31 gennaio_12 marzo 2014 GOLA Con il Patrocinio di Main sponsor Concept allestimento Catalogo Si ringraziano ARTE E SCIENZA DEL GUSTO Regione Lombardia Alfa Wassermann Testi Gli artisti • I prestatori Una produzione Fondazione Marino Golinelli in collaborazione con La Triennale di Milano Provincia di Milano PLAstudio Emanuele Marcotullio Mattia Rebichini Progetto e testi exhibit Giovanni Carrada con interventi di Marino Golinelli Antonio Danieli Barry C. Smith Un progetto di Giovanni Carrada Scienza a cura di Giovanni Carrada Arte a cura di Cristiana Perrella Assistente curatore Alessandra Troncone Comune di Milano Expo 2015 Sponsor CAST Centro Arte, Scienza e Tecnologia SICOR spa Comune di Bologna EXBO Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca /USR Lombardia, per le attività gratuite rivolte alle scuole Con il contributo di Whirpool Argotec Progetto grafico della mostra e della comunicazione Raffaella Ottaviani Maria Teresa Pizzetti Documentazione iconografica Manuela Fugenzi Video e videografiche: storyboard e regia Raffaella Ottaviani Maria Teresa Pizzetti voce Francesco Prando musiche Paolo Modugno post-produzione audio Accademia Nazionale dei Lincei Istituto Mario Negri di Milano Padiglione Italia Expo Milano 2015 oasi studio animazione e montaggio Roberto Baldassari ottimizzazione Marcello Rossi Realizzazione allestimento Altofragile srl servizi per l’arte contemporanea Ufficio Stampa Delos servizi per la cultura con il patrocinio Giovanni Carrada Cristiana Perrella progetto grafico Raffaella Ottaviani Maria Teresa Pizzetti coordinamento Fiorella Buffignani redazione schede opere Alessandra Troncone traduzioni transiting.eu/s. piccolo Claudia Valeria Letizia Scriptum, Roma Fotografie e filmati Alive Mind Cinema per il filmato: El Bulli. Cooking in Progress Archivio Biscotti Gentilini Archivio Scala, Firenze per: Banchetto funebre, Tomba dei Leopardi, Tarquinia. © 2014 Foto Scala, Firenze su concessione del Ministero per i Beni e le attività Culturali. Pieter Bruegel Il Vecchio, Banchetto nuziale, 1568, Kunsthistorisches Museum, Vienna. © 2014 Foto Fine Art Images/Heritage Images/ Scala, Firenze Paolo Veronese, Le nozze di Cana (1563), Museo del Louvre, Parigi. © 2014 White Images/Scala, Firenze Caravaggio, Cena in Emmaus (1601), National Gallery, Londra © 2014 The National Gallery, London/Scala, Firenze REPV BBLICA ITALI ANA Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Ufficio Scolastico per la Lombardia main sponsor con il contributo di sponsor per le attività gratutite rivolte alle scuole Con il patrocinio di Padiglione Italia Expo Milano 2015 Peter Blume, Cena vegetariana, 1927, Smithsonian American Art Museum, Washington DC. © 2014 Foto Smitsonian American Art Museum/Art Resource/Scala, Firenze Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze per le illustrazioni tratte dal Libro de la vida que los Yndios antiguamente hazia y supersticiones y malos ritos que tenian y guardavan, sec XVI. (Banco Rari 232) Conserve Italia – Cirio per il filmato Depardieu e i pelati Cirio di Silvano Guidone e Associati Corbis Images Food and Agriculture Organization of the United Nations (FAO) per il filmato Edible insects Fond Du Lac County – Economic Development Corporation per il filmato: Agribusiness, Food Processing & Technology Industry Getty Images Library of Congress, Rare Book and Special Collections Division Washington, D.C. per le incisioni tratte da Theodor de Bry, America, Francoforte 1593 Sime Photo-SIE, Roma Nick Lesley Electronic Arts Intermix, New York Sidney Russel Theus Zwakhals Studio Marina Abramovićc Paola Poten Sara Ceroni Galleria Lia Rumma Napoli/Milano Peggy Leboeuf Lara Blanchy Galerie Perrotin Parigi/New York Maria Rovigatti Paola Coltellacci Maria Bonmassar MACRO – Museo d’Arte Contemporanea di Roma Eliane Tolentino San Paolo Amanda Rodriguez Galeria Fortes Vilaca, San Paolo Contributi video Alexa Kreissl Studio Anri Sala Cow in an Indian Shop di Rooms & Menus Ole John Ole John Film Cow is god in India – 6 (Varanasi india) di 8520tv Koala eating eucalyptus leaves di TESHI555 The Swap TV SPOT di Nespresso Les Vins de Saint-Emilion plébiscités à Bordeaux Fête le Vin 2012 di VinsdeSaintEmilion Reha Sodi Devi Art Foundation, New Delhi Carla Mantovani Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino Laura Trisorio Studio Trisorio, Napoli Minh-Tu Studio Christian Jankowski Annette Hofmann Lisson gallery, Milano Veronique Rivest Final Tasting Exam - Sommelier du Monde Alissa Friedman Victoria Keddie Competition 2013 (Tokyo, Salon 94, New York Japan) di thewineguide Ethan Clark Sacred cows di johnfromsalsa Tania Bonakdar Gallery, Yeni Cornetto Disc reklamı New York di ReklamFonu Marcelo Moleta Carmen Riquelme Elisa Kuschnir Studio Ernesto Neto Teaching Specimens of von Hagens Plastination: Von Hagens Plastination, the pioneering leader in Plastination science, provides real human specimens for education and research to medical and health institutions, public museums, and to the globe touring BODY WORLDS www.plastinarium.com www.vonhagens-plastination.com Gregoria Prior Cristina Guerras Galería Elba Benítez, Madrid Jenni Smith Studio Martin Parr Dobrila Denegri Micol Di Veroli Simone Ciglia Pippo Ciorra Flavio Del Monte Fondazione Marino Golinelli Fondatore e Presidente Marino Golinelli Consiglio di Amministrazione Presidente Marino Golinelli Vice Presidente Andrea Zanotti Consiglieri Andrea Bonaccorsi Dario Braga Marco Cammelli Filippo Cavazzuti Luca De Biase Stefano Golinelli Andrea Zanotti Collegio dei revisori Sergio Parenti Giovanna Randazzo Antonella Vannucchi Direttore Generale Antonio Danieli Area Formazione ed Educazione Giorgia Bellentani Life Learning Center Divisione formativa e didattica Scuole Secondarie Responsabile del laboratorio e delle attività didattiche Raffaella Spagnuolo Didattica e rapporti con le scuole Stefania Barbieri Segreteria didattica Silvia Cozzi Assistenti di laboratorio Giuliano Matteo Carrara Maria Chiara Pascerini Tutor di laboratorio Senior Sara Bernardi Alessandro Saracino Tutor di laboratorio Junior Paolo Manzi Gabriele Mazzotta Stefania Zampetti Life Learning Center si avvale del supporto di un gruppo di tutor qualificati laureati, dottorandi o dottorati. Start Laboratorio di Culture Creative • Divisione educativa scuole primarie e dell’infanzia Coordinamento operativo Giorgia Bellentani Tutor di laboratorio Sara Giovacchini Pierdomenico Memeo Vanessa Nicastro Supervisione scientifica area 2/5 anni START si avvale del supporto dei Servizi educativi del Comune di Bologna Comitato scientifico START si avvale della collaborazione di eminenti esperti scientifici START si avvale inoltre del supporto di un gruppo di tutor qualificati laureati, dottorandi o dottorati. Area Progetti Speciali Fiorella Buffignani Collegio dei Revisori dei conti Emanuele Giuseppe Maria Gavazzi Presidente Alessandro Danovi Salvatore Percuoco Direttore Generale Andrea Cancellato Settore Affari Generali Maria Eugenia Notarbartolo Franco Romeo Area Amministrazione Daniele Vandelli Settore Biblioteca, Documentazione, Archivio Tommaso Tofanetti Claudia Di Martino Paola Fenini Elvia Redaelli Fundraising e Marketing Mariangela Leonetti Segreteria generale e organizzativa Cristina Lertora Responsabile per la sicurezza Marcello Verrocchio Consiglio d’Amministrazione Claudio De Albertis Presidente Mario Giuseppe Abis Giulio Ballio Renato Besana Ennio Brion Flavio Caroli Angelo Lorenzo Crespi Carlotta de Bevilacqua Alessandro Pasquarelli Comitato Scientifico Claudio De Albertis Presidente Silvana Annicchiarico Design, Industria e Artigianato Edoardo Bonaspetti Arti visive e Nuovi Media Alberto Ferlenga Architettura e Territorio Eleonora Fiorani Moda Area Comunicazione e ufficio stampa Annalisa Perrone Segreteria didattica Pier Francesco Bellomaria Lucia Tarantino Fondazione La Triennale di Milano Fondazione Marino Golinelli è partner di La Triennale di Milano per Arte e Scienza Settore Iniziative Laura Agnesi Roberta Sommariva Laura Maeran Carla Morogallo Violante Spinelli Barrile Alessandra Cadioli Ufficio Servizi Tecnici Alessandro Cammarata Cristina Gatti Franco Olivucci Luca Pagani Xhezair Pulaj Ufficio Servizi Amministrativi Paola Monti Marina Tuveri Ufficio Stampa e Comunicazione Antonella La Seta Catamancio Marco Martello Micol Biassoni Partner per Arte e scienza Fondazione Marino Golinelli Fondazione Museo del Design Consiglio d’Amministrazione Arturo Dell’Acqua Bellavitis Presidente Maria Antonietta Crippa Carlo Alberto Panigo Anty Pansera Direttore Generale Andrea Cancellato Collegio Sindacale Salvatore Percuoco Presidente Maria Rosa Festari Andrea Vestita Triennale di Milano Servizi Srl Triennale Design Museum Consiglio d’Amministrazione Mario Giuseppe Abis Presidente Giulio Ballio Andrea Cancellato Consigliere Delegato Producer attività museo Roberto Giusti Organo di controllo Maurizio Scazzina Ufficio Servizi Tecnici Marina Gerosa Ufficio Servizi Amministrativi Anna Maria D’Ignoti Silvia Anglani Isabella Micieli Ufficio Marketing Valentina Barzaghi Olivia Ponzanelli Caterina Concone Direttore Silvana Annicchiarico Collezioni e ricerche museali Marilia Pederbelli Archivio del Design Italiano Giorgio Galleani Ufficio iniziative Maria Pina Poledda Ufficio stampa e Comunicazione Damiano Gullì Attività Triennale DesignMuseum Kids Michele Corna Logistica Giuseppe Utano Laboratorio di Restauro, Ricerca e Conservazione Barbara Ferriani, coordinamento Rafaela Trevisan Partner istituzionale Triennale di Milano Nutrire il cervello, nutrire il pianeta Marino Golinelli 10_11 Questo mio breve intervento prende spunto dalla frase La bocca è una finestra aperta sul nostro cervello, che è il titolo dell’intervento in questo stesso catalogo di Giovanni Carrada, curatore della mostra. La mostra infatti è dedicata al gusto e alla nutrizione, visti tuttavia non solo per se stessi, ma come microcosmo a noi tutti familiare e accessibile di un tema più grande e al centro di ogni iniziativa della Fondazione: coltivare la capacità di riflettere su noi stessi, sul nostro vivere come persone consapevoli, impegnate e aperte agli stimoli e alla complessità che derivano da un mondo globale. Se la bocca che campeggia nel logo della mostra è il simbolo del nostro rapporto con l’alimentazione, è però il cervello che ci orienta affinché l’alimentazione possa integrarsi in modo più generale con la natura dell’uomo e il futuro della singola persona in un particolare contesto culturale, sociale ed economico. È il cervello, mediando fra motivazioni istintive e comprensione di situazioni che la natura non può aver previsto, che può individuare e scegliere un rapporto corretto con il cibo, quindi innanzitutto una salute migliore e una longevità felice. Allo stesso modo, anche in ogni altro ambito, è sempre il cervello che ci orienta e ci può consentire di vivere la nostra vita in modo libero e di essere felici, partecipando in modo responsabile alla vita della società. Il cervello però va “nutrito” con le conoscenze e gli stimoli giusti, che sono dati dalla scienza, dall’arte, come da ogni altro ambito della cultura. Rendere queste conoscenze e questi stimoli disponibili a tutti, ma soprattutto ai più giovani, è la missione della Fondazione Marino Golinelli. GOLA. Arte e scienza del gusto Antonio Danieli 10_11 Gola, arte e scienza del gusto è la quinta mostra realizzata dalla Fondazione, dopo Antroposfera, Happy Tech, Da 0 a 100 e Benzine, e si inserisce fra tante altre iniziative pensate per aiutare i cittadini di domani a contribuire alla crescita culturale della società. Tutte basate sullo slogan che la Fondazione ha fatto proprio: “la cultura nutre il pianeta”. Coerenti con il passato, ma guardando sempre al futuro. GOLA. Arte e scienza del gusto rappresenta la quinta tappa del progetto pluriennale di “arte e scienza” avviato sperimentalmente dalla Fondazione Marino Golinelli (FMG) nel 2010. Tale progetto fa parte del più ampio e articolato programma di iniziative educative e culturali che FMG, nel rispetto dei propri obiettivi statutari, indirizza alla società nel suo complesso, ed in particolare ai giovani che rappresentano il nostro futuro. È infatti soprattutto ai giovani che FMG intende fornire degli strumenti intellettivi adatti per la loro crescita culturale responsabile in un mondo globale, come è possibile evincere immediatamente anche dai titoli delle mostre precedenti: 2010 - Antroposfera. Nuove forme della vita, 2011 – Happy Tech. Macchine dal volto umano, 2012 – Da ZERO a CENTO. Le nuove età della vita, 2013 – Benzine. Le energie della tua mente. Perché la Fondazione ha pensato di realizzare le mostre di arte e scienza? Perchè i giovani – e più in generale tutti i cittadini in un contesto sociale coeso e partecipato democraticamente – devono imparare a porsi le domande giuste, ancora prima che dare risposte, e le mostre forniscono un metodo preciso per entrare in questa ottica. Qual è questo metodo? La Fondazione Marino Golinelli è fortemente convinta che la letteratura, le arti e le scienze come la matematica, la fisica, la chimica e la biologia, ma anche l’architettura, la medicina, l’economia, la sociologia, la giurisprudenza - e così via discorrendo - siano tutti linguaggi, ergo strumenti comunicativi ed interpretativi a disposizione dell’essere umano per descrivere e conoscere la realtà che lo circonda, e per determinare pro-attivamente il proprio percorso di vita contestualizzandolo nella storia. Non possiamo affermare che le cose che avvengono sono realmente esattamente così come ognuno di noi le percepisce. La degustazione come esperienza multisensoriale Barry C. Smith 12_13 L’esperienza statistica, l’empirismo e l’apprendimento ci danno confidenza sufficiente ed un appagamento per farci ritenere di saperci sempre muovere nel mondo. Ma in “realtà” tutti i modelli di pensiero e di comportamento che adottiamo rappresentano un avvicinarsi faticoso e obbligato ad una verità di cui non abbiamo assoluta certezza, perché una verità assoluta per tutti non esiste e perché la verità per ognuno di noi è in continuo divenire. Nessuno di noi dunque, seppur talvolta apparentemente siamo appagati dalle nostre consuetudini e convinzioni, possiede una verità assoluta: la nostra ricerca di verità non ci potrà mai dare risposte che si possano definire in assoluto non controvertibili un domani. In tal senso forse solo le arti possono costituire i “percorsi di ricerca della verità” più adatti per l’uomo: l’arte non schematizzata, che però impiega schemi e ricerche per cogliere l’assolutezza folle e per noi inscindibile della nostra anima. L’arte può “liberare le gabbie” della nostra comprensione comune ed innalzarci a stadi superiori di conoscenza. Questo è ancora più vero per le menti dei nostri giovani, che sono le più fervide, propense alla creatività, alla passione, alla ricerca, perché ancora non sono imprigionate in sovrastrutture sociali e comportamentali. Ecco dunque la risposta al nostro interrogativo iniziale: volendo sintetizzare in poche parole, possiamo convenire che il metodo insegnato dalle mostre di arte e scienza della Fondazione Marino Golinelli è quello di “imparare ad essere liberi di imparare” per tutta la vita. Quando assaggiamo un piatto, è credenza comune che sia la lingua a fornirci tutte le informazioni sul suo sapore, ma non è così. Quella che definiamo “gustare” nasce sempre da un’azione combinata di gusto, tatto e olfatto: anche la sensazione e la temperatura dell’alimento nella bocca, o gli aromi che penetrano nel naso, contribuiscono a formare la percezione del sapore. E ancora prima di coinvolgere il gusto, il tatto e l’olfatto, spesso si sceglie con gli occhi la vivanda che si vuol mangiare, valutandola in base all’aspetto che ha. Può darsi che nello stesso momento si senta il gorgoglio di un vino che viene versato, e mangiando si udirà il rumore croccante delle foglie di insalata o di un’altra verdura cruda. Quando si mangia o si beve, tutti questi sensi vengono attivati e il modo in cui il cervello mette insieme tutte queste informazioni fa sì che la degustazione sia sempre un’esperienza multisensoriale. Per capire fino a che punto l’esperienza del mangiare e del bere sia multisensoriale è importante riconoscere quanto poco vi contribuisca la lingua alla degustazione. I recettori situati sulla lingua decodificano i sapori fondamentali: il dolce, l’acido, il salato e l’amaro, ai quali possiamo aggiungere l’umami (ovvero la sapidità) e il metallico. Forse abbiamo anche dei recettori del grasso, o se non altro degli acidi grassi. Ma questo è quanto. Eppure, pensate a tutti i sapori descritti da Frank Sibley, filosofo estetico: “manghi maturi, fichi freschi, limone, melone cantalupo, lampone, cocco, olive verdi, cachi maturi, cipolla, cumino dei prati, pastinaca, menta piperita, semi di anice, cannella, salmone fresco”. Per queste cose non abbiamo recettori; non esistono recettori del pollo, del manzo o del pomodoro. Pertanto, la nostra capacità di distinguere i relativi sapori dipende da qualcos’altro oltre che dal gusto. Notate anche che questi sapori non si possono ricostruire basandosi solo su quelli fondamentali: Il cocco può essere vagamente dolce e il limone aspro, o acido, ma quali altri sapori si uniscono alla dolcezza per creare il cocco, ovvero all’asprezza o all’acidità per creare il limone? Come si può mettere insieme una miscela di sapori riconoscibili […] per fare quello del cocco, o del limone, o della menta? Provate a immaginare la ricetta: “Per fare il sapore di cipolla (o di pepe, o di lampone, o di oliva), aggiungete [sapori fondamentali] come segue, nelle proporzioni seguenti…” (Sibley, pp.216-7 14_15 Un procedimento simile non esiste, ma tutti siamo in grado di distinguere i sapori descritti da Sibley. Ciò avviene grazie al ruolo che svolge l’olfatto nel creare l’esperienza del gusto. Ma non l’olfatto come lo intendiamo di solito, quando gli odori sprigionati dai cibi o da un vino ci arrivano alle narici prima di mangiare o di bere. La neurofisiologia ha attirato la nostra attenzione su una sensazione olfattiva che si crea quando un odore passa dal naso alla bocca mentre si mastica e si deglutisce: si tratta dell’olfatto retronasale, che viene spesso percepito come un sapore che si ha nella bocca. A questa va aggiunto il contributo del tatto, che ci consente di valutare se un alimento sia cremoso o oleoso, croccante o viscoso. E poi c’è l’irritazione chimica provocata dalle spezie. È questa interazione fra tatto, gusto e olfatto che dà origine alla nostra esperienza gustativa. E come dice lo psicologo Martin Yeomans: È probabile che l’integrazione multisensoriale raggiunga l’apice nella percezione dei sapori, visto che poche altre esperienze consentono una stimolazione concomitante di tutti i sensi principali. Quando assaggiamo un vino, quindi, la nostra reazione non deriva solo dalle sensazioni gustative sulla lingua, che forniscono informazioni su note dolci, salate, acide, amare, sapide e metalliche, ma anche al modo in cui questi sapori si uniscono ad aromi fruttati e floreali, alle percezioni tattili vellutate, setose o satinate, al carattere lievemente astringente dei tannini e a quello piccante che stimola il nervo trigemino, facendo sprigionare nella bocca una sensazione di fresco quando si mangia pepe o di caldo quando si mangia senape. Si pensi all’effetto che fa il sapore di mentolo: si avverte un aroma di menta, un sapore leggermente amaro e una frescura. Ma se uno di questi elementi viene meno, non si ha più l’esperienza del mentolo. Le percezioni gustative di questo genere sono multisensoriali e nell’esperienza sensoriale la percezione multisensoriale non è l’eccezione, bensì la regola. La percezione dei sapori ne offre uno degli esempi migliori. Per arrivare a una percezione gustativa unificata, il cervello deve integrare fra loro i contributi relativi di gusto, odore, percezioni tattili e irritazione trigeminale. Il risultato è l’effetto di complesse interazioni e richiede un certo impegno per poter essere apprezzato, dal momento che nella nostra esperienza i vari componenti sono spesso inseparabili. La degustazione, inoltre, non è un’esperienza puntuale; ha un andamento temporale dinamico, rallentando il quale si può capire cosa accade in ogni momento: dalla dolcezza di un attacco quando il vino entra in bocca alle delicate note amare di un finale. Il grado di complessità e di appagamento che dà un vino dipenderanno da proprietà sensoriali e temporali che possono passare inosservate a un assaggiatore alle prime armi. Vista la gran quantità di cose che succedono fra naso e bocca, forse non sorprenderà che i giudizi degustativi possano divergere; ma ciò non significa che siano singolari o inspiegabili, né che siano soggettivi e indipendenti dal sapore di un vino o di un alimento. Le differenze possono essere dovute alla maggiore o minore sensibilità della lingua. C’è chi ha più papille gustative ed è pertanto un “supertaster” molto sensibile all’amaro, o all’acido; in altri, invece, la notevole distanza fra le papille riduce di molto la sensibilità. Le persone hanno anche una sensibilità diversa rispetto agli odori composti e al tatto, il che può dar luogo a grandi differenze nell’esperienza gustativa di uno stesso alimento fatta da assaggiatori diversi. Ciò nondimeno, la degustazione è un’esperienza che consente di entrare in contatto con le proprietà gustative, olfattive e strutturali di un alimento o di un vino, proprietà che esistono per essere scoperte. E se la scienza dell’alimentazione ci è necessaria per studiare la fisica e la chimica molecolare di alimenti solidi e liquidi, abbiamo anche bisogno della neuroscienza e della psicologia per studiare la scienza di chi assaggia. Lo studio del gusto e della degustazione sta cominciando a fornirci una serie di dati affascinanti, dai quali emerge che le nostre esperienze in fatto di cibi e vini sono influenzate non solo dalla fisiologia ma anche da elementi di sottofondo come l’illuminazione o la musica e dalle aspettative create in noi da ciò che vediamo e udiamo. Questi elementi e gli effetti che producono sulla percezione multisensoriale sono oggetto di ricerca da parte dei miei colleghi del Centre for the Study of the Senses, che collaborano con chef e artisti per far progredire la scienza e migliorare le nostre esperienze gustative. In una serie di esperimenti condotti presso il laboratorio di Ferran Adrià, lo psicologo Charles Spence ha scoperto che offrendo ai partecipanti la stessa mousse di fragole servita su piatti neri e su piatti bianchi, il dessert sembrava fino al 10% più dolce se mangiato su La bocca è una finestra sul cervello Giovanni Carrada 16_17 un piatto bianco. E questo è solo uno dei tanti modi in cui il piatto sul quale si serve una vivanda può contribuire a determinarne il gusto. In un’altra serie di esperimenti effettuati a Londra è stato offerto ai partecipanti un bicchiere di whisky Singleton e mentre la persona si spostava da una stanza all’altra, il whisky contenuto nel suo bicchiere acquistava un sapore diverso a seconda dei cambiamenti nell’illuminazione degli ambienti, dei colori delle pareti e dei suoni e rumori che udiva. Questi effetti possono essere usati per ricreare l’atmosfera particolare che accompagna la consumazione di un piatto o di un vino e che rende tanto piacevole tutta l’esperienza. Un esempio perfetto è quello di The Sound of the Sea (Il rumore del mare), la specialità del ristorante The Fat Duck di Bray creata da Heston Blumenthal, chef tre stelle Michelin che ha collaborato con Charles Spence per realizzare il perfetto accompagnamento sonoro a una ricetta con frutti di mare freschi. I frutti di mare vengono serviti su un letto di farina d’avena simile a sabbia, con fili di alghe; contemporaneamente, il cliente riceve uno strombo contenente un iPod e delle cuffiette mediante le quali ascolterà il rumore del mare, concentrando la propria attenzione sul cibo e sulle sue origini per rendere più intensa l’esperienza del mangiare pesce fresco. In un’altra sua creazione Blumenthal ha servito ai clienti gelato di uova e bacon; sul piatto c’era anche una fetta croccante di pane fritto, che andava mangiata insieme al gelato. A quanto pare, nella bocca il sapore del bacon si trasferisce al pane fritto, mentre quello dell’uovo resta al gelato. Tutto ciò è opera del cervello, che così facendo tenta di capire quale sia il giusto abbinamento di sapori e consistenze, fornendo indicazioni utili sui complessi meccanismi della percezione multisensoriale. Grazie alla ricerca condotta in varie discipline abbiamo appena cominciato a scoprire i segreti del gusto e del sapore e attraverso la collaborazione con chef professionisti, artisti e produttori di alimenti e bevande riusciremo a far progredire la scienza della degustazione e a favorire esperienze gustative più piacevoli per tutti. 1- Frank Sibley, Approaches to Aesthetics: Collected Papers on Philosophical Aesthetics, edited by J. Benson, B. Redfern, J. Roxbee cox, Oxford University Press 2006, pp. 216-7 2- Yeomans, M. Chambers, l., Blumenthal, H., Blake, A. (2008), The role of expectancy in sensory and hedonic evaluation: the case of smoked salmon ice-cream in Food Quality and Preference, 19, pp. 565–573 Scegliere che cosa mangiare è un’esperienza che ripetiamo più volte al giorno fin dal primo giorno in cui siamo nati. È quindi normale che non ci sorprenda più. Se qualcuno ci domanda perché abbiamo scelto quella pasta, o quel dolce, rispondiamo “perché mi piace”, e lì ci fermiamo. Un gastronomo, naturalmente, analizzerà quel “mi piace” raggiungendo apici di sublime sofisticatezza, ma tutto quello che c’è da capire su quel “mi piace” sembra essere solo una discriminazione sempre più raffinata dei sapori. Pensiamo ad esempio alla colorita descrizione del gusto di un grande vino rosso da parte di un sommelier. La domanda “perché proprio quei sapori ti sono tanto graditi?” non sembra invece quasi ammissibile. “Perché sono buoni e basta”, ci viene da rispondere. In genere infatti liquidiamo la domanda con il fatidico de gustibus non est disputandum, e la presunta auto-evidenza del fatto che “i gusti non si discutono” mette fine a ogni discussione o riflessione sull’argomento. Ma è chiaro che si tratta di una non-risposta. Il fatto è che l’esperienza di scegliere che cosa mangiare, che ci risulta tanto semplice e immediata, in realtà – come tutte le cose importanti della vita – non lo è affatto. Se ci riflettiamo un momento, infatti, come potrebbe non essere importante la scelta di che cosa mangiare, cioè di quello che – dopo l’acqua – è più indispensabile per tenerci in vita? “Perché proprio quei sapori ti sono tanto graditi?” appartiene al genere di domande cui cerca di dare una risposta la biologia evoluzionistica, quella branca della scienza che cerca di scoprire la ragione “remota” delle caratteristiche degli esseri viventi, ovvero la ragione per cui si sono evolute proprio in questo modo. Se ad esempio gli uomini trovano particolarmente attraenti le donne con i fianchi stretti, è perché i fianchi stretti sono indice di un assetto ormonale favorevole alla fertilità. Se pensiamo a che cosa ci distingue dagli altri animali, pensiamo subito al nostro grande cervello, quindi all’intelligenza, all’uso di strumenti, al linguaggio parlato e simbolico, alla capacità di immaginare, al fatto che ci domandiamo che cosa ci sia dopo la morte, e così via. Non pensiamo invece al fatto che siamo la specie capace di nutrirsi del maggior numero di cose, e che è stato soprattutto questo che ci ha 18_19 permesso di colonizzare qualsiasi ambiente naturale sul pianeta. Nutrirsi non è facile. Bisogna scegliere alimenti che contengano tutti i nutrienti di cui abbiamo bisogno, e nelle giuste proporzioni, capire quanto ne dobbiamo mangiare, ma anche evitare tutti quei cibi che ci possono far male, fra i quali ci sono ad esempio la maggior parte delle piante. Tutti gli animali hanno lo stesso problema, ma tutti – tranne noi, e in misura minore altri onnivori come ad esempio ratti e macachi – si limitano a mangiare poche cose, sempre le stesse, o addirittura una sola. Ma nel corso della nostra lunga storia evolutiva, la scelta di che cosa mettere in tavola non poteva dipendere da una profonda conoscenza dell’esatta composizione di tutti i potenziali alimenti – dalla larva di insetto alla balena, passando per milioni di specie di piante - né delle complesse necessità nutrizionali del nostro organismo. La brillante soluzione trovata dall’evoluzione è stata di “nascondere”, per così dire, una sofisticatissima valutazione nutrizionale – basata su giudizi sia istintivi sia di origine culturale – dietro a un piacere, a un’emozione, cioè a qualcosa che ci spinge a scegliere. Dietro l’apparente semplicità del giudizio di un istante – mi piace, non mi piace – si cela quindi un fenomeno di straordinaria complessità, che fisiologi, psicologi e neuroscienziati stanno solo da poco cercando di svelare. Altro che de gustibus non est disputandum. C’è invece molto da chiarire (anche perché il principale significato del verbo latino disputo non è “discutere” ma “chiarire, esaminare, riflettere”). Come ogni prodotto dell’evoluzione, anche i meccanismi del gusto sono tutt’altro che perfetti. Ma è proprio grazie alla loro imperfezione che noi riusciamo a identificarli e a coglierne il vero significato. E proprio perché è di una sofisticata valutazione che si tratta, le cose più interessanti non avvengono al livello dei sensi, ma nel cervello. Gusto e disgusto a tavola ci aprono così una finestra sulla mente, e anche sulla natura umana. Il primo punto di partenza della valutazione operata dal cervello sono i segnali che provengono dagli organi di senso, che partecipano quasi tutti a quello che noi chiamiamo semplicemente “gusto”. La vista aiuta a identificare un alimento, ma viene aiutata dall’olfatto ancor prima che dal gusto vero e proprio: l’olfatto distingue infatti decine di migliaia di molecole, il gusto forse non più di sei sapori fondamentali. Il tatto valuta la consistenza, ma anche molti sapori, dalla cremosità dei grassi al pungente del peperoncino, al fresco del mentolo. Persino l’udito ha un ruolo tutt’altro che trascurabile. Nel cervello, tutte le informazioni provenienti dagli organi di senso vengono integrate e giungono alla nostra coscienza sotto forma di un’unica sensazione, che genera un unico giudizio: il famoso “mi piace” o “non mi piace”. Le 800 molecole volatili del caffè, ad esempio, diventano semplicemente l’aroma del caffè. A questo punto infatti non solo non distinguiamo le singole sensazioni, ma ciascuna sensazione si può “travestire”, per così dire, per sembrarne un’altra. Il “gusto” di arancia, ad esempio, è quasi tutto olfatto. Un esempio estremo è offerto da un recente caso in Gran Bretagna. La barretta di cioccolato di una nota azienda ha subito un restyling per cui gli spigoli del vecchio modello sono stati sostituiti dalle forme più stondate di quello nuovo. Ebbene, il pubblico ha subito trovato quest’ultimo più dolce, anche se l’azienda si è affannata a sostenere che si tratta esattamente della stessa cioccolata di prima. Con una serie di test, un gruppo di ricercatori dell’università di Oxford che studia proprio la “crossmodalità” dei sensi ha dimostrato che sono proprio le forme più stondate a influire sul giudizio dei consumatori. Ma, se ci pensiamo bene, non è crossmodale anche il giudizio estetico su un partner, piuttosto che su un’opera d’arte? La bellezza o la statura di un uomo o una donna non influenza forse spesso il giudizio sulla sua personalità o sulle sue capacità professionali? L’esperienza familiare del mangiare non ci illumina quindi anche su questo aspetto chiave del funzionamento della nostra mente? Sulla base dei nostri istinti più basici, quelli con i quali veniamo al mondo, noi tendiamo a preferire i sapori dolci e grassi, perché tipici di alimenti ricchi di energia, e a evitare quelli amari o aspri, perché possono indicare la presenza di tossine o di batteri patogeni. Tuttavia, sappiamo benissimo che tanti alimenti amari – dalla rucola al caffè – non sono affatto nocivi, e che un dolcificante può essere dolce ma allo stesso tempo non essere ricco di energia. I segnali del gusto sono infatti semplici e imperfetti, e per valutare il valore nutrizionale di un alimento serve anche molto altro. Bisogna infatti provare un nuovo alimento, oppure basarsi sull’esperienza di altri che l’hanno già fatto. Molti meccanismi alla base della formazione delle nostre preferenze a tavola 20_21 passano quindi per l’apprendimento: l’esempio dei nostri genitori a tavola quando siamo ragazzi, le tradizioni della cultura in cui viviamo, le esperienze alimentari in cui ci imbattiamo nel corso della vita, i messaggi della pubblicità. In altre parole, anziché provare tutto personalmente, correndo l’altissimo rischio di sbagliare, condividiamo l’esperimento su scala sociale. E oggi, grazie agli scambi culturali attraverso i media e i ristoranti etnici, addirittura planetaria. La formazione delle preferenze di ciascuno di noi è dunque stratificata: siamo quasi uguali nelle preferenze istintive (buono il dolce, cattivo l’amaro), siamo spesso simili all’interno di una cultura perché una maggioranza di persone condivide una serie di preferenze acquisite (buona la pasta, cattivi gli insetti), ma in più c’è l’esperienza individuale di ciascuno di noi è diversa (buono il mio sugo preferito, cattivo il pesto). Ecco quindi perché per certi versi siamo tutti uguali, per altri tutti diversi. Nel gusto, come in moltissime altre cose, siamo un mix di natura e di cultura, in proporzione variabile a seconda delle avventure della vita. Il gusto è anzi un esempio quasi da manuale della libertà che la nostra natura ci concede: possiamo accontentarci dei “settaggi di default”, ovvero delle predisposizioni genetiche e delle abitudini del gruppo sociale in cui viviamo, oppure possiamo provare ad andare oltre, a esplorare coraggiosamente i nostri orizzonti, a testare i limiti del possibile. È quello che fanno ad esempio gastronomi e semplici appassionati di cibo, magari etnico, ampliando le loro conoscenze gustative e approfondendo le ragioni del piacere della tavola. Ma, se ci pensiamo un momento, tutto questo non assomiglia molto all’affinamento del gusto per l’arte, la musica, i viaggi, la scienza, la poesia, o altre cose belle della vita? Ed è alla portata anche di chi non ha studiato. Questa libertà che la nostra natura ci concede non è infatti altro che il riflesso dell’estrema adattabilità della nostra specie, a sua volta il prodotto della grande plasticità del nostro cervello. La plasticità è la capacità di riconfigurare gli schemi delle connessioni fra le cellule nervose dalla quale dipende qualsiasi attività della mente. È grazie ad essa che, al contrario degli altri animali che sono legati a un solo stile di vita, ci possiamo dedicare anche ad attività che la natura mai avrebbe potuto prevedere. Quale ambito più semplice e familiare a tutti del gusto ci può essere per capire la proprietà forse più straordinaria del nostro cervello? Ma c’è in realtà anche un’altra e più concreta a ragione per esercitare la nostra libertà sulle preferenze istintive e i condizionamenti culturali, facendo leva sulla nostra adattabilità. Tutto il nostro bagaglio di istinti si è evoluto per aiutarci a sopravvivere e a lasciare una discendenza in un ambiente molto diverso da quello di oggi: la vita nella savana, dove si viveva di caccia e raccolta in piccoli clan familiari, con la preoccupazione costante di non trovare da mangiare il giorno dopo. Per questo motivo continuiamo ad andare matti per grassi, zuccheri e sale come se fossimo ancora nella savana come i nostri progenitori, e ad accaparrare cibo ogni volta che è possibile. Anche se non ce ne sarebbe alcun bisogno. Spesso finiamo quindi per mangiare molto più del dovuto, anche perché la nostra vita è diventata anche molto più comoda e abbiamo bisogno di molte meno calorie di una volta. Insomma, quel meraviglioso adattamento che è il piacere della tavola rischia di diventare un problema. Questo disadattamento fra la nostra biologia e l’ambiente che ci siamo creati nel corso degli ultimi decenni è fra le cause di una delle maggiori emergenze sanitarie del nostro tempo. In Italia, il 31% degli adulti pesa più del dovuto, e troppi chili in più favoriscono l’aumento della pressione arteriosa, del livello di zuccheri, di colesterolo e di grassi nel sangue, tutti sintomi della cosiddetta “sindrome metabolica”, che a sua volta aumenta il rischio di diabete, infarto, ictus e alcune forme di tumore. Ma, di nuovo, il disadattamento che riguarda il gusto non è che un altro caso, particolarmente chiaro e familiare, di un fenomeno molto più generale che tocca la nostra mente. Prendiamo ad esempio l’ansia: reagiamo agli stress – in se relativamente innocui – della vita moderna, con le stesse reazioni nervose e ormonali di quando la minaccia era costituita da un leopardo che ci voleva divorare. Perché non imparare a gestire meglio il problema del gusto, che è pur sempre un piacere, per imparare a gestire meglio anche gli altri problemi creati da una mente “paleolitica” che si ritrova a vivere in un ambiente completamente trasformato? 22_23 Proprio per il suo ruolo centrale nella nostra biologia, non possiamo fare a meno del piacere della tavola neanche se volessimo, come sa benissimo chiunque abbia mai cercato di fare una dieta per dimagrire. Da questo punto di vista, il buon cibo è come l’amore, l’amicizia, la compagnia degli altri. Occorre quindi trovare strade che sappiano coniugare alimentazione sana e piacere. Per questo è così importante conoscere i meccanismi del gusto. Come in altre cose, non siamo affatto schiavi della nostra biologia. Dobbiamo solo tenerne conto. Grazie alle conoscenze sulla crossmodalità degli stimoli sensoriali, possiamo ad esempio cercare di “ingannare” il cervello inducendolo a credere che stia assumendo cibi diversi da quelli reali, che forniscano cioè lo stesso piacere ma meno calorie. È un campo della ricerca che solo ora sta muovendo i primi passi, ma che promette molto. Oppure possiamo cambiare l’ambiente intorno a noi, perché non ci dia troppi stimoli sbagliati, cosa che si può fare ad esempio limitando la pubblicità del cibo spazzatura rivolta ai bambini, mettendo a disposizione nelle scuole frutta anziché merendine, o evitando al supermercato di comprare proprio le cose che in un momento di debolezza a casa ci potrebbero tentare e alle quali non sapremmo resistere. Nulla ci impedisce di farlo. Ma possiamo anche cambiare la cultura, perché nella nostra specie questa ha un’influenza notevole sullo sviluppo delle nostre preferenze alimentari. Dopo tutto, il mondo è pieno di culture alimentari “sane”, tradizionali e non, e tanta gente riesce a mangiare molto bene pur vivendo in un mondo di continue tentazioni. Questo vuol dire educare le giovani generazioni, soprattutto con l‘esempio, cominciando fin da quando si trovano ancora nel ventre materno. Vuol dire anche affinare il nostro gusto per il cibo imparando ad apprezzarlo meglio. In fondo, il cibo spazzatura sta alla buona tavola come una canzonetta sta a Mozart, o come la pornografia sta all’erotismo. Naturalmente si può peccare di gola, esagerando anche con la buona tavola, ma come ogni peccato, anche questo non è che la rinuncia alla libertà di scegliere, e una forma di schiavismo nei confronti dei nostri istinti. Invece noi possiamo sempre scegliere e plasmare le nostre preferenze. Pensiamo ad esempio a chi ha scelto una dieta vegana, rinunciando a qualsiasi alimento di origine animale, allontanandosi quindi radicalmente dalle preferenze istintive: dopo un po’, anche questa diventa una scelta di gusto, e la carne semplicemente non piace più. Qualunque cosa pensiamo della dieta vegana, è un trionfo della libertà umana sui lacci della nostra biologia. Noi siamo l’unica specie in cui una preferenza alimentare – come moltissime altre – può avere un’origine esclusivamente cognitiva. Da qualunque lato si prenda insomma il piacere della tavola, si ritorna sempre alla mente, quindi al potere che abbiamo su di essa e ai gradi di libertà di cui disponiamo. Per questo la bocca è una finestra aperta sul nostro cervello, sulla natura umana in generale, e sulle sue potenzialità. Una finestra, per di più, che ognuno di noi può aprire per guardare che cosa c’è là fuori (anzi, qui dentro). E non è roba per neuroscienziati. Tutti possiamo guardare – è il caso di dirlo – con piacere. Anche perché se capiamo il gusto, possiamo capire anche altre cose su noi stessi. Comprese molte che con il gusto non hanno nulla a che fare. «Bere birra con gli amici è la più grande forma d’arte» Cristiana Perrella 24_25 Antipasto. 1930. Milano. Dopo una cena al ristorante Penna d’oca, Filippo Tommaso Marinetti, poeta e padre del movimento futurista, preannuncia il Manifesto della cucina futurista. La furia iconoclasta del gruppo, che si propone di riprogettare ogni aspetto dell’esistenza, addirittura dell’universo, arriva anche a tavola. Partendo dall’assunto che «si pensa si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia», i futuristi si scagliano contro alcuni dei capisaldi della cucina italiana: propongono l’abolizione della pastasciutta («assurda religione gastronomica italiana»), l’eliminazione «del volume e del peso nel modo di concepire e valutare il nutrimento», delle «tradizionali miscele per l’esperimento di tutte le nuove miscele apparentemente assurde», del «quotidianismo mediocrista nei piaceri del palato», fino a quella delle posate. Postulano invece originalità, l’uso di profumi, musica, poesia ad accompagnare la presentazione delle vivande, e l’applicazione della ricerca scientifica in campo alimentare. Queste idee trovano immediata applicazione con l’apertura a Torino della Taverna Santopalato. Primo. 1963. Parigi. Un ristorante apre nel luogo più impensato: una galleria d’arte. La Galerie J ospita una serie di banchetti: il cuoco è l’artista Daniel Spoerri, mentre alcuni critici d’arte assicurano il servizio da camerieri. Ciò che resta di queste cene viene quindi incollato su delle tavole, esposte poi in verticale come se si trattasse di quadri. Sono i tableaux-pièges, i quadri-trappola che costituiscono il segno distintivo dell’opera di Spoerri. Nel 1967 l’artista conia il concetto di Eat Art, che s’interroga sulle seguenti questioni: «Cosa è mangiabile in generale? Quali piante e quali cereali sono base dell’alimentazione umana? Quali tipi di preparazione dei cibi sono noti in tutto il mondo? Quali sono le varianti delle ricette fondamentali?». L’anno dopo apre un ristorante a Düsseldorf, dove serve pietanze da lui stesso preparate. A questo si aggiunge presto una galleria consacrata alla nuova forma d’arte. Secondo. 1971. New York. Nell’allora degradato quartiere di SoHo un nuovo locale apre i bat- tenti: si chiama molto semplicemente Food (cibo). I titolari sono la ballerina Carol Goodden e l’artista Matta-Clark insieme ad altri amici. Il ristorante si caratterizza per la cucina a vista, che rende la preparazione dei piatti una sorta di performance, e la proposta di cibi freschi stagionali e di ricette internazionali. Periodicamente vengono invitati artisti a cucinare, e le cene si trasformano in opere d’arte. Presto Food diventa il luogo di ritrovo della comunità artistica di Manhattan. Matta-Clark lo considera come un’opera a pieno titolo e cerca di venderlo, senza successo, al gallerista Leo Castelli. Qui sperimenta anche i primi interventi su scala architettonica che poi lo consacreranno, operando con dei tagli su pareti e porte del locale. L’avventura dura fino al 1973, quando il ristorante cessa l’attività. Dessert. 1993. New York. Alla galleria 303 s’inaugura una mostra dell’artista di origine tailandese Rirkrit Tiravanija. I visitatori si trovano dinanzi a quanto di solito è sul retro della galleria (l’ufficio con lo staff). Lo spazio inoltre è trasformato in una cucina funzionante, nella quale l’artista serve gratuitamente riso e Thai curry. Si crea in tal modo una situazione di convivialità che favorisce le relazioni interpersonali. Questa sarà tra le prime di una lunga serie di performance condotte con modalità analoghe da Tiravanija, che afferma di lavorare sull’idea di cibo con un approccio «antropologico e archeologico». L’artista è il campione dell’arte relazionale, una tendenza individuata dal critico Nicolas Bourriaud negli anni Novanta che concepisce l’opera d’arte come luogo di socialità. Questo breve menu offre solo un assaggio delle ricette che l’arte contemporanea ha preparato scegliendo come ingrediente principale il cibo. Quest’ultimo è stato da sempre soggetto nella cultura figurativa occidentale: basti pensare alle straordinarie invenzioni di Arcimboldo, che dipinge ritratti e figure allegoriche componendo frutta e verdura; o ancora alle nature morte olandesi, che celebrano i trionfi di tavole imbandite. È nel corso del XX secolo, però, che l’arte allarga il proprio dominio, annettendo ogni aspetto dell’esistenza: non ne rimane certo esclusa la sfera legata alla nutrizione, parte 26_27 essenziale della vita dell’uomo. Il cibo oltrepassa allora l’ambito della rappresentazione per prestarsi a nuovi usi e significati. L’incontro fra campi disciplinari diversi – cultura, economia, scienza – che nel cibo si celebra diventa per gli artisti veicolo per parlare di temi come corpo, identità, politica. La spinta delle avanguardie storiche tesa ad abbattere le barriere che separano l’arte e la vita viene proseguita nel secondo dopoguerra da vari movimenti artistici (Fluxus, New Dada, Nouveau Réalisme). Questi impiegano spesso il cibo per inscenare azioni performative. Piero Manzoni, ad esempio, dà in pasto al pubblico delle uova che recano la sua impronta digitale. Yves Klein, invece, disseta i visitatori in fila all’ingresso della sua mostra con un cocktail a base di Cointreau, gin e metilene, che sortisce l’effetto di tingere le urine di blu, il suo colore. Negli stessi anni l’arte pop torna alla rappresentazione del cibo presentando un intero campionario gastronomico: la zuppa Campbell e la Coca-Cola di Andy Warhol, gli hamburger e le patatine fritte giganti di Claes Oldenburg, gli hot dog e la frutta di Roy Lichtenstein. Il cibo viene letto in questo caso come espressione della società dei consumi. Altri artisti scelgono di lavorare con il cibo esplorandone il valore simbolico. Paradigmatica in questo senso è l’opera di Joseph Beuys, che utilizza il grasso, il miele o l’olio per alludere ai processi energetici vitali. Su questa linea proseguono altri artisti che eleggono il cibo a loro medium: Wolfgang Laib realizza sculture e installazioni servendosi di latte, riso e miele, influenzato dal pensiero orientale; in maniera più ludica, Vik Muniz impiega cioccolato, burro di noccioline, zucchero per composizioni che poi sopravvivono in forma fotografica; con un gesto eucaristico Felix Gonzalez-Torres offre al visitatore un cumulo di caramelle il cui peso è pari a quello del compagno morto di AIDS. Al cibo è da sempre anche legata la dimensione della socialità e convivialità. In questo senso esso viene impiegato all’interno delle pratiche relazionali che si diffondono nell’arte a partire dagli anni Novanta. Queste erano state anticipate da azioni come quelle dell’esponente della Conceptual Art americana Tom Marioni, che considera l’atto di bere birra con gli amici come la più alta espressione d’arte: l’artista organizza bevute collettive i cui resti sono poi offerti al pubblico come opere. Nella pluralità di significati che il cibo assume nella pratica artistica non è secondario quello legato alla memoria e identità personale, espressione del legame con la propria famiglia e le proprie origini. In quanto espressione di civiltà esso diventa veicolo di scambi culturali, vero e proprio strumento di diplomazia, nell’ottica multiculturale e post-coloniale che domina le arti a partire dal 1989. Può essere letto in questo senso il progetto dell’italiano Mario Rizzi intitolato The Gift, realizzato in Israele nel 2001, e in cui un gruppo d’israeliani e palestinesi, riuniti dall’artista in un evento conviviale, cucinano e mangiano gli uni ricette degli altri, scoprendo così similitudini e differenze. In anni recenti, la crescente attenzione per il cibo come fenomeno culturale ha accelerato il graduale assottigliamento dei confini: arte nel cibo e cibo come arte. Differenti modalità di azione e di relazione sono sempre più spesso intrecciate: ristoranti che commissionano ad artisti la progettazione dei propri spazi, oppure li ospitano in residenze, o ancora ne espongono le opere; artisti che aprono ristoranti (celebre è rimasto Pharmacy di Damien Hirst); chef che assurgono al ruolo di artisti e sono ospitati nelle più prestigiose mostre d’arte (come Ferran Adrià a Documenta 12). È facile immaginare, dunque, che nel lavorare al progetto di una mostra come Gola. Arte e scienza del gusto, la selezione delle opere da accostare agli exhibit scientifici per raccontare i vari aspetti del rapporto tra nutrizione e piacere sia stata tutt’altro che semplice. Moltissime infatti le possibilità, i rimandi, le immagini sollecitate da un tema tanto ricco ed evocativo. La scelta è stata orientata dalla capacità delle opere di stimolare vari sensi, di attivare connessioni impreviste, di suggerire viaggi nello spazio e nella memoria, di toccare temi universali come la tolleranza, la salute, il bisogno di nutrimento tanto materiale che spirituale. La mostra si apre sull’idea di piacere sensuale associato al cibo. Il video dell’artista americana Cheryl Donegan gioca in modo ironico sull’associazione gusto/nutrizione scegliendo il latte, alimento primario, come elemento chiave di un’azione che si rivela carica di allusioni. La possibilità di utilizzare il cibo come medium per veicolare un messaggio metaforico, ponendolo al centro di un’azione, torna in The Onion di Marina Abramović, basato sull’idea di resistenza corporea che attraversa tutta la pratica della performer serba. Esternato attraverso le lacrime che rigano il volto dell’artista, il disgusto provocato dai grandi morsi inferti a una cipolla cruda non solo racchiude un senso d’insofferenza generale nei confronti delle dinamiche dello starsystem ma mostra anche il coinvolgimento di tutti i sensi nella rappresentazione di 28_29 una condizione emotiva, rimarcata dalla scelta di un alimento nauseante che mette alla prova la soglia di sopportazione dell’artista. Alla performance in video di Marina Abramović, che racconta della capacità di un cibo di provocare reazioni immediate e istintive orientando le nostre scelte attraverso l’esperienza olfattiva, visiva, tattile, si legano altre due opere che rientrano nella sezione de I sensi del gusto: Chromatic diet di Sophie Calle e While nothing happens di Ernesto Neto. La sequenza fotografica dell’artista francese, ispirata al racconto Leviathan dello scrittore e regista Paul Auster, restituisce la maniacalità della protagonista Maria, la cui regola è quella di mangiare ogni giorno cibi dello stesso colore. Alimenti monocromatici, ma anche stoviglie, salviette e tovaglie, disegnano pasti artificiosi quanto attraenti per i loro colori, evidenziando l’importanza dell’aspetto estetico nel processo di selezione dei cibi. Insieme alla vista, ad essere sollecitato nell’atto di mangiare è anche l’olfatto, che diviene il grande protagonista di tutta l’opera del brasiliano Neto: la sua grande struttura in mostra si presenta come un affascinante organismo la cui caratteristica è di diffondere nell’aria i profumi e gli aromi di spezie provenienti da ogni parte del mondo, rievocando sapori e paesi esotici e trasformando l’opera in un’esperienza multisensoriale. I profumi di luoghi geograficamente lontani di Neto costituiscono il ponte con la sezione Buono da pensare, nella quale a fare da fil rouge è il rapporto tra locale e globale e l’importanza che il cibo assume nella definizione dell’identità culturale di un paese. A questo si associa la capacità dei cibi di evocare esperienze personali legate a un passato lontano, come il flashback attivato dalla madeleine proustiana che racconta del rapporto tra memoria ed elementi scatenanti - quali sapori e odori - chiave di accesso a storie che ritenevamo dimenticate. Così l’albanese Anri Sala sceglie il byrek, piatto tipico della sua terra, per raccontare la nostalgia dell’averla lasciata, mentre Boaz Arad parte dal gefilte fish, tradizionale ricetta ebraica, per interrogarsi sul multiculturalismo d’Israele. Andy Warhol è protagonista di una delle 66 scene dall’America girate da Jørgen Leth il quale, nel tracciare il ritratto della società americana, non può far a meno di ritrarne l’icona artistica insieme a quella culinaria, ovvero l’hamburger condito con ketchup. L’artista indiana Sharmila Samant lavora sul simbolo della globalizzazione, la Coca-Cola, riempiendone le bottiglie con bibite prodotte artigianalmente e localmente proprio in quei paesi in cui la multinazionale possiede impianti di imbottigliamento. Infine Gabriella Ciancimino, siciliana di origine, trasforma una ricetta palermitana, le seppie murate, in una performance di beat box, insistendo sul dialogo culturale e generazionale che trova proprio nel cibo e nella cucina un possibile momento di confronto. Al locale e tradizionale fa eco il junk food, fenomeno globale per eccellenza, che promette sazietà in tempi rapidi e a basso costo diffondendosi rapidamente non solo in tutto il mondo ma anche in ogni fascia sociale. È ciò che Martin Parr, per la sezione I segreti dei cibi-spazzatura, rivela nei suoi scatti dai colori saturi che documentano l’universo colorato e attraente degli alimenti diffusi nei fast-food denunciandone le contraddizioni in modo grottesco e corrosivo. La necessità di recuperare un piacere sano del nutrirsi diviene quindi l’ultimo capitolo della mostra, La ri-costruzione del gusto, nel quale dialogano le opere di Christian Jankowski e Hannah Collins. Il video The Hunt è l’ironica e divertente documentazione degli effetti della regola autoimpostasi dall’artista tedesco: mangiare solo ciò che è in grado di procacciarsi con arco e freccia. La spesa in un supermercato si trasforma dunque in una battuta di caccia sotto gli occhi increduli degli altri clienti e dei dipendenti, denunciando la facilità di mezzi con cui oggi è possibile nutrirsi e al tempo stesso sottolineando la necessità di una maggiore consapevolezza e attenzione nella scelta dei cibi. Dall’approvvigionamento “arcaico” proposto da Jankowski si passa a quello sofisticato che Hannah Collins documenta nella serie The Fragile Feast. Nato dalla collaborazione con lo chef catalano pluristellato Ferran Adrià, il progetto fotografico dell’artista inglese racconta il percorso d’ingredienti d’eccezione, ovvero le materie prime che lo chef combina e trasforma nelle sue creazioni culinarie, tracciandone per ognuno un ritratto che tiene conto del contesto geografico, delle tradizioni locali, delle persone coinvolte nei processi di raccolta, smistamento, distribuzione fino all’arrivo in tavola. I DILEMMI DELL’ONNIVORO 30_31 Chiude la mostra il video Green Pink Caviar dell’artista americana Marilyn Minter, un susseguirsi di immagini dai colori saturi e brillanti nelle quali labbra e lingua in primo piano agiscono su una superficie di vetro come fossero pennelli, spargendo e risucchiando gelatine colorate, granelli di zucchero e altri dolciumi. Come l’opera di Cheryl Donegan in apertura della mostra, anche questa racconta l’incontro tra nutrizione e piacere, gusto e desiderio, mostrando del cibo la faccia più attraente e intrigante. Cheryl Donegan 32_33 Nel video Head, l’artista americana Cheryl Donegan utilizza in un’azione carica di allusioni il latte come cibo primario, cui si legano memorie dell’infanzia e la prima sensazione di piacere associata al nutrimento. Sullo sfondo di una colonna sonora a ritmo di rock, Donegan beve il latte che zampilla da un contenitore, in parte lo ingoia e in parte lo risputa all’interno, leccando le gocce che cadono fuori e ingaggiando una sorta di divertita lotta con l’anonimo recipiente. All’accelerazione del ritmo musicale corrisponde quella dell’azione performativa, che culmina con lo sputo del latte sul muro – quasi una forma di action painting – e con l’artista che abbandona il campo, lasciando dietro di sé gli indizi di quanto appena successo. Tra ironia ed erotismo, nel video di Donegan l’atto necessario del nutrirsi si trasforma in qualcosa di eccitante, divertente e gustoso, un gioco in grado di coinvolgere tutti i sensi. A partire dagli anni Novanta, Cheryl Donegan (New Haven, Connecticut, 1962; vive a New York) utilizza il video per riprendere performance in cui è direttamente coinvolta, mettendo in scena azioni che spesso simulano le procedure della pittura o della scultura. Misurandosi con temi quali il sesso, la fantasia e il voyeurismo, Donegan si serve del proprio corpo per esorcizzare cliché legati alle questioni di genere. Cheryl Donegan Head, 1993 Video a colori, sonoro, 2’49’’ Courtesy Electronic Arts Intermix (EAI), New York i dilemmi dell’onnivoro exhibit 34_35 Il piacere di mangiare è stato una chiave fondamentale del successo della nostra specie. Se siamo riusciti a vivere in ogni ambiente naturale dall’Artide al Sahara, dagli atolli del Pacifico agli altipiani delle Ande, è stato innanzitutto perché ovunque siamo riusciti a procurarci abbastanza da mangiare. Al contrario di qualsiasi altro animale, possiamo infatti mangiare di tutto: foglie, frutti, semi e radici delle piante, oppure carne, organi, midollo osseo, sangue, uova e latte di ogni tipo di animali. Crudi o cotti, freschi o conservati. Quando un alimento non è più disponibile, noi mangiamo qualcos’altro. In quanto onnivori, però, abbiamo un problema che altre creature non hanno. Come facciamo a sapere se un alimento contiene tutta l’energia e le sostanze di cui abbiamo bisogno? Le foglie, ad esempio, sono ricche di vitamine ma povere di energia. Le parti di un animale hanno contenuti diversi di proteine e di grassi. E come facciamo a scoprire se ci può far male? La maggior parte delle piante sono velenose, e i prodotti animali si guastano facilmente. Con decine di milioni di specie animali e vegetali potenzialmente disponibili, più i loro derivati, e senza poter contare sull’aiuto di analisi chimiche e di quello che oggi sappiamo sulle nostre necessità fisiologiche, era un problema straordinariamente difficile. La natura lo ha risolto nascondendo i dilemmi dell’onnivoro dietro a un piacere. Non abbiamo quindi bisogno di vedere l’energia racchiusa negli zuccheri di un frutto maturo: ci basta apprezzarne la dolcezza. Oppure nascondendoli dietro al suo opposto: il disgusto. Non abbiamo infatti bisogno di vedere i batteri patogeni: ci basta il sapore cattivo della carne o del pesce andati a male. Anche se pensiamo di essere noi a scegliere liberamente che cosa mangiare, siamo invece condizionati – senza saperlo – da una serie di preferenze che ci guidano attraverso sensazioni di maggiore o minore piacere. La maggior parte delle volte, infatti, non iniziamo a mangiare perché abbiamo bisogno di energia o di qualche particolare sostanza, ma guidati dall’aspettativa di un piacere, segnalata ad esempio dalla vista del cibo, dall’arrivo dell’ora del pasto, o semplicemente dalla noia. E quanto mangeremo dipende dal piacere che il cibo ci sta dando, oltre che dalla fame rimasta. La quantità di calorie che ingeriamo è dunque controllata prima di tutto dal gusto. Tutte le altre considerazioni – costo, praticità, salute – vengono dopo. Il piacere della tavola è insomma lo stratagemma inventato dalla natura per guidare le nostre scelte a tavola, esattamente come il piacere del sesso si è evoluto per spingerci a mettere al mondo dei figli. Nessuno dei due è un obbligo, ma nessuno dei due si può ignorare facilmente. I SENSI DEL GUSTO Marina Abramovic 38_39 Come in molte delle sue celebri performance, in The Onion Marina Abramovi lavora sui limiti della propria resistenza corporea, traducendo una situazione di disagio in un’immagine di disgusto nella quale tutti i sensi appaiono stimolati e sovraeccitati. Il video è la documentazione di un’azione che vede l’artista serba addentare una cipolla cruda e cominciare a masticarla, in modo sempre più convulso. Mentre divora la cipolla a grandi morsi, la sua voce fuori campo racconta della stanchezza nell’affrontare momenti particolari della sua vita di artista-star e della sua vita privata. L’insofferenza nei confronti di particolari situazioni della propria esistenza si lega visivamente all’agitazione sempre più grande che segna il suo volto mentre continua ad addentare la cipolla, che la fa lacrimare copiosamente. Il cibo diventa qui l’immagine di una condizione emotiva che si traduce in un senso di repulsione, provocato dalla cipolla e dall’odore e sapore che la caratterizzano. Marina Abramović (Belgrado, 1946; vive a New York) è tra le protagoniste indiscusse della Performance Art. A partire dagli anni Settanta lavora con il suo corpo e le sue emozioni, esplorando la complessa relazione tra artista e pubblico. In occasione della sua grande mostra al MOMA di New York nel 2010, il film-documentario dal titolo The Artist is Present ne ha ripercorso la lunga carriera. Marina Abramovic The onion, 1995 Performance per video, 10’ UTA Dallas © Marina Abramovic Courtesy l’artista e Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli Sophie Calle 40_41 Le régime chromatique (la dieta cromatica) dell’artista francese Sophie Calle racconta il ruolo della componente estetica nel processo di scelta dei cibi, in grado di attirare non solo per il loro odore o sapore ma anche per il loro colore o forma. Il lavoro di Calle nasce da una richiesta che l’artista fa allo scrittore Paul Auster, al quale chiede di inventare un personaggio da poter “interpretare”. Il personaggio ideato da Auster è Maria, protagonista del racconto Leviathan (1992), la cui regola è quella di mangiare ogni giorno cibi dello stesso colore. Ispirandosi a tale peculiare disciplina, Sophie Calle compone sei fotografie di pasti monocromatici – abbinati a piatti e posate dello stesso colore – che corrispondono a giorni diversi della settimana. Alle fotografie dei singoli pasti, accompagnate dall’indicazione dei cibi che li compongono, seguono gli scatti finali che mescolano cibi e colori, in una vivace e al tempo stesso rigorosa composizione formale e cromatica. Tutta la ricerca di Sophie Calle (Parigi, 1953), a partire dalla fine degli anni Settanta, si caratterizza per la dimensione autobiografica e intimistica dei suoi lavori, attraverso i quali l’artista si espone al pubblico. Avvalendosi di strumenti diversi quali video, fotografia, installazioni, Calle rende accessibile il proprio vissuto e le proprie suggestioni in modo spesso ironico e provocatorio. Sophie Calle Le régime chromatique, 1997 [dettaglio] 7 fotografie, testi, menu, mensola 30 x 30 cm (6 foto) + 49 x 73,5 cm (1 foto) Courtesy l’artista e Galerie Perrotin Ernesto Neto 42_43 Tratto distintivo delle sculture e installazioni del brasiliano Ernesto Neto è la volontà di stimolare i sensi del pubblico e in particolare l’olfatto, utilizzando spezie diverse che invadono tutto l’ambiente con i loro profumi. While Nothing happens è una grande struttura sospesa che evoca una forma organica, composta da sacche di lycra riempite da spezie di vari colori quali cumino, zenzero, curcuma e chiodi di garofano in polvere, i cui aromi rievocano i sapori esotici delle cucine di ogni parte del mondo. Morbide e sensuali, le appendici di questo grande organismo richiamano forme stalagmitiche invitando lo spettatore a un’esperienza non solo olfattiva, ma anche tattile. “La scultura non ha il solo scopo di rappresentare un corpo. Esiste come un corpo. Ma è anche una struttura, un luogo di riflessione, dove le persone si incontrano e ognuno dà la propria interpretazione”, afferma l’artista. Creando i presupposti per un’esperienza multisensoriale, Neto mostra come proprio i sensi siano il primo strumento per la conoscenza della realtà che ci circonda. A partire dagli anni Novanta Ernesto Neto (Rio de Janeiro, 1964) utilizza calze di nylon e altri materiali flessibili e d’uso quotidiano, per poi passare a tubi di maglia fina e translucida riempiti di spezie provenienti da ogni parte del mondo. I suoi lavori nascono in dialogo con lo spazio e con un intento interattivo, stimolando lo spettatore a un contatto diretto con l’opera. Ernesto Neto While Nothing Happens, 2008 lycra, legno, spezie Installazione al MACRO – Museo d’Arte Contemporanea di Roma, 2011 Foto Altrospazio Collezione privata. Courtesy l’artista I SENSI del gusto exhibit 44_45 Ogni volta che mettiamo in bocca qualcosa, mettiamo potenzialmente a rischio la nostra salute, e forse la nostra stessa sopravvivenza. Oggi si tratta di un rischio remoto, ma in passato, nel corso della nostra evoluzione, questo pericolo ha plasmato le nostre preferenze alimentari. Per questo, quasi tutti sensi sono chiamati a raccogliere, in un istante, ogni possibile indizio. La vista ci aiuta innanzitutto a identificare che cosa stiamo per mangiare. Poi, con il primo boccone, controlliamo la temperatura. Magari sentiamo anche se fa un rumore particolare. Il primo vero esame per capire che cosa c’è dentro lo fa però il naso. L’80 o 90% di quello che siamo abituati a chiamare “gusto” è in realtà olfatto, che è stimolato dalle molecole dell’alimento che si sprigionano nell’aria e capace di distinguerne un numero quasi infinito, anche se in concentrazioni di poche parti per milione. Dal tatto dipendono il piccante, il solletico delle bollicine, il fresco del mentolo, l’astringente della frutta acerba o dei vini secchi, la sensazione di croccante di una patatina, la cremosità di una salsa o il viscido di un’ostrica. Tocca infine al sistema gustativo – cioè al “gusto” vero e proprio – segnalare al cervello le molecole più pesanti, oppure disciolte nell’acqua o nei grassi. Le circa 3000 papille gustative distribuite sulla lingua e nella bocca sono in grado di percepire appena sei gusti fondamentali – dolce, salato, amaro, aspro, umami, e forse anche grasso – ma il giudizio sul valore nutritivo dipende soprattutto da loro. Il gusto dolce piace a tutti. Segnala infatti la presenza di carboidrati, o zuccheri, che sono molecole ricche di energia: 4 chilocalorie al grammo. Anche il grasso, probabilmente anch’esso un gusto fondamentale, ci piace perché è più ancora più ricco di energia: 9 chilocalorie per grammo. Il gusto salato segnala invece la presenza di sodio, un elemento indispensabile per mantenere l’equilibrio dei fluidi nel nostro organismo. L’umami, da una parola giapponese che vuol dire “brodoso”, o “carnoso”, è un gusto dovuto alla presenza di glutammato, molto comune nella cucina asiatica ma di cui sono ricchi anche salsa di soia, formaggi, molluschi e pomodori. Il glutammato non è un nutriente essenziale, ma segnala all’organismo la presenza di proteine, sia animali che vegetali. Tendiamo invece a evitare i cibi dal sapore amaro, almeno inizialmente. Il nostro primo istinto di disgusto di fronte ai cavoli di Bruxelles, alla cicoria o ai broccoli si è evoluto come difesa dalle tossine presenti in moltissime piante. Istintivamente, tendiamo anche a evitare il sapore aspro, che domina ad esempio nel limone o nell’aceto ed è prodotto dall’acidità, che spesso segnala i cibi andati a male. In un istante, il cervello integra le informazioni provenienti da vista, tatto, olfatto e gusto in un’unica sensazione. Per questo noi non “vediamo” – per così dire – i nutrienti, ma solo delle sensazioni. zuccheri grassi glutammato Na aspro umami amaro BUONO DA PENSARE Anri Sala 48_49 I cibi sono spesso legati a una precisa storia personale e culturale, e per questo in grado di evocare la memoria di fasi passate della vita insieme a quella delle proprie origini geografiche. Nella sua videoinstallazione Byrek, Anri Sala – artista albanese che vive in Germania – racconta la preparazione di un piatto tipico diffuso in tutti i Paesi Balcanici, fino alla Turchia, consistente in una sorta di torta salata con sfoglia molto sottile ripiena di vari ingredienti. L’installazione è composta da una videoproiezione che mostra le braccia di una donna che prepara il byrek a partire dalla ricetta scritta dalla nonna dell’artista in una lettera a lui inviata, che è stampata direttamente sullo schermo di proiezione. La ritualità dei gesti evoca memoria storica e valore culturale-identitario del cibo, che si lega a una specifica tradizione popolare. Un testo di Sala è proiettato su una parete accanto e descrive le sensazioni e i ricordi personali dell’artista nel pensare questo piatto della sua terra. La preparazione del byrek diviene elemento di immaginazione, fantasia di appartenenza, motivo per una riflessione sulle proprie origini, cui si rimane inevitabilmente attaccati anche quando ormai si è emigrati in un altro paese. Anri Sala (Tirana, 1974; vive a Berlino) affronta nelle sue opere riflessioni legate al concetto di luogo e identità, spesso utilizzando la musica per sovvertire e confondere la percezione del pubblico. Nel 2013 ha rappresentato la Francia alla Biennale di Venezia. Anri Sala Byrek, 2000 Videoproiezione su carta stampata + proiezione slide, colore, sonoro 21’43” Courtesy Galerie Chantal Crousel, Parigi; Johnen Galerie, Berlino; Galerie Rüdiger Schöttle, Monaco Boaz Arad 50_51 Nel video Gefilte Fish, l’artista israeliano Boaz Arad intervista sua madre mentre cucina il piatto caratteristico degli ebrei ashkenaziti. L’inquadratura è sulle mani della donna, che sapientemente tagliano, sfilettano, infornano, ma il volto non appare mai. L’artista sceglie questo momento per farle domande sulle sue radici e la sua identità, affrontando in particolare il rapporto tra gli ebrei Ashkenazi (provenienti da Germania ed Europa dell’Est) e gli ebrei Mizrachi (da Nord Africa e Medioriente). La preparazione di un piatto tipico diviene dunque il pretesto per una riflessione sul multiculturalismo di Israele e sulla necessità di preservare tradizioni in via di estinzione. Ad alcune domande Arad risponde in prima persona sincronizzando il proprio labiale sulla voce della madre, ottenendo un’immagine grottesca che è rimarcata dalla presenza di alcune scene in cui compare un pappagallo sulla spalla dell’artista o il volto stesso di Arad è trasformato in un inquietante pupazzo meccanico. I lavori di Boaz Arad (Israele, 1956) riflettono sui concetti di memoria e identità e sono pervasi da una sottile vena ironica che aiuta lo spettatore a elaborare la drammaticità dei temi trattati. In Gefilte Fish l’artista racconta di aver guardato ad Alfred Hitchcock, in particolare a Psycho per la falsificazione della voce materna e a Gli uccelli per la presenza fastidiosa del pappagallo. Boaz Arad Gefilte Fish, 2005 Video a colori, sonoro, 11’ Courtesy l’artista Gabriella Ciancimino 52_53 If Iu Fil Homsik, Tink in Dailect! è un progetto iniziato da Gabriella Ciancimino nel 2008 e sviluppato con media differenti, tra cui video, fotografia e organizzazione di workshop di cucina in spazi d’arte. A partire da una riflessione sul senso di nomadismo e sul sentimento di nostalgia della propria terra, l’artista lavora sull’identità geografica e culturale scegliendo proprio il cibo e la cucina come possibili elementi aggreganti. Nel video Ritratto in nero di seppia, ambientato in un interno domestico palermitano, una mamma spiega ai due figli come preparare le seppie murate, tipico piatto siciliano. L’illustrazione della ricetta – che segue il format di ben noti programmi televisivi – è accompagnata dai ragazzi che fanno Beat Box, trasformando in musica i suoni che la madre produce cucinando. Il confronto generazionale diventa anche culturale laddove le fasi di preparazione di un piatto tradizionale sono accompagnate da una pratica nata nell’ambito dell’Hip Hop americano. Il breve racconto si risolve in un incontro, con i quattro membri della famiglia (padre incluso) che intonano insieme una canzone di influenza Gospel. Tra arte, musica e performance la ricerca di Gabriella Ciancimino (Palermo, 1978) si focalizza sul concetto di relazione. I suoi lavori raccontano brani di realtà con l’intento di offrirne una visione personale ma anche di stimolarne una percezione collettiva, prediligendo un approccio basato sulla condivisione e sullo scambio con il pubblico. Gabriella Ciancimino If iu fil homsik, tink in dailect: Ritratto in nero di seppia, 2010 Video DVD SD PAL 16:9, colore/stereo, 6’ 10’’ Courtesy l’artista Sharmila Samant 54_55 Loca-Cola dell’artista indiana Sharmila Samant affronta il tema del rapporto tra locale e globale in relazione al gusto. Dopo aver raccolto bottiglie di vetro della Coca-Cola da tutti i paesi del mondo dove la multinazionale americana possiede impianti di imbottigliamento, l’artista le riempie con bibite prodotte localmente nei rispettivi paesi, sigillandole con metodo casalingo ed etichettandole con il nome della bevanda locale che contengono e quello dell’imbottigliatore - ovvero il suo. Colloca poi le bottiglie in un hath gadi, un carretto a mano di fabbricazione artigianale che si può facilmente vedere in India nei luoghi pubblici e in particolare negli spazi ricreativi. Il lavoro nasce dalla riflessione su come la Coca-Cola sia la bevanda globale per eccellenza ma in realtà il suo sapore cambi leggermente da paese a paese, adattandosi ai gusti locali in funzione di precise strategie di marketing, tese a conquistare un numero sempre crescente di consumatori. Soffocando i gusti locali, la Coca-Cola strangola i piccoli produttori locali di bibite fatte in casa, le stesse cui l’artista restituisce visibilità imbottigliandole al posto della celebre bevanda americana. Nelle sue installazioni e video Sharmila Samant (Mumbai, 1967) si confronta con la questione dell’identità all’interno del contesto globale, guardando all’effetto omogeneizzante che ha investito le economie in via di sviluppo. È tra i fondatori del collettivo Open Circle con sede a Mumbai. Sharmila Samant Golawalla, Andheri, 2000 Courtesy l’artista Sharmila Samant Loca-Cola, 2000-2003 [dettaglio] Collezione Lekha e Anupam Poddar Installazione alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino 2006. Foto Davide Bozzalla buono da pensare exhibit 56_57 Nel mondo esistono centinaia di culture alimentari diverse, in cui si mangia ogni tipo di piante e di animali. Spesso, quello che delizia in un paese disgusta in un altro. Le scelte a tavola non possono quindi dipendere solo dalle preferenze istintive, che sono poche e molto simili in ciascuno di noi. Tutte le altre, infatti, le dobbiamo imparare. E la cosa migliore è vedere che cosa mangiano gli altri. Già il feto comincia a riconoscere il sapore dei cibi che la mamma ha mangiato, e dopo la nascita li troverà più buoni. La logica è semplice: se lei le ha mangiate senza danni, vuol dire che sono sicure. Ma è un meccanismo fondamentale che funziona a tutte le età, e permette ad esempio di imparare ad apprezzare anche i cibi che non sono dolci né grassi, o che sono addirittura amari o aspri. Anche l’esperienza personale è importante. Se in un momento di stanchezza e di vera fame, la cioccolata ci ha fatto bene, anche in seguito la troveremo più buona. Lo stesso meccanismo rinforza la preferenza per quegli alimenti che sono più disponibili e si sono dimostrati più nutrienti, ad esempio per il grano in Europa, il riso in Asia, il mais in Sudamerica, o gli insetti, un’ottima fonte di proteine animali, che quasi due miliardi di persone nel mondo trovano buonissimi. O addirittura la carne umana: il cannibalismo era diffuso in molte culture delle Americhe e del Pacifico in cui mancavano buone fonti di cibo animale. Per lo stesso motivo si possono sviluppare anche delle avversioni. Il tabù indiano della vacca sacra, ad esempio, ebbe origine oltre 2000 anni fa, quando la popolazione diventò troppo numerosa per potersi permettere di dedicare terra al pascolo. Meglio coltivarla, e conservare le vacche per il latte, per trainare l’aratro, per fertilizzare i campi. Alcune avversioni, come quella dei vegetariani per la carne, possono persino nascere da una scelta consapevole. Nella maggior parte dei casi, però, le preferenze dipendono da condizionamenti di cui non siamo consapevoli. Basti pensare alla pubblicità, che fa leva proprio sulla nostra abitudine di basarci su quello che fanno gli altri, soprattutto se li ammiriamo per qualche motivo. O su quel meccanismo psicologico che ci fa scegliere un cibo nuovo se è associato a un contesto o a un’esperienza positivi (il compleanno, la notte di Natale, un bel viaggio) o semplicemente a qualcosa che ci piace già. In realtà, questo meccanismo guida anche l’evoluzione delle culture alimentari tradizionali. Ognuna ha infatti dei sapori caratteristici, dovuti a condimenti con una particolare combinazione di ingredienti. Quando un alimento non è più disponibile, il modo migliore per accettarne uno nuovo è associarlo a un condimento già noto. I sapori infatti rendono caratteristica una cucina tradizionale, ma rappresentano anche una cultura. Per questo il cibo della tradizione ci dice chi siamo e a quale comunità apparteniamo, e produce un’emozione molto più importante di quanto immaginiamo. I SEGRETI DEI CIBI SPAZZATURA Jørgen Leth 60_61 Inclusa nelle 66 scene dall’America che danno il titolo al lungometraggio girato da Jørgen Leth nel 1981, Andy Warhol Eating an Hamburger vede il protagonista della Pop Art americana mangiare un hamburger in rigoroso silenzio per circa 4 minuti. Terminata l’azione, l’artista dichiara: “My name is Andy Warhol and I just finished eating a hamburger”. Giocato sull’idea dei 15 minuti di celebrità di cui proprio Warhol si era fatto portavoce ed emblema, il breve girato mette al centro l’idea di icona: icona è l’artista stesso ma anche il cibo che mangia, un hamburger condito con ketchup, dal cui packaging si riconosce la provenienza (Burger King). Simbolo dell’identità americana popolare, l’hamburger nella sua confezione industriale diviene immediata espressione della società dei consumi che proprio Warhol aveva perfettamente raccontato nelle sue opere pop a partire dagli anni Sessanta. Jørgen Leth (Århus, 1937) è un poeta e regista danese. Nel 1981 dirige 66 scenes from America, un film che cuce insieme una serie di lunghe inquadrature, ognuna concepita come cartolina visiva di un immaginario viaggio attraverso l’America. Tra i suoi film più famosi vi sono The Perfect Human (1967) e Le cinque variazioni (2003) realizzato con Lars von Trier. Jørgen Leth e Ole John Burger New York, 1982 Una sequenza da 66 scenes from America Produzione Ole John Courtesy Ole John Film, Copenhagen Martin Parr 62_63 Nelle immagini dedicate al junk food, il fotografo inglese Martin Parr documenta con scatti dai colori saturi gli eccessi dell’alimentazione basata su prodotti dei fast-food. Accattivanti nei colori, nella forma e nel gusto, ma assolutamente scadenti dal punto di vista nutritivo, tali cibi diventano l’emblema della poca attenzione riservata a un’alimentazione giusta ed equilibrata a favore del raggiungimento veloce di sazietà a basso costo. Catturando situazioni diverse e persone molto distanti tra loro, per cultura, provenienza o estrazione sociale, l’artista racconta la diffusione che tali prodotti hanno raggiunto, a livello globale così come in tutte le fasce sociali. Il progetto fotografico di Martin Parr dedicato ai cibi spazzatura si inserisce perfettamente all’interno della sua ricerca, volta a mettere in risalto gli aspetti contradditori, talvolta grotteschi, della realtà che viviamo. Tempo libero, consumo e comunicazione sono parole chiave all’interno del suo lavoro, che reinterpreta con ironia aspetti della società moderna criticandola dall’interno. Martin Parr (Epsom, 1952) è un fotoreporter britannico. Dopo gli inizi in bianco e nero, dalla metà degli anni Ottanta passa al colore, sempre molto saturo, che diviene distintivo del suo lavoro. Dal 1994 è tra i fotografi dell’agenzia Magnum Photos. Martin Parr Common sense (England. New British. Ramsgate), 1996 © Martin Parr / Magnum Photos. Courtesy l’artista e Studio Trisorio, Napoli Martin Parr USA. Atlanta. The Georgia State Fair. Fast food, 2010 © Martin Parr / Magnum Photos Courtesy l’artista e Studio Trisorio, Napoli i segreti del cibo spazzatura exhibit 64_65 Per quasi tutta la storia umana, e per quasi tutti, il cibo è stato scarso e difficile da procurare. La carne era un lusso raro, e i sapori dolci erano ancora più rari: praticamente, c’era solo il miele. Non erano rare invece le carestie. Ma i tempi sono cambiati. Il cibo è diventato abbondante ed economico, e anche la vita è molto meno dura di una volta, e abbiamo così bisogno di molte meno calorie. I meccanismi biologici del gusto, però, sono rimasti gli stessi e ci spingono ancora a cercare quei sapori che per tanto tempo hanno assicurato la nostra sopravvivenza. Il risultato è che, nel mondo, gli adulti sovrappeso oppure obesi sono un miliardo e seicento milioni: il doppio di quelli che soffrono la fame. Ma la colpa è anche di chi produce il cosiddetto “cibo-spazzatura”, che oltre al fast food comprende moltissimi alimenti confezionati. Si tratta di cibo studiato perché sia capace di “super-stimolare” l’appetito, e sopraffare i sistemi che normalmente controllano l’assunzione di cibo. Il trucco consiste nel proporre la giusta combinazione di quei nutrienti che l’evoluzione ci ha programmati per ricercare: zuccheri, grassi e sale. Dalla lingua e dal palato, i segnali giungono al nucleus accumbens, l’area del cervello dove ha sede il centro del piacere dell’organismo, che libera così endorfine, sostanze simili alla morfina o all’eroina che generano sensazioni di gratificazione e benessere e ci calmano, alleviando anche tensione e do- lore. Le endorfine interferiscono anche con la cosiddetta “sazietà gusto-specifica”, quella che dopo un po’ ci fa stancare di un alimento, e ci spingono quindi a continuare a mangiare. Ma non è solo colpa di grassi, zucchero e sale. Anche la multisensorialità – combinazioni di speziato e salato, speziato e dolce, dolce e salato, dolce e aspro, croccante fuori e cremoso dentro di cui questi sono pieni – stimola l’appetito. Gli “shock” di piacere provocati dalla super-stimolazione del gusto attivano anche la produzione di dopamina, che concentra infatti la nostra attenzione sulla ricerca di questo piacere e ci spinge a fare di tutto per provarlo di nuovo. I meccanismi cerebrali in gioco attivati dai cibi-spazzatura sono gli stessi che vengono attivati dall’uso delle droghe. Col tempo, poi, il consumo di cibi-spazzatura diventa un’abitudine. Quando riceviamo i segnali giusti – il sapore, il luogo, l’occasione, l’ora del giorno associati a un prodotto – si attiva la catena dei comportamenti, che col tempo diventa sempre più automatica e sempre meno consapevole. Quindi, meno controllabile. Per fortuna non tutti sono altrettanto vulnerabili, perché la tendenza a ingrassare ha un’importante componente genetica. Ma è un problema in rapidissima crescita. Nel mondo, la proporzione di persone sovrappeso e obese è raddoppiata rispetto al 1980, e potrebbe raddoppiare ancora entro il 2030. EXHIBIT 1.600.000.000 La ricostruzione del gusto Christian Jankowski 68_69 Dandosi la regola di mangiare per una settimana solo ciò che è in grado di cacciare con arco e freccia, nel video Die Jagd [la caccia] l’artista tedesco Christian Jankowski si fa riprendere da un amico mentre spara frecce ai generi alimentari in un supermercato, per poi depositare il risultato della caccia (con tanto di frecce ancora infilzate) sul nastro della cassiera. Ironica e divertente, l’operazione dell’artista mette in relazione l’azione più immediata, quasi primordiale, di procacciarsi il cibo, con la ricchezza e la facilità di accesso ad ogni tipo di alimento che caratterizza invece l’epoca contemporanea e che per questo andrebbe gestita in modo più consapevole. Muovendosi attraverso media differenti, tra cui fotografia, video e installazione, Christian Jankowski (Göttingen, 1968; vive a Berlino) rielabora nei suoi lavori suggestioni provenienti dai mass-media, talvolta riproducendone i meccanismi, come nella videoinstallazione Telemistica presentata alla Biennale di Venezia nel 1999 o The Holy Artwork (2001), realizzato in collaborazione con una rete televangelica. Christian Jankowski Die Jagd, 1992 Video, colore, sonoro, 1’11’’ Courtesy Galerie Klosterfelde, Berlino Hannah Collins 70_71 The Fragile Feast è il frutto della collaborazione tra l’artista Hannah Collins e Ferran Adrià, chef pluristellato riconosciuto a livello internazionale e icona del ristorante El Bulli di Barcellona. A partire dalla dedizione di Adrià nell’approvvigionamento dei propri ingredienti, Hannah Collins sviluppa un progetto fotografico che documenta il percorso che porta tali ingredienti nella cucina del grande chef. Le sue fotografie sono quindi il risultato di un viaggio attraverso diversi paesi (Italia, Grecia, Spagna, Giappone, Sud America) e documentano non solo le materie prime ma i luoghi cui esse sono legate, facendosi uno spaccato della cucina locale ma anche di un insieme di memorie, tradizioni, esperienze che rendono ognuno di questi ingredienti un elemento unico, come le rose e gli anemoni di mare qui in mostra utilizzati per la ricetta che li vede associati a cervello di coniglio, aneto e ostriche. Le fotografie di Hannah Collins sono raccolte in un libro che documenta origine e storia di 30 ingredienti identificati con Ferran Adrià. Artista e filmmaker, Hannah Collins (Londra, 1956; vive tra Londra e Barcellona) lavora sulla memoria e la storia come esperienze collettive, lasciando emergere in ogni suo progetto gli aspetti più poetici della realtà che racconta. Hanna Collins The Fragile Feast, 2011 [Anemones. Cadiz, Spain] Collezione Deutsche Bank e Fundacion Banco Sabadell Courtesy l’artista Marilyn Minter 72_73 L’artista americana Marilyn Minter lavora con trasgressione e ironia, spesso rifacendosi ad un immaginario onirico, quasi surreale, colorato da cromie acide e sgargianti. Il video Green Pink Caviar, già esposto al MOMA di New York e scelto da Madonna per accompagnare il suo Sticky & Sweet European Tour del 2009, mostra una bocca che in modo sensuale lecca e mangia gelatine colorate e altri ingredienti utilizzati per la decorazione di torte. La lingua si trasforma in una sorta di pennello che, sulla superficie di vetro in primo piano, crea immagini astratte, utilizzando come materia prima elementi commestibili e attraenti per forme e colori. La centralità attribuita alla bocca diviene immagine del desiderio, espressione di un gusto che non si ferma all’atto di mangiare ma si estende a tutte le altre diverse forme con cui il piacere può manifestarsi. Pittrice, scultrice e fotografa, Marilyn Minter (Shreveport, 1948; vive a New York) lascia incontrare nelle sue opere la cultura pop con la sessualità, più o meno esplicita, muovendosi continuamente sul confine tra arte “alta” e arte commerciale per creare immagini accattivanti e di forte impatto visivo. Marilyn Minter Green Pink Caviar, 2009 Video digitale HD su DVD, 7’ 45’’ Courtesy l’artista e Salon 94, New York la ricostruzione del gusto exhibit 74_75 Mangiare bene è molto semplice: molta frutta e verdura; un po’ meno di pasta, riso, pane o patate; ancora meno di carne, uova o pesce; pochi fra derivati del latte e condimenti; pochissimi dolci. Ma in un mondo così pieno di cibi gustosi che ci chiamano da ogni parte, mangiare bene può essere molto difficile. Come ne usciamo? 1) Possiamo benissimo mangiare di più, oppure cibi più gustosi, se poi consumiamo le calorie in più facendo esercizio fisico. Ma ne dovremmo fare veramente tanto: per consumare le oltre 400 calorie contenute in 100 grammi di biscotti confezionati, ad esempio, una persona del peso di 70 chili deve correre per quasi sette chilometri. 2) Possiamo seguire l’istinto ma mangiare prodotti tipici di grande qualità: pagare di più, e mangiare di meno. Peccato che sia una soluzione da weekend gastronomico, o poco più, perché pochi si possono permettere, o sono disposti a spendere tanto di più, tutti i giorni. 3) Possiamo tornare a mangiare come una volta: meno cibi pronti e più cibi fatti in casa, dagli ingredienti quasi certamente più sani. Ma chi ha più tempo per cucinare? 4) Possiamo chiedere all’industria di proporre cibi con meno grassi e zuccheri e più nutrienti utili, o in porzioni più piccole. Ma l’industria alimentare ha un ovvio interesse a indurci a mangiare sempre di più, e bisognerebbe imporlo per legge. 5) Possiamo cercare di migliorare i cibi industria- li mantenendoli appetibili, ingannando in qualche modo il cervello. Se le sensazioni che il cibo ci regala sono il risultato di una complessa integrazione di gusto, odore, tatto, udito, e persino dolore, potremmo ad esempio aumentare l’odore per compensare la riduzione di grassi e zuccheri. Ma affideremmo a poche aziende high-tech la nostra alimentazione, che è una parte così cruciale della nostra cultura e della nostra stessa identità? 6) Possiamo anche sganciare del tutto il gusto dalla nutrizione, portando la manipolazione degli alimenti a conseguenze estreme, come fanno i grandi chef della cucina molecolare. Ma è realistico pensare di “rifondare” da zero la nostra alimentazione? 7) Possiamo “educare” (o rieducare) il gusto ad apprezzare sapori meno banali, quindi anche cibi più sani: moltissime persone infatti mangiano bene. Il gusto per il cibo si può infatti affinare, come quello per l’arte o la musica. Ma questa è una questione di cultura, e la cultura è una cosa lenta e difficile da cambiare. I problemi complessi non hanno mai risposte semplici, e il problema della nostra alimentazione lo è senz’altro. In ciascuna di queste risposte c’è probabilmente un pezzo di soluzione, e ciascuno di noi deve trovare i pezzi giusti per il proprio caso personale. Ma dovremmo anche riuscire a compiere un piccolo miracolo: pensarci e non pensarci allo stesso tempo. Altrimenti rischiamo di rovinare questo grandissimo piacere della vita. Perché anche il gusto, come l’amore, non vuole pensieri. ENGLISH VERSION Feeding the brain, feeding the planet Marino Golinelli 78_79 This short introduction takes its cue from the phrase The mouth is a window open to the brain, which is the title of the contribution to this catalogue by Giovanni Carrada, curator of the exhibition. The show, in fact, is about taste and nutrition, viewed not just in themselves, but also as a microcosm that is familiar and accessible to us all of a larger theme. At the center of every initiative of the Foundation is an effort to cultivate the capacity to think about ourselves, our lives as self aware persons who are open to the stimuli and the complexity that come from a global world. While the mouth seen in the exhibition logo is the symbol of our relationship with food, it is the brain that orients us so that nourishment can be integrated in a more general way with the nature of man and the future of the individual in a particular cultural, social and economic context. It is the brain, mediating between instinctive motivations and comprehension of situations nature could not have foreseen, that can identify and choose a correct relationship with food and thus a better health and a long, happy existence. Likewise, also in every other field, it is always the brain that orients us and can allow us to live a free life, to be happy, to participate in the life of society in a responsible way. The brain, however, needs to be “nourished” with the right knowledge and stimuli, which come from science, art, and every other sphere of culture. Making this knowledge and these stimuli available to all, and above all to young people, is the mission of Fondazione Marino Golinelli. Gola: Art and Science of Taste is the fifth exhibition produced by the Foundation, after Anthroposphere, Happy Tech, From 0 to 100 and Fuels, and it is one of the many initiatives the Foundation has undertaken to help the citizens of tomorrow contribute to the cultural growth of society. All are based on the slogan the Foundation has made its own: “culture feeds the planet.” Keeping faith with the past, but always looking to the future. GOLA. Arte e scienza del gusto Antonio Danieli 80_81 “GOLA. Art and Science of Taste” represents the fifth step in the multi-year project on “art and science” launched as an experiment by Fondazione Marino Golinelli (FMG) in 2010. The project is part of a wider-ranging program of educational and cultural initiatives that FMG, in keeping with its stated objectives, offers to the society as a whole, and in particular to the young people who represent our future. FMG, in fact, sets out primarily to supply young people with the intellectual tools required for their responsible cultural growth in a global world, as can be seen immediately by perusing the titles of the previous exhibitions: 2010 - Anthroposphere. New Forms of Life, 2011 – Happy Tech. Machines with a Human Face, 2012 – From ZERO to ONE HUNDRED. The New Ages of Life, 2013 – Benzine. The Energies of Your Mind. Why has the Foundation decided to produce exhibitions on art and science? Because younger citizens – and, more in general, all the participants in a cohesive, democratic social context – need to learn to ask the right questions, prior to seeking answers. The exhibitions offer a precise method to enter into this perspective. Just what is this method? Fondazione Marino Golinelli is forcefully convinced that literature, the arts and sciences like mathematics, physics, chemistry and biology, but also architecture, medicine, economics, sociology and jurisprudence – and so on – are all languages, and thus instruments of communication and interpretation available to human beings to describe and know the reality that surrounds them, and to proactively determine their own life paths, contextualizing them in history. We cannot confirm that events really happen exactly as each of us perceives them. Statistical experience and empirical learning grant us sufficient confidence and satisfaction to make us believe we always know how to move through the world. But in “reality” all the models of thought and behavior we apply represent a laborious, obligatory approach to a truth about which we cannot have any absolute certainty, because one absolute truth for all does not exist, and because the truth of each of us is in a continuous state of becoming. None of us, then, even if we are apparently content with our habits and beliefs, possesses an absolute truth: our search for truth can never bring us answers that can be defined as absolute, as unquestionable in the future. In this sense, perhaps only the arts can constitute the “paths of pursuit of truth” most suitable for humankind: art that is not schematic, yet uses schemes and research to grasp the mad and for us inseparable absoluteness of our spirit. Art can “open the cages” of our shared comprehension and lift us to higher states of consciousness and knowledge. This is even more true when it comes to the minds of young people, which are the most fervid, poised for creativity, passion and research, because they have still not been imprisoned by social and behavioral superstructures. So this is the answer to our initial question: to put it briefly, we can say that the method taught by the exhibitions of art and science of Fondazione Marino Golinelli is that of “learning to be free to learn” throughout one’s lifetime. Tasting as a Multisensory Experience Barry C. Smith When you taste food you think that we are getting all the information about the dish’s flavor from our tongues, but this is not the case. What we call tasting always involves a combination of touch, taste and smell: the feel and temperature of the food in the mouth, the aromas reaching the nose, these too contribute to the perception of flavor. And even before you engage touch, taste and smell, you will often select what you want to eat with our eyes, assessing it by how it looks. At the same time, there may be sounds of a wine being poured and as you eat you will hear the crunch of raw vegetables or salad leaves. In all these ways, your sense are activated when you eat or drink; and way the brain integrates the information from these different sensory inputs ensures that the experience of tasting is always multisensory. To understand just how multisensory the experience of eating and drinking is, it’s important to recognize how little the tongue contributes to tasting. Receptors on the tongue code for the basic tastes of sweet, sour, salty, bitter, to which we can add umami (or savouriness) and metallic. Perhaps we have receptors for fat, or at least fatty acids. But this is all. Yet think of all the flavours described by philosopher of aesthetics, Frank Sibley: ‘ripe mangoes, fresh figs, lemon, canteloupe melon, raspberries, coconut, green olives, ripe persimmon, onion, caraway, parsnip, peppermint, aniseed, cinnamon, fresh salmon’ . We don’t have receptors for these items. There are no chicken, beef, or tomato receptors, and so our ability to taste these flavours depends on more than taste alone. Notice, too, that we cannot construct these flavours from the basic tastes: Coconut may be somewhat sweet, and lemon sour or acid, but what other tastes combine with sweetness to give coconut, or with sourness or acidity to give lemon? How could one construct a blend of distinguishable tastes…to yield that of coconut, or lemon, or mint? Try to imagine a recipe: ‘To make the flavour of onion (or pepper, or raspberries, or olives), add the following [basic tastes] in the following proportions . . . ’ (Sibley 216-7)1 There is no such procedure, and yet we can all perceive the flavours Sibley describes. This is because of the role smell plays in creating the experience of flavor. Not smell as we ordinarily think of it, where the odours we inhale from food or wines reach the nose before eating or drinking. Instead, neurophysiologists have drawn our attention to a sense of smell that is activated when odours travel to the nose from the mouth when chewing and swallowing. This is known as retronasal olfaction and it is often experienced by the individual as a taste occurring in the mouth. To this we must add the contributions of touch that enables us to assess a food as creamy or oily, sticky or crunchy. And them there is the chemical irritation that spices contribute. It is this interaction between the senses of touch, taste and smell that creates our flavor experiences. And as the psychologist Martin Yeomans says: 1- Frank Sibley, Approaches to Aesthetics: Collected Papers on Philosophical Aesthetics, edited by J. Benson, B. Redfern, J. Roxbee cox, Oxford University Press 2006 Arguably, multi-sensory integration may be at its most extreme in the case of flavor perception since few other experiences offer the opportunity for concomitant stimulation of all the major senses .2 82_83 So, when tasting wines, we have to respond not just to taste sensations on our tongues, which provide information about salt, sweet, sour, bitter, savory, and metallic, but also to the way these tastes are integrated with fruity and floral aromas, the velvety, silky, or satin textures of a wine, the slight astringency of the tannins and the spiciness that excites the trigeminal nerve, causing pepper to feel cool in the mouth and mustard to feel hot. Think of what happens when you taste menthol. You experience a minty aroma, a slightly bitter taste and a cool sensation in the mouth. Take any one of these elements away and you no longer have the experience of menthol. Such combined flavor perceptions are multisensory, and multisensory perception is the rule and not the exception in sensory experience. The case of flavor perception provides on of the best examples. The brain has to integrate the relative contributions of taste, smell, texture, and trigeminal irritations to arrive at a unified perception of flavor. The result is a complex interaction effect that it takes effort to appreciate, since the components are often inseparable in our experience. What is more, tasting is not a single experience; it has a dynamic time course, and by slowing down, one can appreciate what is happening at each moment, from the sweetness of the attack as the wine enters the mouth, to the gentle notes of bitterness in the finish. How complex and satisfying a wine is will depend on sensory and temporal properties that can go unnoticed at first by novice tasters. It is unsurprising, perhaps, when so much is happening in the mouth and nose, that tasting judgments can diverge. But this doesn’t mean they are idiosyncratic or inexplicable, nor that they are subjective and independent of the flavors in the wine or a food. Differences may be due to the sensitivity of our tongues. Some people have more papillae, or taste buds, on the tongue making them super-tasters who are very sensitive to bitterness, or sourness. The taste buds of others may be very far apart and the will lead to much reduced sensitivity. People also have different sensitivities to odour compounds and to touch, and this may lead to large individual differences between taters’ experiences of the same foods. Nevertheless, tasting is an experience that puts a taster in touch with the sapid, odourous and textural properties of a food’s or wine’s tastes or flavors; properties that are there to be discovered, and while we need food science to study the molecular chemistry and physics of foods and liquids, we also need neuroscience and psychology to study the science of the taster. The study of taste and tasting is beginning to reveal fascinating insights into how our experiences of foods and wines are shaped not just by our physiology but also by background factors such as lighting and music as well as expectations set by sight and sound. It is these factors and their effects on multisensory perception that are studied by my colleagues at the Centre for the Study of the Senses, who work with chefs and artists to advance the science and create better tasting experiences. In one set of experiments, psychologist Charles Spence provided participants at Ferran Adrià’s laboratory with the same strawberry mousse served on black plates and white plates. What he found is that people found the dessert up to 10% sweeter when eaten off a white plate. This is just one way in which the plate on which a dish is served can contribute to how it tastes. In another set of experiments conducted in London, drinkers were given a glass of the Singleton whisky, and as they wandered from room to room, the whisky in the glass tasted different because of changes in the lighting, the colours of the walls, and the sounds they en- 2-Yeomans, M. Chambers, l., Blumenthal, H., Blake, A. (2008), ‘The role of expectancy in sensory and hedonic evaluation: the case of smoked salmon ice-cream’ in Food Quality and Preference, 19, pp. 565–573 countered. These effects can be used to re-create the special atmosphere that accompanies the eating of dish or drinking of a wine that made the whole experience so pleasurable. A perfect example is the signature dish, The Sound of the Sea, served at The Fat Duck restaurant in Bray. The dish is the creation of three Michelin star chef Heston Blumenthal working with Charles Spence to create the perfect sonic accompaniment to fresh seafood. Diners are presented with a plate of seafood on a sand-like bed of oatmeal with strips of seaweed, while at the same time being given a conch shell that contains an iPod and a set of earphones. Though the headphones, they listen to the sound of the sea, focusing their attention on the food and its origin, to enhance the experience of eating fresh fish. In another of Blumenthal’s creations he served diners with bacon and egg ice cream, and on the plate was a piece of crispy friend bread, which diners were asked to eat with the ice cream. What happens is that in the mouth, the flavor of the bacon appears to migrate to the fried bread leaving the egg flavor with the ice cream. This reflects the brain’s attempt to make sense of the appropriate match of flavors and textures, and provides clues about the complex mechanisms of multisensory perception. We are just beginning to unlock the secrets of taste and flavor by drawing on research from many disciplines, and it is by working together with practitioner chefs, artists, food and drinks manufacturers, that we will advance the science of tasting, and be able to create better tasting experiences for us all. The mouth is a window to the brain Giovanni Carrada 84_85 Choosing what to eat is an experience we repeat several times a day, from the very first day of our life. So it is normal that we no longer find it surprising. If someone asks us why we have chosen a particular dish or dessert, we reply “because I like it” and that seems to settle the issue. A gourmet, of course, might analyze that “like” and reach heights of sublime sophistication, but even this approach focuses mainly on an increasingly refined discrimination between flavors. Consider, for example, the vivid description of the taste of a great red wine by a sommelier. Instead, the question “why do you like precisely those flavors?” seems almost inadmissible. “Because they are good, that’s all,” we might respond. Usually we put an end to the discussion with the age-old formula de gustibus non est disputandum, and the seemingly obvious assertion that “there’s no accounting for tastes” justifies the refusal to dig any deeper. Nevertheless, it is clear that this is not really an answer. The fact of the matter is that the experience of choosing what to eat, which seems so simple and immediate, is actually – like all the important things in life – anything but simple. If we stop to think about it, how could such a choice fail to be important, when the thing being chosen is the most indispensable of all – after water – for our survival? “Just why do you like those flavors so much?” belongs to the category of questions to which evolutionary biology attempts to provide answers, or the branch of science that looks for the “remote” reasons behind the characteristics of living beings, the reasons why they have evolved in particular ways. For example, if men are particularly attracted to women with a low waist-to-hip ration, it is because that form is a reliable signal of a healthy, fertile woman. If we think about what distinguishes us from other animals, we immediately think of our large brain, and therefore of intelligence, the use of tools, spoken and symbolic language, the capacity to imagine, the fact that we wonder what happens after death, and so on. Instead, we do not consider the fact that we are the species capable of feeding on the largest number of things, and that it was above all this trait that permitted us to colonize any natural environment on the planet. Eating well is not easy. You have to choose foods that contain all the nutrients you require, and in the right proportions. You have to know the right quantities, while avoiding foods that can be harmful, which include most of the plants that exist on earth. All animals have the same problem, but all of them – with the exception of human beings and, to a lesser extent, other omnivores like rats and macaques – restrict their diet to just a few things, always the same, or even just one food. During the course of our long evolutionary history the choice of what to ingest could not depend on in-depth knowledge of the exact composition of all potential foods – from insect larvae to whales, and the millions of plant species – nor could we analyze the complex nutritional requirements of our organism. The brilliant solution developed by evolution was to “hide” – so to speak – a very sophisticated nutritional assessment based on both instinctive and cultural factors behind a sense of pleasure, an emotion, something that would prompt us to make choices. Behind the apparent simplicity of the judgment of the moment – I like it, I don’t like it – lurks a phenomenon of extraordinary complexity, which physiologists, psychologists and neuroscientists are just beginning to reveal. Just the opposite of de gustibus non est disputandum. There is much to be clarified, in fact (the main meaning of the Latin verb disputo is not “to discuss” but “to clarify, examine, reflect”). Like any product of evolution, the mechanisms of taste are anything but perfect. But it is precisely thanks to their imperfection that we are able to identify them and grasp their true meaning. And precisely because we are dealing with a sophisticated evaluation, the most interesting things do not happen at the level of the senses, but at the level of the brain. Taste and distaste at the table thus open up a window to the mind, and also to human nature. Our brain begins its evaluation with the signals that arrive from our sensory organs, which almost all have a part to play in what we simply call “taste.” Sight helps us to identify a food, but it is helped by smell, prior to actual taste: our sense of smell can distinguish tens of thousands of different molecules, while taste discerns between no more than six fundamental flavors, it appears. Touch assesses the consistency, as well as flavor factors, from the creamy sensation of fats to the pungent heat of hot peppers, or the coolness of mint. Even hearing plays a role that should not be overlooked. In the brain all the information from the sensory organs is combined, and it reaches our awareness under the form of a single sensation that generates a single judgment: the famous “like” or “dislike.” The 800 volatile molecules of coffee, for example, become simply the aroma of coffee. At this point not only do we not distinguish between individual sensations, but each sensation can also “disguise itself,” so to speak, seeming like another one. The “taste” of orange, for example, is almost entirely olfactory. One extreme example comes from a recent case in Great Britain. The chocolate bar of a well-known company underwent a restyling, and the sharp edges of the old model were replaced by more rounded forms. People immediately reported that the new version was sweeter, though the company insisted that the chocolate used in the product was exactly the same as before. Through a series of tests, researchers at Oxford University who study precisely the “cross-modality” of the senses demonstrated that it was precisely the rounded form that altered the assessment of consumers. If we really think about it, isn’t our aesthetic judgment of a partner, or of a work of art, also cross-modal? Doesn’t the beauty or the height of a man or a woman often influence our opinion of their personality or their professional capacities? So doesn’t the familiar experience of eating also shed light on this key aspect of the functioning of our mind? Relying on our basic instincts, the ones with which we come into the world, we tend to prefer sweet and fatty flavors, because they are typical of foods rich in energy. At the same time, we tend to avoid bitter or sour tastes, because they might indicate the presence of toxins or harmful bacteria. Nevertheless, we are well aware of the fact that many bitter foods – from arugula to coffee – are not harmful at all, just as we know that a sweetener can be sweet yet not contain any energy. The signals of taste, in fact, are simple and imperfect, and to assess the nutritional value of a food much more is required. We have to try a new food, or rely on the experience of others who have tried it already. Many mechanisms behind the formation of our eating preferences are thus a matter of learning: the example set by our parents at the table during childhood, the traditions of the culture in which we live, the nutritional experiences we encounter during the course of our lives, the messages of advertising. In other words, rather than trying everything personally, and running a very high risk of making mistakes, we share our experimentation on a social scale. And today, thanks to cultural exchanges through media and ethnic restaurants, this happens on a planetary scale as well. So the making of individual preferences is a stratified process: we are almost equal in our instinctive likes (sweet is good, bitter is bad), we are often similar inside one culture because most people in that culture share a series of nurtured preferences (pasta is good, insects are bad), but there is also individual experience, which is different for each of us (my favorite sauce is good, but I hate pesto). So in some ways we are all equal, while in other we are all different. 86_87 In taste, as in many other things, we are a mixture of nature and nurture, with variable proportions depending on the adventures of life. Taste is first of all an almost textbook example of the freedom granted us by our nature: we can be satisfied with the “default settings,” or the genetic predilections and the habits of the social group in which we live, or we can try to go beyond, to courageously explore our horizons, testing the limits of possibility. This is what gastronomes and food lovers do, for example, by exploring ethnic recipes, expanding their gustatory knowledge and delving deeper into the pleasures of dining. But if we think about it, doesn’t all this resemble the refinement of the taste for art, music, travel, science, poetry, and all the better things in life? It is within reach, even for those who have not had an education. This freedom granted us by our nature is simply a reflection of the extreme adaptability of our species, which in turn is the product of the great plasticity of our brain. Plasticity is the ability to reconfigure patterns of connections between the nerve cells on which any mental activity depends. It is thanks to this plasticity that, unlike other animals linked to a single style of life, we can also take part in activities nature could never have foreseen. What area could be more simple and familiar to all than taste, in order to understand what might be seen as the most extraordinary ability of our brain? But there is also another, more concrete reason to exercise our freedom over and above instinctive preferences and cultural conditioning, making use of our adaptability. Our entire range of instincts evolved to help us survive and perpetuate the species in an environment that was very different from that of the present: life in the savannah, where small clans of families survived through hunting and gathering, with the constant fear of not finding enough to eat from day to day. This is why we continue to crave fats, sugars and salts, as if we were still in the savannah like our ancestors, and we continue to grab food whenever we can, even when it is not objectively needed. We often end up eating much more than is necessary, also because our life has become much less strenuous, and we need fewer calories than in the past. In short, that marvelous adaptation, the pleasure of dining, runs the risk of becoming a problem. This disconnect between our biology and the environment we have created over the course of the last decades is among the main causes of one of the greatest health-care emergencies of our time. In Italy, 31% of adults weigh more than they should, and excess weight leads to higher blood pressure, higher sugar levels, cholesterol and fats in the bloodstream, all symptoms of the so-called “metabolic syndrome” which in turn increases the risk of diabetes, heart attack, ictus and certain forms of tumors. But, once again, the mismatch involving taste is but another case – though a particularly clear and familiar one – of a much more general phenomenon that has to do with the mind. Let’s look at anxiety, for example: we react to the relatively innocuous stressful stimuli of modern life with the same nervous and hormonal reactions developed when the threat was a leopard about to devour us. So why not learn to better manage the problem of taste, which is in any case always a pleasure, in order to learn to better manage other problems created by a “paleolithic” mind that finds itself living in a completely transformed environment? Precisely because of its central role in our biology, we could not do without the pleasure of dining even if we wanted to, as anyone who has tried dieting has surely understood. From this viewpoint, good food is like love, friendship, the company of others. So we need to find ways to combine healthy nutrition and pleasure. This is why it is so important to know about the mechanisms of taste. As in other things, we are not slaves to our biology. We simply have to take it into account. Thanks to knowledge regarding the cross-modal character of sensory stimuli, we can – for example – try to “fool” the brain, making it believe it is ingesting foods different from those really being eaten, providing the same pleasure but with fewer calories. This is a field of research that is just taking its first steps, but it is very promising. Or we can change the environment around us, to keep it from sending us too many incorrect stimuli, for example by limiting the advertising for junk food aimed at children, or by offering only fruit in schools instead of sugary snacks, or by refusing to buy things at the supermarket that later, in a moment of weakness at home, might tempt us beyond our capacity to resist. Nothing prevents us from taking such measures. But we can also change the culture, because in our species it has a remarkable influence on the development of our nutritional preferences. After all, the world is full of “healthy” food cultures, traditional and otherwise, and many people manage to eat very well even though they live in a world of widespread temptations. This means educating the younger generations, especially by setting an example, starting with the period spent in the mother’s womb. It also means refining our taste for food, learning to appreciate it more completely. In the end, junk food is to good eating as a pop tune is to Mozart, or pornography to eroticism. Naturally we can indulge in sins of the palate, and we can even exaggerate with good food, but like any sin this too simply implies renunciation of freedom of choice, and a form of enslavement to our own instincts. Instead, we can always choose and shape our preferences. Just consider, for example, those who have chosen a vegan diet, avoiding any foods of animal origin, and thus making a radical break with instinctive preferences: after a while, this too becomes a choice based on taste, and meat simply no longer seems appealing. Whatever opinion we may have of a vegan diet, we must admit that it represents a triumph of human freedom over the bonds of our biology. We are the only species in which nutritional preference – like many other preferences – can have an exclusively cognitive origin. From whatever angle we approach the pleasure of eating, in short, it always comes down to the mind, and therefore to the power we have over it and the degree of freedom available to us. This is why the mouth is a window to the brain, and to human nature in general, with all its potential. A window, furthermore, that each of us can open to look at what is out there (or, in this case, inside). This is not only material for neuroscientists. We can all look – and it is worth repeating – with pleasure. Also because if we understand taste, we can understand many other things about ourselves. Including many things that have nothing to do with taste. «Drinking beer with friends is the highest form of art» Cristiana Perrella 88_89 is edible? What plants and what cereals form the basis of human nutrition? What types of food preparation are known all over the world? What are the variations of the fundamental recipes?» One year later, he opened a restaurant in Düsseldorf, serving meals he prepared himself. A gallery devoted to this new form of art was soon added. Main course. 1971. New York. In the SoHo neighborhood, still dingy and industrial at the time, a new venue opens its doors: it is simply called “Food.” The owners are the dancer Carol Goodden and the artist Gordon Matta-Clark, together with some friends. The restaurant stands out for its open kitchen, which makes the preparation of food into a kind of performance, and serves up fresh seasonal foods and international recipes. Artists are periodically invited to cook, and the dinners are transformed into artworks. Food quickly becomes a gathering place for the Manhattan art crowd. Matta-Clark considers it a work of art in the fullest sense of the term, and tries to sell it (without success) to the art dealer Leo Castelli. He experiments in the venue with his first architectural interventions –the category of works that made him famous – making cuts in the walls Entree. 1963. Paris. A restaurant opens in the last place it is and doors. The adventure continues until 1973, expected: an art gallery. Galerie J hosts a series of when the restaurant is closed. banquets: the chef is the artist Daniel Spoerri, while several art critics act as waiters. The aftermath of Dessert. the dinners is then glued to the tables and displa- 1993. New York. At the 303 Gallery, an exhibition by yed vertically, like a painting. These are the table- the artist of Thai origin Rirkrit Tiravanija opens. Visiaux-pièges, the “trap pictures” that are perhaps the tors find themselves faced by what is usually conmost famous emblem of Spoerri’s work. In 1967 cealed in the back of the gallery (the office and the the artist invented the concept of Eat Art, investi- staff). The space has also been transformed into gating the following questions: «What, in general, a functioning kitchen, where the artist serves Thai Antipasto. 1930. Milan. After dining at the restaurant Penna d’oca, Filippo Tommaso Marinetti, poet and father of the Futurist Movement, announced the Manifesto of Futurist Cooking. The iconoclastic fury of the group, which set out to redesign every aspect of life and even of the universe, also addressed the matter of food. Starting with the premise that «men think dream and act according to what they drink and eat,» the Futurists lashed out at some of the milestones of Italian cuisine: they proposed the abolition of pastasciutta («an absurd Italian gastronomic religion»), the elimination «of volume and weight in the conception and evaluation of food,» of «traditional mixtures in favor of experimentation with new, apparently absurd mixtures,» of «everyday mediocrity from the pleasures of the palate», even urging the abolition of silverware. Instead, they recommended originality, the use of perfumes, music and poetry to accompany the serving of foods, and the application of scientific research in the field of cuisine. These ideas met with immediate application with the opening, in Turin, of the Taverna Santopalato. curry and rice, free of charge. The action creates a convivial situation that encourages socializing. This is one of the first in a long series of such performances done with a similar approach by Tiravanija, who says he works on the idea of food with an «anthropological and archaeological» approach. The artist is the champion of relational art, a trend identified by the critic Nicolas Bourriaud in the 1990s, which views the artwork as a place of social interaction. This short menu offers just a taste of the recipes contemporary art has prepared, choosing food as its main ingredient. Edible things have always been a mainstay of occidental figurative culture: just consider the extraordinary inventions of Arcimboldo, who painted portraits and allegorical figures composed of fruit and vegetables; or the still lifes of the Dutch school, triumphant depictions of sumptuous repasts. But it is during the course of the 20th century that art extends its range, latching onto every aspect of existence: of course the sphere of nutrition is not immune, since it is an essential part of the life of human beings. Food thus goes beyond the realm of representation, lending itself to new uses and meanings. The encounter between different disciplinary fields – culture, economics, science – makes food become a vehicle, for artists, to address themes like the body, identity and politics. The thrust of the historical avant-gardes to break down the barriers separating art and life is taken forward after World War II by a range of art movements (Fluxus, New Dada, Nouveau Réalisme). They often use food to stage performative actions. Piero Manzoni, for example, offers eggs bearing his fingerprint to the audience. Yves Klein, on the other hand, quenches the thirst of visitors standing in line at the entrance to his exhibition with a cocktail made with Cointreau, gin and methalyne, which has the effect of making one’s urine blue, Klein’s trademark color. In the same period, Pop Art turns to representation of food, with an entire range of gastronomic images: the Campbell’s soup and Coca-Cola of Andy Warhol, the giant hamburgers and fries of Claes Oldenburg, the hot dogs and fruit of Roy Lichtenstein. Food is interpreted, in these cases, as an expression of the society of consumption. Other artists choose to work with food by exploring its symbolic value. One paradigm, in this sense, is the work of Joseph Beuys, who uses fat, honey and oil to allude to vital energetic processes. Food as a medium is deployed by others along these same lines: Wolfgang Laib makes sculptures and installations out of milk, rice and honey, influenced by oriental thought; in a more playful way, Vik Muniz uses chocolate, peanut butter and sugar for compositions that then survive in photographic form; with a eucharistic gesture, Felix Gonzalez-Torres offers visitors a pile of candies whose weight is equal to that of his partner, felled by AIDS. Food has always been associated with socializing and convivial settings. In this sense, it has been used in the relational practices that have spread in art starting in the 1990s. Forerunners of this development include the American Conceptual artist Tom Marioni, who sees the act of drinking beer with friends as the highest art form: he organizes drinking sessions, whose remains are then offered to the public as art. In the multiple meanings taken on by food in artistic practice, those connected with memory and personal identity, expressing the link with one’s family and roots, are also important. As an expression of civilization, food becomes a vehicle of cultural exchange, a true tool of diplomacy, in the multicultural and post-colonial perspective that has prevailed in art since the end of the 1980s. One example is the project by the Italian artist Mario Rizzi entitled The Gift, done in Israel in 2001, where a group of Israelis and Palestinians, brought together by the artist in a social event, cook and eat each other’s recipes, discovering similarities and differences. In recent years the growing focus on food as a cultural phenomenon has sped up the gradual breakdown of boundaries: art in food and food as art. Different modes of action and relation are intertwining, to an increasing extent: restaurants that commission artists to design their spaces, or host them in residencies, or show their works; artists who open restaurants (one famous case remains the Pharmacy of Damien Hirst); chefs who operate as artists and are included in prestigious exhibitions (like Ferran Adrià at Documenta 12). 90_91 Based on all this, it is easy to imagine that the work on an exhibition like Gola; Art and Science of Taste, involving the selection of artworks to combine with scientific exhibits, to narrate the various aspects of the relationship between nutrition and pleasure, has been anything but simple. There are so many possibilities, connections and images, stimulated by such a rich, evocative theme. The choice was guided by the capacity of the works to address the various senses, to activate unexpected links, to suggest voyages in space and memory, to touch on universal themes like tolerance, health, the need for both material and spiritual nourishment. The exhibition starts with the idea of sensual pleasure associated with food. The video by the American artist Cheryl Donegan plays in an ironic way with the association of taste-nutrition, choosing milk, a basic food, as the key element in an action that is packed with allusions. The possibility of using food as a medium to convey a metaphorical message, putting it at the center of the action, returns in The Onion by Marina Abramovićc, based on the idea of bodily resistance found in all the performance work of the Serbian artist. Displayed by tears lining the artist’s face, the disgust caused by the big bites of raw onion not only conveys a sense of general impatience with the dynamics of the star system, but also demonstrates the engagement of all the senses in the representation of an emotional state, underlined by the choice of a nauseating food that puts the artist’s capacity for endurance to the test. The video performance of Marina Abramovićć, which narrates the potential of a food to cause immediate and instinctive reactions, orienting our choices through olfactory, visual and tactile experience, connects with two other works included in the section The Senses of Taste: The Chromatic Diet by Sophie Calle and While Nothing Happens by Ernesto Neto. The photographic sequence by the French artist, inspired by the story Leviathan by writer and director Paul Auster, conveys the maniacal personality of the protagonist Maria, whose rule is to eat only foods of the same color on any given day. Monochrome foods, tableware, napkins and tablecloths for artful repasts that attract us through color, underlining the importance of aesthetic appearance in the process of selection of foods. Together with sight, the sense of smell is firmly engaged in the act of eating, and becomes the true protagonist in all the work of the Brazilian artist Ernesto Neto: his large structure in the show is like a fascinating organism that spreads the aromas and scents of spices from all over the world in the air, evoking exotic flavors and lands and transforming the work into a multisensory experience. The perfumes of geographical distant places in Neto’s work form a bridge to the section Good to Think, in which the fil rouge is the relationship between local and global, and the importance of food in the definition of the cultural identity of a country. This is associated with the potential of foods to evoke personal experiences linked to a distant past, like the flashbacks activated by Proust’s madeleine, narrating the relationship between memory and unleashing elements – like flavors and odors – as a key of access to histories we thought had been forgotten. Thus the Albanian artist Anri Sala chooses Byrek, a typical dish of his homeland, to narrate his emigrant nostalgia, while Boaz Arad starts with gefilte fish, a traditional Jewish recipe, to investigate the multiculturalism of Israel. Andy Warhol is the protagonist of one of the 66 Scenes from America filmed by Jørgen Leth, who in this portrait of American society could not help but include the artistic icon together with the culinary icon, namely the hamburger drenched with ketchup. The Indian artist Sharmila Samant works on the symbol of globalization, Coca-Cola, filling its bottles with locally produced nonindustrial beverages found in all the countries where the multinational giant has bottling plants. Finally, Gabriella Ciancimino, from Sicily, transforms a re- cipe from Palermo, the seppie murate, into a “beat box” performance, focusing on the cultural and generational dialogue that finds a possible moment of activation precisely in food and cooking. The local and the traditional form a contrast with junk food, the global phenomenon par excellence, which promises a quick low-cost sensation of fullness, spreading rapidly not only across the world but also across class boundaries. This is what Martin Parr, for the section The Secrets of Junk Food, reveals in his photographs with saturated colors, documenting a bright and appealing universe of fast food products, while pointing to their contradictions in a grotesque, abrasive way. The need to recover the healthful pleasures of nourishment is addressed in the last chapter of the show, The Re-construction of Taste, in a dialogue between works by Christian Jankowski and Hannah Collins. The video The Hunt is the humorous documentation of the effects of a rule set for himself by the German artist: to eat only what he could catch with a bow and arrow. A trip to the supermarket becomes a hunt, before the astonished eyes of the other customers and the staff, pointing to the ease with which we obtain food today, while emphasizing the need for greater awareness and care in our choice of things to eat. From the “archaic” scavenging proposed by Jankowski, to the sophisticated approach of Hannah Collins, in the documentation of the series The Fragile Feast. Based on collaboration with the award-winning Catalan chef Ferran Adrià, the photographic project of the English artist narrates the journey of exceptional ingredients, namely the raw materials the chef combines and transforms in his culinary creations. A portrait is traced of each ingredient, taking into account geographical context, local traditions, and the persons involved in processes of gathering, sorting and distribution, all the way to the table. The exhibition finishes with the video Green Pink Caviar by the American artist Marilyn Minter, a flow of images in bright, saturated hues in which the lips and tongue in the foreground act on a glass surface as if they were paintbrushes, spreading and sucking up colored gels, grains of sugar and other sweets. As in the work by Cheryl Donegan at the start of the exhibition, here too we see a story between nutrition and pleasure, taste and desire, displaying the most attractive and intriguing face of food. 1_ The omnivore’s dilemmas 92_93 The pleasure of eating has been a fundamental key for the success of our species. If we have managed to survive in every natural setting from the Arctic to the Sahara, the Pacific atolls to the highlands of the Andes, it is above all because we have been able to obtain enough to eat in any context. Unlike any other animal, we can eat everything: leaves, fruits, seeds and roots of plants, or meat, organs, bone marrow, blood, eggs and milk from any type of animal. Raw or cooked, fresh or conserved. When a food is no longer available, we eat something else. As omnivores, however, we have a problem that is not shared by other creatures. How can we know if a food contains the energy and the substances we need? Leaves, for example, are rich in vitamins but low on energy. Different animal parts have different quantities of protein and fats. And how do we discover if something is bad for us? Most plants are poisonous, and animal products spoil easily. With tens of millions of potentially available species of animals and plants, plus their by-products, and without being able to rely on chemical analysis and on the knowledge we now have regarding our physiological needs, this was an extraordinarily daunting problem. Nature has resolved this by hiding the dilemmas of the omnivore behind a pleasure. We do not have to see the energy contained in the sugars of a ripe piece of fruit: we simply like its sweetness. Nature also relies on the opposite reaction: disgust. We do not have to see harmful bacteria: we simply dislike the bad taste of spoiled meat or fish. Though we think we freely choose what we eat, actually we are unwittingly influenced by a series of preferences that guide us through sensations of greater or lesser pleasure. Most of the time, in fact, we do not start eating because we need energy or some particular substance, but because we are guided by the expectation of pleasure. The expectation is triggered by the sight of food, by the arrival of mealtime, or just by boredom. And how much we eat depends on the pleasure the food is giving us, not only on the amount of hunger that remains. So the quantity of calories we ingest is controlled, first of all, by taste. All other considerations – cost, practicality, health – come later. In short, the pleasure of dining is the stratagem invented by nature to guide our choices at the table, just as the pleasure of sex evolved to encourage us to bring children into the world. Neither is an obligation, but neither can easily be overlooked. 94_95 Cheryl Donegan 2_ The senses of taste In the video Head, the American artist Cheryl Donegan uses an action charged with allusions to milk as a primary food, linked to childhood memories and the first sensation of pleasure associated with nourishment. Against the background of a soundtrack of rock music, Donegan drinks the milk that spurts from a pitcher, swallowing some and spitting some of it back, licking up drops that fall and engaging in a sort of amused struggle with the anonymous vessel. The pace of the musical rhythm corresponds to the performer’s actions, culminating in the gesture of spitting the milk on the wall – almost a form of Action Painting – after which the artist vanishes from view, leaving behind the clues of what has just happened. Between irony and eroticism, the act required to gain nourishment is transformed in the video into something exciting, fun and tasty, a game capable of engaging all the senses. Every time we put something in our mouth we are taking a risk for our health, and maybe even for our survival. Today the risk is a remote one, but in the past, during our evolution, this danger shaped our food preferences. This is why almost all the senses are engaged, to grasp every possible clue in an instant. Sight helps us first of all to identify what we are about to eat. Then, with the first bite, we check the temperature. We may also listen, to see if the food makes a particular sound. The first true test to understand what is inside, however, is done by the nose. Up to 80% or 90% of what we are used to calling “taste” is actually smell, stimulated by the molecules of the food released in the air. We can distinguish between an almost infinite number of these molecules, even in concentrations of just a few parts per million. Touch informs us about hot spicy foods, bubbles, the coolness of mint, the astringent properties of unripe fruit or dry wines, the crunchy sensation of a potato chip, the creamy consistency of a sauce, the slippery feel of an oyster. Then it is up to the gustatory system – i.e. “taste” proper – to inform the brain of the heaviest molecules, or those dissolved in water or in fats. About 3000 taste buds on the tongue and in the mouth can perceive just six fundamental tastes – sweet, salty, bitter, sour, umami, and perhaps also fat – but the judgment of the nutritional value depends Starting in the 1990s, Cheryl Donegan (New Haven, Connecticut, 1962; residing in New York) has used video to capture performances in which she is directly involved, staging actions that often simulate the procedures of painting or sculpture. Tackling themes like sex, fantasy and voyeurism, Donegan uses her body to exorcise clichés connected with questions of gender. above all on them. Everyone likes sweet flavors. Sweetness indicates the presence of carbohydrates or sugars, which are molecules rich in energy: 4 kilocalories per gram. Fat, which is also probably a fundamental taste, appeals to us because it is even richer in energy: 9 kilocalories per gram. A salty taste indicates the presence of sodium, an indispensable element to maintain the balance of fluids in our organism. Umami, which comes from a Japanese word meaning “brothy” or “meaty,” is a taste caused by the presence of glutamate, very common in Asian cuisine but also found in soy sauce, cheeses, shellfish and tomatoes. Glutamate is not an essential nutrient, but it indicates the presence of both animal and vegetable proteins to the organism. Instead, we tend to avoid foods that taste bitter, at least at the start. Our first instinct of disgust when we sample Brussels sprouts, chicory or broccoli evolved as a defense again the toxins present in many plants. Instinctively, we also tend to avoid sour tastes, found for example in lemon or vinegar, produced by acidity and often a sign that food has gone bad. In an instant the brain process the information arriving from the senses of sight, touch, smell and taste, generating a single sensation. This is why we do not “see” nutrients, so to speak, but just sensations. 96_97 Marina Abramovic Sophie Calle As in many of her famous performances, in The Onion Marina Abramović works on the limits of physical endurance, translating a situation of discomfort into an image of disgust in which all the senses seem to be stimulated and overexcited. The video is the documentation of an action in which the Serbian artist bites into a raw onion and starts to chew it, in an increasingly convulsive manner. As she devours the onion in big bites, her off-screen voice tells of the fatigue of confronting particular moments in her life as an art star, as well as her private life. Her impatience with particular situations of her existence is visually linked to the increasingly intense agitation that crosses her face as she continues to bite the onion, which makes tears stream from her eyes. Here food becomes the image of an emotional state that is translated into a sense of repulsion, caused by the onion and its characteristic odor and flavor. The Chromatic Diet, by French artist Sophie Calle, addresses the role of aesthetics in the process of choosing foods, which attract us not only through their aroma and flavor, but also for their color or form. The work by Calle comes from a request made by the artist to the writer Paul Auster, to invent a character she could “play.” The character suggested by Auster is Maria, protagonist of the story Leviathan (1992), whose rule is to eat foods of the same color on any given day. Focusing on this particular discipline, Sophie Calle has made six photographs of monochromatic meals – combined with dishes and flatware in the same color – corresponding to different days of the week. The photographs of the individual meals, accompanied by indications of the foods that go into them, are followed by final shots that mix foods and colors in a lively but also rigorous formal and chromatic composition. Marina Abramović (Belgrado, 1946; vive a New York) è tra le protagoniste indiscusse della Performance Art. A partire dagli anni Settanta lavora con il suo corpo e le sue emozioni, esplorando la complessa relazione tra artista e pubblico. In occasione della sua grande mostra al MOMA di New York nel 2010, il film-documentario dal titolo The Artist is Present ne ha ripercorso la lunga carriera. All the research of Sophie Calle (Paris, 1953), starting at the end of the 1970s, is marked by the autobiographical and intimate dimension of her works, through which the artist shows herself to the audience. Making use of different media, including video, photography and installations, Calle offers access to her own experiences and impressions, often in an ironic and provocative way. 98_99 Ernesto Neto 3_ Good to think The distinctive feature of the sculptures and installations of the Brazilian artist Ernesto Neto is the desire to stimulate the senses of the audience and, in particular, the sense of smell, using different spices that invade the entire space with their scents. While Nothing Happens is a large suspended structure that suggests an organic form, composed of Lycra sacks filled with spices of different colors, like cumin, ginger, turmeric and powdered cloves, whose aromas evoke the exotic flavors of cuisines from all over the world. Soft and sensual, the limbs of this great organism remind us of stalagmitic forms, encouraging the viewer to engage in an experience not only of smell, but also of touch. “The sculpture does not have the sole objective of representing a body. It exists as a body. But it is also a structure, a place of reflection, where people meet, each with their own interpretation,” the artist says. Creating the premises for a multisensory experience, Neto shows us how the senses are the main tool for knowledge of the reality that surrounds us. There are hundreds of different cultures of food in the world, in which people eat all kinds of plants and animals every day. Often what is appealing to one country can be disgusting to another. Choices of food cannot therefore only be related to instinctive preferences, which are few in number and very similar in all of us. All the other choices have to be learned. And the best way to learn is to look at what other people are eating. Already in the womb we learn to recognize the taste of foods eaten by our mother, and after birth we like those foods more than others. The logic is simple: if she ate them without problems, they must be safe. But this is a fundamental mechanism that works for all ages, and permits us for example to learn to like even foods that are not sweet or rich, but can even be bitter or sour. Personal experience is also important. If in a moment of fatigue and real hunger chocolate makes us feel good, we will appreciate it more later on. The same mechanism reinforces the preference for those foods that are most available and have proven to be most nutritious, namely wheat in Europe, rice in Asia, corn in South America, or insects – an excellent source of animal protein – which are enjoyed by almost two billion people around the world. The process might also involve human flesh: cannibalism was widespread in many cultures of the Americas and the Pacific, where good sources of animal protein were lacking. Starting in the 1990s Ernesto Neto (Rio de Janeiro, 1964) has used nylon stockings and other flexible, everyday materials, then shifting to tubes of fine, translucent jersey filled with spices from all over the world. His works take form in dialogue with the space and with an interactive intention, stimulating viewers to make direct contact with the piece. We can also develop a dislike for certain foods, for the same reasons. The Indian taboo of the sacred cow, for example, dates back to more than 2000 years ago, when the population became too large to be able to devote land to pastures. It was better to farm the land, and to keep the cows for milk, to yoke for plowing, and to fertilize the fields. Certain dislikes, such as that of vegetarians for meat, can even be the result of conscious choice. In most cases, however, preferences depend on influences of which we are not aware. Just consider advertising, which exploits our tendency to base our conduct on that of others, especially if we admire those others for some reason. Or they depend on that psychological mechanism that makes us choose a new food if it is associated with a positive context or experience (a birthday, Christmas eve, an enjoyable trip), or simply with something we already like. Actually, this mechanism also guides the evolution of traditional food cultures. Each one has its characteristic flavors, due to condiments with a particular combination of ingredients. When a food is no longer available, the best way to accept a new one is to associate with an already familiar seasoning. Flavors make traditional cuisine characteristic, but they also represent a culture. This is why the food of tradition tells us who we are and to what community we belong, and produces an emotion that is much more important than we might imagine. 100_101 Anri Sala Boaz Arad Food is often connected with a precise personal and cultural history, and this is why it can evoke the memory of past phases of life, together with that of geographical origins. In his video installation Byrek, Anri Sala – an Albanian artist living in Germany – shows the making of a typical dish widespread in the Balkan countries, all the way to Turkey; a sort of savory pie with thin, flaky crust, filled with different ingredients. The installation is composed of a video projection showing the arms of a woman who is preparing the pastry, following the recipe that the artist’s grandmother sent him in a letter, which is printed directly on the projection screen. The ritual quality of the gestures evokes the historical memory and cultural-identity value of the food, linked to a specific tradition. A text by Sala is presented to one side, as a separate slide projection: it describes the artist’s personal sensations and memories when he thinks of this dish from his homeland. The preparation of byrek becomes a part of his imagination, a fantasy of belonging, a reflection on roots to which one inevitably remains attached even after moving to another country. In the video Gefilte Fish the Israeli artist Boaz Arad interviews his mother while she is cooking the characteristic dish of Ashkenazi Jews. The images shows the woman’s hands as she skillfully cuts and filets the fish and puts it in the oven, but her face is never seen. The artist chooses this moment to ask her about roots and identity, focusing in particular on the relationship between the Ashkenazi Jews (from Germany and Eastern Europe) and the Mizrahi Jews (from Northern Africa and the Middle East). The preparation of a typical dish thus becomes a pretext for reflection on the multiculturalism of Israel and the need to conserve traditions threatened with extinction. Arad responds to some of the questions himself, syncing his lips to the voice of his mother, obtaining a grotesque image underlined in certain scenes by the presence of a parrot on the artist’s shoulder, or the face of Arad himself transformed into a disquieting mechanical puppet. In his works, Anri Sala (Tirana, 1974; living in Berlin) approaches reflections connected with the concepts of place and identity, often using music to subvert and confuse audience perceptions. In 2013 he represented France at the Venice Biennale. The works of Boaz Arad (Israel, 1956) reflect on concepts of memory and identity, and are filled with a subtle sense of irony that helps the viewer to process the dramatic nature of the themes addressed. For Gefilte Fish the artist says he watched films by Alfred Hitchcock, particularly Psycho for the faking of the mother’s voice, and The Birds for the irritating presence of the parrot. 102_103 Gabriella Ciancimino Sharmila Samant If Iu Fil Homsik, Tink in Dailect! is a project by Gabriella Ciancimino that began in 2008, developed with different media including video, photography and the organization of cooking workshops in art spaces. Starting with reflections on the meaning of nomadism and the feeling of nostalgia for one’s homeland, the artist works on geographical and cultural identity, choosing food and cuisine as possible elements of aggregation. In the video Ritratto in nero di seppia (Portrait in Squid-ink Black), set in a domestic interior in Palermo, a mother explains to her two children how to prepare seppie murate, a typical Sicilian dish. The illustration of the recipe – following the familiar format of televised cooking shows – is accompanied by the kids doing Beat Box, transforming the sounds the mother produces while cooking into music. The generational face-off also becomes cultural, when the phases of preparation of a traditional delicacy are accompanied by a practice that developed on the American Hip Hop scene. The short narrative is completed by an encounter, with the four members of the family (including the father) who sing a gospel-influenced song together. Loca-Cola by the Indian artist Sharmila Samant approaches the theme of the localglobal dichotomy in relation to taste. After having gathered glass Coca-Cola bottles from all the countries in the world where the American multinational corporation has bottling plants, the artist fills them with beverages produced locally in the various countries, sealing them in a homemade way and adding a label with the name of the local drink they contain, and the name of the bottler – that of the artist. She then puts the bottles in a hath gadi, a homemade handcart of the kind often seen in India in public spaces, and especially recreational spaces. The work is based on consideration of the fact that Coca-Cola is the global beverage par excellence, though its taste actually changes slightly from country to country, adapting to local tastes in keeping with precise marketing strategies designed to reach an ever increasing number of consumers. Suffocating local flavors, Coca-Cola strangles small beverage producers, to whom the artist grants visibility by bottling their wares in place of the famous American soft drink. Using art, music and performance, the research of Gabriella Ciancimino (Palermo, 1978) focuses on the concept of relation. Her works narrate segments of reality with the aim of offering a personal vision, but also of stimulating a collective perception, favoring an approach based on sharing and exchange with the audience. In her installations and videos Sharmila Samant (Mumbai, 1967) comes to grips with the question of identity inside a global context, observing the latter’s standardizing effects on developing economies. She is one of the founders of the Open Circle collective, located in Mumbai. 4_ The secrets of junk food 104_105 Through almost all of human history, and for almost all people, food has been scarce and hard to obtain. Meat was a rare luxury, and sweet flavors were even more rare: practically there was only honey. Periods of famine were common. But times have changed. Food has become abundant and economical, and life is much less harsh than in the past, so we need fewer calories. The biological mechanisms of taste, however, have remained the same, and still prompt us to seek out those flavors that represented a guarantee of survival in the past. As a result, there are now 1.6 billion overweight or obese adults in the world: twice as many as those who suffer from hunger. But the blame also lies with those who produce so-called “junk food,” a category that covers fast food but also many packaged food products. This is food designed to “super-stimulate” the appetite, to overwhelm the systems that normally control our consumption of food. The trick lies in offering the right combination of the nutrients evolution has programmed us to seek: sugars, fats and salts. From the tongue and the palate, signals reach the nucleus accumbens, the area of the brain that contains the pleasure center of the organism, which thus releases endorphins, substances similar to morphine or heroin, which trigger sensations of gratification and wellbeing, calming us and soothing tensions and pain. The endorphins also interfere with the so-called “taste-specific satiety,” which makes us tire of a food after a while. Therefore they prompt us to continue eating. But the fault does not lie only with fats, sugar and salt. Multisensory aspects – combinations of spicy and salty, spicy and sweet, sweet and salty, sweet and sour, crunchy outside and creamy inside, all common characteristics of junk foods – also stimulate the appetite. The “shocks” of pleasure caused by super-stimulation of taste also activate the production of dopamine, which focuses us on the pursuit of this pleasure and prompts us to do anything in order to repeat the experience. The cerebral mechanisms activated by junk food are the same ones involved in drug addiction. Over time, the consumption of junk food becomes a habit. When we receive the right signals – the flavor, place, occasion and time of day associated with a product – a chain of behavior is activated that becomes more and more automatic over time, and less and less conscious. Therefore it is also harder to control. Luckily we are not all equally vulnerable, because the tendency to put on weight has an important genetic component. But the problem is growing very rapidly. In the world, the proportion of overweight and obese people has doubled since 1980, and it could double again by the year 2030. Jørgen Leth Included in the 66 Scenes from America that give the title to the feature-length film made by Jørgen Leth in 1981, Andy Warhol Eating a Hamburger shows the protagonist of American Pop Art eating a burger in rigorous silence for about four minutes. When the action is completed, the artist states: “My name is Andy Warhol and I just finished eating a hamburger.” Playing with the idea of the 15 minutes of fame for which Warhol himself was the spokesman and emblem, the short film puts the idea of the icon at its center: the artist is an icon, but so is the food he consumes, a hamburger with ketchup, with recognizable packaging (Burger King). A symbol of American pop identity, the burger in its industrial package becomes an immediate expression of the society of consumption Warhol narrated perfectly in his Pop works, starting in the 1960s. Jørgen Leth (Århus, 1937) is a Danish poet and filmmaker. In 1981 he directed 66 Scenes from America, a film that fits together a series of long shots, each conceived as a visual postcard of an imaginary trip across America. Leth’s most famous films include The Perfect Human (1967) and The Five Obstructions (2003), made with Lars von Trier. 106_107 Martin Parr 5_ The reconstruction of taste In the images of junk food the English photographer Martin Parr documents, in pictures with saturated colors, the nutritional excess prompted by fast food products. With their appealing colors, forms and flavors, but also of very low nutritional quality, these foods become the emblem of the lack of attention paid to correct and balanced nourishment, in favor of a quick, low-cost feeling of fullness. Capturing different situations and people very distant from one another in terms of culture, origin or social background, the artist narrates the widespread use of these products, across geographical and class borderlines. The photographic project by Martin Parr on junk food is perfectly consistent with his research, aimed at bringing out the contradictory and at times grotesque aspects of our reality. Free time, consumption and communication are key words in his oeuvre, which ironically reinterprets aspects of modern society, criticizing them from the inside. Eating well is very simple: lots of fruit and vegetables, a bit less pasta, rice or potatoes, even smaller quantities of meat, eggs or fish, a few dairy products and seasonings, and a very limited amount of sweets. But in a world full of so many tasty foods that call out to us from all sides, eating properly can be a difficult task. How can we get out of this bind? 1) We can eat more, or we can eat tastier foods, is we then consume the calories through physical exercise. But this really does mean a lot of effort: to consume the over 400 calories contained in 100 grams of packaged cookies, for example, a person weighing 70 kilograms has to run almost 7 kilometers. 2) We can follow our instincts, but eat only typical products of high quality: this means spending more and eating less. Unfortunately this is a sort of gastronomic weekend solution, and little more, because few people can afford or want to spend so much more every day. 3) We can return to eating as in the past: less packaged food, more home cooking, with almost certainly healthier ingredients. But who has time for cooking? 4) We can demand that the food industry provide us with foods with fewer fats and sugars, containing more useful nutrients, or smaller portions. But the food industry has an obvious interest in encouraging us to eat more and more, so these demands would have to be imposed by legislation. 5) We can try to improve industrial foods while maintaining their appeal, somehow deceiving the Martin Parr (Epsom, 1952) is a British photojournalist. After starting his career in black and white, in the mid-1980s he shifted to color, always very saturated, making it a distinctive feature of his work. Since 1994 he has worked with the agency Magnum Photos. brain. If the sensations granted us by food are the result of a complex combination of taste, smell, sound and even pain, we could increase an odor, for example, to compensate for a reduction of fats and sugars. But do we want to entrust a few hightech companies with our nourishment, which is such a crucial part of our culture and our identity? 6) We can also separate taste completely from nutrition, taking the manipulation of foods to extremes, as in the practice of the great chefs of molecular cuisine. But is it realistic to think we can “reestablish” our approach to eating from scratch? 7) We can “educate” (or re-educate) taste to appreciate less banal flavors, therefore adding to the appeal of healthier foods: many people, in fact, do eat well. The taste for good food can be refined and developed, like a taste for art or music. But this is a question of culture, and culture is something that develops slowly and is hard to change. Complex problems never have simple answers, and the problem of our nourishment is undoubtedly a complex one. Each of these suggestions probably contains a piece of the solution, and each of us has to find the right pieces for his or her own personal case. But we also have to manage to perform a small miracle: to approach the issue in a simultaneously thoughtful and carefree way. Otherwise we run the risk of ruining one of the great pleasures of life. Because taste, like love, cannot be commanded. 108_109 Christian Jankowski Hannah Collins Setting himself the rule, for one week, of eating only what he could catch with a bow and arrow, in the video The Hunt the German artist Christian Jankowski is shown (filmed by a friend) as he shoots at foods in a supermarket, then placing his prey (with arrows still inside it) on the belt at the check-out counter. This witty operation triggers a relationship between the more immediate, almost primordial action of hunting and the wealth and ease of access to any type of food typical of the contemporary era, which should thus be organized and managed in a more conscious way. The Fragile Feast is the result of the collaboration between the artist Hannah Collins and Ferran Adrià, the award-winning chef known on an international level, and creator of the El Bulli restaurant in Barcelona. Starting with Adrià’s dedication in the procurement of his ingredients, Hannah Collins develops a photographic project that documents that path that brings those ingredients into the kitchen of the great chef. The photographs are therefore the outcome of a voyage through different countries (Italy, Greece, Spain, Japan, South America), and document not just the raw materials but also the places with which they are associated, an overview of local cuisine but also a complex of memories, traditions, experiences that make each of these ingredients unique, like the roses and sea anemones in the exhibition, used for the recipe that combines them with rabbit brain, dill and oysters. The photographs of Hannah Collins have been gathered in a book that documents the origin and history of 30 ingredients identified with Ferran Adrià. Operating with different media, including photography, video and installations, in his works Christian Jankowski (Göttingen, 1968; residing in Berlin) reworks suggestions stemming from the mass media, at times reproducing their mechanisms, as in the video installation Telemistica shown at the Venice Biennale in 1999, or The Holy Artwork (2001), done in collaboration with a network of tele-evangelism. An artist and filmmaker, Hannah Collins (London, 1956; residing in London and Barcelona) works on memory and history as collective experiences, allowing the more poetic aspects of the realities she narrates to emerge in each of her projects. Marilyn Minter 110_111 The American artist Marilyn Minter works with transgression and humor, often using dreamy, almost surreal imagery, with garish acid hues. The video Green Pink Caviar, shown at MoMA New York and chosen by Madonna for her Sticky & Sweet European Tour in 2009, shows a mouth that sensually licks and eats colored gels and other ingredients used to decorate cakes. The tongue becomes a kind of paintbrush that creates abstract images on the glass surface in the foreground, utilizing edible substances with attractive forms and colors as raw material. The focus on the mouth becomes the image of desire, expression of a taste not limited to the act of eating, but also extended to all the different manifestations of pleasure. A painter, sculptor and photographer, Marilyn Minter (Shreveport, 1948; residing in New York) lets pop culture meet more or less explicit sexuality in her works, wavering on the borderline between “high” and commercial art to create captivating images of great visual impact. stampato nel gennaio 2014 da Multiprint - Roma
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