Catalogo - ENEA UT-AGRI

31 gennaio_12 marzo 2014
GOLA
Con il Patrocinio di
Main sponsor
Concept allestimento
Catalogo
Si ringraziano
ARTE E SCIENZA DEL GUSTO
Regione Lombardia
Alfa Wassermann
Testi
Gli artisti • I prestatori
Una produzione
Fondazione Marino Golinelli
in collaborazione con
La Triennale di Milano
Provincia di Milano
PLAstudio
Emanuele Marcotullio
Mattia Rebichini
Progetto e testi exhibit
Giovanni Carrada
con interventi di
Marino Golinelli
Antonio Danieli
Barry C. Smith
Un progetto di
Giovanni Carrada
Scienza
a cura di Giovanni Carrada
Arte
a cura di Cristiana Perrella
Assistente curatore
Alessandra Troncone
Comune di Milano
Expo 2015
Sponsor
CAST
Centro Arte, Scienza
e Tecnologia
SICOR spa
Comune di Bologna
EXBO
Ministero dell’Istruzione,
dell’Università e della
Ricerca /USR Lombardia,
per le attività gratuite
rivolte alle scuole
Con il contributo di
Whirpool
Argotec
Progetto grafico
della mostra
e della comunicazione
Raffaella Ottaviani
Maria Teresa Pizzetti
Documentazione
iconografica
Manuela Fugenzi
Video e videografiche:
storyboard e regia
Raffaella Ottaviani
Maria Teresa Pizzetti
voce
Francesco Prando
musiche
Paolo Modugno
post-produzione audio
Accademia Nazionale
dei Lincei
Istituto Mario Negri
di Milano
Padiglione Italia
Expo Milano 2015
oasi studio
animazione e montaggio
Roberto Baldassari
ottimizzazione
Marcello Rossi
Realizzazione allestimento
Altofragile srl
servizi per l’arte
contemporanea
Ufficio Stampa
Delos servizi
per la cultura
con il patrocinio
Giovanni Carrada
Cristiana Perrella
progetto grafico
Raffaella Ottaviani
Maria Teresa Pizzetti
coordinamento
Fiorella Buffignani
redazione schede opere
Alessandra Troncone
traduzioni
transiting.eu/s. piccolo
Claudia Valeria Letizia
Scriptum, Roma
Fotografie e filmati
Alive Mind Cinema
per il filmato: El Bulli.
Cooking in Progress
Archivio Biscotti Gentilini
Archivio Scala, Firenze per:
Banchetto funebre, Tomba
dei Leopardi, Tarquinia.
© 2014 Foto Scala, Firenze su concessione del Ministero
per i Beni e le attività Culturali.
Pieter Bruegel Il Vecchio,
Banchetto nuziale, 1568,
Kunsthistorisches Museum,
Vienna. © 2014 Foto Fine Art
Images/Heritage Images/
Scala, Firenze
Paolo Veronese, Le nozze
di Cana (1563), Museo del
Louvre, Parigi. © 2014 White
Images/Scala, Firenze
Caravaggio,
Cena in Emmaus (1601),
National Gallery, Londra
© 2014 The National Gallery,
London/Scala, Firenze
REPV
BBLICA ITALI ANA
Ministero dell'Istruzione,
dell'Università e della Ricerca
Ufficio
Scolastico
per la
Lombardia
main sponsor
con il contributo di
sponsor
per le attività gratutite
rivolte alle scuole
Con il patrocinio di
Padiglione Italia Expo Milano 2015
Peter Blume,
Cena vegetariana, 1927,
Smithsonian American Art
Museum, Washington DC.
© 2014 Foto Smitsonian
American Art Museum/Art
Resource/Scala, Firenze
Biblioteca Nazionale Centrale
di Firenze per le illustrazioni
tratte dal Libro de la vida que
los Yndios antiguamente hazia
y supersticiones y malos ritos
que tenian y guardavan, sec
XVI. (Banco Rari 232)
Conserve Italia – Cirio
per il filmato Depardieu
e i pelati Cirio di Silvano
Guidone e Associati
Corbis Images
Food and Agriculture
Organization of the United
Nations (FAO) per il filmato
Edible insects
Fond Du Lac County –
Economic Development
Corporation per il filmato:
Agribusiness, Food Processing
& Technology Industry
Getty Images
Library of Congress, Rare
Book and Special Collections
Division Washington, D.C.
per le incisioni tratte da
Theodor de Bry, America,
Francoforte 1593
Sime Photo-SIE, Roma
Nick Lesley
Electronic Arts Intermix,
New York
Sidney Russel
Theus Zwakhals
Studio Marina Abramovićc
Paola Poten
Sara Ceroni
Galleria Lia Rumma
Napoli/Milano
Peggy Leboeuf
Lara Blanchy
Galerie Perrotin
Parigi/New York
Maria Rovigatti
Paola Coltellacci
Maria Bonmassar
MACRO – Museo d’Arte
Contemporanea di Roma
Eliane Tolentino
San Paolo
Amanda Rodriguez
Galeria Fortes Vilaca, San Paolo
Contributi video
Alexa Kreissl
Studio Anri Sala
Cow in an Indian Shop
di Rooms & Menus
Ole John
Ole John Film
Cow is god in India – 6
(Varanasi india) di 8520tv
Koala eating eucalyptus
leaves di TESHI555
The Swap
TV SPOT di Nespresso
Les Vins de Saint-Emilion
plébiscités à Bordeaux Fête
le Vin 2012
di VinsdeSaintEmilion
Reha Sodi
Devi Art Foundation, New Delhi
Carla Mantovani
Fondazione Sandretto Re
Rebaudengo, Torino
Laura Trisorio
Studio Trisorio, Napoli
Minh-Tu
Studio Christian Jankowski
Annette Hofmann
Lisson gallery, Milano
Veronique Rivest Final Tasting
Exam - Sommelier du Monde Alissa Friedman
Victoria Keddie
Competition 2013 (Tokyo,
Salon 94, New York
Japan) di thewineguide
Ethan Clark
Sacred cows di johnfromsalsa
Tania Bonakdar Gallery,
Yeni Cornetto Disc reklamı
New York
di ReklamFonu
Marcelo Moleta
Carmen Riquelme
Elisa Kuschnir
Studio Ernesto Neto
Teaching Specimens of
von Hagens Plastination:
Von Hagens Plastination, the
pioneering leader in Plastination
science, provides real human
specimens for education and
research to medical and health
institutions, public museums,
and to the globe touring BODY
WORLDS
www.plastinarium.com
www.vonhagens-plastination.com
Gregoria Prior
Cristina Guerras
Galería Elba Benítez, Madrid
Jenni Smith
Studio Martin Parr
Dobrila Denegri
Micol Di Veroli
Simone Ciglia
Pippo Ciorra
Flavio Del Monte
Fondazione
Marino Golinelli
Fondatore e Presidente
Marino Golinelli
Consiglio di Amministrazione
Presidente
Marino Golinelli
Vice Presidente
Andrea Zanotti
Consiglieri
Andrea Bonaccorsi
Dario Braga
Marco Cammelli
Filippo Cavazzuti
Luca De Biase
Stefano Golinelli
Andrea Zanotti
Collegio dei revisori
Sergio Parenti
Giovanna Randazzo
Antonella Vannucchi
Direttore Generale
Antonio Danieli
Area Formazione
ed Educazione
Giorgia Bellentani
Life Learning Center
Divisione formativa
e didattica Scuole
Secondarie
Responsabile del laboratorio
e delle attività didattiche
Raffaella Spagnuolo
Didattica e rapporti
con le scuole
Stefania Barbieri
Segreteria didattica
Silvia Cozzi
Assistenti di laboratorio
Giuliano Matteo Carrara
Maria Chiara Pascerini
Tutor di laboratorio Senior
Sara Bernardi
Alessandro Saracino
Tutor di laboratorio Junior
Paolo Manzi
Gabriele Mazzotta
Stefania Zampetti
Life Learning Center
si avvale del supporto
di un gruppo di tutor qualificati
laureati, dottorandi o dottorati.
Start Laboratorio
di Culture Creative •
Divisione educativa
scuole primarie
e dell’infanzia
Coordinamento operativo
Giorgia Bellentani
Tutor di laboratorio
Sara Giovacchini
Pierdomenico Memeo
Vanessa Nicastro
Supervisione scientifica
area 2/5 anni
START si avvale del supporto
dei Servizi educativi
del Comune di Bologna
Comitato scientifico
START si avvale della
collaborazione di eminenti
esperti scientifici
START si avvale inoltre del
supporto di un gruppo di tutor
qualificati laureati, dottorandi
o dottorati.
Area Progetti Speciali
Fiorella Buffignani
Collegio dei Revisori dei conti
Emanuele Giuseppe
Maria Gavazzi
Presidente
Alessandro Danovi
Salvatore Percuoco
Direttore Generale
Andrea Cancellato
Settore Affari Generali
Maria Eugenia Notarbartolo
Franco Romeo
Area Amministrazione
Daniele Vandelli
Settore Biblioteca,
Documentazione, Archivio
Tommaso Tofanetti
Claudia Di Martino
Paola Fenini
Elvia Redaelli
Fundraising e Marketing
Mariangela Leonetti
Segreteria generale
e organizzativa
Cristina Lertora
Responsabile per la sicurezza
Marcello Verrocchio
Consiglio d’Amministrazione
Claudio De Albertis
Presidente
Mario Giuseppe Abis
Giulio Ballio
Renato Besana
Ennio Brion
Flavio Caroli
Angelo Lorenzo Crespi
Carlotta de Bevilacqua
Alessandro Pasquarelli
Comitato Scientifico
Claudio De Albertis
Presidente
Silvana Annicchiarico
Design, Industria e Artigianato
Edoardo Bonaspetti
Arti visive e Nuovi Media
Alberto Ferlenga
Architettura e Territorio
Eleonora Fiorani
Moda
Area Comunicazione
e ufficio stampa
Annalisa Perrone
Segreteria didattica
Pier Francesco Bellomaria
Lucia Tarantino
Fondazione
La Triennale di Milano
Fondazione Marino Golinelli
è partner di
La Triennale di Milano
per Arte e Scienza
Settore Iniziative
Laura Agnesi
Roberta Sommariva
Laura Maeran
Carla Morogallo
Violante Spinelli Barrile
Alessandra Cadioli
Ufficio Servizi Tecnici
Alessandro Cammarata
Cristina Gatti
Franco Olivucci
Luca Pagani
Xhezair Pulaj
Ufficio Servizi Amministrativi
Paola Monti
Marina Tuveri
Ufficio Stampa e Comunicazione
Antonella La Seta Catamancio
Marco Martello
Micol Biassoni
Partner per Arte e scienza
Fondazione Marino Golinelli
Fondazione Museo
del Design
Consiglio d’Amministrazione
Arturo Dell’Acqua Bellavitis
Presidente
Maria Antonietta Crippa
Carlo Alberto Panigo
Anty Pansera
Direttore Generale
Andrea Cancellato
Collegio Sindacale
Salvatore Percuoco
Presidente
Maria Rosa Festari
Andrea Vestita
Triennale di Milano
Servizi Srl
Triennale Design Museum
Consiglio d’Amministrazione
Mario Giuseppe Abis
Presidente
Giulio Ballio
Andrea Cancellato
Consigliere Delegato
Producer attività museo
Roberto Giusti
Organo di controllo
Maurizio Scazzina
Ufficio Servizi Tecnici
Marina Gerosa
Ufficio Servizi Amministrativi
Anna Maria D’Ignoti
Silvia Anglani
Isabella Micieli
Ufficio Marketing
Valentina Barzaghi
Olivia Ponzanelli
Caterina Concone
Direttore
Silvana Annicchiarico
Collezioni e ricerche museali
Marilia Pederbelli
Archivio del Design Italiano
Giorgio Galleani
Ufficio iniziative
Maria Pina Poledda
Ufficio stampa e Comunicazione
Damiano Gullì
Attività Triennale
DesignMuseum Kids
Michele Corna
Logistica
Giuseppe Utano
Laboratorio di Restauro,
Ricerca e Conservazione
Barbara Ferriani,
coordinamento
Rafaela Trevisan
Partner istituzionale
Triennale di Milano
Nutrire il cervello, nutrire il pianeta
Marino Golinelli
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Questo mio breve intervento prende spunto dalla frase La bocca è una finestra aperta sul nostro cervello, che è il titolo dell’intervento in questo stesso
catalogo di Giovanni Carrada, curatore della mostra.
La mostra infatti è dedicata al gusto e alla nutrizione, visti tuttavia non solo
per se stessi, ma come microcosmo a noi tutti familiare e accessibile di un
tema più grande e al centro di ogni iniziativa della Fondazione: coltivare la
capacità di riflettere su noi stessi, sul nostro vivere come persone consapevoli, impegnate e aperte agli stimoli e alla complessità che derivano da un
mondo globale.
Se la bocca che campeggia nel logo della mostra è il simbolo del nostro
rapporto con l’alimentazione, è però il cervello che ci orienta affinché l’alimentazione possa integrarsi in modo più generale con la natura dell’uomo e
il futuro della singola persona in un particolare contesto culturale, sociale ed
economico. È il cervello, mediando fra motivazioni istintive e comprensione
di situazioni che la natura non può aver previsto, che può individuare e scegliere un rapporto corretto con il cibo, quindi innanzitutto una salute migliore
e una longevità felice.
Allo stesso modo, anche in ogni altro ambito, è sempre il cervello che ci
orienta e ci può consentire di vivere la nostra vita in modo libero e di essere
felici, partecipando in modo responsabile alla vita della società. Il cervello
però va “nutrito” con le conoscenze e gli stimoli giusti, che sono dati dalla
scienza, dall’arte, come da ogni altro ambito della cultura. Rendere queste
conoscenze e questi stimoli disponibili a tutti, ma soprattutto ai più giovani,
è la missione della Fondazione Marino Golinelli.
GOLA. Arte e scienza del gusto
Antonio Danieli
10­_11
Gola, arte e scienza del gusto è la quinta mostra realizzata dalla Fondazione,
dopo Antroposfera, Happy Tech, Da 0 a 100 e Benzine, e si inserisce fra
tante altre iniziative pensate per aiutare i cittadini di domani a contribuire alla
crescita culturale della società. Tutte basate sullo slogan che la Fondazione
ha fatto proprio: “la cultura nutre il pianeta”.
Coerenti con il passato, ma guardando sempre al futuro.
GOLA. Arte e scienza del gusto rappresenta la quinta tappa del progetto pluriennale
di “arte e scienza” avviato sperimentalmente dalla Fondazione Marino Golinelli (FMG)
nel 2010.
Tale progetto fa parte del più ampio e articolato programma di iniziative educative e
culturali che FMG, nel rispetto dei propri obiettivi statutari, indirizza alla società nel
suo complesso, ed in particolare ai giovani che rappresentano il nostro futuro.
È infatti soprattutto ai giovani che FMG intende fornire degli strumenti intellettivi adatti
per la loro crescita culturale responsabile in un mondo globale, come è possibile evincere immediatamente anche dai titoli delle mostre precedenti: 2010 - Antroposfera.
Nuove forme della vita, 2011 – Happy Tech. Macchine dal volto umano, 2012 – Da
ZERO a CENTO. Le nuove età della vita, 2013 – Benzine. Le energie della tua mente.
Perché la Fondazione ha pensato di realizzare le mostre di arte e scienza? Perchè i
giovani – e più in generale tutti i cittadini in un contesto sociale coeso e partecipato
democraticamente – devono imparare a porsi le domande giuste, ancora prima che
dare risposte, e le mostre forniscono un metodo preciso per entrare in questa ottica.
Qual è questo metodo?
La Fondazione Marino Golinelli è fortemente convinta che la letteratura, le arti e le
scienze come la matematica, la fisica, la chimica e la biologia, ma anche l’architettura, la medicina, l’economia, la sociologia, la giurisprudenza - e così via discorrendo - siano tutti linguaggi, ergo strumenti comunicativi ed interpretativi a disposizione
dell’essere umano per descrivere e conoscere la realtà che lo circonda, e per determinare pro-attivamente il proprio percorso di vita contestualizzandolo nella storia.
Non possiamo affermare che le cose che avvengono sono realmente esattamente
così come ognuno di noi le percepisce.
La degustazione
come esperienza multisensoriale
Barry C. Smith
12­_13
L’esperienza statistica, l’empirismo e l’apprendimento ci danno confidenza sufficiente ed un appagamento per farci ritenere di saperci sempre muovere nel mondo. Ma
in “realtà” tutti i modelli di pensiero e di comportamento che adottiamo rappresentano un avvicinarsi faticoso e obbligato ad una verità di cui non abbiamo assoluta
certezza, perché una verità assoluta per tutti non esiste e perché la verità per ognuno
di noi è in continuo divenire.
Nessuno di noi dunque, seppur talvolta apparentemente siamo appagati dalle nostre
consuetudini e convinzioni, possiede una verità assoluta: la nostra ricerca di verità
non ci potrà mai dare risposte che si possano definire in assoluto non controvertibili
un domani.
In tal senso forse solo le arti possono costituire i “percorsi di ricerca della verità” più
adatti per l’uomo: l’arte non schematizzata, che però impiega schemi e ricerche per
cogliere l’assolutezza folle e per noi inscindibile della nostra anima.
L’arte può “liberare le gabbie” della nostra comprensione comune ed innalzarci a stadi superiori di conoscenza.
Questo è ancora più vero per le menti dei nostri giovani, che sono le più fervide, propense alla creatività, alla passione, alla ricerca, perché ancora non sono imprigionate
in sovrastrutture sociali e comportamentali.
Ecco dunque la risposta al nostro interrogativo iniziale: volendo sintetizzare in poche
parole, possiamo convenire che il metodo insegnato dalle mostre di arte e scienza
della Fondazione Marino Golinelli è quello di “imparare ad essere liberi di imparare”
per tutta la vita.
Quando assaggiamo un piatto, è credenza comune che sia la lingua a fornirci tutte
le informazioni sul suo sapore, ma non è così. Quella che definiamo “gustare” nasce
sempre da un’azione combinata di gusto, tatto e olfatto: anche la sensazione e la
temperatura dell’alimento nella bocca, o gli aromi che penetrano nel naso, contribuiscono a formare la percezione del sapore. E ancora prima di coinvolgere il gusto,
il tatto e l’olfatto, spesso si sceglie con gli occhi la vivanda che si vuol mangiare,
valutandola in base all’aspetto che ha. Può darsi che nello stesso momento si senta il
gorgoglio di un vino che viene versato, e mangiando si udirà il rumore croccante delle
foglie di insalata o di un’altra verdura cruda. Quando si mangia o si beve, tutti questi
sensi vengono attivati e il modo in cui il cervello mette insieme tutte queste informazioni fa sì che la degustazione sia sempre un’esperienza multisensoriale.
Per capire fino a che punto l’esperienza del mangiare e del bere sia multisensoriale
è importante riconoscere quanto poco vi contribuisca la lingua alla degustazione. I
recettori situati sulla lingua decodificano i sapori fondamentali: il dolce, l’acido, il salato e l’amaro, ai quali possiamo aggiungere l’umami (ovvero la sapidità) e il metallico.
Forse abbiamo anche dei recettori del grasso, o se non altro degli acidi grassi. Ma
questo è quanto. Eppure, pensate a tutti i sapori descritti da Frank Sibley, filosofo
estetico: “manghi maturi, fichi freschi, limone, melone cantalupo, lampone, cocco,
olive verdi, cachi maturi, cipolla, cumino dei prati, pastinaca, menta piperita, semi
di anice, cannella, salmone fresco”. Per queste cose non abbiamo recettori; non esistono recettori del pollo, del manzo o del pomodoro. Pertanto, la nostra capacità di
distinguere i relativi sapori dipende da qualcos’altro oltre che dal gusto. Notate anche
che questi sapori non si possono ricostruire basandosi solo su quelli fondamentali:
Il cocco può essere vagamente dolce e il limone aspro, o acido, ma quali altri sapori si uniscono alla dolcezza per creare il cocco, ovvero all’asprezza o all’acidità
per creare il limone? Come si può mettere insieme una miscela di sapori riconoscibili […] per fare quello del cocco, o del limone, o della menta? Provate a immaginare la ricetta: “Per fare il sapore di cipolla (o di pepe, o di lampone, o di oliva),
aggiungete [sapori fondamentali] come segue, nelle proporzioni seguenti…”
(Sibley, pp.216-7
14­_15
Un procedimento simile non esiste, ma tutti siamo in grado di distinguere i sapori descritti da Sibley. Ciò avviene grazie al ruolo che svolge l’olfatto nel creare l’esperienza
del gusto. Ma non l’olfatto come lo intendiamo di solito, quando gli odori sprigionati dai
cibi o da un vino ci arrivano alle narici prima di mangiare o di bere. La neurofisiologia ha
attirato la nostra attenzione su una sensazione olfattiva che si crea quando un odore
passa dal naso alla bocca mentre si mastica e si deglutisce: si tratta dell’olfatto retronasale, che viene spesso percepito come un sapore che si ha nella bocca. A questa va
aggiunto il contributo del tatto, che ci consente di valutare se un alimento sia cremoso
o oleoso, croccante o viscoso. E poi c’è l’irritazione chimica provocata dalle spezie. È
questa interazione fra tatto, gusto e olfatto che dà origine alla nostra esperienza gustativa. E come dice lo psicologo Martin Yeomans:
È probabile che l’integrazione multisensoriale raggiunga l’apice nella percezione
dei sapori, visto che poche altre esperienze consentono una stimolazione concomitante di tutti i sensi principali.
Quando assaggiamo un vino, quindi, la nostra reazione non deriva solo dalle sensazioni
gustative sulla lingua, che forniscono informazioni su note dolci, salate, acide, amare,
sapide e metalliche, ma anche al modo in cui questi sapori si uniscono ad aromi fruttati
e floreali, alle percezioni tattili vellutate, setose o satinate, al carattere lievemente astringente dei tannini e a quello piccante che stimola il nervo trigemino, facendo sprigionare
nella bocca una sensazione di fresco quando si mangia pepe o di caldo quando si
mangia senape. Si pensi all’effetto che fa il sapore di mentolo: si avverte un aroma di
menta, un sapore leggermente amaro e una frescura. Ma se uno di questi elementi
viene meno, non si ha più l’esperienza del mentolo. Le percezioni gustative di questo
genere sono multisensoriali e nell’esperienza sensoriale la percezione multisensoriale
non è l’eccezione, bensì la regola. La percezione dei sapori ne offre uno degli esempi
migliori. Per arrivare a una percezione gustativa unificata, il cervello deve integrare fra
loro i contributi relativi di gusto, odore, percezioni tattili e irritazione trigeminale. Il risultato è l’effetto di complesse interazioni e richiede un certo impegno per poter essere
apprezzato, dal momento che nella nostra esperienza i vari componenti sono spesso
inseparabili. La degustazione, inoltre, non è un’esperienza puntuale; ha un andamento
temporale dinamico, rallentando il quale si può capire cosa accade in ogni momento:
dalla dolcezza di un attacco quando il vino entra in bocca alle delicate note amare di
un finale. Il grado di complessità e di appagamento che dà un vino dipenderanno da
proprietà sensoriali e temporali che possono passare inosservate a un assaggiatore
alle prime armi. Vista la gran quantità di cose che succedono fra naso e bocca, forse
non sorprenderà che i giudizi degustativi possano divergere; ma ciò non significa che
siano singolari o inspiegabili, né che siano soggettivi e indipendenti dal sapore di un
vino o di un alimento. Le differenze possono essere dovute alla maggiore o minore sensibilità della lingua. C’è chi ha più papille gustative ed è pertanto un “supertaster” molto
sensibile all’amaro, o all’acido; in altri, invece, la notevole distanza fra le papille riduce di
molto la sensibilità. Le persone hanno anche una sensibilità diversa rispetto agli odori
composti e al tatto, il che può dar luogo a grandi differenze nell’esperienza gustativa di
uno stesso alimento fatta da assaggiatori diversi. Ciò nondimeno, la degustazione è
un’esperienza che consente di entrare in contatto con le proprietà gustative, olfattive
e strutturali di un alimento o di un vino, proprietà che esistono per essere scoperte. E
se la scienza dell’alimentazione ci è necessaria per studiare la fisica e la chimica molecolare di alimenti solidi e liquidi, abbiamo anche bisogno della neuroscienza e della
psicologia per studiare la scienza di chi assaggia.
Lo studio del gusto e della degustazione sta cominciando a fornirci una serie di dati affascinanti, dai quali emerge che le nostre esperienze in fatto di cibi e vini sono influenzate
non solo dalla fisiologia ma anche da elementi di sottofondo come l’illuminazione o la
musica e dalle aspettative create in noi da ciò che vediamo e udiamo. Questi elementi
e gli effetti che producono sulla percezione multisensoriale sono oggetto di ricerca da
parte dei miei colleghi del Centre for the Study of the Senses, che collaborano con chef
e artisti per far progredire la scienza e migliorare le nostre esperienze gustative. In una
serie di esperimenti condotti presso il laboratorio di Ferran Adrià, lo psicologo Charles
Spence ha scoperto che offrendo ai partecipanti la stessa mousse di fragole servita su
piatti neri e su piatti bianchi, il dessert sembrava fino al 10% più dolce se mangiato su
La bocca è una finestra sul cervello
Giovanni Carrada
16_17
un piatto bianco. E questo è solo uno dei tanti modi in cui il piatto sul quale si serve una
vivanda può contribuire a determinarne il gusto. In un’altra serie di esperimenti effettuati
a Londra è stato offerto ai partecipanti un bicchiere di whisky Singleton e mentre la
persona si spostava da una stanza all’altra, il whisky contenuto nel suo bicchiere acquistava un sapore diverso a seconda dei cambiamenti nell’illuminazione degli ambienti,
dei colori delle pareti e dei suoni e rumori che udiva. Questi effetti possono essere usati
per ricreare l’atmosfera particolare che accompagna la consumazione di un piatto o
di un vino e che rende tanto piacevole tutta l’esperienza. Un esempio perfetto è quello
di The Sound of the Sea (Il rumore del mare), la specialità del ristorante The Fat Duck
di Bray creata da Heston Blumenthal, chef tre stelle Michelin che ha collaborato con
Charles Spence per realizzare il perfetto accompagnamento sonoro a una ricetta con
frutti di mare freschi. I frutti di mare vengono serviti su un letto di farina d’avena simile a
sabbia, con fili di alghe; contemporaneamente, il cliente riceve uno strombo contenente un iPod e delle cuffiette mediante le quali ascolterà il rumore del mare, concentrando
la propria attenzione sul cibo e sulle sue origini per rendere più intensa l’esperienza del
mangiare pesce fresco. In un’altra sua creazione Blumenthal ha servito ai clienti gelato
di uova e bacon; sul piatto c’era anche una fetta croccante di pane fritto, che andava
mangiata insieme al gelato. A quanto pare, nella bocca il sapore del bacon si trasferisce
al pane fritto, mentre quello dell’uovo resta al gelato. Tutto ciò è opera del cervello, che
così facendo tenta di capire quale sia il giusto abbinamento di sapori e consistenze,
fornendo indicazioni utili sui complessi meccanismi della percezione multisensoriale.
Grazie alla ricerca condotta in varie discipline abbiamo appena cominciato a scoprire
i segreti del gusto e del sapore e attraverso la collaborazione con chef professionisti,
artisti e produttori di alimenti e bevande riusciremo a far progredire la scienza della degustazione e a favorire esperienze gustative più piacevoli per tutti.
1- Frank Sibley, Approaches to Aesthetics: Collected Papers on Philosophical Aesthetics,
edited by J. Benson, B. Redfern, J. Roxbee cox, Oxford University Press 2006, pp. 216-7
2- Yeomans, M. Chambers, l., Blumenthal, H., Blake, A. (2008), The role of expectancy in sensory and
hedonic evaluation: the case of smoked salmon ice-cream in Food Quality and Preference, 19, pp. 565–573
Scegliere che cosa mangiare è un’esperienza che ripetiamo più volte al giorno fin dal
primo giorno in cui siamo nati. È quindi normale che non ci sorprenda più. Se qualcuno ci domanda perché abbiamo scelto quella pasta, o quel dolce, rispondiamo
“perché mi piace”, e lì ci fermiamo. Un gastronomo, naturalmente, analizzerà quel “mi
piace” raggiungendo apici di sublime sofisticatezza, ma tutto quello che c’è da capire
su quel “mi piace” sembra essere solo una discriminazione sempre più raffinata dei
sapori. Pensiamo ad esempio alla colorita descrizione del gusto di un grande vino
rosso da parte di un sommelier.
La domanda “perché proprio quei sapori ti sono tanto graditi?” non sembra invece
quasi ammissibile. “Perché sono buoni e basta”, ci viene da rispondere. In genere
infatti liquidiamo la domanda con il fatidico de gustibus non est disputandum, e la
presunta auto-evidenza del fatto che “i gusti non si discutono” mette fine a ogni discussione o riflessione sull’argomento. Ma è chiaro che si tratta di una non-risposta.
Il fatto è che l’esperienza di scegliere che cosa mangiare, che ci risulta tanto semplice
e immediata, in realtà – come tutte le cose importanti della vita – non lo è affatto. Se
ci riflettiamo un momento, infatti, come potrebbe non essere importante la scelta
di che cosa mangiare, cioè di quello che – dopo l’acqua – è più indispensabile per
tenerci in vita?
“Perché proprio quei sapori ti sono tanto graditi?” appartiene al genere di domande
cui cerca di dare una risposta la biologia evoluzionistica, quella branca della scienza
che cerca di scoprire la ragione “remota” delle caratteristiche degli esseri viventi, ovvero la ragione per cui si sono evolute proprio in questo modo. Se ad esempio gli uomini trovano particolarmente attraenti le donne con i fianchi stretti, è perché i fianchi
stretti sono indice di un assetto ormonale favorevole alla fertilità.
Se pensiamo a che cosa ci distingue dagli altri animali, pensiamo subito al nostro
grande cervello, quindi all’intelligenza, all’uso di strumenti, al linguaggio parlato e
simbolico, alla capacità di immaginare, al fatto che ci domandiamo che cosa ci sia
dopo la morte, e così via. Non pensiamo invece al fatto che siamo la specie capace
di nutrirsi del maggior numero di cose, e che è stato soprattutto questo che ci ha
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permesso di colonizzare qualsiasi ambiente naturale sul pianeta.
Nutrirsi non è facile. Bisogna scegliere alimenti che contengano tutti i nutrienti di cui
abbiamo bisogno, e nelle giuste proporzioni, capire quanto ne dobbiamo mangiare,
ma anche evitare tutti quei cibi che ci possono far male, fra i quali ci sono ad esempio
la maggior parte delle piante. Tutti gli animali hanno lo stesso problema, ma tutti –
tranne noi, e in misura minore altri onnivori come ad esempio ratti e macachi – si
limitano a mangiare poche cose, sempre le stesse, o addirittura una sola.
Ma nel corso della nostra lunga storia evolutiva, la scelta di che cosa mettere in tavola
non poteva dipendere da una profonda conoscenza dell’esatta composizione di tutti
i potenziali alimenti – dalla larva di insetto alla balena, passando per milioni di specie
di piante - né delle complesse necessità nutrizionali del nostro organismo.
La brillante soluzione trovata dall’evoluzione è stata di “nascondere”, per così dire,
una sofisticatissima valutazione nutrizionale – basata su giudizi sia istintivi sia di origine culturale – dietro a un piacere, a un’emozione, cioè a qualcosa che ci spinge a
scegliere. Dietro l’apparente semplicità del giudizio di un istante – mi piace, non mi
piace – si cela quindi un fenomeno di straordinaria complessità, che fisiologi, psicologi e neuroscienziati stanno solo da poco cercando di svelare. Altro che de gustibus
non est disputandum. C’è invece molto da chiarire (anche perché il principale significato del verbo latino disputo non è “discutere” ma “chiarire, esaminare, riflettere”).
Come ogni prodotto dell’evoluzione, anche i meccanismi del gusto sono tutt’altro che
perfetti. Ma è proprio grazie alla loro imperfezione che noi riusciamo a identificarli e a
coglierne il vero significato. E proprio perché è di una sofisticata valutazione che si tratta, le cose più interessanti non avvengono al livello dei sensi, ma nel cervello. Gusto e
disgusto a tavola ci aprono così una finestra sulla mente, e anche sulla natura umana.
Il primo punto di partenza della valutazione operata dal cervello sono i segnali che provengono dagli organi di senso, che partecipano quasi tutti a quello che noi chiamiamo semplicemente “gusto”. La vista aiuta a identificare un alimento, ma viene aiutata
dall’olfatto ancor prima che dal gusto vero e proprio: l’olfatto distingue infatti decine di
migliaia di molecole, il gusto forse non più di sei sapori fondamentali. Il tatto valuta la
consistenza, ma anche molti sapori, dalla cremosità dei grassi al pungente del peperoncino, al fresco del mentolo. Persino l’udito ha un ruolo tutt’altro che trascurabile.
Nel cervello, tutte le informazioni provenienti dagli organi di senso vengono integrate
e giungono alla nostra coscienza sotto forma di un’unica sensazione, che genera un
unico giudizio: il famoso “mi piace” o “non mi piace”. Le 800 molecole volatili del caffè,
ad esempio, diventano semplicemente l’aroma del caffè. A questo punto infatti non
solo non distinguiamo le singole sensazioni, ma ciascuna sensazione si può “travestire”, per così dire, per sembrarne un’altra. Il “gusto” di arancia, ad esempio, è quasi
tutto olfatto. Un esempio estremo è offerto da un recente caso in Gran Bretagna. La
barretta di cioccolato di una nota azienda ha subito un restyling per cui gli spigoli del
vecchio modello sono stati sostituiti dalle forme più stondate di quello nuovo. Ebbene,
il pubblico ha subito trovato quest’ultimo più dolce, anche se l’azienda si è affannata a
sostenere che si tratta esattamente della stessa cioccolata di prima. Con una serie di
test, un gruppo di ricercatori dell’università di Oxford che studia proprio la “crossmodalità” dei sensi ha dimostrato che sono proprio le forme più stondate a influire sul giudizio dei consumatori. Ma, se ci pensiamo bene, non è crossmodale anche il giudizio
estetico su un partner, piuttosto che su un’opera d’arte? La bellezza o la statura di un
uomo o una donna non influenza forse spesso il giudizio sulla sua personalità o sulle
sue capacità professionali? L’esperienza familiare del mangiare non ci illumina quindi
anche su questo aspetto chiave del funzionamento della nostra mente?
Sulla base dei nostri istinti più basici, quelli con i quali veniamo al mondo, noi tendiamo a preferire i sapori dolci e grassi, perché tipici di alimenti ricchi di energia, e a
evitare quelli amari o aspri, perché possono indicare la presenza di tossine o di batteri
patogeni. Tuttavia, sappiamo benissimo che tanti alimenti amari – dalla rucola al caffè
– non sono affatto nocivi, e che un dolcificante può essere dolce ma allo stesso tempo non essere ricco di energia. I segnali del gusto sono infatti semplici e imperfetti,
e per valutare il valore nutrizionale di un alimento serve anche molto altro. Bisogna
infatti provare un nuovo alimento, oppure basarsi sull’esperienza di altri che l’hanno
già fatto. Molti meccanismi alla base della formazione delle nostre preferenze a tavola
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passano quindi per l’apprendimento: l’esempio dei nostri genitori a tavola quando
siamo ragazzi, le tradizioni della cultura in cui viviamo, le esperienze alimentari in cui
ci imbattiamo nel corso della vita, i messaggi della pubblicità. In altre parole, anziché
provare tutto personalmente, correndo l’altissimo rischio di sbagliare, condividiamo
l’esperimento su scala sociale. E oggi, grazie agli scambi culturali attraverso i media
e i ristoranti etnici, addirittura planetaria.
La formazione delle preferenze di ciascuno di noi è dunque stratificata: siamo quasi
uguali nelle preferenze istintive (buono il dolce, cattivo l’amaro), siamo spesso simili
all’interno di una cultura perché una maggioranza di persone condivide una serie
di preferenze acquisite (buona la pasta, cattivi gli insetti), ma in più c’è l’esperienza
individuale di ciascuno di noi è diversa (buono il mio sugo preferito, cattivo il pesto).
Ecco quindi perché per certi versi siamo tutti uguali, per altri tutti diversi.
Nel gusto, come in moltissime altre cose, siamo un mix di natura e di cultura, in proporzione variabile a seconda delle avventure della vita. Il gusto è anzi un esempio
quasi da manuale della libertà che la nostra natura ci concede: possiamo accontentarci dei “settaggi di default”, ovvero delle predisposizioni genetiche e delle abitudini
del gruppo sociale in cui viviamo, oppure possiamo provare ad andare oltre, a esplorare coraggiosamente i nostri orizzonti, a testare i limiti del possibile. È quello che fanno ad esempio gastronomi e semplici appassionati di cibo, magari etnico, ampliando
le loro conoscenze gustative e approfondendo le ragioni del piacere della tavola. Ma,
se ci pensiamo un momento, tutto questo non assomiglia molto all’affinamento del
gusto per l’arte, la musica, i viaggi, la scienza, la poesia, o altre cose belle della vita?
Ed è alla portata anche di chi non ha studiato.
Questa libertà che la nostra natura ci concede non è infatti altro che il riflesso dell’estrema adattabilità della nostra specie, a sua volta il prodotto della grande plasticità
del nostro cervello. La plasticità è la capacità di riconfigurare gli schemi delle connessioni fra le cellule nervose dalla quale dipende qualsiasi attività della mente. È grazie
ad essa che, al contrario degli altri animali che sono legati a un solo stile di vita, ci possiamo dedicare anche ad attività che la natura mai avrebbe potuto prevedere. Quale
ambito più semplice e familiare a tutti del gusto ci può essere per capire la proprietà
forse più straordinaria del nostro cervello?
Ma c’è in realtà anche un’altra e più concreta a ragione per esercitare la nostra
libertà sulle preferenze istintive e i condizionamenti culturali, facendo leva sulla nostra adattabilità.
Tutto il nostro bagaglio di istinti si è evoluto per aiutarci a sopravvivere e a lasciare una
discendenza in un ambiente molto diverso da quello di oggi: la vita nella savana, dove
si viveva di caccia e raccolta in piccoli clan familiari, con la preoccupazione costante
di non trovare da mangiare il giorno dopo. Per questo motivo continuiamo ad andare
matti per grassi, zuccheri e sale come se fossimo ancora nella savana come i nostri
progenitori, e ad accaparrare cibo ogni volta che è possibile. Anche se non ce ne
sarebbe alcun bisogno. Spesso finiamo quindi per mangiare molto più del dovuto,
anche perché la nostra vita è diventata anche molto più comoda e abbiamo bisogno
di molte meno calorie di una volta. Insomma, quel meraviglioso adattamento che è il
piacere della tavola rischia di diventare un problema.
Questo disadattamento fra la nostra biologia e l’ambiente che ci siamo creati nel
corso degli ultimi decenni è fra le cause di una delle maggiori emergenze sanitarie
del nostro tempo. In Italia, il 31% degli adulti pesa più del dovuto, e troppi chili in più
favoriscono l’aumento della pressione arteriosa, del livello di zuccheri, di colesterolo
e di grassi nel sangue, tutti sintomi della cosiddetta “sindrome metabolica”, che a sua
volta aumenta il rischio di diabete, infarto, ictus e alcune forme di tumore. Ma, di nuovo, il disadattamento che riguarda il gusto non è che un altro caso, particolarmente
chiaro e familiare, di un fenomeno molto più generale che tocca la nostra mente.
Prendiamo ad esempio l’ansia: reagiamo agli stress – in se relativamente innocui –
della vita moderna, con le stesse reazioni nervose e ormonali di quando la minaccia
era costituita da un leopardo che ci voleva divorare. Perché non imparare a gestire
meglio il problema del gusto, che è pur sempre un piacere, per imparare a gestire
meglio anche gli altri problemi creati da una mente “paleolitica” che si ritrova a vivere
in un ambiente completamente trasformato?
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Proprio per il suo ruolo centrale nella nostra biologia, non possiamo fare a meno del
piacere della tavola neanche se volessimo, come sa benissimo chiunque abbia mai
cercato di fare una dieta per dimagrire. Da questo punto di vista, il buon cibo è come
l’amore, l’amicizia, la compagnia degli altri. Occorre quindi trovare strade che sappiano coniugare alimentazione sana e piacere. Per questo è così importante conoscere
i meccanismi del gusto.
Come in altre cose, non siamo affatto schiavi della nostra biologia. Dobbiamo solo
tenerne conto. Grazie alle conoscenze sulla crossmodalità degli stimoli sensoriali,
possiamo ad esempio cercare di “ingannare” il cervello inducendolo a credere che
stia assumendo cibi diversi da quelli reali, che forniscano cioè lo stesso piacere ma
meno calorie. È un campo della ricerca che solo ora sta muovendo i primi passi, ma
che promette molto. Oppure possiamo cambiare l’ambiente intorno a noi, perché
non ci dia troppi stimoli sbagliati, cosa che si può fare ad esempio limitando la pubblicità del cibo spazzatura rivolta ai bambini, mettendo a disposizione nelle scuole frutta
anziché merendine, o evitando al supermercato di comprare proprio le cose che in
un momento di debolezza a casa ci potrebbero tentare e alle quali non sapremmo
resistere. Nulla ci impedisce di farlo.
Ma possiamo anche cambiare la cultura, perché nella nostra specie questa ha
un’influenza notevole sullo sviluppo delle nostre preferenze alimentari. Dopo tutto,
il mondo è pieno di culture alimentari “sane”, tradizionali e non, e tanta gente riesce
a mangiare molto bene pur vivendo in un mondo di continue tentazioni. Questo vuol
dire educare le giovani generazioni, soprattutto con l‘esempio, cominciando fin da
quando si trovano ancora nel ventre materno. Vuol dire anche affinare il nostro gusto per il cibo imparando ad apprezzarlo meglio. In fondo, il cibo spazzatura sta alla
buona tavola come una canzonetta sta a Mozart, o come la pornografia sta all’erotismo. Naturalmente si può peccare di gola, esagerando anche con la buona tavola,
ma come ogni peccato, anche questo non è che la rinuncia alla libertà di scegliere,
e una forma di schiavismo nei confronti dei nostri istinti. Invece noi possiamo sempre scegliere e plasmare le nostre preferenze. Pensiamo ad esempio a chi ha scelto
una dieta vegana, rinunciando a qualsiasi alimento di origine animale, allontanandosi
quindi radicalmente dalle preferenze istintive: dopo un po’, anche questa diventa una
scelta di gusto, e la carne semplicemente non piace più. Qualunque cosa pensiamo
della dieta vegana, è un trionfo della libertà umana sui lacci della nostra biologia. Noi
siamo l’unica specie in cui una preferenza alimentare – come moltissime altre – può
avere un’origine esclusivamente cognitiva.
Da qualunque lato si prenda insomma il piacere della tavola, si ritorna sempre alla
mente, quindi al potere che abbiamo su di essa e ai gradi di libertà di cui disponiamo.
Per questo la bocca è una finestra aperta sul nostro cervello, sulla natura umana
in generale, e sulle sue potenzialità. Una finestra, per di più, che ognuno di noi può
aprire per guardare che cosa c’è là fuori (anzi, qui dentro). E non è roba per neuroscienziati. Tutti possiamo guardare – è il caso di dirlo – con piacere.
Anche perché se capiamo il gusto, possiamo capire anche altre cose su noi stessi.
Comprese molte che con il gusto non hanno nulla a che fare.
«Bere birra con gli amici
è la più grande forma d’arte»
Cristiana Perrella
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Antipasto.
1930. Milano. Dopo una cena al ristorante Penna d’oca, Filippo Tommaso Marinetti,
poeta e padre del movimento futurista, preannuncia il Manifesto della cucina futurista.
La furia iconoclasta del gruppo, che si propone di riprogettare ogni aspetto dell’esistenza, addirittura dell’universo, arriva anche a tavola. Partendo dall’assunto che «si
pensa si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia», i futuristi si scagliano contro alcuni dei capisaldi della cucina italiana: propongono l’abolizione della
pastasciutta («assurda religione gastronomica italiana»), l’eliminazione «del volume e
del peso nel modo di concepire e valutare il nutrimento», delle «tradizionali miscele per
l’esperimento di tutte le nuove miscele apparentemente assurde», del «quotidianismo
mediocrista nei piaceri del palato», fino a quella delle posate. Postulano invece originalità, l’uso di profumi, musica, poesia ad accompagnare la presentazione delle vivande,
e l’applicazione della ricerca scientifica in campo alimentare. Queste idee trovano immediata applicazione con l’apertura a Torino della Taverna Santopalato.
Primo.
1963. Parigi. Un ristorante apre nel luogo più impensato: una galleria d’arte. La Galerie J ospita una serie di banchetti: il cuoco è l’artista Daniel Spoerri, mentre alcuni
critici d’arte assicurano il servizio da camerieri. Ciò che resta di queste cene viene
quindi incollato su delle tavole, esposte poi in verticale come se si trattasse di quadri.
Sono i tableaux-pièges, i quadri-trappola che costituiscono il segno distintivo dell’opera di Spoerri. Nel 1967 l’artista conia il concetto di Eat Art, che s’interroga sulle
seguenti questioni: «Cosa è mangiabile in generale? Quali piante e quali cereali sono
base dell’alimentazione umana? Quali tipi di preparazione dei cibi sono noti in tutto
il mondo? Quali sono le varianti delle ricette fondamentali?». L’anno dopo apre un
ristorante a Düsseldorf, dove serve pietanze da lui stesso preparate. A questo si aggiunge presto una galleria consacrata alla nuova forma d’arte.
Secondo.
1971. New York. Nell’allora degradato quartiere di SoHo un nuovo locale apre i bat-
tenti: si chiama molto semplicemente Food (cibo). I titolari sono la ballerina Carol Goodden e l’artista Matta-Clark insieme ad altri amici. Il ristorante si caratterizza per la
cucina a vista, che rende la preparazione dei piatti una sorta di performance, e la
proposta di cibi freschi stagionali e di ricette internazionali. Periodicamente vengono
invitati artisti a cucinare, e le cene si trasformano in opere d’arte. Presto Food diventa il luogo di ritrovo della comunità artistica di Manhattan. Matta-Clark lo considera
come un’opera a pieno titolo e cerca di venderlo, senza successo, al gallerista Leo
Castelli. Qui sperimenta anche i primi interventi su scala architettonica che poi lo consacreranno, operando con dei tagli su pareti e porte del locale. L’avventura dura fino
al 1973, quando il ristorante cessa l’attività.
Dessert.
1993. New York. Alla galleria 303 s’inaugura una mostra dell’artista di origine tailandese Rirkrit Tiravanija. I visitatori si trovano dinanzi a quanto di solito è sul retro della
galleria (l’ufficio con lo staff). Lo spazio inoltre è trasformato in una cucina funzionante, nella quale l’artista serve gratuitamente riso e Thai curry. Si crea in tal modo una
situazione di convivialità che favorisce le relazioni interpersonali. Questa sarà tra le
prime di una lunga serie di performance condotte con modalità analoghe da Tiravanija, che afferma di lavorare sull’idea di cibo con un approccio «antropologico e
archeologico». L’artista è il campione dell’arte relazionale, una tendenza individuata
dal critico Nicolas Bourriaud negli anni Novanta che concepisce l’opera d’arte come
luogo di socialità.
Questo breve menu offre solo un assaggio delle ricette che l’arte contemporanea
ha preparato scegliendo come ingrediente principale il cibo. Quest’ultimo è stato da
sempre soggetto nella cultura figurativa occidentale: basti pensare alle straordinarie
invenzioni di Arcimboldo, che dipinge ritratti e figure allegoriche componendo frutta e
verdura; o ancora alle nature morte olandesi, che celebrano i trionfi di tavole imbandite.
È nel corso del XX secolo, però, che l’arte allarga il proprio dominio, annettendo ogni
aspetto dell’esistenza: non ne rimane certo esclusa la sfera legata alla nutrizione, parte
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essenziale della vita dell’uomo. Il cibo oltrepassa allora l’ambito della rappresentazione per prestarsi a nuovi usi e significati. L’incontro fra campi disciplinari diversi – cultura, economia, scienza
– che nel cibo si celebra diventa per gli artisti veicolo per parlare di temi come corpo, identità, politica. La spinta delle avanguardie storiche tesa ad abbattere le barriere che separano l’arte e la vita
viene proseguita nel secondo dopoguerra da vari movimenti artistici (Fluxus, New Dada, Nouveau
Réalisme). Questi impiegano spesso il cibo per inscenare azioni performative. Piero Manzoni, ad
esempio, dà in pasto al pubblico delle uova che recano la sua impronta digitale. Yves Klein, invece,
disseta i visitatori in fila all’ingresso della sua mostra con un cocktail a base di Cointreau, gin e metilene, che sortisce l’effetto di tingere le urine di blu, il suo colore. Negli stessi anni l’arte pop torna alla
rappresentazione del cibo presentando un intero campionario gastronomico: la zuppa Campbell
e la Coca-Cola di Andy Warhol, gli hamburger e le patatine fritte giganti di Claes Oldenburg, gli hot
dog e la frutta di Roy Lichtenstein. Il cibo viene letto in questo caso come espressione della società
dei consumi.
Altri artisti scelgono di lavorare con il cibo esplorandone il valore simbolico. Paradigmatica in
questo senso è l’opera di Joseph Beuys, che utilizza il grasso, il miele o l’olio per alludere ai
processi energetici vitali. Su questa linea proseguono altri artisti che eleggono il cibo a loro medium: Wolfgang Laib realizza sculture e installazioni servendosi di latte, riso e miele, influenzato
dal pensiero orientale; in maniera più ludica, Vik Muniz impiega cioccolato, burro di noccioline,
zucchero per composizioni che poi sopravvivono in forma fotografica; con un gesto eucaristico
Felix Gonzalez-Torres offre al visitatore un cumulo di caramelle il cui peso è pari a quello del
compagno morto di AIDS.
Al cibo è da sempre anche legata la dimensione della socialità e convivialità. In questo senso esso viene impiegato all’interno delle pratiche relazionali che si diffondono nell’arte a partire
dagli anni Novanta. Queste erano state anticipate da azioni come quelle dell’esponente della
Conceptual Art americana Tom Marioni, che considera l’atto di bere birra con gli amici come
la più alta espressione d’arte: l’artista organizza bevute collettive i cui resti sono poi offerti al
pubblico come opere.
Nella pluralità di significati che il cibo assume nella pratica artistica non è secondario quello legato alla memoria e identità personale, espressione del legame con la propria famiglia e le proprie
origini. In quanto espressione di civiltà esso diventa veicolo di scambi culturali, vero e proprio
strumento di diplomazia, nell’ottica multiculturale e post-coloniale che domina le arti
a partire dal 1989. Può essere letto in questo senso il progetto dell’italiano Mario Rizzi
intitolato The Gift, realizzato in Israele nel 2001, e in cui un gruppo d’israeliani e palestinesi, riuniti dall’artista in un evento conviviale, cucinano e mangiano gli uni ricette
degli altri, scoprendo così similitudini e differenze.
In anni recenti, la crescente attenzione per il cibo come fenomeno culturale ha accelerato il graduale assottigliamento dei confini: arte nel cibo e cibo come arte. Differenti
modalità di azione e di relazione sono sempre più spesso intrecciate: ristoranti che
commissionano ad artisti la progettazione dei propri spazi, oppure li ospitano in residenze, o ancora ne espongono le opere; artisti che aprono ristoranti (celebre è rimasto Pharmacy di Damien Hirst); chef che assurgono al ruolo di artisti e sono ospitati
nelle più prestigiose mostre d’arte (come Ferran Adrià a Documenta 12).
È facile immaginare, dunque, che nel lavorare al progetto di una mostra come Gola.
Arte e scienza del gusto, la selezione delle opere da accostare agli exhibit scientifici
per raccontare i vari aspetti del rapporto tra nutrizione e piacere sia stata tutt’altro
che semplice. Moltissime infatti le possibilità, i rimandi, le immagini sollecitate da un
tema tanto ricco ed evocativo. La scelta è stata orientata dalla capacità delle opere di
stimolare vari sensi, di attivare connessioni impreviste, di suggerire viaggi nello spazio e nella memoria, di toccare temi universali come la tolleranza, la salute, il bisogno
di nutrimento tanto materiale che spirituale.
La mostra si apre sull’idea di piacere sensuale associato al cibo. Il video dell’artista
americana Cheryl Donegan gioca in modo ironico sull’associazione gusto/nutrizione scegliendo il latte, alimento primario, come elemento chiave di un’azione che
si rivela carica di allusioni. La possibilità di utilizzare il cibo come medium per veicolare un messaggio metaforico, ponendolo al centro di un’azione, torna in The Onion
di Marina Abramović, basato sull’idea di resistenza corporea che attraversa tutta
la pratica della performer serba. Esternato attraverso le lacrime che rigano il volto
dell’artista, il disgusto provocato dai grandi morsi inferti a una cipolla cruda non solo
racchiude un senso d’insofferenza generale nei confronti delle dinamiche dello starsystem ma mostra anche il coinvolgimento di tutti i sensi nella rappresentazione di
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una condizione emotiva, rimarcata dalla scelta di un alimento nauseante che mette
alla prova la soglia di sopportazione dell’artista.
Alla performance in video di Marina Abramović, che racconta della capacità di un
cibo di provocare reazioni immediate e istintive orientando le nostre scelte attraverso
l’esperienza olfattiva, visiva, tattile, si legano altre due opere che rientrano nella sezione de I sensi del gusto: Chromatic diet di Sophie Calle e While nothing happens
di Ernesto Neto. La sequenza fotografica dell’artista francese, ispirata al racconto
Leviathan dello scrittore e regista Paul Auster, restituisce la maniacalità della protagonista Maria, la cui regola è quella di mangiare ogni giorno cibi dello stesso colore.
Alimenti monocromatici, ma anche stoviglie, salviette e tovaglie, disegnano pasti artificiosi quanto attraenti per i loro colori, evidenziando l’importanza dell’aspetto estetico nel processo di selezione dei cibi.
Insieme alla vista, ad essere sollecitato nell’atto di mangiare è anche l’olfatto, che
diviene il grande protagonista di tutta l’opera del brasiliano Neto: la sua grande
struttura in mostra si presenta come un affascinante organismo la cui caratteristica
è di diffondere nell’aria i profumi e gli aromi di spezie provenienti da ogni parte del
mondo, rievocando sapori e paesi esotici e trasformando l’opera in un’esperienza
multisensoriale.
I profumi di luoghi geograficamente lontani di Neto costituiscono il ponte con la sezione Buono da pensare, nella quale a fare da fil rouge è il rapporto tra locale e
globale e l’importanza che il cibo assume nella definizione dell’identità culturale di un
paese. A questo si associa la capacità dei cibi di evocare esperienze personali legate
a un passato lontano, come il flashback attivato dalla madeleine proustiana che racconta del rapporto tra memoria ed elementi scatenanti - quali sapori e odori - chiave
di accesso a storie che ritenevamo dimenticate.
Così l’albanese Anri Sala sceglie il byrek, piatto tipico della sua terra, per raccontare
la nostalgia dell’averla lasciata, mentre Boaz Arad parte dal gefilte fish, tradizionale
ricetta ebraica, per interrogarsi sul multiculturalismo d’Israele. Andy Warhol è protagonista di una delle 66 scene dall’America girate da Jørgen Leth il quale, nel tracciare il ritratto della società americana, non può far a meno di ritrarne l’icona artistica
insieme a quella culinaria, ovvero l’hamburger condito con ketchup. L’artista indiana
Sharmila Samant lavora sul simbolo della globalizzazione, la Coca-Cola, riempiendone le bottiglie con bibite prodotte artigianalmente e localmente proprio in quei
paesi in cui la multinazionale possiede impianti di imbottigliamento. Infine Gabriella
Ciancimino, siciliana di origine, trasforma una ricetta palermitana, le seppie murate,
in una performance di beat box, insistendo sul dialogo culturale e generazionale che
trova proprio nel cibo e nella cucina un possibile momento di confronto.
Al locale e tradizionale fa eco il junk food, fenomeno globale per eccellenza, che promette sazietà in tempi rapidi e a basso costo diffondendosi rapidamente non solo in
tutto il mondo ma anche in ogni fascia sociale. È ciò che Martin Parr, per la sezione I
segreti dei cibi-spazzatura, rivela nei suoi scatti dai colori saturi che documentano
l’universo colorato e attraente degli alimenti diffusi nei fast-food denunciandone le
contraddizioni in modo grottesco e corrosivo.
La necessità di recuperare un piacere sano del nutrirsi diviene quindi l’ultimo capitolo
della mostra, La ri-costruzione del gusto, nel quale dialogano le opere di Christian Jankowski e Hannah Collins. Il video The Hunt è l’ironica e divertente documentazione degli effetti della regola autoimpostasi dall’artista tedesco: mangiare
solo ciò che è in grado di procacciarsi con arco e freccia. La spesa in un supermercato si trasforma dunque in una battuta di caccia sotto gli occhi increduli degli altri
clienti e dei dipendenti, denunciando la facilità di mezzi con cui oggi è possibile nutrirsi e al tempo stesso sottolineando la necessità di una maggiore consapevolezza e
attenzione nella scelta dei cibi.
Dall’approvvigionamento “arcaico” proposto da Jankowski si passa a quello sofisticato che Hannah Collins documenta nella serie The Fragile Feast. Nato dalla
collaborazione con lo chef catalano pluristellato Ferran Adrià, il progetto fotografico
dell’artista inglese racconta il percorso d’ingredienti d’eccezione, ovvero le materie
prime che lo chef combina e trasforma nelle sue creazioni culinarie, tracciandone
per ognuno un ritratto che tiene conto del contesto geografico, delle tradizioni locali, delle persone coinvolte nei processi di raccolta, smistamento, distribuzione fino
all’arrivo in tavola.
I DILEMMI
DELL’ONNIVORO
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Chiude la mostra il video Green Pink Caviar dell’artista americana Marilyn Minter,
un susseguirsi di immagini dai colori saturi e brillanti nelle quali labbra e lingua in primo piano agiscono su una superficie di vetro come fossero pennelli, spargendo e
risucchiando gelatine colorate, granelli di zucchero e altri dolciumi. Come l’opera
di Cheryl Donegan in apertura della mostra, anche questa racconta l’incontro tra
nutrizione e piacere, gusto e desiderio, mostrando del cibo la faccia più attraente e
intrigante.
Cheryl Donegan
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Nel video Head, l’artista americana Cheryl Donegan utilizza in un’azione carica di
allusioni il latte come cibo primario, cui si legano memorie dell’infanzia e la prima sensazione di piacere associata al nutrimento. Sullo sfondo di una colonna sonora a
ritmo di rock, Donegan beve il latte che zampilla da un contenitore, in parte lo ingoia e
in parte lo risputa all’interno, leccando le gocce che cadono fuori e ingaggiando una
sorta di divertita lotta con l’anonimo recipiente. All’accelerazione del ritmo musicale
corrisponde quella dell’azione performativa, che culmina con lo sputo del latte sul
muro – quasi una forma di action painting – e con l’artista che abbandona il campo,
lasciando dietro di sé gli indizi di quanto appena successo. Tra ironia ed erotismo, nel
video di Donegan l’atto necessario del nutrirsi si trasforma in qualcosa di eccitante,
divertente e gustoso, un gioco in grado di coinvolgere tutti i sensi.
A partire dagli anni Novanta, Cheryl Donegan (New Haven, Connecticut, 1962; vive a
New York) utilizza il video per riprendere performance in cui è direttamente coinvolta,
mettendo in scena azioni che spesso simulano le procedure della pittura o della scultura. Misurandosi con temi quali il sesso, la fantasia e il voyeurismo, Donegan si serve
del proprio corpo per esorcizzare cliché legati alle questioni di genere.
Cheryl Donegan
Head, 1993
Video a colori, sonoro, 2’49’’
Courtesy Electronic Arts Intermix (EAI), New York
i dilemmi dell’onnivoro exhibit
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Il piacere di mangiare è stato una chiave fondamentale del successo della nostra specie. Se
siamo riusciti a vivere in ogni ambiente naturale
dall’Artide al Sahara, dagli atolli del Pacifico agli
altipiani delle Ande, è stato innanzitutto perché
ovunque siamo riusciti a procurarci abbastanza
da mangiare. Al contrario di qualsiasi altro animale, possiamo infatti mangiare di tutto: foglie, frutti,
semi e radici delle piante, oppure carne, organi,
midollo osseo, sangue, uova e latte di ogni tipo di
animali. Crudi o cotti, freschi o conservati. Quando un alimento non è più disponibile, noi mangiamo qualcos’altro.
In quanto onnivori, però, abbiamo un problema
che altre creature non hanno. Come facciamo a
sapere se un alimento contiene tutta l’energia e
le sostanze di cui abbiamo bisogno? Le foglie,
ad esempio, sono ricche di vitamine ma povere
di energia. Le parti di un animale hanno contenuti
diversi di proteine e di grassi.
E come facciamo a scoprire se ci può far male?
La maggior parte delle piante sono velenose, e i
prodotti animali si guastano facilmente. Con decine di milioni di specie animali e vegetali potenzialmente disponibili, più i loro derivati, e senza poter
contare sull’aiuto di analisi chimiche e di quello
che oggi sappiamo sulle nostre necessità fisiologiche, era un problema straordinariamente difficile.
La natura lo ha risolto nascondendo i dilemmi
dell’onnivoro dietro a un piacere.
Non abbiamo quindi bisogno di vedere l’energia
racchiusa negli zuccheri di un frutto maturo: ci
basta apprezzarne la dolcezza. Oppure nascondendoli dietro al suo opposto: il disgusto. Non abbiamo infatti bisogno di vedere i batteri patogeni:
ci basta il sapore cattivo della carne o del pesce
andati a male.
Anche se pensiamo di essere noi a scegliere liberamente che cosa mangiare, siamo invece
condizionati – senza saperlo – da una serie di
preferenze che ci guidano attraverso sensazioni di
maggiore o minore piacere.
La maggior parte delle volte, infatti, non iniziamo
a mangiare perché abbiamo bisogno di energia o
di qualche particolare sostanza, ma guidati dall’aspettativa di un piacere, segnalata ad esempio
dalla vista del cibo, dall’arrivo dell’ora del pasto, o
semplicemente dalla noia. E quanto mangeremo
dipende dal piacere che il cibo ci sta dando, oltre
che dalla fame rimasta. La quantità di calorie che
ingeriamo è dunque controllata prima di tutto dal
gusto. Tutte le altre considerazioni – costo, praticità, salute – vengono dopo.
Il piacere della tavola è insomma lo stratagemma
inventato dalla natura per guidare le nostre scelte
a tavola, esattamente come il piacere del sesso si
è evoluto per spingerci a mettere al mondo dei figli. Nessuno dei due è un obbligo, ma nessuno dei
due si può ignorare facilmente.
I SENSI DEL GUSTO
Marina Abramovic
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Come in molte delle sue celebri performance, in The Onion Marina Abramovi lavora
sui limiti della propria resistenza corporea, traducendo una situazione di disagio in
un’immagine di disgusto nella quale tutti i sensi appaiono stimolati e sovraeccitati.
Il video è la documentazione di un’azione che vede l’artista serba addentare una
cipolla cruda e cominciare a masticarla, in modo sempre più convulso. Mentre divora la cipolla a grandi morsi, la sua voce fuori campo racconta della stanchezza
nell’affrontare momenti particolari della sua vita di artista-star e della sua vita privata.
L’insofferenza nei confronti di particolari situazioni della propria esistenza si lega visivamente all’agitazione sempre più grande che segna il suo volto mentre continua ad
addentare la cipolla, che la fa lacrimare copiosamente. Il cibo diventa qui l’immagine
di una condizione emotiva che si traduce in un senso di repulsione, provocato dalla
cipolla e dall’odore e sapore che la caratterizzano.
Marina Abramović (Belgrado, 1946; vive a New York) è tra le protagoniste indiscusse
della Performance Art. A partire dagli anni Settanta lavora con il suo corpo e le sue
emozioni, esplorando la complessa relazione tra artista e pubblico. In occasione
della sua grande mostra al MOMA di New York nel 2010, il film-documentario dal
titolo The Artist is Present ne ha ripercorso la lunga carriera.
Marina Abramovic
The onion, 1995
Performance per video, 10’
UTA Dallas
© Marina Abramovic
Courtesy l’artista e Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
Sophie Calle
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Le régime chromatique (la dieta cromatica) dell’artista francese Sophie Calle racconta il ruolo della componente estetica nel processo di scelta dei cibi, in grado di
attirare non solo per il loro odore o sapore ma anche per il loro colore o forma. Il lavoro di Calle nasce da una richiesta che l’artista fa allo scrittore Paul Auster, al quale
chiede di inventare un personaggio da poter “interpretare”. Il personaggio ideato da
Auster è Maria, protagonista del racconto Leviathan (1992), la cui regola è quella di
mangiare ogni giorno cibi dello stesso colore. Ispirandosi a tale peculiare disciplina,
Sophie Calle compone sei fotografie di pasti monocromatici – abbinati a piatti e
posate dello stesso colore – che corrispondono a giorni diversi della settimana. Alle
fotografie dei singoli pasti, accompagnate dall’indicazione dei cibi che li compongono, seguono gli scatti finali che mescolano cibi e colori, in una vivace e al tempo
stesso rigorosa composizione formale e cromatica.
Tutta la ricerca di Sophie Calle (Parigi, 1953), a partire dalla fine degli anni Settanta,
si caratterizza per la dimensione autobiografica e intimistica dei suoi lavori, attraverso i quali l’artista si espone al pubblico. Avvalendosi di strumenti diversi quali video,
fotografia, installazioni, Calle rende accessibile il proprio vissuto e le proprie suggestioni in modo spesso ironico e provocatorio.
Sophie Calle
Le régime chromatique, 1997 [dettaglio]
7 fotografie, testi, menu, mensola
30 x 30 cm (6 foto) + 49 x 73,5 cm (1 foto)
Courtesy l’artista e Galerie Perrotin
Ernesto Neto
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Tratto distintivo delle sculture e installazioni del brasiliano Ernesto Neto è la volontà
di stimolare i sensi del pubblico e in particolare l’olfatto, utilizzando spezie diverse
che invadono tutto l’ambiente con i loro profumi. While Nothing happens è una grande struttura sospesa che evoca una forma organica, composta da sacche di lycra
riempite da spezie di vari colori quali cumino, zenzero, curcuma e chiodi di garofano
in polvere, i cui aromi rievocano i sapori esotici delle cucine di ogni parte del mondo. Morbide e sensuali, le appendici di questo grande organismo richiamano forme
stalagmitiche invitando lo spettatore a un’esperienza non solo olfattiva, ma anche
tattile. “La scultura non ha il solo scopo di rappresentare un corpo. Esiste come un
corpo. Ma è anche una struttura, un luogo di riflessione, dove le persone si incontrano e ognuno dà la propria interpretazione”, afferma l’artista. Creando i presupposti
per un’esperienza multisensoriale, Neto mostra come proprio i sensi siano il primo
strumento per la conoscenza della realtà che ci circonda.
A partire dagli anni Novanta Ernesto Neto (Rio de Janeiro, 1964) utilizza calze di
nylon e altri materiali flessibili e d’uso quotidiano, per poi passare a tubi di maglia fina
e translucida riempiti di spezie provenienti da ogni parte del mondo. I suoi lavori nascono in dialogo con lo spazio e con un intento interattivo, stimolando lo spettatore
a un contatto diretto con l’opera.
Ernesto Neto
While Nothing Happens, 2008
lycra, legno, spezie
Installazione al MACRO – Museo d’Arte Contemporanea di Roma, 2011
Foto Altrospazio
Collezione privata. Courtesy l’artista
I SENSI del gusto exhibit
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Ogni volta che mettiamo in bocca qualcosa, mettiamo potenzialmente a rischio la nostra salute, e
forse la nostra stessa sopravvivenza. Oggi si tratta
di un rischio remoto, ma in passato, nel corso della
nostra evoluzione, questo pericolo ha plasmato le
nostre preferenze alimentari. Per questo, quasi tutti sensi sono chiamati a raccogliere, in un istante,
ogni possibile indizio.
La vista ci aiuta innanzitutto a identificare che cosa
stiamo per mangiare. Poi, con il primo boccone,
controlliamo la temperatura. Magari sentiamo anche se fa un rumore particolare.
Il primo vero esame per capire che cosa c’è dentro
lo fa però il naso. L’80 o 90% di quello che siamo
abituati a chiamare “gusto” è in realtà olfatto, che è
stimolato dalle molecole dell’alimento che si sprigionano nell’aria e capace di distinguerne un numero quasi infinito, anche se in concentrazioni di
poche parti per milione.
Dal tatto dipendono il piccante, il solletico delle bollicine, il fresco del mentolo, l’astringente della frutta
acerba o dei vini secchi, la sensazione di croccante di una patatina, la cremosità di una salsa o il viscido di un’ostrica.
Tocca infine al sistema gustativo – cioè al “gusto”
vero e proprio – segnalare al cervello le molecole più
pesanti, oppure disciolte nell’acqua o nei grassi. Le
circa 3000 papille gustative distribuite sulla lingua e
nella bocca sono in grado di percepire appena sei
gusti fondamentali – dolce, salato, amaro, aspro,
umami, e forse anche grasso – ma il giudizio sul valore nutritivo dipende soprattutto da loro.
Il gusto dolce piace a tutti. Segnala infatti la presenza di carboidrati, o zuccheri, che sono molecole
ricche di energia: 4 chilocalorie al grammo.
Anche il grasso, probabilmente anch’esso un gusto fondamentale, ci piace perché è più ancora più
ricco di energia: 9 chilocalorie per grammo.
Il gusto salato segnala invece la presenza di sodio,
un elemento indispensabile per mantenere l’equilibrio dei fluidi nel nostro organismo.
L’umami, da una parola giapponese che vuol dire
“brodoso”, o “carnoso”, è un gusto dovuto alla presenza di glutammato, molto comune nella cucina
asiatica ma di cui sono ricchi anche salsa di soia,
formaggi, molluschi e pomodori. Il glutammato non
è un nutriente essenziale, ma segnala all’organismo
la presenza di proteine, sia animali che vegetali.
Tendiamo invece a evitare i cibi dal sapore amaro, almeno inizialmente. Il nostro primo istinto di disgusto
di fronte ai cavoli di Bruxelles, alla cicoria o ai broccoli si è evoluto come difesa dalle tossine presenti in
moltissime piante. Istintivamente, tendiamo anche a
evitare il sapore aspro, che domina ad esempio nel
limone o nell’aceto ed è prodotto dall’acidità, che
spesso segnala i cibi andati a male.
In un istante, il cervello integra le informazioni provenienti da vista, tatto, olfatto e gusto in un’unica
sensazione. Per questo noi non “vediamo” – per
così dire – i nutrienti, ma solo delle sensazioni.
zuccheri
grassi
glutammato
Na
aspro
umami
amaro
BUONO DA PENSARE
Anri Sala
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I cibi sono spesso legati a una precisa storia personale e culturale, e per questo in
grado di evocare la memoria di fasi passate della vita insieme a quella delle proprie
origini geografiche. Nella sua videoinstallazione Byrek, Anri Sala – artista albanese
che vive in Germania – racconta la preparazione di un piatto tipico diffuso in tutti i
Paesi Balcanici, fino alla Turchia, consistente in una sorta di torta salata con sfoglia
molto sottile ripiena di vari ingredienti. L’installazione è composta da una videoproiezione che mostra le braccia di una donna che prepara il byrek a partire dalla ricetta
scritta dalla nonna dell’artista in una lettera a lui inviata, che è stampata direttamente sullo schermo di proiezione. La ritualità dei gesti evoca memoria storica e valore
culturale-identitario del cibo, che si lega a una specifica tradizione popolare. Un testo
di Sala è proiettato su una parete accanto e descrive le sensazioni e i ricordi personali
dell’artista nel pensare questo piatto della sua terra. La preparazione del byrek diviene elemento di immaginazione, fantasia di appartenenza, motivo per una riflessione
sulle proprie origini, cui si rimane inevitabilmente attaccati anche quando ormai si è
emigrati in un altro paese.
Anri Sala (Tirana, 1974; vive a Berlino) affronta nelle sue opere riflessioni legate al
concetto di luogo e identità, spesso utilizzando la musica per sovvertire e confondere la percezione del pubblico. Nel 2013 ha rappresentato la Francia alla Biennale
di Venezia.
Anri Sala
Byrek, 2000
Videoproiezione su carta stampata + proiezione slide, colore, sonoro
21’43”
Courtesy Galerie Chantal Crousel, Parigi; Johnen Galerie, Berlino; Galerie Rüdiger Schöttle, Monaco
Boaz Arad
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Nel video Gefilte Fish, l’artista israeliano Boaz Arad intervista sua madre mentre cucina il piatto caratteristico degli ebrei ashkenaziti. L’inquadratura è sulle mani della
donna, che sapientemente tagliano, sfilettano, infornano, ma il volto non appare mai.
L’artista sceglie questo momento per farle domande sulle sue radici e la sua identità,
affrontando in particolare il rapporto tra gli ebrei Ashkenazi (provenienti da Germania
ed Europa dell’Est) e gli ebrei Mizrachi (da Nord Africa e Medioriente). La preparazione di un piatto tipico diviene dunque il pretesto per una riflessione sul multiculturalismo di Israele e sulla necessità di preservare tradizioni in via di estinzione. Ad alcune
domande Arad risponde in prima persona sincronizzando il proprio labiale sulla voce
della madre, ottenendo un’immagine grottesca che è rimarcata dalla presenza di alcune scene in cui compare un pappagallo sulla spalla dell’artista o il volto stesso di
Arad è trasformato in un inquietante pupazzo meccanico.
I lavori di Boaz Arad (Israele, 1956) riflettono sui concetti di memoria e identità e sono
pervasi da una sottile vena ironica che aiuta lo spettatore a elaborare la drammaticità
dei temi trattati. In Gefilte Fish l’artista racconta di aver guardato ad Alfred Hitchcock,
in particolare a Psycho per la falsificazione della voce materna e a Gli uccelli per la
presenza fastidiosa del pappagallo.
Boaz Arad
Gefilte Fish, 2005
Video a colori, sonoro, 11’
Courtesy l’artista
Gabriella Ciancimino
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If Iu Fil Homsik, Tink in Dailect! è un progetto iniziato da Gabriella Ciancimino nel 2008
e sviluppato con media differenti, tra cui video, fotografia e organizzazione di workshop di cucina in spazi d’arte. A partire da una riflessione sul senso di nomadismo e
sul sentimento di nostalgia della propria terra, l’artista lavora sull’identità geografica e
culturale scegliendo proprio il cibo e la cucina come possibili elementi aggreganti. Nel
video Ritratto in nero di seppia, ambientato in un interno domestico palermitano, una
mamma spiega ai due figli come preparare le seppie murate, tipico piatto siciliano.
L’illustrazione della ricetta – che segue il format di ben noti programmi televisivi – è
accompagnata dai ragazzi che fanno Beat Box, trasformando in musica i suoni che la
madre produce cucinando. Il confronto generazionale diventa anche culturale laddove le fasi di preparazione di un piatto tradizionale sono accompagnate da una pratica
nata nell’ambito dell’Hip Hop americano. Il breve racconto si risolve in un incontro,
con i quattro membri della famiglia (padre incluso) che intonano insieme una canzone
di influenza Gospel.
Tra arte, musica e performance la ricerca di Gabriella Ciancimino (Palermo, 1978) si
focalizza sul concetto di relazione. I suoi lavori raccontano brani di realtà con l’intento
di offrirne una visione personale ma anche di stimolarne una percezione collettiva,
prediligendo un approccio basato sulla condivisione e sullo scambio con il pubblico.
Gabriella Ciancimino
If iu fil homsik, tink in dailect: Ritratto in nero di seppia, 2010
Video DVD SD PAL 16:9, colore/stereo, 6’ 10’’
Courtesy l’artista
Sharmila Samant
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Loca-Cola dell’artista indiana Sharmila Samant affronta il tema del rapporto tra locale
e globale in relazione al gusto. Dopo aver raccolto bottiglie di vetro della Coca-Cola
da tutti i paesi del mondo dove la multinazionale americana possiede impianti di imbottigliamento, l’artista le riempie con bibite prodotte localmente nei rispettivi paesi,
sigillandole con metodo casalingo ed etichettandole con il nome della bevanda locale che contengono e quello dell’imbottigliatore - ovvero il suo. Colloca poi le bottiglie
in un hath gadi, un carretto a mano di fabbricazione artigianale che si può facilmente
vedere in India nei luoghi pubblici e in particolare negli spazi ricreativi. Il lavoro nasce
dalla riflessione su come la Coca-Cola sia la bevanda globale per eccellenza ma in
realtà il suo sapore cambi leggermente da paese a paese, adattandosi ai gusti locali
in funzione di precise strategie di marketing, tese a conquistare un numero sempre
crescente di consumatori. Soffocando i gusti locali, la Coca-Cola strangola i piccoli
produttori locali di bibite fatte in casa, le stesse cui l’artista restituisce visibilità imbottigliandole al posto della celebre bevanda americana.
Nelle sue installazioni e video Sharmila Samant (Mumbai, 1967) si confronta con la
questione dell’identità all’interno del contesto globale, guardando all’effetto omogeneizzante che ha investito le economie in via di sviluppo. È tra i fondatori del collettivo
Open Circle con sede a Mumbai.
Sharmila Samant
Golawalla, Andheri, 2000
Courtesy l’artista
Sharmila Samant
Loca-Cola, 2000-2003 [dettaglio]
Collezione Lekha e Anupam Poddar
Installazione alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo,
Torino 2006. Foto Davide Bozzalla
buono da pensare exhibit
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Nel mondo esistono centinaia di culture alimentari diverse, in cui si mangia ogni tipo di piante e
di animali. Spesso, quello che delizia in un paese
disgusta in un altro. Le scelte a tavola non possono quindi dipendere solo dalle preferenze istintive,
che sono poche e molto simili in ciascuno di noi.
Tutte le altre, infatti, le dobbiamo imparare. E la
cosa migliore è vedere che cosa mangiano gli altri.
Già il feto comincia a riconoscere il sapore dei cibi
che la mamma ha mangiato, e dopo la nascita li
troverà più buoni. La logica è semplice: se lei le ha
mangiate senza danni, vuol dire che sono sicure.
Ma è un meccanismo fondamentale che funziona
a tutte le età, e permette ad esempio di imparare
ad apprezzare anche i cibi che non sono dolci né
grassi, o che sono addirittura amari o aspri.
Anche l’esperienza personale è importante. Se in
un momento di stanchezza e di vera fame, la cioccolata ci ha fatto bene, anche in seguito la troveremo più buona.
Lo stesso meccanismo rinforza la preferenza per
quegli alimenti che sono più disponibili e si sono
dimostrati più nutrienti, ad esempio per il grano in
Europa, il riso in Asia, il mais in Sudamerica, o gli insetti, un’ottima fonte di proteine animali, che quasi
due miliardi di persone nel mondo trovano buonissimi. O addirittura la carne umana: il cannibalismo era
diffuso in molte culture delle Americhe e del Pacifico
in cui mancavano buone fonti di cibo animale.
Per lo stesso motivo si possono sviluppare anche
delle avversioni. Il tabù indiano della vacca sacra, ad
esempio, ebbe origine oltre 2000 anni fa, quando la
popolazione diventò troppo numerosa per potersi
permettere di dedicare terra al pascolo. Meglio coltivarla, e conservare le vacche per il latte, per trainare
l’aratro, per fertilizzare i campi. Alcune avversioni,
come quella dei vegetariani per la carne, possono
persino nascere da una scelta consapevole.
Nella maggior parte dei casi, però, le preferenze
dipendono da condizionamenti di cui non siamo
consapevoli. Basti pensare alla pubblicità, che fa
leva proprio sulla nostra abitudine di basarci su
quello che fanno gli altri, soprattutto se li ammiriamo per qualche motivo. O su quel meccanismo
psicologico che ci fa scegliere un cibo nuovo se è
associato a un contesto o a un’esperienza positivi
(il compleanno, la notte di Natale, un bel viaggio) o
semplicemente a qualcosa che ci piace già.
In realtà, questo meccanismo guida anche l’evoluzione delle culture alimentari tradizionali. Ognuna
ha infatti dei sapori caratteristici, dovuti a condimenti con una particolare combinazione di ingredienti. Quando un alimento non è più disponibile,
il modo migliore per accettarne uno nuovo è associarlo a un condimento già noto.
I sapori infatti rendono caratteristica una cucina tradizionale, ma rappresentano anche una cultura. Per
questo il cibo della tradizione ci dice chi siamo e a
quale comunità apparteniamo, e produce un’emozione molto più importante di quanto immaginiamo.
I SEGRETI
DEI CIBI SPAZZATURA
Jørgen Leth
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Inclusa nelle 66 scene dall’America che danno il titolo al lungometraggio girato da
Jørgen Leth nel 1981, Andy Warhol Eating an Hamburger vede il protagonista della
Pop Art americana mangiare un hamburger in rigoroso silenzio per circa 4 minuti.
Terminata l’azione, l’artista dichiara: “My name is Andy Warhol and I just finished eating a hamburger”. Giocato sull’idea dei 15 minuti di celebrità di cui proprio Warhol si
era fatto portavoce ed emblema, il breve girato mette al centro l’idea di icona: icona
è l’artista stesso ma anche il cibo che mangia, un hamburger condito con ketchup,
dal cui packaging si riconosce la provenienza (Burger King). Simbolo dell’identità
americana popolare, l’hamburger nella sua confezione industriale diviene immediata
espressione della società dei consumi che proprio Warhol aveva perfettamente raccontato nelle sue opere pop a partire dagli anni Sessanta.
Jørgen Leth (Århus, 1937) è un poeta e regista danese. Nel 1981 dirige 66 scenes
from America, un film che cuce insieme una serie di lunghe inquadrature, ognuna
concepita come cartolina visiva di un immaginario viaggio attraverso l’America. Tra
i suoi film più famosi vi sono The Perfect Human (1967) e Le cinque variazioni (2003)
realizzato con Lars von Trier.
Jørgen Leth e Ole John
Burger New York, 1982
Una sequenza da 66 scenes from America
Produzione Ole John
Courtesy Ole John Film, Copenhagen
Martin Parr
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Nelle immagini dedicate al junk food, il fotografo inglese Martin Parr documenta con
scatti dai colori saturi gli eccessi dell’alimentazione basata su prodotti dei fast-food.
Accattivanti nei colori, nella forma e nel gusto, ma assolutamente scadenti dal punto
di vista nutritivo, tali cibi diventano l’emblema della poca attenzione riservata a un’alimentazione giusta ed equilibrata a favore del raggiungimento veloce di sazietà a
basso costo. Catturando situazioni diverse e persone molto distanti tra loro, per cultura, provenienza o estrazione sociale, l’artista racconta la diffusione che tali prodotti
hanno raggiunto, a livello globale così come in tutte le fasce sociali. Il progetto fotografico di Martin Parr dedicato ai cibi spazzatura si inserisce perfettamente all’interno
della sua ricerca, volta a mettere in risalto gli aspetti contradditori, talvolta grotteschi,
della realtà che viviamo. Tempo libero, consumo e comunicazione sono parole chiave all’interno del suo lavoro, che reinterpreta con ironia aspetti della società moderna
criticandola dall’interno.
Martin Parr (Epsom, 1952) è un fotoreporter britannico. Dopo gli inizi in bianco e nero,
dalla metà degli anni Ottanta passa al colore, sempre molto saturo, che diviene distintivo del suo lavoro. Dal 1994 è tra i fotografi dell’agenzia Magnum Photos.
Martin Parr
Common sense (England. New British. Ramsgate), 1996
© Martin Parr / Magnum Photos.
Courtesy l’artista e Studio Trisorio, Napoli
Martin Parr
USA. Atlanta. The Georgia State Fair. Fast food, 2010
© Martin Parr / Magnum Photos
Courtesy l’artista e Studio Trisorio, Napoli
i segreti del cibo spazzatura exhibit
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Per quasi tutta la storia umana, e per quasi tutti, il
cibo è stato scarso e difficile da procurare. La carne era un lusso raro, e i sapori dolci erano ancora
più rari: praticamente, c’era solo il miele. Non erano rare invece le carestie.
Ma i tempi sono cambiati. Il cibo è diventato abbondante ed economico, e anche la vita è molto
meno dura di una volta, e abbiamo così bisogno
di molte meno calorie. I meccanismi biologici del
gusto, però, sono rimasti gli stessi e ci spingono
ancora a cercare quei sapori che per tanto tempo
hanno assicurato la nostra sopravvivenza.
Il risultato è che, nel mondo, gli adulti sovrappeso
oppure obesi sono un miliardo e seicento milioni: il
doppio di quelli che soffrono la fame.
Ma la colpa è anche di chi produce il cosiddetto
“cibo-spazzatura”, che oltre al fast food comprende moltissimi alimenti confezionati. Si tratta di cibo
studiato perché sia capace di “super-stimolare”
l’appetito, e sopraffare i sistemi che normalmente
controllano l’assunzione di cibo.
Il trucco consiste nel proporre la giusta combinazione di quei nutrienti che l’evoluzione ci ha programmati per ricercare: zuccheri, grassi e sale.
Dalla lingua e dal palato, i segnali giungono al nucleus accumbens, l’area del cervello dove ha sede
il centro del piacere dell’organismo, che libera così
endorfine, sostanze simili alla morfina o all’eroina
che generano sensazioni di gratificazione e benessere e ci calmano, alleviando anche tensione e do-
lore. Le endorfine interferiscono anche con la cosiddetta “sazietà gusto-specifica”, quella che dopo
un po’ ci fa stancare di un alimento, e ci spingono
quindi a continuare a mangiare.
Ma non è solo colpa di grassi, zucchero e sale. Anche la multisensorialità – combinazioni di speziato
e salato, speziato e dolce, dolce e salato, dolce
e aspro, croccante fuori e cremoso dentro di cui
questi sono pieni – stimola l’appetito. Gli “shock” di
piacere provocati dalla super-stimolazione del gusto attivano anche la produzione di dopamina, che
concentra infatti la nostra attenzione sulla ricerca
di questo piacere e ci spinge a fare di tutto per
provarlo di nuovo. I meccanismi cerebrali in gioco
attivati dai cibi-spazzatura sono gli stessi che vengono attivati dall’uso delle droghe.
Col tempo, poi, il consumo di cibi-spazzatura diventa un’abitudine. Quando riceviamo i segnali
giusti – il sapore, il luogo, l’occasione, l’ora del giorno associati a un prodotto – si attiva la catena dei
comportamenti, che col tempo diventa sempre più
automatica e sempre meno consapevole. Quindi,
meno controllabile.
Per fortuna non tutti sono altrettanto vulnerabili,
perché la tendenza a ingrassare ha un’importante
componente genetica. Ma è un problema in rapidissima crescita.
Nel mondo, la proporzione di persone sovrappeso
e obese è raddoppiata rispetto al 1980, e potrebbe
raddoppiare ancora entro il 2030.
EXHIBIT
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La ricostruzione
del gusto
Christian Jankowski
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Dandosi la regola di mangiare per una settimana solo ciò che è in grado di cacciare
con arco e freccia, nel video Die Jagd [la caccia] l’artista tedesco Christian Jankowski
si fa riprendere da un amico mentre spara frecce ai generi alimentari in un supermercato, per poi depositare il risultato della caccia (con tanto di frecce ancora infilzate)
sul nastro della cassiera. Ironica e divertente, l’operazione dell’artista mette in relazione l’azione più immediata, quasi primordiale, di procacciarsi il cibo, con la ricchezza e
la facilità di accesso ad ogni tipo di alimento che caratterizza invece l’epoca contemporanea e che per questo andrebbe gestita in modo più consapevole.
Muovendosi attraverso media differenti, tra cui fotografia, video e installazione, Christian Jankowski (Göttingen, 1968; vive a Berlino) rielabora nei suoi lavori suggestioni
provenienti dai mass-media, talvolta riproducendone i meccanismi, come nella videoinstallazione Telemistica presentata alla Biennale di Venezia nel 1999 o The Holy
Artwork (2001), realizzato in collaborazione con una rete televangelica.
Christian Jankowski
Die Jagd, 1992
Video, colore, sonoro, 1’11’’
Courtesy Galerie Klosterfelde, Berlino
Hannah Collins
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The Fragile Feast è il frutto della collaborazione tra l’artista Hannah Collins e Ferran
Adrià, chef pluristellato riconosciuto a livello internazionale e icona del ristorante El
Bulli di Barcellona. A partire dalla dedizione di Adrià nell’approvvigionamento dei propri ingredienti, Hannah Collins sviluppa un progetto fotografico che documenta il percorso che porta tali ingredienti nella cucina del grande chef. Le sue fotografie sono
quindi il risultato di un viaggio attraverso diversi paesi (Italia, Grecia, Spagna, Giappone, Sud America) e documentano non solo le materie prime ma i luoghi cui esse
sono legate, facendosi uno spaccato della cucina locale ma anche di un insieme di
memorie, tradizioni, esperienze che rendono ognuno di questi ingredienti un elemento unico, come le rose e gli anemoni di mare qui in mostra utilizzati per la ricetta che li
vede associati a cervello di coniglio, aneto e ostriche. Le fotografie di Hannah Collins
sono raccolte in un libro che documenta origine e storia di 30 ingredienti identificati
con Ferran Adrià.
Artista e filmmaker, Hannah Collins (Londra, 1956; vive tra Londra e Barcellona) lavora sulla memoria e la storia come esperienze collettive, lasciando emergere in ogni
suo progetto gli aspetti più poetici della realtà che racconta.
Hanna Collins
The Fragile Feast, 2011
[Anemones. Cadiz, Spain]
Collezione Deutsche Bank e Fundacion Banco Sabadell
Courtesy l’artista
Marilyn Minter
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L’artista americana Marilyn Minter lavora con trasgressione e ironia, spesso rifacendosi ad un immaginario onirico, quasi surreale, colorato da cromie acide e sgargianti. Il video Green Pink Caviar, già esposto al MOMA di New York e scelto da
Madonna per accompagnare il suo Sticky & Sweet European Tour del 2009, mostra
una bocca che in modo sensuale lecca e mangia gelatine colorate e altri ingredienti
utilizzati per la decorazione di torte. La lingua si trasforma in una sorta di pennello
che, sulla superficie di vetro in primo piano, crea immagini astratte, utilizzando come
materia prima elementi commestibili e attraenti per forme e colori. La centralità attribuita alla bocca diviene immagine del desiderio, espressione di un gusto che non
si ferma all’atto di mangiare ma si estende a tutte le altre diverse forme con cui il
piacere può manifestarsi.
Pittrice, scultrice e fotografa, Marilyn Minter (Shreveport, 1948; vive a New York) lascia incontrare nelle sue opere la cultura pop con la sessualità, più o meno esplicita,
muovendosi continuamente sul confine tra arte “alta” e arte commerciale per creare
immagini accattivanti e di forte impatto visivo.
Marilyn Minter
Green Pink Caviar, 2009
Video digitale HD su DVD, 7’ 45’’
Courtesy l’artista e Salon 94, New York
la ricostruzione del gusto exhibit
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Mangiare bene è molto semplice: molta frutta e
verdura; un po’ meno di pasta, riso, pane o patate;
ancora meno di carne, uova o pesce; pochi fra derivati del latte e condimenti; pochissimi dolci. Ma in un
mondo così pieno di cibi gustosi che ci chiamano da
ogni parte, mangiare bene può essere molto difficile.
Come ne usciamo?
1) Possiamo benissimo mangiare di più, oppure cibi
più gustosi, se poi consumiamo le calorie in più facendo esercizio fisico. Ma ne dovremmo fare veramente
tanto: per consumare le oltre 400 calorie contenute in
100 grammi di biscotti confezionati, ad esempio, una
persona del peso di 70 chili deve correre per quasi
sette chilometri.
2) Possiamo seguire l’istinto ma mangiare prodotti
tipici di grande qualità: pagare di più, e mangiare di
meno. Peccato che sia una soluzione da weekend
gastronomico, o poco più, perché pochi si possono
permettere, o sono disposti a spendere tanto di più,
tutti i giorni.
3) Possiamo tornare a mangiare come una volta:
meno cibi pronti e più cibi fatti in casa, dagli ingredienti quasi certamente più sani. Ma chi ha più tempo per
cucinare?
4) Possiamo chiedere all’industria di proporre cibi
con meno grassi e zuccheri e più nutrienti utili, o in
porzioni più piccole. Ma l’industria alimentare ha un
ovvio interesse a indurci a mangiare sempre di più, e
bisognerebbe imporlo per legge.
5) Possiamo cercare di migliorare i cibi industria-
li mantenendoli appetibili, ingannando in qualche
modo il cervello. Se le sensazioni che il cibo ci regala
sono il risultato di una complessa integrazione di gusto, odore, tatto, udito, e persino dolore, potremmo
ad esempio aumentare l’odore per compensare la
riduzione di grassi e zuccheri. Ma affideremmo a poche aziende high-tech la nostra alimentazione, che
è una parte così cruciale della nostra cultura e della
nostra stessa identità?
6) Possiamo anche sganciare del tutto il gusto dalla
nutrizione, portando la manipolazione degli alimenti
a conseguenze estreme, come fanno i grandi chef
della cucina molecolare. Ma è realistico pensare di
“rifondare” da zero la nostra alimentazione?
7) Possiamo “educare” (o rieducare) il gusto ad apprezzare sapori meno banali, quindi anche cibi più
sani: moltissime persone infatti mangiano bene. Il gusto per il cibo si può infatti affinare, come quello per
l’arte o la musica. Ma questa è una questione di cultura, e la cultura è una cosa lenta e difficile da cambiare.
I problemi complessi non hanno mai risposte semplici, e il problema della nostra alimentazione lo è
senz’altro. In ciascuna di queste risposte c’è probabilmente un pezzo di soluzione, e ciascuno di noi
deve trovare i pezzi giusti per il proprio caso personale. Ma dovremmo anche riuscire a compiere un
piccolo miracolo: pensarci e non pensarci allo stesso
tempo. Altrimenti rischiamo di rovinare questo grandissimo piacere della vita. Perché anche il gusto,
come l’amore, non vuole pensieri.
ENGLISH VERSION
Feeding the brain, feeding the planet
Marino Golinelli
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This short introduction takes its cue from the phrase The mouth is a window open to the brain, which is
the title of the contribution to this catalogue by Giovanni Carrada, curator of the exhibition.
The show, in fact, is about taste and nutrition, viewed not just in themselves, but also as a microcosm that
is familiar and accessible to us all of a larger theme. At the center of every initiative of the Foundation is an
effort to cultivate the capacity to think about ourselves, our lives as self aware persons who are open to
the stimuli and the complexity that come from a global world.
While the mouth seen in the exhibition logo is the symbol of our relationship with food, it is the brain
that orients us so that nourishment can be integrated in a more general way with the nature of man and
the future of the individual in a particular cultural, social and economic context. It is the brain, mediating
between instinctive motivations and comprehension of situations nature could not have foreseen, that
can identify and choose a correct relationship with food and thus a better health and a long, happy
existence.
Likewise, also in every other field, it is always the brain that orients us and can allow us to live a free life,
to be happy, to participate in the life of society in a responsible way. The brain, however, needs to be
“nourished” with the right knowledge and stimuli, which come from science, art, and every other sphere
of culture. Making this knowledge and these stimuli available to all, and above all to young people, is the
mission of Fondazione Marino Golinelli.
Gola: Art and Science of Taste is the fifth exhibition produced by the Foundation, after Anthroposphere,
Happy Tech, From 0 to 100 and Fuels, and it is one of the many initiatives the Foundation has undertaken
to help the citizens of tomorrow contribute to the cultural growth of society. All are based on the slogan
the Foundation has made its own: “culture feeds the planet.”
Keeping faith with the past, but always looking to the future.
GOLA. Arte e scienza del gusto
Antonio Danieli
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“GOLA. Art and Science of Taste” represents the
fifth step in the multi-year project on “art and science” launched as an experiment by Fondazione Marino Golinelli (FMG) in 2010. The project is part of a
wider-ranging program of educational and cultural
initiatives that FMG, in keeping with its stated objectives, offers to the society as a whole, and in particular to the young people who represent our future.
FMG, in fact, sets out primarily to supply young people with the intellectual tools required for their responsible cultural growth in a global world, as can
be seen immediately by perusing the titles of the
previous exhibitions: 2010 - Anthroposphere. New
Forms of Life, 2011 – Happy Tech. Machines with
a Human Face, 2012 – From ZERO to ONE HUNDRED. The New Ages of Life, 2013 – Benzine. The
Energies of Your Mind.
Why has the Foundation decided to produce exhibitions on art and science? Because younger citizens – and, more in general, all the participants in
a cohesive, democratic social context – need to
learn to ask the right questions, prior to seeking
answers. The exhibitions offer a precise method to
enter into this perspective.
Just what is this method?
Fondazione Marino Golinelli is forcefully convinced
that literature, the arts and sciences like mathematics, physics, chemistry and biology, but also
architecture, medicine, economics, sociology and
jurisprudence – and so on – are all languages, and
thus instruments of communication and interpretation available to human beings to describe and
know the reality that surrounds them, and to proactively determine their own life paths, contextualizing
them in history.
We cannot confirm that events really happen
exactly as each of us perceives them.
Statistical experience and empirical learning grant
us sufficient confidence and satisfaction to make
us believe we always know how to move through
the world. But in “reality” all the models of thought
and behavior we apply represent a laborious, obligatory approach to a truth about which we cannot
have any absolute certainty, because one absolute
truth for all does not exist, and because the truth
of each of us is in a continuous state of becoming.
None of us, then, even if we are apparently content
with our habits and beliefs, possesses an absolute truth: our search for truth can never bring us
answers that can be defined as absolute, as unquestionable in the future.
In this sense, perhaps only the arts can constitute
the “paths of pursuit of truth” most suitable for humankind: art that is not schematic, yet uses schemes and research to grasp the mad and for us inseparable absoluteness of our spirit.
Art can “open the cages” of our shared comprehension and lift us to higher states of consciousness
and knowledge.
This is even more true when it comes to the minds
of young people, which are the most fervid, poised
for creativity, passion and research, because they
have still not been imprisoned by social and behavioral superstructures.
So this is the answer to our initial question: to put
it briefly, we can say that the method taught by the
exhibitions of art and science of Fondazione Marino
Golinelli is that of “learning to be free to learn” throughout one’s lifetime.
Tasting as a Multisensory Experience
Barry C. Smith
When you taste food you think that we are getting
all the information about the dish’s flavor from our
tongues, but this is not the case. What we call tasting always involves a combination of touch, taste
and smell: the feel and temperature of the food in
the mouth, the aromas reaching the nose, these
too contribute to the perception of flavor. And even
before you engage touch, taste and smell, you will
often select what you want to eat with our eyes,
assessing it by how it looks. At the same time, there may be sounds of a wine being poured and as
you eat you will hear the crunch of raw vegetables
or salad leaves. In all these ways, your sense are
activated when you eat or drink; and way the brain
integrates the information from these different sensory inputs ensures that the experience of tasting is
always multisensory.
To understand just how multisensory the experience of eating and drinking is, it’s important to recognize how little the tongue contributes to tasting. Receptors on the tongue code for the basic tastes of
sweet, sour, salty, bitter, to which we can add umami (or savouriness) and metallic. Perhaps we have
receptors for fat, or at least fatty acids. But this is all.
Yet think of all the flavours described by philosopher
of aesthetics, Frank Sibley: ‘ripe mangoes, fresh
figs, lemon, canteloupe melon, raspberries, coconut, green olives, ripe persimmon, onion, caraway,
parsnip, peppermint, aniseed, cinnamon, fresh
salmon’ . We don’t have receptors for these items.
There are no chicken, beef, or tomato receptors,
and so our ability to taste these flavours depends
on more than taste alone. Notice, too, that we cannot construct these flavours from the basic tastes:
Coconut may be somewhat sweet, and lemon sour or acid, but what other tastes
combine with sweetness to give coconut, or
with sourness or acidity to give lemon? How
could one construct a blend of distinguishable
tastes…to yield that of coconut, or lemon, or
mint? Try to imagine a recipe: ‘To make the
flavour of onion (or pepper, or raspberries, or
olives), add the following [basic tastes] in the
following proportions . . . ’ (Sibley 216-7)1
There is no such procedure, and yet we can all perceive the flavours Sibley describes. This is because
of the role smell plays in creating the experience of
flavor. Not smell as we ordinarily think of it, where
the odours we inhale from food or wines reach
the nose before eating or drinking. Instead, neurophysiologists have drawn our attention to a sense
of smell that is activated when odours travel to
the nose from the mouth when chewing and swallowing. This is known as retronasal olfaction and it
is often experienced by the individual as a taste occurring in the mouth. To this we must add the contributions of touch that enables us to assess a food
as creamy or oily, sticky or crunchy. And them there
is the chemical irritation that spices contribute. It is
this interaction between the senses of touch, taste
and smell that creates our flavor experiences. And
as the psychologist Martin Yeomans says:
1- Frank Sibley, Approaches to Aesthetics: Collected Papers on Philosophical Aesthetics, edited by J. Benson, B. Redfern,
J. Roxbee cox, Oxford University Press 2006
Arguably, multi-sensory integration may be
at its most extreme in the case of flavor perception since few other experiences offer the
opportunity for concomitant stimulation of all
the major senses .2
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So, when tasting wines, we have to respond not
just to taste sensations on our tongues, which
provide information about salt, sweet, sour, bitter,
savory, and metallic, but also to the way these tastes are integrated with fruity and floral aromas,
the velvety, silky, or satin textures of a wine, the
slight astringency of the tannins and the spiciness
that excites the trigeminal nerve, causing pepper
to feel cool in the mouth and mustard to feel hot.
Think of what happens when you taste menthol.
You experience a minty aroma, a slightly bitter taste and a cool sensation in the mouth. Take any
one of these elements away and you no longer
have the experience of menthol. Such combined
flavor perceptions are multisensory, and multisensory perception is the rule and not the exception in
sensory experience. The case of flavor perception
provides on of the best examples. The brain has to
integrate the relative contributions of taste, smell,
texture, and trigeminal irritations to arrive at a unified perception of flavor. The result is a complex
interaction effect that it takes effort to appreciate,
since the components are often inseparable in our
experience. What is more, tasting is not a single
experience; it has a dynamic time course, and by
slowing down, one can appreciate what is happening at each moment, from the sweetness of the
attack as the wine enters the mouth, to the gentle
notes of bitterness in the finish. How complex and
satisfying a wine is will depend on sensory and
temporal properties that can go unnoticed at first
by novice tasters. It is unsurprising, perhaps, when
so much is happening in the mouth and nose, that
tasting judgments can diverge. But this doesn’t
mean they are idiosyncratic or inexplicable, nor that
they are subjective and independent of the flavors
in the wine or a food. Differences may be due to the
sensitivity of our tongues. Some people have more
papillae, or taste buds, on the tongue making them
super-tasters who are very sensitive to bitterness,
or sourness. The taste buds of others may be very
far apart and the will lead to much reduced sensitivity. People also have different sensitivities to odour
compounds and to touch, and this may lead to
large individual differences between taters’ experiences of the same foods. Nevertheless, tasting
is an experience that puts a taster in touch with the
sapid, odourous and textural properties of a food’s
or wine’s tastes or flavors; properties that are there
to be discovered, and while we need food science
to study the molecular chemistry and physics of
foods and liquids, we also need neuroscience and
psychology to study the science of the taster.
The study of taste and tasting is beginning to reveal fascinating insights into how our experiences
of foods and wines are shaped not just by our
physiology but also by background factors such as
lighting and music as well as expectations set by
sight and sound. It is these factors and their effects
on multisensory perception that are studied by my
colleagues at the Centre for the Study of the Senses, who work with chefs and artists to advance
the science and create better tasting experiences.
In one set of experiments, psychologist Charles
Spence provided participants at Ferran Adrià’s laboratory with the same strawberry mousse served
on black plates and white plates. What he found is
that people found the dessert up to 10% sweeter
when eaten off a white plate. This is just one way
in which the plate on which a dish is served can
contribute to how it tastes. In another set of experiments conducted in London, drinkers were given
a glass of the Singleton whisky, and as they wandered from room to room, the whisky in the glass
tasted different because of changes in the lighting,
the colours of the walls, and the sounds they en-
2-Yeomans, M. Chambers, l., Blumenthal, H., Blake, A. (2008), ‘The role of expectancy in sensory and hedonic evaluation: the case of
smoked salmon ice-cream’ in Food Quality and Preference, 19, pp. 565–573
countered. These effects can be used to re-create
the special atmosphere that accompanies the eating of dish or drinking of a wine that made the whole experience so pleasurable. A perfect example is
the signature dish, The Sound of the Sea, served at
The Fat Duck restaurant in Bray. The dish is the creation of three Michelin star chef Heston Blumenthal
working with Charles Spence to create the perfect
sonic accompaniment to fresh seafood. Diners are
presented with a plate of seafood on a sand-like
bed of oatmeal with strips of seaweed, while at
the same time being given a conch shell that contains an iPod and a set of earphones. Though the
headphones, they listen to the sound of the sea,
focusing their attention on the food and its origin,
to enhance the experience of eating fresh fish. In
another of Blumenthal’s creations he served diners
with bacon and egg ice cream, and on the plate
was a piece of crispy friend bread, which diners
were asked to eat with the ice cream. What happens is that in the mouth, the flavor of the bacon appears to migrate to the fried bread leaving the egg
flavor with the ice cream. This reflects the brain’s
attempt to make sense of the appropriate match of
flavors and textures, and provides clues about the
complex mechanisms of multisensory perception.
We are just beginning to unlock the secrets of taste and flavor by drawing on research from many
disciplines, and it is by working together with
practitioner chefs, artists, food and drinks manufacturers, that we will advance the science of
tasting, and be able to create better tasting experiences for us all.
The mouth is a window to the brain
Giovanni Carrada
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Choosing what to eat is an experience we repeat
several times a day, from the very first day of
our life. So it is normal that we no longer find
it surprising. If someone asks us why we have
chosen a particular dish or dessert, we reply
“because I like it” and that seems to settle the issue.
A gourmet, of course, might analyze that “like” and
reach heights of sublime sophistication, but even
this approach focuses mainly on an increasingly
refined discrimination between flavors. Consider,
for example, the vivid description of the taste of a
great red wine by a sommelier.
Instead, the question “why do you like precisely
those flavors?” seems almost inadmissible.
“Because they are good, that’s all,” we might
respond. Usually we put an end to the discussion
with the age-old formula de gustibus non est
disputandum, and the seemingly obvious assertion
that “there’s no accounting for tastes” justifies the
refusal to dig any deeper. Nevertheless, it is clear
that this is not really an answer.
The fact of the matter is that the experience of
choosing what to eat, which seems so simple
and immediate, is actually – like all the important
things in life – anything but simple. If we stop to
think about it, how could such a choice fail to be
important, when the thing being chosen is the most
indispensable of all – after water – for our survival?
“Just why do you like those flavors so much?”
belongs to the category of questions to which
evolutionary biology attempts to provide answers,
or the branch of science that looks for the “remote”
reasons behind the characteristics of living beings,
the reasons why they have evolved in particular
ways. For example, if men are particularly attracted
to women with a low waist-to-hip ration, it is
because that form is a reliable signal of a healthy,
fertile woman.
If we think about what distinguishes us from other
animals, we immediately think of our large brain,
and therefore of intelligence, the use of tools,
spoken and symbolic language, the capacity to
imagine, the fact that we wonder what happens
after death, and so on. Instead, we do not consider
the fact that we are the species capable of feeding
on the largest number of things, and that it was
above all this trait that permitted us to colonize any
natural environment on the planet.
Eating well is not easy. You have to choose foods
that contain all the nutrients you require, and
in the right proportions. You have to know the
right quantities, while avoiding foods that can be
harmful, which include most of the plants that exist
on earth. All animals have the same problem, but all
of them – with the exception of human beings and,
to a lesser extent, other omnivores like rats and
macaques – restrict their diet to just a few things,
always the same, or even just one food.
During the course of our long evolutionary history
the choice of what to ingest could not depend on
in-depth knowledge of the exact composition of
all potential foods – from insect larvae to whales,
and the millions of plant species – nor could we
analyze the complex nutritional requirements of our
organism.
The brilliant solution developed by evolution was
to “hide” – so to speak – a very sophisticated
nutritional assessment based on both instinctive
and cultural factors behind a sense of pleasure, an
emotion, something that would prompt us to make
choices. Behind the apparent simplicity of the
judgment of the moment – I like it, I don’t like it – lurks
a phenomenon of extraordinary complexity, which
physiologists, psychologists and neuroscientists
are just beginning to reveal. Just the opposite of de
gustibus non est disputandum. There is much to be
clarified, in fact (the main meaning of the Latin verb
disputo is not “to discuss” but “to clarify, examine,
reflect”).
Like any product of evolution, the mechanisms of
taste are anything but perfect. But it is precisely
thanks to their imperfection that we are able
to identify them and grasp their true meaning.
And precisely because we are dealing with a
sophisticated evaluation, the most interesting
things do not happen at the level of the senses, but
at the level of the brain. Taste and distaste at the
table thus open up a window to the mind, and also
to human nature.
Our brain begins its evaluation with the signals that
arrive from our sensory organs, which almost all
have a part to play in what we simply call “taste.”
Sight helps us to identify a food, but it is helped
by smell, prior to actual taste: our sense of smell
can distinguish tens of thousands of different
molecules, while taste discerns between no more
than six fundamental flavors, it appears. Touch
assesses the consistency, as well as flavor factors,
from the creamy sensation of fats to the pungent
heat of hot peppers, or the coolness of mint. Even
hearing plays a role that should not be overlooked.
In the brain all the information from the sensory
organs is combined, and it reaches our awareness
under the form of a single sensation that generates
a single judgment: the famous “like” or “dislike.”
The 800 volatile molecules of coffee, for example,
become simply the aroma of coffee. At this point
not only do we not distinguish between individual
sensations, but each sensation can also “disguise
itself,” so to speak, seeming like another one. The
“taste” of orange, for example, is almost entirely
olfactory. One extreme example comes from a
recent case in Great Britain. The chocolate bar of
a well-known company underwent a restyling, and
the sharp edges of the old model were replaced
by more rounded forms. People immediately
reported that the new version was sweeter, though
the company insisted that the chocolate used
in the product was exactly the same as before.
Through a series of tests, researchers at Oxford
University who study precisely the “cross-modality”
of the senses demonstrated that it was precisely
the rounded form that altered the assessment
of consumers. If we really think about it, isn’t our
aesthetic judgment of a partner, or of a work of art,
also cross-modal? Doesn’t the beauty or the height
of a man or a woman often influence our opinion
of their personality or their professional capacities?
So doesn’t the familiar experience of eating also
shed light on this key aspect of the functioning of
our mind?
Relying on our basic instincts, the ones with
which we come into the world, we tend to prefer
sweet and fatty flavors, because they are typical
of foods rich in energy. At the same time, we tend
to avoid bitter or sour tastes, because they might
indicate the presence of toxins or harmful bacteria.
Nevertheless, we are well aware of the fact that
many bitter foods – from arugula to coffee – are not
harmful at all, just as we know that a sweetener can
be sweet yet not contain any energy. The signals
of taste, in fact, are simple and imperfect, and to
assess the nutritional value of a food much more
is required. We have to try a new food, or rely on
the experience of others who have tried it already.
Many mechanisms behind the formation of our
eating preferences are thus a matter of learning:
the example set by our parents at the table during
childhood, the traditions of the culture in which
we live, the nutritional experiences we encounter
during the course of our lives, the messages of
advertising. In other words, rather than trying
everything personally, and running a very high risk
of making mistakes, we share our experimentation
on a social scale. And today, thanks to cultural
exchanges through media and ethnic restaurants,
this happens on a planetary scale as well.
So the making of individual preferences is a
stratified process: we are almost equal in our
instinctive likes (sweet is good, bitter is bad), we
are often similar inside one culture because most
people in that culture share a series of nurtured
preferences (pasta is good, insects are bad),
but there is also individual experience, which is
different for each of us (my favorite sauce is good,
but I hate pesto).
So in some ways we are all equal, while in other we
are all different.
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In taste, as in many other things, we are a mixture
of nature and nurture, with variable proportions
depending on the adventures of life. Taste is first
of all an almost textbook example of the freedom
granted us by our nature: we can be satisfied with
the “default settings,” or the genetic predilections
and the habits of the social group in which we
live, or we can try to go beyond, to courageously
explore our horizons, testing the limits of possibility.
This is what gastronomes and food lovers do, for
example, by exploring ethnic recipes, expanding
their gustatory knowledge and delving deeper into
the pleasures of dining. But if we think about it,
doesn’t all this resemble the refinement of the taste
for art, music, travel, science, poetry, and all the
better things in life? It is within reach, even for those
who have not had an education. This freedom
granted us by our nature is simply a reflection of
the extreme adaptability of our species, which
in turn is the product of the great plasticity of our
brain. Plasticity is the ability to reconfigure patterns
of connections between the nerve cells on which
any mental activity depends. It is thanks to this
plasticity that, unlike other animals linked to a single
style of life, we can also take part in activities nature
could never have foreseen. What area could be
more simple and familiar to all than taste, in order
to understand what might be seen as the most
extraordinary ability of our brain?
But there is also another, more concrete reason to
exercise our freedom over and above instinctive
preferences and cultural conditioning, making use
of our adaptability.
Our entire range of instincts evolved to help
us survive and perpetuate the species in an
environment that was very different from that of the
present: life in the savannah, where small clans of
families survived through hunting and gathering,
with the constant fear of not finding enough to eat
from day to day. This is why we continue to crave
fats, sugars and salts, as if we were still in the
savannah like our ancestors, and we continue to
grab food whenever we can, even when it is not
objectively needed. We often end up eating much
more than is necessary, also because our life has
become much less strenuous, and we need fewer
calories than in the past. In short, that marvelous
adaptation, the pleasure of dining, runs the risk of
becoming a problem.
This disconnect between our biology and the
environment we have created over the course
of the last decades is among the main causes of
one of the greatest health-care emergencies of our
time. In Italy, 31% of adults weigh more than they
should, and excess weight leads to higher blood
pressure, higher sugar levels, cholesterol and fats
in the bloodstream, all symptoms of the so-called
“metabolic syndrome” which in turn increases the
risk of diabetes, heart attack, ictus and certain
forms of tumors. But, once again, the mismatch
involving taste is but another case – though a
particularly clear and familiar one – of a much more
general phenomenon that has to do with the mind.
Let’s look at anxiety, for example: we react to the
relatively innocuous stressful stimuli of modern life
with the same nervous and hormonal reactions
developed when the threat was a leopard about
to devour us. So why not learn to better manage
the problem of taste, which is in any case always
a pleasure, in order to learn to better manage
other problems created by a “paleolithic” mind
that finds itself living in a completely transformed
environment?
Precisely because of its central role in our biology,
we could not do without the pleasure of dining even
if we wanted to, as anyone who has tried dieting
has surely understood. From this viewpoint, good
food is like love, friendship, the company of others.
So we need to find ways to combine healthy
nutrition and pleasure. This is why it is so important
to know about the mechanisms of taste.
As in other things, we are not slaves to our biology.
We simply have to take it into account. Thanks to
knowledge regarding the cross-modal character of
sensory stimuli, we can – for example – try to “fool”
the brain, making it believe it is ingesting foods
different from those really being eaten, providing
the same pleasure but with fewer calories. This is
a field of research that is just taking its first steps,
but it is very promising. Or we can change the
environment around us, to keep it from sending us
too many incorrect stimuli, for example by limiting
the advertising for junk food aimed at children,
or by offering only fruit in schools instead of
sugary snacks, or by refusing to buy things at the
supermarket that later, in a moment of weakness
at home, might tempt us beyond our capacity
to resist. Nothing prevents us from taking such
measures.
But we can also change the culture, because in
our species it has a remarkable influence on the
development of our nutritional preferences. After
all, the world is full of “healthy” food cultures,
traditional and otherwise, and many people
manage to eat very well even though they live in
a world of widespread temptations. This means
educating the younger generations, especially by
setting an example, starting with the period spent in
the mother’s womb. It also means refining our taste
for food, learning to appreciate it more completely.
In the end, junk food is to good eating as a pop
tune is to Mozart, or pornography to eroticism.
Naturally we can indulge in sins of the palate,
and we can even exaggerate with good food, but
like any sin this too simply implies renunciation of
freedom of choice, and a form of enslavement to
our own instincts. Instead, we can always choose
and shape our preferences. Just consider, for
example, those who have chosen a vegan diet,
avoiding any foods of animal origin, and thus
making a radical break with instinctive preferences:
after a while, this too becomes a choice based on
taste, and meat simply no longer seems appealing.
Whatever opinion we may have of a vegan diet, we
must admit that it represents a triumph of human
freedom over the bonds of our biology. We are the
only species in which nutritional preference – like
many other preferences – can have an exclusively
cognitive origin.
From whatever angle we approach the pleasure of
eating, in short, it always comes down to the mind,
and therefore to the power we have over it and the
degree of freedom available to us.
This is why the mouth is a window to the brain,
and to human nature in general, with all its
potential. A window, furthermore, that each of
us can open to look at what is out there (or, in
this case, inside). This is not only material for
neuroscientists. We can all look – and it is worth
repeating – with pleasure. Also because if we
understand taste, we can understand many other
things about ourselves. Including many things
that have nothing to do with taste.
«Drinking beer with friends is the highest form of art»
Cristiana Perrella
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is edible? What plants and what cereals form the
basis of human nutrition? What types of food preparation are known all over the world? What are the
variations of the fundamental recipes?» One year
later, he opened a restaurant in Düsseldorf, serving
meals he prepared himself. A gallery devoted to
this new form of art was soon added.
Main course.
1971. New York. In the SoHo neighborhood, still
dingy and industrial at the time, a new venue opens
its doors: it is simply called “Food.” The owners
are the dancer Carol Goodden and the artist Gordon Matta-Clark, together with some friends. The
restaurant stands out for its open kitchen, which
makes the preparation of food into a kind of performance, and serves up fresh seasonal foods and
international recipes. Artists are periodically invited
to cook, and the dinners are transformed into artworks. Food quickly becomes a gathering place for
the Manhattan art crowd. Matta-Clark considers it
a work of art in the fullest sense of the term, and
tries to sell it (without success) to the art dealer Leo
Castelli. He experiments in the venue with his first
architectural interventions –the category of works
that made him famous – making cuts in the walls
Entree.
1963. Paris. A restaurant opens in the last place it is and doors. The adventure continues until 1973,
expected: an art gallery. Galerie J hosts a series of when the restaurant is closed.
banquets: the chef is the artist Daniel Spoerri, while
several art critics act as waiters. The aftermath of Dessert.
the dinners is then glued to the tables and displa- 1993. New York. At the 303 Gallery, an exhibition by
yed vertically, like a painting. These are the table- the artist of Thai origin Rirkrit Tiravanija opens. Visiaux-pièges, the “trap pictures” that are perhaps the tors find themselves faced by what is usually conmost famous emblem of Spoerri’s work. In 1967 cealed in the back of the gallery (the office and the
the artist invented the concept of Eat Art, investi- staff). The space has also been transformed into
gating the following questions: «What, in general, a functioning kitchen, where the artist serves Thai
Antipasto.
1930. Milan. After dining at the restaurant Penna
d’oca, Filippo Tommaso Marinetti, poet and father
of the Futurist Movement, announced the Manifesto of Futurist Cooking. The iconoclastic fury of the
group, which set out to redesign every aspect of life
and even of the universe, also addressed the matter
of food. Starting with the premise that «men think
dream and act according to what they drink and
eat,» the Futurists lashed out at some of the milestones of Italian cuisine: they proposed the abolition
of pastasciutta («an absurd Italian gastronomic religion»), the elimination «of volume and weight in the
conception and evaluation of food,» of «traditional
mixtures in favor of experimentation with new, apparently absurd mixtures,» of «everyday mediocrity
from the pleasures of the palate», even urging the
abolition of silverware. Instead, they recommended
originality, the use of perfumes, music and poetry
to accompany the serving of foods, and the application of scientific research in the field of cuisine.
These ideas met with immediate application with
the opening, in Turin, of the Taverna Santopalato.
curry and rice, free of charge. The action creates a
convivial situation that encourages socializing. This
is one of the first in a long series of such performances done with a similar approach by Tiravanija, who
says he works on the idea of food with an «anthropological and archaeological» approach. The artist
is the champion of relational art, a trend identified
by the critic Nicolas Bourriaud in the 1990s, which
views the artwork as a place of social interaction.
This short menu offers just a taste of the recipes
contemporary art has prepared, choosing food as
its main ingredient. Edible things have always been
a mainstay of occidental figurative culture: just consider the extraordinary inventions of Arcimboldo,
who painted portraits and allegorical figures composed of fruit and vegetables; or the still lifes of the
Dutch school, triumphant depictions of sumptuous
repasts. But it is during the course of the 20th century that art extends its range, latching onto every
aspect of existence: of course the sphere of nutrition is not immune, since it is an essential part of
the life of human beings. Food thus goes beyond
the realm of representation, lending itself to new
uses and meanings. The encounter between different disciplinary fields – culture, economics, science – makes food become a vehicle, for artists, to
address themes like the body, identity and politics.
The thrust of the historical avant-gardes to break
down the barriers separating art and life is taken
forward after World War II by a range of art movements (Fluxus, New Dada, Nouveau Réalisme).
They often use food to stage performative actions.
Piero Manzoni, for example, offers eggs bearing
his fingerprint to the audience. Yves Klein, on the
other hand, quenches the thirst of visitors standing in line at the entrance to his exhibition with a
cocktail made with Cointreau, gin and methalyne,
which has the effect of making one’s urine blue,
Klein’s trademark color. In the same period, Pop
Art turns to representation of food, with an entire
range of gastronomic images: the Campbell’s soup
and Coca-Cola of Andy Warhol, the giant hamburgers and fries of Claes Oldenburg, the hot dogs
and fruit of Roy Lichtenstein. Food is interpreted,
in these cases, as an expression of the society of
consumption.
Other artists choose to work with food by exploring
its symbolic value. One paradigm, in this sense, is
the work of Joseph Beuys, who uses fat, honey
and oil to allude to vital energetic processes. Food
as a medium is deployed by others along these
same lines: Wolfgang Laib makes sculptures and
installations out of milk, rice and honey, influenced
by oriental thought; in a more playful way, Vik Muniz
uses chocolate, peanut butter and sugar for compositions that then survive in photographic form;
with a eucharistic gesture, Felix Gonzalez-Torres offers visitors a pile of candies whose weight is equal
to that of his partner, felled by AIDS.
Food has always been associated with socializing
and convivial settings. In this sense, it has been used
in the relational practices that have spread in art starting in the 1990s. Forerunners of this development
include the American Conceptual artist Tom Marioni, who sees the act of drinking beer with friends as
the highest art form: he organizes drinking sessions,
whose remains are then offered to the public as art.
In the multiple meanings taken on by food in artistic
practice, those connected with memory and personal identity, expressing the link with one’s family
and roots, are also important. As an expression
of civilization, food becomes a vehicle of cultural
exchange, a true tool of diplomacy, in the multicultural and post-colonial perspective that has prevailed in art since the end of the 1980s. One example
is the project by the Italian artist Mario Rizzi entitled
The Gift, done in Israel in 2001, where a group of
Israelis and Palestinians, brought together by the
artist in a social event, cook and eat each other’s
recipes, discovering similarities and differences.
In recent years the growing focus on food as a
cultural phenomenon has sped up the gradual
breakdown of boundaries: art in food and food as
art. Different modes of action and relation are intertwining, to an increasing extent: restaurants that
commission artists to design their spaces, or host
them in residencies, or show their works; artists
who open restaurants (one famous case remains
the Pharmacy of Damien Hirst); chefs who operate
as artists and are included in prestigious exhibitions
(like Ferran Adrià at Documenta 12).
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Based on all this, it is easy to imagine that the work
on an exhibition like Gola; Art and Science of
Taste, involving the selection of artworks to combine with scientific exhibits, to narrate the various
aspects of the relationship between nutrition and
pleasure, has been anything but simple. There are
so many possibilities, connections and images,
stimulated by such a rich, evocative theme. The
choice was guided by the capacity of the works
to address the various senses, to activate unexpected links, to suggest voyages in space and
memory, to touch on universal themes like tolerance, health, the need for both material and spiritual
nourishment.
The exhibition starts with the idea of sensual pleasure associated with food. The video by the American
artist Cheryl Donegan plays in an ironic way with
the association of taste-nutrition, choosing milk, a
basic food, as the key element in an action that is
packed with allusions. The possibility of using food
as a medium to convey a metaphorical message,
putting it at the center of the action, returns in The
Onion by Marina Abramovićc, based on the idea of
bodily resistance found in all the performance work
of the Serbian artist. Displayed by tears lining the
artist’s face, the disgust caused by the big bites
of raw onion not only conveys a sense of general
impatience with the dynamics of the star system,
but also demonstrates the engagement of all the
senses in the representation of an emotional state,
underlined by the choice of a nauseating food that
puts the artist’s capacity for endurance to the test.
The video performance of Marina Abramovićć,
which narrates the potential of a food to cause
immediate and instinctive reactions, orienting our
choices through olfactory, visual and tactile experience, connects with two other works included in
the section The Senses of Taste: The Chromatic
Diet by Sophie Calle and While Nothing Happens
by Ernesto Neto. The photographic sequence by
the French artist, inspired by the story Leviathan by
writer and director Paul Auster, conveys the maniacal personality of the protagonist Maria, whose rule
is to eat only foods of the same color on any given
day. Monochrome foods, tableware, napkins and
tablecloths for artful repasts that attract us through
color, underlining the importance of aesthetic appearance in the process of selection of foods.
Together with sight, the sense of smell is firmly engaged in the act of eating, and becomes the true
protagonist in all the work of the Brazilian artist Ernesto Neto: his large structure in the show is like a
fascinating organism that spreads the aromas and
scents of spices from all over the world in the air,
evoking exotic flavors and lands and transforming
the work into a multisensory experience.
The perfumes of geographical distant places in
Neto’s work form a bridge to the section Good
to Think, in which the fil rouge is the relationship
between local and global, and the importance
of food in the definition of the cultural identity of
a country. This is associated with the potential of
foods to evoke personal experiences linked to a distant past, like the flashbacks activated by Proust’s
madeleine, narrating the relationship between memory and unleashing elements – like flavors and
odors – as a key of access to histories we thought
had been forgotten.
Thus the Albanian artist Anri Sala chooses Byrek, a
typical dish of his homeland, to narrate his emigrant
nostalgia, while Boaz Arad starts with gefilte fish, a
traditional Jewish recipe, to investigate the multiculturalism of Israel. Andy Warhol is the protagonist of
one of the 66 Scenes from America filmed by Jørgen Leth, who in this portrait of American society
could not help but include the artistic icon together with the culinary icon, namely the hamburger
drenched with ketchup. The Indian artist Sharmila
Samant works on the symbol of globalization, Coca-Cola, filling its bottles with locally produced nonindustrial beverages found in all the countries where
the multinational giant has bottling plants. Finally,
Gabriella Ciancimino, from Sicily, transforms a re-
cipe from Palermo, the seppie murate, into a “beat
box” performance, focusing on the cultural and generational dialogue that finds a possible moment of
activation precisely in food and cooking.
The local and the traditional form a contrast with
junk food, the global phenomenon par excellence,
which promises a quick low-cost sensation of fullness, spreading rapidly not only across the world
but also across class boundaries. This is what
Martin Parr, for the section The Secrets of Junk
Food, reveals in his photographs with saturated
colors, documenting a bright and appealing universe of fast food products, while pointing to their
contradictions in a grotesque, abrasive way.
The need to recover the healthful pleasures of nourishment is addressed in the last chapter of the
show, The Re-construction of Taste, in a dialogue between works by Christian Jankowski and
Hannah Collins. The video The Hunt is the humorous documentation of the effects of a rule set for
himself by the German artist: to eat only what he
could catch with a bow and arrow. A trip to the supermarket becomes a hunt, before the astonished
eyes of the other customers and the staff, pointing
to the ease with which we obtain food today, while
emphasizing the need for greater awareness and
care in our choice of things to eat.
From the “archaic” scavenging proposed by
Jankowski, to the sophisticated approach of Hannah Collins, in the documentation of the series
The Fragile Feast. Based on collaboration with
the award-winning Catalan chef Ferran Adrià, the
photographic project of the English artist narrates
the journey of exceptional ingredients, namely the
raw materials the chef combines and transforms in
his culinary creations. A portrait is traced of each
ingredient, taking into account geographical context, local traditions, and the persons involved in
processes of gathering, sorting and distribution, all
the way to the table.
The exhibition finishes with the video Green Pink
Caviar by the American artist Marilyn Minter, a flow
of images in bright, saturated hues in which the lips
and tongue in the foreground act on a glass surface
as if they were paintbrushes, spreading and sucking
up colored gels, grains of sugar and other sweets.
As in the work by Cheryl Donegan at the start of the
exhibition, here too we see a story between nutrition
and pleasure, taste and desire, displaying the most
attractive and intriguing face of food.
1_ The omnivore’s dilemmas
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The pleasure of eating has been a fundamental
key for the success of our species. If we have
managed to survive in every natural setting from
the Arctic to the Sahara, the Pacific atolls to the
highlands of the Andes, it is above all because
we have been able to obtain enough to eat in
any context. Unlike any other animal, we can
eat everything: leaves, fruits, seeds and roots of
plants, or meat, organs, bone marrow, blood,
eggs and milk from any type of animal. Raw or
cooked, fresh or conserved. When a food is no
longer available, we eat something else.
As omnivores, however, we have a problem that is
not shared by other creatures. How can we know
if a food contains the energy and the substances
we need? Leaves, for example, are rich in vitamins
but low on energy. Different animal parts have different quantities of protein and fats.
And how do we discover if something is bad for
us? Most plants are poisonous, and animal products spoil easily. With tens of millions of potentially available species of animals and plants, plus
their by-products, and without being able to rely
on chemical analysis and on the knowledge we
now have regarding our physiological needs, this
was an extraordinarily daunting problem.
Nature has resolved this by hiding the dilemmas of
the omnivore behind a pleasure. We do not have
to see the energy contained in the sugars of a ripe
piece of fruit: we simply like its sweetness. Nature
also relies on the opposite reaction: disgust. We
do not have to see harmful bacteria: we simply dislike the bad taste of spoiled meat or fish.
Though we think we freely choose what we eat,
actually we are unwittingly influenced by a series
of preferences that guide us through sensations
of greater or lesser pleasure. Most of the time,
in fact, we do not start eating because we need
energy or some particular substance, but because we are guided by the expectation of pleasure.
The expectation is triggered by the sight of food,
by the arrival of mealtime, or just by boredom. And
how much we eat depends on the pleasure the
food is giving us, not only on the amount of hunger
that remains. So the quantity of calories we ingest
is controlled, first of all, by taste. All other considerations – cost, practicality, health – come later.
In short, the pleasure of dining is the stratagem invented by nature to guide our choices at the table,
just as the pleasure of sex evolved to encourage
us to bring children into the world. Neither is an
obligation, but neither can easily be overlooked.
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Cheryl Donegan
2_ The senses of taste
In the video Head, the American artist Cheryl Donegan uses an action charged
with allusions to milk as a primary food, linked to childhood memories and the first
sensation of pleasure associated with nourishment. Against the background of a
soundtrack of rock music, Donegan drinks the milk that spurts from a pitcher, swallowing some and spitting some of it back, licking up drops that fall and engaging in a
sort of amused struggle with the anonymous vessel. The pace of the musical rhythm
corresponds to the performer’s actions, culminating in the gesture of spitting the milk
on the wall – almost a form of Action Painting – after which the artist vanishes from
view, leaving behind the clues of what has just happened. Between irony and eroticism, the act required to gain nourishment is transformed in the video into something
exciting, fun and tasty, a game capable of engaging all the senses.
Every time we put something in our mouth we are
taking a risk for our health, and maybe even for our
survival. Today the risk is a remote one, but in the
past, during our evolution, this danger shaped our
food preferences. This is why almost all the senses are engaged, to grasp every possible clue in
an instant.
Sight helps us first of all to identify what we are
about to eat. Then, with the first bite, we check the
temperature. We may also listen, to see if the food
makes a particular sound.
The first true test to understand what is inside, however, is done by the nose. Up to 80% or 90% of
what we are used to calling “taste” is actually smell,
stimulated by the molecules of the food released
in the air. We can distinguish between an almost
infinite number of these molecules, even in concentrations of just a few parts per million.
Touch informs us about hot spicy foods, bubbles,
the coolness of mint, the astringent properties of
unripe fruit or dry wines, the crunchy sensation of
a potato chip, the creamy consistency of a sauce,
the slippery feel of an oyster.
Then it is up to the gustatory system – i.e. “taste”
proper – to inform the brain of the heaviest molecules, or those dissolved in water or in fats. About
3000 taste buds on the tongue and in the mouth
can perceive just six fundamental tastes – sweet,
salty, bitter, sour, umami, and perhaps also fat –
but the judgment of the nutritional value depends
Starting in the 1990s, Cheryl Donegan (New Haven, Connecticut, 1962; residing in
New York) has used video to capture performances in which she is directly involved,
staging actions that often simulate the procedures of painting or sculpture. Tackling
themes like sex, fantasy and voyeurism, Donegan uses her body to exorcise clichés
connected with questions of gender.
above all on them.
Everyone likes sweet flavors. Sweetness indicates
the presence of carbohydrates or sugars, which are
molecules rich in energy: 4 kilocalories per gram.
Fat, which is also probably a fundamental taste,
appeals to us because it is even richer in energy: 9
kilocalories per gram.
A salty taste indicates the presence of sodium, an
indispensable element to maintain the balance of
fluids in our organism.
Umami, which comes from a Japanese word meaning “brothy” or “meaty,” is a taste caused by the
presence of glutamate, very common in Asian cuisine but also found in soy sauce, cheeses, shellfish
and tomatoes. Glutamate is not an essential nutrient, but it indicates the presence of both animal
and vegetable proteins to the organism.
Instead, we tend to avoid foods that taste bitter, at
least at the start. Our first instinct of disgust when
we sample Brussels sprouts, chicory or broccoli
evolved as a defense again the toxins present in
many plants. Instinctively, we also tend to avoid
sour tastes, found for example in lemon or vinegar,
produced by acidity and often a sign that food has
gone bad.
In an instant the brain process the information arriving from the senses of sight, touch, smell and
taste, generating a single sensation. This is why
we do not “see” nutrients, so to speak, but just sensations.
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Marina Abramovic
Sophie Calle
As in many of her famous performances, in The Onion Marina Abramović works on
the limits of physical endurance, translating a situation of discomfort into an image of disgust in which all the senses seem to be stimulated and overexcited. The
video is the documentation of an action in which the Serbian artist bites into a raw
onion and starts to chew it, in an increasingly convulsive manner. As she devours
the onion in big bites, her off-screen voice tells of the fatigue of confronting particular
moments in her life as an art star, as well as her private life. Her impatience with particular situations of her existence is visually linked to the increasingly intense agitation
that crosses her face as she continues to bite the onion, which makes tears stream
from her eyes. Here food becomes the image of an emotional state that is translated
into a sense of repulsion, caused by the onion and its characteristic odor and flavor.
The Chromatic Diet, by French artist Sophie Calle, addresses the role of aesthetics
in the process of choosing foods, which attract us not only through their aroma and
flavor, but also for their color or form. The work by Calle comes from a request made
by the artist to the writer Paul Auster, to invent a character she could “play.” The
character suggested by Auster is Maria, protagonist of the story Leviathan (1992),
whose rule is to eat foods of the same color on any given day. Focusing on this particular discipline, Sophie Calle has made six photographs of monochromatic meals
– combined with dishes and flatware in the same color – corresponding to different
days of the week. The photographs of the individual meals, accompanied by indications of the foods that go into them, are followed by final shots that mix foods and
colors in a lively but also rigorous formal and chromatic composition.
Marina Abramović (Belgrado, 1946; vive a New York) è tra le protagoniste indiscusse
della Performance Art. A partire dagli anni Settanta lavora con il suo corpo e le sue
emozioni, esplorando la complessa relazione tra artista e pubblico. In occasione
della sua grande mostra al MOMA di New York nel 2010, il film-documentario dal
titolo The Artist is Present ne ha ripercorso la lunga carriera.
All the research of Sophie Calle (Paris, 1953), starting at the end of the 1970s, is marked by the autobiographical and intimate dimension of her works, through which the
artist shows herself to the audience. Making use of different media, including video,
photography and installations, Calle offers access to her own experiences and impressions, often in an ironic and provocative way.
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Ernesto Neto
3_ Good to think
The distinctive feature of the sculptures and installations of the Brazilian artist Ernesto Neto is the desire to stimulate the senses of the audience and, in particular, the
sense of smell, using different spices that invade the entire space with their scents.
While Nothing Happens is a large suspended structure that suggests an organic
form, composed of Lycra sacks filled with spices of different colors, like cumin, ginger, turmeric and powdered cloves, whose aromas evoke the exotic flavors of cuisines from all over the world. Soft and sensual, the limbs of this great organism remind
us of stalagmitic forms, encouraging the viewer to engage in an experience not only
of smell, but also of touch. “The sculpture does not have the sole objective of representing a body. It exists as a body. But it is also a structure, a place of reflection,
where people meet, each with their own interpretation,” the artist says. Creating
the premises for a multisensory experience, Neto shows us how the senses are the
main tool for knowledge of the reality that surrounds us.
There are hundreds of different cultures of food in
the world, in which people eat all kinds of plants
and animals every day. Often what is appealing to
one country can be disgusting to another. Choices
of food cannot therefore only be related to instinctive preferences, which are few in number and
very similar in all of us. All the other choices have to
be learned. And the best way to learn is to look at
what other people are eating.
Already in the womb we learn to recognize the taste of foods eaten by our mother, and after birth we
like those foods more than others. The logic is simple: if she ate them without problems, they must
be safe. But this is a fundamental mechanism that
works for all ages, and permits us for example to
learn to like even foods that are not sweet or rich,
but can even be bitter or sour.
Personal experience is also important. If in a moment of fatigue and real hunger chocolate makes
us feel good, we will appreciate it more later on.
The same mechanism reinforces the preference
for those foods that are most available and have
proven to be most nutritious, namely wheat in Europe, rice in Asia, corn in South America, or insects
– an excellent source of animal protein – which
are enjoyed by almost two billion people around
the world. The process might also involve human
flesh: cannibalism was widespread in many cultures of the Americas and the Pacific, where good
sources of animal protein were lacking.
Starting in the 1990s Ernesto Neto (Rio de Janeiro, 1964) has used nylon stockings
and other flexible, everyday materials, then shifting to tubes of fine, translucent jersey filled with spices from all over the world. His works take form in dialogue with the
space and with an interactive intention, stimulating viewers to make direct contact
with the piece.
We can also develop a dislike for certain foods, for
the same reasons. The Indian taboo of the sacred
cow, for example, dates back to more than 2000
years ago, when the population became too large
to be able to devote land to pastures. It was better
to farm the land, and to keep the cows for milk, to
yoke for plowing, and to fertilize the fields. Certain
dislikes, such as that of vegetarians for meat, can
even be the result of conscious choice.
In most cases, however, preferences depend on
influences of which we are not aware. Just consider advertising, which exploits our tendency to
base our conduct on that of others, especially if
we admire those others for some reason. Or they
depend on that psychological mechanism that
makes us choose a new food if it is associated
with a positive context or experience (a birthday,
Christmas eve, an enjoyable trip), or simply with
something we already like.
Actually, this mechanism also guides the evolution
of traditional food cultures. Each one has its characteristic flavors, due to condiments with a particular combination of ingredients. When a food is no
longer available, the best way to accept a new one
is to associate with an already familiar seasoning.
Flavors make traditional cuisine characteristic, but
they also represent a culture. This is why the food
of tradition tells us who we are and to what community we belong, and produces an emotion that
is much more important than we might imagine.
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Anri Sala
Boaz Arad
Food is often connected with a precise personal and cultural history, and this is why
it can evoke the memory of past phases of life, together with that of geographical
origins. In his video installation Byrek, Anri Sala – an Albanian artist living in Germany
– shows the making of a typical dish widespread in the Balkan countries, all the way
to Turkey; a sort of savory pie with thin, flaky crust, filled with different ingredients.
The installation is composed of a video projection showing the arms of a woman
who is preparing the pastry, following the recipe that the artist’s grandmother sent
him in a letter, which is printed directly on the projection screen. The ritual quality
of the gestures evokes the historical memory and cultural-identity value of the food,
linked to a specific tradition. A text by Sala is presented to one side, as a separate
slide projection: it describes the artist’s personal sensations and memories when he
thinks of this dish from his homeland. The preparation of byrek becomes a part of
his imagination, a fantasy of belonging, a reflection on roots to which one inevitably
remains attached even after moving to another country.
In the video Gefilte Fish the Israeli artist Boaz Arad interviews his mother while she is
cooking the characteristic dish of Ashkenazi Jews. The images shows the woman’s
hands as she skillfully cuts and filets the fish and puts it in the oven, but her face is
never seen. The artist chooses this moment to ask her about roots and identity, focusing in particular on the relationship between the Ashkenazi Jews (from Germany and
Eastern Europe) and the Mizrahi Jews (from Northern Africa and the Middle East).
The preparation of a typical dish thus becomes a pretext for reflection on the multiculturalism of Israel and the need to conserve traditions threatened with extinction.
Arad responds to some of the questions himself, syncing his lips to the voice of his
mother, obtaining a grotesque image underlined in certain scenes by the presence
of a parrot on the artist’s shoulder, or the face of Arad himself transformed into a
disquieting mechanical puppet.
In his works, Anri Sala (Tirana, 1974; living in Berlin) approaches reflections connected with the concepts of place and identity, often using music to subvert and confuse audience perceptions. In 2013 he represented France at the Venice Biennale.
The works of Boaz Arad (Israel, 1956) reflect on concepts of memory and identity,
and are filled with a subtle sense of irony that helps the viewer to process the dramatic nature of the themes addressed. For Gefilte Fish the artist says he watched films
by Alfred Hitchcock, particularly Psycho for the faking of the mother’s voice, and The
Birds for the irritating presence of the parrot.
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Gabriella Ciancimino
Sharmila Samant
If Iu Fil Homsik, Tink in Dailect! is a project by Gabriella Ciancimino that began in
2008, developed with different media including video, photography and the organization of cooking workshops in art spaces. Starting with reflections on the meaning
of nomadism and the feeling of nostalgia for one’s homeland, the artist works on
geographical and cultural identity, choosing food and cuisine as possible elements
of aggregation. In the video Ritratto in nero di seppia (Portrait in Squid-ink Black),
set in a domestic interior in Palermo, a mother explains to her two children how to
prepare seppie murate, a typical Sicilian dish. The illustration of the recipe – following
the familiar format of televised cooking shows – is accompanied by the kids doing
Beat Box, transforming the sounds the mother produces while cooking into music.
The generational face-off also becomes cultural, when the phases of preparation of a
traditional delicacy are accompanied by a practice that developed on the American
Hip Hop scene. The short narrative is completed by an encounter, with the four members of the family (including the father) who sing a gospel-influenced song together.
Loca-Cola by the Indian artist Sharmila Samant approaches the theme of the localglobal dichotomy in relation to taste. After having gathered glass Coca-Cola bottles
from all the countries in the world where the American multinational corporation has
bottling plants, the artist fills them with beverages produced locally in the various
countries, sealing them in a homemade way and adding a label with the name of
the local drink they contain, and the name of the bottler – that of the artist. She then
puts the bottles in a hath gadi, a homemade handcart of the kind often seen in India
in public spaces, and especially recreational spaces. The work is based on consideration of the fact that Coca-Cola is the global beverage par excellence, though
its taste actually changes slightly from country to country, adapting to local tastes
in keeping with precise marketing strategies designed to reach an ever increasing
number of consumers. Suffocating local flavors, Coca-Cola strangles small beverage
producers, to whom the artist grants visibility by bottling their wares in place of the
famous American soft drink.
Using art, music and performance, the research of Gabriella Ciancimino (Palermo,
1978) focuses on the concept of relation. Her works narrate segments of reality with
the aim of offering a personal vision, but also of stimulating a collective perception,
favoring an approach based on sharing and exchange with the audience.
In her installations and videos Sharmila Samant (Mumbai, 1967) comes to grips with
the question of identity inside a global context, observing the latter’s standardizing
effects on developing economies. She is one of the founders of the Open Circle collective, located in Mumbai.
4_ The secrets of junk food
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Through almost all of human history, and for almost all people, food has been scarce and hard to
obtain. Meat was a rare luxury, and sweet flavors
were even more rare: practically there was only honey. Periods of famine were common.
But times have changed. Food has become abundant and economical, and life is much less harsh
than in the past, so we need fewer calories. The
biological mechanisms of taste, however, have remained the same, and still prompt us to seek out
those flavors that represented a guarantee of survival in the past.
As a result, there are now 1.6 billion overweight or
obese adults in the world: twice as many as those
who suffer from hunger.
But the blame also lies with those who produce
so-called “junk food,” a category that covers fast
food but also many packaged food products. This
is food designed to “super-stimulate” the appetite,
to overwhelm the systems that normally control our
consumption of food.
The trick lies in offering the right combination of the
nutrients evolution has programmed us to seek: sugars, fats and salts. From the tongue and the palate, signals reach the nucleus accumbens, the area
of the brain that contains the pleasure center of the
organism, which thus releases endorphins, substances similar to morphine or heroin, which trigger
sensations of gratification and wellbeing, calming
us and soothing tensions and pain. The endorphins
also interfere with the so-called “taste-specific satiety,” which makes us tire of a food after a while.
Therefore they prompt us to continue eating.
But the fault does not lie only with fats, sugar and
salt. Multisensory aspects – combinations of spicy
and salty, spicy and sweet, sweet and salty, sweet
and sour, crunchy outside and creamy inside, all
common characteristics of junk foods – also stimulate the appetite.
The “shocks” of pleasure caused by super-stimulation of taste also activate the production of dopamine, which focuses us on the pursuit of this pleasure
and prompts us to do anything in order to repeat
the experience.
The cerebral mechanisms activated by junk food
are the same ones involved in drug addiction.
Over time, the consumption of junk food becomes
a habit. When we receive the right signals – the
flavor, place, occasion and time of day associated
with a product – a chain of behavior is activated
that becomes more and more automatic over time,
and less and less conscious. Therefore it is also
harder to control.
Luckily we are not all equally vulnerable, because
the tendency to put on weight has an important genetic component. But the problem is growing very
rapidly.
In the world, the proportion of overweight and obese people has doubled since 1980, and it could
double again by the year 2030.
Jørgen Leth
Included in the 66 Scenes from America that give the title to the feature-length film
made by Jørgen Leth in 1981, Andy Warhol Eating a Hamburger shows the protagonist of American Pop Art eating a burger in rigorous silence for about four minutes.
When the action is completed, the artist states: “My name is Andy Warhol and I just finished eating a hamburger.” Playing with the idea of the 15 minutes of fame for which
Warhol himself was the spokesman and emblem, the short film puts the idea of the
icon at its center: the artist is an icon, but so is the food he consumes, a hamburger
with ketchup, with recognizable packaging (Burger King). A symbol of American pop
identity, the burger in its industrial package becomes an immediate expression of
the society of consumption Warhol narrated perfectly in his Pop works, starting in
the 1960s.
Jørgen Leth (Århus, 1937) is a Danish poet and filmmaker. In 1981 he directed 66 Scenes from America, a film that fits together a series of long shots, each conceived as a
visual postcard of an imaginary trip across America. Leth’s most famous films include
The Perfect Human (1967) and The Five Obstructions (2003), made with Lars von Trier.
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Martin Parr
5_ The reconstruction of taste
In the images of junk food the English photographer Martin Parr documents, in pictures with saturated colors, the nutritional excess prompted by fast food products.
With their appealing colors, forms and flavors, but also of very low nutritional quality,
these foods become the emblem of the lack of attention paid to correct and balanced nourishment, in favor of a quick, low-cost feeling of fullness. Capturing different
situations and people very distant from one another in terms of culture, origin or social background, the artist narrates the widespread use of these products, across
geographical and class borderlines. The photographic project by Martin Parr on junk
food is perfectly consistent with his research, aimed at bringing out the contradictory
and at times grotesque aspects of our reality. Free time, consumption and communication are key words in his oeuvre, which ironically reinterprets aspects of modern
society, criticizing them from the inside.
Eating well is very simple: lots of fruit and vegetables,
a bit less pasta, rice or potatoes, even smaller quantities of meat, eggs or fish, a few dairy products and
seasonings, and a very limited amount of sweets.
But in a world full of so many tasty foods that call out
to us from all sides, eating properly can be a difficult
task. How can we get out of this bind?
1) We can eat more, or we can eat tastier foods, is
we then consume the calories through physical exercise. But this really does mean a lot of effort: to consume the over 400 calories contained in 100 grams
of packaged cookies, for example, a person weighing 70 kilograms has to run almost 7 kilometers.
2) We can follow our instincts, but eat only typical products of high quality: this means spending
more and eating less. Unfortunately this is a sort
of gastronomic weekend solution, and little more,
because few people can afford or want to spend
so much more every day.
3) We can return to eating as in the past: less packaged food, more home cooking, with almost certainly
healthier ingredients. But who has time for cooking?
4) We can demand that the food industry provide
us with foods with fewer fats and sugars, containing more useful nutrients, or smaller portions. But
the food industry has an obvious interest in encouraging us to eat more and more, so these demands would have to be imposed by legislation.
5) We can try to improve industrial foods while
maintaining their appeal, somehow deceiving the
Martin Parr (Epsom, 1952) is a British photojournalist. After starting his career in black
and white, in the mid-1980s he shifted to color, always very saturated, making it a distinctive feature of his work. Since 1994 he has worked with the agency Magnum Photos.
brain. If the sensations granted us by food are the
result of a complex combination of taste, smell,
sound and even pain, we could increase an odor,
for example, to compensate for a reduction of fats
and sugars. But do we want to entrust a few hightech companies with our nourishment, which is
such a crucial part of our culture and our identity?
6) We can also separate taste completely from
nutrition, taking the manipulation of foods to extremes, as in the practice of the great chefs of molecular cuisine. But is it realistic to think we can “reestablish” our approach to eating from scratch?
7) We can “educate” (or re-educate) taste to appreciate less banal flavors, therefore adding to the appeal of healthier foods: many people, in fact, do eat
well. The taste for good food can be refined and
developed, like a taste for art or music. But this is
a question of culture, and culture is something that
develops slowly and is hard to change.
Complex problems never have simple answers,
and the problem of our nourishment is undoubtedly a complex one. Each of these suggestions probably contains a piece of the solution,
and each of us has to find the right pieces for his
or her own personal case. But we also have to manage to perform a small miracle: to approach the
issue in a simultaneously thoughtful and carefree
way. Otherwise we run the risk of ruining one of
the great pleasures of life. Because taste, like love,
cannot be commanded.
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Christian Jankowski
Hannah Collins
Setting himself the rule, for one week, of eating only what he could catch with a bow
and arrow, in the video The Hunt the German artist Christian Jankowski is shown
(filmed by a friend) as he shoots at foods in a supermarket, then placing his prey (with
arrows still inside it) on the belt at the check-out counter. This witty operation triggers
a relationship between the more immediate, almost primordial action of hunting and
the wealth and ease of access to any type of food typical of the contemporary era,
which should thus be organized and managed in a more conscious way.
The Fragile Feast is the result of the collaboration between the artist Hannah Collins and Ferran Adrià, the award-winning chef known on an international level, and
creator of the El Bulli restaurant in Barcelona. Starting with Adrià’s dedication in the
procurement of his ingredients, Hannah Collins develops a photographic project that
documents that path that brings those ingredients into the kitchen of the great chef.
The photographs are therefore the outcome of a voyage through different countries
(Italy, Greece, Spain, Japan, South America), and document not just the raw materials but also the places with which they are associated, an overview of local cuisine
but also a complex of memories, traditions, experiences that make each of these
ingredients unique, like the roses and sea anemones in the exhibition, used for the
recipe that combines them with rabbit brain, dill and oysters. The photographs of
Hannah Collins have been gathered in a book that documents the origin and history
of 30 ingredients identified with Ferran Adrià.
Operating with different media, including photography, video and installations, in his
works Christian Jankowski (Göttingen, 1968; residing in Berlin) reworks suggestions
stemming from the mass media, at times reproducing their mechanisms, as in the video installation Telemistica shown at the Venice Biennale in 1999, or The Holy Artwork
(2001), done in collaboration with a network of tele-evangelism.
An artist and filmmaker, Hannah Collins (London, 1956; residing in London and Barcelona) works on memory and history as collective experiences, allowing the more
poetic aspects of the realities she narrates to emerge in each of her projects.
Marilyn Minter
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The American artist Marilyn Minter works with transgression and humor, often using
dreamy, almost surreal imagery, with garish acid hues. The video Green Pink Caviar,
shown at MoMA New York and chosen by Madonna for her Sticky & Sweet European Tour in 2009, shows a mouth that sensually licks and eats colored gels and
other ingredients used to decorate cakes. The tongue becomes a kind of paintbrush
that creates abstract images on the glass surface in the foreground, utilizing edible
substances with attractive forms and colors as raw material. The focus on the mouth
becomes the image of desire, expression of a taste not limited to the act of eating,
but also extended to all the different manifestations of pleasure.
A painter, sculptor and photographer, Marilyn Minter (Shreveport, 1948; residing in
New York) lets pop culture meet more or less explicit sexuality in her works, wavering
on the borderline between “high” and commercial art to create captivating images of
great visual impact.
stampato nel gennaio 2014
da Multiprint - Roma