego diretto di un istruttore per allievo, ma un semplice coordinamento del corso ed un controllo sporadico su tutti gli atleti. Non risulta, inoltre, che vi fosse la
possibilità di frequentare la palestra all’infuori della frequenza di corsi con istruttore: il che vuoi
dire che non sono state comprovate tariffe particolari per chi volesse allenarsi in coppia e senza
istruttore: cosa che di fatto accadeva.
7.4. Olympic Rock Trieste assume in comparsa di costituzione e risposta che la partecipazione
di G.M. e F.L. al corso intermedio sarebbe avvenuta « dopo valutazione di idoneità e previa
assunzione da parte degli stessi della responsabilità per la sicurezza propria e di tutti gli
associati, secondo le precise caratteristiche dell’arrampicata sportiva ». Questa affermazione
suona come una conferma della scelta, quanto meno non esclusivamente « formativa », di organizzare l’attività in palestra sfruttando le competenze degli allievi.
7.4.1. Seppure si concorda — alla luce. dell’istruttoria disimpegnata — sulla prima affermazione (valutazione di idoneità), invece non sussiste traccia alcuna dell’assunzione giuridica di una
responsabilità da parte dell’allievo nei riguardi degli altri associati. Per meglio dire: non esiste
traccia di un’assunzione che sia valsa a riversare solo ed esclusivamente sull’allievo i rischi
dell’attività e gli obblighi di protezione nei confronti di altri allievi, identificati o non. Il compagno
di esercizio, quindi, ha agito sicuramente sotto la sua responsabilità, dovendo rispondere ai sensi
dell’art. 2043 c.c. del proprio operato: ma non perciò solo può dirsi che l’associazione sportiva, che
della sua attività si è comunque avvalsa nei limiti sopra espressi, debba andare assolta da responsabilità, sia in via diretta e solidale, sia — come si dirà — in via di regresso.
7.4.2. Non può essere richiamato, al riguardo, il concetto di delega, atteso che non vi è
rapporto di impiego o dipendenza tra l’associazione sportiva e l’allievo, ma semmai l’opposto:
l’associazione è obbligata alla prestazione di facere, e l’allievo deve solo pagare il corrispettivo.
Non vi è poi alcun riconoscimento di mansioni, o percezione di utilità economiche da parte
dell’allievo il quale, dopo avere appreso la tecnica, si presta per spirito partecipativo a svolgere
un’attività che, altrimenti, dovrebbe essere prestata dall’istruttore stesso. Per quanto importante,
l’operazione di trattenuta è innegabilmente meno interessante per l’allievo, che vuole imparare a
scalare, e che vive la fase attiva dell’esercizio in modo notoriamente più appagante di quella
passiva di ritenuta.
7.4.3. Possono essere però invocati i noti principi in tema di sicurezza sul lavoro, secondo cui
la mera designazione ad un servizio di protezione non determina una delega di funzioni, e non è
dunque sufficiente a sollevare il designante dalle responsabilità in tema di violazione degli obblighi di contrattuali di protezione.
7.4.4. Si tratta, in altri termini, di uno scarico di mansioni e di responsabilità, gratuito, che solo
inizialmente ed impropriamente è giustificato dall’esigenza di insegnare una tecnica (quella di «
sicura »), ma che non elimina la responsabilità del debitore, a meno di non provare il caso fortuito
o la forma maggiore. Anzi, è questa una scelta organizzativa volta sostanzialmente a contenere i
costi di esercizio dei corsi, senza apparente utilità (dopo la fase di apprendimento e perfezionamento) per il partecipante.
7.5. Passando ad esaminare il grado di possibilità del verificarsi di un evento come quello
verificatosi, in questo contesto di rapporto contrattuale, non può ritenersi che la disattenzione
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dell’allievo costituisca accadimento imprevedibile o non imputabile al debitore, tanto che proprio
per evitare la ricorrenza di eventi di questo tipo vi erano continue verifiche degli esercizi. L’evento
stesso, inoltre, sarebbe stato evitabile con una diversa organizzazione dei corsi ed una diversa
incidenza dell’attività degli istruttori.
8. Queste considerazioni sono sufficienti per fare ritenere comprovata la responsabilità dell’associazione sportiva, in via contrattuale, e quella del convenuto F.L. ai sensi dell’art. 2043 c.c.
8.1. Al riguardo, si opina poi che la corresponsabilità debba essere estesa ai sensi dell’art. 38
c.c. anche a M.E., quale legale rappresentante dell’associazione stessa. È infatti principio tradizionale quello per cui la responsabilità personale di colui che ha agito in nome e per conto
dell’associazione non riconosciuta si riferisce sia ai rapporti negoziali che a quelli extranegoziali
(Cass., sent. n. 1037/1969; n. 3579/1971). È poi noto che la responsabilità personale e solidale, ex
art. 38 c.c., di colui che agisce in nome e per conto dell’associazione non riconosciuta non è
collegata alla mera titolarità della rappresentanza dell’associazione ma all’attività negoziale (o,
anche, extranegoziale) concretamente svolta per conto di essa e risoltasi nella creazione di rapporti obbligatori fra questa ed i terzi (Cass., Sez. Lav., sent. n. 13946/1991; ma anche recentemente
v. sent. n. 25748/2008). Tale responsabilità non concerne, neppure in parte, un debito proprio
dell’associato, ma ha carattere accessorio, anche se non sussidiario, rispetto alla responsabilità
primaria dell’associazione stessa: ne discende che l’obbligazione, avente natura solidale, di colui
che ha agito per essa è inquadrabile fra quelle di garanzia ex lege, assimilabili alla fideiussione; e
che chi invoca in giudizio tale responsabilità ha l’onere di provare la concreta attività svolta in
nome e nell’interesse dell’associazione, non essendo sufficiente la prova in ordine alla carica
rivestita all’interno dell’ente.
8.2. Nel caso di specie non è negata la qualità del legale rappresentante, né il fatto che, in una
palestra delle dimensioni come quella della quale si discute (ed in cui la moglie del convenuto,
escussa come teste, è a sua volta istruttrice), i corsi vengano organizzati, gestiti e tenuti secondo le
disposizioni tecniche e logistiche di chi rappresenta l’ente, accetta le iscrizioni e paga gli istruttori.
8.3. Trattandosi di responsabilità solidale interna, non ha senso una ripartizione di quote di
responsabilità nei rapporti tra questi due soggetti, ma solo in quelli tra l’associazione sportiva e il
corresponsabile F.L.
9. Venendo ora all’indagine sull’esistenza del nesso di causalità (3) tra la caduta e le lesioni, si
ritiene che la prova sia stata raggiunta senza apprezzabile dubbio. In primo luogo una caduta « in
piedi » (anzi, su un piede, per poi urtare con la nuca la parete) dall’altezza di circa sette metri è
astrattamente idonea a provocare le lesioni successivamente diagnosticate. Né può ritenersi che
essersi recati il giorno successivo in pronto soccorso costituisca un elemento incompatibile con la
ricostruzione dell’accaduto. Comunque, a sgombrare il campo sono le chiare valutazioni del CTU,
espressamente richieste in considerazione delle contestazioni operate dalla difesa di F.L. A pagg.
10 ss. il CTU si trattiene in modo motivato e chiaro sul nesso tra la dinamica dell’incidente e le
conseguenze lamentate e successivamente riscontrate. Il CTU ha saputo altresì cogliere la rilevanza di alcuni dimorfismi costituzionali preesistenti al sinistro (concausali rispetto al trauma
indiretto al rachide), ed ha osservato come la situazione obiettiva (mancato utilizzo di plantari) sia
incompatibile con l’allegazione eccessiva di algie e disfunzioni. Del resto le conclusioni non sono
contestate dalle difese tecniche.
10. Se quindi il danno è casualmente collegato all’evento, e la caduta è rapportabile a fatto
colposo sia dell’Olympic Rock Trieste che di F.L., occorre ora verificare ai sensi dell’art. 2055 c.c.
come debba essere ripartita, all’interno dei diversi rapporti tra debitori, la rispettiva responsabilità, e se vi sia possibilità di regresso, ed a quale titolo.
10.1. Già si è chiarito che nessuna domanda è stata validamente delineata nei riguardi dell’istruttore C., del quale non è stata autorizzata la chiamata in causa. Del pari si è scritto di come non
sia stata ravvisata alcuna responsabilità o rilevanza concausale nel comportamento del danneggiato.
10.2. Occorre ora richiamare il rapporto esistente tra l’Olympic Rock Trieste e F.L., per vedere
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se ed in quali termini la prima sia chiamata eventualmente a rispondere del fatto del secondo: e la
risposta non può che essere affermativa.
10.2.1. Si è detto di come l’organizzazione dell’attività nella palestra si avvalesse degli allievi
per formare coppie di atleti dediti agli esercizi. Eppure il costo della rata mensile della palestra non
risulta essere minore o diverso per chi svolga l’esercizio con l’istruttore, rispetto a chi lo esegua con
un compagno. È quindi indubbio che l’utilizzo di allievi come « aiutanti » abbia comportato dei «
commoda » per il debitore della prestazione istruttiva. Proprio su questa secolare massima di
esperienza (« ubi commoda ibi et incommoda ») si fonda la ratio del disposto dell’art. 1228 c.c.
(Cass., sent. n. 3776/1971).
10.2.2. Perché si configuri questo tipo di responsabilità per fatto degli ausiliari, l’art. 1228 c.c.
impone, tra l’altro, che l’opera svolta dall’ausiliario sia connessa con l’adempimento della prestazione, talché, ove non si accerti che l’attività del terzo abbia determinato o concorso a determinare
l’inadempimento o l’inesatto adempimento della prestazione, l’applicazione della norma dovrebbe escludersi ed il debitore non dovrebbe rispondere del fatto dell’ausiliario, appunto perché
difetta il nesso di causalità tra l’opera del terzo e l’obbligo del debitore, la cui sussistenza è
presupposta dalla disposizione dell’art 1228 c.c. (Cass., sent. n. 2787/1963; poi divenuto insegnamento tradizionale). Nel caso in esame, per le ragioni descritte, è pacifico che il comportamento di
F.L. abbia avuto incidenza causale nella determinazione del sinistro: si rinvia ai punti 6 ss.
10.2.3. Quanto al rapporto che deve legare il debitore all’ausiliario, è noto che la norma trova
applicazione ogni qual volta il contraente si avvalga, in tutto o in parte, della collaborazione di terzi
nelle operazioni preordinate all’esecuzione del contratto, ancorché siano estranei all’azienda del
debitore ed al rapporto tra creditore e debitore. Si può quindi sostenere che F.L. fosse di ausilio
all’Olympic Rock Trieste, essendo irrilevante che tale aiuto fosse gratuito: quel che invece importa
è che nel prestare la propria attività F.L. dovesse obbedire a direttive tecniche ed organizzative
dell’associazione e dei suoi preposti (legale rappresentante o istruttori): il tipo, il contenuto, la
durata degli esercizi risultata regolare dalle prescrizioni degli allenatori.
10.2.4. Se quindi sussiste un rapporto di ausilio, e se il fatto è ascrivibile a comportamento
colposo dell’ausiliario, sussiste perciò solo piena responsabilità del debitore. Infatti è chiaro
l’insegnamento della Suprema Corte di cassazione (sent. n. 6053/2010) secondo cui in tal caso
l’inadempimento del terzo, del quale il contraente si avvalga per svolgere l’incarico, non costituisce di per sé giusta causa di esonero da responsabilità del contraente stesso, in quanto, ai sensi
dell’art. 1228 c.c., questi è responsabile della scelta compiuta e risponde anche del fatto doloso o
colposo dei suoi ausiliari, salvo che possa dimostrare il caso fortuito o la forza maggiore, anche con
riguardo al comportamento dell’ausiliario.
10.3. Rimane però fermo che la colpa dell’ausiliario può in astratto fondare un’azione di
regresso del contraente nei suoi confronti.
11. Tirando le conclusioni di queste premesse, necessarie in considerazione del complesso
intreccio di domande e di responsabilità, si deve ritenere che G.M. abbia correttamente agito a
tutela del proprio diritto nei riguardi sia del debitore sia di chi ha provocato il danno in via
extracontrattuale. Si è trattato di una scelta legittima, ancorché l’attore potesse agire solo nei
confronti del debitore.
11.1. Ciò ha determinato la necessità di chiarire i termini delle rispettive responsabilità,
ancorché l’attore si possa avvalere della speciale tutela apprestata dall’art. 2055 c.c. a vantaggio dei
danneggiati.
12. La domanda di accertamento delle rispettive responsabilità, proposta da F.L. e dall’Olympic Rock Trieste, obbliga ora il giudice ad esaminare la gravità delle rispettive colpe e l’entità
delle conseguenze che ne sono derivate, con la precisazione che, nel dubbio, le singole colpe si
presumono per legge uguali, ai sensi dell’art. 2055, comma 3, c.c.
12.1. È pacifico che l’evento è direttamente ascrivibile alla condotta colposa di F.L., che ha
fatto scorrere la corda senza bloccarla per tempo, non riuscendo più a trattenere la caduta di G.M.
Altrettanto pacifico è che l’individuazione di F.L., quale allievo che aiutasse G.M. ad eseguire il suo
esercizio, non è stata viziata da culpa in eligendo. Ma se ci si fermasse alla sola valutazione della
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.37
⎪
gravità della colpa di F.L., ed all’assenza di culpa in eligendo in capo all’Olympic Rock Trieste, si
arriverebbe alla conclusione assolutamente ingiusta di porre tutto l’evento a carico di un soggetto
terzo rispetto al rapporto contrattuale, e che è stato « usato » dal debitore per organizzare in modo
più conveniente ed economico la propria attività di istruzione in palestra. Infatti lo specifico
addebito, pure ipotizzato, della rilevanza causale del mancato posizionamento di un materassino
sotto la parete, si è rivelato inconsistente: è stato dimostrato per testi che tale materassino avrebbe
ostacolato la manovra di « sicura », compromettendo la stabilità dell’atleta a terra; per tale ragione
non se ne fa mai uso in nessuna manifestazione, per le scalate accompagnate da terra.
12.1.1. È quindi necessario integrare le valutazioni con il ricorso ad altri parametri. Del resto
l’adempimento contrattuale si accerta in termini oggettivi, ma si valuta secondo la misura della
diligenza.
12.2. Occorre in primo luogo ribadire la rilevanza del motivo per il quale F.L., in concreto, si è
trovato ad operare in una posizione di protezione che, a rigore, non gli sarebbe spettato di
ricoprire, ed anzi che contrattualmente era posta a carico dell’Olympic Rock Trieste. E questa
ragione si rinviene in una libera, ed anzi ben ponderata scelta organizzativa, di natura eminentemente economica, adottata dal debitore per ridurre i costi ed aumentare l’offerta al pubblico dei
suoi clienti. Non è necessario soffermarsi ulteriormente sul concetto, ampiamente descritto ai
punti che precedono. Si deve piuttosto qualificare questa scelta come a chiara valenza imprenditoriale, pur ferme le caratteristiche formali del soggetto prestatore. Sembra indubbio che l’associazione sportiva fosse titolare di un’obbligazione di risultato nei confronti degli atleti, e che a suo
carico si potesse configurare una responsabilità contrattuale per il servizio reso (o non reso), ma
va evidenziato che la logica secondo cui questa responsabilità deve essere traguardata è quella del
rischio di impresa. Il contraente, per potersi liberare della sua responsabilità (tanto in sede
principale quanto di regresso), avrebbe dovuto provare che la prestazione è divenuta per lui
impossibile per una causa estranea ai rischi tipici creati dall’organizzazione della sua attività. La
sua prestazione era ed è del tutto particolare, in quanto viene eseguita avvalendosi di una organizzazione di mezzi materiali, di dipendenti, ed addirittura di una serie di ausiliari di vario genere,
i quali cooperano tutti quanti a produrre il risultato atteso dal creditore: eseguire in sicurezza la
serie di esercizi di arrampicata. Quando — come nella specie — l’inadempimento deriva da cause
interne all’organizzazione apprestata (mancanze da parte dei dipendenti o cattivo funzionamento
delle macchine o mancanze degli ausiliari), la responsabilità sussiste in termini oggettivi, salva la
prova del fortuito o della forza maggiore: ed anzi, proprio ai sensi dell’art. 1228 c.c., anche oltre tale
evento, quanto meno nei rapporti con il creditore.
12.3. Se quindi l’Associazione sportiva dilettantistica Olympic Rock Trieste si è avvalsa, per
proprio vantaggio economico, dell’operato di un ausiliario, e se l’evento di danno per il creditore si
è verificato per fatto colposo di questo ausiliario estraneo al rapporto contrattuale, non può
predicarsi un esonero di responsabilità del preponente in sede di verifica della corresponsabilità
e di regresso tra condebitori. Una condanna del corresponsabile al rimborso integrale di quanto il
contraente abbia pagato a titolo di risarcimento violerebbe le norme dettate dall’art. 2055 c.c. in
tema di ripartizione, nei rapporti interni fra i coobbligati, dell’onere di risarcimento: il porre a
carico di uno solo di essi, attraverso l’integrale rimborso del risarcimento pagato dall’altro, la
totalità dell’onere anzidetto implicherebbe la negazione di qualsiasi colpa dell’altro o di qualsiasi
efficienza del suo comportamento nella produzione del danno e, quindi, la negazione del fondamento della sua corresponsabilità.
12.4. Quanto alla misura di tale corresponsabilità, ritiene il giudice che l’analisi dei diversi
elementi utili alla valutazione è troppo complessa, in ragione della specificità del caso. Si tratta
invero di parametrare l’efficienza causale di un comportamento materiale di una persona fisica
con quella connessa a scelte organizzative ed a logiche aziendali: i risultati del ragionamento
sarebbero del tutto soggettivi, e dunque opinabili. Si tratta di una situazione di dubbio oggettivo e
reale, e non è possibile valutare neppure approssimativamente la misura delle singole responsabilità. Non sussistono chiare evidenze per discostarsi dalla regola finale di natura presuntiva ed
⎪ P.38
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
equitativa, posta dall’art. 2055, comma 3, c.c., secondo cui « nel dubbio, le singole colpe si presumono uguali ».
13. In conclusione, ferma la responsabilità solidale di F.L. e dell’Olympic Rock Trieste nella
determinazione del sinistro, e ferma la responsabilità solidale interna di M.E. nei riguardi dell’associazione di cui è legale rappresentante, nei loro rapporti interni i condebitori sono tenuti in
ragione della metà al pagamento di quanto riconosciuto a G.M., con diritto di regresso per la
maggior quota eventualmente corrisposta.
14. Venendo alla quantificazione dei danni, si osserva come il danno non patrimoniale subito
da G.M. sia caratterizzato da peculiarità che consigliano una minima personalizzazione. Non vi
sono infatti esiti permanenti particolarmente invasivi, né risulta comprovata l’impossibilità di
svolgere attività lavorativa o di svago o sportiva sensibilmente diversa da quella precedentemente
svolta. L’attore non è stato sottoposto ad interventi chirurgici, ancorché il patema per la difficile
individuazione delle patologie abbia comportato un apprezzabile disagio.
Sussistono quindi elementi per appesantire minimamente e personalizzare il punto medio di
danno tabellare e rendere così adeguato il risarcimento a tutte le componenti in autonome di
danno (Cass. sent. n. 11950/2013).
14.1. Applicando quindi la tabella aggiornata al 2013, adottata dal Tribunale di Milano, usualmente adottata dal Tribunale di Trieste si ha:
• sinistro dell’aprile 2009 in persona di anni 22:
• invalidità permanente: 5% pari ad E 8.124,00, comprensivi della componente non patrimoniale non biologica come da tabella: inoltre è riconosciuta una personalizzazione del 10%, secondo
equo apprezzamento delle risultanze di cui sopra, per complessivi E 8.936,40;
• invalidità temporanea parziale al 75% ad E 120ldie per 6 giorni = E 540,00;
• invalidità temporanea parziale al 50% ad E 120ldie per 40 giorni = E 2.400,00;
• invalidità temporanea parziale al 35% ad E 120ldie per 40 giorni = E 1.680,00
• per un danno non patrimoniale totale pari ad E 13.556,40.
14.2. Quanto alla domanda di rivalutazione formulata dall’attore, si rileva innanzitutto che
alla rivalutazione monetaria, in caso di condanna al risarcimento del danno, il giudice deve
procedere d’ufficio, in quanto l’obbligo di risarcimento del danno è debito di valore, non di valuta,
e dunque la quantificazione del danno deve essere compiuta in base ai valori monetari al momento della liquidazione. Nel caso di specie, la somma liquidata per il danno non patrimoniale non
deve essere rivalutata ad oggi, poiché sono state utilizzate tabelle aggiornate al 2013.
14.3. Per quanto concerne gli interessi, occorre operare una distinzione tra interessi di tipo
compensativo, che costituiscono una forma di liquidazione forfetaria della voce di danno data dal
mancato tempestivo godimento dell’equivalente pecuniario del bene perduto (lucro cessante), e
interessi corrispettivi, prodotti di pieno diritto dai debiti di valuta (art. 1282 c.c.).
14.4. La condanna al pagamento degli interessi compensativi, come posto bene in luce dalla
Suprema Corte (Cass. SS.UU. n. 1712/1995), richiede che sia allegato e provato il danno da ritardo,
con possibilità di far ricorso anche a presunzioni; essi possono essere liquidati in base a valutazione equitativa. Ora, nessuna prova diretta è stata offerta in giudizio circa l’effettivo danno da
ritardo, ma considerato che l’attore può essere inquadrato nella categoria dei piccoli risparmiatori,non esercitando attività imprenditoriale né altra attività che implica l’uso di capitali, qualificandosi come dipendente, appare equo liquidare il danno attraverso il riconoscimento degli interessi
al tasso legale sulla somma devalutata alla data del fatto e rivalutata anno per anno (cfr. Cass.
SS.UU. n. 1712/1995).
14.5. Quanto agli interessi corrispettivi, con la liquidazione giudiziale del danno il debito di
risarcimento dei danni da valore si trasforma in debito di valuta, con conseguente applicazione ad
esso della relativa disciplina, pertanto sulla somma liquidata in sentenza decorreranno gli interessi corrispettivi (art. 1282 c.c.) dalla data di pubblicazione fino al momento del saldo (Cass. n.
24896/2005).
14.6. Congrue le spese di assistenza medica, liquidate in E 3800,92, oltre interessi di legge
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.39
⎪
dalla domanda al saldo, come da CTU: non luogo a liquidare quelle medio tempore sostenute, per
le ragioni espresse dal CTU.
15. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo con sentenza
esecutiva, tenuto conto del valore della domanda come riconosciuto, e dell’attività disimpegnata
nella fase di studio, introduttiva, istruttoria e decisoria, nonché del fatto che l’opera prestata è
comunque di ordinario pregio, e che i risultati ed i vantaggi conseguiti sono positivi. Salvo il
regresso nei termini sopra espressi.
16. Spese di CTU definitivamente a carico dei soccombenti, salvo il regresso nei termini sopra
espressi. (Omissis).
(1) Né è a discutersi di
responsabilità « da contatto sociale », essendo essa
configurabile non in ogni
ipotesi in cui taluno, nell’eseguire un incarico conferitogli da altri, nuoccia a
terzi, come conseguenza
riflessa dell’attività così
espletata, ma soltanto
quando il danno sia derivato dalla violazione di una
precisa regola di condotta,
imposta dalla legge allo
specifico fine di tutelare i
terzi potenzialmente esposti ai rischi dell’attività
svolta dal danneggiante.
(2) Se ne riporta il testo
in nota, per non appesantire la lettura: « L’esenzione
d’imposta prevista dall’art. 111, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (secondo
la numerazione vigente ratione temporis, e corrispondente al vigente art.
148, in virtù della riforma
introdotta dal d.lgs. 12 dicembre 2003, n. 344) in favore delle associazioni non
lucrative dipende non dall’elemento formale della
veste giuridica assunta
dall’associazione, ma dall’effettivo svolgimento di
attività senza fine di lucro.
Ne consegue che correttamente il giudice di merito
esclude dai suddetti benefici l’associazione sportiva, gestore di una palestra,
la quale esiga dalle perso-
⎪ P.40
ne aventi la veste formale
di associati un corrispettivo proporzionale all’attività erogata in loro favore,
le escluda da tutte le scelte
decisive per la vita dell’associazione e preveda la
perdita della qualità di associato al cessare della
frequentazione della palestra, trattandosi di caratteristiche che equiparano
in tutto la suddetta associazione ad un imprenditore commerciale ».
(3) Indagine causale
che, come già evidenziato,
è solo uno degli elementi
che il giudice deve tenere
presenti nel processo risarcitorio al fine di giudicare « chi debba farsi carico
di cosa, ed in quale misura
».
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
A) di dichiarare la mancata esecuzione del
SENTENZA
CONS.
GIUST. AMM. - SEZ. GIUR. giudicato e, per l’effetto ordinare al Ministero
22 GENNAIO 2013 N. 26 dell’Economia e delle Finanze di eseguire il pagamento della somma capitale indicata, oltre gli
PRES. VIRGILIO REL. NERI
Giustizia amministrativa - Violazione, inosservanza o ritardo nell’esecuzione - Obbligo di pagare una somma di denaro - Natura giuridica Sanzione civile indiretta.
C.P.A. ART.
C.P.C. ART.
114
614-BIS
D.LGS. 10 FEBBRAIO 2005, N.
30, ART. 125
L. 22 APRILE 1941, N. 633,
ART. 158
L’obbligo di pagare una
somma di denaro per la
violazione,
l’inosservanza o il ritardo nell’esecuzione del giudicato
amministrativo
non
può essere ascritto alla
categoria dei danni punitivi, ma deve inquadrarsi tra le sanzioni civili indirette e, conseguentemente, impone al
giudice di riferirsi nella
sua determinazione anche alla posizione vantata dal ricorrente.
FATTO E DIRITTO. 1. La Corte d’Appello
di Roma con il decreto in epigrafe indicato, del
quale è attestato il passaggio in giudicato con la
allegata certificazione della relativa cancelleria,
ha condannato il Ministero dell’economia e delle finanze a pagare, in favore dei ricorrenti, la
somma ivi indicata oltre interessi legali dalla
data del ricorso, a seguito della violazione del
termine di ragionevole durata del processo, ai
sensi della legge n. 89/2001.
2. A fronte dell’inadempienza dell’Amministrazione, il ricorrente ha chiesto a questo
Tribunale:
interessi maturati e maturandi secondo il titolo
fino al soddisfo.
B) stante l’ulteriore pregiudizio derivante
dal ritardato pagamento, di condannare il Ministero dell’Economia e delle Finanze a pagare, in
proprio favore, l’ulteriore somma, a titolo di risarcimento dei danni da ritardo connessi alla
mancata esecuzione del giudicato, quantificata
ai sensi dell’art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a.,
secondo i criteri indicati dalla giurisprudenza di
questo Tribunale (TAR Lazio, Sez. I, 24 ottobre
2012, n. 8476; TAR Lazio, Sez. I, 12 novembre
2012, n. 9265);
C) di disporre, fin d’ora, per il caso di ulteriore inerzia dell’Amministrazione, la nomina
di un Commissario ad acta, con l’incarico di
porre in essere, in via sostitutiva, tutti gli adempimenti contabili e finanziari e di qualsiasi altra
natura occorrenti a garantire l’esecuzione del
giudicato di cui trattasi, oltre il pagamento delle
eventuali ulteriori somme da liquidare ai sensi
dell’art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a.;
D) di condannare l’Amministrazione al pagamento delle spese di giudizio;
3. L’Amministrazione si è costituita in giudizio con atto di mera forma.
4. Il ricorso è stato chiamato e trattenuto
per la decisione alla camera di consiglio del 24
aprile 2013.
5. Il ricorso merita accoglimento, nei limiti
di seguito indicati.
Innanzi tutto risulta fondata la prima domanda proposta dai ricorrenti e infatti:
A) secondo la prevalente giurisprudenza
del Consiglio di Stato, formatasi nel vigore degli
articoli 27, n. 4, del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054,
e 37 della legge 6 dicembre 1071, n. 1034 (ex
multis, Cons. Stato, Sez. IV, 27 maggio 2010, n.
3383), il decreto di condanna emesso ai sensi
dell’articolo 3 della c.d. legge Pinto, ha natura
decisoria su diritti soggettivi e, essendo idoneo
ad assumere valore ed efficacia di giudicato, vale ai fini della ammissibilità del ricorso per l’ottemperanza;
B) nessun dubbio può comunque sorgere
oggi, in merito all’esperibilità del giudizio di ottemperanza in una fattispecie come quella in
esame, alla luce dell’art. 112, comma 2, lett. c),
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.41
⎪
c.p.a., secondo il quale l’azione di ottemperanza può
essere proposta per ottenere l’esecuzione « delle
sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati
del giudice ordinario al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della
Pubblica Amministrazione
di conformarsi, per quanto
riguarda il caso deciso, al
giudicato »;
C) tenuto conto di
quanto precede — sussistendo nel caso in esame il
presupposto dell’inoppugnabilità per decorso dei
termini previsti ex lege, come attestato dalla cancelleria della Corte d’Appello,
ed essendo altresì decorso
il termine di cui all’art. 14,
comma 1, del d.l. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito
dalla legge 28 febbraio
1997, come modificato dall’art. 147 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, e dall’art. 44 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito
dalla legge 24 novembre
2003, n. 326, (Cons. Stato,
Sez. IV, 17 maggio 2012, n.
2831) — si deve ordinare al
Ministero dell’economia e
delle finanze intimato, in
quanto preposto al pagamento ai sensi dell’articolo
1, commi 1224 e 1225, della
legge finanziaria 2007, di
provvedere entro trenta
giorni al pagamento delle
somme indicate nel decreto in epigrafe indicato.
Diverse considerazioni
valgono per la richiesta di
applicazione
congiunta
delle misura prevista dalla
disposizione dell’art. 114,
comma 4, lettera d), c.p.a.
⎪ P.42
(che prevede la « nomina,
ove occorra, un commissario ad acta »), e delle misura prevista dalla disposizione dell’art. 114, comma
4, lettera e), c.p.a. (secondo
il quale « salvo che ciò sia
manifestamente iniquo, e
se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma
di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o
inosservanza successiva,
ovvero per ogni ritardo
nell’esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo »).
Quanto alla misura
prevista dalla disposizione
dell’art. 114, comma 4, lettera e), c.p.a., il Collegio
non ritiene di doversi uniformare all’orientamento
giurisprudenziale invocato
dai ricorrenti (Cons. Stato,
Sez. V, 14 maggio 2012, n.
2744; TAR Lazio, Sez. I, 24
ottobre 2012, n. 8476; idem,
12 novembre 2012, n. 9265)
— secondo il quale tale misura ha un portata applicativa più ampia che nel processo civile e può trovare
applicazione anche nel caso di sentenze di condanna
al pagamento di somme di
denaro, perché la predetta
disposizione non ha riprodotto il limite, stabilito della norma di rito civile (art.
614-bis c.p.c.), della riferibilità del meccanismo al
solo caso di inadempimento degli obblighi aventi per
oggetto un non fare o un
fare infungibile — alla luce
delle seguenti considerazioni.
Innanzi tutto occorre
rammentare che, secondo
il giudice d’appello (da ul-
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
timo, Cons. Stato, Sez. VI, sentenza 4 settembre
2012, n. 4685), la misura di cui trattasi, comunemente detta penalità di mora o astreinte (in
quanto modellata sulla falsariga del corrispondente istituto prevista dall’ordinamento francese) può trovare applicazione se sussistono tutti i
tre presupposti stabiliti dall’art. 114 comma 4,
lettera e), c.p.a., ossia quello positivo, costituito
dalla richiesta di parte, e quelli negativi, costituiti dall’insussistenza di profili di manifesta
iniquità e dall’insussistenza di altre ragioni
ostative.
In ragione di quanto precede, questa Sezione (TAR Lazio Roma, Sez. II, 5 dicembre 2012,
n. 9037) ha recentemente prestato adesione al
diverso orientamento giurisprudenziale (ex
multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 15 aprile 2011, n. 2162; TAR Lazio Roma, Sez. I, 29
dicembre 2011, n. 10305) secondo il quale non è
possibile far ricorso alla astreinte quando l’esecuzione del giudicato consista (come nel caso in
esame) nel pagamento di una somma di denaro,
facendo leva sui predetti requisiti negativi (costituiti dall’insussistenza di profili di manifesta
iniquità e dall’insussistenza di altre ragioni
ostative), ossia in ragione della « iniquità della
correlata condanna, consistente nel pagamento
di una somma di denaro, laddove l’obbligo oggetto di domanda giudiziale di adempimento è
esso stesso di natura pecuniaria, ed è già assistito, a termine del vigente ordinamento, per il
caso di ritardo nel suo adempimento, dall’obbligo accessorio degli interessi legali, cui la somma
dovuta a titolo di astreinte andrebbe ulteriormente ad aggiungersi. Nell’avversata ipotesi,
infatti, per un verso, si duplicherebbero ingiustificatamente le misure volte a ridurre l’entità
del pregiudizio derivante all’interessato dalla
violazione, inosservanza o ritardo nell’esecuzione del giudicato, per altro verso, si determinerebbe un ingiustificato arricchimento del
soggetto già creditore, oltre che della prestazione principale, di quella accessoria » (in tal senso, TAR Lazio Roma, Sez. I, n. 10305/2011, cit.).
Quest’ultimo orientamento — a giudizio del
Collegio — appare senz’altro preferibile alla luce dei seguenti argomenti, evidenziati dalla più
recente giurisprudenza (TAR Campania Napoli, Sez. IV, 3 dicembre 2012, n. 4887), secondo la
quale: a) « non sembra utilmente richiamabile
un proprium dell’ottemperanza costituito dalla
limitata configurabilità di atti non surrogabili
nell’esecuzione tramite c.p.a., atteso che dell’istituto della astreinte si discute proprio sino alla
nomina del commissario ad acta, la cui attività
trasforma l’infungibilità del facere in una surrogazione giudiziale. Nel giudizio di ottemperanza la misura accessoria della astreinte ha
quindi la funzione di incentivare l’esecuzione di
condanne di facere o non facere infungibile,
appunto prima dell’intervento del commissario
ad acta, che comporta normalmente maggiori
oneri per l’Amministrazione, oltre che maggior
dispendio di tempo per il privato »; b) « si impone una considerazione finale a tutela della
omogeneità dell’ordinamento e del principio di
eguaglianza: qualora il giudizio di ottemperanza sia prescelto dalla parte per l’esecuzione di
sentenza di condanna pecuniaria del giudice
ordinario (il che frequentemente accade) la tesi
favorevole alla ammissibilità della applicazione
della astreinte finirebbe per consentire una tutela diversificata dello stesso credito a seconda
del giudice dinanzi al quale si agisca. In altri
termini, il creditore pecuniario dell’Amministrazione Pubblica nel giudizio di ottemperanza
potrebbe ottenere maggiori e diverse utilità rispetto a quelle conseguibili nel giudizio di esecuzione civile (ove in base alla pressoché unanime interpretazione, l’istituto del 614-bis c.p.c.
è applicabile alle sole condanne ad un facere
infungibile), e tanto semplicemente in base ad
una opzione puramente potestativi. Per contro,
alla luce del principio di eguaglianza, il legislatore è chiamato ad effettuare, a parità di situazioni sostanziali, scelte identiche, ed un regime
di tutela differenziato in tanto sarebbe legittimo
in quanto rispondente ad un principio di ragionevolezza. Nella specie, non sembra legittima
né ragionevole una tutela differenziata offerta
al cittadino (ed a scelta meramente potestativa
di quest’ultimo) all’interno di un sistema che
svolge la stessa funzione esecutiva, ancorché
dinanzi a giudici diversi ».
A tali argomenti si deve poi aggiungere che,
nel caso in esame, la domanda di applicazione
della misura prevista dalla disposizione dell’art.
114, comma 4, lettera e), c.p.a., è stata proposta
unitamente alla domanda di nomina di un commissario ad acta ai sensi dell’art. 114, comma 4,
lettera d), c.p.a., e, quindi, seppure si prestasse
adesione all’orientamento secondo il quale la
misura della astreinte può trovare applicazione
anche nel caso di sentenze di condanna al pa-
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gamento di somme di denaro, si dovrebbe affrontare il problema della compatibilità di tale misura con
la nomina del commissario
ad acta. Ebbene, a tal riguardo la giurisprudenza
(TAR Piemonte, Torino,
Sez. I, 21 dicembre 2012, n.
1386) ha già avuto modo di
evidenziare che la nomina
del commissario ad acta,
per il caso di persistente
inerzia dell’Amministrazione esclude la possibilità
di condannare quest’ultima anche al pagamento
della astreinte, perché diversamente opinando si
corre il rischio di far gravare, ingiustamente, sull’Amministrazione le conseguenze sanzionatorie di
eventuali ulteriori ritardi
imputabili non ad essa,
bensì all’ausiliario del giudice.
Tenuto conto delle
suesposte considerazioni il
Collegio ritiene che non
sussistano i presupposti
per accedere alla richiesta
di applicazione della misura prevista dell’art. 114,
comma 4, lettera e), c.p.a., e
che si debba piuttosto nominare sin d’ora un commissario ad acta — nella
persona del Dirigente responsabile dell’Ufficio IX
della Direzione Centrale
dei Servizi del Tesoro del
Dipartimento dell’Amministrazione Generale, del
Personale e dei Servizi del
Ministero dell’Economia e
delle Finanze — affinché
provveda, in sostituzione
dell’Amministrazione, entro il termine di sessanta
giorni dalla scadenza del
termine di trenta giorni già
⎪ P.44
assegnato al Ministero intimato per provvedere al pagamento delle somme dovute ai ricorrenti, a dare
corso al pagamento, compiendo tutti gli atti necessari, comprese le eventuali
modifiche di bilancio, a carico e spese dell’Amministrazione inadempiente.
Quanto, invece, alle
spese del giudizio liquidate
con il decreto della Corte di
Appello di Roma di cui
trattasi, atteso che le stesse, su espressa richiesta
del procuratore, dichiaratosi antistatario, sono state
liquidate direttamente in
suo favore e considerato
che, pertanto, si tratta di un
credito facente capo autonomamente al detto procuratore, ne consegue che
l’unico legittimato a richiedere l’esecuzione del giudicato nella predetta parte
è lo stesso procuratore dichiaratosi antistatario il
quale, invece, non compare nell’indicazione dei ricorrenti ai fini dell’ottemperanza nel ricorso in trattazione in questa sede. Ne
consegue che, nella predetta parte, il ricorso deve
essere respinto.
Le spese di giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza principale. (Omissis).
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
2. Per tale ragione va affermata la persiSENTENZA TAR LAZIO
ROMA 6 GIUGNO 2013 N. stenza dell’obbligo dell’Amministrazione di ot5644 SEZ. II PRES. TOSTI temperare pienamente alla più volte richiamata sentenza n. 932/2010 ponendo in essere i neREL. QUILIGOTTI
Giustizia amministrativa - Condanna al pagamento di una somma di
denaro - Violazione,
inosservanza o ritardo
nell’esecuzione - Ricorso
all’astreinte - Impossibilità.
C.P.A ART.
114
614-BIS
C.P.C. ART.
Non è possibile far ricorso alla astreinte
quando l’esecuzione del
giudicato consista nel
pagamento di una somma di denaro.
FATTO. Con l’atto introduttivo dell’odierno
giudizio i ricorrenti riferivano che, a seguito del
giudizio di appello svoltosi innanzi a questo
Consiglio e in riforma della decisione di primo
grado, il comune di Isola delle Femmine era
stato condannato al risarcimento del danno in
loro favore.
Esponevano altresì che l’Amministrazione,
dopo la notifica della predetta sentenza, non
aveva dato esecuzione alla decisione del C.G.A.
e chiedevano pertanto l’ottemperanza alla sentenza in epigrafe indicata.
Alla camera di consiglio del 7 novembre
2012 il ricorso passava in decisione.
DIRITTO. 1. Con sentenza 23 giugno 2010 n.
932 questo Consiglio, in riforma della sentenza
del TAR, condannava il comune di Isola delle
Femmine al risarcimento del danno subito dai
ricorrenti liquidandolo « nella somma di E
29.704,44, oltre gli interessi anatocistici dal 17
gennaio 2000 » e disponendo altresì la refusione
delle spese della consulenza tecnica e di quelle
di giudizio.
Secondo quanto riferito in ricorso la sentenza è stata notificata all’Amministrazione locale che, tuttavia, è rimasta inerte.
cessari atti adempitivi, entro un congruo termine che sembra equo fissare in giorni 60 dalla
data di notifica o di comunicazione, in forma
amministrativa, della presente sentenza.
3. Parte ricorrente ha chiesto anche la condanna dell’Amministrazione al pagamento di
una somma di denaro per il caso di ulteriore
ritardo giusta il disposto dell’articolo 114, comma 4, lett. e), c.p.a., a tenore del quale il giudice
« salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se
non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su
richiesta di parte, la somma di denaro dovuta
dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato ».
3.1. Per la decisione della domanda, giova
premettere qualche breve cenno in ordine alla
natura giuridica dell’istituto invocato dalla parte.
Come è noto la dottrina, prevalentemente
di matrice civilistica, distingue:
a) L’azione di risarcimento del danno legato
all’inadempimento di un’obbligazione (c.d. responsabilità contrattuale) o all’esistenza di un
danno ingiusto cagionato da un fatto doloso o
colposo ex articolo 2043 c.c. (c.d. responsabilità
aquiliana) che deve essere allegato e provato
(Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972).
b) Le pene private che, per autorevole dottrina, sono quelle minacciate e applicate dai
privati nei confronti di altri privati e che trovano
la loro fonte o in un contratto — come per le
misure disciplinari applicate dall’associazione
agli associati o dal datore di lavoro ai lavoratori
— oppure in uno status, come nel caso delle
punizioni inflitte dai genitori ai figli minori. Con
riferimento a tale categoria parte della dottrina
ritiene che esse non possano trovare riconoscimento nel nostro ordinamento perché sarebbero in contrasto con il principio di uguaglianza,
mentre altri autori, pur sottolineandone il carattere eccezionale, reputano utile tale congegno perché idoneo ad integrare il sistema risarcitorio basato esclusivamente sulla riparazione
del pregiudizio effettivamente subito (e tendenzialmente impermeabile a qualsiasi valutazione di tipo sanzionatorio).
c) Le sanzioni civili indirette qualificate co-
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.45
⎪
me misure afflittive di carattere patrimoniale previste dalla legge ed applicate
dall’autorità giudiziaria. Le
sanzioni civili indirette, così come le pene private,
presuppongono la violazione di una regola ma le
prime si distinguono dalla
seconde perché la sanzione viene inflitta dal giudice
e non dalla stessa parte
privata (come avviene nelle pene private).
d) I danni punitivi, che
negli ordinamenti di stampo anglosassone hanno lo
scopo di punire il danneggiante per un fatto grave e
riprovevole aggiungendosi
alle somme riconosciute al
danneggiato per risarcire il
pregiudizio effettivamente
subito. In questo caso nel
giudizio risarcitorio il giudice, dopo avere accertato
l’esistenza di un effettivo
pregiudizio subito dal danneggiato, condanna l’autore dell’illecito al pagamento di una somma ulteriore a
titolo « punitivo » sia per
sanzionare il suo comportamento sia per dissuadere
gli altri consociati dal tenere condotte analoghe (la
c.d. funzione general-preventiva svolta dalla pena
nel diritto penale). Come è
noto l’opinione tuttora prevalente esclude che nel nostro ordinamento possano
avere cittadinanza giuridica i danni punitivi e conseguentemente la Corte di
cassazione ha sempre rigettato le istanze di delibazione delle sentenze straniere che prevedevano
una condanna al pagamento di somme di denaro
a tale titolo (Cass., 19 gen-
⎪ P.46
naio 2007, n. 1183; Cass., 8
febbraio 2012, n. 1781).
3.2. Recente dottrina
ha evidenziato la necessità
di rivisitare i tradizionali
insegnamenti, perché nel
nostro ordinamento esistono già delle previsioni normative che prevedono la
condanna al pagamento di
una somma di denaro senza collegarla all’accertamento di un danno effettivamente subito: l’articolo
125 d.lgs. 10 febbraio 2005,
n. 30, ove, oltre al pregiudizio subito dal danneggiato,
fa riferimento ai « benefici
realizzati dall’autore della
violazione » e l’articolo 158,
l. 22 aprile 1941, n. 633,
prevede di tener conto degli utili realizzati in violazione del diritto. Inoltre tali
previsioni, anche in una
prospettiva di analisi economica del diritto, potrebbero generare benefici effetti sul sistema complessivamente considerato eliminando (o fortemente riducendo) la convenienza
per il danneggiante a tenere certe condotte: è stato
dimostrato, infatti, che il
danneggiante a volte assume scientemente la decisione di tenere determinate condotte illecite e dannose perché, in considerazione degli alti costi dei
processi e di una certa difficoltà per i soggetti danneggiati ad instaurare i
giudizi, è per lui più conveniente risarcire chi intraprende il giudizio piuttosto
che rispettare (nei confronti di tutti) la regola imposta dall’ordinamento.
3.3. Venendo al caso
di specie, va rilevato che la
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
dottrina discute sulla natura della norma invocata dal ricorrente. Per alcuni autori, infatti, si
tratterebbe — così come nel caso dell’articolo
614-bis, comma 1, c.p.c. (« Con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte,
la somma di denaro dovuta dall’obbligato per
ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento ») — di una forma di risarcimento
forfettario e anticipato del danno da quantificare sempre con riferimento all’accertamento di
un effettivo pregiudizio subito dal danneggiante. Per altri, invece, la disposizione in questione
dovrebbe essere più correttamente ascritta alla
categoria dei danni punitivi con la conseguente
libertà del giudice di stabilire la somma da pagare senza essere vincolato dal danno subito e
subendo.
3.4. A giudizio del Collegio non convince la
tesi che riconduce l’articolo 114, comma 4, lett.
e), c.p.a., alla categoria dei danni punitivi sia
perché, per le ragioni prima esposte, è dubbio
che siffatta tipologia di danni possa trovare ingresso nel nostro ordinamento sia perché, anche negli ordinamenti di stampo anglosassone,
la condanna a titolo di danni punitivi è limitata
ai casi di dolo o colpa grave, laddove la norma in
questione nulla prevede al riguardo.
Per il Consiglio, invece, la previsione in
questione si inquadra tra le sanzioni civili indirette (anche perché in tema di esecuzione di
giudicato è pacifico che la posizione è di diritto
soggettivo) e conseguentemente permette (ed
impone) al giudice di riferirsi nella sua determinazione anche alla posizione vantata dal ricorrente.
4. Alla luce delle considerazioni sino a qui
esposte, decorso infruttuosamente tale termine, vista anche la richiesta formulata ai sensi
dell’articolo 114, comma 4, lett. e), c.p.a. (che si
accoglie esclusivamente nei termini ora specificati),
a) l’Amministrazione dovrà corrispondere
una somma pari allo 0,5% di quanto dovuto per
ogni mese, o frazione di mese pari o superiore a
quindici giorni, di ulteriore ritardo;
b) agli adempimenti di competenza dell’Amministrazione provvederà, in via sostitutiva, e con oneri a carico dell’Amministrazione
intimata, un commissario « ad acta » che il Collegio reputa opportuno nominare nella persona
del Prefetto di Palermo o Funzionario da Questi
designato.
Il Commissario provvederà alla scadenza
del termine sopra detto entro il successivo termine di giorni 60 sotto la sua personale responsabilità, anche mediante l’adozione di tutti gli
atti necessari per l’assolvimento del mandato e
sempre nel rispetto di tutte le norme di legge di
rango costituzionale, statale e regionale applicabili nel caso di specie.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano nella misura di E 2.000,00
(duemila/00 centesimi) oltre IVA e CP, se dovute. (Omissis).
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.47
⎪
SENTENZA CASS. CIV. SEZ. UN. CIV. 16 DICEMBRE 2013 N. 27996 PRES. ROVELLI REL. PICCIALLI
AVVOCATO - Illecito disciplinare - Violazione di norma deontologica - Mero tentativo - Responsabilità disciplinare - Sussistenza.
COD. DEONT. FORENSE ARTT.
5, 6, 21
Alla stregua dei doveri di probità e correttezza professionale, è illecita la condotta posta in essere dall’avvocato, che, sebbene non
pervenuta alla « consumazione », venga ritenuta chiaramente finalizzata a realizzare
un comportamento espressamente vietato
dal codice deontologico.
FATTO. A seguito di varie segnalazioni di avvocati
ed ordini professionali forensi il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano
sottopose a procedimento
disciplinare il proprio
iscritto, avvocato C.A., abilitato al patrocinio in Cassazione, per “ essere venuto meno ai doveri di probità e correttezza, per avere
trasmesso a mezzo posta
elettronica ad un numero
imprecisato di colleghi...
prossimo a 20.000...”, un
comunicazione, con la
quale proponeva una convenzione annuale dal costo
di Euro 1.500,00 oltre IVA,
con la quale gli interessati
avrebbero potuto ottenere,
da uno dei legali dello studio del proponente, la rappresentanza “per una volta
avanti all’Ecc.ma Corte di
Cassazione in Roma e per
una volta presso il Tribunale di Torino, Milano o
Roma. I giovani avvocati
non abilitati avanti la Suprema Corte potranno
inoltre richiedere allo Studio la sottoscrizione dei
motivi di ricorso per Cas-
⎪ P.48
sazione da loro stessi predisposti”.
All’esito dell’istruttoria, nel corso della quale
l’incolpato, in relazione all’addebito relativo alle prospettate modalità di proposizione dei ricorsi per cassazione, si era difeso, presentando anche memorie,
sostenendo che sul punto il
riportato contenuto dell’annuncio fosse frutto di
equivoco, in cui era incorsa
la società incaricata per la
relativa diramazione, con
provvedimento del 13 ottobre 2008 il COA di Milano,
ravvisata la sussistenza
della grave trasgressione
disciplinare consistita nell’aver proposto la sottoscrizione di ricorsi di legittimità predisposti da soggetti
non muniti del relativo jus
postulandi e, tenuto conto
delle attenuanti “scuse”
presentate dall’avv. C. e
della circostanza che la
proposta non aveva avuto
alcun seguitogli irrogò la
sanzione della censura.
All’esito dell’impugnazione dell’avv. C., cui non
aveva resistito il COA milanese, con sentenza del 26
aprile-29 novembre 2012 il
Consiglio Nazionale Forense rigettava il ricorso.
Con riferimento al motivo
deducente la violazione del
principio di corrispondenza tra la contestazione e la
motivazione, nel disattenderlo, il COA evidenziava
come la menzione nel capo
d’incolpazione del violato
dovere di probità rendesse
irrilevante la mancata indicazione del relativo articolo 5 (oltre al 6, relativo al
dovere di correttezza).
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
Analogamente priva di rilevanza era la censura deducente la mancata indicazione nel capo dell’art. 21 (relativo al divieto di agevolare in
modo diretto o indiretto l’esercizio della professione ai non abilitati), ritenuto violato in motivazione, considerato che la relativa inosservanza era desumibile chiaramente dai fatti enunciati nell’addebito.
Escludeva, ancora, il giudice disciplinare
che si fosse addebitato all’incolpato una mera,
non attuata, intenzione, considerato che era
l’offerta in sé a comportare la consapevole violazione dei doveri deontologici in questione.
In punto di fatto, il CNF concordava con il
COA sull’inequivoca chiarezza testuale della
censurata proposta, la cui attuazione si sarebbe
tradotta nell’aggiramento, mediante il solo conferimento di procura all’incolpato, dei limiti relativi all’esercizio della professione di legali non
abilitati al patrocinio di legittimità.
Anche la scelta della sanzione veniva ritenuta adeguata, avendo tenuto adeguato conto,
da un lato, della gravità della “molteplice violazione dei doveri di correttezza e probità e della
ulteriori regole deontologiche..”, dall’altro del
mancato seguito alla proposta e del successivo
comportamento dell’incolpato.
Avverso tale sentenza l’avv. C. ha proposto
ricorso per cassazione affidato a due motivi.
Non ha resistito l’intimato Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano.
DIRITTO. 1. Con il primo motivo di ricorso
vengono dedotte “illegittimità della decisione Violazione di legge anche sotto il profilo della
motivazione su fatto decisivo della controversia
art. 360, numero 2 e 5, c.p.c., in relazione agli
artt. 5, 6, 21 Codice deontologico ed all’art. 36,
comma 6, l. 31 dicembre 2012, n. 247 (Ordinamento della professione forense).
1.1. Dopo una premessa normativa, con riferimento al contenuto degli artt. 5, 6 e 21 del
Codice deontologico forense, si sostiene che la
violazione dei doveri di lealtà e correttezza e del
divieto di agevolazione dello svolgimento di attività professionale da parte di soggetti non abilitati ricorrerebbe esclusivamente nei casi in cui
la condotta si concreti nel compimento di atti
processuali. Non essendosi ciò verificato nel
caso di specie, in cui non vi era stata la sottoscrizione di alcun motivo di ricorso, conseguente all’eventuale rilascio di procura speciale, l’o-
dierno ricorrente sarebbe stato illegittimamente sanzionato per un fatto non rilevante sotto il
profilo disciplinare, in quanto costituente al più
un mero tentativo di un illecito, che la norma
sanzionerebbe solo in ipotesi di ”consumazione
del fatto”. Le censure sono prive di fondamento,
alla luce della costante giurisprudenza di queste S.U. (v., in particolare, sent. nn. 1904/2002,
10601/2005, 37/2007, 23020/2011), secondo cui
il principio di stretta tipicità dell’illecito, proprio
del diritto penale, non trova applicazione nella
materia disciplinare forense, nell’ambito della
quale non è prevista una tassativa elencazione
dei comportamenti illeciti non conformi, ma solo quella dei doveri fondamentali, tra cui segnatamente quelli di probità, dignità e decoro (art. 5
Codice Deontologico Forense), lealtà e correttezza (art. 6 cod. cit.), ai quali l’avvocato deve
improntare la propria attività, sia professionale,
sia non professionale (v., a tal riguardo l’art. 5,
2), la cui violazione, da accertarsi secondo le
concrete modalità del caso, dà luogo a procedimento disciplinare. In particolare, con la citata
sentenza n. 10601/2005 è stato precisato che
anche il tentativo di compiere un atto professionalmente scorretto, in quanto lesivo dell’immagine dell’avvocato, costituisce di per sé una
scorrettezza, come tale disciplinarmente rilevante. Nel caso di specie, dunque, correttamente il CNF, sulla scorta di un incensurabile apprezzamento dei fatti accertati e di adeguata
valutazione degli stessi, alla stregua dei citati
doveri di probità e correttezza professionale, ha
confermato l’illiceità della condotta posta in essere dall’avvocato C., che, sebbene non pervenuta alla “consumazione”, nel senso preteso dal
ricorrente secondo un’improponibile accezione
penalistica (richiedente la verificazione di un
“evento”), è stata ritenuta chiaramente finalizzata a realizzare un comportamento espressamente vietato dal citato codice deontologico, all’art. 21, n. 2, configurante l’illiceità disciplinare
del “comportamento dell’avvocato che agevoli,
o, in qualsiasi altro modo diretto o indiretto,
renda possibile a soggetti non abilitati o sospesi l’esercizio della professione...”.
1.2. Sotto diverso profilo, si lamenta l’inadeguata valutazione della parola “predisposti”
contenuta nella propostaci cui significato non
sarebbe univocamente comprensivo della redazione finale dell’atto, bensì limitato alla stesura di una bozza, finalizzata alla definizione
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.49
⎪
del ricorso, che l’avvocato
abilitato, espressamente
incaricato dalla parte,
avrebbe poi trasfuso nei
motivi.
La doglianza è palesemente inammissibile, non
solo per la chiara attinenza
ad un’attività riservata al
giudice dei merito, quella
della valutazione delle risultanze documentali, nelle quali peraltro il COA ed
il CNF si sono attenutigli
cospetto di un atto dall’inequivoco tenore letterale, al
principio in claris non fit
interpretatio, ma anche
perché introduce una censura nuova, che non trova
riscontro nella linea difensiva dell’incolpato, che
aveva, inizialmente dedotto, senza fornire alcun elemento di riscontro, la tesi
di un’erronea formulazione del testo dell’offerta da
parte della società incaricata della relativa diramazione per via informatica.
2. Con il secondo motivo il ricorrente, in subordine, deduce “violazione di
legge — art. 360, n. 2, c.p.c.,
in relazione all’art. 36,
comma 6, l. 31 dicembre
2012, n. 247 (Ordinamento
della professione forense),
dolendosi della ritenuta
severità trattamento sanzionatorio, che avrebbe
dovuto essere limitato a
quello minimo dell’ammonimento, tenuto conto che
si era trattato di un trasgressione rimasta allo stato di mera inattuata intenzione.
Il motivo è inammissibile, deducendo una censura in fatto, relativa all’esercizio di un potere di-
⎪ P.50
screzionale riservato al
giudice di merito, in un
contesto normativo non
prevedente la corrispondenza delle varie sanzioni
disciplinari alla tipologia
delle violazioni, lasciando
così la relativa scelta all’organo disciplinare e demandando al giudice speciale il successivo controllo, con il solo limite, implicito alla natura giurisdizionale di siffatta verifica, di
fornire un’adeguata motivazione.
A tale compito, nella
specie, non si è sottratto il
CNF, laddove, come si è
accennato in narrativa, ha,
da una parte considerato
l’evidente notevole gravità,
sia sotto il profilo soggettivo, sia sotto quello oggettivo, dell’iniziativa, di vaste
proporzioni ed assurta ad
eclatante notorietà negli
ambienti professionali forensi, tendente all’aggiramento delle rigorose norme regolanti lo ius postulandi presso le giurisdizioni superiori, dall’altra la
circostanze che la proposta
non aveva trovato concrete
adesioni esitate in atti giudiziali e del pentimento
manifestato dal professionista, che si era “scusato
dell’accaduto”. Tale, palesemente equilibrata valutazione, in quanto indenne
da lacune argomentative o
vizi logici, risulta dunque
esente da ogni censura
nella presente sede di legittimità.
3. Il ricorso va, conclusivamente, respinto.
4. Non vi è luogo, infine, a regolamento delle
spese, non avendo il COA
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di Milano resistito all’impugnazione; né si applica l’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115/2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l.
n. 228/2012, essendo il processo esente dal contributo unificato. (Omissis).
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.51
⎪
ORDINANZA CASS. CIV. 30 GENNAIO 2014 N.
2089 (ORD.) SEZ. VI PRES. DI PALMA REL. BISOGNI
DANNI - Procedimento civile - Lite temeraria - Impugnazione manifestamente infondata e strumentale - Obbligo risarcitorio - Sussistenza.
C.P.C. ART.
96
Nel caso di impugnazione manifestamente
infondata e avente carattere strumentale
(essenzialmente volta ad impedire il passaggio in giudicato della pronuncia impugnata), il soccombente deve essere condannato al
risarcimento del danno per lite temeraria.
FATTO E DIRITTO.
Rilevato che in data 5-15 luglio
2013 è stata depositata relazione ex art. 380-bis che
qui si riporta:
1. Il Tribunale di Perugia, con sentenza non definitiva del 7 febbraio 2011,
ha dichiarato la cessazione
degli effetti civili del matrimonio di S.G. e B.A.
2. Ha impugnato la
pronuncia S.G. rilevando
che il Tribunale non aveva
verificato compiutamente
se vi fosse stata rottura definitiva della comunanza di
vita e la possibilità di ricostituirla. Ha ritenuto lesivo
della sua posizione di cattolico praticante che la
pronuncia di cessazione
degli effetti civili del matrimonio anticipi l’esito del
giudizio rotale di annullamento attualmente in corso.
3. Il reclamo è stato respinto dalla Corte di appello che ha condannato S.G.
al pagamento della somma
di 6.000 Euro ex art. 96
c.p.c. assumendo il reclamo, consapevolmente in-
⎪ P.52
fondato, un carattere meramente strumentale, al fine di prolungare i tempi
del passaggio in giudicato
della sentenza dichiarativa
della cessazione degli effetti civili del matrimonio e
di vanificare le statuizioni
della sentenza definitiva
emananda nel giudizio di
cessazione degli effetti civili del matrimonio.
4. S.G. propone ricorso
per cassazione contro la
pronuncia della Corte perugina affidandosi a tre
motivi di impugnazione
con i quali deduce: a)
omessa e insufficiente motivazione circa un fatto
controverso e decisivo per
il giudizio (art. 360, comma
1, n. 5, c.p.c.); b) violazione
e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), violazione dell’art. 101 c.p.c.: mancata realizzazione del pieno contraddittorio, nullità;
c) omessa e insufficiente
motivazione circa un fatto
controverso e decisivo per
il giudizio (in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c., e all’art. 96, comma 1, c.p.c.).
5. Si difende con controricorso B.A.
Ritenuto che:
6. Con il primo motivo
di ricorso lo S. ribadisce
che la pronuncia con sentenza non definitiva della
cessazione degli effetti civili lede la sua posizione di
cattolico e credente e la relativa prerogativa a che lo
scioglimento del matrimonio venga pronunciato
esclusivamente dal tribunale ecclesiastico. Ritiene
inoltre il ricorrente che la
Corte di appello avrebbe
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
dovuto esaminare l’opportunità di una sentenza parziale a fronte delle giustificazioni contrarie, già addotte dall’odierno ricorrente, considerato che l’opposizione da questi spiegata prevedeva anche, nella non voluta ipotesi di accoglimento, che il divorzio venisse semmai dichiarato solo con sentenza, definitiva, all’esito dell’ampia trattazione della causa.
7. Il motivo è palesemente inammissibile
quanto alla prima censura perché la stessa non
ha alcun fondamento giuridico nella stessa deduzione del ricorrente che la prospetta infatti
come vizio di motivazione peraltro insussistente perché dalla motivazione della Corte di appello si evince chiaramente come nell’ordinamento giuridico italiano non esiste una condizione privilegiata dei cittadini cattolici a ottenere che i giudizi ecclesiastici di annullamento del
matrimonio siano decisi preventivamente rispetto ai giudizi civili di scioglimento del matrimonio ex legge n. 898/1970. Né si può ipotizzare
la sussistenza di una lesione di legittime aspettative del cittadino cattolico alla definizione della controversia in sede ecclesiastica anziché davanti alla giurisdizione italiana perché la pronuncia del giudice italiano non pregiudica la
prosecuzione del giudizio ecclesiastico il cui oggetto non coincide se non indirettamente con
quello di divorzio.
8. Quanto alla seconda censura se ne deve
riscontrare la palese infondatezza atteso che la
decisione del giudice di merito circa la possibilità di una definizione con sentenza parziale di
una parte delle domande proposte non dipende
da una valutazione di opportunità ma dall’accertamento dell’esaurimento delle attività
istruttorie necessarie ai fini della decisione e
nella specie la Corte di appello ha ampiamente
motivato sul punto rilevando che i coniugi hanno vissuto separatamente dopo l’omologazione
della separazione consensuale e che gli stessi
hanno manifestato l’intento di porre fine al rapporto coniugale come dimostra la posizione
processuale assunta nel giudizio ecclesiastico e
in quello civile.
9. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta una lesione del suo diritto di difesa in
ordine alla domanda riconvenzionale e a quella
autonoma di condanna ex art. 96 c.p.c., basata
sulla consapevolezza della proposizione dell’appello, e proposta dalla B. tre giorni prima
della udienza, in sede di costituzione nel giudi-
zio camerale di impugnazione, e afferma che la
Corte non avrebbe potuto pronunciarsi, pena la
nullità del giudicato, senza aver dato alla parte,
che all’udienza aveva richiesto termine per note, la possibilità di svolgere le proprie difese
sull’appello incidentale e sulla domanda endoprocessuale autonoma di condanna al risarcimento dei danni per lite temeraria.
10. Il motivo va respinto in quanto la censura difetta di interesse quanto alla pronuncia
sulla domanda riconvenzionale ed è infondata
quanto alla pronuncia di condanna ex art. 96,
comma 1, c.p.c. Come ha correttamente rilevato
la difesa della controricorrente la domanda di
risarcimento del danno derivato dall’aver proposto un gravame nella consapevolezza della
sua infondatezza pur costituendo domanda endoprocessuale autonoma non costituisce domanda riconvenzionale e poteva essere proposta dalla odierna controricorrente anche in sede
di costituzione all’udienza fissata per la discussione. La mancata concessione di un termine
per note non pone dunque in essere alcuna lesione né formale né sostanziale del diritto di
difesa pienamente esercitato dall’odierno ricorrente con l’esplicazione delle ragioni poste a
base della proposizione dell’appello che escludono per implicito la sua temerarietà.
11. Il terzo motivo del ricorso lamenta il difetto di motivazione in ordine ai presupposti
per il riconoscimento del carattere temerario
della proposizione del gravame e in merito alla
sussistenza e entità del danno liquidato dal giudice di appello. Entrambi i profili sembrano palesemente infondati atteso che è lo stesso ricorrente a indicare la ragione della sua impugnazione e cioè impedire la formazione del giudicato sulla dichiarazione di scioglimento del matrimonio in sede civile prima della pronuncia
definitiva sull’annullamento del giudice ecclesiastico. Correttamente il giudice di appello ha
rilevato il carattere strumentale di tale impugnazione e l’assoluta mancanza di motivazioni
giuridiche che potessero darle fondamento. Per
quanto riguarda la sussistenza e entità del danno si richiama la giurisprudenza di legittimità
secondo cui all’accoglimento della domanda di
risarcimento dei danni da lite temeraria non
osta l’omessa deduzione e dimostrazione dello
specifico danno subito dalla parte vittoriosa,
che non è costituito dalla lesione della propria
posizione materiale (Cass. civ., Sez. III, n. 17485
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.53
⎪
del 23 agosto 2011) e deve
essere liquidato con riguardo alla lesione dell’equilibrio psico-fisico che,
secondo nozioni di comune
esperienza (e anche in forza del principio della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost.
ed alla legge 24 marzo
2001, n. 89), si verifichi a
causa di ingiustificate condotte processuali. Nella
specie il riferimento all’elevata posta morale in gioco giustifica, sinteticamente ma significativamente,
la misura del risarcimento
pronunciato dalla Corte di
appello in considerazione
del carattere ostruzionistico delle iniziative processuali del ricorrente intese a
conclamare senza alcuna
giustificazione giuridica il
diritto della B. a una pronuncia che attiene alla sua
condizione personale e la
cui dilazione viene a pesare negativamente sulla sua
serenità e libertà di organizzazione della vita privata.
12. Sussistono pertanto i presupposti per la trattazione della controversia
in camera di consiglio e se
l’impostazione della presente relazione verrà condivisa dal Collegio per il rigetto del ricorso e l’accoglimento delle istanze di condanna ex artt. 96 e/o 91
c.p.c. avanzate nel controricorso.
La Corte, letta la memoria difensiva del ricorrente;
Ritenuto di poter condividere pienamente la relazione e rilevato quanto al
primo motivo di ricorso che
⎪ P.54
la giurisprudenza di legittimità ha da tempo affermato che tra il giudizio di nullità del matrimonio concordatario e quello avente
ad oggetto la cessazione
degli effetti civili dello stesso non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità, tale che il secondo debba essere necessariamente sospeso a causa della pendenza del primo ed in attesa della sua definizione
(Cass. civ., Sez. I, n. 11020
del 25 maggio 2005; e n.
24990 del 10 dicembre
2010), posto che trattasi di
procedimenti autonomi,
non solo sfocianti in decisioni di diversa natura e
con peculiare e specifico
rilievo in ordinamenti diversi, tanto che la decisione ecclesiastica solo a seguito di giudizio eventuale
di delibazione, e non automaticamente, può produrre effetti nell’ordinamento
italiano, ma anche aventi
finalità e presupposti diversi. Né rileva, ha chiarito
la giurisprudenza di questa
Corte che le norme sul giudizio di delibazione, di cui
agli artt. 796 e 797 c.p.c., siano state abrogate dall’art.
73 della legge 31 maggio
1995, n. 218, di riforma del
sistema italiano di diritto
internazionale
privato,
giacché tale abrogazione,
in ragione della fonte di
legge formale ordinaria da
cui è disposta, non è idonea
a spiegare efficacia sulle
disposizioni dell’Accordo,
con protocollo addizionale,
di modificazione del Concordato lateranense (firmato a Roma il 18 ottobre
1984 e reso esecutivo con la
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
legge 25 marzo 1985, n. 121), disposizioni le
quali – con riferimento alla dichiarazione di efficacia, nella Repubblica italiana, delle sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici – contengono un espresso
richiamo agli artt. 7 96 e 7 97 c.p.c., che pertanto
risultano connotati, relativamente a tale specifica materia ed in forza del principio concordatario accolto dall’art. 7 della Costituzione, di una
vera e propria ultrattività.
Ritenuto quanto alla domanda di condanna
ex art. 96, comma 1, c.p.c. relativa alla proposizione del ricorso per cassazione che essa va accolta per le stesse ragioni indicate dalla Corte di
Appello e ribadite e chiarite nella relazione sopra riportata che sussistono anche per questo
giudizio. La Corte ritiene equa la liquidazione
della somma dovuta dal ricorrente in 5.000 Euro. (Omissis).
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.55
⎪
SENTENZA CASS. CIV. 10 FEBBRAIO 2014 N. 2886
SEZ. LAV. PRES. VIDIRI REL. BUFFA
DANNI - Risarcibilità - Stress lavorativo Datore di lavoro - Comportamento illecito Prova - Necessità.
C.C. ARTT.
2087, 2043
Le allegazioni che devono accompagnare la
proposizione di una domanda risarcitoria
non possono essere limitate alla prospettazione della condotta colpevole della controparte, produttiva di danni nella sfera giuridica
di chi agisce in giudizio, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e/o non patrimoniali, prodotte da
tale condotta, dovendo l’attore mettere il
convenuto in condizione di conoscere quali
pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, a prescindere dalla loro esatta
quantificazione e dall’assolvimento di ogni
onere probatorio al riguardo.
FATTO. 1. Con sentenza
n. 2137 del 19 maggio 2009,
la Corte d’Appello di Napoli ha confermato la sentenza del tribunale partenopeo del 5 dicembre 2007,
che aveva rigettato la domanda di P.A. (autista dipendente dalla società
SEPSA con mansioni di
guida di automezzi destinati al trasporto pubblico
di persone, su tratte urbane e extraurbane), volta ad
ottenere il risarcimento del
danno non patrimoniale da
stress lavorativo, subito in
ragione del mancato riconoscimento delle soste retribuite – previste dal regolamento n. 3820/85/CEE,
nonché dall’art. 14 del regolamento OIL n. 67/1939,
e dall’art. 6, comma 1, lett.
a), della legge n. 138/1958 –
per una durata di almeno
15 minuti tra una corsa e
⎪ P.56
quella successiva e, complessivamente per turno
giornaliero, di almeno
un’ora.
2. La sentenza impugnata, premessa la distinzione tra, da un lato, l’inadempimento datoriale dell’obbligazione legale relativa alle pause lavorative e,
dall’altro lato, il danno risarcibile, ha ritenuto che il
lavoratore non avesse allegato in modo specifico il
danno subito né le circostanze fattuali su cui la domanda avrebbe trovato
supporto, escludendo altresì che il giudice potesse
sopperire al difetto di allegazione con i propri poteri
officiosi o con il ricorso a
presunzioni.
3. Ricorre avverso tale
sentenza il lavoratore, con
tre motivi, illustrati da memoria. Resiste il datore di
lavoro con controricorso.
DIRITTO. 4. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,
2043 e 2059 c.c., rilevando
di aver chiesto il danno da
usura psicofisica e che il
danno non patrimoniale
può liquidarsi sulla base
della loro pura e semplice
allegazione ogni qual volta
la loro concreta esistenza
sia agevolmente desumibile da massime di comune
esperienza o da presunzioni semplici, senza necessità che il danneggiato indichi analiticamente in quale
forma particolare di sofferenza si sia concretato il
pregiudizio o adduca specifici riferimenti alla sua situazione personale per le
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
ricadute del danno su aspetti extralavorativi e
di vita di relazione. Formula il seguente quesito
di diritto: “ai fini del risarcimento in via contrattuale ex art. 1218 c.c. o – in subordine – in
via extracontrattuale ex art. 2043 c.c., costituisce sufficiente allegazione (a prescindere da
quella che poi sarà la prova) di danno risarcibile non patrimoniale ex art. 2059 c.c. quella
con cui si lamenta il pregiudizio da usura psicofisica cagionato dall’essere costretto alla
guida di automezzi pesanti oltre i limiti temporali fissati dalla legge e dal contratto, senza
rispetto delle soste prescritte fra una corsa e la
successiva ripartenza, per un totale di un ’ora
al giorno in più del consentito e per circa 280
gg. di lavoro all’anno?”.
5. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta l’omessa pronuncia sul motivo di gravame relativo al rigetto del ricorso nel merito anziché, semmai, in rito, in relazione all’art. 112
c.p.c. Rileva, in particolare, che il giudice di merito, ove avesse ritenuto il ricorso carente delle
allegazioni minime essenziali per ottenere il risarcimento del danno, avrebbe dovuto dichiarare nullo il ricorso anziché rigettarlo; aggiunge
che la questione è stata dedotta espressamente
nell’atto di appello, ma che la corte ne ha omesso l’esame. Formula quindi il seguente quesito
di diritto: “costituisce omessa pronuncia, lesiva
del disposto dell’art. 112 c.p.c., il non esaminare ed il non decidere il motivo di censura con
cui l’appellante lamenta che, avendo il giudice
di prime cure ritenuto insufficienti le allegazioni relative al danno denunciato nel ricorso introduttivo della lite, egli avrebbe semmai dovuto dichiarare nullo il ricorso medesimo anziché
rigettarlo nel merito per infondatezza?”.
6. Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 414
e 156, comma 2, c.p.c., in relazione ai fatti di cui
al motivo precedente, formulando il seguente
quesito: “viola gli artt. 414 e 156, comma 2,
c.p.c., la sentenza che, ritenute insufficienti le
allegazioni relative al danno denunciato nel ricorso introduttivo della lite, lo rigetta nel merito per infondatezza invece di dichiararlo nullo?”.
7. Il controricorrente deduce l’inammissibilità del ricorso, per violazione del principio di
autosufficienza, non essendo stato riprodotto il
testo della sentenza impugnata nella parte rilevante, nonché per inosservanza dell’art. 366-
bis c.p.c., atteso che i quesiti formulati non sono
idonei a pervenire ad una pronuncia di una regula juris dotata dei caratteri dell’astrattezza,
consistendo nella mera richiesta di accoglimento dei motivi; nel merito, si deduce l’infondatezza del ricorso, attesa, in diritto l’inapplicabilità
del regolamento comunitario invocato dal ricorrente (riferibile solo alle corse, nel caso non
ricorrenti, superiori ai 50 km) e dedotta, in fatto,
la fruizione di soste tra le corse (anche in caso di
accumulo di ritardo a causa del traffico), rilevandosi inoltre sul piano sostanziale che il preteso diritto alle soste — a differenza di quello ai
riposi settimanali ed alle ferie — non ha alcuna
copertura costituzionale né fondamento giuridico al di là di eventuali — nella specie mancanti — previsioni legali; sul piano processuale, si
rileva l’assenza di allegazione specifica del danno, non corrispondendo a standard sociali riconosciuti la tesi che l’attività di guida, nei limiti
dell’orario legale, senza fruizione di soste, sia di
per sé fonte di pregiudizio, ed essendo impossibile, in difetto di tali allegazioni specifiche,
ogni accertamento del pregiudizio invocato, restando peraltro escluso ogni potere del giudice
di sopperire alle carenze attoree.
8. Il primo motivo di ricorso — pur recando
un quesito di diritto congruo, riferito, ancorché
sinteticamente, alla parte della sentenza impugnata rilevante — è infondato, dovendo distinguersi il momento della violazione degli obblighi contrattuali da quello relativo alla produzione del danno da inadempimento, essendo peraltro quest’ultimo eventuale: la violazione di
un dovere non equivale a danno e questo non
discende automaticamente dalla violazione del
dovere. Secondo i principi generali (artt. 2697 e
1223 c.c.), infatti, occorre l’individuazione di un
effetto della violazione su di un determinato bene perché possa configurarsi un danno e possa
poi procedersi alla liquidazione (eventualmente anche in via equitativa) del danno stesso.
9. In tema, la Corte Costituzionale ha chiarito (sentenza n. 372/1994) che il danno biologico non è presunto, perché, se la prova della
lesione costituisce anche prova dell’esistenza
del danno, occorre tuttavia la prova ulteriore
dell’esistenza dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art.
1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale)
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.57
⎪
alla quale il risarcimento
deve essere commisurato.
10. Nel
medesimo
senso, questa Corte (tra le
tante, Sez. III, Sentenza n.
691 del 18 gennaio 2012) ha
affermato che le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di
una domanda risarcitoria
non possono essere limitate alla prospettazione della
condotta colpevole della
controparte, produttiva di
danni nella sfera giuridica
di chi agisce in giudizio, ma
devono includere anche la
descrizione delle lesioni,
patrimoniali e/o non patrimoniali, prodotte da tale
condotta, dovendo l’attore
mettere il convenuto in
condizione di conoscere
quali pregiudizi vengono
imputati al suo comportamento, a prescindere dalla
loro esatta quantificazione
e dall’assolvimento di ogni
onere probatorio al riguardo. Con riferimento al servizio di reperibilità svolto
nel giorno destinato al riposo settimanale, Cass.,
Sez. Lav., Sentenza n.
14288 del 28 giugno 2011; e
Cass., Sez. Lav., Sentenza
n. 11727 del 15 maggio
2013 hanno precisato che
la mancata concessione del
diritto ad un giorno di riposo compensativo (non riconducibile, attesa la diversa incidenza sulle energie psicofisiche del lavoratore della disponibilità allo
svolgimento della prestazione rispetto al lavoro effettivo, all’art. 36 Cost.) è
idonea ad integrare un’ipotesi di danno non patrimoniale (per usura psicofisica) da fatto illecito o da
⎪ P.58
inadempimento contrattuale, e che questa è risarcibile solo in caso di pregiudizio concreto patito dal
titolare dell’interesse leso,
sul quale grava l’onere della specifica deduzione e
della prova. Deve peraltro
escludersi che il danno alla
salute, concretizzandosi in
una infermità del lavoratore, possa essere ritenuto
presuntivamente
sussistente, dovendo esso essere dimostrato nella sua
sussistenza e nel suo nesso
eziologico, a prescindere
dalla presunzione di colpa
insita nella responsabilità
nascente dall’illecito contrattuale (Cass. n. 16398
del 20 agosto 2004; e Cass.
n. 14288 del 28 giugno
2011).
11. Tali principi non
possono che trovare affermazione con riferimento al
c.d. danno da stress (o usura psicofisica) derivante
dal mancato riconoscimento delle soste obbligatorie nella guida. Anche tale danno, infatti, si iscrive
nella categoria unitaria del
danno non patrimoniale
causato da inadempimento
contrattuale e la sua risarcibilità presuppone la sussistenza di un pregiudizio
concreto patito dal titolare
dell’interesse leso, sul quale grava, pertanto, l’onere
della relativa specifica deduzione (e poi prova, anche attraverso presunzioni
semplici): il diritto del lavoratore al risarcimento del
danno non patrimoniale
non può dunque prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle
caratteristiche del danno
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
medesimo (Sez. Lav., Sentenza n. 4479 del 21
marzo 2012).
In altri termini, il carattere non patrimoniale del danno postula una specificazione degli
elementi necessari per la sua configurazione,
sia con riferimento al tipo di danno configurarle
(danno biologico, morale, esistenziale), sia con
riferimento ai diversi presupposti rilevanti per
ciascuna tipologia di pregiudizio, restando invece esclusa la configurabilità di un danno in re
ipsa.
12. Può dunque affermarsi che, nel caso di
domanda di risarcimento del danno non patrimoniale da stress lavorativo, subito in ragione
del mancato riconoscimento delle soste retribuite — previste dal regolamento n. 3820/85/CEE,
nonché dall’art. 14 del regolamento OIL n. 67
del 1939, e dall’art. 6, comma 1, lett. a), della
legge n. 138/1958 — per una durata di almeno
15 minuti tra una corsa e quella successiva e,
complessivamente per turno giornaliero, di almeno un’ora, il lavoratore è tenuto ad allegare e
provare il tipo di danno specificamente sofferto
ed il nesso eziologico con l’inadempimento datoriale, non discendendo automaticamente tale
danno dalla violazione del dovere datoriale e
richiedendo il danno non patrimoniale una
specificazione degli elementi necessari per la
sua configurazione.
13. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile, per difetto di autosufficienza. Il ricorrente infatti, che lamenta l’omessa pronuncia del
giudice di appello, non precisa — riportando,
come sarebbe stato su onere, il relativo punto
rilevante dell’atto di appello — cosa esattamente abbia chiesto al giudice di appello, ossia quale tipo di pronuncia abbia domandato, riscontrandosi nella sentenza impugnata riferimenti
solo a motivi di appello volti all’accoglimento
della domanda nel merito. Il principio di autosufficienza impone la specifica indicazione dei
motivi sottoposti al giudice del gravame sui
quali egli non si sarebbe pronunciato: infatti,
come evidenziato da Sez. Lav., Sentenza n.
14561 del 17 agosto 2012, nel caso della deduzione del vizio per omessa pronuncia su una o
più domande avanzate in primo grado è necessaria, al fine dell’ammissibilità del ricorso per
cassazione, la specifica indicazione dei motivi
sottoposti al giudice del gravame sui quali egli
non si sarebbe pronunciato, essendo in tal caso
indispensabile la conoscenza puntuale dei mo-
tivi di appello. Nel medesimo senso, si è affermato (Sez. III, Sentenza n. 317 del 11 gennaio
2002; e Sez. III, Sentenza n. 3547 del 23 febbraio
2004, nonché altre successive conformi) che la
parte che impugna una sentenza con ricorso
per cassazione per omessa pronuncia su una
domanda, ha l’onere, per il principio di autosufficienza del ricorso, a pena di inammissibilità
per genericità del motivo, di specificare quale
sia il “chiesto” al giudice del gravame sul quale
questi non si sarebbe pronunciato, non potendosi limitare ad un mero rinvio all’atto di appello, atteso che la Corte di cassazione non è tenuta
a ricercare al di fuori del contesto del ricorso le
ragioni che dovrebbero sostenerlo, ma può accertarne il riscontro in atti processuali al di fuori
del ricorso sempre che tali ragioni siano state
specificamente formulate nello stesso.
14. Con il terzo motivo, il ricorrente pone i
medesimi fatti dedotti nel secondo motivo (relativi al supposto dovere del giudice di dichiarare nullo, anziché infondato, il ricorso ritenuto
carente delle allegazioni minime essenziali per
ottenere il risarcimento del danno) alla base di
una censura di insufficiente motivazione della
sentenza impugnata. Il motivo è inammissibile
non essendo stato prodotto (né riprodotto nel
ricorso per cassazione) il ricorso introduttivo
della lite alla cui asserita nullità il motivo fa
riferimento e non avendo il ricorrente neppure
allegato di aver dedotto il vizio in primo grado al
fine di impedirne ogni sanatoria, anche attraverso i poteri autorizzativi del giudice ex art.
420, comma 7, c.p.c., e la condotta processuale
tenuta dalle parti nel corso del giudizio. Del resto, la facoltà del giudice di legittimità di valutare direttamente gli atti del processo qualora
col ricorso per cassazione venga denunciato un
vizio che comporti la nullità del procedimento
— facoltà riconosciuta dalle Sezioni Unite, Sentenza n. 8077 del 22 maggio 2012, richiamata dal
ricorrente nella memoria illustrativa prodotta
— postula infatti pur sempre, come precisato
nella stessa pronuncia, che la censura sia proponibile ed in concreto sia proposta in conformità delle regole fissate dal codice di rito.
15. Il ricorso deve quindi essere rigettato.
16. La considerazione della posizione delle
parti e dell’oggetto del giudizio da ragione della
compensazione integrale delle spese di lite.
(Omissis).
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.59
⎪
SENTENZA CASS. CIV. SEZ. UN. CIV. 14 GENNAIO
2014 N. 585 PRES. ROVELLI REL. BUCCIANTE
GIUSTIZIA CIVILE - Legge Pinto - Irragionevole durata del processo - Contumace Indennizzo - Diritto - Sussistenza.
L.
24 MARZO 2001, N. 89, ART. 3
L’indennizzo per l’irragionevole durata del
processo compete anche a chi non si è costituito (o per il tempo in cui non si è costituito), poiché comunque « il contumace è parte del giudizio ».
FATTO E DIRITTO.
Con il
decreto indicato in epigrafe la Corte d’appello di Perugia — nel provvedere
anche nei riguardi di altre
parti, che non hanno impugnato il provvedimento
— ha accolto solo parzialmente la domanda proposta da F.G., intesa ad ottenere l’equa riparazione del
danno non patrimoniale
conseguente alla durata
non ragionevole di una
causa civile di divisione
ereditaria, rimasta pendente davanti al Tribunale
di Frosinone dal 6 dicembre 1976 e ancora in corso
presso la Corte d’appello di
Roma: l’indennizzo è stato
commisurato
esclusivamente al tempo successivo
al 23 maggio 1994, quando
lo stesso F.G. si era costituito in quel giudizio, dopo
essere rimasto fino ad allora contumace; è stato inoltre decurtato degli importi
corrispondenti sia ai periodi di inattività attribuibili
alle parti, quantificati in tre
anni e otto mesi, sia alla
durata ordinaria del processo, determinata complessivamente in sette an-
⎪ P.60
ni per i due gradi di merito,
in considerazione della
complessità della controversia.
F.G. ha proposto ricorso per cassazione, in base a
due motivi, poi illustrati
anche con memoria. Il Ministero della giustizia si è
costituito con controricorso.
Con il primo motivo di
ricorso F.G. lamenta che
erroneamente e ingiustificatamente, con il decreto
impugnato, l’indennizzo
spettantegli è stato limitato, senza alcuna motivazione, al periodo successivo
alla sua costituzione nel
giudizio presupposto: sostiene che invece si sarebbe dovuto tenere conto anche del tempo in cui era
stato contumace (peraltro
senza restare inerte, essendo comparsa personalmente nella prima udienza
e in varie successive, anche in nome di lui, sua madre, che lo rappresentava
in quanto ancora minorenne), poiché né l’art. 2 della
legge 24 marzo 2001, n. 89,
né l’art. 6 della convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali,
ratificata e resa esecutiva
nell’ordinamento interno
italiano ai sensi della legge
4 agosto 1955, n. 848, subordinano il diritto all’equa
riparazione alla condizione
dell’attiva partecipazione
al processo che abbia avuto
una durata non ragionevole.
Sulla questione posta
dal ricorrente, nell’ambito
della giurisprudenza di legittimità, si è delineato, un
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
contrasto, per la cui composizione la causa è
stata assegnata alle Sezioni Unite.
Cass., 12 ottobre 2007, n. 21508; 2 aprile
2010, n. 8130; 10 novembre 2011, n. 27091; 14
dicembre 2012, n. 23153; 21 febbraio 2013, n.
4387, hanno ritenuto che l’indennizzo di cui si
tratta compete senz’altro anche a chi non si è
costituito (o per il tempo in cui non si è costituito), poiché comunque “il contumace è parte del
giudizio”.
Invece Cass., 10 luglio 2009 n. 16284; 4 novembre 2009, n. 23416; 19 ottobre 2011, n.
21646, per la particolare ipotesi della successione a titolo universale alla parte originaria, hanno riconosciuto la possibilità per gli eredi di ottenere l’equa riparazione, per il periodo successivo alla morte del de cuius, soltanto ove si siano
costituiti in proprio in giudizio, stante altrimenti
“la mancanza di una parte processuale attiva,
danneggiata dalla violazione del termine di ragionevole durata del processo”.
Questo secondo indirizzo, ma con riferimento alla generalità dei casi, è stato anche seguito, con maggiore ampiezza di motivazione,
da Cass., 23 giugno 2011, n. 13803; e 21 febbraio
2013, n. 4474, secondo cui “la necessità di una
costituzione in giudizio della parte che invoca la
tutela della legge a sanzionare l’irragionevole
durata è premessa indiscutibile per una ragionevole operatività dell’intero sistema di cui alla
legge n. 89/2001, non potendo operare, in difetto di tale costituzione, lo scrutinio sul comportamento della parte delineato dall’art. 2, comma
2, della legge, e non essendo neppure esercitabili i poteri di liquidazione equitativa dell’indennizzo correlati, ragionevolmente, al concreto patema che sulla parte ha avuto la durata del
processo” e “solo la parte che abbia, in realtà,
attivamente partecipato al processo in quanto
costituita può subire quel patema d’animo ovvero quella sofferenza psichica causata dal superamento del limite ragionevole della durata
del processo e, quindi, assumere la qualità di
parte danneggiata (che costituisce la condizione imprescindibile tutelata dalla legge n. 89/
2001)”, a differenza di “chi ha scelto, consapevolmente, di non costituirsi nel giudizio e, quindi, di disinteressarsi dello stesso, dimostrandosi, in linea potenziale, incurante degli effetti di
una possibile decisione negativa nei suoi confronti (ed insensibile ai tempi di svolgimento
del processo, che, peraltro, non di rado, pur ri-
manendo posizionato solo alla finestra, auspica
che si protraggano oltre quella che dovrebbe
essere la loro fisiologica durata)”.
Tra questi due orientamenti, ritiene il collegio di dover aderire al primo.
Si deve convenire con il ricorrente a proposito dell’assenza, nelle disposizioni sia internazionali sia interne che disciplinano la materia,
di ogni espressa limitazione, per il contumace,
del diritto a ottenere in tempi ragionevoli la
conclusione del giudizio, anche se non vi si è
costituito: l’art. 6 della convenzione Europea di
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, attribuisce tale diritto a “ogni
persona”, relativamente alla “sua causa”, mentre l’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, assicura una equa riparazione a “chi ha subito un
danno patrimoniale o non patrimoniale” per effetto della violazione di quel principio. La tutela
è dunque apprestata indistintamente a tutti coloro che sono coinvolti in un procedimento giurisdizionale, tra i quali non può non essere annoverata anche la parte non costituita in giudizio, nei cui confronti la decisione è comunque
destinata a esplicare i suoi effetti. Risulta pertanto arbitrario escludere il contumace dalla
garanzia di “ragionevole durata”, che l’art. 111
della Costituzione inserisce tra quelle del “giusto processo” e demanda alla legge di assicurare, insieme con quelle del contraddittorio, della
parità tra le parti, della terzietà e imparzialità
del giudice, che certamente competono anche a
chi non si sia costituito in giudizio. Nella tradizione giuridica italiana, del resto, la contumacia
è sempre stata configurata come un atteggiamento pienamente legittimo, non preclusivo
dell’assunzione della qualità di parte, ma ragione anzi di talune specifiche tutele.
Anche la contumacia, peraltro, può in ipotesi influire — talvolta positivamente, talaltra
negativamente — sui tempi del giudizio, rispettivamente implicando o escludendo, secondo i
casi, la necessità di alcune attività processuali.
Consiste dunque pure essa in un “comportamento” della parte, valutabile, ai sensi del comma 2 dell’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89,
ai fini dell’accertamento della violazione del
principio di ragionevole durata. Non è allora
condivisibile l’assunto secondo cui la contumacia preclude comunque il riconoscimento del
diritto all’equa riparazione, poiché impedisce di
applicare il criterio del “comportamento delle
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.61
⎪
parti”, del quale occorre tenere conto, a norma della
disposizione suddetta. Può
peraltro accadere che anche la parte costituita in
giudizio non abbia tenuto
affatto condotte idonee a
incidere in qualche modo
sulla durata del processo: il
che non fa venire meno il
suo diritto a essere indennizzata, ove il termine ragionevole sia stato superato, anche se il parametro
del suo ”comportamento”
risulta in tal caso inutilizzabile.
Ugualmente
incongruo appare l’altro argomento addotto a sostegno
della tesi dell’incompatibilità tra contumacia e diritto
all’equa riparazione: la
mancata costituzione in
giudizio viene considerata
come indice univoco di disinteresse all’esito della lite e conseguentemente alla
sua durata, la quale pertanto, pur se eccessiva, non
potrebbe comportare quel
patema d’animo che invece prova chi partecipa attivamente al processo. Si
tratta di asserzioni e deduzioni aprioristiche, basate
su assiomatici presupposti.
La scelta della contumacia
può derivare dalle più varie ragioni, anche diverse
dall’indifferenza per il risultato e per i tempi della
controversia, come tra l’altro la convinzione della totale plausibilità o al contrario della assoluta infondatezza delle ragioni avversarie, che possono far apparire inutile affrontare le
spese occorrenti per contrastarle, costituendosi in
giudizio. L’esito della cau-
⎪ P.62
sa, peraltro, è ininfluente
ai fini del riconoscimento
del diritto all’indennizzo,
che compete anche alla
parte soccombente. Inoltre
la durata superiore ai limiti
della ragionevolezza del
processo fa presumere
senz’altro la causazione di
un danno non patrimoniale (in questa sede soltanto
su di esso si verte) di per sé
derivante dall’attesa, prolungata per un tempo esorbitante, di una decisione
che comunque incide sulla
parte nei cui confronti viene assunta. Non vi è dunque ragione per negare che
anche il contumace possa
subire quel disagio psicologico, che normalmente
risentono le parti a causa
del ritardo eccessivo con
cui viene definito il processo che le riguarda.
La mancata costituzione in giudizio può quindi
eventualmente
influire
sull’an o sul quantum dell’equa riparazione, ma non
costituisce di per sé motivo
per escludere senz’altro il
relativo diritto.
Accolto pertanto il primo motivo di ricorso, resta
assorbito il secondo, con
cui F.G., in via subordinata, sostiene che l’indennizzo avrebbe dovuto essergli
attribuito per l’intero periodo successivo alla sua
costituzione in giudizio,
senza le decurtazioni operate dalla Corte d’appello.
Il decreto impugnato
deve pertanto essere cassato, nella parte in cui ha
provveduto sulla domanda
di F.G., con rinvio ad altro
giudice, che si designa nella Corte d’Appello di Peru-
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gia in diversa composizione, cui viene anche
rimessa la pronuncia sulle spese del giudizio di
legittimità. (Omissis).
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⎪
SENTENZA CASS. CIV. SEZ. UN. CIV. 24 FEBBRAIO
2014 N. 4323 PRES. ROVELLI REL. DI PALMA
MAGISTRATO - Responsabilità disciplinare - Sanzione - C.S.M. - Discrezionalità - Obbligo di indicare i criteri - Sussistenza.
D.LGS.
23 FEBBRAIO 2006, N. 109, ART. 12
1. La scelta della sanzione disciplinare da
irrogare al magistrato che sia incorso in violazioni disciplinari spetta — in mancanza
di contrarie previsioni di legge ed in applicazione analogica (analogia juris) del principio desumibile dagli artt. 132 e 133 c.p.
— al potere discrezionale della Sezione disciplinare del C.S.M., la quale deve indicare i motivi della scelta compiuta, relativamente, in particolare, alla gravità dell’illecito ed alla capacità o meno dell’incolpato di
commetterne altri.
FATTO. 1. Il magistrato
dr. V.P., con ricorso del 24
marzo-2 aprile 2013, ha
impugnato per cassazione
— deducendo quattro motivi di censura —, nei confronti del Ministro della
giustizia e del Procuratore
generale presso la Corte di
cassazione, la sentenza
della Sezione disciplinare
del Consiglio superiore
della magistratura n. 44/
2013 del 7 febbraio-18
marzo 2013, con la quale la
Sezione disciplinare, pronunciando sull’azione disciplinare promossa dal
Procuratore
generale
presso la Corte di cassazione nei confronti del dr. V.,
incolpato dell’illecito disciplinare di cui agli artt. 1,
comma 1, e 2, comma 1, lettera q), del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, sulle conclusioni del Procuratore
generale — il quale aveva
chiesto la condanna del-
⎪ P.64
l’incolpato alla sanzione
della perdita di anzianità di
sei mesi — e del difensore
dell’incolpato — il quale
aveva chiesto l’assoluzione
per insussistenza dell’addebito in riferimento ai ritardi relativi all’anno 2008
e l’assoluzione per scarsa
rilevanza del fatto, ai sensi
dell’art. 3-bis del d.lgs. n.
109/2006, in riferimento ai
ritardi relativi all’anno
2009 —, ha dichiarato il dr.
V. responsabile della violazione ascrittagli, infliggendogli la sanzione disciplinare della perdita di anzianità di un anno.
1.1. Il Ministro della
giustizia, benché ritualmente intimato, non si è
costituito né ha svolto attività difensiva.
1.2. Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
2. Il capo di incolpazione addebitato al dr. V.,
di cui alla citata sentenza n.
44/2013 della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura,
è così formulato:
“[...] incolpato dell’illecito disciplinare di cui agli
artt. 1, comma 1, e 2, comma 1, lettera q), del d.lgs. 23
febbraio 2006, n. 109, per
avere, mancando ai propri
doveri di diligenza e di laboriosità, ritardato in modo
reiterato, grave e ingiustificato il compimento di atti
relativi all’esercizio delle
proprie funzioni di giudice
del Tribunale di Taranto,
addetto al settore civile. In
particolare il Dott. V. ritardava oltre il termine di legge il deposito delle seguenti sentenze civili [...]. Noti-
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
zia circostanziata dei fatti acquisita: per i ritardi
verificatisi nell’anno 2009 il 6 ottobre 2011; per
quelli verificatisi nell’anno 2008 l’11 gennaio
2011”.
In particolare, il capo di incolpazione precisa che, relativamente ai ritardi dell’anno 2008,
le minute di cinque sentenze risultano depositate con ritardi di 72, 55, 45, 44 e 1.038 giorni
oltre i sessanta giorni; relativamente ai ritardi
dell’anno 2009, le minute di sette sentenze risultano depositate con ritardi di oltre un anno e
sei mesi (2), di oltre due anni (1), di oltre due
anni e sei mesi (3), di oltre quattro anni (1).
2.1. In particolare — e per quanto in questa
sede ancora rileva —, la Sezione disciplinare
a) quanto alla richiesta di sospensione del
procedimento disciplinare in attesa della definizione del procedimento penale promosso nei
confronti dell’incolpato per il delitto di concorso
continuato in falso in atto pubblico — “per aver
alterato, in concorso con un funzionario di cancelleria, la data di deposito delle minute delle
ultime sette sentenze indicate nel capo di incolpazione, riportando sui relativi fascicoli una data anteriore a quella di deposito annotata nell’archivio informatico del registro in uso presso
il Tribunale civile di Taranto” —, ha escluso il
carattere pregiudiziale di tale procedimento
penale, relativamente al quale è stato emesso
l’avviso di conclusione delle indagini in data 20
dicembre 2011, osservando che il capo di incolpazione del procedimento disciplinare non
comprende l’addebito penale, sicché “all’accertamento del fatto costituente illecito disciplinare non è pregiudiziale l’esito del procedimento
penale, a nulla rilevando che il falso sia stato
contestato, tra l’altro, anche con riferimento alla modifica della data di deposito di alcune sentenze indicate nel capo di incolpazione. Infatti,
pur dovendosi ritenere l’astratta possibilità della sospensione del procedimento disciplinare
in attesa della definizione del giudizio penale
nel caso di perfetta coincidenza dei fatti materiali [...], nella fattispecie in esame tale possibilità è esclusa dall’assenza di identità dei fatti
dedotti nei due procedimenti pendenti nei confronti dell’incolpato”;
b) quanto all’eccezione di decadenza dalla
promozione dell’azione disciplinare, ha osservato: “[...] come emerge dagli atti (f. 1), il Procuratore generale ha avuto notizia circostanziata
dei ritardi maturati tra il dicembre 2008 e il mar-
zo 2009 soltanto il 6 ottobre 2010 (e non il 6
ottobre 2011 come, per un evidente errore materiale di battitura, è stato indicato nel capo di
incolpazione). Ne consegue che, per l’illecito
disciplinare costituito dal ritardo nel deposito di
detti provvedimenti, l’azione disciplinare è stata proposta tempestivamente in data 6 ottobre
2011, entro il termine previsto dall’art. 15.1 del
d.lgs. n. 109/2006”;
c) quanto ad alcune delle giustificazioni dei
ritardi contestati, addotte dal dr. V., ha, tra l’altro, affermato: “Quanto, poi, al dedotto gravoso
impegno lavorativo, va osservato che non è stata offerta alcuna indicazione dalla quale poter
ricavare il carattere di straordinarietà del lavoro
espletato negli anni in esame. Né vi sono elementi da quali desumere il carattere elevato del
carico di lavoro del Dott. V. Da un lato, infatti,
non v’è prova che l’incolpato abbia sostenuto
carichi di lavoro sensibilmente maggiori rispetto a quelli riservati ad altri colleghi del Tribunale di Taranto e, per altro verso, non sembra che
i numeri affrontati fossero assolutamente non
gestibili, come peraltro è dimostrato dal fatto
che non risulta che nello stesso periodo altri
giudici addetti al medesimo ufficio abbiano raggiunto livelli di ritardo quali quelli ascritti all’incolpato. Tale ultima circostanza induce dunque
a ritenere che la causa di quei ritardi debba
essere ricercata soprattutto nell’adozione, da
parte del Dott. V., di criteri di organizzazione
del proprio lavoro del tutto inadeguati alle esigenze del ruolo affidatogli, tanto da determinare, per un rilevante numero di cause, il decorso
di un lasso di tempo oggettivamente intollerabile tra la scadenza dei termini di legge e il deposito dei provvedimenti. A ciò va aggiunto che
le statistiche annuali in atti non appaiono neppure indicative di un particolare rendimento
dell’incolpato, il quale nel periodo in esame ha
raggiunto un livello di produttività che non si
discosta in modo significativo da quello conseguito da altri colleghi dell’ufficio”;
d) quanto alla determinazione della sanzione per l’illecito disciplinare contestato e riconosciuto, ha affermato: “La gravità del fatto ascritto al Dott. V., l’esistenza di una precedente condanna riportata dal predetto magistrato per
condotte analoghe, di per sé indicativa del fatto
che quel precedente non ha avuto alcuna efficacia emendativa nei suoi confronti, e l’attuale
pendenza di altri procedimenti, penali e disci-
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.65
⎪
plinari, nei confronti dell’incolpato, che hanno determinato l’adozione, in
data 23 marzo 2012, di una
misura cautelare, inducono ad applicare, in coerenza al generale principio di
cui all’art. 133 c.p., la sanzione della perdita di anzianità nella misura di anni
uno”.
DIRITTO. 1. Con il primo motivo (con cui deduce:
“Violazione dell’art. 606,
comma 1, lettere b, c ed e),
c.p.p. in relazione: alla corretta applicazione dell’art.
15, d.lgs. 23 febbraio 2006,
n. 109; violazione dell’art.
111, comma 2, della Costituzione”), il ricorrente critica la sentenza impugnata
(cfr., supra, Svolgimento
del processo (FATTO), n.
2.1., lettera b), sostenendo
che i Giudici a quibus: a)
non hanno considerato che
non v’è la prova che la notizia circostanziata dell’illecito disciplinare in questione — trasmessa da Lecce con raccomandata del
27 settembre 2010 — sia
stata acquisita dal Procuratore generale in data 6
ottobre 2010, tale data risultando soltanto da una
stampigliatura senza sottoscrizione apposta sul fascicolo dello stesso Procuratore generale; b) così facendo hanno violato le regole di diritto circa la formazione, la valutazione e
l’onere della prova di cui
all’art. 111, comma 2, Cost.,
nella parte in cui stabilisce
che il processo si svolge in
condizione di parità delle
parti, con l’ovvia conseguenza che nessuna delle
⎪ P.66
parti, nemmeno quella
pubblica, può attestare alcunché, al di fuori dei meccanismi di prova apprestati
dalla legge; c) hanno omesso di considerare che la
tempestività della promozione dell’azione disciplinare, essendo una condizione dell’azione, deve essere provata dall’autorità
che la promuove con mezzi
idonei, vale a dire con la registrazione della notizia in
un registro pubblico, cartaceo od informatico, e con
l’attribuzione alla stessa di
un numero di protocollo.
Con il secondo motivo
(con cui deduce: “Violazione dell’art. 606, comma 1,
lettere b, c ed e), c.p.p. in
relazione alla corretta applicazione degli artt. 12, 1 e
2 comma, e 5, 2 comma, del
d.lgs. 23 febbraio 2006, n.
109, con riferimento all’adeguatezza della sanzione
irrogata”), il ricorrente critica la sentenza impugnata
(cfr., supra, Svolgimento
del processo (FATTO), n.
2.1., lettera d), sostenendo
che i Giudici a quibus hanno irrogato la sanzione della perdita di anzianità al di
fuori delle ipotesi previste
dall’art. 12 del d.lgs. n. 109/
2006, ipotesi del tutto
estranee alla fattispecie disciplinare contestata ed
accertata, ed inoltre hanno
giustificato l’applicazione
di detta sanzione con riferimento a procedimenti disciplinari, diversi da quello
de quo, e penali per di più
non ancora definiti.
Con il terzo motivo
(con cui deduce: “Violazione dell’art. 606, comma 1,
lettere b, c ed e), c.p.p. in
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
relazione alla congruità della motivazione, illogica ed insufficiente, ed all’esame di documenti
decisivi, nonché alla corretta valutazione della
prova”) il ricorrente critica la sentenza impugnata (cfr., supra, Svolgimento del processo
(FATTO), n. 2.1., lettera c), sotto il profilo dei
vizi di motivazione, sostenendo che i Giudici a
quibus hanno erroneamente valutato la laboriosità dell’incolpato omettendo, in particolare,
di considerare sia che l’incolpato, nel periodo
considerato, aveva introitato il maggior numero
di sentenze rispetto ad ogni altro collega dello
stesso ufficio giudiziario, come risulta dalle tabelle allegate al ricorso, sia che lo stesso, cessate le funzioni di giudice delegato al fallimento,
non era più incorso in ritardi.
Con il quarto motivo (con cui deduce: “Violazione dell’art. 606, comma 1, lettere b, c ed e),
c.p.p. in relazione alla corretta applicazione
dell’art. 295 c.p.c.”), il ricorrente critica la sentenza impugnata(cfr., supra, Svolgimento del
processo, (FATTO), n. 2.1., lettera a), sostenendo che i Giudici a quibus hanno omesso di considerare che, anche ad ammettere che rilevante
ai fini della tempestività del deposito della minuta sia il deposito di quella “definitiva” e non di
quella “provvisoria”, tuttavia “ai fini della misura della sanzione da infliggere, la cosa aveva
sicura rilevanza; perché non è la stessa cosa
tralasciare il lavoro circa le questioni sottoposte, ovvero lavorarci sopra, ed eccedere i termini, per eccesso di scrupolo, non di pigrizia”.
2. Il ricorso non merita accoglimento.
2.1. Il primo motivo è infondato.
È noto che, secondo l’art. 15, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 109/2006, “L’azione disciplinare è promossa entro un anno dalla notizia del fatto, della quale il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha conoscenza a seguito dell’espletamento di sommarie indagini preliminari o di denuncia circostanziata
o di segnalazione del Ministro della giustizia”.
Come già rilevato, la Sezione disciplinare
ha respinto l’eccezione di decadenza del Procuratore generale presso la Corte di cassazione
dal potere di promuovere l’azione disciplinare,
affermando che, “[...] come emerge dagli atti (f.
1), il Procuratore generale ha avuto notizia circostanziata dei ritardi maturati tra il dicembre
2008 e il marzo 2009 soltanto il 6 ottobre 2010 (e
non il 6 ottobre 2011 come, per un evidente errore materiale di battitura, è stato indicato nel
capo di incolpazione). Ne consegue che, per l’illecito disciplinare costituito dal ritardo nel deposito di detti provvedimenti, l’azione disciplinare è stata proposta tempestivamente in data 6
ottobre 2011, entro il termine previsto dall’art.
15.1 del d.lgs. n. 109/2006”.
Con il motivo in esame, il ricorrente sostiene che i Giudici disciplinari hanno omesso di
considerare, da un lato, che non v’è la prova che
la notizia circostanziata dell’illecito disciplinare
in questione — trasmessa dal Presidente della
Corte d’appello di Lecce (anche) al Procuratore
generale presso la Corte di cassazione con lettera raccomandata del 27 settembre 2010 — sia
stata acquisita dal Procuratore generale in data
6 ottobre 2010, tale data risultando soltanto da
una stampigliatura senza sottoscrizione apposta sul fascicolo dello stesso Procuratore generale, dall’altro, che la tempestività della promozione dell’azione disciplinare, essendo una
condizione dell’azione, deve essere provata
dall’autorità che la promuove con mezzi idonei,
vale a dire con la registrazione della notizia in
un registro pubblico, cartaceo od informatico, e
con l’attribuzione alla stessa di un numero di
protocollo.
Nella specie, dall’esame diretto degli atti —
consentito a questa Corte dalla natura del vizio
denunciato che, ove accertato, comporterebbe
la nullità del procedimento disciplinare e, conseguentemente per derivazione, dello stesso
processo disciplinare e della sentenza impugnata — risulta che, all’estremo superiore destro della menzionata raccomandata del Presidente della Corte d’appello di Lecce in data 27
settembre 2010, è presente un “adesivo” del seguente testuale tenore: “Ministero della Giustizia — Procura Generale della Repubblica Presso la Corte Suprema di Cassazione ROMA ENTRATA - 06/10/2010 09:14 - 0017911”.
Orbene — tenuto conto che il predetto
“adesivo” è incontestatamente proveniente dall’Ufficio del Procuratore generale presso la
Corte di cassazione, come emerge dalla riprodotta intestazione —, l’applicazione del principio di legalità, che deve informare lo svolgimento dell’azione amministrativa, da fondamento ad una presunzione semplice circa la veridicità delle circostanze ivi indicate, in particolare della data e dell’ora di ricezione della predetta lettera raccomandata da parte dell’ufficio
del Procuratore generale presso la Corte di cas-
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.67
⎪
sazione, con la conseguenza che, diversamente da
quanto sostenuto dal ricorrente, è proprio colui che
contesta la veridicità di tali
circostanze ad essere onerato della prova — anche
presuntiva — contraria;
ciò, senza contare — sempre in via presuntiva, in assenza di prova contraria —
sia che il numero finale
(“0017911”) di detto “adesivo” richiama all’evidenza il
numero attribuito alla stessa lettera raccomandata
nella data medesima al
momento della sua protocollatura, sia che la data
della sua ricezione, 6 ottobre 2010, è ragionevolmente congruo rispetto al
tempo trascorso dalla data
della sua redazione, 27 settembre 2010.
2.2. Anche il secondo
motivo è infondato.
La piana lettura della
motivazione adottata dalla
Sezione
disciplinare,
quanto alla determinazione della sanzione per l’illecito disciplinare contestato
e riconosciuto, consente di
affermare che la stessa si
basa su distinte ed autonome ragioni (“La gravità del
fatto ascritto al Dott. V., l’esistenza di una precedente
condanna riportata dal
predetto magistrato per
condotte analoghe, di per
sé indicativa del fatto che
quel precedente non ha
avuto alcuna efficacia
emendativa nei suoi confronti, e l’attuale pendenza
di altri procedimenti, penali e disciplinari [...] inducono ad applicare, in coerenza al generale principio
di cui all’art. 133 c.p., la
⎪ P.68
sanzione della perdita di
anzianità nella misura di
anni uno”), sicché — ove
anche, per mera ipotesi, si
accedesse al rilievo del ricorrente, di illegittimità del
riferimento a procedimenti
disciplinari, diversi da
quello de quo, e penali, tutti per di più non ancora definiti — la determinazione
della sanzione risulterebbe
pur sempre adeguatamente sorretta dalle affermate
gravità dell’illecito accertato ed esistenza di una precedente condanna disciplinare per condotte analoghe. Ciò, senza contare che
la scelta della sanzione da
irrogare spetta — in mancanza di contrarie previsioni di legge ed in applicazione analogica (analogia
juris) del principio desumibile dagli artt. 132 e 133
c.p. — al potere discrezionale della Sezione disciplinare del C.S.M., la quale
deve indicare i motivi della
scelta compiuta, relativamente, in particolare, alla
gravità dell’illecito ed alla
capacità o meno dell’incolpato di commetterne altri,
come puntualmente motivato nella specie dai Giudici a quibus, in applicazione
dell’art. 12, comma 1, lettera g) del d.lgs. n. 109 del
2006 (cfr., ex plurimis, la
sentenza n. 2336/1989).
2.3. Il terzo ed il quarto
motivo sono inammissibili.
In particolare, il terzo,
perché le censure sono in
parte irrilevanti ed in parte
generiche.
Infatti — a fronte di
una motivazione ampia,
puntuale e corretta sul piano logico-giuridico, quanto
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
ad alcune delle giustificazioni dei ritardi contestati, addotte dal dr. V., (cfr., supra, Svolgimento del processo, (FATTO), n. 2.1., lettera c) —, il
ricorrente si limita a dedurre che i Giudici a
quibus hanno erroneamente valutato la laboriosità dell’incolpato omettendo, in particolare,
di considerare sia che l’incolpato, nel periodo
considerato, aveva introitato il maggior numero
di sentenze rispetto ad ogni altro collega dello
stesso ufficio giudiziario, come risulta dalle tabelle allegate al ricorso, sia che lo stesso, cessate le funzioni di giudice delegato al fallimento,
non era più incorso in ritardi. Tale ultima deduzione è palesemente irrilevante, riferendosi ad
un (soltanto) addotto (peraltro doveroso) comportamento del magistrato, rispettoso dei termini di deposito dei provvedimenti, successivo
ai periodi considerati dall’illecito disciplinare
contestato. L’altra deduzione è palesemente
generica, in quanto il ricorrente — alla motivazione, secondo cui “[...] Da un lato [...] non v’è
prova che l’incolpato abbia sostenuto carichi di
lavoro sensibilmente maggiori rispetto a quelli
riservati ad altri colleghi del Tribunale di Taranto e, per altro verso, non sembra che i numeri affrontati fossero assolutamente non gestibili, come peraltro è dimostrato dal fatto che
non risulta che nello stesso periodo altri giudici
addetti al medesimo ufficio abbiano raggiunto
livelli di ritardo quali quelli ascritti all’incolpato
[...]” — si limita a contrapporre valutazioni contrarie, senza peraltro specificare adeguatamente gli elementi che fonderebbero i suoi dedotti
maggiori carichi di lavoro e la sua maggiore laboriosità in comparazione con gli altri colleghi
del Tribunale di Taranto.
Anche il quarto motivo è inammissibile,
perché la censura non investe la vera ratio decidendi della sentenza impugnata.
Infatti, la Sezione disciplinare, quanto alla
richiesta di sospensione del procedimento disciplinare in attesa della definizione del procedimento penale promosso nei confronti dell’incolpato per il delitto di concorso continuato in
falso in atto pubblico — “per aver alterato, in
concorso con un funzionario di cancelleria, la
data di deposito delle minute delle ultime sette
sentenze indicate nel capo di incolpazione, riportando sui relativi fascicoli una data anteriore
a quella di deposito annotata nell’archivio informatico del registro in uso presso il Tribunale
civile di Taranto” —, ha escluso il carattere pre-
giudiziale di tale procedimento penale, osservando che il capo di incolpazione del procedimento disciplinare non comprende l’addebito
penale, sicché, “pur dovendosi ritenere l’astratta possibilità della sospensione del procedimento disciplinare in attesa della definizione
del giudizio penale nel caso di perfetta coincidenza dei fatti materiali [...], nella fattispecie in
esame tale possibilità è esclusa dall’assenza di
identità dei fatti dedotti nei due procedimenti
pendenti nei confronti dell’incolpato”.
A prescindere da altre pur possibili considerazioni conducenti anch’esse ad un esito sfavorevole al ricorrente, la piana lettura del motivo in esame consente di escludere che le censure ivi mosse investano l’esclusione della pregiudizialità di detto procedimento penale in ragione della “assenza di identità dei fatti dedotti
nei due procedimenti pendenti nei confronti
dell’incolpato” rispetto ai fatti dedotti nel procedimento disciplinare.
3. Nessuna pronuncia va emessa in ordine
alle spese del giudizio, in quanto il Ministro della giustizia non si è costituito né ha svolto difese.
Risultando dagli atti che il procedimento in
esame è esente dal pagamento del contributo
unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui all’art. 13, comma 1 quater, del testo
unico approvato con il d.P.R. 30 maggio 2002, n.
115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge
24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato - Legge di stabilità 2013). (Omissis).
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.69
⎪
SENTENZA CASS. CIV. SEZ. UN. CIV. 25 NOVEMBRE 2013 N. 26284 PRES. ROVELLI REL. SALVAGO
MAGISTRATO - Responsabilità disciplinare - Tardivo reiterato deposito di sentenze Ritardo ingiustificato - Nozione - Rilevanza.
D.LGS.
23 FEBBRAIO 2006, N. 109, ART. 2
2. La non giustificabilità del ritardo costituisce non un ulteriore elemento della fattispecie fonte di responsabilità disciplinare del
magistrato che non depositi i provvedimenti
nei termini di legge, ma un fatto ad essa
esterno, che gravita nell’area delle situazioni
riconducibili alle condizioni di inesigibilità, ed è funzionale alla delimitazione degli
obblighi giuridicamente determinati sul
piano normativo con lo scopo di temperarne
il rigore applicativo, allorché, per circostanze specificamente accertate, la sanzione apparirebbe irrogata « non iure ».
FATTO. La Sezione disciplinare del Consiglio
Superiore della Magistratura, con sentenza dell’8
febbraio 2013 ha inflitto al
Dott. P.G., Presidente della
III Sez. penale del Tribunale di Milano, la sanzione
della perdita di anzianità di
due mesi per avere, quale
giudice del Tribunale di
Milano addetto all’ufficio
GIP depositato nel periodo
giugno 2003-marzo 2010
numerose sentenze con
gravi ritardi, molte superiori ai 100-200 giorni, in
un caso ai 300 giorni, mentre nel caso più grave il ritardo aveva raggiunto i
2.246 giorni.
Ha rilevato al riguardo:
a) che il ritardo nel deposito appariva grave, ingiustificato e reiterato, soprattutto nel periodo in cui il
Dott. G. aveva svolto la
funzione di giudice addetto
⎪ P.70
al dibattimento penale, in
relazione al quale ben 10
sentenze erano state depositate con un ritardo di circa 3 anni; b) il ritardo era
altresì reiterato, riguardando almeno 40 sentenze,
nonché grave, perché almeno per la metà dei depositi, superiore all’anno, con
una punta di 1.400 giorni;
c) che il carico di lavoro e
l’indiscussa laboriosità del
magistrato non potevano
scriminare tali ritardi, per
il loro numero, per la loro
inidoneità a dimostrare
l’incapacità di una diversa
e funzionale organizzazione del lavoro, peraltro attestata da due precedenti
procedimenti disciplinari
per analoghe causali, che
tuttavia si erano conclusi in
modo favorevole al ricorrente; e perché infine gli
stessi erano divenuti una
sorta di costante professionale continuata pur dopo
le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio.
Per la cassazione della
sentenza, il Dott. G. ha proposto ricorso per 7 motivi.
Il Ministero della Giustizia
non ha spiegato difese.
DIRITTO. Con il primo
motivo, il ricorrente, deducendo violazione degli art.
15, d.lgs. 109/2006, e 108
c.p.p., censura la sentenza
impugnata per avere la Sezione disciplinare omesso
di concedere nell’udienza
dell’8 febbraio 2013 il rinvio richiesto malgrado
l’impedimento addotto e
dimostrato, che era stato
condiviso dal Procuratore
generale; e malgrado la decisione di nomina di un
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
nuovo legale che per quell’udienza aveva documentato un legittimo impedimento; per cui non
essendo stato concesso il rinvio cui egli aveva
diritto, ai sensi dell’art. 108 c.p.p., la sentenza
era affetta da radicale nullità.
La doglianza è infondata.
La giurisprudenza di legittimità ha enunciato al riguardo i seguenti principi che qui giova appena riassumere: a): In tema di giudizio
disciplinare dei magistrati ordinari, il dibattimento deve essere sospeso o rinviato, ai sensi
dell’art. 496 c.p.p. del 1930 (applicabile in virtù
del rinvio operato dall’art. 34, ult. comma, d.lgs.
n. 511/1946, e succ. mod.), solo quando l’assenza dell’imputato sia dovuta ad “assoluta impossibilità a comparire (Cass. Sez. Un. n. 11250/
2003); b) l’applicazione analogica delle norme
del processo penale che garantiscono il diritto
di difesa dell’imputato, non comporta il necessario accoglimento dell’istanza di rinvio dell’udienza a fondamento della quale sia addotto un
impedimento professionale dell’incolpato: occorrendo, invece, a tal fine, che di siffatto impedimento sia dedotto e risulti il carattere assoluto, in relazione alla insostituibilità della persona
nell’impegno medesimo; mentre la richiesta di
rinvio dell’udienza e la comunicazione della
causa giustificatrice dell’impedimento non siano state inoltrate con un anticipo tale da permetterne la tempestiva conoscenza da parte del
collegio giudicante. (Cass. Sez. Un. nn. 9848/
1993; 12665/1993); c) circa la concessione del
termine per preparare la difesa, la disposizione
di cui all’art. 108 c.p.p. - che lo prevede in favore
del nuovo difensore dell’imputato, non è applicabile nelle ipotesi in cui il giudice designi, ai
sensi dell’art. 97, comma 4, c.p.p., un sostituto al
difensore non comparso la cui istanza di rinvio
per contemporaneo impegno professionale sia
stata disattesa (Cass. n. 6015/1999); d) Il diniego
di termini a difesa previsti dall’art. 108 c.p.p.
non può dar luogo ad alcuna nullità - qualificabile a regime intermedio che deve essere eccepita, a pena di decadenza, entro il termine di cui
all’art. 182, comma 2, c.p.p. - allorquando la relativa richiesta non risponda ad alcuna reale
esigenza difensiva e l’effettivo esercizio del diritto alla difesa tecnica dell’imputato non abbia
subito alcuna lesione o menomazione (Cass.
Sez. Un. pen. n. 155/2011).
Nessuno di questi principi è stato tenuto in
considerazione nel ricorso, in cui il Dott. G. non
ha prospettato neppure di aver documentato
una assoluta impossibilità a comparire - di lui e
del nuovo difensore - nell’udienza dell’8 febbraio 2013; sicché la (tardiva) richiesta di rinvio
per impegni professionali è stata correttamente
respinta dalla Sezione con congrua motivazione; e d’altra parte il ricorrente non ha del pari
allegato se e quale pregiudizio alla propria difesa sia stato provocato dalla mancata concessione del rinvio e/o del termine a difesa: da cui
ha fatto discendere automaticamente, in contrasto con i principi appena menzionati, la nullità assoluta dell’udienza e della sentenza.
Con il secondo motivo, il ricorrente, deducendo violazione degli art. 32-bis, d.lgs. n. 109/
2006, e 18 r.d.lgs. n. 511/1946, si duole che la
valutazione dei ritardi sia stata compiuta al lume della nuova, più rigorosa normativa dell’art.
2, d.lgs. n. 109, invece che in base a quella precedente sotto la quale peraltro si erano verificati numerosi depositi delle sentenze; e che era
sicuramente più favorevole quanto meno perché richiedeva il profilo della compromissione
del prestigio dell’ordine giudiziario, oltre a
quello della scarsa laboriosità.
Con il terzo, deducendo violazione dell’art.
2, comma 1, d.lgs. n. 109/2006, censura la sentenza impugnata per avere omesso ogni indagine sulla ingiustificatezza del ritardo pur a fronte
della documentazione in atti, nonché del suo
interrogatorio, da cui risultava: a) che la sua
laboriosità era qualificata indubbia; b) che le
funzioni svolte venivano considerate particolarmente impegnative; c) che in quegli anni
aveva avuto la produttività più alta dell’ufficio
GIP/GUP.
Con il quarto rileva che tale omissione si è
ripetuta anche per la gravità del ritardo, non
essendosi mai affermato che si sia trattato di
processi di rilievo, o nei quali siano stati lesi
particolari interessi degli imputati; e con il sesto
rileva la contraddizione sussistente tra la parte
della motivazione in cui si dava atto del disguido
in seguito al quale il deposito di una (sola) decisione era avvenuto dopo oltre 2.000 giorni,
nonché della laboriosità del magistrato e del
modesto numero dei provvedimenti depositati
in ritardo. Anche queste censure sono infondate.
Il ricorrente non ha anzitutto specificato se
e quali condotte oggetto dell’incolpazione si siano esaurite in epoca antecedente all’entrata in
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.71
⎪
vigore della nuova legge n.
109/2006; sicché deve nel
caso trovare applicazione il
principio più volte affermato dalle Sezioni Unite,
per cui in tema di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati, l’ultrattività della legge anteriore
più favorevole è prevista
dall’art. 32-bis, comma 2,
del d.lgs. n. 109/2006 esclusivamente in riferimento
alle condotte poste in essere e compiutamente esauritesi in data anteriore al 19
giugno 2006; mentre alle
condotte successive, quand’anche iniziatesi nel vigore della precedente disciplina ma protrattesi oltre la
predetta data, si applicano
esclusivamente le nuove
disposizioni, senza alcuna
possibilità di scissione,
quanto all’apprezzamento
della gravità del fatto, dell’unica condotta permanentemente lesiva dell’interesse tutelato (Cass. Sez.
Un. nn. 967/2010; 16557/
2009). Il tutto non senza rilevare che la Sezione ha
esaminato gli addebiti anche al lume della condizione stabilita dall’art. 18, legge n. 511/1946, che gli stessi abbiano comportato la
lesione del prestigio dell’ordine giudiziario, accertandone la ricorrenza; ed
attenendosi alla giurisprudenza di questa Corte, per
cui detta lesione è intrinseca alla condotta stessa del
magistrato allorché si tratti
di ritardi nel deposito dei
provvedimenti, che per il
loro numero complessivo
abbiano superato ogni limite di ragionevolezza e di
giustificabilità.
⎪ P.72
Non è poi esatto che la
sentenza non abbia approfondito i presupposti della
reiterazione e della gravità
dei ritardi, avendo invece
rilevato che il magistrato
aveva depositato numerose sentenze (che ha indicato) con ritardi superiori al
triplo del termine concesso
al giudice dalla legge, altre
addirittura dopo mille giorni, mentre una “attendeva
ancora di essere motivata
da oltre quattro anni”: così
dando la prova non solo
della reiterazione, ma anche della loro gravità per
avere considerato sia il numero dei ritardi, sia la loro
durata con particolare riguardo a quella superiore
all’anno (verificatasi per
almeno 20 sentenze), che
aveva raggiunto una punta
massima superiore a 1400
giorni. Quanto, infine al requisito della ingiustificabilità, la Sezione disciplinare
ha dato puntuale applicazione alla giurisprudenza
delle Sezioni Unite, secondo cui ai fini dell’integrazione della fattispecie prevista dal d.lgs. 23 febbraio
2006, n. 109, art. 2, comma
1, lett. q), la non giustificabilità del ritardo costituisce
non un ulteriore elemento
della fattispecie, ma un fatto ad essa esterno, che gravita nell’area delle situazioni riconducibili alle condizioni di inesigibilità ed è
funzionale alla delimitazione degli obblighi giuridicamente determinati sul
piano normativo con lo
scopo di temperarne il rigore applicativo, allorché,
per circostanze specificamente accertate, la sanzio-
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
ne apparirebbe irrogata “non iure”. Ne consegue che, quando i ritardi risultino intollerabili,
come può accadere nel caso di superamento del
termine di un anno verificatosi nella fattispecie
- desunto dalle indicazioni della Corte Europea
dei diritti dell’uomo in tema di durata del giudizio di legittimità - la possibilità che essi vengano
scriminati si restringe ed è, pertanto, richiesto il
concorso di fattori eccezionali e proporzionati
alla particolare gravità attribuibile alla violazione (Cass. Sez. Un. nn. 1771/2013; 8409 e 6490/
2012; 28802/2011).
Con la conseguenza che è onere dell’incolpato allegare e provare i fattori assolutamente
eccezionali che giustifichino l’inottemperanza
del precetto sui termini di deposito, non essendo di per sé rilevante né la laboriosità, né la
comparazione percentuale tra i provvedimenti
tempestivamente depositati e quelli depositati
in ritardo né infine il contenuto e la difficoltà
particolare di quelli il cui termine di deposito sia
stato ritardato oltre l’anno. Laddove il ricorrente, così come aveva fatto davanti alla Sezione
disciplinare, ha insistito esclusivamente sulla
propria laboriosità e capacità professionale attestate da numerosi rapporti, di cui la sentenza
ha dato atto. E tuttavia argomentando dalla rilevantissima incidenza dei ritardi, nonché dalla
loro reiterazione sussistente anche negli anni
precedenti a quelli dell’incolpazione, ha ritenuto con apprezzamento di fatto, logicamente e
congruamente motivato, che le circostanze evidenziate dal ricorrente denotassero non un
problema temporaneo, conseguente ad una sopravvalutazione delle proprie capacità lavorative da parte del magistrato, ma una deficit della
ordinaria diligenza nella organizzazione del lavoro e nei tempi di trattazione dei procedimenti: perciò idonea ad integrare l’illecito disciplinare.
Con il quinto motivo, il Dott. G. deduce difetto assoluto di motivazione in merito alla consistenza della sanzione irrogata, richiesta dal
P.G. proprio in considerazione della sua laboriosità e della sua professionalità nella semplice
censura; laddove gli era stata inflitta quella più
grave della perdita dell’anzianità senza neppure spiegare le ragioni del dissenso.
Con il settimo denuncia illogicità della motivazione laddove la decisione ha tratto da due
precedenti procedimenti per il tardivo deposito
di sentenze che si erano conclusi con il suo pro-
scioglimento proprio per la laboriosità accertata dal CSM, l’imponente carico di lavoro dovuto
sopportare e per il carattere eccezionale della
situazione in cui versava l’ufficio, per poi utilizzarli come precedenti onde giustificare la più
grave sanzione della perdita dell’anzianità.
Anche questi motivi sono infondati.
Dalla lettura della sentenza impugnata
emerge infatti che la Sezione disciplinare, dopo
avere evidenziato sia il considerevole numero
di provvedimenti depositati in ritardo nonché la
durata di detti ritardi “per periodi di oltre tre
anni, con punte superiori ai 4 anni” ha dimostrato da un lato che tali comportamenti avevano caratterizzato tutta la carriera del magistrato, iniziando nel triennio 1982-1985 e procurandogli due procedimenti disciplinari tuttavia
conclusi con esito a lui favorevole: menzionati
non certamente per ricavarne elementi di addebito nei suoi confronti, ovvero per essere rivalutati in senso sfavorevole, ma per dimostrare come egli abbia sempre sofferto di carenze
strutturali nell’organizzazione del suo lavoro
divenute una costante nel suo percorso professionale sia in occasione di eventi (e di processi)
particolari, sia nella normale gestione dei processi penali allo stesso affidati: e ciò tanto allorché aveva svolto funzioni istruttorie, quanto allorché era passato a comporre (ovvero a presiedere) una sezione penale del Tribunale. Ha rilevato dall’altro che tale costante negativa non
era cessata neppure in occasione del presente
procedimento disciplinare, in conseguenza del
quale il magistrato era stato obbligato a presentare un piano di rientro dei depositi, tuttavia
rimasto inadempiuto perché buona parte dei
provvedimenti erano stati depositati assai dopo
la scadenza dei termini indicati nel piano.
Sulla base di tali elementi di fatto la Sezione
ha quindi concluso nel senso che i fatti oggetto
di contestazione erano oggettivamente molto
gravi e le omissioni costanti sì da non permettere il contenimento della sanzione nei limiti
del minimo edittale, e di rendere necessaria
l’applicazione di quella immediatamente successiva. Per cui sotto il profilo del vizio di motivazione denunciato il ricorrente mira inammissibilmente a porre in discussione l’esercizio di
tale potere effettuato dalla Sezione disciplinare
con l’applicazione della sanzione della perdita
di anzianità, adottando, sul punto, una motiva-
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⎪
zione assolutamente immune da vizi logici o giuridici.
Nessuna pronuncia va
emessa in ordine alle spese
del giudizio, in quanto il
Ministero della Giustizia
non ha spiegato difese.
(Omissis).
⎪ P.74
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SENTENZA CASS. CIV. 8
NOVEMBRE 2013 N. 25179
SEZ. VI PRES. SEGRETO REL.
LANZILLO
anche indipendentemente dalla definitiva
ripartizione fra le parti
dell’onere delle spese.
PROCEDIMENTO CIVILE - Consulenza tecnica d’ufficio - Compenso - Decreto di liquidazione - Successiva emissione della sentenza - Efficacia del decreto - Permane.
FATTO. 1. La sentenza impugnata ha ritenuto che la B., per ottenere il pagamento delle sue
spettanze, avrebbe dovuto azionare non la sentenza emessa fra le arti, ma il decreto di liquidazione dei compensi, poiché la regolazione
giudiziale delle spese, ivi incluse quelle di CTU,
si concreta in una statuizione che ha come destinatane solo le parti del processo e non può
esplicare alcun effetto nei confronti di un soggetto estraneo al giudizio qual è il CTU, nella
sua veste di ausiliario del giudice.
La B., pertanto, non aveva alcun titolo per
fondare sulla sentenza la domanda di pagamento proposta contro il Ministero.
2. Con il primo motivo, denunciando violazione dell’art. 91 c.p.c., d.P.R. 50 maggio 2002, n.
115, artt. 168 e 171, nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, la ricorrente
assume per contro che i due documenti (decreto e sentenza), congiuntamente considerati,
valgono a giustificare la sua domanda, in quanto il primo ha quantificato l’entità del compenso
che le spetta, ponendolo provvisoriamente a
carico delle parti convenute; il secondo, cioè la
sentenza, ponendo tutte le spese processuali a
carico del Ministero, le ha conferito il diritto di
agire con ordinaria azione di cognizione anche
contro quest’ultimo.
Richiama i principi per cui il provvedimento di liquidazione delle spese al CTU, “oltre a
produrre i propri effetti nei confronti delle parti
opponenti e del consulente tecnico di ufficio,
dispiega effetti anche nei confronti di tutte le
altre parti del giudizio nel quale è stato espletato l’incarico peritale in quanto ognuna può essere potenzialmente gravata secondo il regolamento delle spese da adottare con la pronuncia
conclusiva, ai sensi degli artt. 91 ss. del codice di
rito” (Cass. civ., 28 giugno 2004, n. 22111, in
motivazione).
Richiama altresì il principio per cui l’obbligazione avente ad oggetto il pagamento delle
spese di CTU grava solidalmente su tutte le
parti del giudizio, contro le quali il CTU può
agire indifferentemente, qualora il suo diritto
sia rimasto insoddisfatto (Cass. civ., 15 settembre 2008, n. 23586).
L.
ART.
8
LUGLIO
1980, N. 319,
11
Il decreto di liquidazione di cui alla l. n. 319/
1980, art. 11, ha e conserva efficacia esecutiva
nei confronti della parte
ivi indicata come obbligata e — finché la controversia non sia risolta
con sentenza passata in
giudicato, che provveda
definitivamente anche
in ordine alle spese —
ha l’effetto di obbligare
il CTU a proporre preventivamente la sua domanda nei confronti
della parte ivi indicata
come provvisoriamente
obbligata al pagamento
e solo nel caso di sua
inadempienza può agire nei confronti dell’altra, in forza della responsabilità
solidale
che, in linea di principio, grava su tutte le
parti del processo per il
pagamento delle spese di
CTU e che perdura anche dopo il passaggio in
giudicato della sentenza
conclusiva del processo,
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.75
⎪
Con il secondo motivo
denuncia violazione dell’art. 2697 c.c., artt. 115 e
116 c.p.c., nonché vizi di
motivazione, nel capo in
cui la Corte di Appello le ha
addebitato di avere fondato la sua pretesa esclusivamente sulla sentenza, relativa ad un giudizio di cui
non era parte. Fa notare
ancora una volta che essa
ha chiesto ed ottenuto il
decreto ingiuntivo anche
sulla base del decreto
provvisorio di liquidazione
del compenso.
Con il terzo motivo lamenta violazione delle
norme sull’interpretazione
degli atti di parte (artt. 1362
c.c. ss.) ed ancora vizi di
motivazione, nella parte in
cui la Corte di Appello le ha
addebitato l’indebita duplicazione dei titoli sulla
base dei quali ha azionato
la sua domanda di pagamento.
DIRITTO. 2. Deve essere preliminarmente respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dal resistente in relazione all’omessa formulazione dei quesiti sui vizi
di motivazione, ai sensi
dell’art. 366-bis c.p.c. L’art.
366-bis è stato soppresso
ad opera della l. 18 giugno
2009, n. 69, con disposizione applicabile ai ricorsi
proposti contro provvedimenti depositati successivamente alla data dell’entrata in vigore della legge
stessa (cioè a decorrere dal
4 luglio 2009: cfr. l. n. 69/
2009, artt. 47 e 58, cit.).
La sentenza impugnata è stata depositata il 20
⎪ P.76
settembre 2010, quindi alcun quesito doveva essere
formulato a pena di inammissibilità.
3. Quanto al merito del
ricorso, il resistente incentra le sue difese sulla circostanza che la sentenza del
Tribunale di Montepulciano che lo ha condannato al
pagamento delle spese
processuali, è stata annullata dalla Corte di cassazione e sostituita da altra sentenza in sede di rinvio, che
ha definitivamente accolto
le sue ragioni, condannando le controparti al pagamento delle spese processuali.
Assume che l’accoglimento del ricorso della B.
verrebbe a configgere con
il giudicato così formatosi e
con il principio per cui le
spese processuali gravano
sulla parte soccombente, e
che sul punto si sarebbe
creato un contrasto di giurisprudenza fra le sentenze di questa Corte 2 marzo
1994, n. 1022; 4 marzo 2000,
n. 2481 ed altre — secondo
cui il CTU al quale siano
stati liquidati i compensi
non può avvalersi delle
azioni ordinarie per far valere giudizialmente il suo
diritto al pagamento se non
in via sussidiaria, cioè in
mancanza di ogni provvedimento di liquidazione —
e le sentenze 8 luglio 1996,
n. 6199; 15 settembre 2008,
n. 23586, ed altre, che invece avrebbero deciso il contrario.
4. I motivi di ricorso
sono parzialmente fondati,
nei termini che seguono.
Va premesso che nella
specie si pongono e si so-
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vrappongono fra loro due questioni che è opportuno tenere distinte e cioè;
a) il problema di accertare se il CTU possa
far valere il suo diritto al pagamento esclusivamente sulla base del decreto di liquidazione di
cui alla l. n. 319/1980, art. 11 cit., restandogli
preclusa ogni altra azione, ed in particolare
ogni azione ordinaria di cognizione fondata su
provvedimenti diversi, quali le sentenze emesse nel giudizio nel quale il CTU ebbe a prestare
la sua opera;
b) il problema di accertare se ed entro che
limiti il CTU possa far valere la responsabilità
solidale delle parti nei suoi confronti, quindi
possa agire per il pagamento anche nei confronti della parte vittoriosa, nonostante ogni diversa disposizione del giudice in ordine alla ripartizione fra le parti delle spese processuali.
Le sentenze di questa Corte, 2 marzo 1994,
n. 1022; e 4 marzo 2000, n. 2481, hanno affrontato solo, e parzialmente, il problema sub a),
risolvendolo nel senso che le azioni ordinarie
possono essere proposte dal CTU solo in via
sussidiaria, cioè solo nei casi in cui non sia stato
emesso alcun decreto di liquidazione dei compensi. (Non si precisa fino a quando perduri
l’effetto preclusivo).
A questo principio si sono uniformate le
sentenze emesse nei due gradi di merito del
presente giudizio.
La giurisprudenza più recente ha affrontato invece specificamente solo il secondo problema. Ha cioè stabilito che in ogni caso le parti
sono solidalmente tenute al pagamento delle
spese di CTU, nonostante ogni diversa disposizione della sentenza — pur se passata in giudicato — che, risolvendo la controversia, abbia
posto le spese processuali, ivi incluse quelle di
CTU, a carico di una sola parte (cfr. Cass. civ.,
Sez. I, 8 luglio 1996, n. 6199; Cass. civ., Sez. I, 7
dicembre 2004, n. 22962; Cass. civ., Sez. II, 15
settembre 2008, n. 23586): “... la consulenza tecnica d’ufficio è strutturata, essenzialmente,
quale ausilio fornito al giudice..., piuttosto che
quale mezzo di prova in senso proprio e, così,
costituisce un atto necessario del processo che
l’ausiliare compie nell’interesse generale superiore della giustizia e, correlativamente, nell’interesse comune delle parti. Da tale intrinseca
natura dell’istituto, ed in particolare, dal dato
che la prestazione dell’ausiliare è effettuata in
funzione di un interesse comune delle parti...
che, cosi, assorbe e trascende quello proprio e
particolare... discende... che il regime sull’onere
delle spese sostenute dal consulente tecnico
per l’espletamento dell’incarico e sull’obbligo
del relativo pagamento, deve prescindere sia
dalla disciplina sul riparto dell’onere delle spese tra le parti che dal regolamento finale delle
spese tra le stesse, che deve avvenire sulla base
del principio della soccombenza;
ma, soprattutto, che l’obbligazione nei confronti del consulente per il soddisfacimento del
suo credito per il compenso deve gravare su
tutte le parti del giudizio, ed in solido tra loro”
(Cass. civ. n. 6199/1996, in motivazione. Conf.
Cass. civ. n. 23586/2008 cit.).
Premesso quanto sopra se ne è dedotto che
“la sussistenza della obbligazione solidale prescinde sia dalla pendenza del giudizio nel quale
la prestazione dell’ausiliare è stata effettuata;
sia dal paradigma procedimentale utilizzato
dall’ausiliare al fine di ottenere un provvedimento di condanna al pagamento del compenso
spettantegli. Per un verso, perché siffatto regime processuale è indissolubilmente connesso
alla natura di credito vantato dal consulente ed
alla comunanza della posizione debitoria delle
parti suoi confronti. Per altro verso, perché non
si individua alcuna ragione per cui siffatta posizione debitoria (che, come s’è detto, è ontologicamente connessa alla natura del credito)
debba rimanere travolta e caducata per effetto o
della cessazione della pendenza del giudizio nel
quale la prestazione è stata effettuata ed è sorto
il credito, ovvero dell’utilizzazione da parte del
consulente-creditore ed ai fini del riconoscimento del suo diritto, di un rimedio processuale
esterno rispetto al giudizio nel quale la prestazione è avvenuta”.
Ha soggiunto che “al consulente d’ufficio
non e opponibile la pronuncia sulle spese contenuta nella sentenza che abbia definito il giudizio nel quale aveva esercitato la sua funzione,
perché il principio della soccombenza attiene
soltanto al rapporto tra le parti e non opera nei
confronti dell’ausiliare; le parti di quel giudizio
sono obbligate, in solido, nei confronti dell’ausiliare al pagamento del suo compenso; e, per
ottenere detto pagamento, l’ausiliare può anche
far ricorso al procedimento monitorio ex art.
633 c.p.c. e, addirittura, può adire il giudice civile con una domanda autonoma ed indipendente dal processo in cui ha espletato l’incari-
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.77
⎪
co”: così si esprime Cass. n.
6199/1996, citando come
precedenti Cass., 2 febbraio 1994, n. 1022; Cass., 2
marzo 1973, n. 573; e Cass.,
9 febbraio 1963, n. 245).
Ad essa si è uniformata
Cass. n. 23586/2008, cit., la
quale ha anche specificato
che il CTU può agire per il
pagamento in via ordinaria
non solo nei casi in cui sia
mancato un provvedimento giudiziale di liquidazione, ma anche quando il decreto emesso a carico di
una parte sia rimasto inadempiuto.
Quest’ultimo principio
si riverbera sulla soluzione
della prima questione qui
prospettata, poiché afferma la proponibilità dell’azione ordinaria di cognizione, in aggiunta all’azione esecutiva fondata sul
provvedimento di liquidazione; ma pone al concorso
fra le azioni un limite
espresso: cioè che il decreto di liquidazione sia rimasto inadempiuto da parte
del soggetto ivi indicato come obbligato al pagamento.
2.2. La considerazione
complessiva della citata
giurisprudenza non manifesta quindi un contrasto di
principi tale da richiedere
la rimessione della questione alle Sezioni Unite.
Ed invero, se il principio fondamentale è quello
per cui le parti sono solidalmente responsabili del
pagamento delle competenze del CTU anche dopo
che la controversia in relazione alla quale il consulente ha prestato la sua
opera sia stata decisa con
⎪ P.78
sentenza passata in giudicato, indipendentemente
dalla ripartizione in sentenza dell’onere delle spese processuali, non v’è alcuna ragione di escludere
una tale responsabilità solidale a fronte di un sentenza non passata in giudicato, ma che tuttavia contenga un comando diverso
da quello di cui al decreto
di liquidazione delle spese.
Il decreto di liquidazione di cui alla l. n. 319/1980,
art. 11, ha e conserva efficacia esecutiva nei confronti della parte ivi indicata come obbligata e — finché la controversia non sia
risolta con sentenza passata in giudicato, che provveda definitivamente anche
in ordine alle spese — ha
l’effetto di obbligare il CTU
a proporre preventivamente la sua domanda nei
confronti della parte ivi indicata come provvisoriamente obbligata al pagamento e solo nel caso di sua
inadempienza può agire
nei confronti dell’altra, in
forza della responsabilità
solidale che, in linea di
principio, grava su tutte le
parti del processo per il pagamento delle spese di
CTU e che perdura anche
dopo il passaggio in giudicato della sentenza conclusiva del processo, anche
indipendentemente dalla
definitiva ripartizione fra
le parti dell’onere delle
spese (Cass. civ. n. 6199/
1996; n. 22962/2004 e n.
23586/2008, cit.).
Va soggiunto che i
principi sopra indicati non
confliggono con la regola
per cui la parte vittoriosa
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non può essere condannata al pagamento delle
spese, come assume il resistente.
Resta fermo infatti il diritto della parte vittoriosa che abbia pagato le spese di CTU di rivalersi nei confronti del soccombente, conformemente alla pronuncia giudiziale sulle spese.
La responsabilità solidale non influisce, com’è noto, sulla titolarità del debito e sulla misura in cui ogni singolo debitore è tenuto ad
adempiere, sulla base dei rapporti interni con i
condebitori; solo esclude che l’onere dell’insolvenza di alcuno di essi venga a gravare sul creditore. (Cfr. infatti Cass. civ., Sez. I, 16 marzo
2007, n. 6301; e Sez. II, 21 giugno 2010, n. 14925,
per cui “Viola l’art. 91 c.p.c. la disposizione del
giudice che pone parzialmente a carico della
parte totalmente vittoriosa il compenso liquidato a favore del CTU perché neppure in parte
essa deve sopportare le spese di causa”, principio che riguarda per l’appunto il caso in cui la
parte vittoriosa venga condannata al pagamento delle spese di CTU in via diretta e definitiva,
senza diritto di regresso nei confronti del soccombente).
3. In sintesi, la Corte di Appello si è discostata da questi principi, perché ha ritenuto improponibile l’azione ordinaria di cognizione, in
aggiunta all’azione esecutiva, senza avere previamente accertato l’inadempimento della parte obbligata al pagamento sulla base del decreto
di liquidazione, sebbene la ricorrente abbia
espressamente menzionato nel ricorso tale circostanza.
La sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio della causa alla Corte di appello
di Roma, in diversa composizione, affinché decida la controversia uniformandosi ai principi
sopra enunciati, in forza dei quali è da ritenere
che la ricorrente ben poteva proporre la sua
domanda di pagamento del compenso nei confronti del Ministero dell’Agricoltura, con ordinaria azione di cognizione, in aggiunta all’azione esecutiva proponibile contro le altre parti in
forza del decreto del GI di liquidazione dei compensi, sempre che l’appellante abbia ritualmente dedotto e dimostrato in giudizio l’inadempienza delle parti obbligate.
4. La Corte di rinvio deciderà anche sulle
spese del presente giudizio. (Omissis).
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.79
⎪
SENTENZA CASS. CIV. SEZ. UN. CIV. 7 GENNAIO
2014 N. 61 PRES. ROVELLI REL. SPIRITO
PROCEDIMENTO CIVILE - Processo di
esecuzione - Creditore procedente - Creditori
intervenuti - Decadenza o inefficacia del titolo del creditore procedente - Possibilità dei
creditori intervenuti di proseguire l’esecuzione - Sussistenza.
C.P.C. ARTT.
493, 629
Nel processo d’esecuzione, la regola secondo
cui il titolo esecutivo deve esistere dall’inizio
alla fine della procedura, va intesa nel senso
che essa presuppone non necessariamente la
costante sopravvivenza del titolo del creditore procedente, bensì la costante presenza di
almeno un valido titolo esecutivo (sia pure
dell’interventore) che giustifichi la perdurante efficacia dell’originario pignoramento.
FATTO E DIRITTO. 1.
La vicenda processuale.
1) Con atto di pignoramento notificato in data 11
maggio 1994, la Banca
Commerciale
Italiana
s.p.a. intraprese una procedura esecutiva immobiliare, incardinata presso il
Tribunale di Larino, sottoponendo a vincolo un appartamento di T.R. ed P.A.
In detta procedura intervenne, con atto depositato
il 28 febbraio1996, il Codominio **.
Con successivo atto di
pignoramento notificato in
data 2 giugno 1994, la Banca Nazionale del Lavoro
s.p.a. iniziò un’ulteriore
procedura esecutiva immobiliare, anch’essa incardinata presso il Tribunale
di Larino, sottoponendo a
vincolo lo stesso appartamento del T. e della P., ed
in più un loro locale adibito
⎪ P.80
a garage. In tale seconda
procedura, poi riunita alla
prima, intervennero la Telecom Italia s.p.a. e la Banca di Roma s.p.a.
Il T. e la P. si opposero
alle suddette espropriazioni immobiliari riunite intentate ai loro danni, deducendo, in particolare, l’inesistenza del titolo esecutivo
azionato dalla Banca Nazionale del Lavoro s.p.a.,
per gravi carenze nella notificazione del decreto ingiuntivo in cui esso consisteva, con conseguente illegittimità e nullità di tutti
gli atti di esecuzione, nonché la sopravvenuta carenza di legittimazione della
Banca Commerciale, avendo questa ceduto il credito
a tale Cofactor, con conseguente nullità di tutti gli atti successivi alla cessione
perfezionatasi il 23 maggio
2000.
Nel giudizio di opposizione si costituirono la
Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. e la Banca di Roma
s.p.a. (oggi Capitalia s.p.a.),
concludendo per il rigetto
delle avverse istanze, mentre rimasero contumaci la
Banca Commerciale Italiana s.p.a. (oggi Banca Intesa
s.p.a.), la Telecom Italia
s.p.a. ed il Condominio **.
Il Tribunale di Larino,
con sentenza del 27 giugno
2006, n. 1017, pronunciata
ex art. 281-sexies c.p.c., accogliendo
parzialmente
l’opposizione, dichiarò, per
i riscontrati vizi della notifica del decreto ingiuntivo
che ne costituiva il titolo
esecutivo, l’inesistenza del
diritto della Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. a
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procedere esecutivamente, ma — soltanto in
motivazione — respinse le doglianze relative
all’altra pignorante Banca Commerciale (poi
Banca Intesa s.p.a.) e compensò le spese di giudizio “considerato l’esito globale della lite”.
Per quanto qui ancora interessa, la decisione resa da quel Tribunale è argomentata sul
duplice rilievo: a) che la notifica del decreto ingiuntivo utilizzato quale titolo esecutivo dalla
Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. doveva considerarsi inesistente atteso che l’avviso di ricevimento della notifica a mezzo posta non riportava alcuna indicazione delle attività compiute
dall’ufficiale postale in relazione alla mancata
consegna del piego presso il domicilio del destinatario; b) che, quanto alla cessione del credito
operata dalla Banca Commerciale Italiana s.p.a.
in favore della Cofactor s.p.a., la successione a
titolo particolare nel diritto del creditore procedente non aveva avuto effetto sul rapporto processuale che, alla stregua dell’art. 111 c.p.c., applicabile anche al processo esecutivo, era continuato tra le parti originarie, con la conseguenza che l’alienante aveva mantenuto la sua legittimazione attiva (ad causam), conservando tale
posizione anche nel caso di intervento del successore a titolo particolare fino a quando non
fosse stato estromesso con il consenso delle
parti.
Avverso detta sentenza il T. e la P. hanno
proposto ricorso per cassazione articolato su
due motivi, al quale hanno resistito, con distinti
controricorsi, Telecom Italia s.p.a. e Capitalia
s.p.a. (medio tempore succeduta alla Banca di
Roma s.p.a.).
Quest’ultima, inoltre, ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
2) Con il primo motivo — intitolato “errore
in procedendo ex art. 360 c.p.c., n. 4) in relazione all’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia su
espresse domande formulate in prime cure dalle odierne parti ricorrenti volte ad ottenere, in
conseguenza dell’inesistenza in capo alla Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. del diritto ad agire in esecuzione forzata, una declaratoria di illegittimità e nullità di tutti gli atti posti in essere
dalla stessa banca, a partire dai suoi atti di precetto e pignoramento immobiliare, e degli atti a
questi successivi e consequenziali, ivi compresa la eventuale produzione ipocatastale e delle
mappe censuarie e di tutta la documentazione
ex art. 567 c.p.c., comma 2, nonché la condanna
dello stesso istituto di credito al risarcimento
dei danni ex art. 96 c.p.c., comma 2” — i ricorrenti lamentano, in sintesi, che il Tribunale, pur
accogliendo la loro opposizione diretta a far dichiarare l’inesistenza del diritto della Banca
Nazionale del Lavoro s.p.a. ad agire in executivis sulla base del decreto ingiuntivo emesso dal
Presidente del Tribunale di Foggia, non aveva
poi disposto alcunché in ordine alle domande di
illegittimità e nullità di tutti gli atti esecutivi
compiuti da detto istituto di credito e di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c., comma 2, prospettando, altresì, la questione del travolgimento di interventi ed atti del procedimento
esecutivo all’esito della caducazione del titolo
del procedente.
L’esposizione si conclude con i seguenti
quesiti di diritto: “Dica la Ecc.ma Suprema Corte adita se è affetta da errore in procedendo, ed
in particolare da vizio di omessa pronuncia e di
mancanza di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., la sentenza
con la quale il Giudice investito di un’opposizione all’esecuzione immobiliare, dopo aver dichiarato l’inesistenza del diritto del creditore
procedente di agire esecutivamente per mancanza in capo ad esso di un titolo esecutivo,
ometta di pronunciarsi su espresse domande
degli opponenti, volte, una, a far dichiarare l’invalidità di tutti gli atti compiuti nel processo
esecutivo dallo stesso creditore procedente a
partire dal pignoramento e sino alle produzioni
ipocatastali, ed un’altra ad ottenere la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 2, di quel creditore
procedente al risarcimento dei danni derivanti
dalla sua intrapresa esecuzione forzata senza la
normale prudenza. Inoltre, dica la Ecc.ma Suprema Corte adita se, a seguito della declaratoria di inesistenza del diritto del creditore procedente ad agire in esecuzione forzata per mancanza di un titolo esecutivo, sono nulli o comunque invalidi tutti gli atti compiuti dal creditore
procedente, ed in particolare il suo atto di pignoramento, la sua istanza di vendita e la sua
produzione di documenti ipocatastali; e se la
invalidità di tali atti travolge gli atti di intervento
e quelli successivi compiuti dai creditori intervenuti”.
Con il secondo motivo — rubricato “Omessa
e, comunque, illogica motivazione in relazione
alla compensazione delle spese di giudizio disposta dal Tribunale considerato l’esito globale
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.81
⎪
della lite” — ci si duole, invece, dell’inidoneità, alla
stregua del testo applicabile ratione temporis dell’art. 92 cod. proc. civ., dei
giusti motivi in concreto
posti dalla impugnata sentenza a fondamento della
disposta compensazione,
oltretutto in considerazione della totale soccombenza della Banca Nazionale
del Lavoro s.p.a., creditrice
procedente costituita.
La Telecom Italia
s.p.a., dopo aver esaustivamente argomentato, nel
proprio controricorso, le
ragioni della infondatezza,
a suo dire, del primo dei riportati motivi, ed essersi
altresì affermata assolutamente estranea agli assunti esposti nel secondo, ha
concluso per il rigetto del
ricorso. La Capitalia s.p.a.
(già Banca di Roma s.p.a.),
nel suo controricorso, ha
invece ampiamente dedotto circa la invocata inammissibilità dell’avversa impugnazione nei suoi confronti, ed in tali sensi ha
concluso, chiedendo, inoltre, il rigetto del ricorso in
tutti i suoi punti.
La Capitalia s.p.a., da
ultimo, ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c., ribadendo tutte le proprie
argomentazioni e conclusioni.
3) La III Sezione civile,
alla quale è stato assegnato
il ricorso, ha pronunciato
ordinanza (n. 2240 del 30
gennaio 2013) di rimessione degli atti al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni
unite, individuando nella
fattispecie la questione di
⎪ P.82
massima di particolare importanza consistente nello
stabilire quali siano gli effetti della caducazione del
titolo esecutivo, in capo al
creditore procedente, sul
processo esecutivo in presenza di pignoramenti riuniti e di interventi titolati.
Il Primo Presidente ha
rimesso gli atti alle Sezioni
Unite.
2. Alcune questioni
preliminari.
Prima di affrontare il
problema sottoposto all’esame delle S.U., occorre
sgombrare il campo da alcune questioni già preliminarmente affrontate (e risolte) dall’ordinanza interlocutoria della terza sezione civile per giungere alla
rimessione degli atti al Primo Presidente.
1) S’è visto che il primo
motivo di ricorso lamenta
la nullità della sentenza
per omessa pronuncia (art.
360 c.p.c., comma 1, n. 4 in
relazione all’art. 112 c.p.c.)
in ordine alle domande di
illegittimità e nullità di tutti
gli atti esecutivi compiuti
dalla Banca Nazionale del
Lavoro e di risarcimento
dei danni ex art. 96 c.p.c.,
comma 2, prospettando,
altresì, la questione del travolgimento di interventi ed
atti del procedimento esecutivo all’esito della caducazione del titolo del procedente.
Tale nullità della sentenza per omessa pronunzia, una volta accertata,
comporterebbe la cassazione della sentenza con
rimessione degli atti al giudice del merito, con impossibilità, dunque, di accede-
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re alla questione individuata dall’ordinanza di
rimessione.
Tuttavia, la sentenza impugnata, se, per un
verso, ha omesso di pronunciarsi esplicitamente sulla domanda di declaratoria di nullità di
tutti gli atti esecutivi posti in essere dal creditore (la Banca Nazionale del Lavoro) del quale è
stata riconosciuta l’inesistenza del diritto a procedere esecutivamente, per altro verso ha respinto la pretesa dei debitori esecutati del venir
meno di analogo diritto anche in capo all’altro
pignorante (la Banca Commerciale Italiana).
Il che equivale all’implicita affermazione
che la validità di quest’ultimo pignoramento riunito sia idonea a fondare da sola la validità di
tutti gli atti esecutivi. Si verifica, dunque, l’incompatibilità tra la pretesa avanzata col capo di
domanda non espressamente esaminato e l’impostazione logico giuridica della pronuncia; incompatibilità, che esclude il vizio di omessa
pronuncia (in tal senso, cfr. Cass. n. 20311/2011,
n. 10696/2007, n. 16788/2006).
Riservando al prosieguo l’esame dell’analoga censura svolta con riguardo alla domanda
di condanna ex art. 96 c.p.c., essendo questa
accessoria, è a questo punto possibile procedere all’esame della questione sottoposta alle S.U.
3. La questione e le tesi contrapposte.
È possibile sin da ora illustrare che intorno
alla questione come sopra evidenziata — questione che, indubbiamente, coinvolge i principi
di sistema in tema di esecuzione civile e coinvolge l’assetto stesso della procedura espropriativa, con ricadute di non poco conto sia sotto
il profilo giuridico, sia sotto quello pratico/operativo — si sono consolidate e si dibattono in
dottrina ed in giurisprudenza due teorie che, in
grandi linee, si possono esporre nel senso che
segue:
A) una, che, sulla premessa che i creditori
muniti di titolo esecutivo hanno la facoltà di
scelta tra l’intervento nel processo già instaurato per iniziativa di altro creditore e l’effettuazione di un nuovo pignoramento del medesimo
bene, fa leva sul fatto che il pignoramento autonomamente eseguito ha un effetto indipendente sia da quello che lo ha preceduto, sia da
quello di un intervento nel processo iniziato con
il primo pignoramento; sicché, proprio in base
al principio di autonomia dei singoli pignoramenti di cui all’art. 493 c.p.c., se, da un lato, il
titolo esecutivo consente all’intervenuto di sop-
perire anche all’eventuale inerzia del creditore
procedente, dall’altro lato, tuttavia, la caducazione del pignoramento iniziale del creditore
procedente travolge ogni intervento, titolato o
meno, qualora non sia stato “integrato” da pignoramenti successivi;
B) un’altra, che, attribuendo rilevanza meramente oggettiva alle attività spiegate per l’impulso e lo sviluppo del processo esecutivo (con
totale indifferenza, dunque, rispetto a quale dei
creditori muniti di titolo esecutivo le abbia poste in essere), sostiene l’insensibilità del processo esecutivo individuale, cui partecipino più
creditori concorrenti, alle vicende relative al titolo invocato dal procedente (anche in mancanza di pignoramento successivo o ulteriore poi
riunito) purché il titolo esecutivo azionato da
almeno un altro di loro abbia mantenuto integra la sua efficacia.
Così definiti gli ambiti del dibattito, si potrà
rilevare in seguito che la questione è si di massima di particolare importanza (nel senso, dunque, in cui l’ordinanza della terza Sezione civile
l’ha rimessa alle S.U.) ma che, soprattutto, si
pone in termini di vero e proprio contrasto giurisprudenziale, benché tra una pronunzia recente ed altre, invece, risalenti nel tempo. È
vero, infatti, che (come sostiene la citata ordinanza) tutti gli arresti ai quali si farà riferimento
sono stati resi nel vigore della disciplina antecedente alle riforme del 2005 e del 2006, ma è
pur vero che il contrasto logico-giuridico tra i
due orientamenti ha natura sistematica e prescinde dalle riforme citate, le quali ultime, semmai, conferiscono ulteriori ragioni argomentative alla soluzione scelta.
La circostanza non è di poco rilievo ai fini
del discorso che si andrà a fare e del taglio che
ad esso deve attribuirsi, posto che il compito
istituzionalmente affidato alle S.U. si pone, in
questo caso, non come mera soluzione di una
importante questione sistematica, bensì come
composizione di un contrasto evidenziatosi nella giurisprudenza della Corte nomofilattica.
Occorre pure precisare che la giurisprudenza che sostiene la prima delle menzionate
tesi (travolgimento di tutti gli interventi a seguito della caducazione del titolo esecutivo che
regge il pignoramento del creditore procedente) ammette — s’è visto — come eccezione l’ipotesi in cui il pignoramento del creditore pro-
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.83
⎪
cedente sia stato integrato
da altri pignoramenti successivi.
È proprio l’ipotesi che
s’è verificata nella fattispecie in trattazione, in cui si
sono susseguiti in ordine di
tempo due pignoramenti: il
primo, della Banca Commerciale Italiana, che sottoponeva a vincolo il solo
appartamento dei debitori
esecutati; il secondo, della
Banca Nazionale del Lavoro, che sottoponeva a vincolo lo stesso appartamento, oltre una sua pertinenza. La seconda procedura è
stata riunita alla prima, con
gli interventi della Telecom Italia e della Banca di
Roma. Riscontrati i vizi
della notifica del decreto
ingiuntivo posto a base
della procedura introdotta
dalla Banca Nazionale, il
giudice ha dichiarato l’inesistenza del diritto di quest’ultima creditrice a procedere esecutivamente, respingendo (solo in motivazione) le doglianze relative
alla altra banca procedente.
Orbene, come ha avuto
modo di porre in rilievo
l’ordinanza di rimessione,
pur volendo aderire alla tesi sub A) si perverrebbe al
rigetto del ricorso, siccome
la valida azione esecutiva
della Banca Commerciale
Italiana finirebbe con il
salvare anche gli interventi
compiuti nella riunita azione della Banca Nazionale
del Lavoro.
Tuttavia, ammettere la
validità di una simile eccezione (salvezza degli interventi in virtù della validità
di altro pignoramento riu-
⎪ P.84
nito) alla regola (assoluta
autonomia dei pignoramenti) comporta non solo
la sua convalida a contrario, ma, soprattutto, la necessità di verificare se la
regola stessa ammetta una
simile eccezione.
4. Le ragioni fondanti la tesi A) - I precedenti giurisprudenziali.
La tesi A), come sopra
sinteticamente illustrata, è
espressa da Cass. n. 3531/
2009 (Si tratta della sentenza con la quale si confronta l’ordinanza di rinvio, sia per criticarla (in
una parte destruens), sia
per ipotizzare una diversa
ricostruzione del processo
esecutivo (in una parte costruens), quale è desumibile dalla riforma del 2006,
della quale Cass. n. 3531/
09 non ha potuto tener
conto ratione temporis),
che risulta essere l’ultimo
arresto in tema di effetti
della caducazione del titolo
esecutivo in virtù del quale
si era iniziata l’esecuzione
forzata e ciò, in particolare,
con riferimento ad un processo nel quale siano intervenuti altri creditori titolati.
(Nel caso di specie, l’espropriazione forzata era
stata instaurata sulla base
di un decreto ingiuntivo,
poi revocato in sede di giudizio d’appello avverso la
sentenza resa sull’opposizione al decreto medesimo.
La revoca del decreto ingiuntivo aveva costituito
motivo per il debitore per
formulare istanza di estinzione del processo esecutivo, nel quale peraltro erano nel frattempo interve-
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
nuti altri creditori muniti di titolo esecutivo. Il
giudice, rigettando l’istanza di estinzione, aveva
dato seguito al procedimento, che era giunto
fino alla vendita e conseguente aggiudicazione
del bene pignorato, con emanazione del relativo decreto di trasferimento. Il debitore, lamentando la illegittimità della prosecuzione della
procedura, aveva rivolto una ulteriore istanza al
giudice affinché fosse dichiarata la nullità di
tutta l’attività esecutiva posta in essere, ritenendo che la revoca del decreto ingiuntivo (titolo esecutivo) avesse reso inefficaci tutti gli atti
esecutivi successivi e che il processo non potesse proseguire neanche per gli altri creditori titolati, non trovando applicazione il principio di
cui all’art. 629 c.p.c.
Costituitisi pure gli altri creditori, il giudice,
ritenendo che il ricorso del debitore fosse da
considerarsi come opposizione all’esecuzione
avverso la prosecuzione dell’azione esecutiva
dei creditori titolati, a definizione di tale giudizio, aveva accolto la tesi del debitore ed affermato che la sentenza di accoglimento dell’opposizione a decreto ingiuntivo produce un effetto caducatorio ex tunc del decreto ingiuntivo
e di tutti gli atti esecutivi successivi, tanto da
impedire la prosecuzione del processo anche
per gli altri creditori intervenuti con titolo esecutivo.
La sentenza in commento, a seguito del ricorso proposto avverso la sentenza resa ex art.
615 c.p.c., ha confermato la decisione del giudice dell’opposizione).
La sentenza parte dal presupposto che l’ordinamento, rispetto ad un processo esecutivo
iniziato, offre agli altri creditori del medesimo
debitore esecutato due possibilità: l’intervento
nell’espropriazione in corso o il pignoramento
successivo sugli stessi beni già pignorati. In
questo secondo caso si avrebbe un pignoramento autonomo rispetto al primo, con effetto
anche di intervento nel processo già iniziato.
I pignoranti successivi lucrerebbero, così,
l’effetto di prenotazione del primo pignoramento ex art. 2913 c.c.
Nel raffronto eseguito tra i due istituti, poi,
solo nell’ipotesi che il creditore abbia effettuato
un pignoramento successivo il processo potrebbe proseguire per lui, qualora venisse meno l’azione esecutiva nel cui esercizio è stato
posto in essere il primo pignoramento.
Infatti — prosegue la sentenza — se i credi-
tori titolati accedono al processo mediante intervento, pur avendo i poteri processuali ex art.
500 c.p.c. e pur essendo necessaria anche la loro
rinuncia per l’estinzione ex art. 629 c.p.c. del
processo medesimo, non sembrerebbe “... altrettanto logico ravvisare una equivalenza tout
court tra titoli esecutivi in seno al medesimo
processo, i cui effetti sopravviverebbero diacronicamente al di là ed a prescindere dalle sorti
dell’originario titolo esecutivo che vi dette vita...”.
Gli effetti dell’intervento vengono dedotti
quindi per differenza con il pignoramento successivo, che rispetto al primo avrebbe un effetto
cautelare ulteriore.
Invero, consentire la prosecuzione del processo agli intervenuti, anche venuta meno l’azione esecutiva del procedente, sarebbe (malgrado ciò potrebbe rispondere, ad avviso della
pronuncia in rassegna, “... all’esigenza di garantire una più celere ed economica celebrazione
del giudizio — dacché l’azione esecutiva dell’interveniente, paralizzata dalla caducazione del
titolo originario, sarà successivamente esercitata in via principale mediante un pignoramento
successivo — e garantisca la concorsualità delle
esecuzioni individuali, indiscutibile ratio generalis dell’art. 2741 c.c....”) in contrasto con l’art.
493 c.p.c., dal quale, deducendosi il principio di
autonomia dei pignoramenti, se ne trarrebbe la
conclusione che “... il pignoramento iniziale del
creditore procedente, se non integrato da pignoramenti successivi, travolge ogni intervento, titolato o meno, nell’ipotesi di una successiva
caducazione...”.
Peraltro la Corte, a sostegno della sua opinione, aggiunge la considerazione che l’art. 629
c.p.c. (letto a contrario), nel consentire la prosecuzione del processo per i creditori titolati
non rinuncianti, conterrebbe una norma eccezionale (ed ampiamente giustificabile dalla
stessa morfologia dell’atto di rinuncia, per sua
natura neutra rispetto a qualsivoglia valutazione circa la fondatezza dell’azione esecutiva),
dalla quale si ricaverebbe una facoltà per i creditori intervenuti non altrimenti ricavabile dal
sistema.
Conclude, quindi, affermando che l’intervento è “... non altro che manifestazione di volontà collaterale ed accessoria, da parte del creditore, di partecipare ad un processo che altri
ha legittimamente fondato su un proprio titolo
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esecutivo e legittimamente
iniziato con l’atto inaugurale di quel processo, il pignoramento. Sicché la
scelta tra intervento e pignoramento
successivo
(cui il creditore è legittimato senza condizioni dalla
legge) è scelta di rischio,
scelta, cioè, che non potrà
non tener conto della possibile, futura caducazione
del titolo del creditore procedente, rischio tanto più
evidente quando tale titolo
sia (o sia addirittura già
stato) passibile di impugnazione. Senza considerare, ancora, che la mancanza di un qualsivoglia
obbligo od onere di comunicazione dell’intervento al
debitore comporta che
quest’ultimo, esperita vittoriosamente l’azione volta
alla caducazione del titolo
del creditore procedente,
potrebbe, per difetto incolpevole di conoscenza, pur
tuttavia trovarsi esposto all’azione esecutiva esercitata dall’interventore ove a
questi si ritenesse consentita la prosecuzione dell’azione pur nell’ormai avvenuta caducazione del titolo
esecutivo originario...”.
Così esposto il tenore
di Cass. 3531/2009, occorre
innanzitutto verificare se
essa effettivamente si
muove (come asserisce) in
continuità con il pregresso
orientamento giurisprudenziale individuato in
Cass. nn. 985/2005, 11904/
2004 e 5192/19999.
In realtà queste sentenze appena lambiscono il
problema che oggi si dibatte.
In particolare, Cass.
⎪ P.86
nn. 985/2005 e 11904/2004,
trovandosi a decidere se
l’accoglimento dell’opposizione a decreto ingiuntivo
comporti, a prescindere
dal passaggio in giudicato o
dalla esecutorietà della
sentenza di primo grado, la
radicale caducazione del
decreto e la conseguente
inefficacia di tutti gli atti
esecutivi compiuti per effetto del provvedimento
monitorio, stabilisce che
l’accertamento immediatamente esecutivo della
pretesa sostanziale fatta
valere nel procedimento di
ingiunzione, se pure perdura nel corso del giudizio
di opposizione, può essere
superato dalla sentenza
che decide la stessa opposizione, ove questa sia accolta totalmente, dato che
la sentenza di accertamento negativo si sostituisce
completamente al decreto
ingiuntivo (il quale viene
eliminato dalla realtà giuridica), con la conseguenza
che gli atti di esecuzione
già compiuti restano caducati, analogamente a quanto accade nei casi di riforma o cassazione di sentenza impugnata (art. 336, 353,
354 c.p.c.) e di revoca di
provvedimento cautelare a
seguito di reclamo (art.
669-terdecies c.p.c.), a prescindere dal passaggio in
giudicato della medesima
sentenza di accoglimento
dell’opposizione (in argomento sono richiamate
Cass. n. 5192/99, che ha riconosciuto tale effetto immediatamente caducatorio
anche alla sentenza parziale che disponga la revoca del decreto ingiuntivo
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
per ragioni di rito e la prosecuzione del giudizio
ai soli fini dell’accertamento delle pretese creditorie fatte valere con la domanda contenuta
nel ricorso monitorio; nonché Cass. n. 5007/
1997).
Passando, poi, all’altro precedente richiamato (ossia Cass. n. 5192/2999), anch’esso, in
realtà, si limita ad affermare che pure da una
sentenza parziale, che disponga la revoca del
decreto ingiuntivo per ragioni di rito e la prosecuzione del giudizio ai soli fini dell’accertamento delle ragioni creditorie fatte valere con la domanda contenuta nel ricorso monitorio, consegue (senza che si renda necessario attendere il
passaggio in giudicato in senso formale della
sentenza) la caducazione degli atti di esecuzione già compiuti in conseguenza della originaria
esecutività del decreto. (La sentenza spiega che
il provvedimento con il quale è stato revocato il
decreto ingiuntivo per il motivo che esso non
era stato regolarmente notificato si sovrappone
interamente al decreto, privandolo ex tunc dell’efficacia esecutiva, come accade in tutti i casi
di revoca; la perdita di questi effetti discende
direttamente dalla sentenza stessa e non è necessario attenderne il passaggio in giudicato in
senso formale).
Si può dire, allora, che i precedenti ai quali
Cass. n. 3531/2009 dichiara di porsi in continuità si limitano ad affermare la caducazione di
tutti gli atti esecutivi compiuti sulla base del
titolo divenuto inefficace ex tunc (nella specie, il
decreto ingiuntivo revocato). In altri termini essi riguardano le sole conseguenze, sul processo
esecutivo, della revoca del decreto ingiuntivo,
senza neppure porsi il problema (estraneo alle
fattispecie trattate) che qui si dibatte, ossia le
complicazioni indotte dall’intervento nell’esecuzione di altri creditori muniti di titolo.
5. Le ragioni fondanti la tesi B - I precedenti giurisprudenziali.
Una volta chiarito che la tesi sub A) non
trova, in realtà, un preciso aggancio di conformità nella giurisprudenza di questa Corte, è
possibile verificare che, piuttosto, la questione,
posta esattamente negli stessi termini, è stata
già affrontata e risolta in modo affatto opposto
rispetto alla scelta operata da Cass. n. 3531/
2009.
Il vero precedente in termini è, infatti, costituito da Cass. n. 427/1978 (rispetto alla quale
Cass. n. 3531/2009 dichiara di porsi in consape-
vole contrasto), che risulta così massimata: “Nel
processo di esecuzione forzata, al quale partecipano più creditori concorrenti, le vicende relative al titolo invocato da uno dei creditori (sospensione, sopravvenuta inefficacia, estinzione) non possono ostacolare la prosecuzione
dell’esecuzione sull’impulso del creditore il cui
titolo abbia pacificamente conservato la sua
forza esecutiva.
Tuttavia, quando si tratti di intervento nel
processo esecutivo, occorre distinguere se l’azione esecutiva si sia arrestata prima o dopo
l’intervento, poiché nel primo caso, non esistendo un valido pignoramento al quale gli interventi possano ricollegarsi, il processo esecutivo è improseguibile”. (In precedenza s’era
espressa negli stessi termini Cass. n. 2347/1973,
la quale risulta così massimata: “Nel procedimento di esecuzione forzata, a cui partecipino
più creditori concorrenti, le vicende relative al
titolo invocato da uno dei creditori (sospensione, sopravvenuta inefficacia, estinzione) non
possono ostacolare la prosecuzione dell’esecuzione sull’impulso del creditore il cui titolo abbia pacificamente conservato integra la sua forza esecutiva”).
Effettivamente, questa sentenza si pone in
una prospettiva sistematicamente opposta rispetto a quella di Cass. 3531/2009. Se quest’ultima, valorizzando il dato normativo dell’art.
493 c.p.c., configura il processo esecutivo per
compartimenti stagni, sì da assoggettare la sorte di ciascun intervento a quella del pignoramento originario al quale esso è collegato, l’altra configura l’esecuzione per espropriazione
forzata come un processo a struttura soggettiva
aperta, nel quale, accanto al creditore pignorante ed al debitore (suoi originari soggetti),
possono entrarvi, quali ulteriori, successivi soggetti, gli altri creditori del debitore esecutato
che vi facciano intervento. Nel senso che la situazione attiva di tutti i creditori intervenuti si
concreta nel diritto di partecipare alla distribuzione della somma ricavata dalla vendita o dall’assegnazione dei beni pignorati, ma anche, se
muniti di titolo esecutivo, a partecipare all’espropriazione del bene pignorato ed a provocarne i singoli atti.
Ecco, dunque, che per Cass. n. 427/1978 il
creditore intervenuto, munito di titolo esecutivo, si trova in situazione paritetica a quella del
creditore pignorante, perché, al pari di questi,
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⎪
anch’egli può dare impulso
al processo esecutivo,
compiendo o richiedendo
al giudice il compimento di
atti esecutivi; perciò, l’atto
di esercizio della propria
azione esecutiva da parte
di un legittimato è anche
atto d’esercizio delle azioni
esecutive degli altri legittimati e l’atto compiuto da
un legittimato si partecipa
agli altri legittimati ed è
momento di concretizzazione di tutte le azioni
esercitate nel processo
esecutivo.
Da questa premessa
scaturisce la necessaria
conseguenza che, se, dopo
l’intervento di un creditore
munito di titolo esecutivo,
sopravviene l’illegittimità
dell’azione esecutiva esercitata dal creditore pignorante, non ne deriva la caducazione del pignoramento originariamente valido, ma questo resta quale
primo atto dell’iter espropriativo proprio del creditore intervenuto munito di
titolo esecutivo, il quale
prima ne era partecipe accanto al creditore pignorante che lo aveva eseguito. Lo sviluppo del percorso espropriativo prosegue,
dunque, sull’impulso che
gli da il creditore intervenuto esercitando la sua
azione esecutiva, sì da essere legittimati anche gli
interventi di altri creditori,
pur se successivi alla sopravvenuta
illegittimità
dell’azione esecutiva esercitata dal creditore pignorante.
6. L’intervento titolato.
La soluzione della
⎪ P.88
questione non può prescindere da una corretta
definizione dell’intervento
del creditore nell’azione
esecutiva introdotta da altro creditore con il pignoramento, attraverso le disposizioni che ne regolano
legittimazione, modi, tempi ed effetti.
Il testo dell’art. 499
c.p.c., precedente alle novelle, si limitava ad affermare che, oltre ai creditori
iscritti destinatari dell’avviso ex art. 498 c.p.c., possono intervenire nell’esecuzione gli altri creditori,
ancorché non privilegiati.
Prima la l. n. 80/2005, poi la
l. n. 263/2005 hanno definito la categoria dei soggetti
legittimati all’intervento,
rendendolo possibile: ai
creditori il cui credito sia
fondato su titolo esecutivo;
ai creditori che, al momento del pignoramento, abbiano eseguito un sequestro sui beni pignorati oppure abbiano un diritto di
prelazione risultante dai
pubblici registri o un diritto
di pegno; ai creditori che, al
momento del pignoramento, siano titolari di un credito in denaro risultante
dalle scritture contabili di
cui all’art. 2214 c.c.
L’art. 500 c.p.c. (con le
norme degli artt. 526, 551 e
564, che disciplinano gli
autonomi poteri di impulso
dei creditori concorrenti)
ne regola gli effetti, riconoscendo agli intervenuti, oltre al diritto a partecipare
alla distribuzione della
somma ricavata, non la
“possibilità” del diritto a
partecipare all’espropriazione del bene pignorato
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ed a provocarne i singoli atti (secondo la lettera
del testo vigente prima delle modifiche apportate dalle leggi su citate), ma, più incisivamente,
il diritto a partecipare sia alla distribuzione, sia
all’espropriazione del bene con l’annesso potere di provocare i singoli atti espropriativi.
Quanto alle facoltà dei creditori tempestivamente intervenuti nell’espropriazione immobiliare, l’art. 564 c.p.c. (sia nel vecchio, sia
nel nuovo testo) stabilisce che essi partecipano
all’espropriazione dell’immobile pignorato e, se
muniti di titolo esecutivo, possono provocarne i
singoli atti; analoghe facoltà sono riconosciute
dall’art. 566 c.p.c. ai creditori iscritti e privilegiati intervenuti tardivamente, ma muniti di titolo esecutivo.
L’immodificato art. 629 c.p.c., in tema di
estinzione del processo esecutivo per rinuncia
agli atti, prevede che, prima dell’aggiudicazione
e dell’assegnazione, la rinuncia debba provenire non soltanto dal creditore procedente, ma
anche dai creditori intervenuti muniti di titolo
esecutivo, i quali (come nessuno dubita) possono giovarsi del vincolo apposto sul bene del creditore rinunziante; dopo la vendita, il processo
si estingue se rinunciano agli atti “tutti i creditori concorrenti”.
7. La composizione del contrasto.
Dalla complessiva lettura e corretta interpretazione di queste disposizioni le S.U. ricavano il convincimento che la giusta ricostruzione
da attribuirsi alla vicenda in esame sia quella
effettuata da Cass. n. 427/1978 e non da Cass. n.
3531/2009 e che, dunque, la soluzione da scegliere sia quella sopra sintetizzata sub B).
Bisogna riconoscere, infatti, che nel sistema (quale il nostro) che accoglie il principio
della par condicio creditorum e rifiuta il riconoscimento del diritto “di priorità” al creditore
procedente (diritto, invece, riconosciuto nel sistema tedesco), dal citato art. 500 c.p.c. deve
farsi derivare che il creditore intervenuto munito di titolo esecutivo si trova in una situazione
paritetica a quella del creditore procedente, potendo sia l’uno, sia l’altro dare impulso al processo esecutivo con il compiere o richiedere al
giudice il compimento di atti esecutivi.
Sia il creditore pignorante, sia quello interveniente (munito di titolo) sono, in buona sostanza, titolari dell’azione di espropriazione che
deriva dal titolo di cui ciascuno di essi è munito
e che ciascuno di essi esercita nel processo esecutivo.
A sua volta, l’azione esecutiva si concretizza
in un iter composto di una serie di atti espropriativi compiuti dal creditore o, su sua richiesta, dal giudice, dei quali l’uno presuppone il
compimento dell’altro che lo precede. Questo
requisito di “completezza” appartiene a tutte le
azioni esecutive, parallele e concorrenti, che
sono esercitate nel processo esecutivo; ossia, a
quella del creditore pignorante ed a quelle dei
singoli creditori intervenuti, muniti di titolo
esecutivo.
Pertanto, l’atto di esercizio della propria
azione esecutiva da parte di un legittimato è
anche atto di esercizio delle azioni esecutive degli altri legittimati. Ed, in questo senso, correttamente il precedente del 1978 afferma che l’atto compiuto da un legittimato si partecipa agli
altri legittimati ed è momento di concretizzazione di tutte le azioni esecutive esercitate nel processo.
Ciò, ovviamente, vale anche per gli atti esecutivi compiuti dal creditore pignorante prima
dell’intervento c.d. “titolato” ed, in particolare,
per il pignoramento. Cosicché, nel momento
dell’intervento, il creditore munito di titolo, che
è legittimato al compimento dei singoli atti
espropriativi, compie atto d’esercizio dell’azione esecutiva e perciò partecipa al pignoramento già da altri eseguito; pignoramento che si pone come indispensabile, primo atto di concretizzazione dell’azione esecutiva in ipotesi spettante anche al creditore intervenuto in forza di
titolo esecutivo e necessario presupposto degli
atti esecutivi successivi.
In questo senso, si diceva prima dell’oggettivizzazione degli atti compiuti nel corso della
procedura espropriativa, i quali prescindono
dal soggetto che concretamente li ha posti in
essere (purché, ovviamente, munito di titolo
esecutivo nel momento del relativo compimento, secondo quanto appresso si preciserà) e si
compongono in un’unica sequenza che parte
dal pignoramento (da qualunque dei creditori
posto in essere) per concludersi con la vendita
del bene pignorato, cui segue la distribuzione
del ricavato.
Con quanto sinora detto le SU non intendono rinnegare la tradizionale regola secondo cui
nulla executio sine titulo, piuttosto intendono
affermare il principio secondo cui:
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.89
⎪
“nel processo d’esecuzione, la regola secondo cui
il titolo esecutivo deve esistere dall’inizio alla fine
della procedura va intesa
nel senso che essa presuppone non necessariamente
la costante sopravvivenza
del titolo del creditore procedente, bensì la costante
presenza di almeno un valido titolo esecutivo (sia
pure dell’interventore) che
giustifichi la perdurante
efficacia dell’originario pignoramento. Ne consegue
che, qualora, dopo l’intervento di un creditore munito di titolo esecutivo, sopravviene la caducazione
del titolo esecutivo comportante l’illegittimità dell’azione esecutiva dal pignorante esercitata, il pignoramento, se originariamente valido (secondo
quanto si preciserà in seguito), non è caducato,
bensì resta quale primo atto dell’iter espropriativo riferibile anche al creditore
titolato intervenuto, che
prima ne era partecipe accanto al creditore pignorante”.
In altri termini, una
volta iniziato il processo in
base ad un titolo esecutivo
esistente all’epoca, il processo stesso può legittimamente proseguire, a prescindere dalle sorti del titolo originario, se vi siano intervenuti creditori a loro
volta muniti di valido titolo
esecutivo.
Dell’atto iniziale del
processo (il pignoramento)
si avvarranno, peraltro,
non solo il creditore intervenuto in forza di valido titolo esecutivo, ma anche
⎪ P.90
gli altri creditori, pur se intervenuti successivamente
alla sopravvenuta illegittimità dell’azione esecutiva
esercitata dal creditore pignorante.
La regola secondo cui
l’esecuzione forzata debba
sempre essere sorretta da
un titolo esecutivo, benché
questo,
oggettivamente,
possa cambiare, senza perciò determinare interruzioni nell’esercizio dell’azione esecutiva, trova un
corrispondente codicistico
che concerne proprio titoli
esecutivi di creditori diversi: si tratta della successione o trasformazione soggettiva regolata dall’art.
629 c.p.c., in ragione del
quale se, prima della vendita, il procedente rinunzia
all’esecuzione, il creditore
intervenuto munito di titolo può scegliere di continuarla per la sola sua soddisfazione. Qui, insomma,
l’esecuzione è iniziata da
un creditore e viene continuata da altro creditore,
con un fenomeno successorio interno al processo
esecutivo.
È proprio l’indiscutibile pariteticità di posizioni
tra creditore pignorante e
creditore titolato interveniente, nonché quella che
potremmo definire la interscambiabilità degli atti,
nel quadro di completezza
dell’azione esecutiva (con
tutte le conseguenze delle
quali s’è detto), che pone in
dubbio la tesi sostenuta
dall’arresto del 2009. Tesi
(come s’è visto) fondata sul
principio di autonomia dei
singoli pignoramenti (sancito dall’art. 493 c.p.c.), il
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quale condurrebbe “alla speculare conclusione
che il pignoramento iniziale del creditore procedente, se non integrato da pignoramenti successivi, travolge ogni intervento, titolato o meno, nell’ipotesi di sua successiva caducazione”.
Infatti, che, ai sensi dell’art. 493 c.p.c., ciascun pignoramento, tra quelli che hanno colpito il medesimo bene, abbia “effetto indipendente” rispetto agli altri, e, quindi, pur nell’unità del
processo, conservi la propria individualità ed
autonomia, è principio indiscusso in dottrina ed
in giurisprudenza (Per tutte, cfr. Cass. n. 548/
1973, la quale ne fa conseguire che, nell’ipotesi
di pluralità di pignoramenti eseguiti prima dell’udienza fissata per l’autorizzazione della vendita, le vicende di uno di essi non toccano gli
altri, cosicché il processo di espropriazione —
ben potendo essere sorretto anche da uno solo
dei pignoramenti, per il connotato di fungibilità
che ne caratterizza il rapporto — continua a
svolgersi validamente fino a che non vengano
meno tutti i pignoramenti).
Ciononostante, questo principio non consente di farvi conseguire una sorta di subordinazione del creditore titolato interveniente rispetto a quello procedente e che, soprattutto, il
primo sia tenuto ad effettuare (invece che l’intervento) un proprio, autonomo pignoramento,
al fine di non essere travolto dell’eventuale, infausta sorte del titolo del procedente. In altri
termini, la circostanza che il legislatore abbia
voluto esplicitamente sancire l’autonomia di
ciascun pignoramento caduto sul medesimo
bene (così da impedire che le sorti processuali
dell’uno non ricadessero sull’altro) non esclude
che dalla congerie degli elementi sopra esaminati non possa dedursi anche il principio di autonomia di ciascun intervento titolato rispetto
alla sorte del titolo posto a base dell’azione proposta dal creditore procedente.
Per altro verso, non pare peregrina l’osservazione contenuta nell’ordinanza di rimessione, secondo cui l’imporre il pignoramento a
qualunque creditore titolato, per evitare il rischio dell’estensione del travolgimento del titolo del procedente, non tiene in adeguata considerazione che proprio tale autonomia dei pignoramenti riuniti, se rende immuni i pignoramenti ulteriori dalla vicenda della caducazione
del titolo del pignorante principale, li dovrebbe
poi lasciare insensibili anche all’effetto positivo
della riunione, ossia all’estensione delle favore-
voli conseguenze delle attività che quello ha invalidamente posto in essere, se non compiute e
ripetute, stavolta validamente, anche da loro
stessi (visto che non è dimostrata la tesi che la
riunione giova ma non nuoce ai soggetti dei
processi riuniti).
Neppure convince l’affermazione (anch’essa contenuta nella sentenza in commento)
secondo cui la disposizione dell’art. 629 c.p.c.
(che, ai fini dell’estinzione del processo esecutivo, chiede la rinuncia tanto del procedente,
quanto degli intervenienti titolati) costituirebbe
una norma derogatoria al principio d’autonomia dei pignoramenti sancito dall’art. 493 c.p.c..
Piuttosto che derogare al sistema, la prima delle
menzionate disposizioni sembra integrare con
coerenza l’altra disposizione di cui all’art. 500
c.p.c. (e tutte quelle che nelle singole espropriazioni disciplinano gli autonomi poteri di impulso dei creditori concorrenti), per configurare un
meccanismo processuale in base al quale i creditori titolati intervenuti possono compiere gli
atti dell’esecuzione, in luogo del procedente, e
proseguire il procedimento anche se quest’ultimo rinunzi agli atti.
Le S.U. sono consapevoli che le conclusioni
alle quali sono pervenute pongono in crisi quell’autorevole parte della dottrina che ha da sempre attribuito carattere soggettivo agli atti compiuti nel corso del procedimento esecutivo ed,
in questo ordine di idee, ha negato l’interscambiabilità degli atti alla quale in precedenza s’è
fatto riferimento. Dottrina che, dunque, è pervenuta alle conclusioni che l’azione esecutiva di
un creditore titolato, se spiegata in via di intervento, non è in grado di sopravvivere all’interno
di una procedura esecutiva nell’ipotesi del venir meno del titolo del procedente, con l’ulteriore assunto per cui il pignoramento successivo
tutela incondizionatamente il creditore nell’ipotesi di caducazione del primo pignoramento,
facendo salva la procedura esecutiva avviata.
Tuttavia, siffatta teoria deve necessariamente essere posta a confronto con un contesto
legislativo e processuale profondamente mutato in questi ultimi anni; contesto che vede, per
un verso, la progressiva espansione del processo esecutivo rispetto a quello di cognizione (anche in ragione dell’ampliamento del catalogo
dei titoli esecutivi con la modifica dell’art. 474
c.p.c.), e, per altro verso, la tendenza legislativa
all’anticipazione della qualifica esecutiva del ti-
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.91
⎪
tolo di formazione giudiziale, il quale, a sua volta, è
perciò sempre meno dotato del requisito della stabilità.
Tutto questo porta a
dubitare che l’aggressione
esecutiva statale, legittimata dall’azione esecutiva
del creditore procedente,
debba svolgersi entro i soli
confini tracciati dal titolo
esecutivo di quest’ultimo.
Sembra, piuttosto, corretto
supporre (come fa altra
dottrina) che il titolo esecutivo del procedente sia
bensì fatto costitutivo di
questo potere di aggressione esecutiva che si concreta nel pignoramento, ma
non anche unico limite che
segna interamente ed inderogabilmente i confini
dell’esercizio dello stesso,
essendo possibile concepire che, con l’avvio processualmente legittimo di una
tale aggressione da parte
del procedente, si radichi
una compressione della
sfera patrimoniale del debitore non delimitata dal
credito dell’istante e della
quale possono beneficiare
tutti gli intervenienti, anche in assenza di aggressione esecutiva autonoma:
del resto, istituti quali la
conversione (art. 495 c.p.c.)
e la riduzione del pignoramento (art. 496 c.p.c.) dimostrano che, una volta
avviata una procedura esecutiva, occorre tener conto
di tutti i crediti nella stessa
azionati a prescindere dalla portata dell’azione esecutiva del procedente, sì da
far risultare la compressione della sfera patrimoniale
del debitore modulata in
⎪ P.92
funzione anche dell’interesse degli eventuali intervenienti.
Ed allora, ove venga
meno il titolo del procedente (titolo che olim ha legittimato l’atto di pignoramento), sembra ragionevole ritenere che il vincolo
espropriativo non venga a
sua volta caducato a fronte
della presenza di altri creditori intervenuti titolati, il
cui titolo esecutivo è in grado di legittimare il permanere della compressione
della sfera patrimoniale
del debitore. Non da ultimo
considerando che la riduzione del pignoramento
consentirebbe
l’adattamento della misura dell’esecuzione in corso al nuovo
panorama soggettivo-oggettivo emerso a seguito
dell’estromissione del procedente.
Questo
permanere
della procedura esecutiva
a vantaggio dei creditori titolati, a seguito della sopravvenuta caducazione
del titolo dell’istante, risulta poi funzionalmente congruo allo stesso art. 2913
c.c., che consente di ravvisare nel pignoramento un
fenomeno in grado di produrre effetti della cui utilità
possono usufruire anche
altri creditori che intervengono nella procedura esecutiva (c.d. vincolo a porta
aperta), senza tuttavia specificare se gli effetti in parola dipendono strettamente dal permanere dell’efficacia e dalla validità
del titolo esecutivo del creditore procedente (titolo in
forza del quale il pignoramento è stato originaria-
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mente posto in essere, ovvero siano in grado di
manifestarsi a prescindere dalle sue sorti).
8. Conseguenze applicative.
Tutto quanto finora premesso giustifica,
dunque, l’affermazione del principio secondo
cui la caducazione del titolo posto a base dell’azione esecutiva del creditore procedente non
travolge la posizione degli interventori titolati, a
prescindere dalla circostanza che dopo il relativo pignoramento ve ne sia stato altro successivo.
Tuttavia, siffatto principio è soggetto a precisazioni che qui di seguito devono essere svolte, con l’avvertenza che questo intervento delle
S.U. si limita all’enunciazione di canoni “di sistema”, riferiti ai titoli esecutivi di formazione
giudiziale, come richiesto dal caso portato all’attenzione dall’ordinanza di rimessione.
1) Innanzitutto va chiarito (come fa il precedente del 1978 (nella vicenda sottostante a
questo precedente il creditore aveva effettuato
un primo pignoramento sulla base di un decreto ingiuntivo esecutivo.
A distanza di circa tre anni egli stesso era
intervenuto (così come altri creditori) nel processo esecutivo per diverso credito contro il
medesimo debitore, sulla base di altro decreto
ingiuntivo esecutivo.
All’esito del giudizio d’opposizione, il giudice del merito affermava che, pur risultando
estinto il credito di cui al primo decreto ingiuntivo (così come il pignoramento ad esso connesso), restava valido l’intervento effettuato dal
creditore in base al secondo decreto ingiuntivo,
posto che tale intervento era stato effettuato in
un processo esecutivo che, nonostante l’estinzione del pignoramento, era in corso per l’intervento di altri creditori muniti di titolo esecutivo.
La Corte di legittimità ha cassato la sentenza,
assegnando al giudice del rinvio il compito di
accertare se, nella specie, almeno un creditore
munito di titolo esecutivo fosse intervenuto nel
processo prima del sopravvenire dell’illegittimità dell’azione esecutiva esercitata dal creditore pignorante sulla base del primo decreto
ingiuntivo) che quel principio di fondo non trova applicazione nel caso in cui uno o più creditori, muniti di titolo esecutivo, intervengano nel
processo esecutivo dopo che sia stata pronunciata la caducazione del titolo esecutivo del creditore procedente e, quindi, sia sopravvenuta
l’illegittimità dell’azione esecutiva da lui eserci-
tata. In questa ipotesi, il pignoramento, relativo
a processo nel quale non sia ancora intervenuto
alcun creditore munito di titolo esecutivo, diviene invalido e rende illegittima l’azione esecutiva fino a quel momento esercitata.
Sicché, non esistendo un valido pignoramento al quale ricollegarsi, il processo esecutivo è ormai improseguibile e non consente interventi successivi.
2) Il principio è da intendersi riferito all’ipotesi di sopravvenuta invalidità del titolo esecutivo derivata dalla c.d. caducazione, dalla
quale occorre distinguere le diverse ipotesi di
invalidità originaria del pignoramento, sia per
difetto ab origine di titolo esecutivo, sia per vizi
intrinseci all’atto o per mancanza dei presupposti processuali dell’azione esecutiva.
Quanto a questi ultimi, indiscutibile è l’invalidità di tutti gli atti esecutivi posti in essere
aseguito di pignoramento invalido per vizi dell’atto in sé o per vizi degli atti prodromici (ove
non sanati o non sanabili per mancata tempestiva opposizione), oppure per impignorabilità
dei beni od, ancora, per lesione dei diritti dei
terzi fatti valere ex art. 619 c.p.c., ecc. sicché
venendo meno l’atto iniziale del processo esecutivo viene travolto quest’ultimo, con gli interventi, titolati e non titolati, in esso spiegati.
Quanto, invece, al difetto originario del titolo esecutivo, si tratta di situazione che, per un
verso, si presta a specificazioni che danno luogo
ad una vasta casistica (la quale non può certo
essere esaminata in questa sede), ma che, per
altro verso, merita le precisazioni che seguono.
Fermando l’attenzione sulle ipotesi più frequenti, essa comporta l’inapplicabilità del principio sopra espresso nel caso in cui il titolo esecutivo giudiziale sia inficiato da un vizio genetico che lo renda inesistente o nel caso in cui
l’atto posto a fondamento dell’azione esecutiva
non sia riconducibile ab origine al novero dei
titoli esecutivi di cui all’art. 474 c.p.c., anche
quanto ai caratteri del credito imposti dal primo
comma, quali risultanti dal titolo stesso.
Non è assimilabile alla situazione di mancanza ab origine di titolo esecutivo la situazione
che viene a determinarsi quando il titolo esecutivo di formazione giudiziale, che sia astrattamente riconducibile alla previsione dell’art. 474
c.p.c., comma 2, n. 1, “venga meno” in ragione
delle vicende del processo nel quale si è formato, cioè sia caducato per fatto sopravvenuto.
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.93
⎪
Si intende dire che, in
tale ultima eventualità, ai
fini dell’applicazione del
principio di “conservazione” del processo esecutivo
in cui siano presenti creditori titolati, non rileva — né
occorre verificare, in sede
esecutiva e/o oppositiva —
se il titolo esecutivo di formazione giudiziale sia venuto meno con efficacia ex
tunc ovvero ex nunc, in ragione degli effetti del rimedio esperito nella sede cognitiva.
Così, esemplificando,
ad infausta sorte sono destinati gli interventi titolati
nel caso in cui il creditore
procedente abbia azionato
un provvedimento non
idoneo,
nemmeno
in
astratto, a fondare l’azione
esecutiva (quali, ad esempio, la sentenza inesistente
o di condanna generica o il
decreto ingiuntivo privo di
efficacia esecutiva), non
anche quando il provvedimento, costituente titolo
esecutivo al momento di
esercizio dell’azione esecutiva, sia venuto meno
per le vicende del processo
nel quale si è venuto a formare. In particolare, quanto a tale ultima eventualità,
è indifferente se, in caso di
sentenza, si sia trattato di
impugnazione ordinaria o
straordinaria, ovvero, in
caso di decreto ingiuntivo,
si sia trattato di revoca per
difetto dei presupposti ex
art. 633 c.p.c., ovvero per
accoglimento nel merito
dell’opposizione, o, in caso
di ordinanza di condanna
provvisoriamente esecutiva, si sia trattato di revoca o
di modifica per ragioni di
⎪ P.94
rito o di merito, etc. In tutte
queste ipotesi, il processo
esecutivo iniziato in forza
di titolo esecutivo, all’epoca valido, non è travolto in
presenza di creditori intervenuti con titolo esecutivo
tuttora valido.
In conclusione, rileva
che l’esecuzione forzata risulti formalmente legittima, anche se, per ipotesi,
sia sostanzialmente ingiusta, essendo perciò sufficiente — affinché il creditore intervenuto con titolo
non subisca gli effetti del
venir meno dell’azione
esecutiva del creditore
procedente — che esista
un titolo esecutivo in favore di quest’ultimo, non anche che sia esistente il diritto di credito in esso rappresentato.
9. Conclusioni.
In conclusione, l’originaria mancanza di titolo
esecutivo o l’invalidità originaria del pignoramento
minano la legittimità stessa
dell’esecuzione e la rendono viziata sin dall’origine.
Sicché, agli interventi
manca lo stesso presupposto legittimante al quale
validamente riferirsi.
Diverso è il caso in cui
l’azione esercitata dal creditore procedente sia originariamente sorretta da un
titolo esecutivo e, dunque,
l’azione espropriativa sia
stata validamente iniziata,
ma il titolo fondante sia
stato successivamente invalidato. In questo caso, il
creditore procedente non
potrà più proseguire nella
sua azione, ma gli interventori titolati, in forza del
principio tempus regit ac-
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tum (che trova applicazione anche in ambito
processuale), si gioveranno degli atti (a cominciare dal pignoramento) fino ad allora da lui
validamente compiti compiuti.
Per quanto riguarda in particolare il titolo
giudiziale costituito dalla sentenza di condanna, ritengono le S.U. di aderire a quella dottrina
che pone in rapporto la disposizione del comma
2 dell’art. 336 c.p.c. (“La riforma o la cassazione
estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti
dipendenti dalla sentenza riformata o cassata”)
con l’altra dell’art. 629 c.p.c., comma 2 (“Dopo la
vendita il processo si estingue se rinunciano
agli atti tutti i creditori concorrenti”), per dedurne che, mentre nel caso dell’esecuzione condotta dal solo creditore procedente il sopravvenire
del difetto del titolo comporta la decadenza degli atti compiuti sulla base del titolo caducato,
nel caso dell’esecuzione compiuta da più creditori concorrenti titolati il venir meno del titolo
del procedente comporta la concentrazione sui
concorrenti del potere di compiere gli atti ulteriori della procedura. Sicché, ciò che viene travolto è il potere del creditore procedente di
compiere ulteriori atti d’impulso, non anche la
validità degli atti compiuti, tra cui, soprattutto, il
pignoramento.
Con le precisazioni sopra esposte può essere accolta la distinzione tra difetto originario e
difetto sopravvenuto del titolo del creditore
procedente, laddove solo il primo impedisce
che l’azione esecutiva prosegua anche da parte
degli interventori titolati, mentre il secondo
consente l’estensione in loro favore di tutti gli
atti compiuti finché il titolo del creditore procedente ha conservato validità.
Dato quanto sopra, può dirsi che la scelta
del creditore tra l’agire mediante un proprio pignoramento o intervenire nell’azione espropriativa già da altri introdotta non è scelta “di
rischio” (come sostiene il precedente del 2009),
ma è scelta ponderata in base alla valutazione
del titolo del procedente e della regolarità formale dell’atto di pignoramento e del processo
cui ha dato luogo.
Scelta ponderata che da, pertanto, ragione
della stessa esistenza della norma di cui all’art.
493 c.p.c. (che è posta a pilastro della soluzione
accolta dall’arresto del 2009 e che potrebbe, altrimenti, apparire superflua alla luce della soluzione oggi prescelta): il pignoramento successivo conserva una sua ragion d’essere proprio
in relazione alle ipotesi (che il creditore interveniente ben può prospettarsi ab origine) di
inesistenza/nullità/inefficacia originaria dell’atto di pignoramento con il quale il primo creditore ha dato inizio alla procedura esecutiva.
È utile per ultimo osservare — lo si accennava già in precedenza — che questa soluzione
appartiene al sistema della procedura espropriativa (tant’è che la giurisprudenza di legittimità v’era già pervenuta un quarto di secolo fa)
e che le recenti novelle non fanno altro che aggiungere ulteriori spunti argomentativi, dal
momento che (come pone in evidenza l’ordinanza di rimessione) esse tendono al recupero
d’efficienza del processo esecutivo individuale,
attraverso una selezione “a monte” dei soggetti
abilitati a prendervi parte, trasferendo nella sede cognitiva ogni questione sulla sussistenza
delle condizioni soggettive dell’azione esecutiva e correlativamente ampliando notevolmente
il catalogo dei titoli esecutivi, pure stragiudiziali.
A queste considerazioni giuridiche devono
aggiungersene altre di ordine pratico a sostegno dell’opzione accolta.
In primo luogo, l’opposta tesi esprime la
preoccupazione che la mancanza di un qualsivoglia obbligo od onere di comunicazione dell’intervento al debitore comporta che questi,
esperita vittoriosamente l’azione volta alla caducazione del titolo del creditore procedente,
potrebbe, per difetto incolpevole di conoscenza, nonostante ciò trovarsi esposto all’azione
esecutiva esercitata dall’interventore ove a
questi si ritenesse consentita la prosecuzione
dell’azione pur nell’ormai avvenuta caducazione del titolo esecutivo originario.
Tuttavia, quella tesi, cosi opinando, non
s’accorge di giungere (lo rileva, a ragione, l’ordinanza di rimessione) alla sostanziale svalutazione e vanificazione dell’intervento, finendo
per imporre la scelta del pignoramento autonomo, così da evitare il rischio derivante dall’intervento stesso. Il che, comporterebbe l’incontrollata ed insostenibile proliferazione delle
procedure esecutive, tutte in via principale, con
effetti perversi per l’amministrazione della giustizia e palese violazione del principio di economia processuale, soprattutto in un sistema in
cui i titolo esecutivi sono sempre meno caratterizzati dalla stabilità, anche quando di formazione giudiziale. Sicché, è vero che secondo
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.95
⎪
quella tesi, per un verso, il
debitore esecutato, una
volta caducata l’azione
principale non avrebbe più
da temere nulla riguardo
agli eventuali interventi,
ma è altrettanto vero che il
debitore stesso sarebbe
esposto ai lievitati costi
delle moltiplicate procedure, con il conseguente danno costituito dalla riduzione della somma ricavata e
destinabile
all’effettivo
soddisfacimento dei creditori.
Va altresì considerato
che, opinando per quella
stessa tesi, si finirebbe per
assoggettare il creditore
intervenuto all’impossibile
valutazione della capacità
del titolo esecutivo, anche
se di formazione giudiziale, di resistere non solo alle
azioni avverse, ma anche a
tutte le impugnazioni, sia
ordinarie che straordinarie.
Cosicché, anche sul
piano pratico appare giustificata la scelta operata.
In conclusione, può essere enunciato il seguente
principio:
“Nel processo di esecuzione forzata, al quale
partecipino più creditori
concorrenti, le vicende relative al titolo esecutivo del
creditore procedente (sospensione, sopravvenuta
inefficacia, caducazione,
estinzione) non possono
ostacolare la prosecuzione
dell’esecuzione sull’impulso del creditore intervenuto il cui titolo abbia conservato la sua forza esecutiva.
Tuttavia, occorre distinguere: a) se l’azione esecutiva si sia arrestata prima o
⎪ P.96
dopo l’intervento, poiché
nel primo caso, non esistendo un valido pignoramento al quale gli interventi possano ricollegarsi,
il processo esecutivo è improseguibile; b) se il difetto
del titolo posto a fondamento del’azione esecutiva
del creditore procedente
sia originario o sopravvenuto, posto che solo il primo impedisce che l’azione
esecutiva prosegua anche
da parte degli interventori
titolati, mentre il secondo
consente l’estensione in
loro favore di tutti gli atti
compiuti finché il titolo del
creditore procedente ha
conservato validità”.
10. La decisione sul
ricorso in trattazione.
S’è già detto in precedenza, quanto al primo
motivo di ricorso (denunziante l’omessa pronunzia
sulle domande volte a far
dichiarare l’invalidità di
tutti gli atti compiuti nel
processo esecutivo dal creditore e ad ottenerne la
condanna ex art. 96 c.p.c.),
che la sentenza impugnata
se, per un verso, ha omesso
di pronunciarsi esplicitamente sulla domanda di
declaratoria di nullità di
tutti gli atti esecutivi posti
in essere dal creditore (la
Banca Nazionale del Lavoro) del quale è stata riconosciuta l’inesistenza del diritto a procedere esecutivamente, per altro verso ha
respinto la pretesa dei debitori esecutati del venir
meno di analogo diritto anche in capo all’altro pignorante (la Banca Commerciale Italiana). Il che equivale all’implicita afferma-
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
zione che la validità di quest’ultimo pignoramento riunito sia idonea a fondare da sola la
validità di tutti gli atti esecutivi. Si verifica, dunque, l’incompatibilità tra la pretesa avanzata col
capo di domanda non espressamente esaminato e l’impostazione logico giuridica della pronuncia; incompatibilità, che esclude il vizio di
omessa pronuncia.
L’implicita affermazione della quale s’è
detto costituisce corretta applicazione dei principi sopra enunciati, giacché i creditori intervenuti hanno potuto giovarsi del legittimo pignoramento, nonché di tutti gli atti esecutivi effettuati dalla Banca Commerciale Italiana.
Risulta implicitamente rigettata anche la richiesta risarcitoria ex art. 96 c.p.c., avendo il
giudice motivato circa la compensazione delle
spese di lite; sì da far ritenere l’implicita esclusione, nel caso di specie, del presupposto richiesto anche per la condanna di Banca Nazionale del Lavoro, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 2.
Quanto al secondo motivo (denunziante
l’omessa o illogica motivazione circa la disposta
compensazione delle spese di lite), basti dire
che il giudice del merito ha esercitato il suo relativo potere discrezionale, motivando in relazione al complessivo esito della lite.
Il ricorso deve essere, dunque, respinto. La
complessità delle questioni trattate consiglia
l’intera compensazione tra tutte le parti delle
spese sopportate per il giudizio di cassazione.
(Omissis).
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.97
⎪
SENTENZA CASS. CIV. 20 GENNAIO 2014 N. 999
SEZ. III PRES. BERRUTI REL. CIRILLO
RESPONSABILITÀ CIVILE - Responsabilità aquiliana - Responsabilità da cose in custodia - Differenze - Sussistenza - Effetti.
C.C. ARTT.
2043, 2051
L’azione di responsabilità fondata sulla violazione di un obbligo di custodia è intrinsecamente diversa da quella fondata sul principio generale del neminem laedere.
FATTO. 1. V.E. conveniva in giudizio il Comune di
Sorrento, davanti al Tribunale di Torre Annunziata,
Sezione distaccata di Sorrento, chiedendo il risarcimento dei danni conseguenti ad una caduta dovuta al manto stradale sconnesso e dissestato.
Costituitosi il Comune,
il Tribunale rigettava la domanda
2. Avverso tale pronuncia proponeva appello
la V. e la Corte d’Appello di
Napoli, con sentenza del 19
febbraio 2007, rigettava
l’appello, confermava la
sentenza impugnata e
compensava integralmente le spese del grado.
Osservava la Corte territoriale che l’attrice aveva
chiesto in primo grado la
condanna ai sensi dell’art.
2043 c.c., sicché non poteva
essere proposta per la prima volta in appello la diversa domanda fondata
sull’art. 2051 c.c., richiedendo i due tipi di responsabilità l’accertamento di
elementi di fatto diversi.
Ciò premesso, la Corte,
richiamati alcuni precedenti della giurisprudenza
di legittimità, dichiarava
⎪ P.98
che l’attrice non aveva dimostrato la sussistenza dei
fatti costitutivi posti a fondamento della domanda,
in particolare in relazione
alla natura di insidia o trabocchetto costituita dal
manto stradale. Nella specie, infatti, era risultato che
la V. stava camminando su
di una strada dissestata e
che era caduta a causa di
un tombino il cui coperchio
era malfermo; non sussisteva, quindi, una situazione “oggettivamente pericolosa creata colposamente
dalla P.A.”, in quanto l’appellante avrebbe potuto
“facilmente evitare la prevedibile situazione di pericolo con l’adozione della
più elementare accortezza”. La situazione dei luoghi imponeva un’andatura
particolarmente prudente,
magari evitando di transitare per quella strada e, comunque, evitando “di camminare sul tombino che, ad
un controllo visivo, appariva malfermo e mobile”.
3. Avverso la sentenza
della Corte d’appello di
Napoli propone ricorso la
V., con atto affidato a sei
motivi.
Resiste il Comune di
Sorrento con controricorso.
DIRITTO. 1. Col primo
motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art.
360, comma 1, n. 3), c.p.c.,
violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113,
115 e 116 c.p.c.
Rileva la ricorrente
che la sentenza, dopo aver
affermato che la domanda
proposta ai sensi dell’art.
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
2051 c.c. sarebbe nuova, perviene poi al rigetto
della domanda sul presupposto che non vi sarebbe una domanda nuova. D’altra parte, l’accertamento dei fatti contenuto nella sentenza
(inciampo su di un tombino malfermo) non costituisce domanda nuova rispetto a quella originariamente proposta (inciampo su manto
stradale dissestato), sicché la sentenza d’appello avrebbe dovuto correttamente riformare
quella di primo grado.
2. Col secondo motivo di ricorso si lamenta,
in riferimento all’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c,
omessa o insufficiente motivazione circa profili
fondamentali e decisivi per la controversia, oltre a inadeguato ed incongruo apprezzamento
delle circostanze evidenziate dalla prova testimoniale.
Dall’istruttoria svolta — ed in particolare
dalla deposizione della teste S. — risulterebbechiaramente che l’instabilità del tombino che
ha causato la caduta non era visibile né prevedibile per un passante che transitava per la
strada, il che dimostrerebbe in modo chiaro
l’erroneità della ricostruzione operata dal giudice d’appello.
3. Col terzo motivo di ricorso si lamenta, ai
sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 c.c.
Rileva la ricorrente che la domanda da lei
proposta in primo grado non era fondata in via
esclusiva sul principio del neminem laedere di
cui all’art. 2043 c.c., perché in essa si era evidenziata, in modo generico, “soltanto la precisa
responsabilità del sinistro a carico dell’ente comunale convenuto, per legge tenuto alla regolare manutenzione, ordinaria e straordinaria,
del locale manto stradale cittadino”; la domanda, quindi, si fondava su entrambi i titoli di responsabilità (artt. 2043 e 2051 c.c.). Pertanto
non sarebbe esatta l’affermazione della Corte
napoletana secondo cui la domanda basata sull’art. 2051 c.c. non era stata proposta; e comunque il giudice, a prescindere dal nomen iuris, ha
il potere-dovere di attribuire la giusta qualificazione giuridica all’azione proposta.
4. Col quarto motivo di ricorso si lamenta,
in riferimento all’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c.,
omessa o insufficiente motivazione circa profili
fondamentali e decisivi per la controversia, oltre a incongruo apprezzamento delle circostanze evidenziate dalla prova testimoniale.
A norma dell’art. 2051 c.c., infatti, il custode
è responsabile salvo che provi il fortuito. Nella
specie, il Comune di Sorrento non avrebbe provato tale circostanza, indispensabile ai fini dell’esonero dalla responsabilità. Risulterebbe pacificamente, anzi, la condotta colposa del Comune nella tenuta della strada in questione,
perché è evidente che la presenza di un tombino sconnesso determina una colpa, almeno
concorrente, di chi è tenuto alla manutenzione
della strada.
5. Col quinto motivo di ricorso si lamenta,
ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c.
Rileva la V. che la sentenza impugnata sarebbe errata anche se si ritenesse applicabile
nella fattispecie l’ipotesi di cui all’art. 2043 c.c.
La più recente giurisprudenza di legittimità, infatti, ha depurato l’interpretazione di detta norma dalle figure della insidia e del trabocchetto,
ed ha posto in risalto che l’utente della strada è
tenuto soltanto a dimostrare il danno ed il nesso
di causalità, perché sulla pubblica amministrazione grava comunque un obbligo di mantenimento delle strade in buone condizioni.
6. Col sesto motivo di ricorso si lamenta, ai
sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), n. 4) e n. 5),
c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 61
c.p.c., in relazione all’omissione della CTU nonostante la sua indispensabilità.
Si rileva, al riguardo, che la CTU era stata
ritualmente chiesta fin dal primo grado e che il
giudice, anche d’appello, ne avrebbe erroneamente rifiutato l’ammissione.
DIRITTO.
7. Per ragioni di economia processuale
conviene procedere innanzitutto all’esame dei
motivi primo, terzo e quinto, i quali pongono
problemi fra loro connessi
Le censure, già sopra esposte, sono così riassumibili: 1) la sentenza impugnata avrebbe
errato nel ritenere che la domanda configurata
ai sensi dell’art. 2051 c.c. fosse nuova rispetto a
quella originaria, ai sensi dell’art. 2043 c.c., poiché i fatti prospettati nell’atto di citazione erano
riconducibili ad entrambe le fattispecie ed il tipo di addebito mosso al Comune di Sorrento
era, nella sostanza, il medesimo; 2) ai sensi dell’art. 2051 c.c., il Comune era tenuto, per andare
esente da responsabilità, a provare l’esistenza
del caso fortuito, cosa che non ha in alcun modo
dimostrato; 3) anche inquadrando la fattispecie
nell’ipotesi regolata dall’art. 2043 c.c., la ricor-
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore P.99
⎪
rente avrebbe comunque
fornito la prova dell’esistenza di una colpa in capo
al Comune convenuto, il
quale doveva essere condannato anche a prescindere dall’esistenza dell’obbligo di custodia.
L’esame di tali censure
impone di seguire un rigoroso iter logico che, attraverso i necessari richiami
alle precedenti pronunce
di questa Corte sull’argomento, consenta di pervenire alla soluzione.
7.1. Occorre innanzitutto affermare, quanto al
profilo della novità della
domanda proposta ai sensi
dell’art. 2051 c.c. rispetto a
quella di cui all’art. 2043
c.c., che questa Corte ha già
da tempo posto in luce come l’azione di responsabilità fondata sulla violazione di un obbligo di custodia
sia intrinsecamente, per
così dire, diversa da quella
fondata sul principio generale del neminem laedere.
Ciò in quanto “l’applicabilità dell’una o dell’altra
norma implica, sul piano
eziologico e probatorio, diversi accertamenti e coinvolge distinti temi d’indagine, trattandosi di accertare, nel primo caso, se sia
stato attuato un comportamento commissivo od
omissivo, dal quale è derivato un pregiudizio a terzi,
e dovendosi prescindere,
invece, nel caso di responsabilità per danni da cosa
in custodia, dal profilo del
comportamento del custode, che è elemento estraneo alla struttura della fattispecie normativa di cui
all’art. 2051 c.c., nella quale
⎪ P . 1 0 0r e s p o n s a b i l i t à
il fondamento della responsabilità è costituito dal
rischio, che grava sul custode, per i danni prodotti
dalla cosa che non dipendano dal caso fortuito” (così la sentenza 6 luglio 2004,
n. 12329, richiamando un
orientamento ancora più
risalente). In altre parole,
mentre l’azione ai sensi
dell’art. 2043 c.c. comporta
la necessità, per il danneggiato, di provare l’esistenza
del dolo o della colpa a carico del danneggiante, nel
caso di azione fondata sull’art. 2051 c.c. la responsabilità del custode è prevista
dalla legge per il fatto stesso della custodia, potendo
questi liberarsi soltanto attraverso la gravosa dimostrazione del fortuito. Ne
consegue un’ovvia differenza in ordine ai temi di
indagine ed al riparto dell’onere della prova, perché
nel primo caso il danneggiato dovrà attivarsi a dimostrare qualcosa, mentre
nel secondo sarà il danneggiante a doversi attivare.
Tale approdo giurisprudenziale è stato in seguito ribadito da questa
Corte (v. sentenze 23 giugno 2009, n. 14622; e 20
agosto 2009, n. 18520). E da
tanto si trae la dovuta conseguenza per cui, una volta
proposta in primo grado
una domanda ai sensi dell’art. 2043 c.c. — fondata,
ad esempio, sulle figure
dell’insidia e del trabocchetto, ancorché impropriamente richiamate —
non è consentito alla parte
in grado di appello fondare
la medesima domanda sul-
civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
la violazione dell’obbligo di custodia, perché ciò
verrebbe inevitabilmente a stravolgere il processo, mettendo il danneggiante nella situazione di doversi attivare quando una serie di preclusioni processuali si sono già maturate.
Dando per pacifica tale conclusione, la giurisprudenza più recente ha esplicitato in modo
ancora più chiaro che la domanda fondata sull’art. 2051 c.c. può non essere considerata nuova rispetto a quella fondata sull’art. 2043 c.c. —
e, quindi, improponibile in appello — solo se
l’attore abbia “sin dall’atto introduttivo del giudizio enunciato in modo sufficientemente chiaro situazioni di fatto suscettibili di essere valutate come idonee, in quanto compiutamente
precisate, ad integrare la fattispecie contemplata da detti articoli” (sentenze 21 giugno 2013, n.
15666; e 5 agosto 2013, n. 18609). Con la importante precisazione, però, che la regola probatoria di cui all’art. 2051 c.c., più favorevole per il
danneggiato, “in tanto può essere posta a fondamento dell’affermazione della responsabilità
del convenuto stesso in quanto non gli si ascriva
la mancata prova di fatti che egli non sarebbe
stato tenuto a provare in base al criterio di
imputazione ordinario della responsabilità
originariamente invocato dall’attore” (così la
sentenza n. 18609/2013).
7.2. Tali affermazioni, nitide al punto da
non richiedere ulteriori spiegazioni, consentono di affrontare la prima delle tre contestazioni
sopra riassunte, pervenendo a dichiararne l’infondatezza. La ricorrente, infatti, si limita ad
affermare che la domanda da lei proposta in
primo grado poteva essere inquadrata in entrambe le diverse fattispecie di responsabilità
civile, ma non fornisce alcuna prova al riguardo, anche ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6),
c.p.c. Né nel primo né nel terzo motivo, infatti, è
specificato quale fosse il tenore della domanda
originaria, sicché questa Corte non è in condizioni di valutare se l’affermazione della Corte
napoletana circa la novità della domanda di cui
all’art. 2051 c.c. — del tutto corretta in linea di
principio — sia da ritenere errata in relazione al
caso concreto.
La censura relativa al profilo della novità
della domanda è, pertanto, infondata.
8. Occorre, a questo punto, affrontare i
profili di possibile violazione degli artt. 2043 e
2051 c.c. sopra riassunti. A questo proposito, è
bene prendere le mosse dalle affermazioni con-
tenute nella sentenza impugnata (già riportate
nella parte in fatto) secondo cui dall’istruttoria è
risultatoche la V., insieme ad altri pedoni, stava
camminando in fila indiana su di una strada
dissestata e che era caduta a causa di un tombino il cui coperchio era malfermo; non sussisteva, quindi, una situazione “oggettivamente pericolosa creata colposamente dalla P.A.”, in
quanto l’appellante avrebbe potuto “facilmente
evitare la prevedibile situazione di pericolo con
l’adozione della più elementare accortezza”.
È bene ricordare che questa Corte, anche in
relazione all’ipotesi di responsabilità gravante
sul custode, ha affermato che il comportamento
colposo del danneggiato può — secondo un ordine crescente di gravità — atteggiarsi come
concorso causale colposo, valutabile ai sensi
dell’art. 1227, primo comma, c.c., ovvero addirittura giungere ad escludere del tutto la responsabilità del custode (v. sentenza 12 luglio
2006, n. 15779). Si è riconosciuto, cioè, che nel
concetto di caso fortuito può rientrare anche la
condotta della stessa vittima, la quale può interrompere il nesso eziologico esistente tra la causa del danno e il danno stesso (v., fra le altre, le
sentenze 22 aprile 2010, n. 9546; e 24 febbraio
2011, n. 4476). Tali principi valgono, a maggior
ragione, ove il fondamento giuridico della responsabilità del danneggiante venga rinvenuto
nell’art. 2043 c.c., come la Corte d’appello ha
fatto nel caso di specie richiamando le figure
dell’insidia e del trabocchetto.
Alla luce di queste premesse, la sentenza
impugnata, pur contenendo qua e là alcune
“imperfezioni”, resiste alle censure prospettate.
Ed infatti, poiché la V. stava transitando su di
una strada dissestata (fatto pacifico) — tanto
dissestata, anzi, che i pedoni procedevano in
fila indiana — è evidente che a suo carico gravava un onere massimo di attenzione. Ciò non
può spingersi, come osserva non correttamente
la sentenza impugnata, fino al punto di pretendere dall’utente la scelta di transitare per un’altra strada — essendo evidentemente nel potere-dovere del Comune chiudere il passaggio
ove il medesimo sia impraticabile — ma comporta l’onere della massima prudenza in quanto la situazione di pericolo è altamente prevedibile. Ed è proprio il concetto di prevedibilità che
toglie forza ai motivi di ricorso ora in esame: in
una strada dissestata è del tutto ragionevole l’esistenza di un tombino malfermo e mobile, sic-
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.101
⎪
ché la caduta in una situazione del genere può ricondursi anche alla esclusiva responsabilità del pedone, ovvero non si deve
ritenere di necessità “cagionata dalla cosa in custodia” (per riprendere la formula dell’art. 2051 c.c.).
Dal che deriva, in conclusione, il rigetto del primo, terzo e quinto motivo
di ricorso.
9. Gli ulteriori motivi
di ricorso rivestono un’importanza marginale e sono
infondati quando non addirittura inammissibili.
Ed infatti il secondo ed
il quarto motivo, entrambi
formulati in termini di vizio
di motivazione — oltre a
non contenere il prescritto
momento si sintesi, necessario trattandosi di ricorso
soggetto, ratione temporis,
al regime dell’art. 366-bis
c.p.c. — si risolvono in un
tentativo di ottenere da
questa Corte una nuova
valutazione del merito delle risultanze istruttorie, oltrepassando i limiti del giudizio di legittimità. Ciò è di
tutta evidenza in relazione
al secondo motivo; quanto
al quarto, esso in realtà
propone una censura che
sembra piuttosto di violazione di legge che non di
vizio di motivazione, e valgono al riguardo le osservazioni già fatte quanto ai
motivi primo, terzo e quinto.
In riferimento al sesto
motivo, infine, il Collegio
osserva che — anche trascurando le ragioni di
inammissibilità
conseguenti alla genericità del
quesito di diritto ed alla
⎪ P . 1 0 2r e s p o n s a b i l i t à
formulazione in modo tale
che non è dato comprendere con certezza di quale
CTU si lamenti il mancato
svolgimento — la decisione
circa la necessità o l’opportunità di ammettere una
consulenza tecnica spetta
al giudice di merito; e comunque, ove si tratti della
CTU medica finalizzata all’accertamento dell’entità
dei danni riportati dalla V.
(v. ricorso, p. 2), è del tutto
ovvio che la Corte d’Appello, in presenza di una domanda risarcitoria infondata, abbia escluso l’ammissione di uno strumento
processuale nella specie
superfluo.
10. In conclusione, il
ricorso è rigettato.
In considerazione delle modifiche, non sempre
univoche, della giurisprudenza di questa Corte sull’argomento, si ritiene conforme ad equità compensare integralmente le spese del giudizio di cassazione. (Omissis).
civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
Osservava la Corte territoriale, per quanto
SENTENZA CASS. CIV. 20
DICEMBRE 2013 N. 28612 ancora di interesse in questa sede, che non poSEZ. III PRES. MASSERA REL. teva condividersi la valutazione compiuta dal
giudice di primo grado circa il carattere fortuito
CIRILLO
TRASPORTI - Responsabilità del vettore - Limite - Caso fortuito e
forza maggiore - Fattore
del tutto estraneo - Natura.
C.C. ART.
1693
La presunzione di responsabilità ex recepto
può essere vinta solo dalla prova specifica della
derivazione del danno
da un evento positivamente identificato e del
tutto estraneo al vettore
stesso, ricollegabile alle
ipotesi del caso fortuito e
della forza maggiore.
FATTO. 1. La società Groupe Chegaray Paris, Assurances Maritimes et Transport, nonché
la SIACI (Societé intercontinentale d’assurance
pour le commerce e l’industrie), nella qualità di
cessionari del credito, convenivano in giudizio,
davanti al Tribunale di Genova, la s.p.a. Ferrari,
chiedendo il risarcimento dei danni pari al valore della merce consistente in gioielli - da loro
consegnata alla convenuta e poi oggetto di rapina dopo che la medesima era stata affidata a
tale M.D., autista e guardia giurata, per il trasporto in (...).
Costituitasi la società convenuta il Tribunale, dopo aver acquisito gli atti del procedimento
penale ed aver assunto testimonianze, rigettava
la domanda.
2. Avverso tale pronuncia proponevano
appello entrambe le società attrici e la Corte
d’appello di Genova, con sentenza dell’8 giugno
2007, in riforma di quella di primo grado, condannava la società Ferrari al pagamento della
somma di Euro 73.019,44, oltre interessi, in favore della Groupe Chegaray Paris e della somma di Euro 63.778,52, oltre interessi, in favore
della società SIACI, nonché al pagamento delle
spese di entrambi i gradi di giudizio.
della rapina, ai fini dell’art. 1693 c.c., e ciò per le
ragioni delle quali in seguito si dirà.
3. Avverso la sentenza della Corte d’appello di Genova propone ricorso la Ferrari s.p.a.,
con atto affidato a due motivi.
Resistono con un unico controricorso la
SIACI e la Groupama Transport, quest’ultima
nella qualità di successore della Groupe Chegaray Paris, Assurances Maritimes et Transport.
In seguito, la SIACI ha conferito mandato ad un
diverso difensore.
La società ricorrente e la società SIACI
hanno presentato memorie.
DIRITTO. 1. Col primo motivo di ricorso si
lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5),
c.p.c., motivazione omessa o insufficiente su un
profilo decisivo della controversia.
Secondo la società ricorrente, la Corte di
merito sarebbe incorsa in diversi errori di valutazione del fatto.
In particolare, la motivazione sarebbe insufficiente e contraddittoria sui seguenti punti:
1) credibilità della versione dei fatti fornita dall’autista M., che la sentenza sembra non condividere; 2) presunta agevolazione del fatto delittuoso, che sarebbe derivata dalle modalità del
trasporto, senza che la pronuncia abbia tenuto
conto della sicura presenza di un complice; 3)
mancata vigilanza armata della merce, circostanza inesatta perché il M. era armato, ma non
ha potuto far nulla contro tre rapinatori; 4) presunta conoscenza, da parte della società ricorrente, delle condotte illecite tenute dal consegnatario delle vetture, circostanza non rispondente al vero.
2. Col secondo motivo del ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c.,
violazione e falsa applicazione dell’art. 1693 c.c.
e dell’art. 115 c.p.c.
Osserva la ricorrente che la sentenza impugnata sarebbe in contrasto con la giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità del
vettore ex recepto.
A norma dell’art. 1693 c.c., la presunzione
di responsabilità a carico del vettore può essere
vinta solo attraverso la dimostrazione che il
danno è derivato da un evento, positivamente
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.103
⎪
identificato, del tutto estraneo al vettore stesso, come
la giurisprudenza ha ribadito anche in relazione all’ipotesi della rapina. Tale
principio è stato applicato
dalla giurisprudenza di legittimità in modo differente a seconda delle diverse
fattispecie.
In particolare, la società ricorrente osserva che la
rapina in questione è stata
compiuta da una banda di
criminali, con precisione
da veri ”professionisti”,
mentre il trasporto era stato organizzato con tutte le
cautele, in modo tale da
escludere le soste ed il rischio conseguente di assalti; i conducenti erano
due e il M. si era messo in
viaggio dopo aver dormito;
le vetture erano dotate dei
migliori sistemi di allarme
all’epoca esistenti, e l’autista era una guardia giurata
dotata di armi; le modalità
della rapina, infine, erano
tali da impedire ogni possibilità di difesa e di reazione, sicché nessun addebito
di negligenza poteva essere mosso al vettore.
3. I due motivi, che
possono essere esaminati
congiuntamente, sono privi di fondamento.
3.1. La giurisprudenza
di questa Corte ha in più
occasioni affermato che
l’art. 1693 c.c. pone a carico
del vettore una presunzione di responsabilità ex recepto, che può essere vinta
solo dalla prova specifica
della derivazione del danno da un evento positivamente identificato e del
tutto estraneo al vettore
stesso, ricollegabile alle
⎪ P . 1 0 4r e s p o n s a b i l i t à
ipotesi del caso fortuito e
della forza maggiore (v., tra
le altre, le sentenze 14 luglio 2003, n. 10980; 14 novembre 2006, n. 24209,; 21
aprile 2010, n. 9439; 17 giugno 2013, n. 15107; e 15 novembre 2013, n. 25756). La
valutazione dell’evento in
termini di evitabilità e di
caso fortuito è compito che
spetta al giudice di merito
ed è insindacabile in sede
di legittimità ove congruamente motivata.
Seguendo tali criteri, è
stato affrontato lo specifico
problema del furto e della
rapina e dei limiti entro i
quali tali eventi possono
scagionare il vettore da
ogni responsabilità. Si è
detto, ad esempio, che il
mero fatto che il vettore sia
stato aggredito con violenza alla persona non è evento di per sé scriminante,
dovendosi accertare la sua
diligenza nel prevedere la
possibilità di una rapina e
nel predisporre i mezzi per
evitarla (sentenza 8 agosto
2007, n. 17398, a proposito
di una rapina avvenuta in
ora notturna ed in area di
sosta isolata); allo stesso
modo, è stato escluso l’esonero di responsabilità del
vettore in relazione al furto
consumato su di un automezzo lasciato incustodito
all’interno di un’area portuale (sentenza n. 15107/
2013 cit.), nonché in relazione alla rapina in danno
di un container parcheggiato in ora notturna in zona incustodita (sentenza 27
marzo 2009, n. 7533).
Questa giurisprudenza
merita integrale conferma
nella sede odierna, tenen-
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do presente che il trasporto dei gioielli costituisce un’attività che impone di per sé particolari
forme di cautela, perché chi la svolge non può
non mettere nel necessario conto l’eventualità
di una rapina. Sicché il vettore è tenuto, al fine
di ottenere l’esonero dalla responsabilità, a dimostrare l’effettiva natura di caso fortuito in
riferimento ad un evento che - di per sé - non ha
tale connotato.
3.2. La Corte genovese ha fornito una motivazione pienamente adeguata in ordine alle
ragioni per le quali ha escluso che potesse, nella
specie, ricorrere l’ipotesi del caso fortuito. Essa
ha rilevato che, anche volendo attenersi alla
versione dei fatti fornita dall’autista M., questi
aveva parcheggiato la vettura, contenente i gioielli già caricati, all’interno di un cortile chiuso e
dotato di cancello, adiacente alla propria abitazione, e tanto già la sera prima della partenza.
Alle ore 3 del mattino successivo, egli era andato in cortile per partire ed era stato affrontato da
tre rapinatori armati i quali lo avevano costretto
a salire a bordo della sua auto con la propria
madre, dopo aver disinserito i sistemi di allarme, e lo avevano poi condotto verso la periferia
di (omissis) dove si erano impossessati dei gioielli, allontanandosi a bordo di un’altra vettura.
La Corte ha osservato che il comportamento tenuto dal vettore nell’organizzazione del
trasporto non era stato conforme al grado di
diligenza e prudenza imposto dal rilevante valore della merce. Nel caso in esame, infatti, il M.
non aveva vigilato il carico durante la notte,
compito che si sarebbe potuto svolgere facilmente con l’ausilio di una guardia giurata armata. Oltre a ciò, il comportamento della società
Ferrari si era segnalato per la “deplorevole
inerzia”, poiché essa si era servita per l’abituale
affidamento delle proprie vetture ad un’autorimessa il cui gestore era stato indagato per ricettazione, nonché trovato in possesso dei duplicati delle chiavi delle vetture; e, pur avendo subito, pochi giorni prima del fatto, il furto di una
vettura gemella a quella poi oggetto della rapina in esame, la società non si era preoccupata
neppure di sostituire le relative chiavi.
3.3. La sentenza, quindi, ha posto in luce
una serie di negligenze imputabili alla società
oggi ricorrente, tramite l’operato dell’autista M.
che è stato materialmente vittima della rapina:
1) aver caricato i gioielli la sera prima della partenza, lasciandoli dentro una vettura, sia pure
blindata, all’interno di un cortile protetto da un
muro facilmente scavalcabile, in una zona isolata; 2) aver dormito (il M. ) fino alle ore 3 del
mattino senza lasciare nessuno a guardia del
mezzo, dovendosi intendere il richiamo contenuto nella sentenza alla necessità che un’altra
persona armata, come una guardia giurata, vigilasse la vettura mentre il M. riposava; 3) non
aver percepito, da tutta una serie di elementi
indicati alla p. 15 della sentenza, che le vetture
di dotazione aziendale non erano affidate in
buone mani, tanto più che un furto su di una
vettura gemella era avvenuto circa due settimane prima, sicché il momento era, evidentemente, critico ed esigeva una cautela ben maggiore.
4. Si tratta, com’è agevole intuire, di considerazioni del tutto logiche e ben motivate, senza contraddizioni e senza lacune. A fronte di
simile motivazione, le censure contenute nei
due motivi di ricorso si risolvono - soprattutto
quella di vizio di motivazione - in una sostanziale richiesta di nuovo esame del merito.
Non è esatto, ad esempio, dire che la sentenza impugnata non abbia dato credito alla
versione dei fatti fornita dall’autista M. (v. pag. 6
del ricorso); la sentenza, invece, ha osservato
che, anche ipotizzando che essa fosse del tutto
veritiera, ciò non consentiva di escludere la responsabilità del vettore. La circostanza, evidenziata nel ricorso, secondo cui la rapina fu resa
più semplice dalla presenza di un complice non
toglie solidità alla motivazione della sentenza,
nella quale la Corte genovese ha proprio evidenziato che il vettore doveva essere in uno stato di massima allerta, per il fatto che la persona
alla quale venivano consegnate le vetture era
risultato indagato per ricettazione; in altre parole, la presenza di un complice era tutt’altro
che imprevedibile. Quanto, poi, alla circostanza
per la quale il viaggio era stato organizzato in
modo da evitare le soste, si tratta di un dato non
significativo, perché la stessa ricorrente precisa
che la destinazione finale era la (...), luogo evidentemente non tanto lontano rispetto alla città
di **, da dove il viaggio doveva avere inizio
La sentenza, quindi, resiste alle censure sia
di violazione di legge che di vizio di motivazione.
5. In conclusione, il ricorso è rigettato.
A tale pronuncia segue la condanna della
società ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di cassazione, liquidate in conformità
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⎪
ai soli parametri introdotti
dal decreto ministeriale 20
luglio 2012, n. 140, sopravvenuto a disciplinare i
compensi professionali. A
tal fine, si precisa che la liquidazione tiene conto del
fatto che, pur risultando i
due controricorrenti assistiti da due diversi difensori nel momento della decisione, il controricorso era
originariamente
unico.
(Omissis).
⎪ P . 1 0 6r e s p o n s a b i l i t à
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SENTENZA CASS. PEN. 12 bre 2009 al 13 novembre 2009 per esecuzione di
NOVEMBRE 2013 14 GENNAIO pena, dal 28 aprile 2010 al 13 dicembre 2010 per
2014 N. 1219 SEZ. IV PRES. applicazione di misura di sicurezza detentiva).
Assunto, quindi, quale parametro di riferiZECCA REL. ESPOSITO
PROCEDIMENTO
PENALE - Ingiusta detenzione - Riparazione Criteri - Uniformità pecuniaria.
C.P.P. ARTT.
314 E 315
Alla riparazione per ingiusta detenzione deve
essere assegnato un valore compensativo della
perdita della libertà,
prescindendo da ulteriori possibili conseguenze di natura economica derivanti dalla
stessa privazione: perciò, il ristoro deve avvenire omogeneamente
per tutti gli individui,
tramite un criterio rispondente ad un’uniformità pecuniaria di base.
FATTO. 1. Con ordinanza in data 23 aprile
2012 la Corte di Appello di Palermo accoglieva
parzialmente (domandati Euro 150,000,00, ritenuti Euro 44.640,00) l’istanza di riparazione per
l’ingiusta detenzione proposta da V.S. Costui
era stato sottoposto alla misura cautelare della
custodia in carcere dal 29 giugno 2009 al 13 dicembre 2010 nell’ambito di un procedimento
che lo aveva visto indagato per i delitti di rapina
aggravata e detenzione e porto di armi, conclusosi con sentenza di assoluzione per non aver
commesso il fatto.
La Corte territoriale riteneva che il V. non
avesse dato causa alla custodia cautelare subita,
poiché le accuse nei suoi confronti si erano fondate su un riconoscimento non confermato in
sede dibattimentale; escludeva, altresì, il diritto
all’indennizzo in relazione ai periodi per i quali
risultava altro titolo di detenzione (dal 1° otto-
mento quello aritmetico costituito dal rapporto
tra il tetto massimo dell’indennizzo di cui all’art.
315, comma 2, c.p.p., e il termine massimo della
custodia cautelare di cui all’art. 303, comma 4,
lett. e), c.p.p., avuto riguardo alla durata della
carcerazione ingiustamente subita, e considerate, nell’ambito di una valutazione complessivamente equitativa, la personalità del V., desumibile dai numerosi precedenti penali a suo carico, e le precedenti esperienze carcerarie sofferte in espiazione di condanna, riduceva la misura giornaliera dell’indennizzo da Euro 235,82
(rivenienti dal c.d. calcolo nummario) a Euro
180,00.
La Corte territoriale, richiamandosi a una
massima di esperienza basata sull’id quod plerumque accidit, riteneva nel caso concreto sussistente una “minore afflittività della privazione
della libertà personale, riconducibile sia al minore discredito che l’evento comporta per una
persona la cui immagine sociale è già compromessa, sia al fatto che la sua dimestichezza con
l’ambiente carcerario rende meno traumatica
l’ingiusta detenzione”.
2. Con ricorso per cassazione il ricorrente
deduce illogicità della motivazione in ordine alla determinazione del quantum liquidato. Osserva che la Corte avrebbe dovuto motivare
specificamente sulle circostanze e sugli elementi indicativi di una minore afflittività nella
privazione ingiusta della libertà personale e
non limitarsi a mere presunzioni non adeguatamente provate e logicamente motivate; rileva
che la pregressa esperienza carceraria può
comportare, contrariamente a quanto genericamente desunto in via astratta e presuntiva,
anche una maggiore intensità della sofferenza
patita; deduce, altresì, l’assoluta mancanza di
motivazione in ordine alla richiesta di riconoscimento della somma spettante per interessi
moratori.
Con ulteriore motivo osserva che erroneamente la Corte aveva determinato la durata della detenzione in giorni 248, poiché da un corretto calcolo si perveniva a un totale di 264 giorni di
carcerazione.
3. L’Avvocatura Generale dello Stato ha
presentato memoria difensiva, insistendo per la
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declaratoria d’inammissibilità o, in subordine, per il
rigetto del ricorso.
DIRITTO. 4. Al fine di
fornire una risposta adeguata alla censura formulata con il primo motivo di
ricorso occorre richiamare
per grandi linee la struttura e il fondamento dell’istituto della riparazione per
ingiusta detenzione. Esso,
disciplinato agli artt. 314 e
315 del codice di rito in sintonia con i principi affermati in materia dall’art. 5,
comma 5, della Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo, è
stato introdotto a seguito
dell’intervento della sentenza della Corte cost. n.
1/1969, con la quale era
stato demandato al legislatore ordinario il compito di
specificare se tra i casi di
“riparazione degli errori
giudiziari” richiamati dall’art. 24, ultimo comma,
della Costituzione dovesse
farsi rientrare anche l’ingiusta carcerazione preventiva.
Con lo strumento della
riparazione si è consentita
la proposizione di una
istanza d’impronta essenzialmente civilistica e di
natura indennitaria, perché riconnessa a un atto
giudiziario legittimo, dinanzi a un organo che
esercita la giurisdizione
penale, e ciò in ragione
della contiguità del diritto
vantato con il procedimento volto all’accertamento
dei reati. Il richiamo contenuto nell’art. 315, ultimo
comma, c.p.p., alle disposizioni in materia di ripara-
⎪ P . 1 0 8r e s p o n s a b i l i t à
zione dell’errore giudiziario, accompagnato dalla
clausola di compatibilità,
rende evidente la comune
matrice delle due discipline.
Come evidenziato dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite, altro tratto caratteristico dell’istituto è il
carattere equitativo della
liquidazione dell’indennità, connessa alla delicatezza della materia e alle difficoltà per l’interessato di
provare nel suo preciso
ammontare la lesione patita, fattori che hanno indotto il legislatore “a non prescrivere al giudice l’adozione di rigidi parametri valutativi, lasciandogli, al contrario — s’intende, entro i
confini della ragionevolezza e della coerenza — ampia libertà di apprezzamento delle circostanze del
caso concreto” (Cass., S.U.
n. 24287 del 9 maggio 2001,
rv. 218975).
La richiamata decisione del giudice di legittimità
è pervenuta a ritenere corretto un criterio di calcolo,
da allora costituente parametro generale in giurisprudenza per la liquidazione dell’indennità, che
tiene conto del rapporto tra
il termine massimo di custodia cautelare e la durata
della detenzione effettivamente patita, avendo come
punto di riferimento la
maggior somma liquidabile a norma dell’art. 315,
comma 2, c.p.p., la quale
resta limite invalicabile per
la determinazione giudiziale dell’entità della riparazione. Il criterio di base
enunciato appariva utile al
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fine di sottrarre la determinazione dell’indennizzo a un’eccessiva discrezionalità del giudice
e garantire in modo razionale una uniformità di
indirizzo, ma non impediva la considerazione
delle conseguenze di natura economica, familiare e personale cagionate al richiedente dall’ingiusta privazione della libertà.
Sulla scorta di tali linee fondamentali d’indirizzo questa Corte, in un primo periodo della
sua elaborazione, è giunta a negare che l’indennizzo potesse costituire “la risultante di un metodo composito che assommi i criteri aritmetici
(rapporto tra il tetto massimo di indennizzo di
cui all’art. 315, comma 2, ed il termine massimo
della custodia cautelare di cui all’art. 303, comma 4, lett. c), c.p.p.) ed i criteri equitativi (che
tengono conto sia della durata della custodia
cautelare, sia delle conseguenze personali e familiari derivate dalla privazione della libertà),
in quanto i predetti parametri aritmetici individuano il massimo indennizzo liquidabile relativamente a tutte le conseguenze personali e familiari patibili per ogni giorno di detenzione,
che non può essere corretto in aumento facendo riferimento al criterio equitativo” (così Cass.,
29 aprile 2003, n. 28334, rv 225963).
Questo orientamento, che assumeva il criterio del calcolo aritmetico come limite massimo della complessiva valutazione, risulta, però,
superato nella successiva giurisprudenza della
Corte di Cassazione, che, con ripetute decisioni
conformi, ha chiarito che “i parametri aritmetici
individuano soltanto di norma o, se si vuole,
soltanto tendenzialmente il massimo indennizzo liquidabile relativamente a tutte le conseguenze personali e familiari patibili per ogni
giorno di ingiusta detenzione, libero essendo il
giudice di discostarsene, sia in meno sia in più,
e non solo marginalmente... dando però di quel
discostarsi... congrua motivazione e ciò, ancora
una volta, per far apprezzare, in una valutazione equitativa, l’equità” (Cass., Sez. IV, 8 luglio
2005). Nelle successive pronunce della giurisprudenza di legittimità si legge, in applicazione del criterio enunciato, che il parametro medio giornaliero può essere sensibilmente superato rispetto agli standard, purché non si sfondi
il tetto massimo della somma erogabile normativamente previsto (in tal senso Cass., Sez. IV,
n. 34857/2001, rv 251429, Cass. n. 10123 del 17
novembre 2011, Rv. 252026).
4.1. Tanto premesso, e ritornando alla que-
stione che costituisce specifico argomento della
censura svolta dal ricorrente, va evidenziato
che, con riferimento al tema della determinazione dell’indennizzo nei confronti di soggetto
che abbia riportato precedenti condanne e abbia già subito in passato la restrizione carceraria, sono da registrare due orientamenti difformi in seno alla giurisprudenza di questa Corte.
Secondo un primo indirizzo (Cass. Sez. IV, n.
23124 del 13 maggio 2008, Cass. Sez. IV n. 3467
del 22 giugno 2010), è legittimo operare una
riduzione sulla somma giornaliera computata
quale frazione aritmetica di quella massima liquidabile per legge, data la più tenue afflittività
della privazione della libertà personale, riconducibile sia al minore discredito che l’evento
comporta per una persona la cui immagine sociale sia già compromessa, sia al fatto che la sua
dimestichezza con l’ambiente carcerario rende
meno traumatica l’ingiusta privazione della libertà.
Secondo altro orientamento (Cass., Sez. IV,
n. 9713 del 27 ottobre 2009 e altre, Cass., Sez. III,
n. 17404 del 20 gennaio 2011), deve riscontrarsi
vizio motivazionale laddove il giudice di merito
riduca l’ammontare dell’indennizzo in forza di
una generica presunzione. In proposito si evidenzia (si veda l’ultima pronuncia citata) che “il
richiamo di precedente esperienza carceraria
quale fattore di riduzione della misura del diritto alla riparazione introduce sia classi diverse di
dolore per un medesimo fatto ingiusto e nocivo,
sia anche un fattore di disuguaglianza tra cittadini che non appare conforme a fondamentali
precetti costituzionali”. Si sottolinea, pertanto,
che “una automatica e generalizzata riduzione
della somma determinata secondo il c.d. criterio
nummario o aritmetico o criterio base per tutti i
soggetti che abbiano subito precedenti condanne e precedenti detenzioni, rende la valutazione equitativa priva di una adeguata e logica motivazione”.
4.2. Il Collegio ritiene questo ultimo indirizzo più persuasivo oltre che più aderente ad
una lettura costituzionale della intera struttura
dei diritti del singolo, nonché ad una ragionata
adesione ai principi della carta Europea dei diritti.
Ravvisa, pertanto, il denunciato vizio nella
motivazione della Corte territoriale che, sul
presupposto giuridicamente e naturalisticamente indimostrato della minore afflittività
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della detenzione in ragione
delle pregresse condanne
e delle conseguenti esperienze carcerarie sofferte
dal ricorrente, opera una
consistente quanto inspiegata diminuzione dell’importo giornaliero assunto a
parametro dell’indennizzo. Si deve in proposito sottolineare che l’ingiusta detenzione incide sulla libertà personale, diritto di rango costituzionale egualmente inviolabile per qualsiasi individuo. La limitazione di tale bene primario
è idonea a compromettere
le manifestazioni e le facoltà costituenti espressione
della persona in sé considerata e integra essa stessa
il pregiudizio, intrinseco
nel fatto lesivo e non valutabile in termini di utilità
economica, che l’istituto
della riparazione mira (solo) a indennizzare. In essa,
inoltre, è sempre insita una
quota di incidenza nell’ambito sociale e familiare. Ne discende che alla riparazione deve essere assegnato, anzitutto, un valore compensativo della perdita della libertà, prescindendo dalle ulteriori possibili conseguenze (ad esempio sul piano economico)
derivanti dalla stessa privazione, le quali integrano
aspetti negativi riflessi della lesione, specifici e eventualmente diversificati per
ciascuno. La distinzione
può essere immediatamente colta laddove si consideri che, inteso nel suo
aspetto fondamentale e
ineludibile, il pregiudizio
connesso alla privazione
ingiusta della libertà non
⎪ P . 1 1 0r e s p o n s a b i l i t à
necessita di prova: il vulnus, infatti, è nella stessa
ingiusta limitazione del bene fondamentale. Necessitano di prova da parte del
richiedente, invece, gli ulteriori effetti pregiudizievoli della stessa privazione
(in tal senso Cass., Sez. IV,
Sentenza n. 10690 del 25
febbraio 2010, rv. 246424).
Di conseguenza, con
riferimento
all’indicato
aspetto essenziale della
compromissione, legato alla natura strettamente personale del bene primario
che ne è oggetto, il ristoro
non può che essere considerato, almeno nel suo nucleo essenziale, in modo
omogeneo per tutti gli individui, in conformità al
principio costituzionale di
uguaglianza. Da ciò la necessità di far ricorso a un
criterio rispondente a
un’uniformità pecuniaria
di base, come avviene in
altri settori del diritto attinenti ai diritti fondamentali (si pensi ai criteri di liquidazione del danno alla salute, inteso come diminuzione dell’integrità fisica,
effettuato mediante il ricorso a tabelle che uniformano la quantificazione ai
soli parametri dell’entità
della lesione e dell’età),
proprio perché la limitazione della libertà personale incide direttamente
sulle prerogative della persona in sé considerata, su
un valore umano nella sua
concreta dimensione, a
prescindere da ogni conseguenza di carattere economico o, comunque, riflessa.
A tal fine può soccorrere il criterio aritmetico di
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calcolo dell’indennizzo elaborato dalla giurisprudenza.
5. Quanto esplicitato non implica che ai fini
della determinazione dell’indennizzo non possano essere tenuti in considerazione, mediante
incremento del parametro aritmetico di base,
fattori diversi, ove ne sia dimostrata l’esistenza,
quali i pregiudizi incidenti sull’attività lavorativa, sulla vita di relazione, sulle attività economiche o sull’immagine, peraltro nella misura in
cui tale considerazione non si risolva in un non
codificato risarcimento del danno. In tal senso
si è già espressa la giurisprudenza di questa
Corte, affermando che l’art. 314 c.p.p., con il
richiamo alla custodia cautelare subita, intende
anzitutto garantire l’indennizzo per il danno
derivante dalla mera privazione della libertà
personale e delle dirette conseguenze di questa
privazione sul piano delle attività e dei rapporti
personali”, con la conseguenza che “il parametro giornaliero va dunque ad esse commisurato”
e che ”le ulteriori conseguenze vanno invece
separatamente considerate e indennizzate nel
limite del tetto massimo previsto” (Cass., Sez.
IV, Sentenza n. 10690 del 25 febbraio 2010, rv.
246424).
Il diverso coefficiente di quantificazione
dell’indennizzo correlato alla differenza tra restrizione carceraria e restrizione domiciliare,
poi, è ragionevolmente collegato alla certa minore afflittività strutturale della restrizione domiciliare quale è regolata dalle norme che la
prevedono.
D’altra parte va rilevato che il controllo sulla congruità della somma liquidata a titolo di
riparazione è sottratto in ogni caso alla cognizione della Corte di legittimità, la quale può soltanto verificare se il giudice di merito abbia logicamente motivato il suo convincimento e non
certo sindacare la sufficienza della somma liquidata a titolo di riparazione.
L’illogicità del criterio di liquidazione utilizzato dal giudice del merito, pertanto, si coglie
laddove, come nel caso in esame, in relazione a
un prolungato periodo di ingiusta detenzione,
sia disposto un abbattimento consistente del
computo aritmetico dell’indennizzo in forza di
una generica presunzione, che si assume fondata sull’id quod plerumque accidit, la quale
individua quale termine di partenza per il ragionamento presuntiva l’esistenza di precedenti condanne e di pregresse esperienze car-
cerarie del richiedente. Ciò in considerazione di
quanto si è detto riguardo alla natura del bene
compromesso e alla sua stretta inerenza alle
prerogative fondamentali individuo, rilievo che
assume più evidente consistenza ove si consideri che costituisce fatto notorio, come si evince
dai ripetuti interventi legislativi atti a contrastare il sovraffollamento nelle carceri e dalle sollecitazioni che al riguardo ci provengono dalla
Corte Europea, la situazione in cui versano le
strutture di detenzione, ove spesso si registrano
condizioni non adeguatamente rispettose della
dignità umana. Va rilevato, inoltre, che attribuire automaticamente un effetto di riduzione
della entità dell’indennizzo alla condizione carceraria pregressa in situazioni, quale quella in
considerazione, di restrizione protrattasi per un
consistente periodo di tempo, contrasta con la
logica anche per la valenza non univoca della
reiterata limitazione, poiché, come è stato osservato, “l’esistenza di precedente esperienza
carceraria può avere sia un effetto di riduzione
della sofferenza cagionata dalla carcerazione
sia un effetto di massimizzazione di quella sofferenza”, dato che il cumulo del periodo di detenzione ingiusta con quello di restrizione giustificata già patita potrebbe essere indicativo, in
ragione del protrarsi della sofferenza, di una
intensificazione della stessa e tale da ingenerare effetti ulteriormente pregiudizievoli, connessi al più prolungato allontanamento dal
consesso sociale e alle maggiori difficoltà di
reinserimento e di recupero delle normali attività.
Alla luce delle considerazioni svolte la giustificazione della riduzione dell’indennizzo sulla scorta della presunta assuefazione al regime
restrittivo appare, quindi, al contempo, contrastante con i principi costituzionali di eguaglianza e solidarietà sociale e non conforme ai canoni della logica.
6. Passando al profilo di censura concernente la mancata applicazione degli interessi
sull’importo liquidato, si evidenzia l’infondatezza dello stesso alla luce del principio giurisprudenziale in forza del quale “in materia di
riparazione per l’ingiusta detenzione, gli interessi al tasso legale sulla somma attribuita all’istante - non già moratori, bensì corrispettivi —
vanno riconosciuti, se richiesti, dal passaggio in
giudicato del provvedimento attributivo, atteso
che solo da tale momento il credito — avente
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natura non risarcitoria può ritenersi certo, liquido
ed esigibile” (Cass., Sez. III,
n. 45706 del 26 ottobre
2011, rv. 251595).
6.1. Deve rilevarsi, infine, la fondatezza del secondo motivo di ricorso.
Dal calcolo relativo ai periodi di carcerazione a diverso titolo indicati nel
provvedimento, infatti, è
possibile evincere una durata della detenzione sofferta di qualche giorno
maggiore rispetto a quella
per la quale l’indennizzo è
stato liquidato. Deve essere emendato, pertanto,
l’errore relativo al computo
dei giorni di carcerazione
in relazione ai quali va determinato l’indennizzo.
7. I profili di illegittimità della motivazione evidenziati giustificano l’annullamento del provvedimento impugnato, con rinvio per nuovo esame al
giudice di merito, che
provvederà, altresì, alla
correzione dell’errore materiale sopra evidenziato.
(Omissis).
⎪ P . 1 1 2r e s p o n s a b i l i t à
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SENTENZA CASS. PEN.
23 MAGGIO 14 NOVEMBRE
2013 N. 45648 SEZ. III
PRES. LOMBARDI REL. GRILLO
RESPONSABILITÀ
PENALE - Atti persecutori - Stalking - Condotta penalmente rilevante Ripetizione della condotta - Sussistenza.
C.P. ART.
612-BIS
Integrano il delitto di
atti persecutori, di cui
all’art. 612-bis c.p., anche due sole condotte di
minaccia o di molestia,
come tali idonee a costituire la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice.
La reciprocità dei comportamenti molesti non
esclude la configurabilità del delitto di atti persecutori, incombendo,
in tali ipotesi, sul giudice un più accurato onere
di motivazione in ordine alla sussistenza dell’evento di danno, ossia
dello stato d’ansia o di
paura della presunta
persona offesa, del suo
effettivo timore per l’incolumità propria o di
persone ad essa vicine o
della necessità del mutamento delle abitudini
di vita.
FATTO. 1.1. Con sentenza del 25 maggio
2012 la Corte di Appello di Roma, in parziale
riforma della sentenza emessa il 3 novembre
2011 dal Giudice dell’udienza Preliminare del
Tribunale di Velletri nei confronti di U.G., im-
putato dei delitti di atti persecutori (art. 612-bis
c.p.) e violenza sessuale (art. 609-bis c.p.), con
la quale lo stesso era stato condannato, con la
continuazione tra i due reati, alla pena complessiva di anni quattro di reclusione oltre alle
pene accessorie di legge ed al risarcimento del
danno nei confronti della parte civile costituita,
concedeva le circostanze attenuanti generiche
e, per l’effetto, rideterminava la pena complessiva in anni due e mesi due di reclusione, contestualmente revocando l’interdizione temporanea dai pubblici uffici e confermando nel resto anche con riferimento alle disposte statuizioni civili.
1.2. A fondamento di detta decisione la
Corte territoriale ribadiva la configurabilità del
reato di atti persecutori sia sulla base delle condotte reiteratamente poste in essere dall’U. dopo l’11 giugno 2010 (data nella quale la persona
offesa rimetteva la querela con riferimento alle
condotte pregresse), sia in relazione al comprovato stato di ansia procurato dal detto imputato
alla donna per via delle minacce e pedinamenti
fatti nei suoi confronti. Ancora, con riferimento
al reato di cui al capo A), la Corte riteneva sussistente il reato anche in presenza di condotte
reciproche di tipo molesto o intimidatorio o aggressivo o petulante. Ed infine, escludeva l’effetto estintivo del reato de quo in relazione alla
intervenuta rimessione della querela (peraltro
dovuta al timore di ritorsioni da parte dell’U.,
atteso il suo carattere collerico e violento), rilevando come in prosieguo l’atteggiamento persecutorio fosse continuato attraverso le condotte descritte dalla parte offesa nella successiva
querela sporta in data 18 ottobre 2010 e relativa
a due episodi avvenuti, rispettivamente, il 17
settembre e il 18 ottobre 2010. Quanto, poi, al
reato di violenza sessuale, ne ribadiva la configurabilità sulla base della versione fornita dalla
donna ai Carabinieri nella immediatezza del
fatto, versione che la Corte riteneva credibile.
Veniva, di contro, riconosciuta la circostanza
attenuante del fatto di minore gravità e le circostanze attenuanti generiche originariamente
negate dal G.U.P.
1.3. Per l’annullamento della detta sentenza propone ricorso l’imputato a mezzo del proprio difensore articolando nove motivi che qui
si espongono succintamente. Con il primo viene denunciata la manifesta illogicità della motivazione in punto di qualificazione della con-
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dotta nello schema dell’art.
612-bis c.p. Con il secondo
motivo la difesa deduce
inosservanza dell’art. 597
c.p. per avere la Corte rimesso in discussione l’intera condotta del reato di
atti persecutori, richiamando episodi travolti dalla intervenuta rimessione
della querela e per i quali si
era formato il giudicato.
Con il terzo motivo viene
dedotta inosservanza dell’art. 152, comma 1, c.p.p., e
violazione del principio del
favor rei rilevando che, a
seguito della intervenuta
rimessione della querela
per gli episodi antecedenti
all’11 giugno 2010 (data di
rimessione della querela),
la condotta antecedente
non poteva più avere alcuna rilevanza anche in presenza di reati permanenti o
abituali, se non per le condotte successive purché
oggetto di separata ed autonoma querela. Con il
quarto motivo la difesa lamenta inosservanza della
norma penale (art. 612-bis
c.p.) deducendo che, a seguito della intervenuta rimessione della querela, la
condotta punibile doveva
circoscriversi soltanto agli
episodi successivi all’11
giugno 2010 ed oggetto della querela del 18 ottobre
2010. Con il quinto motivo
la difesa lamenta analogo
vizio in relazione alla non
ripetitività degli atti di molestia inidonei a concretizzare l’ipotesi delittuosa
contemplata nell’art. 612bis c.p., essendo insufficienti due soli episodi come, invece, erroneamente
ritenuto dalla Corte territo-
⎪ P . 1 1 4r e s p o n s a b i l i t à
riale. Con il sesto motivo la
difesa lamenta l’inosservanza degli artt. 50 e 612bis c.p. con riferimento alla
reciprocità delle condotte,
inidonea, diversamente da
quanto affermato dalla
Corte territoriale, ad integrare il reato. Con il settimo motivo la difesa lamenta — con riferimento al reato di atti persecutori —
mancanza di motivazione
in ordine agli elementi costitutivi del reato, per avere
la Corte omesso di argomentare in ordine alla conseguenze psico-fisiche ingenerate sulla donna dal
comportamento dell’imputato. Con l’ottavo motivo la
difesa deduce analogo vizio con riferimento alla ritenuta sussistenza del delitto di violenza sessuale,
per avere la Corte distrettuale espresso un giudizio
di attendibilità nei riguardi
della vittima in termini superficiali. In ultimo, con il
nono motivo, la difesa si
duole di carenza della motivazione con riferimento
al criterio di graduazione
della pena per il delitto di
violenza sessuale a fronte
della riconosciuta circostanza attenuante del fatto
di minore gravità, avendo
la Corte preso a base una
pena eccessiva.
DIRITTO. 1. Il ricorso è
parzialmente fondato nei
termini e limiti qui di seguito precisati.
2. Il primo motivo afferisce ad una pretesa contraddittorietà tra la decisione di primo grado e
quella di appello in ordine
alla descrizione della con-
civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
dotta e, in particolare, in ordine alla indicazione
degli episodi integranti il reato contestato al capo A): a giudizio del ricorrente, infatti, mentre la
condotta accertata dal Tribunale riguarderebbe
tre distinti episodi, uno dei quali (quello relativo
al periodo gennaio-febbraio 2010) estinto per
sopravvenuta rimessione della querela e gli altri riferibili, rispettivamente, al 17 settembre e
18 ottobre 2010, quella accertata dalla Corte distrettuale riguarderebbe non solo i detti episodi
ma anche altri non tenuti in considerazione dal
Tribunale. La censura non è condivisibile e risulta, anzi, manifestamente infondata in quanto la Corte territoriale ha preso in considerazione ai fini della conferma del giudizio di colpevolezza unicamente i due episodi verificatisi il
17 settembre e 18 ottobre 2010 denunciati dalla
donna con la querela del 18 ottobre 2010, dopo
che la precedente querela (avente per oggetto
non solo i fatti del gennaio-febbraio 2010, ma
anche altri di minore rilevanza) era stata rimessa dalla persona offesa D.M. l’11 giugno 2010.
3. Il secondo motivo riguarda la presunta
violazione dell’art. 597, comma 1, c.p., per avere
la Corte territoriale rimesso in discussione un
punto della decisione sulla quale si era, a giudizio del ricorrente, formato il giudicato, in quanto non sottoposta a gravame. Si tratta di un rilievo infondato perché la Corte territoriale ha
preso a base della conferma del giudizio di colpevolezza unicamente i fatti non coperti da giudicato, senza alcuna rivisitazione di episodi antecedenti all’11 giugno 2010 (se non in termini
di mero ricordo storico avulso da qualsiasi statuizione). La norma processuale indicata dal ricorrente non ha, quindi, subito alcuna errata
interpretazione avendo il giudice distrettuale
rispettato il principio del tantum devolutum
quantum appellatum in piena coerenza con le
regole interpretative affermate al riguardo dalla giurisprudenza di questa Corte. Nessun peggioramento della posizione processuale dell’imputato è ravvisabile nella motivazione della
Corte, né la descrizione delle precedenti condotte (ivi compresi alcuni episodi non tenuti in
conto dal G.U.P.) ha comportato una decisione
sfavorevole per l’imputato.
4. Altrettanto inesatta la tesi di difensiva
enunciata nel terzo motivo circa la pretesa violazione dell’art. 152, comma 1, c.p.p., in quanto
la sentenza si riferisce essenzialmente alle condottesuccessive all’11 giugno 2010 e, più esatta-
mente, a quelle oggetto della seconda querela
sporta dalla D., dopo che la precedente rimessione non aveva sortito alcun effetto deterrente
nei riguardi dell’imputato che aveva proseguito
imperterrito nelle proprie condotte molestatrici
ed intimidatorie. Sicché, fermo l’effetto estintivo della rimessione per le condotte pregresse, il
giudizio della Corte è rimasto circoscritto soltanto a quelle condotte per le quali era stata
proposta autonoma querela successiva alla
precedente. Il riferimento del ricorrente ai reato permanente è del tutto improprio, posto che,
versandosi in tema di reato abituale, la Corte ha
tenuto distinte le varie condotte, occupandosi
unicamente di quelle sottoposte al suo vaglio a
seguito dell’appello proposto dall’imputato. I
principi contenuti nelle massime evocate dal
ricorrente sono stati, quindi, puntualmente ed
esattamente applicati dal giudice distrettuale:
invero, poiché la rimessione della querela costituisce una causa estintiva del reato (ex art. 152
c.p.) essa opera per i fatti precedenti, ma non
per quelli successivi, con la conseguenza che
nel caso di reato permanente o abituale (come
nella specie) non è preclusa, pur in presenza di
un effetto estintivo per le condotte pregresse, la
proposizione di altra querela per le condotte
susseguenti non comprese nella rimessione,
suscettibili, pertanto, di formare oggetto di una
nuova indagine e dunque non sottratte alla cognizione del giudice: il che è esattamente avvenuto nel caso in esame.
5. Per ragioni sostanzialmente analoghe va
ritenuto infondato il quarto motivo.
6. Con riferimento al quinto motivo, la censura non può essere condivisa: il concetto di
reiterazione della condotta contenuto nel comma 1 dell’art. 612-bis c.p. denota la ripetizione
di una condotta una seconda volta, ovvero più’
volte con insistenza. Se ne deduce, dunque, che
anche due sole condotte in successione tra loro,
anche se intervallate nel tempo bastano ad integrare sotto il profilo temporale la fattispecie
per quanto riguarda l’aspetto materiale (in termini Sez. V, 21 gennaio 2010, n. 6417, Oliviero,
rv. 245881). Secondo la difesa del ricorrente il
precedente giurisprudenziale testé citato privilegia una interpretazione letterale del termine
in contrasto con la ratio legislativa, apparendo
preferibile un concetto di reiterazione che abbia quale presupposto ad una serialità di comportamenti. E la riprova di ciò il ricorrente la
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trae dalla relazione al Disegno di legge n. 1440/08
A.C. in cui è lo stesso legislatore a parlare — ai fini
della configurazione della
nuova figura delittuosa —
di “molestie assillanti”. Tale affermazione pecca di
troppa assolutezza, posto
che in tutti i progetti di legge riguardanti l’introduzione del reato di atti persecutori si parla soprattutto di
reiterazione della condotta, senza riferimento né all’arco temporale in cui tale
reiterazione deve svilupparsi, né ad un concetto
numerico delle azioni illegali.
6.1. Peraltro se il legislatore avesse voluto riferirsi al termine “assillante”
per evidenziare la ripetitività delle condotte, avrebbe ben potuto adoperare
tale espressione che certamente contiene in sé un riferimento temporale più
esteso, ma, soprattutto, attiene alle conseguenze cagionate alla vittima più che
al dato della sequenza temporale.
6.2. La Corte territoriale, oltre a sottolineare
come il significato della parola reiterazione comportasse una ripetizione della
condotta anche se limitata
a due sole volte, ha ben evidenziato le conseguenze
cagionate sulla psiche della vittima sottoposta ad una
situazione di stress e di ansietà persistente non disgiunta dalla paura per la
propria incolumità e per
l’incolumità del figlio (emblematica la citazione di un
episodio riguardante la
comparsa dell’U. nel cam-
⎪ P . 1 1 6r e s p o n s a b i l i t à
po di calcetto in cui giocava
il figlio minore della persona offesa intimorita da tale
sgradita visita).
6.3. Orbene la correlazione delle due condotte
(costituenti, peraltro, prosecuzione ideale di una
condotta perdurante nel
tempo iniziata nel lontano
2009 subito dopo la decisione della D. di interrompere la relazione extraconiugale con l’imputato e
non cessata neanche dopo
la rimessione della querela) con le perverse conseguenze subite sul piano
psichico dalla D. soprattutto dopo che costei aveva
cercato per “ragioni familiari”, come da lei stessa
definite, di stemperare la
sequenza continua di disturbi nei suoi confronti in
vario modo arrecatile, costituisce la riprova della
esatta configurabilità del
reato di atti persecutori in
cui l’elemento costitutivo
sul piano materiale non è
dato solo dall’elemento
tempo, ma dall’evento in
termini di pregiudizio alla
persona da porre in stretta
correlazione con il dato
della ripetitività: in altri
termini, una condotta che
fosse circoscritta ad una
serie di atti di disturbo, non
seguita dall’evento-danno
sulla persona non integrerebbe la fattispecie, così
come non la integrerebbe
una condotta tale da provocare un senso di paura o
di stress non preceduto o
caratterizzato da una ripetitività dell’azione. Quel
che è da escludere è l’equivalenza del concetto di reiterazione con la serialità:
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né la definizione concettuale di reato abituale
data dalla dottrina e dalla giurisprudenza di
questa Corte alla espressione “atti persecutori”
vale ad escludere che due sole condotte di identica natura siano bastevoli per la configurabilità
del reato.
7. Anche il motivo riguardante la erronea
applicazione della legge penale per avere la
Corte confermato il giudizio di responsabilità (e
la qualificazione della condotta) nonostante la
reciprocità delle condotte disturbatrici o insolenti o petulanti o aggressive, non è fondato.
7.1. Sostiene la difesa che la ricerca da parte della donna, in più occasioni, di un contatto
con l’U., si pone in posizione antinomica con il
concetto di atti persecutori che presuppone una
vittima alla merce del suo stalker ed impossibilitata, quindi, a reagire: secondo l’interpretazione del ricorrente, la ricerca da parte della donna
del contatto in via autonoma e persino dopo che
da parte dell’U. veniva posta in essere una condotta minacciosa o aggressiva, dimostrerebbe,
da un canto, la inoffensività della asserita condotta persecutoria descritta dalla D. sulla sua
psiche e, dall’altro, una sua capacità reattiva in
termini anche di indipendenza, incompatibile
con il concetto di stress enunciato dalla norma
incriminatrice.
7.1. Come affermato da una recente decisione di questa Corte, la reciprocità dei comportamenti molesti non esclude la configurabilità
del delitto di atti persecutori, incombendo, in
tale ipotesi, sul giudice un più accurato onere di
motivazione in ordine alla sussistenza dell’evento di danno, ossia dello stato d’ansia o di
paura della presunta persona offesa, del suo
effettivo timore per l’incolumità propria o di
persone ad essa vicine o della necessità del mutamento delle abitudini di vita (Sez. V, 5 febbraio 2010, n. 17698, Marchino, rv. 247226).
7.3. Alla base di tale decisione milita la
considerazione che il reato di cui si discute prevede eventi alternativi la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrarlo: deve
trattarsi di un comportamento reiteratamente
minaccioso o, comunque, molesto dell’agente
dal quale derivi per il destinatario della molestia o minaccia (reiterata), quale ulteriore evento dannoso, un perdurante stato d’ansia o di
paura, oppure un fondato timore dello stesso
per l’incolumità propria o di soggetti vicini, op-
pure, ancora, il mutamento necessitato delle
proprie abitudini di vita.
7.4. Ciò comporta la necessità di una indagine approfondita volta ad accertare in quali
termini tali condotte “persecutorie” vengano
poste in essere ed in quale contesto esse originino e si sviluppino: di guisa che se tali condotte
maturino in un ambito di litigiosità tra due soggetti che evoca una posizione di sostanziale parità, non può parlarsi di condotta persecutoria
nei termini richiesti dalla fattispecie astratta la
quale si riferisce invece ad una posizione sbilanciata della vittima rispetto all’autore dei
comportamenti intimidatori o vessatori.
7.5. Il termine reciprocità non vale, dunque, ad escludere in radice la possibilità della
rilevanza penale delle condotte come persecutorie ex art. 612-bis c.p., occorrendo che venga
valutato con maggiore attenzione ed oculatezza, quale conseguenza del comportamento di
ciascuno, lo stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa, o il suo effettivo timore
per l’incolumità propria o di persone a lei vicine
o la necessità del mutamento delle abitudini di
vita. Deve, in ultima analisi, verificarsi se, nel
caso della reciprocità degli atti minacciosi, vi sia
una posizione di ingiustificata predominanza di
uno dei due contendenti, tale da consentire di
qualificarne le iniziative minacciose e moleste
come atti di natura persecutoria e le reazioni
della vittima come esplicazione di un meccanismo di difesa volto a sopraffare la paura. Né può
dirsi che la reazione della vittima comporti, comunque, l’assenza dell’evento richiesto dalla
norma incriminatrice, non potendosi accettare
l’idea di una vittima inerme alla merce del suo
molestatore ed incapace di reagire. Anzi non è
neanche da escludere che una situazione di
stress o ansia possa generare reazioni incontrollate della vittima anche nei riguardi del proprio aggressore. Il reato in parola si configura
come reato di evento in contrapposizione al reato di minaccia di cui all’art. 612 c.p. qualificato
come reato di pericolo, pur costituendo la minaccia elemento costitutivo comune ad entrambe le fattispecie.
7.6. Ora nel caso in esame la Corte territoriale ha escluso che si versasse in una situazione di reciprocità, pur avendo dato atto di alcuni
episodi in cui la donna avrebbe affrontato l’imputato con fare aggressivo, tale, però, da non
incidere sulla sua situazione di stress rimasta
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inalterata ed, anzi, accentuatasi con il trascorrere
del tempo e l’intensificarsi
dei comportamenti intimidatori dell’U. Non può,
quindi, parlarsi nell’ambito della vicenda in esame,
di reciprocità quanto meno
nel senso inteso dal ricorrente, avendo la Corte
escluso che le due parti
agissero ad armi pari (emblematico l’accenno della
Corte ai tentativi operati in
modo anche energico dalla
D. per far desistere il suo
ex amante dall’idea di diffondere le fotografie che la
ritraevano in pose sexy in
vista di un tentativo di recupero della pace familiare
e di un riavvicinamento al
proprio coniuge — vds.
pag. 6 della sentenza impugnata).
8. Anche il settimo
motivo non può trovare accoglimento in quanto la
Corte territoriale ha adeguatamente motivato in
ordine al verificarsi dell’evento, ricordando come la
D., al colmo della disperazione, quando aveva ripresentato la querela in data
18 ottobre 2010, aveva fatto
riferimento allo sconvolgimento della propria vita
quotidiana e di quella dei
suoi familiari, soprattutto
del figlio minore ed ancora
alla assunzione di psicofarmaci quali coadiuvanti
del sonno perduto.
8.1. La tesi del ricorrente secondo la quale
mancherebbe in atti la prova del danno psichico subito dalla D. e conseguentemente la decisione della
Corte sarebbe sostanzialmente priva di motivazio-
⎪ P . 1 1 8r e s p o n s a b i l i t à
ne sul punto, è errata. Come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte
“Ai fini della integrazione
del reato di atti persecutori
(art. 612-bis c.p.) non si richiede l’accertamento di
uno stato patologico ma è
sufficiente che gli atti ritenuti persecutori — e nella
specie costituiti da minacce e insulti alla persona offesa, inviati con messaggi
telefonici o via internet o,
comunque, espressi nel
corso di incontri imposti
— abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’art.
612-bis c.p. non costituisce una duplicazione del
reato di lesioni (art. 582
c.p.), il cui evento è configurabile sia come malattia
fisica che come malattia
mentale e psicologica”
(Sez. V, 10 gennaio 2011, n.
16854, C, rv. 250158).
8.2. Ciò premesso, in
linea generale il giudice
territoriale ha fatto riferimento alle dichiarazioni rilasciate dalla donna ai carabinieri in una situazione
di evidente stress emotivo
(determinato anche dall’inseguimento della donna ad opera dell’U. con la
propria auto): vero è che
non è stata accertata attraverso una consulenza o perizia medica la patologia
ansiogena riferita dalla D.
alla P.G.: ma non va dimenticato che la persona
offesa è stata ritenuta, a ragione, dalla Corte distrettuale credibile e che le sue
dichiarazioni sono state
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anche rafforzate — per quel che riguarda la ripetizione di alcune condotte minacciose o vessatorie — anche da testi vicini per ragioni di
amicizia tanto alla persona offesa quanto all’imputato.
L’accordata credibilità mai posta in discussione dal giudice di appello e sostanzialmente
non contestata dal ricorrente che ha solo prospettato una diversa qualificazione delle proprie condotte, ha consentito alla Corte territoriale di affermare che la D. è credibile tanto
quando ha parlato di condotte ripetute nel tempo di tipo intimidatorio o altrimenti vessatorio,
tanto quando ha descritto drammaticamente,
ma senza enfatizzazioni di sorta — come ricorda il giudice di merito — il proprio stato di ansia
e di paura: dati, questi, che ben possono essere
ricavati dalle dichiarazioni della vittima oltre
che dai suoi comportamenti conseguenti alla
condotta posta in essere dall’agente e persino
dalla condotta dell’imputato quale comportamento astrattamente idoneo a causare l’evento
anche in relazione al contesto spaziotemporale
in cui la condotta è stata posta in essere (Sez. V,
28 febbraio 2012, n. 14391, S., rv. 252314).
9. Palesemente infondato anche l’ottavo
motivo riferito alla manifesta illogicità della
motivazione in punto di conferma della responsabilità anche per il reato di violenza sessuale,
in quanto il giudice distrettuale ha adeguatamente spiegato perché la D. dovesse essere ritenuta credibile quando ha riferito ai Carabinieri avvicinatisi alla sua auto, l’episodio del bacio, con il labbro ancora sanguinante e con l’U.
accostato al finestrino dell’auto in termini tali
da richiamare l’attenzione dei Carabinieri. La
Corte ha motivatamente escluso che il sangue
al labbro potesse avere attinenza con condotte
diversamente qualificabili, rilevando, invece,
come il racconto della donna nella immediatezza del fatto avesse un preciso aggancio ad una
violenza sessuale subita attraverso il contatto
forzoso delle labbra dell’imputato con le labbra
della vittima (vds. pag. 7 della sentenza impugnata).
9.1. È quindi da escludere che tale condotta
possa ritenersi assorbita nel reato di atti persecutori avendo invece conservato una propria
autonomia in relazione alle dichiarazioni della
D. che ha escluso che in quella circostanza l’U.
proseguisse con atti di disturbo nei suoi confronti, evidenziando, invece, come il gesto del
bacio violento dovesse ritenersi una azione autonoma dell’imputato tendente soltanto ad importunarla sessualmente (il che è poi avvenuto
come constatato dai Carabinieri). Peraltro l’oggettività giuridica dei due reati sub a) e b) è
diversa, avendo per oggetto il reato di cui all’art.
612-bis c.p. il bene giuridico costituito dalla libertà morale e il delitto di cui all’art. 609-bis
stesso codice il bene giuridico costituito dalla
libertà individuale: il che osta ulteriormente all’assorbimento come richiesto dal P.G. di
udienza.
10. Va, invece, ritenuto fondato l’ultimo
motivo afferente al trattamento sanzionatorio
che la Corte ha determinato — per quanto riguarda la pena base per il reato più grave di cui
al capo A) — in misura consistente, seppure
non coincidente con il massimo edittale, con
motivazione inadeguata: invero il mero riferimento alla particolare intensità del dolo in termini di pervicacia (che sembra però riferirsi più
agli atti vessatori che al gesto sessuale) non può
considerarsi un parametro di valutazione sufficiente, tanto più in considerazione della limitata offensività della azione sul piano della libertà
sessuale, che ha indotto la Corte a riconoscere
la circostanza attenuante del fatto di minore
gravità e della situazione di incensuratezza alla
base della concessione delle circostanze attenuanti generiche.
11. Si impone, sul punto, l’annullamento
della sentenza impugnata con rinvio ad altra
Sezione della Corte di Appello di Roma per la
rivisitazione del trattamento sanzionatorio alla
stregua delle considerazioni espresse da questa
Corte. Per il resto il ricorso deve essere rigettato. (Omissis).
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⎪
SENTENZA CASS. PEN. 15 OTTOBRE 2013 20 GENNAIO 2014 N. 2295 SEZ. VI PRES. MILO REL. PAOLONI
RESPONSABILITÀ PENALE - Cessione di
sostanza stupefacente - Concorso di circostanze - Recidiva - Attenuante lieve entità Bilanciamento.
C.P. ART.
D.P.R.
99
9 OTTOBRE 1990, N. 309, ART. 73, COMMA 5
La declaratoria di incostituzionalità di una
norma penale incide fin dalla sua originaria
vigenza, ponendo in essere una eccezione in
materia penale in grado di travolgere il giudicato stesso (fattispecie relativa alla pronuncia della Corte costituzionale, la quale
con sentenza n. 251/2012 ha espunto dall’ordinamento il divieto di prevalenza delle
attenuanti nel giudizio di bilanciamento
comparativo delle circostanze del reato per i
fatti definibili di piccolo spaccio di droga).
La fattispecie prevista dal comma 5 dell’art.
73, d.P.R. n. 309/1990, così come modificata dall’art. 2, comma 1, lett. a), d.l. n.
146/2013, costituisce un’autonoma ipotesi
di reato e non più una circostanza attenuante e di conseguenza non sono più applicabili, nei suoi confronti, i criteri di bilanciamento delle circostanze previste dal
comma 4 dell’art. 69 c.p.
FATTO. 1. Con sentenza
del 27 aprile 2012, resa all’esito di giudizio abbreviato subordinato all’espletamento di perizia chimica
sulla sostanza stupefacente oggetto di reato, il Tribunale di Torino ha dichiarato il cittadino nordafricano
A.D. responsabile dell’ascritto reato di concorso in
illecita vendita di una dose
di cocaina commesso il **.
Condotta criminosa ritenuta univocamente dimostrata in base al servizio di
osservazione diretta dell’e-
⎪ P . 1 2 0r e s p o n s a b i l i t à
pisodio criminoso da parte
degli agenti di polizia operanti e alle dichiarazioni
del terzo acquirente. Per
l’effetto il Tribunale, concessa al prevenuto (”trattandosi di semplice spaccio in strada senza impiego di particolari risorse”)
l’attenuante del fatto di lieve entità ai sensi dell’art.
73, comma 5, L.S., stimata
equivalente alla contestata
recidiva qualificata ex art.
99, comma 4, c.p., lo ha
condannato alla pena di
quattro anni di reclusione
ed Euro 18.000,00 di multa.
In particolare il Tribunale ha espressamente
escluso — così respingendo specifica richiesta del
difensore dell’imputato —
la possibilità di elidere l’incidenza sanzionatoria della recidiva (annoverando
l’A. ben sette precedenti
penali per reati in materia
di stupefacenti) e di formulare, quindi, un più favorevole bilanciamento delle
circostanze del reato, stante il divieto di prevalenza
delle circostanze attenuanti sancito dall’art. 69
comma 4 c.p. (come sostituito dalla l. n. 251/2005)
per imputati attinti da recidiva reiterata.
2. Giudicando sull’impugnazione del difensore
dell’A., imperniata sul solo
trattamento sanzionatorio
e segnatamente sulla concessione delle circostanze
attenuanti innominate e
sulla disapplicazione della
contestata recidiva (onde
uniformare la pena alla
concreta modesta offensività del fatto criminoso), la
Corte di Appello di Torino
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con sentenza in data 12 ottobre 2012 ha confermato la decisione di primo grado.
In motivazione la Corte territoriale, dando
atto della non accolta istanza difensiva di differimento della discussione del gravame in attesa
della decisione della Corte costituzionale sulla
questione di legittimità dell’art. 69, comma 4,
c.p., connessa a fatti reato qualificabili ex art.
73, comma 5, L.S., ha — per un verso — ritenuto
l’imputato immeritevole delle attenuanti generiche (straniero irregolare e privo di lecita attività lavorativa). Per altro verso la Corte ha rilevato l’inesistenza dei presupposti per disapplicare, ai fini sanzionatori regolati dall’art. 69,
comma 4, c.p., la recidiva qualificata, poiché i
numerosi precedenti penali dell’A. per reati
analoghi a quello ascrittogli costituiscono ineludibile indice della sua pericolosità sociale e
del maggior disvalore del suo illecito contegno.
Evenienze che giustificano il più severo trattamento sanzionatorio previsto dal combinato disposto degli artt. 69, comma 4, e 99, comma 4,
c.p., preclusivo di un giudizio di bilanciamento
della pur riconosciuta attenuante ex art. 73,
comma 5, L.S. in termini di prevalenza rispetto
alla rediva plurireiterata.
3. Con ricorso personale l’imputato ha impugnato per cassazione avverso la sentenza di
appello, deducendo l’erronea applicazione degli artt. 73, comma 5, L.S., e 69, comma 4, c.p., in
riferimento alla ritenuta rilevanza sanzionatoria della recidiva qualificata.
Incongruamente, sostiene l’A., la Corte torinese non ha accolto l’istanza di rinvio del difensore in attesa della pronuncia della Corte
Costituzionale sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 4, c.p., riferibile
a fatti di piccolo spaccio di droga qualificati lievi
ai sensi del citato art. 73, comma 5, L.S., sollevata proprio dal Tribunale di Torino. Questione
che il giudice delle leggi ha deciso (sentenza
Corte cost. n. 251/2012 del 5 novembre 2012),
dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, comma 4, c.p., nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, L.S., sulle
aggravanti e sulla recidiva. Di tal che ben avrebbe potuto e dovuto, stante la palese minima offensività del contegno antigiuridico dell’imputato, la Corte di Appello determinare, anche
mantenendo fermo il giudizio di significatività
della recidiva, la pena in misura ben inferiore
rispetto a quella inflitta al ricorrente.
4. Il ricorso è fondato e va accolto in ragione dello ius superveniens, suscettibile di incidere in favorem rei (art. 2, comma 4, c.p.) in
punto di trattamento sanzionatorio, a seguito
della citata decisione della Corte costituzionale
n. 251/2012, che ha espunto dall’ordinamento il
divieto di prevalenza delle attenuanti nel giudizio di bilanciamento comparativo delle circostanze del reato per i fatti definibili di piccolo
spaccio di droga.
4.1. Come noto, il giudice delle leggi è pervenuto alla declaratoria di parziale illegittimità
costituzionale dell’art. 69 comma 4 c.p., valutando il divieto di prevalenza dell’attenuante
speciale del fatto di lieve entità sulla recidiva ex
art. 99 comma 4 c.p. irragionevole e lesivo dei
principi di uguaglianza davanti alla legge e di
proporzionalità della pena ed evidenziando come la recidiva reiterata rifletta i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, che -pur
pertinenti al reato- non assumono nella individualizzazione della pena una rilevanza tale da
renderli comparativamente prevalenti rispetto
al fatto oggettivo, operando il principio di offensività non solo rispetto alla fattispecie base e
alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli
istituti influenti sulla pena e sulla sua finale determinazione (”Le rilevanti differenze quantitative delle comminatorie edittali dei commi 1 e
5 dell’art. 73 L.S. rispecchiano le diverse caratteristiche oggettive delle due fattispecie, sul
piano dell’offensività e alla luce delle stesse
valutazioni del legislatore: il trattamento sanzionatorio decisamente più mite assicurato al
fatto di lieve entità, la cui configurabilità è riconosciuta dalla giurisprudenza comune solo
per ipotesi di minima offensività penale, esprime una dimensione offensiva la cui effettiva
portata è disconosciuta dalla norma censurata,
che indirizza l’individuazione della pena verso
l’abnorme enfatizzazione delle componenti
soggettive riconducibili alla recidiva reiterata,
a detrimento delle componenti oggettive del reato”).
4.2. Non vi è dubbio che nella vicenda processuale riguardante il ricorrente A. l’abrogato
divieto di prevalenza dell’attenuante di cui all’art. 73, comma 5, L.S., sulla recidiva qualificata, vigente all’epoca dell’impugnata decisione
di appello, ha inciso in consistente misura sulla
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pena detentiva (quattro
anni di reclusione) inflitta
all’imputato per un episodio criminoso (vendita di
una sola dose di cocaina) di
cui le due conformi decisioni di merito hanno affermato la limitata gravità
e offensività, tanto da inquadrarlo nella casistica
della “lieve entità”, cioè di
minima offensività secondo le indicazioni delle Sezioni Unite di questa S.C.
(Cass. S.U., 24 giugno 2010,
n. 35737, P.G. in proc. Rico,
rv. 247911). È di tutta evidenza, quindi, che il previgente divieto ex art. 69,
comma 4, c.p., di bilanciamento delle circostanze del
reato in termini di possibile prevalenza delle attenuanti (comuni o speciali)
sulla recidiva, ha svolto decisiva incidenza nel determinismo della sanzione inflitta all’A., stabilita in base
alla cornice edittale delineata dall’art. 73, comma 1,
L.S.
4.3. L’illegittimità parziale della pena inflitta all’A., riveniente dall’effetto
abolitivo del divieto di cui
all’art. 69, comma 4, c.p.,
correlato
all’attenuante
speciale del fatto di lieve
entità sancito dalla sentenza n. 251/2012 della Corte
Costituzionale (cfr., in tema di sopravvenuta incostituzionalità dell’aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 11-bis, c.p.: Cass.,
Sez. VI, 17 novembre 2010,
n. 40836, Nasri, rv. 248533;
Cass., Sez. II, 11 febbraio
2011, n. 8720, Idriz, rv.
249816; Cass., Sez. I, 15
marzo 2011, n. 16292, Cortez e altri, rv. 249968), im-
⎪ P . 1 2 2r e s p o n s a b i l i t à
pone l’annullamento in
parte qua dell’impugnata
sentenza di appello con
rinvio ad altra sezione della stessa Corte territoriale
per un nuovo giudizio in
punto di trattamento sanzionatorio applicabile al ricorrente A.
Al riguardo è appena il
caso di osservare, come di
recente ribadito da questa
stessa S.C., che il principio
generale per cui la declaratoria di incostituzionalità,
incidente fin dalla sua originaria vigenza sulla norma penale eliminata dall’ordinamento, rendendola
inapplicabile ai rapporti
giuridici in corso con effetti
invalidanti assimilabili all’annullamento (Corte cost.
sentenza n. 127/1996), rinviene una eccezione in materia penale sino a travolgere lo stesso giudicato
(art. 30, comma 4, l. 11 marzo 1953, n. 87: ” quando in
applicazione della norma
dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”). Se detto principio è
pacificamente applicabile
alle sole disposizioni penali sostanziali, deve convenirsi che nella nozione di
norma penale sostanziale,
“intesa come disposizione
che correla la previsione di
una sanzione ad uno specifico comportamento e
che stabilisce una differenza di pena in conseguenza di una determinata
condotta”, può sussumersi
ogni ipotesi o situazione in
cui “sia stabilita una sanzione penale per un aspet-
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to dell’agire umano, essendo indifferente -da
questo punto di vista — che la norma disciplini
un autonomo titolo di reato o una circostanza”
del reato (in questi / termini Cass., Sez. I, 25
maggio 2012, n. 26899, P.M. in proc. Harizi, rv.
253084).
4.4. Né può sottacersi, infine, che la latitudine del giudizio di rinvio cui è chiamata la Corte di Appello di Torino ex art. 627 c.p.p. in ordine all’intero trattamento sanzionatorio applicabile all’imputato è vieppiù ampliata — in ragione della cogente applicabilità degli artt. 2, comma 4, c.p., e 129 c.p.p. — dalla ulteriore novella
normativa sopravvenuta alla presente decisione di legittimità e al deposito della relativa motivazione, produttiva comunque dei medesimi
effetti pratici rescissori della pena già applicata
al ricorrente. Novella costituita dal decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146, che con l’art. 2,
comma 1, lett. a), ha modificato l’art. 73, comma
5, L.S., qualificando i fatti riconducibili nell’area
della lieve entità come fattispecie autonoma di
reato e non più come circostanza attenuante
speciale, avuto riguardo (oltre che alla univoca
relazione di accompagnamento del decreto legge) alla specifica clausola di riserva o sussidiarietà (“salvo che il fatto non costituisca più grave reato”) che scandisce la nuova disposizione
(in tal senso già Cass., Sez. VI, 8 gennaio 2014,
ric. Cassanelli). Sulla scia delle argomentazioni
sviluppate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 251/2012 sui referenti applicativi dell’art. 69, comma 4, c.p., in tema di reati riguardanti sostanze stupefacenti il legislatore di urgenza, intervenuto — tra l’altro — anche sulla
pena detentiva edittale massima della fattispecie ex art. 73 L.S. (ridotta da sei a cinque anni di
reclusione), ha inteso risolvere in radice ogni
possibile questione interpretativa in tema di bilanciamento delle circostanze (attenuanti e aggravanti) connotanti il “nuovo” reato, essendo
evidente che la qualificazione della fattispecie
prevista dall’art. 73, comma 5, L.S., come autonoma ipotesi di reato (e non più come circostanza attenuante) rende inapplicabili i criteri
di bilanciamento dell’art. 69, comma 4, c.p., anche ad altre eventuali circostanze (attenuanti o
aggravanti) che caratterizzino la nuova fattispecie. (Omissis).
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⎪
SENTENZA CASS. PEN. 4 DICEMBRE 2013 25 FEBBRAIO 2014 N. 9091 SEZ. V PRES. MARASCA REL.
PEZZULLO
RESPONSABILITÀ PENALE - Diffamazione - Espressioni gravemente infamanti - Diritto di critica - Limite della continenza Esclusione.
C.P. ARTT.
51, 595
Il limite della continenza nel diritto di critica ex art. 51 c.p. è superato in presenza di
espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino
in una mera aggressione verbale del soggetto
criticato. Il riconoscimento del diritto di critica tollera giudizi anche aspri sull’operato
del destinatario delle espressioni, purchè gli
stessi colpiscano quest’ultimo con riguardo a
modalità di condotta manifestate nelle circostanze a cui la critica si riferisce, ma non
consente che, prendendo spunto da dette circostanze, si trascenda in attacchi a qualità o
modi di essere della persona che finiscano per
prescindere dalla vicenda concreta, assumendo le connotazioni di una valutazione
di discredito in termini generali della persona criticata.
FATTO. 1. Il Giudice di
Pace di Lanciano condannava A.V. e V.F. alla pena
di euro 800,00 di multa ciascuno ed i medesimi in solido al risarcimento dei
danni in favore di I.S., parte civile, per il delitto di cui
agli artt. 110 e 595 c.p. per
avere in concorso tra loro,
in qualità di consulenti di
parte, offeso la reputazione
della I., consulente grafologa del P.M., affermando
nell’elaborato prodotto all’udienza dei 15 ottobre
2008, nel procedimento
penale n. 1193/2005, che la
predetta I., con il suo elaborato “infarcito di macroscopici errori concettuali,
⎪ P . 1 2 4r e s p o n s a b i l i t à
operativi ed addirittura
lessicali” dequalificava la
scienza grafologica e l’ateneo di Urbino presso cui
aveva conseguito il titolo.
2. A.V. e V.F. proponevano appello avverso tale sentenza ed il Tribunale
di Lanciano, con sentenza
del 26 aprile 2012, li assolveva in quanto non punibili per aver esercitato un
proprio diritto, operando
nella fattispecie la scriminante di cui all’art. 51 c.p. Il
Tribunale, in particolare,
pur dando atto che gli apprezzamenti oggetto di
contestazione si presentavano estremamente negativi dell’operato altrui, evidenziava, che tali espressioni, tuttavia, erano in
rapporto di logica funzionalità con l’incarico svolto,
che era quello di fornire
elementi di valutazione in
contrapposizione ad altro
elaborato peritale e che, in
tale contesto, trattandosi di
espressioni contenute nell’elaborato depositato agli
atti del fascicolo e non altrimenti divulgato, ovvero
fatto oggetto di esternazioni ulteriori rispetto allo
stretto ambito dell’incarico, poteva ritenersi la scriminante di cui all’art. 51
c.p.
3. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso,
ai soli effetti civili, I.S., parte civile, lamentando la
mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità
della motivazione della
sentenza impugnata, che,
da un lato, dà atto del carattere lesivo ed offensivo
delle espressioni contestate e, dall’altro, dà atto della
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non gratuità di esse, in quanto inserite in un
contesto di contrapposizione ad un altro elaborato peritale, quantunque il semplice contesto
processuale sia inidoneo a far ritenere sussistente la causa di non punibilità. Inoltre, sostiene la ricorrente, illogica si presenta l’affermazione secondo cui non vi sarebbero state ”esternazioni ulteriori” dell’elaborato, come se tale
elemento fosse necessario per la configurazione di una diffamazione punibile. Infine, la ricorrente si duole dell’erronea applicazione, ai
sensi dell’art. 606, lett. b), c.p.p., della scriminante di cui all’art. 51 c.p., atteso che il riferimento agli errori lessicali e alla dequalificazione della scienza grafologica e dell’ateneo di Urbino è indubbiamente mirato ad attaccare la
professionalità e la personalità della ricorrente,
superando il limite della continenza.
DIRITTO. Il ricorso è meritevole di accoglimento.
1. Va innanzitutto evidenziato che le censure relative al fatto che il giudice di appello
avrebbe dapprima dato atto dei carattere “offensivo” delle espressioni utilizzate dall’A. e
dalla V. nel proprio elaborato e, quindi, contraddittoriamente, avrebbe valutato l’ambito in
cui tali espressioni si collocavano, al fine di ritenere operante la scriminante ex art. 51 c.p.
non appaiono condivisibili. Ed invero, va richiamato in proposito quanto evidenziato da
questa Corte, secondo cui la scansione del procedimento logico-giuridico da seguire in tema
di accertamento della punibilità dell’imputato a
titolo di diffamazione implica in primo luogo la
valutazione diretta a stabilire se il contenuto
della comunicazione rivolta a più persone rechi
in sé la portata lesiva della reputazione altrui,
che costituisce il proprium del reato contestato
e una volta stabilito il concorso degli elementi
costitutivi del delitto di diffamazione, l’attenzione del giudicante può spostarsi sull’apprezzamento della linea difensiva volta a giustificare il
fatto sotto il profilo della scriminante di cui all’art. 51 c.p., e quindi sulla verifica di sussistenza dei noti requisiti di verità, interesse alla notizia e continenza (Sez. V, n. 41661 del 17 settembre 2012). Della scansione così descritta pare aver tenuto conto il giudice di appello che ha,
innanzitutto, correttamente evidenziato la natura lesiva dell’altrui onore delle espressioni
oggetto di contestazione.
Se, infatti, il bene giuridico tutelato dalla
norma ex art. 595 c.p., è l’onore nel suo riflesso
in termini di valutazione sociale (alias reputazione) di ciascun cittadino e l’evento è costituito
dalla comunicazione e dalla correlata percezione o percepibilità, da parte di almeno due consociati, di un segno (parola, disegno) lesivo, che
sia diretto, non in astratto, ma concretamente
ad incidere sulla reputazione di uno specifico
cittadino (Sez. V, n. 5654 dei 19 ottobre 2012), le
espressioni oggetto di contestazione sono
obiettivamente pregiudizievoli della reputazione della persona offesa, concretizzando un pregiudizio anche la divulgazione di qualità negative idonee ad intaccarne l’opinione tra il pubblico dei consociati (Sez. V, n. 43184 del 21 settembre 2012).
2. Fondata si presenta, invece, la doglianza
della ricorrente relativa alla non corretta applicazione da parte del giudice di appello della
scriminante di cui all’art. 51 c.p. e tale valutazione assorbe l’esame degli ulteriori vizi di illogicità della sentenza impugnata denunciati in relazione a tale applicazione. La scriminante di
cui all’art. 51 c.p., così come accennato nella
sentenza impugnata, è riconducibile nella fattispecie in esame all’esercizio del diritto di critica, volto, in considerazione della natura e finalità dello scritto (consulenza di parte), contenente le espressioni contestate, alla confutazione delle argomentazioni svolte nell’avversa
consulenza del P.M.
Ora, il diritto di critica (nelle sue più varie
articolazioni ossia di critica politica, giudiziaria,
scientifica, sportiva etc.), espressione della libertà di manifestazione del proprio pensiero,
garantita dall’art. 21 Cost., così come dall’art. 10
della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, si traduce proprio nell’espressione di un
giudizio o di un’opinione personale dell’autore,
che non può che essere soggettiva. L’accertamento della scriminante in questione, come
detto, richiede, tuttavia, in linea generale la verifica della sussistenza dei tre requisiti elaborati
dalla giurisprudenza di legittimità: la verità,
l’interesse alla notizia e la continenza (Sez. V, n.
45014 del 19 ottobre 2012), ma proprio con riferimento a tale ultimo requisito la motivazione
della sentenza impugnata si presenta difforme
da una corretta applicazione dei principi giuridici applicabili in materia. Il giudice di appello,
infatti, pur richiamando correttamente il con-
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⎪
solidato indirizzo della
S.C., secondo cui il limite
immanente
all’esercizio
del diritto di critica è essenzialmente quello del rispetto della dignità altrui,
non potendo lo stesso costituire mera occasione per
gratuiti attacchi alla persona ed arbitrarie aggressioni al suo patrimonio morale, anche mediante l’utilizzo di argomenta ad hominem (Sez. V, 28 ottobre
2010, n. 4938), tuttavia non
trae corretta conseguenza
da tali principi con riferimento al caso esaminato.
Se da un lato, il contesto
nel quale la condotta diffamatoria si colloca può e deve essere valutato ai limitati fini del giudizio di stretta
riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento
del soggetto passivo oggetto di critica (Sez. V, n.
28685 del 5 giugno 2013),
dall’altro va considerato
che non può in alcun modo
scriminare l’uso di espressioni che si risolvano nella
denigrazione della persona di quest’ultimo in quanto tale.
Va, infatti, ricordato
che il limite della continenza nel diritto di critica è superato in presenza di
espressioni che, in quanto
gravemente infamanti e
inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato (Sez. 5, n.
29730 del 4 maggio 2010,
imp. Andreotti, rv. 247966).
Il riconoscimento del diritto di critica tollera in altre
parole giudizi anche aspri
sull’operato del destinata-
⎪ P . 1 2 6r e s p o n s a b i l i t à
rio delle espressioni, purché gli stessi colpiscano
quest’ultimo con riguardo
a modalità di condotta manifestate nelle circostanze
a cui la critica si riferisce;
ma non consente che,
prendendo spunto da dette
circostanze, si trascenda in
attacchi a qualità o modi di
essere della persona che finiscano per prescindere
dalla vicenda concreta, assumendo le connotazioni
di una valutazione di discredito in termini generali
della persona criticata
(Sez. V, n. 15060 del 23 febbraio 2011).
Sulla base dei principi
appena indicati deve concludersi che, nel caso in
esame, le espressioni oggetto di contestazione, pur
considerando il contesto
”acceso” nel quale si inseriscono (consulenza di parte
volta a confutare le argomentazioni contenute nella consulenza della I.), superano senz’altro il limite
della continenza del diritto
di critica, presentandosi
inutilmente umilianti del
soggetto criticato. Invero,
l’affermare che l’elaborato
della I. è infarcito di macroscopici errori addirittura lessicali e costituisce
espressione di dequalificazione della scienza grafologica e dell’ateneo di Urbino
presso il quale la I. ha conseguito il titolo, si traduce
in un attacco alle qualità
della I. medesima non funzionale al contesto di
“aspra confutazione” di natura tecnica, nel quale le
affermazioni si collocano
ed assumono connotazioni
non consentite di discredi-
civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
to in termini generali della persona criticata.
Il ricorso per le ragioni esposte va, dunque,
accolto e la sentenza impugnata va annullata
agli effetti civili, con rinvio per nuovo giudizio al
giudice civile competente per valore in grado di
appello, ai sensi dell’art. 622 c.p.p. (Omissis).
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⎪
SENTENZA CASS. PEN. 13 FEBBRAIO 2014 27 FEBBRAIO 2014 N. 9699 SEZ. IV PRES. BRUSCO REL.
DELL’UTRI
RESPONSABILITÀ PENALE - Infortuni sul
lavoro - Posizione di garanzia incombente su
più titolari - Obblighi di protezione - Sussistenza.
C.P. ART.
590
In tema di infortuni sul lavoro dovuti a
violazione di norme cautelari, il datore di
lavoro può trasferire la propria posizione di
garanzia ad altri, ma la delega deve risultare in modo certo. Diversamente, se in concreto vi sono più titolari della posizione di
garanzia (quale il capo cantiere, oltre al
datore), gli obblighi di protezione incombono su entrambi i destinatari.
FATTO. 1. Con sentenza
resa in data 9 febbraio
2012, il tribunale di Palermo, Sezione distaccata di
Bagheria, ha condannato
D.S. ed D.E. alle pene, rispettivamente, di venti
giorni e di due mesi di reclusione, in relazione al reato di lesioni personali colpose commesso, in cooperazione tra loro e in violazione delle norme per la
prevenzione degli infortuni sul lavoro, ai danni di
I.S., in **.
Ai due imputati erano
state contestate le colpevoli omissioni concernenti il
rispetto delle norme in materia di sicurezza nei cantieri edili e nella vigilanza
circa il ricorso delle condizioni di sicurezza del lavoro nel cantiere dagli stessi
gestito in (...) (quale datore
di lavoro, il D.S., e quale direttore dei lavori e capo
cantiere il D.E. ), per effetto
delle quali il lavoratore,
⎪ P . 1 2 8r e s p o n s a b i l i t à
I.S., cadendo da un ponte
alto circa quattro metri, si
procurava lesioni personali guaribili in oltre venti
giorni.
Con sentenza resa in
data 22 marzo 2013, la Corte d’Appello di Palermo, in
parziale riforma della sentenza del tribunale, ha disposto la riduzione della
pena inflitta a carico di
D.E., determinandola nella
misura di un mese di reclusione, confermando nel resto la decisione del giudice
di primo grado.
Avverso la sentenza
d’appello hanno personalmente proposto ricorso per
cassazione entrambi gli
imputati.
2.1. D.S. censura la
sentenza d’appello per violazione di legge e vizio di
motivazione, avendo la
corte territoriale omesso di
rilevare la legittimità (negata dal primo giudice)
dell’impedimento del proprio difensore nel corso di
un’udienza del procedimento di primo grado,
nonché per aver trascurato
la nullità della notificazione dell’atto di citazione introduttivo del primo giudizio.
Sotto altro profilo, il ricorrente si duole dell’errore in cui sarebbe incorsa la
corte territoriale nell’omettere di rilevare l’avvenuta preposizione, da parte dell’imputato, di un institore in propria vece ai fini della vigilanza sull’adozione delle condizioni di sicurezza nel cantiere, trascurando di rilevare l’avvenuto trasferimento a carico dello stesso della posi-
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zione di garanzia erroneamente attribuita a
proprio carico.
2.2. D.E. censura la sentenza impugnata
per violazione di legge e vizio di motivazione
per avere la corte territoriale omesso di rilevare
la legittimità (negata dal primo giudice) dell’impedimento del proprio difensore nel corso di
un’udienza del procedimento di primo grado,
nonché la nullità della notificazione dell’atto di
citazione relativa al primo giudizio.
Sotto altro profilo, il ricorrente si duole della mancata acquisizione di alcuna prova in relazione alla circostanza concernente l’assunzione di una specifica posizione di garanzia in
capo all’imputato con riguardo alla vigilanza
circa la sicurezza delle condizioni di lavoro nel
cantiere de quo.
Da ultimo, il ricorrente censura la sentenza
impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in
favore dell’imputato, nonché in relazione alla
mancata concessione della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p.
2.3. Con memoria pervenuta in data 17
gennaio 2014, il difensore degli imputati ha insistito per l’accoglimento dei ricorsi.
DIRITTO. 3. Entrambi i ricorsi — congiuntamente esaminabili in ragione dell’intima connessione dei temi dedotti dai ricorrenti — sono
infondati.
Preliminarmente, rileva il collegio come le
questioni di natura rituale introdotte dagli imputati (concernenti il mancato rilievo, ad opera
del primo giudice, della pretesa legittimità dell’impedimento del relativo difensore nel corso
di un’udienza del procedimento di primo grado,
nonché della nullità della notificazione dell’atto
di citazione introduttivo del primo giudizio) appaiano del tutto prive di pregio, avendo la corte
territoriale correttamente evidenziato — con
motivazione completa ed esauriente e altresì
immune da vizi d’indole logica o giuridica —
come il difensore degli imputati, nell’occasione
dagli stessi in questa sede dedotta, oltre ad aver
solo tardivamente rappresentato la sussistenza
dell’alternativo e concomitante impegno professionale asseritamele gravante dinanzi ad altra autorità giudiziaria, avesse integralmente
omesso di documentarne il ricorso, con la conseguente legittimità del provvedimento giudi-
ziale di diniego del rinvio dell’udienza in questa
sede avversato.
Allo stesso modo, del tutto correttamente,
sul piano giuridico, la corte d’appello ha riconosciuto la ritualità della notificazione del decreto
di citazione relativo al giudizio di primo grado in
relazione a entrambi gli imputati, avendo evidenziato come il procedimento di notificazione
nei riguardi di D.E. fosse giunto a buon fine in
data 10 giugno 2009 mediante la notificazione
del ridetto decreto a mani della moglie convivente con l’imputato, là dove, con riguardo a
D.S., il procedimento si fosse legittimamente
perfezionato ai sensi dell’art. 161, comma 4,
c.p.p. (mediante consegna dell’atto al difensore), risultando dagli atti come l’ufficiale giudiziario notificante avesse in precedenza univocamente attestato l’avvenuto trasferimento dell’imputato dal domicilio originariamente indicato presso altro luogo sconosciuto, attraverso
l’insieme delle informazioni assunte in loco.
Sul punto, vale evidenziare come la corte
territoriale si sia correttamente allineata all’insegnamento della giurisprudenza di legittimità
(che il collegio qui condivide e riconferma) ai
sensi del quale l’impossibilità della notificazione al domicilio eletto che ne legittima l’esecuzione presso il difensore di fiducia, secondo la
procedura prevista dagli artt. 161, comma 4, e
157 comma 8-bis, c.p.p., può essere integrata
anche dalla temporanea assenza dell’imputato,
al momento dell’accesso dell’ufficiale notificatore, senza che sia necessario procedere ad attestata verifica di una vera e propria irreperibilità, così da qualificare come definitiva l’impossibilità alla ricezione degli atti nel luogo dichiarato o eletto dall’imputato, considerati gli oneri
imposti dalla legge a quest’ultimo, ove avvisato
della pendenza di un procedimento a suo carico, e segnatamente l’obbligo, ex art. 161, comma
4, c.p.p., di comunicare ogni variazione intervenuta successivamente alla dichiarazione o elezione di domicilio, resa all’avvio della vicenda
processuale (Cass., Sez. V, n. 22745/2011, rv.
250408; Cass., Sez. VI, n. 42699/2011, rv.
251367; v. altresì Cass., Sez. Un., n. 28451/2011,
rv. 250120).
Quanto alla doglianza sollevata da D.S. in
ordine al preteso trasferimento, ad altro preposto, della posizione di garanzia ad esso spettante in ragione della qualità di datore di lavoro del
prestatore infortunato, è appena il caso di rile-
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.129
⎪
vare come lo stesso imputato abbia integralmente
omesso di allegare il ricorso del benché minimo presupposto idoneo a giustificare l’eventuale valido ricorso di tale trasferimento
(e segnatamente di uno
specifico atto di delega formalmente e sostanzialmente legittimo ed efficace, siccome dotato dei corrispondenti requisiti a tal
fine indispensabili), valendo al riguardo il principio
generale (consolidato dalla
costante giurisprudenza di
questa corte di legittimità),
in forza del quale, in materia di infortuni sul lavoro,
gli obblighi di prevenzione,
assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore
di lavoro possono essere
delegati, con conseguente
subentro del delegato nella
posizione di garanzia che
fa capo al delegante, a condizione che il relativo atto
di delega sia espresso, inequivoco e certo ed investa
persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e
dei relativi poteri decisionali e di intervento (anche
finanziario: v. Cass., Sez.
VI, n. 7709/2007, rv.
238526), fermo restando, in
ognicaso, l’obbligo per il
datore di lavoro di vigilare
e di controllare che il delegato usi correttamente la
delega, secondo quanto la
legge prescrive (Cass., Sez.
IV, n. 39158/2013, rv.
256878; Cass., Sez. IV, n.
38425/2006, rv. 235184).
Parimenti priva di fondamento deve ritenersi la
censura avanzata da D.E.
in ordine alla pretesa man-
⎪ P . 1 3 0r e s p o n s a b i l i t à
cata acquisizione di alcuna
prova in relazione alla circostanza concernente l’assunzione di una specifica
posizione di garanzia a suo
carico (con riguardo alla
vigilanza sulla sicurezza
delle condizioni di lavoro
nel cantiere de qua), essendo rimasta incontestata
l’avvenuta attribuzione allo stesso del duplice ruolo
di direttore dei lavori e di
capo cantiere.
Sul punto, è appena il
caso di richiamare, a conferma della correttezza
della decisione dei giudici
di merito, l’orientamento
di questa corte di legittimità, ai sensi del quale, in tema di prevenzione degli
infortuni sul lavoro, il capo
cantiere, la cui posizione è
assimilabile a quella del
preposto, assume la qualità di garante dell’obbligo di
assicurare la sicurezza del
lavoro, in quanto sovraintende alle attività, impartisce istruzioni, dirige gli
operai, attua le direttive ricevute e ne controlla l’esecuzione sicché egli risponde delle lesioni occorse ai
dipendenti (Cass., Sez. IV,
n. 9491/2013, rv. 254403).
Sotto altro profilo, in
modo del tutto pertinente
la corte territoriale ha fatto
riferimento, nel caso di
specie, al vigore del principio generale ai sensi del
quale, in tema di infortuni
sul lavoro, qualora vi siano
(come nel caso di specie)
più titolari della posizione
di garanzia, ciascuno è per
intero destinatario dell’obbligo di tutela impostogli
dalla legge fin quando si
esaurisce il rapporto che
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ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia, per cui l’omessa applicazione
di una cautela antinfortunistica è addebitarle
ad ognuno dei titolari di tale posizione (Cass.,
Sez. IV, n. 18826/2012, rv 253850; Cass., Sez. IV,
n. 46849/2011, rv. 252149).
Da ultimo, devono essere integralmente disattese le censure avanzate da D.E. in relazione
al mancato riconoscimento, in proprio favore,
delle circostanze attenuanti generiche e della
circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p.,
avendo la corte territoriale a tal fine correttamente evidenziato, con motivazione congruamente e logicamente argomentata, l’incidenza
ostativa dei diversi precedenti penali dell’imputato (anche per gravi reati) e atteso 1 assoluto
difetto di alcuna allegazione di natura argomentativa o probatoria a fondamento dell’asserito ricorso dei presupposti per 1 applicazione
della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n.
4, c.p. in questa sede per la prima volta invocata
dall’imputato.
4. Al riscontro dell’infondatezza di tutti i
motivi di doglianza avanzati dagli imputati segue il rigetto dei ricorsi e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
(Omissis).
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.131
⎪
SENTENZA CASS. PEN. 7 NOVEMBRE 2013 11 FEBBRAIO 2014 N. 6370 SEZ. III PRES. FIALE REL. MULLIRI
RESPONSABILITÀ PENALE - Infortuni sul
lavoro - Responsabile servizio manutenzione
- Scelte gestionali - Responsabilità - Assenza.
D.LGS.
9 APRILE 2008, N. 81, ARTT. 80, 86 E 64
Il responsabile del servizio manutenzione ed
il responsabile del reparto sono privi di responsabilità inerenti alle scelte gestionali generali, avendo poteri di livello inferiore, solitamente rapportati all’effettivo potere di
spesa, e quindi, pur avendo qualifica dirigenziale, non sono equiparabili al datore di
lavoro. Pertanto non sono colpevoli dei reati
in materia di contravvenzione e sicurezza
del lavoro ex d.lgs. n. 81/2008.
FATTO. 1. Vicenda processuale e provvedimento
impugnato
Con la sentenza impugnata, gli odierni ricorrenti
sono stati condannati, il L.,
alla pena di 1.500 E e, l’E., a
quella di 2.000 E, di ammenda per avere, nella loro qualità di Dirigente del
Settore Manutenzione edifici del Comune di Caivano
— competente, tra l’altro,
alla effettuazione di manutenzione presso la scuola
elementare “Mameli” di
Caivano — omesso di
provvedere alla manutenzione dell’edificio scolastico in questione, in particolare, degli impianti elettrici
nonché di altre specifiche
parti dell’edificio (per umidità, tinteggiatura, crepe,
segnaletica di sicurezza,
apertura delle finestre...
ecc. ecc.).
Va precisato che la carica amministrativa in ragione della quale gli odier-
⎪ P . 1 3 2r e s p o n s a b i l i t à
ni ricorrenti sono stati imputati è stata ricoperta, dal
L., a far data dal 10 maggio
2009 e, dall’E., negli anni
precedenti.
Le accuse scaturiscono
da una ispezione — originata da una segnalazione
anonima — espletata il 14
maggio 2009.
2. Motivi del ricorso
Avverso tale decisione,
gli imputati hanno proposto ricorso, personalmente,
deducendo:
L.
1) violazione di legge e
vizio di motivazione. Si ricorda, infatti, che quello
contestato (artt. 80, 86, 64,
d.lgs. n. 81/2008) è un reato
“proprio” che, cioè, può essere ascritto esclusivamente al soggetto che assume la qualifica di “datore
di lavoro”.
Tale figura viene individuata, dall’art. 2, d.lgs. n.
81/2008, nel “dirigente al
quale spettano i poteri di
gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica
dirigenziale, nei soli casi in
cui ... sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale... e dotato di autonomi poteri decisionali e di
spesa ». Orbene, nella specie, è da escludere che il L.
fosse in suddetta condizione, soprattutto, perché non
possedeva una autonomia
gestionale, decisionale e/o
di spesa. Il termine “dirigente” del servizio Manutenzione, infatti, non deve
trarre in inganno, essendo
egli del tutto privo di poteri
decisionali e di spesa ovvero di budget o fondi finanziari ai quali attingere.
Inoltre, come provato
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in udienza, mediante attestazione rilasciata dal
segretario generale del Comune di Caivano, dal
2 marzo 2004 al 27 ottobre 2009, la qualifica di
datore di lavoro era attribuita — in virtù di delibera della giunta comunale del 2 marzo 2004,
all’ing. D.A.F. e, sul punto, la sentenza nulla
dice. In ogni caso, si ricorda il precedente di
questa S.C. in base al quale « il responsabile del
servizio manutenzione ed il responsabile del
reparto sono privi di responsabilità inerenti alle
scelte gestionali generali, avendo poteri di livello inferiore, solitamente rapportati all’effettivo
potere di spesa, e quindi, pur avendo qualifica
dirigenziale, non sono equiparabili al datore di
lavoro » (Sez. IV, 28 aprile 2011, Miilo, rv.
250709);
2) violazione dell’art. 18, comma 3, d.lgs. n.
81/2008, perché la disposizione in esame precisa che gli obblighi previsti in capo a pubblica
amministrazione e p.u. « si intendono assolti da
parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati con la richiesta del loro adempimento all’amministrazione competente o al
soggetto che ne abbia l’obbligo giuridico ».
Si fa notare che, per l’appunto, il L., sebbene fosse in carica solo da una decina di giorni al
momento dell’ispezione, ha — come dimostrato
in giudizio — fatto tutto quanto in suo potere
per attivare i soggetti competenti ad intervenire;
3) nullità della sentenza per inesegibilità
della condotta omessa. Come spiegato anche in
giudizio dal ricorrente, i ritardi nell’adempimento delle prescrizioni imposte dagli ispettori
non sono ascrivibili al L., bensì, agli altri organi
comunali. A tal fine, si ricorda anche altro precedente di legittimità (Sez. III, gennaio 2008, rv.
239279) in base al quale, « l’inottemperanza da
parte del contravventore alle prescrizioni di regolarizzazione impartite dall’organo di vigilanza a norma del d.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758,
costituisce una condizione di punibilità. Ne
consegue che è onere del giudice accertare se il
contravventore abbia omesso di ottemperare
alla prescrizione per negligenza, imprudenza o
imperizia o inosservanza di norme regolamentari ovvero se sia stato impossibilitato a ottemperare per caso fortuito o per forza maggiore ».
E.
1) nullità della sentenza per totale estraneità dei ricorrente. Si fa, infatti, notare che, all’E.,
non risulta essere stata mai mossa alcuna con-
testazione. Si ripropongono, quindi, gli stessi
argomenti di cui al primo motivo di L.;
2) nullità della sentenza impugnata perché
in materia di contravvenzioni alla sicurezza sul
lavoro, trovano applicazione le disposizioni in
tema di prescrizione ed estinzione del reato la
cui applicazione costituisce — secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale — una
vera e propria condizione di procedibilità per
l’esercizio dell’azione penale. Orbene, nella
specie, non essendo mai stata rivolta all’imputato alcuna prescrizione cui ottemperare entro
un certo termine, egli era nell’impossibilità di
adempiervi.
I ricorrenti concludono invocando l’annullamento della sentenza impugnata.
DIRITTO. 3. Motivi della decisione
I ricorsi sono fondati perché tale è il primo
motivo, comune ad entrambe le doglianze, ed il
suo accoglimento risulta assorbente rispetto ai
restanti argomenti difensivi.
Ricordandolo in estrema sintesi, la sentenza impugnata fonda il proprio giudizio di responsabilità muovendo dalla premessa che la
successione dei soggetti nella carica non ha
escluso la responsabilità di alcuno dei due.
Inoltre, quanto all’E. — che ha ricoperto il
ruolo di dirigente più a lungo — pur prendendo
atto delle obiettive e documentate difficoltà finanziarie del Comune invocate dalla difesa dell’imputato, la sentenza conclude che, a fronte di
ciò, egli avrebbe dovuto prendere la — impopolare ma necessitata — decisione di chiudere la
scuola, visto l’evidente rischio cui erano esposti
— soprattutto — gli alunni (causa fili elettrici
scoperti e penzolanti fuori).
Anche per L., pur riconoscendo la brevità di
tempo dell’incarico ricoperto, si evidenzia il ritardo notevole con cui egli ha adempiuto alle
prescrizioni impostegli dagli ispettori (ben oltre
il termine concessogli).
Le argomentazioni predette non sono né
convincenti né corrette ed offrono il fianco a
molteplici obiezioni quali, ad esempio, per quel
che attiene a L., il non avere, la sentenza, minimamente replicato alla obiezione difensiva secondo cui, nel periodo incriminato, dal 2 marzo
2004 al 27 ottobre 2009, in virtù di delibera della
giunta comunale del 2 marzo 2004, la qualifica
di datore di lavoro era stata attribuita a persona
diversa dall’imputato (I’ing. D.A.F.).
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.133
⎪
Quanto, poi, all’E., non
è priva di pregio anche l’ulteriore obiezione, contenuta nel suo primo motivo,
circa l’assenza, nei suoi
confronti, di qualsiasi contestazione visto che, come
sottolineato anche dalla
giurisprudenza di questa
Corte (Sez. III, 11 gennaio
2008,
Pirovano,
rv.
239279), — dal momento
che, in materia antinfortunistica, l’inottemperanza
da parte dei contravventore alle prescrizioni di regolarizzazione
costituisce
una condizione di punibilità — ne consegue che è
onere del giudice accertare
se il contravventore abbia
omesso di ottemperare alla
prescrizione per negligenza, imprudenza o imperizia
o inosservanza di norme
regolamentari ovvero se
sia stato impossibilitato a
ottemperare per caso fortuito o per forza maggiore.
Nella specie, difficilmente si può negare che
l’E. non ha ottemperato
perché mai avvertito, visto
che l’8 giugno 2009, quando fu redatto il verbale di
prescrizioni, non ricopriva
più alcun incarico essendogli subentrato il L.
I suddetti rilievi — cui
potrebbero sommarsene
altri di segno analogo ove si
analizzassero anche i motivi successivi al primo — sono tuttavia, superati da
quello, assorbente, che, come dimostrato (e non negato neppure nella decisione impugnata), sia il L., che
l’E., pur avendo una qualifica “dirigenziale”, erano
del tutto sforniti di poteri di
spesa.
⎪ P . 1 3 4r e s p o n s a b i l i t à
Il vizio della sentenza
impugnata risiede nell’avere operato una sorta di
equazione tra la posizione
apicale ricoperta dagli imputati e la addebitalità ad
essi dei mancato approntamento dei lavori di messa
in sicurezza e ristrutturazione dell’edificio scolastico “Mameli” di Caivano
trascurando, però, di considerare se, a tale posizione corrispondesse o meno
anche una effettiva disponibilità di risorse finanziarie.
Come giustamente ricordato dai ricorrenti, questa S.C. (Sez. IV, 28 aprile
2011, Miao, n. 23292, rv.
250709) ha già avuto modo
di sottolineare, sia pure
con riferimento ad imprese
di grandi dimensioni, che il
soggetto responsabile per
la mancata adozione di misure di sicurezza non può
essere individuato, automaticamente, in colui o in
coloro che occupano la posizione di vertice.
Occorre, infatti, un accertamento puntuale, ed in
concreto, circa la effettiva
situazione della gerarchia
delle responsabilità, all’interno dell’apparato strutturale, onde non incorrere
nel rischio di ascrivere all’organo di vertice quasi
una sorta di responsabilità
oggettiva rispetto a situazioni ragionevolmente non
controllabili, perché devolute alla cura ed alla conseguente responsabilità di
altri che abbiano anche
piena ed esclusiva autonomia di spesa.
Di qui, il principio
enunciato nel precedente
civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
giurisprudenziale — citato dal ricorrente L. —
cui questo Collegio ritiene di allinearsi, secondo
cui, in tema di posizioni di garanzia in materia
antinfortunistica, « il responsabile del servizio
manutenzione ed il responsabile del reparto sono privi di responsabilità inerenti alle scelte gestionali generali, avendo poteri di livello inferiore, solitamente rapportati all’effettivo potere
di spesa, e quindi, pur avendo qualifica dirigenziale, non sono equiparabili al datore di lavoro
».
Nel caso che occupa, è la stessa decisione
impugnata a dare atto delle ampie prove fornite
dagli imputati per dimostrare la impossibilità di
fronteggiare il problema per la disastrosa situazione economica del Comune di Caivano e per
non avere, essi, mai avuto a disposizione somme di denaro assegnate a titolo di piano economico di gestione.
Tanto è valido l’argomento che il provvedimento impugnato lo supera in modo incongruo
ascrivendo agli imputati la mancata adozione di
una misura (la chiusura dell’istituto scolastico)
che, di certo, non rientrava nelle loro competenze, bensì, di quelle del preside e che, comunque, a tutto concedere, rappresenta contestazione di una condotta ulteriore e diversa rispetto a quelle per le quali gli imputati sono stati
rinviati a giudizio e giudicati.
Come anticipato, si impone, pertanto, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto contestato non è ascrivibile
agli imputati. (Omissis).
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.135
⎪
SENTENZA CASS. PEN. 19 SETTEMBRE 2013 25
FEBBRAIO 2014 N. 9194 SEZ. IV PRES. BRUSCO REL.
CIAMPI
RESPONSABILITÀ PENALE - Medici chirurghi - Lesioni colpose - Conoscenza delle
conseguenze delle lesioni - Consapevolezza.
C.P. ART.
590
Non è possibile, nel caso di lesioni colpose
astrattamente riconducibili a responsabilità
medica, che la mera conoscenza delle conseguenze subite in esito al trattamento terapeutico costituisca consapevolezza dell’esistenza del reato perché difetta ancora, nella
persona offesa, la consapevolezza della circostanza che il medico ha violato le regole
dell’arte medica cagionando le lesioni.
FATTO. 1. Con sentenza
in data 14 giugno 2012 la
Corte d’Appello di Milano,
in riforma della sentenza
del Tribunale di Monza dei
20 settembre 2011, appellata da M. S., dichiarava
non doversi procedere nei
confronti dello stesso perché l’azione penale non
poteva essere iniziata per
tardività della querela.
2. Il M., in qualità di
medico curante del minore
R.C., nato il 18 luglio 2003,
era stato tratto a giudizio
per il reato di lesioni colpose in danno del medesimo
in relazione alla ritardata
diagnosi di sordità. La Corte territoriale in particolare
riteneva che la querela
presentata dai genitori dei
minore in data 29 ottobre
2007 era da ritenersi tardiva in quanto i medesimi
erano venuti a piena conoscenza del difetto genetico
del loro figlio sin dal giugno-luglio dei 2006.
3. Avverso tale deci-
⎪ P . 1 3 6r e s p o n s a b i l i t à
sione propone ricorso il
Procuratore Generale della Repubblica presso la
Corte d’appello di Milano.
Il PG lamenta la violazione dell’art. 124 c.p. e la
manifesta illogicità della
motivazione.
DIRITTO. 4. Il ricorso è
fondato e deve conseguentemente essere accolto. Va
anzitutto premesso che
l’accertamento svolto dal
giudice di merito sulla tempestività, o tardività, della
querela involge anche un
accertamento di fatto che,
se condotto con corretti criteri logico giuridici, si sottrae al controllo di legittimità. Nel caso in esame
l’accertamento di fatto
condotto dal giudice di merito non è posto in discussione; con il ricorso si contesta invece la correttezza
dei criteri utilizzati dal giudice di merito per individuare il momento iniziale
del decorso del termine per
la proposizione della querela che, per giurisprudenza costante, coincide con
quello in cui il titolare del
diritto di querela viene a
completa conoscenza del
fatto reato nei suoi elementi costitutivi di natura
oggettiva e soggettiva.
Questa
conoscenza
non può essere limitata,
come sostanzialmente ritiene la sentenza impugnata, alla sola consapevolezza
dell’esistenza di conseguenze della patologia che
ha riguardato la persona
ma deve quanto meno
estendersi alla possibilità
che, su questa patologia,
abbiano influito errori dia-
civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè Editore
gnostici o terapeutici dei medici che hanno seguito il caso. Diversamente difetterebbe la consapevolezza dell’astratta esistenza di un’ipotesi
di reato che non si realizza solo con il verificarsi
di un evento materiale ma richiede che la persona offesa abbia coscienza, sia pure sommaria,
della violazione di regole cautelari nel trattamento della patologia e dell’influenza causale
di questa violazione sull’evento dannoso verificatosi. In questo senso va interpreta la giurisprudenza di legittimità (compresa quella richiamata nella sentenza impugnata) dalla quale si evince che il termine inizia a decorrere
quando la persona offesa abbia la piena cognizione di tutti gli elementi di natura oggettiva e
soggettiva che consentono la valutazione dell’esistenza del reato (v. in questo senso, Cass., Sez.
IV, 7 aprile 2010, n. 17592 del 7 aprile 2010, rv.
247096; Cass., Sez. IV, 30 gennaio 2008, n.
13938; Cass., Sez. III, 19 dicembre 2005, n. 3943,
Decurione, rv. 233483; Sez. V, 19 dicembre
2005, n. 5944, Ambrogio, rv. 233846; 6 febbraio
2003, n. 11781, Blangero, rv. 223909; Sez. II, 24
luglio 2002, n. 29923, Battistuzzi, rv. 222083;
Sez. V, 20 gennaio 2000, n. 3315, Prando, rv.
215580).
Orbene non è possibile, nel caso di lesioni
colpose astrattamente riconducibili a responsabilità medica, che la mera conoscenza delle
conseguenze subite in esito al trattamento terapeutico costituisca consapevolezza dell’esistenza del reato perché difetta ancora, nella
persona offesa, la consapevolezza della circostanza che il medico ha violato le regole dell’arte medica cagionando le lesioni.
Nel caso in esame la Corte territoriale si è
limitata all’accertamento della consapevolezza
dell’esistenza degli esiti della malattia senza indagare funditus se i querelanti fossero a conoscenza degli errori diagnostici e terapeutici ipotizzati e senza verificare se questa conoscenza
sia intervenuta solo dopo l’espletamento della
consulenza medico legale di parte.
5. Consegue alle considerazioni svolte
l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata alla Corte d’appello di Milano (per nuovo
esame) cui è rimesso anche il regolamento delle
spese tra le parti del presente giudizio. (Omissis).
responsabilità civile e previdenza – n. 2 – 2014 – addenda online © Giuffrè EditoreP.137
⎪
SENTENZA CASS. PEN. 12 FEBBRAIO 2014 27 FEBBRAIO 2014 N. 9695 SEZ. IV PRES. BRUSCO REL.
IANNELLO
RESPONSABILITÀ PENALE - Nesso causale - Accertamento dell’elemento costitutivo
del reato - Elevato grado di credibilità razionale.
C.P. ART.
40
Il giudizio di alta probabilità logica non
definisce il nesso causale in sé e per sé, ma
piuttosto il criterio con il quale procedere
all’accertamento probatorio di tale nesso, il
quale, diversamente da quanto accade per
l’accertamento di ogni altro elemento costitutivo del reato, deve consentire di fondare,
all’esito di un completo e attento vaglio critico di tutti gli elementi disponibili, un convincimento sul punto, dotato di un elevato
grado di credibilità razionale.
FATTO. 1. Con sentenza
del 18 ottobre 2012 la Corte
d’Appello di Catania, in riforma della sentenza di
primo grado, assolveva,
per insussistenza del fatto,
S.A. dal delitto p. e p. dagli
artt. 590, commi 1 e 2, e 583,
comma 2 n. 1, c.p., a lui
ascritto per aver cagionato,
per colpa medica consistita
nella esecuzione di inappropriata manovra (c.d.
manovra di Kristeller) sulla paziente C.F. durante il
parto, il distacco intempestivo della placenta e le
conseguenti gravissime lesioni riportate dal bambino: fatto avvenuto in **.
Premetteva la Corte
doversi dare per acquisito,
sulla scorta dell’istruttoria
espletata nel giudizio di
primo grado, che:
- le lesioni gravissime
riportate dal bambino sono
state direttamente causate
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da un distacco intempestivo di placenta;
- l’imputato ha effettivamente eseguito durante
il parto la manovra suddetta, ha cioè esercitato una o
più spinte sull’addome
della partoriente con la
mano prima e poi con il
braccio sebbene non risultasse che la testa del bambino avesse già impegnato
il canale del parto, e dunque in un momento in cui
quella manovra non era
consigliabile;
- la partoriente non
presentava alcuno dei fattori di rischio individuati
dalla letteratura medica
come possibile causa, in alternativa ad eventi di natura traumatica, del distacco
di placenta.
Ciò premesso i giudici
d’appello osservavano tuttavia che tale ultima circostanza “determina che la
probabilità che si verifichi
un distacco intempestivo
di placenta si attesta intorno allo 0,5%” e che pertanto
“non potendo stabilirsi con
un grado di certezza ma
soltanto con un elevato
grado di probabilità logica
che, in difetto di esercizio
della pressione sull’addome della partoriente da
parte dell’imputato, il distacco di placenta non si
sarebbe verificato, non può
affermarsi al di là di ogni
ragionevole dubbio la responsabilità penale dell’imputato per il reato oggetto di contestazione”.
Pervenivano pertanto
alla pronuncia assolutoria
per la ritenuta mancanza
di prova certa di un nesso
di causalità tra la condotta
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dell’imputato e le lesioni personali gravissime
riportate dal bambino.
2. Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione le parti civili, deducendo
violazione di legge e mancanza e contraddittorietà della motivazione.
Deducono in sintesi che, con motivazione
erronea e contraddittoria, la Corte d’Appello,
pur avendo dato atto della mancanza nel caso
concreto di ipotizzabili fattori causali alternativi
associati al parto (quali ipertensione in gravidanza, pluriparità, pregresso parto cesareo, rottura prematura della membrana, trombofilia
congenita o acquisita, etc.), ha omesso di individuare la condotta dell’imputato (ossia la pur
accertata esecuzione di manovra di Kristeller)
quale unico possibile antecedente causale dell’evento lesivo.
Rilevano che, a giustificazione del proprio
convincimento sul punto, i giudici hanno fatto
uso di una erronea nozione di nesso causale,
contrastante con quella ormai acquisita in dottrina e giurisprudenza, in particolare a seguito
della sentenza Franzese delle Sezioni Unite del
2002.
DIRITTO. 3. Il ricorso si appalesa fondato e
merita accoglimento nei sensi di cui in dispositivo.
Emerge evidente dai passaggi della motivazione sopra riportati l’errore concettuale in cui
incorre la corte di merito e la conseguente contraddizione in termini rappresentata dall’esclusione del nesso causale che in realtà — proprio
in forza degli elementi fattuali dati per certi nella stessa sentenza e dell’elevata probabilità logica assegnata al ragionamento che da essi per
via induttiva consentiva di risalire alla spiegazione causale ipotizzata — risultava già implicitamente accertato.
È la stessa Corte d’Appello invero a evidenziare, peraltro del tutto correttamente alla stregua delle emergenze processuali di cui si da
conto in motivazione, che i fatti accertati consentono di stabilire “con un elevato grado di
probabilità logica” che “in difetto di esercizio
della pressione sull’addome della partoriente
da parte dell’imputato, il distacco di placenta
non si sarebbe verificato”.
Ebbene la Corte non si è avveduta che proprio tale rilievo in sé implica l’accertamento del
nesso causale tra condotta ed evento richiesto,
ai sensi dell’art. 40 c.p., per l’affermazione della
penale responsabilità dell’imputato, di tal che
la successiva considerazione contenuta in sentenza secondo cui, su tali premesse, a tale affermazione non è possibile pervenire (nella pur
certa sussistenza dell’elemento soggettivo: colpa medica ravvisabile nella esecuzione della
descritta manovra in mancanza delle condizioni che soltanto l’avrebbero consentita), rappresenta nient’altro che una contraddizione in termini.
3.1. In proposito, è il caso di rammentare
che, secondo i principi affermati nella sentenza
Franzese (Sez. Un., n. 30328 del 10 luglio 2002,
rv. 222138), al fine di stabilire la sussistenza del
nesso di causalità, occorre un duplice controllo:
posta in premessa una spiegazione causale
dell’evento sulla base di una legge statistica o
universale di copertura sufficientemente valida
e astrattamente applicabile al caso concreto,
occorre successivamente verificare, attraverso
un giudizio di alta probabilità logica, l’attendibilità, in concreto, della spiegazione causale così ipotizzata. Bisogna cioè verificare — sulla base delle evidenze processuali — che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione doverosa omessa o
al contrario non compiuta la condotta commissiva assunta a causa dell’evento, esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento,
con elevato grado di credibilità razionale, non si
sarebbe verificato, oppure sarebbe avvenuto
molto dopo, o avrebbe comunque avuto minore
intensità lesiva.
Appare chiaro pertanto che il giudizio di
elevata probabilità logica non definisce il nesso
causale in sé e per sé (che, sul piano sostanziale,
resta invero legato alla rigorosa nozione dettata
dalla teoria condizionalistica recepita nel nostro ordinamento dall’art. 40 c.p., sia pur temperata dai correttivi della c.d. causalità umana)
ma piuttosto il criterio con il quale procedere
all’accertamento probatorio di tale nesso causale, il quale (criterio), non diversamente da
quanto accade per l’accertamento di ogni altro
elemento costitutivo del reato, deve consentire
di fondare, all’esito di un completo e attento
vaglio critico di tutti gli elementi disponibili, un
convincimento sul punto (positivo o negativo
che sia) dotato di un elevato grado di credibilità
razionale.
Per dirla secondo efficace definizione dottrinale “la probabilità logica alla quale è interes-
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sato il giudice non è quella
del sapere nomologico utilizzato per la spiegazione
del caso, bensì attiene ai
profili inferenziali della
verifica probatoria condotta in chiave induttiva, cioè
alla luce delle emergenze
del caso concreto”.
Per converso, e in ciò
sta probabilmente l’equivoco in cui è incorsa la Corte territoriale, ai fini della
prova giudiziaria della
causalità, decisivo non è il
coefficiente percentuale
più o meno elevato (vicino
a 100 o a 90 o a 50, etc.) di
probabilità frequentistica
desumibile dalla legge di
copertura utilizzata; ciò
che conta è potere ragionevolmente confidare nel fatto che la legge statistica in
questione trovi applicazione anche nel caso concreto
oggetto di giudizio, stante
l’alta probabilità logica che
siano da escludere fattori
causali alternativi, di tal
che, in presenza di un elevato grado di credibilità razionale dell’ipotesi privilegiata, ben può ritenersi
consentito per la spiegazione causale dell’evento
fare impiego di leggi o criteri probabilistico — statistici con coefficienti percentuali anche medio —
bassi; per contro, ove la valutazione degli elementi di
prova acquisiti non consentano di assegnare — ad
es. per l’impossibilità di
escludere ragionevolmente nel caso concreto l’intervento di fattori causali diversi — un elevato grado di
credibilità razionale alla
spiegazione causale ipotizzata, quest’ultima non può
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essere affermata anche se
riconducibile a leggi di copertura dotate di frequenza statistica tendenzialmente pari a 100.
L’errore della corte
territoriale sta dunque nell’aver presupposto che il
criterio di elevata probabilità logica, nel quale si sostanza il ragionamento induttivo inferenziale circa la
sussistenza del nesso causale (e l’esclusione di altri
ipotizzagli fattori) possa o
debba esprimersi in termini percentuali e, correlativamente, l’aver riferito ad
esso, intendendolo come
fattore che osta alla credibilità razionale del risultato cui esso conduce, la percentuale di frequenza statistica assegnata ad altri
fattori in astratto ipotizzabili (nel caso concreto la
percentuale dello 0,5% che,
in mancanza di alcuno dei
fattori di rischio individuati
dalla letteratura come possibile causa del distacco di
placenta,
quest’ultimo
possa nondimeno verificarsi per cause naturali).
Ed invece, come è stato
affermato in dottrina, la
probabilità logica “ha come
carattere
fondamentale
(quello) di non ricercare la
determinazione quantitativa delle frequenze relative di classi di eventi, ma di
razionalizzare l’incertezza
relativa all’ipotesi su un
fatto riconducendone il
grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (o di prova) disponibili in relazione a quell’ipotesi”.
La probabilità logica,
dunque, come criterio di
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giudizio per la ricostruzione del fatto nel caso
concreto, è un concetto che non designa una
frequenza statistica, ma piuttosto “un rapporto
di conferma tra un’ipotesi e gli elementi che ne
fondano l’attendibilità”.
Né può essere diversamente, posto che —
come è stato sottolineato — mentre le leggi di
copertura riguardano classi di dati, la certezza
processuale richiesta si riferisce al caso concreto. Mentre dunque è spesso possibile disporre
di un risultato statistico per la legge di copertura
che si ritiene governare il fenomeno, è quasi
sempre impossibile riferire questo dato al caso
concreto da accertare perché la sua non riproducibilità ne fa un evento unico che non tollera
inquadramenti statistici su base percentuale.
Insomma le percentuali statistiche possono
valere a delimitare l’ambito di applicazione della legge scientifica e possono essere utili come
punto di partenza per quanto riguarda l’applicazione della legge al caso concreto. Avendo
peraltro esse un’efficacia esclusivamente prognostica, porle a base o a contenuto del ragionamento probatorio circa la sussistenza del
nesso causale nel caso concreto rischia di trasformare tale giudizio in una valutazione ex ante, mentre la causalità va sempre accertata ex
post con riferimento all’evento concretamente
verificatosi.
Con riferimento invece al grado di inferenza probatoria richiesto a supporto del giudizio
di fatto sulla spiegazione causale nel caso concreto “non è sensato cristallizzare in precise entità numeriche la probabilità esigibile: la valutazione va piuttosto fatta caso per caso, tenendo
conto di tutte le circostanze concrete ed in particolare... considerando il numero e la consistenza delle assunzioni tacite contenute nelle
premesse del ragionamento causale”.
Su tale piano probatorio-processuale “può
solo richiedersi che il grado di conferma sia alto,
o elevato”, senza che in ciò possa vedersi un
vulnus del principio di legalità, “dovendo la
stessa determinatezza delle fattispecie essere
interpretata in rapporto al problema concreto
da risolvere”.
Del resto, non è fuor di luogo rammentare
che non ad altro può tendere un giudizio di verità o certezza processuale, restando invece
fuori delle possibilità dell’esperienza umana —
che è pur sempre una esperienza storica e rela-
tiva — l’obiettivo della certezza assoluta o verità
materiale.
In proposito avvertiva oltre cinquant’anni
fa autorevole dottrina che “la pretesa di conseguire una verità totale o assoluta... è fuori delle
reali e concrete possibilità umane e può essere
concepita o come realtà divina, oppure come
estremo limite tendenziale, astratta creazione
dell’intelletto o simbolo operativo (come l’infinito matematico). La verità alla quale l’uomo
può aspirare e della quale vive, come verità
umana, appunto, è di necessità parziale e (o)
relativa, concretamente (storicamente) condizionata ed implica limitazioni e scelte, compiute
più o meno coscientemente. E dentro tale limite
si mantiene sia che si tratti di verità scientifica,
empirica o storica”. Conseguentemente “nel
campo dell’esperienza giuridica... non ha senso
una verità che stia fuori dalle istituzioni giuridiche che la storia umana ha foggiate, e se codesta
verità si qualifica giuridica, per essere collegata
al tipo di esperienza a cui va riferita, non vuoi
dire che si tratti di una (finta) verità, rispetto ad
una (astratta) verità (vera), bensì dell’unica verità che si può (e si deve) aspirare a realizzare in
quel campo di esperienza. Sulla base di queste
considerazioni, è lecito affermare che i limiti
posti all’indagine del giudice si traducono in
metodi di ricerca (della verità), in altrettanti canoni e precetti tecnici di metodologia ermeneutica...”.
3.2. Alla luce delle considerazioni che precedono appare pertanto evidente come nella
specie null’altro o nulla di più poteva pretendersi, per giungere alla conferma, con elevato
grado di credibilità razionale, dell’ipotesi causale prospettata nel capo d’imputazione, se non
proprio quel giudizio di elevata probabilità logica che la Corte d’appello ha chiaramente
espresso e che pertanto di per sé ben poteva
portare, a conferma peraltro della sentenza di
primo grado, all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato.
Né può dubitarsi che tale giudizio di elevato
grado di probabilità logica non sia correttamente e coerentemente formato sulla base delle evidenze probatorie che la stessa Corte d’Appello
pur non manca di evidenziare, quale in particolare:
a) l’accertata genesi ipossica della encefalopatia neonatale che ha colpito il piccolo nato
nelle condizioni descritte;
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b) l’accertata errata
adozione di manovra ostetrica (manovra di Kristeller) in condizioni che non
la consentivano, nel senso
appunto di renderla estremamente pericolosa per il
bambino (in ciò come detto
dovendosi ravvisare in
dubbio profilo di colpa medica consistita nella grave
inosservanza di protocollo
medico);
c) l’accertata mancanza di altri ipotizzabili fattori
causali, associati alla gravidanza o al parto.
In tale contesto, essendo l’unico antecedente accertato dell’evento dannoso l’esecuzione della detta
errata manovra ostetrica,
in presenza di una legge di
copertura che certamente
la indica come idonea a cagionare l’evento in forza di
una elevata probabilità
statistica, una volta accertata la mancanza nel caso
concreto di altri fattori causali noti nella letteratura e
ragionevolmente ipotizzabili, congruo e logicamente
persuasivo (ossia, per l’appunto, dotato di elevata
probabilità logica) è il ragionamento che coordinando tali evidenze e rapportandole alla detta legge
di copertura conduce al risultato dell’affermazione
(della prova) della responsabilità penale dell’imputato: risultato al quale dunque si addice in tali condizioni il giudizio di elevato
grado di credibilità razionale.
Il fatto che la letteratura scientifica dia conto dell’esistenza di una percentuale dello 0,5% di casi in
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cui il distacco di placenta si
riscontri per cause naturali
non meglio precisate, distinte dei fattori associati
prima indicati (ed esclusi
nel caso concreto), non assume rilievo sul piano del
ragionamento probatorio
e, dunque, della elevata
probabilità logica (la quale
resterebbe tale anche se
mancasse tale dato statistico), ma semmai sul piano
della valutazione della validità scientifica della legge
indicata a copertura della
ipotizzata spiegazione causale.
Appare evidente tuttavia che trattasi di un dato
pressoché insignificante e
certamente inidoneo a revocare in dubbio la teoria
scientifica della spiegazione causale ipotizzata nella
specie: ossia quella secondo cui l’evento dannoso sia
da ricondurre causalmente
alla errata manovra ostetrica, tanto più che non viene nemmeno precisato se il
dato statistico (dello 0,5%)
riferito a cause non meglio
precisate si riferisca anche
ad ipotesi in cui risultava
eseguita la detta manovra
ostetrica.
3.3. Fuori luogo è al riguardo il richiamo al principio dell’oltre il ragionevole dubbio.
Questo infatti segna il
limite del ragionamento
probatorio, non il requisito
di validità della legge
scientifica di copertura.
Rappresenta
nient’altro
che, a contrario, la verifica
del grado di probabilità logica attribuibile al ragionamento inferenziale con cui
il giudice ricollega, sulla
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base delle prove raccolte, il fatto concreto alla
ipotizzata spiegazione causale. Ed invero, intanto tale ragionamento può ritenersi dotato di
elevato grado di probabilità logica ed in grado
pertanto di supportare il convincimento della
sussistenza del nesso causale con “elevato grado di credibilità razionale”, in quanto non permanga un “dubbio ragionevole” (ossia, non meramente congetturale) che l’evento possa essere stato determinato da una causa diversa.
Invocare pertanto il principio dell’oltre il
ragionevole dubbio per determinare la validità
della legge di copertura, significa confondere il
piano processuale con quello sostanziale.Né ad
una diversa conclusione sul punto può indurre
la modifica introdotta dall’art. 5 della legge 6
febbraio 2006, n. 46, mediante la sostituzione
del comma 1 dell’art. 533 del codice di procedura penale con la disposizione secondo cui “il
giudice pronuncia sentenza di condanna se
l’imputato risulta colpevole del reato al di là di
ogni ragionevole dubbio”.
Secondo l’opinione prevalente in giurisprudenza, tale novella non ha avuto sul punto
un reale contenuto innovativo, non avendo introdotto un diverso e più restrittivo criterio di
valutazione della prova, essendosi invece limitata a codificare un principio già desumibile dal
sistema, in forza del quale il giudice può pronunciare sentenza di condanna solo quando
non ha ragionevoli dubbi sulla responsabilità
dell’imputato. La novella, dunque, non avrebbe
inciso sulla funzione di controllo del giudice di
legittimità che rimarrebbe limitata alla struttura del discorso giustificativo del provvedimento, con l’impossibilità di procedere alla rilettura
degli elementi di fatto posti a fondamento della
sentenza e dunque di adottare autonomamente
nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (v., in tal senso, tra le ultime
pronunce, Sez. V, n. 10411 del 28 gennaio 2013,
Viola, rv. 254579, la quale ha precisato, in senso
evidentemente conforme all’impostazione sopra accolta, che tale regola di giudizio impone al
giudice di giungere alla condanna solo se è possibile escludere ipotesi alternative dotate di razionalità e plausibilità; cfr. anche in tal senso
Sez. 1, n. 41110 del 24 ottobre 2011, Javad, rv.
251507).
4. In accoglimento del ricorso, deve pertanto pervenirsi all’annullamento della sentenza impugnata.
Trattandosi tuttavia di ricorso della sola
parte civile e quindi di controversia di natura
esclusivamente risarcitoria, si impone il rinvio
degli atti al competente giudice civile, ai sensi
dell’art. 622 c.p.p. (Omissis).
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