Spaesamenti Numero VI estate 2014 L'Editorial Sommario 3 InSistenze 4 L’iperromanticismo di Andrea Chiesi di Simone Scaloni 5 Svelare velando di Geremia Doria 10 Nel laboratorio del traduttore Diwali incontra Michele Piumini 14 Dietro al muro dell’arte: il mistero di Banksy di Valerio Francola 18 Amir Wahib and the perspectives of time di Mara Quadraccia 21 Topografie dell’assenza di Michela Pistidda 24 Pagani di Maria Carla Trapani 27 I territori astratti di Attilio Faroppa di Helmut Schilling 29 InVerso 32 Maram al Masri 33 Laura Di Marco 35 Flavio Scaloni Davide Cortese 37 Redazione Giuseppe Bonaccorso 38 Pietro Bomba, Alessandra Carnovale, Annamaria Giannini 39 Arianna Degni, Laura Di Marco, Mario Lucio Marino Santalucia 41 Falcone, Valerio Francola, Fabiana Frascà, Patrizia Sardisco 42 Francesco Vico 43 Focus: Gli Haiku di Chiyo-jo di Dona Amati 44 InStante 47 Angelika Leik 48 Pasquale Comegna 51 Miloje Savic 54 Carlo Travaglini Allocatelli 56 Johan Raiz 58 InMobile 62 Animi alieni di Arianna Degni 65 InDicazioni 69 Le fantasticherie della donna selvaggia di Hélène Cixous 71 Da nessun luogo con affetto - Poesie di Iosif Brodskij 72 La passione della nuova Eva di Angela Carter 74 Quando sorride il mare di Floriana Porta 77 Edizioni Les Mots Contaminés Sotto fasi lunari di Giorgio Casali 78 Associazione culturale no-profit InChina 20, Rue Condorcet, 38000, Grenoble - Francia Mario Lucio Falcone settembre 2014 - n.6 - anno 2 www.rivistadiwali.it Direttore Editoriale Maria Carla Trapani Direttore Responsabile Giulio Gonella, Letizia Leone, Michela Pistidda Ufficio Stampa Federica Venni Technical Consulting Pierluigi Stifanelli Diwali - Rivista Contaminata Trimestrale di Arte & Letteratura Copertina Johan Raiz Quarta di copertina Angelika Leik Contatti facebook.it/diwalirivistacontaminata [email protected] ISSN 2275-0606 2 L’Editorial 80 Cari lettori, Diwali è lieta di annunciare l’ottenimento dell’International Standard Serial Number, ossia l’ISSN. Noterete in calce al colophon la presenza di questo codice, che pur nella sua natura meramente numerica ha un grande significato. Questo risultato testimonia che la nostra rivista, fatta da noi insieme a voi, risponde a tutti i requisiti di un autentico prodotto editoriale. L’ISSN è di fatti lo strumento ufficiale che consente a studenti, ricercatori, specialisti dell’informazione e bibliotecari di riferirsi in maniera precisa ad una determinata pubblicazione in serie. Pubblicare su una rivista accreditata con l’ISSN significa pubblicare in maniera certificata, con tutte le implicazioni del caso. Vogliamo condividere insieme a voi la gioia di tutta la redazione, che ha lavorato con impegno e serietà per far crescere la rivista in questi due anni di attività. È per questo motivo che abbiamo ritenuto di celebrare il traguardo raggiunto con una grande festa, in pieno stile diwaliano. Una serata di fusioni e intrecci artistici che si terrà il 14 dicembre p.v. al Circolo degli Artisti di Roma. Come sapete, amiamo i cross over, le sperimentazioni, non temiamo le incursioni in territori poco battuti: daremo quindi spazio alla video-arte, alla fotografia, all’irrompere di sonorità avanguardistiche. Proporremo letture, interviste, presentazioni, e soprattutto performances artistiche che vi impatteranno: visivamente, acusticamente, sensorialmente. L’Arte non avrà limiti, e se anche dovesse suo malgrado incapparvi, nell’Evento Contaminato troverà il posto giusto per scardinarli, scavalcarli, dissolverli nell’opera, persino fingere (?) che non esistano. L’Evento Contaminato sarà diwaliano a 360°: col cannocchiale puntato sul panorama artistico e sulle nuove promesse. E come se ciò non bastasse, i nostri grafici sono già all’o- pera per realizzare un highlight su carta, un progetto accattivante e originale che vedrà gli autori della rivista presenti in una veste inedita. Queste iniziative saranno sostenute dalla neonata Associazione culturale Les Mots Contaminés, e potrete trovare tutte le informazioni sull’evento sulle pagine internet della rivista, dell’associazione e sui relativi canali social. Come sempre, avremo bisogno del vostro sostegno, il motore ad energia rinnovabile che ha spinto Diwali ad arrivare fin qui. Diwali – Rivista Contaminata sta avanzando a vele spiegate, sta allargando il proprio bacino di lettori e conquistando nuovi spazi nel panorama editoriale: continuate a leggerci, a diffonderci... a contaminarci! Diwali - Rivista Contaminata Row of Trees, Jan Mankes, olio su tela, 1915. 3 Insistenze>>> Eterno viandante, l’artista, non è mai davvero a casa in nessun tempo né luogo. Il processo creativo implica, infatti, l’attitudine a cogliere la realtà con occhi diversi e perdersi in connessioni insolite tra elementi distinti della quotidianità. Che resta identica a se stessa, eppure si disvela differente. Ed L’iperromanticismo di Andrea Chiesi Simone scaloni ecco lo spaesamento, uno smarrimento di fronte a (s)oggetti che mostrano inaspettatamente un volto nuovo, rendendosi ad un tempo familiari e irriconoscibili. Paesaggi urbani post-industriali, nella loro decadenza quasi apocalittica sono oggetti dell’arte di Andrea Chiesi (Simone Scaloni) e del suo nichilismo attivo, opere romantic-noir incentrate sulle tematiche principali della memoria e del lavoro, dove il Tempo è visto come un Chronos implacabile e saturnino, che divora i suoi figli e, con loro, ciò che avevano prodotto. Proseguiamo con i complessi interventi artistici di Christo e Jean-Claude cio storico o di un particolare ambiente naturale, risvegliando un sentimento di meraviglia e stupore per quanto ritenuto fino a quel momento già “noto”. “Spaesamento” può essere, poi, anche la condizione del traduttore, nello svolgimento della sua professione, sempre in bilico tra una lingua e un’altra, un genere letterario e un altro, una cultura e un’altra, tra la propria personalità e quella dell’autore originale (Incontro con Michele Piumini). Dello spazio urbano, seppure con modalità completamente differenti, si appropria anche Bansky (Valerio Francola) e la sua arte di strada. Ed è in virtù di questa incursione nel vissuto di ogni passante, potenziale spettatore, che la Street Art trova il modo di sorprendere, di far riflettere, anche sorridere, in virtù dei suoi temi contro la guerra, anti-capitalistici, anti-establishment e a favore della pace e il suo stile originale in cui elementi quotidiani, ma anche personaggi, opere famose vengono trasformate, quasi stravolte, grazie all’aggiunta di elementi “estranei”. Con Mara Quadraccia ci avventuriamo, invece, nella Manhattan di Amir Wahib, ar- Andrea Chiesi è un pittore emiliano, nato a Modena il 6 novembre 1966, che vive e lavora nella sua terra. Autodidatta, si forma all’inizio degli anni Ottanta negli ambienti Punk e Underground dei primi centri sociali italiani e al contatto di gruppi musicali e artisti affermati come Osvaldo Arioldi e le Officine Schwartz, Emidio Clementi e i Massimo Volume, Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni e i CCCP Fedeli alla linea, il Consorzio Suonatori Indipendenti. La Controcultura, la contestazione all’establishment, la tendenza romantica all’anarchia e alla radicalità, rappresentano il punto di partenza per l’ispirazione artistica dell’autore. L’Iperrealismo americano degli anni Sessanta, la grafica d’animazione giapponese e la fotografia industriale ne costituiscono invece i diretti riferimenti iconografici e stilistici. A un primo sguardo ai dipinti di Andrea Chiesi è difficile non rilevare subito un senso di decadenza, straniamento, inquietudine. Sono paesaggi metropolitani contemporanei nei quali è del tutto scomparsa ogni forma di vita. Non ci sono esseri umani, non ci sono animali. Anche le giostre, i camion e le automobili sembra che si muovano da soli, senza conducenti a guidarli. Gli alberi sono un profilo nero e frastagliato all’orizzonte, sotto cieli lirici e tumultuosi da Giudizio Universale. Sono scenari urbani che hanno attraversato l’Apocalisse e ne sono usciti desertificati, allucinati, seppure apparentemente intatti. La luce che li pervade è livida e fredda. È una luce metafisica. Eppure questi paesaggi non sono mai negativi. Il nichilismo che suggeriscono è anzi un nichilismo attivo. L’atmosfera che evocano è sì da aurora boreale o da Apocalisse di Giovanni, da fine della storia del genere umano, ma Insistenze>>> (Geremia Doria), costrutti di grande impatto visivo ed emotivo, in grado di cambiare la fisionomia di un edifi- chitetto e designer, la cui arte, influenzata dalle sue origini egizie, unisce fisica e metafisica, tempo (quasi una moderna “religione”) e spazio in una pittura che ricerca l’oltre del visibile per tracciare nuove dimensioni nei paesaggi urbani. Novello Virgilio, Neil Gaiman (Michela Pistidda), con il suo “Nessun dove” (Neverwhere) ci accompagna ad esplorare il mondo infero, caotico e pulsante della Londra Sotto, popolato di esclusi, corpi estranei della società, per aiutarci a costruire nuove geografie e identità, inventando rinnovati significati simbolici e pratiche sociali tramite un uso sovversivo degli spazi e dei tempi del margine, unica possibilità per sfuggire all’alienazione e allo spaesamento della condizione post-moderna. Maria Carla Trapani in “Pagani” ci conduce in un ager pagensis, là dove solo chi ha il coraggio di spaesarsi può trovare la propria dimensione umana ed artistica. I lettori di Diwali impareranno infine a conoscere Attilio Faroppa (Helmut Schilling), artista poliedrico per eccellenza e in continuo movimento (Svizzera, Roma, campagna umbra), capace di spaziare tra interior design, pittura, scultura, sbalzo del metallo e, ultimamente, fotografia e scrittura, dedicandosi a ciascuna di queste forme di arte con la propria personale sensibilità e raffinatezza. Alessandra Carnovale 4 5 Insistenze>>> è anche enigmaticamente positiva. Si avvertono sempre una tensione costante, un senso di attesa, quasi di minaccia incombente, ma anche un forte calore umano, addirittura un sentimento della Natura, un’energia empatica che invita alla vicinanza e alla condivisione. Si tratta di una sensazione sottile, all’apparenza contraddittoria e difficile da descrivere, ma presente e caratteristica dell’opera di Andrea Chiesi. La produzione artistica del pittore emiliano si articola tutta intorno a due temi principali: la Memoria e il Lavoro. È l’artista stesso a dichiarare di “sentire il dovere di ricordare” (nello specifico gli operai delle Fonderie Riunite di Modena uccisi dalla polizia durante uno sciopero nel gennaio del 1950), e che la sua opera “ha a che fare con il Tempo”. Il pittore, dunque, sente il bisogno di ritrarre quei luoghi in cui un tempo si lavorava, si produceva e si viveva. Quegli stessi luoghi in cui oggi non si lavora, non si produce e non si vive più. Da qui, probabilmente, quella sensazione di svuotamento e di sospensione dei suoi dipinti. Sono temi, questi della memoria e della storia del nostro Paese, o della nostalgia di un tempo passato e di un lavo- <<<Insistenze ro che non sarà mai più quello di una volta, centrali nell’espressione artistica di Chiesi, il quale nel suo procedere è sempre “mosso da un sentimento di irrequietezza, decadente, romantic-noir”. Ed è proprio questo sentimento romantico e nero che si percepisce nelle sue opere e che fa pensare a certe figure dei primi dell’Ottocento di Caspar David Friedrich, risucchiate e sconfitte dall’immensità e dalla sconvolgente superiorità della Natura. Anche Friedrich infatti, figura dominante del Romanticismo in pittura, nei suoi quadri esprimeva stati d’animo legati alla desolazione e all’inquietudine. Ma mentre in Friedrich era Gea, la Natura, con la sua devastante potenza tellurica a vincere sull’Uomo e le sue attività, in Chiesi è Chronos, il Tempo, il Moloch implacabile e saturnino, ad aver divorato i suoi figli e con loro ciò che avevano prodotto. Si tratta in sostanza del passaggio, avvenuto e irreversibile, dalla Civiltà della Produzione (quella dei nostri padri) alla Civiltà dei Consumi (la nostra). Ciò che è rimasto di questa transizione sono i relitti, i reperti archeologici di fabbriche, strutture industriali, magazzini, stanze d’ufficio, parcheggi, scali ferroviari e portuali. Ma anche abitazioni Pagina 5: Kryptoi 18, Olio su lino, 70x100, 2007. Sotto: Ucronie 36, Olio su lino, 70x100, 2014. Pagina 7: Ucronie 23, Olio su lino, 100x70, 2013. 6 7 Insistenze>>> private, luna-park e sale-giochi, biblioteche e ambienti ricreativi, scale e corridoi, androni e sale d’attesa, vetrate e spogliatoi, servizi igienici per impiegati e operai. Una sorta di mondo ai confini della realtà, deserto e inospitale, un paesaggio postindustriale e postmoderno, sul quale è calato il silenzio dell’obsolescenza e dell’oblio, ma carico di energia, illuminato da un’intensa luce spirituale, e capace di vibrare e generare emozioni forse più di prima. È questa la magia dei luoghi ritratti da Andrea Chiesi, immobili e sospesi, ma inspiegabilmente attraenti e magnetici. L’elemento della distorsione spazio-temporale, dello straniamento, dello slittamento in un’altra dimensione, sia caratteristica costitutiva della grande tradizione italiana. Pensiamo alla Metafisica di Giorgio De Chirico e Carlo Carrà, ai paesaggi di Mario Sironi e agli interni di Felice Casorati, alle nature morte di Giorgio Morandi, ma anche a certe sequenze cinematografiche indimenticabili di Federico Fellini e Michelangelo Antonioni, alle pagine di Ennio Flaiano (tanto per citarne alcuni). Lungi dal voler fare paragoni o anche solo suggerire accostamenti, sempre rischiosi e spesso inopportuni, sembra che l’opera e la poetica di Andrea Chiesi si inseriscano con dignità e coerenza nel solco di questa gloriosa tradizione nazionale. La tecnica operativa di Chiesi per la realizzazione dei suoi dipinti si avvale sempre del supporto fotografico dal quale non può prescindere. L’artista prima fotografa i suoi soggetti, i paesaggi e gli interni, e poi li dipinge. Nella fase pittorica propriamente detta Chiesi fa uso di colori ad olio su tele di lino, ma anche di inchiostro nero-violaceo su carta, probabilmente per la stesura preliminare di bozzetti e disegni preparatorii. I colori utilizzati sono tre: il bianco, il nero e il grigio nelle sue diverse gradazioni. Quindi un colore unico, in realtà, che va dal minimo d’intensità luminosa (il nero) al massimo (il bianco) Occasionalmente compaiono piccoli elementi rossi. Dunque una tavolozza ridotta al minimo a conferma del carattere essenzialmente grafico, incisivo e romantic-noir dello stile del pittore. I tempi di realizzazione sono lunghi e sapienti, dal momento che l’artista trascorre la maggior parte delle sue giornate chiuso in laboratorio a dipingere, con lentezza e pazienza artigianale, come si faceva una volta. Infine, è interessante rilevare come Andrea Chiesi, nella scelta dei titoli per le sue ormai numerose mostre personali, faccia spesso ricorso all’uso del vocabolario greco dell’Antichità Classica. E così ci imbattiamo in termini come Apokalypsis, Siderale (di ferro), Moloch/Chronos (Saturno, il Tempo), Thule (l’Altrove identificato nella mitica isola dell’Atlantico del Nord, terra di ghiaccio e fuoco sulla 8 <<<Insistenze quale non tramontava mai il Sole, abitata dal popolo degli Iperborei e organizzata in una società ideale pressoché perfetta, da sempre considerata il confine estremo della Terra o addirittura al di là della Terra conosciuta), Kryptoi (appellativo che nell’antica Sparta veniva attribuito ai ragazzi che si rifiutavano di sottostare a qualunque gerarchia o forma di potere costituito, che vivevano da antagonisti nascosti ai margini della città, avevano il cranio rasato e vestivano sempre di nero), Metamorphosis, Chaos, e il più recente Ucronie (allostorie, fantastorie, storie di un Altrove). Goethe,appena arrivato in Italia, scrisse che “dove c’è molta luce l’ombra è più nera”. Cèline, dal canto suo, che “tutto ciò che c’è di interessante accade nell’ombra. Non si sa nulla della vera storia degli uomini”. Andrea Chiesi, forse per proporci una chiave di lettura della sua opera, scrive: “Uffici, qualche scrivania, telefoni e computer fuori uso, faldoni abbandonati, calendari impolverati, sedie, ricordi evanescenti, echi delle vite trascorse fra queste mura. Lavoro statale, posto fisso, sicuro, pensione, e poi figli che invece hanno dovuto affrontare il tempo del precariato diffuso. Muri scrostati, bagni inservibili. Posti dimenticati, sospesi, inutili, morti, in attesa di scomparire del tutto…e poi giù nei sotterranei, buio pesto, l’occhio si è abituato e un po’ alla volta ha iniziato a vedere. Avrebbe potuto esserci di tutto qui sotto, una catacomba, un mitreo, cadaveri o refurtiva clandestina. Invece non c’era nulla. Non ero deluso. C’era quello che conta, c’era e non si vedeva”. Pagina 9: Ucronie 25, dettaglio, Olio su lino, 50x70, 2013. *[Simone Scaloni vive a Roma tra le pieghe di una decennale passione per l’arte. Diplomato in restauro pittorico, si laurea in seguito in Storia dell’Arte. Si interessa particolarmente alle stampe dell’800 ma non si preclude incursioni nelle manifestazioni dell’arte contemporanea.] 9 <<<Insistenze svelare velando geremia doria Insistenze>>> Land: terra, territorio, paesaggio. Quello offerto dalle multiformi variazioni della natura, o quello realizzato dall’uomo; ancora, le architetture, quelle storiche e millenarie, e quelle simboliche e cariche di significato. È in questi territori che si muove la creatività di Christo e Jean-Claude, coppia simbolo del lavoro sulla percezione visiva dello spazio. È la Land Art, l’arte che si cala nel paesaggio e lo trasforma, transitoriamente, per restituirlo uguale a se stesso eppure completamente nuovo. Opere imponenti e complesse, che a partire dagli anni ‘60 hanno cambiato i connotati di luoghi famosissimi oppure pressoché sconosciuti fino ad allora. Il mondo accademico dell’arte per decenni è rimasto sospettoso e chiuso di fronte alla portata innovativa e mediatica di queste opere; il mercato dei galleristi e dei collezionisti, disorientati dal non poter acquistare né possedere le opere per dare loro un valore monetario, ha faticato ad entrare in sintonia con la Land Art. Ci sono voluti tempo e impegno perché questa forma di espressione venisse capita e accolta nell’olimpo dell’arte ‘ufficiale’. Siamo sul finire degli anni ‘50, Christo Vladimirov Yavachev, di origine bulgara, cresce in una famiglia di imprenditori tessili. Lascia la terra natìa, stretta nella morsa dello stalinismo più intransigente, e arriva in Austria, a Vienna, dove si iscrive all’Accademia di Belle Arti. Non completa gli studi, è irrequieto, si sposta nuovamente, prima in Svizzera, a Ginevra, poi in Francia, a Parigi. Qui conosce quasi subito Jean-Claude, sua futura sposa e partner artistica. Aderisce, seppur con scarso convincimento, alla corrente del Nuovo Realismo di Yves Klein, Mimmo Rotella, Arman. Si avvicina alle arti plastiche, alla scultura; il suo genio e il suo vissuto familiare gli suggeriscono di investigare le potenzialità espressive dei tessuti. Secondo una poetica non lontana da quella della Pop Art, Christo ha l’intuizione 10 di attribuire dignità artistica a oggetti di uso quotidiano e di scarso valore intrinseco: tutto può diventare scultura, se avvolto da tessuto e legato con lo spago o con nastri di vario tipo. Le sue prime creazioni piacciono al mercato, vendono, riscuotono interesse, e Christo capisce che la strada è quella giusta, inizia a pensare a realizzazioni ambiziose, vere e proprie sfide da un punto di vista concettuale e materico. Il 1961 è l’anno in cui i coniugi Christo realizzano la loro prima collaborazione a Colonia, rivestendo di tessuto pile di barili al porto industriale. In questi anni i Christo iniziano una nuova serie di lavori, consolidando e allargando l’uso del tessuto a nuovi supporti. Rivestono di stoffa vetrine, porte e finestre: nascondono ciò che c’è dietro, nel tentativo di stuzzicare la curiosità dello spettatore. L’atto di nascondere, di celare, diventa la cifra del loro lavoro. È in questo periodo che progettano i primi rivestimenti di interi edifici e spazi urbani. Conquistano una fama sempre crescente e i riconoscimenti sul piano internazionale non tardano ad arrivare. Il terreno è pronto per dar vita ai grandi empaquettages, colossali occultamenti di edifici, monumenti e spazi naturali. Le prime realizzazioni interessano la città di Spoleto, con la Wrapped Fountain e la Wrapped Medieval Tower nel 1968, nello stesso anno la città di Berna, con la Künsthalle. Il 1969 è denso di lavoro, con la realizzazione del Wrapped Floor and Stairway al Museo di Arte Contemporanea di Chicago e la prima opera ad alto impatto sulla natura, la Wrapped Coast in Australia. Quest’ultima un’impresa nient’affatto scontata: ricoprire un tratto di costa, per lo più articolata in scogliere, con il mare non sempre a favore, richiede uno sforzo immane. Il ripido tratto costiero che viene impacchettato è lungo quasi 2,4 Km e largo circa 250 m, raggiunge picchi di 26 m di altezza dal livello del mare: 90.000 metri quadrati di tessuto anti-erosione sono utilizzati, insieme a 56 Km di corda di polipropilene. Una squadra di 15 arrampicatori professionisti, 110 operai e studenti dell’università di Sidney lavorano per circa 17.000 ore. L’Italia è uno tra i primi paesi al mondo ad intuire l’originalità e il valore dell’arte dei Christo, e nel 1970 ospita per la seconda volta gli artisti, questa volta in Piazza Duomo a Milano: il monumento a Vittorio Emanuele rimane avvolto nel tesssuto per 48 ore. Gli artisti ritorneranno nel 1974, a Roma, per l’impacchettamento delle mura aureliane, nel tratto compreso tra Via Veneto e Villa Borghese. Nel 1972 viene innalzata la enorme tenda gialla nella Rifle Valley in Colorado: un sipario, quasi una diga, a dividere in due una immensa vallata incontaminata. È un’opera con un forte richiamo, anche politico: una struttura artificiale può dividere ciò che l’uomo è abituato a vedere e vivere come un unicum. Sempre nel ‘72 l’opera Running Fence mostra una forte somiglianza con la Grande Muraglia cinese, somiglianza curiosamente accentuata da una coincidenza: la morte di Mao Tse-Tung avvenuta il giorno prima l’inaugurazione dell’opera. La struttura è lunga quasi 40 Km e resta in loco per due settimane prima di essere debitamente rimossa e tutti i materiali riciclati. Pagina 10: Wrapped Fountain, Spoleto,1968. Reinterpretazione di Pietro Bomba. Sopra: Valley Curtain, Colorado, 1972. Quattro anni dopo, nel ‘76, in California, un’opera non dissimile nel significato viene realizzata alzando una staccionata di tessuto attraverso le contee di Sonoma e Marin. Gli anni ‘80 sono quelli che consacrano Christo e JeanClaude, cui tutto sembra ormai permesso. Nel 1983 prende corpo un progetto impensabile: rivestire di tessuto gli isolotti di un arcipelago. 600.000 metri quadrati di polipropilene rosa rivestono le coste delle isole della baia di Biscayne in Florida. Le isole, che fino ad allora erano state utilizzate quasi solo come discariche, si elevano al rango delle Ninfee di Claude Monet. Nel periodo tra il novembre 1982 e l’aprile 1983 furono venduti oltre 5.000 biglietti di elicottero per sorvolare e osservare l’arcipelago in questa veste. L’equipe dei Christo comincia a comprendere che anche i materiali preparatori utilizzati – tavole, bozzetti numerati, fotografie originali in tiratura limitata, modellini in scala, prove di tessuti – possono avere un mercato, e contribuire così al sostenimento delle spese: tutto viene messo in vendita, e il mondo dell’arte, alla ricerca di collectibles, risponde in maniera entusiastica. Sembra che si sia finalmente trovato il modo di toccare con mano opere intangibili, soddisfacendo i collezionisti a caccia dell’affare e gli artisti alla ricerca di fondi. 11 Insistenze>>> Nel 1985 la coppia è a Parigi. Il Pont Neuf è uno dei monumenti più amati della città, il ponte sulla Senna più antico della capitale, uno dei luoghi più visitati e fotografati al mondo. Per i Christo guadagnarsi l’approvazione ha significato una battaglia durata 10 anni. L’autorizzazione dovette arrivare dal sindaco della città, Jacques Chirac, e dal presidente della Repubblica, François Mitterand. I 40.000 mq di stoffa in poliammide ricoprirono il ponte e lo colorarono d’oro per due settimane. Nel 1991 il duo di artisti è in Giappone, paese notoriamente povero di spazi aperti illimitati. Qui i Christo pensano di intervenire con il collocamento di 1340 ombrelli blu nella regione di Ibaraki. Un’opera gemellata con i 1760 ombrelli gialli che nello stesso anno sono disposti in California. The umbrellas sono un’unica opera d’arte, in due sedi, separate dall’oceano. Il progetto più dispendioso dei Christo, arrivato a costare 26 mld di dollari. Ogni ombrello è alto sei metri, con un diametro di circa 9 metri e un peso complessivo di 200 Kg. Nello spazio limitato e prezioso del Giappone gli ombrelli sono disposti in maniera intima, molto vicini gli uni agli altri, a seguire le geometrie delle risaie; nella vegetazione lussureggiante, acquatica, gli ombrelli sono di un blu carico. Nelle vastità della California e delle sue terre da pascolo, la configurazione degli ombrelli è libera e senza direzione precisa. Le brune colline della California sono tappezzate di macchie dorate, come funghi incantati. Con quest’opera emerge come i Christo siano andati ben al di là dell’impacchettamento, per dare vita ad installazioni sempre più complesse nel paesaggio. L’empaquettage del Reichstag di Berlino è il coronamento del sogno di una vita: 24 lunghi anni di preparazione e di battaglie politiche, per ottenere permessi che arrivano nel 1995, anno in cui i lavori iniziano. L’opera è pronta nel Maggio dello stesso anno e riscuote un successo clamoroso. Nel 1998 prende vita l’installazione dei Wrapped Trees, alla fondazione Beyeler di Basilea. Gli artisti avvolgono la cima degli alberi in polipropilene lasciando libero il tronco, a mostrare la forma primordiale dell’albero. Il tessuto lascia intravedere i rami che premono contro l’esterno, come se madre natura si stesse sensualmente mostrando agli spettatori. L’opera rimane in mostra per 3 settimane durante l’autunno, esposta alle intemperie. The gates al Central Park, del 1995, nel cuore di Manhattan, la città che non dorme mai e in perpetuo movimen- 12 <<<Insistenze to, una realizzazione zen, meditativa, di cancelli dai quali sventolano drappi di stoffa arancione. Jean-Claude, parlando del proprio lavoro, lo ha definito come ‘incentrato sul sentimento di Meraviglia’: creare stupore, riaccendere la curiosità, svelare qualcosa di nuovo... occultando qualcosa di preesistente. L’opera d’arte, architettonica, paesaggistica, naturale, c’è già. Il compito dell’artista è quello di richiamare l’interesse dello spettatore, introducendo una variazione, una modifica nel colore, nella forma, nella percezione della luce. Meravigliarsi di qualcosa che si conosce, o meglio, che si pensava di conoscere fino all’intervento di Christo e JeanClaude. ‘Tutta la nostra opera può essere intesa come un grido di libertà’ *[Geremia Doria nasce a Trieste nel settembre di 40 anni fa. Interior designer di professione, si interessa di antiquariato e collezionismo d’arte. Frequenta con regolarità gallerie e case d’asta e negli anni acquisisce e affina le proprie competenze nell’arte contemporanea, con una forte predilezione per gli autori figurativi. Scrive note critiche e monografie per diverse riviste di settore. Vive con uno Scottish terrier e non è presente in nessun social network.] Pagina 12: Surrounded Islands, Miami – Florida, 1983. Sopra: Wrapped Reichstag, Berlino, 1995. Tutte le immagini sono reinterpretazioni fotografiche di Pietro Bomba. 13 <<<Insistenze Nel laboratorio del traduttore Diwali incontra Michele Piumini DRC: Puoi farci qualche esempio delle trappole linguistiche di fronte alle quali il traduttore rischia di ritrovarsi lost in translation? MP: Uno dei rischi maggiori è quello dei calchi: trovandosi continuamente a contatto con una lingua straniera, è facile che il traduttore, senza rendersene conto, riproduca nella lingua d’arrivo strutture tipiche (nel mio caso) dell’inglese ma non dell’italiano. A volte è difficile tracciare un confine netto tra ciò che è accettabile nella nostra lingua e ciò che non lo è, e mi è capitato di trovarmi in disaccordo con i miei revisori: le lingue sono sistemi in continua evoluzione, anche e soprattutto in seguito alle traduzioni dall’una all’altra (vedi il verbo “realizzare” usato nel senso dell’inglese to realize), ed esistono strutture linguistiche “borderline”. Ma ciò non toglie che ci siano calchi immediatamente riconoscibili come tali, per quanto diffusi: pensiamo per esempio a “prendere un respiro” (fino a prova contraria, in italiano i respiri si fanno). Insistenze>>> DRC: Michele, innanzitutto parlaci di te: la tua formazione, le traduzioni che hai all’attivo, i tuoi attuali progetti. MP: La mia prima vera traduzione risale al 2000, nel pieno degli studi universitari. Non ho una formazione specifica orientata alla traduzione: gli studi di lingue e letterature straniere moderne mi hanno aiutato poco o nulla in questo senso; la motivazione e la passione per questo lavoro sono nate sul campo e grazie a un profondo amore per la lingua inglese che coltivo da una ventina d’anni. A tutt’oggi, fra libri per ragazzi, romanzi, raccolte di racconti e saggi di vario genere (soprattutto musicali) ho all’attivo oltre sessanta titoli. Attualmente sto traducendo The Believing Brain, un interessantissimo saggio di Michael Shermer, direttore della rivista americana «Skeptic». Seguirà Hercule Poirot and the Greenshore Folly, un inedito di Agatha Christie. DRC: Ti sei quindi occupato di narrativa come di saggistica, e all’interno della narrativa hai avuto molte esperienze nella traduzione di letteratura d’infanzia. Come cambia il ruolo del traduttore rispetto al genere? MP: Tradurre per l’infanzia richiede un equilibrio difficile da definire, che si apprende con l’esperienza: da un lato occorre trovare soluzioni “a misura di bambino”, dall’altro non bisogna eccedere nel semplificare e “bambineggiare”, per evitare di risultare paternalistici (per esempio, mai aggiungere diminutivi assenti nell’originale). In ogni caso, ciascun genere richiede competenze specifiche. DRC: Ti sei mai occupato di poesia? In caso contrario ti piacerebbe? MP: Mi è capitato di tradurre testi in rima per bambini, non poesie per lettori adulti. Da appassionato musicofilo e musicista dilettante mi piacerebbe provare, per misu- 14 dare al lettore l’impressione di leggere un testo scritto nella propria lingua, vale a dire non tradotto. Il che ci porta al “cuore paradossale” dell’arte del tradurre: più il traduttore è bravo, meno si avverte la sua mano. È il tema, ampiamente discusso, del “traduttore invisibile”. rarmi con un tipo di traduzione che richiede massima attenzione all’aspetto ritmico e, per l’appunto, musicale del linguaggio. DRC: Entrando nel vivo del processo traduttivo, quali sono le maggiori difficoltà del mestiere? MP: Come accennavo prima, ogni genere ha le proprie caratteristiche e difficoltà. Per tradurre saggistica, per esempio, occorre saper svolgere ricerche mirate ed efficaci, e per spaziare da un genere all’altro bisogna sapersi calare in maniera quasi “camaleontica” nei vari registri: even if lo puoi tradurre “malgrado” in un romanzo o in un saggio, non in un libro per bambini. Nel complesso, c’è una “regola d’oro” che vale sempre: tradurre bene significa saper DRC: Quali sono le maggiori difficoltà di resa a livello stilistico? MP: In generale, possiamo dire che tradurre narrativa richiede uno sforzo ininterrotto per “annullarsi” nella voce dell’autore: una certa dose di soggettività è inevitabile, ma occorre resistere alla tentazione di “abbellire” il testo, riscriverlo mettendoci del proprio (non è facile, specie quando si traduce per la/e prima/e volta/e) e soprattutto sciogliere i nodi, spiegare ciò che l’autore lascia volutamente oscuro. Nella saggistica, genere per definizione denso e “informativo”, occorre impostare sintatticamente i periodi in modo da renderli chiari e “naturali” senza perdere per strada nessun elemento: un risultato che, essendo l’inglese per sua natura più sintetico e quindi in qualche modo più “nonfiction-oriented” rispetto all’italiano, spesso si ottiene inserendo subordinate o addirittura sdoppiando i periodi. e al tempo stesso di compartecipazione che consente di trasporre contenuti e forme linguistiche da una lingua all’altra? MP: Difficile rispondere senza fare esempi concreti, in ogni caso la traduzione (non sono certo il primo a dirlo) è un processo di negoziazione continua: l’equidistanza è un ideale a cui si tende costantemente, ma a volte, per garantire la leggibilità del testo, sacrificare (ed eventualmente “italianizzare”) qualcosa è inevitabile. Va inoltre ricordato che esistono lettori e lettori: chi legge un saggio è mediamente attrezzato a comprendere riferimenti “altri”. C’è poi la nota del traduttore, strumento al quale per varie ragioni è bene ricorrere con parsimonia: sta alla sensibilità del singolo traduttore decidere quando è il caso, ed è comunque prevista e accettata solo nell’ambito di certi generi testuali. DRC: Quali sono le strategie da mettere in atto di fronte all’impossibilità di trovare un corrispettivo adeguato a espressioni linguistiche o concetti culturalmente specifici? MP: Dipende dal contesto. Mi è capitato di trovare il termine changeling in una biografia di Jim Morrison di cui ho tradotto una parte: se si fosse trattato di un libro sul folklore americano avrei lasciato il termine in inglese aggiungendo la definizione, ma in quel particolare caso ho scelto, prendendomi una piccola libertà, di renderlo con “trovatello”. Non è la stessa cosa, ma ho ritenuto che nel contesto il termine potesse avere un senso sufficientemente simile a quello di changeling nell’originale. DRC: Ti è mai capitato di incontrare difficoltà insormon- DRC: La traduzione quindi è un processo che comporta necessariamente uno spaesarsi, un rinunciare alla propria identità linguistica per approdare nella terra di nessuno tra due universi culturali, farsi ponte per il testo e per i lettori. Ci sono particolari strategie che metti in atto per raggiungere questa particolare posizione di equidistanza 15 Insistenze>>> tabili e quindi di rinunciare alla scelta di un traducente? In questo caso, sei favorevole o contrario alle note a piè di pagina? MP: Credo che si possa parlare di intraducibilità insormontabile solo a proposito delle cosiddette culture-bound words, vale a dire le parole (come l’appena citato changeling) che si riferiscono a idee o oggetti specifici di una cultura e in quanto tali intraducibili nelle altre lingue: anche l’italiano ne ha (basti pensare a “pizza”). Se il contesto impone di riprodurle nella loro forma originale e di fornire la definizione, tendo a inserire quest’ultima direttamente nel testo: la nota del traduttore, che spezza l’uniformità grafica della pagina, la riservo a questioni che richiedono un chiarimento più ampio. DRC: In genere qual è il tuo atteggiamento nei confronti del testo culturalmente dato e quindi, in ultima analisi, del lettore: preferisci mantenere un senso di straniamento oppure scegli di addomesticare il testo? Puoi farci qualche esempio? MP: Una delle domande più frequenti che gli allievi mi fanno è: “Quanto bisogna essere fedeli all’originale? Quanto ci si può allontanare?”. Non esiste una formula sempre valida, non parliamo di una scienza esatta: l’unica soluzione è valutare caso per caso, e l’unica indicazione che mi sento di dare, e alla quale cerco di attenermi per quanto possibile, è che bisogna allontanarsi dall’originale solo se è davvero necessario. Naturalmente il concetto di “necessario” è quanto mai relativo: proprio per questo, si può e si deve discutere di ogni singolo caso. DRC: Parliamo del rapporto con l’autore. Sappiamo che spesso il traduttore può e anzi deve interloquire con l’autore per poter proporre una resa adeguata dei punti più oscuri o ambigui. Puoi raccontarci qualche tua esperienza? MP: Ultimamente mi capita quasi sempre di scrivere ai “miei” autori: mi presento e chiedo il permesso di contattarli in caso di dubbi o domande. Sono sempre molto felici di collaborare, perché lo interpretano come un segno di professionalità e scrupolosità. L’esperienza più sorprendente in questo senso riguarda Simon Reynolds, un critico musicale inglese del quale ho tradotto Post-punk 19781984, Hip-hop-rock e Retromania: avendogli segnalato 16 <<<Insistenze alcune imprecisioni nei primi due libri (utili ai fini di eventuali ristampe), mi ha inserito nei ringraziamenti del terzo. Qualche mese fa, a New York, ho avuto il piacere di pranzare insieme a Will Hermes, un altro giornalista musicale, del quale ho tradotto New York 1973-1977. DRC: Come cambia quindi l’atteggiamento nei confronti del testo se l’autore non è più in vita, ad esempio nel caso della ritraduzione dei classici? MP: Nell’impossibilità di comunicare con gli autori scomparsi, in caso di dubbi un paio di volte (traducendo Jack Kerouac e Oscar Wilde) mi è capitato di entrare in contatto con i curatori dei volumi originali. Riguardo al testo, cerco di mantenere un non sempre facile equilibrio tra la fedeltà al tono e al linguaggio “d’epoca” dei classici e la necessità di produrre una versione che sia leggibile al giorno d’oggi. DRC: Per quanto riguarda invece il rapporto con l’editore, puoi svelarci qualcosa di ciò che avviene dietro le quinte, ossia in redazione? MP: Ogni editore fa storia a sé, e molto dipende dalle dimensioni: più l’editore è grande, più può permettersi di diversificare il lavoro, assegnando le varie fasi (correzione bozze, editing, impaginazione...) a persone distinte. Nelle realtà più piccole, invece, è tipico il caso dell’editore in persona che fa “tutto da solo”. In veste di traduttore a confronto con i revisori, mi capita raramente di dover ingoiare rospi o avere a che fare con personaggi irragionevoli: nella stragrande maggioranza dei casi, la proficua collaborazione con revisori eccellenti permette a me e a loro di imparare molto, ed è la strada maestra per arrivare alla migliore versione possibile del testo. DRC: Sappiamo che sei anche insegnante di traduzione: ci racconti la tua esperienza con Herzog? MP: È nata nel 2005 quasi per caso, grazie a un incontro fortuito. Non avevo mai insegnato prima, ma per qualche ragione sentivo che era nelle mie corde, perciò mi sono proposto. Nove anni dopo, non posso che dirmi felice di aver assecondato quell’istinto: il feedback dei miei allievi è regolarmente positivo, e la soddisfazione più grande è aver aiutato molti di loro a cominciare a tradurre (se esordienti assoluti) o incrementare notevolmente il volume delle traduzioni. Alcuni dei titoli che hanno tradotto (per esempio Argo, cotradotto dalla mia collega ed ex allieva Sara Crimi) suscitano tutta la mia invidia! Senza contare, ovviamente, tutti gli spunti che gli allievi mi danno permettendomi di migliorare continuamente e imparare da loro almeno quanto loro imparano da me. tempo stesso creatività. Le tariffe sono in genere molto basse, il riconoscimento da parte della collettività e del mondo della cultura in generale è scarso, per non dire inesistente. La situazione oggi è ancora invariata? Vedi qualche spiraglio per il futuro dei traduttori? MP: Gli spiragli sono pochi, è vero, ma per esperienza posso dire che ci sono: qualche mese fa una mia ex allieva diventata editor di una piccola casa editrice mi ha chiesto dei nomi per organizzare una prova di traduzione, e ora alcuni altri allievi stanno lavorando per lei. So di insegnanti che scoraggiano gli allievi, perché “diventare traduttori è impossibile”: è un atteggiamento che non capisco, se lo pensassi anch’io non vedrei motivo per continuare a insegnare. Ciò non significa che io voglia in alcun modo sminuire le enormi e innegabili criticità: quello del traduttore, in particolare nel nostro paese, è un lavoro difficile da cominciare, malpagato, poco riconosciuto e sostanzialmente privo di garanzie. Proprio per questo io consiglio di provarci solo a chi è davvero motivato, perché solo la motivazione, unita a un pizzico di fortuna, può regalare al traduttore soddisfazioni straordinarie, tali da convincerlo che ne vale la pena. DRC: Come cambia il ruolo del traduttore quando si fa insegnante per trasmettere i ferri del mestiere? MP: Insegnare a fare il proprio mestiere è un’esperienza unica, che consiglio a chiunque ne abbia la possibilità, soprattutto se parliamo di un lavoro, come quel del traduttore, nel quale non si “arriva” mai: si può (e si deve) migliorare sempre. Il confronto con gli allievi mi permette di inquadrare il mio lavoro da un punto di vista diverso e, come già detto, di imparare moltissimo: spesso dalla “freschezza” degli esordienti spuntano istintivamente soluzioni più efficaci di quelle trovate dopo lunga riflessione dal traduttore affermato. Ogni volta che le loro idee mi piacciono più delle mie, e non capita di rado, sono felice di riconoscerlo. DRC: Quello del traduttore non è un mestiere facile: richiede competenze, impegno, abnegazione, rigore e al 17 <<<Insistenze Dietro al muro dell’arte: il mistero di Banksy Valerio francola Insistenze>>> Osservare le opere di Banksy, scorrendo le immagini senza soluzione di continuità, dà fin da subito l’impressione di essere di fronte a qualcosa di nuovo. Ancor prima di conoscere e approfondire il personaggio si ha la percezione che la cosiddetta Street Art con Banksy raggiunga una dimensione, pur discussa, di autentica arte. Sono diverse le intuizioni dell’artista inglese che suscitano un meritato interesse. Partiamo dalla tecnica dello stencil, utilizzata intensivamente, che diventa uno strumento allo stesso tempo funzionale e simbolico per la Street Art: si tratta di una metodica molto veloce ed economica che ben si presta all’utilizzo da parte di giovani artisti (spesso con pochi soldi in tasca), costretti a esprimersi attraverso un linguaggio illegale. La tecnica si lega inevitabilmente all’altra caratteristica fondamentale dell’opera di Banksy e più 18 in generale della Street Art, la superficie impiegata: è lo spazio pubblico, urbano, architettonico e paesaggistico. Il fruitore dell’opera è il semplice passante, o chi si affacci da una finestra su un palazzo diventato ‘tavola’ o ancora chi, seduto su una panchina di una stazione ferroviaria, aspetti il proprio treno. La città diventa un museo a cielo aperto, tutti siamo potenziali spettatori: Banksy rapisce i passanti inconsapevoli, strappandoli alla loro quotidianità, anche solo per pochi secondi. È in questa incursione nel nostro vissuto che la Street Art trova il modo di sorprenderci, di farci riflettere, sorridere, spesso amaramente. Il messaggio diventa immediato, libero da preconcetti, arriva dal muro grezzo dritto alla componente emotiva di ognuno di noi. Cerchiamo di capire meglio chi è Banksy. Nasce a Bristol, sesta città più popolosa dell’Inghilterra famosa per la produzione del cartone, probabilmente nel 1974 o 1975. Non si tratta di incertezza di chi scrive, Banksy vincola la sua attività all’anonimato, scoop e informazioni sulla sua presunta identità si rincorrono da anni. In una ‘sedicente’ intervista al The Guardian, fu lo stesso giornalista a domandare alla persona che sedeva di fronte a lui come avrebbe potuto avere la certezza di intervistare il vero Banksy. La risposta fu: ‘You have no guarantee of that whatsoever’, ‘Even his mum and dad don’t know who Banksy is’ e ancora ‘They think I’m a painter and decorator’. L’anonimato è per Banksy in parte una necessità, per poter lavorare serenamente senza incorrere in continue problematiche legali, ma è anche indubbiamente una geniale mossa pubblicitaria. La strategia ha attirato l’attenzione di gente comune e di molti personaggi celebri, affascinati dalla scelta in controtendenza di un artista che decide di rimanere nell’ombra in un mondo dove affermare la propria fama sembra un must. L’anonimato dà a Bansky la libertà di lavorare su qualsiasi tema, senza vincoli di alcun tipo, anche quando vengano trattati argomenti politicamente o eticamente controversi: le rappresentazioni dall’artista infatti ruotano quasi sempre intorno a slogan contro la guerra, anti-capitalistici, anti-establishment e a favore della pace. In qualche occasione anche le opere più ironiche e ‘leggere’ riportano immagini che possono destare reazioni negative, soprattutto quando il fruitore non sceglie di guardare ma è spettatore obbligato (a volte fin troppo giovane …), come già abbiamo accennato in precedenza. Sono un esempio le opere raffiguranti gli organi riproduttivi femminili resi attraverso il naturale sviluppo di una pianta cresciuta lungo un muro o ancora la celebre cabina telefonica piegata e sanguinante di Londra, ferita da una lancia infilzata. Non possiamo pretendere per Banksy quello che nemmeno artisti più ‘tradizionali’ della storia dell’arte hanno avuto, e cioè un consenso unanime della critica. A metà tra l’essere considerato infatti un vandalo e l’estremo opposto, ovvero un rivoluzionario impegnato nello stravolgimento dello status quo culturale (si veda il murales in cui gli attori di Pulp Fiction impugnano banane invece di pistole), la carriera di Banksy è una escalation di idee radicali. Prima di tutto i famosi Rats, apparsi per la prima volta nelle strade di Bristol, per poi invadere anche le vie di Londra, New York e Parigi; i Rats sorreggono cartelli con messaggi tra i più svariati, da ‘we are all fakes’ a ‘you lie’, fino al simbolo della pace. Ma sono rappresentati anche impegnati nell’utilizzare oggetti per loro ‘inusuali’ come macchine fotografiche, ombrelli o armi. Il soggetto dei topi è stato scelto in quanto si tratta di esseri odiati, cacciati e perseguitati, eppure capaci di mettere in ginocchio intere civiltà. ‘Se sei piccolo, insignificante e poco amato allora i topi sono il modello definitivo da seguire’, ha affermato l’artista stesso. L’attività di Banksy non si ferma soltanto agli spazi aperti, anche sedi istituzionali diventano oggetto delle incursioni del writer inglese. Tra le sale dei più apprezzati musei internazionali si sono trovate ‘stranezze’ senza precedenti: aggiunte di elementi palesemente contrastanti con le opere originali (oggetti contemporanei, personaggi che fuoriescono dal quadro etc.). In alcuni casi i musei hanno deciso di mantenere l’opera ‘abusiva’ nella propria collezione permanente: emblematico è il caso della piccola tavoletta ‘primitiva’ raffigurante una figura umana stilizzata a caccia mentre spinge un carrello della spesa, ancora visibile nella Galleria 49 del British Museum. Sono soltanto alcuni esempi importanti di idee che hanno reso Banksy sempre più conosciuto a livello internazionale, non solo per il suo profilo satirico e umoristico ma an- Pagina 18: Uno dei Rats apparsi nelle strade di Londra. Sopra: West Bank Barrier, Israele, 2005. Tutte le immagini sono reinterpretazioni fotografiche di Giulio Gonella. 19 Insistenze>>> te delle difficoltà che ha dovuto affrontare, Banksy segue senza interruzione, con decisione e convinzione, il suo percorso. Possiamo plausibilmente considerarlo come colui che ha elevato la Street Art a livelli impensati prima, a dispetto di quanti hanno sempre considerato questa forma d’arte come l’espressione metropolitana del malessere di minoranze etniche anglo-americane. «Creating a work of art is creating a world; art is never an adventure of fancy because in a work of art the primordial forces must come out clearly» W. Kandinsky *[Valerio Francola è uno storico dell’arte romano formatosi all’Università ‘La Sapienza’ specializzandosi negli studi dell’arte contemporanea. Collabora con diverse riviste come critico ed opinionista e negli ultimi anni ha avuto modo di approfondire il complesso tema dei beni culturali nell’ambito del lavoro di ricerca portato avanti dalla Fondazione Astrid e culDue opere in cui Banksy rielabora immagini molto note: la fotografia che ritrae la disperazione di Kim Phúc durante la guerra del Vietnam. La bambina è tenuta per mano da Mickey Mouse e Ronald MacDonald. La colomba della pace con un giubbetto anti-proiettile e il mirino di un cecchino puntatole contro. 20 Amir Wahib and the Perspectives of Time Mara Quadraccia minato con la sua collaborazione alla recente pubblicazione ‘I beni culturali tra tutela di mercato e territorio’, a cura di Luigi Covatta, edita da Passigli Editore.] The creative process of the young talented Amir Wahib has deep and solid roots in his culture: not only Time but also Place. Having an influence on our formation as human beings these two basic elements are fully balanced in the artist. His long and challenging project on clocks and buildings in Manhattan comes, consciously or unconsciously, from a specific time and place; his Egyptian origin and his home in Heliopolis remind us of the obelisks and the pyramids that force us to look up at the sky while firmly standing on the ground. It is the attitude of the ancient and modern man in the in the quest for a meaning of “religo”, the connection between earth and heavens, physics and metaphysics. The image of Aton may easily appear considering Amir’s attraction for the present religion of Time: the artist proudly claims that he has a complete respect for punctuality “clocks show the perfection that humans have reached”. It is no accident that he has chosen to conduct his project in N.Y.C., the city that never sleeps, where you have to be on time or you may take your time, whose very heart is Times Square. Times and squares, clocks and buildings, going beyond time and beyond space, from visible to invisible and, through art, back from the invisible to the visible The artist, an architect and designer, has the ability to discern orderly patterns where lines build up other dimensions and unveil new perspectives in urban landscapes Amir owes a great deal to the early Impressionists, especially Matisse, even in the subjects of some of his paintings, as according to his favorite master “Art is made of balance… in a way like a good chair”. In fact chairs are some of Amir’s favorite subjects, which he identifies as male elements: an empty chair seems to be waiting for someone but with no need to be occupied as it rests on the basis of its four legs, like four pillars or four lines formed by an intersection. His art is also generated from Kandinsky in the dynamic utilization of warm and cold colors, yellows and blues, and of points, lines and curves. The inner subjects open up to far away perspectives sometimes on a calm horizon, more often on a succession of elements, like doors, shutters or windows which still convey a sense of waiting, for something to happen or for someone to arrive. The lack of a human figure in these works does not betray a lack of interest in the human body; his first painting Insistenze>>> che per performance dalla valenza ideologica importante: nell’agosto del 2005 l’artista ha realizzato 9 murales lungo il muro che Israele ha eretto lungo le zone di Betlemme, Ramallah e Abu Dis (Cisgiordania). Si tratta di ‘squarci’ realizzati con la tecnica del trompe l’oeil che permettono di ‘guardare’ al di là del muro, talvolta insieme a figure di adolescenti, vittime di un sistema che non li tutela a sufficienza. Pur tra diverse difficoltà Banksy, molte delle quali emerse chiaramente ripercorrendo opere e temi dell’artista, continua a lavorare seguendo il suo metodo. Non importa se un anonimo writer nel 2010 oscura la sua reinterpretazione della Santa Teresa del Bernini, raffigurata con in mano delle patatine e un panino in via Benedetto Croce a Napoli; o ancora non importa se l’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg, nel 2013 ha definito i graffiti ‘segni di decadenza’ riferendosi al lavoro che Banksy stava portando avanti riqualificando i muri di diversi quartieri di New York, da Staten Island all’Upper West Side; e ancora non importa essere corteggiati da potentissime multinazionali. Anche di fronte a tutto questo e forse anche grazie a mol- 21 Insistenze>>> being a portrait of his mother, then presenting female figures as the central subjects of some of his most fascinating works. There he seems to get closer to Nolde’s Expressionism, both in the use of colors and the similarity in the choice of backgrounds, which are usually marinas. In addition to this aspect he seems to recall the German painter when he focuses his attention on religious subjects, such as the Last Supper. There are also Renaissance reminiscences for the presence of his own portrait in the group and with the circularity and movement as in Chagall, strength in the section of powerful colors. Yet he has turned to abstraction to recall the human presence in the grids of time and space so that the subjective experience takes on inner observations. If, according to Kandinsky in “Du Spirituel dans l’Art”, spiritual life is a pyramid where the artist has the mission to lead to the top, Amir is working on the right perspective as an artist of our time. Pagina 21: Autoritratto, acrilico su tela. Sotto, a sinistra: The Clock Tower, acrilico su tela. <<<Insistenze Nelle opere di Amir Wahib, giovane e talentuoso artista nato a Il Cairo ma residente e attivo a New York, si compie l’ostensione spaziale del tempo, religione postmoderna. Attraverso lo slancio verticale proprio delle piramidi e degli obelischi della terra natia, Wahib salda il legame tra fisica e metafisica in una pittura che ricerca l’oltre del visibile per tracciare nuove dimensioni nei paesaggi urbani. L’equilibrio dell’impressionismo di Matisse e la predilezione per le geometrie e l’alternarsi di colori freddi e caldi di Kandinsky concorrono a creare lo spazio dell’attesa: emblema ne è la sedia vuota, soggetto preferito dall’artista, ma anche porte, finestre, imposte socchiuse intervengono a coniugare il non-tempo verbale. Non manca l’attenzione per il soggetto umano: figure femminili potenti ed enigmatiche che popolano quadri in cui i cromatismi decisi e la scelta di temi religiosi e ambientazioni marine richiamano la lezione espressionista di Nolde. Tuttavia l’interesse dell’artista è prevalentemente orientato all’oggetto, al paesaggio, al reticolo di spazio e tempo privato del soggetto umano: unica via interiore per la vetta della spiritualità che gli artisti come Wahib aiutano a conquistare. Sintesi in Italiano a cura di Michela Pistidda A destra: Times Square, 40x30 inc., acrilico su tavola. In questa pagina, dall’alto in senso orario: The Corridor, 40x28 inc., acrilico su tela. The Dancing Chair, 28x20 inc., acrilico su tela. My 4 Doors, 24x20 inc., acrilico su tela. *[Mara Quadraccia, born in Amelia, Umbria 19 Feb. 1953, is a teacher of English and the President of the UNITRE, Adult Education Association. From 1989 to 1994 she was elected in the Town Council and was responsible for Tourism and Education and then for European partnerships. She has organized many art exhibits and presented many books of poets and writers. She is the author of a book on traditional cooking “Le Umbriache” and of specialized guide books. She has run many European Leonardo Projects and the Grundtvig 3T, Traditions Through Time.] 22 23 <<<Insistenze Topografie dell’assenza Michela Pistidda Insistenze>>> Perdere la strada, perdere l’orientamento nella “foresta di simboli” che è la realtà urbana per antonomasia: la metropoli, Londra. Toccare i margini e precipitare nella non esistenza degli esclusi: diventare l’Altro, lo straniero, il corpo estraneo nell’organismo della società. E tuttavia è possibile smarrirsi senza perdersi del tutto; praticare la psicogeografia, ovvero indagare lo spazio urbano percorrendolo a piedi, inventare nuove modalità di creazione e riconquista della città, forgiare significati altri e sovvertire quelli predominanti sono metodi che permettono di ristabilire il nesso tra individuo e comunità, di varcare lo strappo nella rete opprimente del discorso egemone, di trovare l’uscita dal dedalo intricato di segni e metafore metropolitane. Queste strategie rivoluzionarie di rilettura e ricostruzione creativa del corpo urbano come resistenza alla margina- 24 lizzazione vengono messe in pratica nella Londra di Neverwhere, miniserie TV trasmessa dalla BBC nel 1996 e nel 2000 diventata un libro fantasy di grande successo tradotto e pubblicato in Italia da Fanucci (Neil Gaiman, Nessun dove). Al centro della narrazione è la società di Londra Sotto, una città parallela che si sviluppa al di sotto della Londra “istituzionale” e che dà rifugio ai senzatetto, ai reietti, ai vagabondi, a tutti i soggetti marginali ed emarginati. In questo non-luogo il protagonista, Richard Mayhew, si trova suo malgrado catapultato: perde casa, lavoro, affetti; diventa letteralmente invisibile; e insieme a un gruppo di personaggi si trova costretto a vagabondare nel sottosuolo, in cerca di un mostro mitologico annidato nelle viscere della città. Sotto un’apparenza leggera e fantastica di fiaba metropolitana, la narrazione si presta a infiniti piani di lettura e chiama in causa concetti e categorie imprescindibili per analizzare la realtà postmoderna, in primis il ruolo della città e il rapporto tra spazio urbano e spazio umano, ossia la società e l’individuo. Infatti, se la città è un testo, un sistema di segni simile a un linguaggio, come sostiene Barthes, al tempo stesso è anche un palinsesto, un manoscritto su cui vengono scritti, cancellati e iscritti altri significati politici, sociali e culturali. Impossibile da mappare per la sua intrinseca ipertrofia spaziale e semiotica, la metropoli viene a perdere il ruolo di punto di riferimento della collettività, della memoria, dell’identità. Anche la concezione del tempo in quanto entità diacronica lineare, misurabile e quindi affidabile, muta e cede alla soggettivizzazione, alla manipolazione, alla distorsione in una miriade di percezioni personali contrastanti. I confini tra città reale e immaginaria si fanno porosi, mentre nuovi divieti, barriere, spazi proibiti vengono imposti attraverso il dispiegamento di un panopticon moderno, realizzato con «Ricreare con la fantasia lo spazio urbano per sopravvivere all’esclusione sociale» una pletora di sistemi sofisticati, ad esempio gli impianti di telecamere a circuito chiuso. La ristrutturazione continua dello spazio urbano promossa dalle dinamiche del capitalismo intacca quindi i tessuti molli della città: narrazioni, immagini, storie, ricordi, sogni, gli individui stessi. La malleabilità del corpo urbano porta con sé la malleabilità del corpo sociale: la norma non è più il convivere comunitario, ma la polverizzazione dinamica in una miriade di monadi isolate e irrelate. Lo spazio urbano viene investito dalla logica dell’usa e getta, è prodotto da consumare ed eliminare; lo stesso avviene con il ruolo sociale degli individui. In un corpo urbano che appare come il risultato di una operazione di collage spazio-temporale simile al montaggio cinematografico, i soggetti umani si trovano spiazzati. Il carattere della metropoli apre infatti la strada a infinite possibilità di costruzione del sé, ma può dall’altro lato favorire il disorientamento, l’esclusione, l’alienazione e l’espulsione dal consorzio civile. Chi incarna l’alterità, in qualsiasi modo essa si declini, viene scartato, emarginato e si perde: scompare. E finisce a Londra Sotto. Londra Sotto, per dirla con Foucault, è un’eterotopia, ossia uno spazio fuori dallo spazio che contiene tutti i luoghi reali di una cultura e li collega rappresentandoli, contestandoli e sovvertendoli; e un’eterocronia, ossia un luogo fuori dal tempo dove il tempo si accumula e vengono riassunte tutte le epoche. Londra Sotto costituisce il nuovo cuore di tenebra di retaggio imperiale, il margine per antonomasia dove si annida l’alterità, l’epitome dello scarto, delle macerie, dell’invisibile. Equivale al subconscio di Londra, che è composto dai sedimenti della storia di grandi e umili, da ricordi dimenticati e sogni abortiti, da trame letterarie e reticoli culturali, da archetipi antropologici e topoi letterari. E per tracciare le geografie dell’assenza, è appunto necessario adottare il punto di vista degli “scarti” della società, ossia i soggetti e le comunità che vivono i margini. Proprio per questa posizione eccentrica, gli abitanti di Londra Sotto hanno accesso al sottotesto della metropoli, invisibile deposito simbolico e metaforico dove si sovrappongono silenziosi i secoli, tra le stazioni abbandonate della metropolitana, i tunnel antiaerei della seconda guerra mondiale, la rete fognaria, i fiumi sepolti e le fosse comuni. Per riappropriarsi dello spazio urbano gli abitanti di Londra Sotto praticano la flânerie dello scarto, perché solo attraversando e conoscendo la spazzatura simbolica, recuperando il passato dimenticato e cancellato, si può accedere a una comprensione maggiore della città, del corpo sociale e degli individui; inoltre si dedicano al détournement, ossia strappano al contesto di appartenenza luoghi istituzionali, punti di riferimento geografici e culturali, tradizioni consolidate per riempirli di nuovi scopi e significati. Ad esempio il Mercato Fluttuante, il più grande bazar delle comunità nomadiche di Londra Sotto, richiama la pratica delle TAZ, occupazioni temporanee di aree urbane altrimenti interdette. Di volta in volta si tiene di notte in uno dei cosiddetti “spazi dell’autorità”, ovvero luoghi ad altissima carica simbolica, accessibili al pubblico durante il giorno e carichi di un ruolo funzionale al potere politico o economico: i grandi magazzini Harrods, l’incrociatore HMS Belfast e perfino il Big Ben. I territori simbolo del potere da cui certe comunità sono state espulse vengono quindi rivendicati da queste stesse comunità e ricolonizzati con un sistema altro di valori e di senso. La riappropriazione passa anche attraverso la ridenominazione: edifici, quartieri, stazioni della metropolitana assumono a Londra Sotto un nuovo nome grazie a procedimenti ludici, calembour, analogie, assonanze. Ad esempio, 25 Insistenze>>> ti, non possono essere controllati, circoscritti, disciplinati nello spazio. La mobilità che incarnano elude qualsiasi panopticon ed è in aperta contestazione delle ossessioni stanziali contemporanee. Viaggiare, più precisamente camminare, è l’unico sistema per entrare genuinamente in relazione con la metropoli postmoderna: per comprenderla è necessario esperirla fisicamente, percorrerla, camminarla. Inventando nuovi significati simbolici e pratiche sociali con un uso sovversivo degli spazi e dei tempi del margine, gli abitanti di Londra Sotto ci insegnano che lasciare briglia sciolta alla fantasia e riplasmare di nuovi sensi il reale sono le uniche modalità di sopravvivenza allo spaesamento e all’alienazione della condizione postmoderna. *[Michela Pistidda, traduttrice per una piccola agenzia milanese, è funambola di parole nel quotidiano ma perde l’equilibrio se si tratta di scrivere la propria biografia.] Pagina 24: Presentazione della serie Neverwhere andata in onda per la BBC. Pagina 25: The Banquet in the Thames Tunnel, George Jones, olio su tela, 1827. Sopra: Metropolitana di Londra, fotografia di repertorio. 26 PAGANi Maria carla trapani Potremmo ritirarci in paese, ma solo per spaesarci. Conteniamo questo desiderio nel solco lasciatoci da un etimo che consapevolmente tradiamo, per rimescolarlo a nostro piacimento. Perché è in un ager pagensis il nostro paese, nel Villaggio che è anche Castello, ma non Patria o Nazione, né asfittica cittadina. Il paese che può spaesarci è situato su un “colle”, su “picco di monte”, un campo nel quale mettere al riparo i corpi, gli affetti, i beni della nostra comunità. Un campo sicuro, perché fortificato, non dall’uomo, ma dalla natura; su un colle, appunto, o su un picco di monte. Un campo sicuro che assicura, anche, perché preserva uno spazio che si sottrae alla religione del nostro tempo. Nel paese che spaesa crescono i pagani. Abitatori del pago, possono farsi guardiani degli dei di un tempo altro, devoti di dei falsi ai cittadini, ma sacri ai paesani. Come pagani, abitano il paese per spaesarsi. Abitare il paese da pagani è quindi spaesarsi, aperti all’abisso di un culto che solo nel nostro villaggio è investito del sacro. Lo stato di eccezione è proclamato, dal basso. L’Apocalisse culturale, nella forma della chiacchiera quotidiana, non è più profilo all’orizzonte, ma realtà vissuta nella polis. E non ha senso fuggire, se non per divenire abitatori del pagus. Il solo luogo in cui il rito non è immediatamente sussunto alla chiacchiera. E solo nel rito non desacralizzato l’arte può sottrarsi alla sua fine, che è la fine dell’uomo. Ma l’arte è allora resistenza agli dei del nostro tempo, desacralizzati all’origine, secolarizzati se non da sempre nel secolo. Occorre perciò volgere lo sguardo alla fortezze, dove gli uomini custodiscono il sacro nella devozione agli dei di un tempo altro. I pagani in questo senso resistono, e solo loro, spaesandosi. A volte gli artisti smettono di resistere. Depongono le armi, per conservare, quasi sempre ingannandosi, quel po’ di gloria che il complicato intreccio di mercato e riconoscimento ha concesso loro. Oppure sconfitti dalle cose piccole, incalzati o schiacciati da un destino umano che storna lo sguardo, sfila gioie dalle dita, aggrava lo sguar- Insistenze>>> il distretto di Knightsbridge diventa “Night’s bridge”, ovvero “il ponte della notte”: presso l’omonima stazione della metropolitana c’è un ponte che si protende sopra un abisso di tenebra. Per tracciare nuove geografie del potere è utile anche dare vita a un processo di metamorfosi in molteplici direzioni. Il corpo umano diventa corpo urbano e viceversa: la stazione di Seven Sisters dà vita a sette sorelle guerriere. Il confine tra reale e immaginario evapora, tanto che sotto stazione della metropolitana di Islington, chiamata “Angel”, si nasconde un arcangelo caduto, Lucifero postmoderno, mentre i treni della metropolitana assomigliano a creature selvagge simili ai vermi di Dune. Infine, anche la distinzione tra umano e animale sfuma: la comunità zoomorfa dei “parla-con-i-ratti” è asservita ai topi antropomorfi di Londra e come suggerisce lo stesso nome vengono meno anche le barriere del linguaggio. Onnipresente è la dimensione del viaggio. I personaggi attraversano spazio e tempo e vivono il nomadismo, l’adesione incondizionata alla scissione tra identità e luogo, che paradossalmente consente di esercitare un potere maggiore sul territorio. Gli abitanti di Londra Sotto, infat- 27 Insistenze>>> colori, che non sono altro che il loro scorrere, che non richiamano attenzione, insensibili alla cura. Disattenti e incuranti, gli artisti sono allora conformi alla patria, tradendo il paese nel quale pure, un giorno, hanno sentito di potersi spaesare. I territori astratti di Attilio Faroppa Helmut Schilling Attilio Faroppa intraprende il proprio percorso artistico alla fine degli anni ‘80, dopo essersi trasferito a Roma dalla Svizzera dove è nato nel 1952 e ha lavorato nel mondo della finanza a Lugano. Pur amando molto la terra natìa, l’ambiente formale e freddo delle banche suscita in Faroppa un sentimento crescente di allontamento: un mondo che non gli appartiene, troppo distante dalle infinite declinazioni della creatività e dell’espressione artistica. Faroppa prende il coraggio a due mani e ‘molla tutto’ per intraprendere un nuovo percorso professionale e umano. Dal 1990, nel cuore della città eterna, gestisce con passione una sorprendente galleria di interior design: Ex Ante. È un’esperienza ventennale che gli vale una collocazione di primo piano sulla scena della capitale e non solo... Faroppa conosce la produzione dei più celebrati designers del momento e si lega per amicizia con alcune star, soprattutto francesi, come Mattia Bonetti ed Elizabeth Garouste, Pierre Casenove e Nathalie du Pasquier, Davide Pizzigoni. Collabora con i più importanti architetti d’interni di Roma ed espone nei maggiori saloni del settore in Italia e a Parigi. Ospita innumerevoli mostre di design e di pittura. Disegna mobili, soprattutto lampade, tavoli, console e divani per i quali vengono usati principalmente materiali come il ferro battuto e il bronzo in fusione. Dipinge per hobby, soprattutto su porcellana, ma la fantasia ed il gusto per forme e colori per lo più astratti trasformano i banali oggetti dipinti in veri e propri oggetti d’arte che incontrano uno straordinario successo. Si avventura anche nel mondo della scultura, modellando piccoli nudi stilizzati che diventano dei bronzetti molto apprezzati. Insistenze>>> do e disinnesca infine quel miracoloso congegno nel quale tecnica ed estro, misteriosamente, si articolano per dare vita al genio creativo. E allora l’arte si accomoda, stanca prende la forma che trova. E ciò che trova sono le immagini, i suoni, i Pagina 27: Maschera tradizionale Punu, origine Gabon. Sopra: Il pentacolo, ovvero la trappola del diavolo. Le immagini derivano da archivi di pubblico dominio. *[Maria Carla Trapani è nata e vive a Roma. Di formazione filosofica, approda in seguito alle discipline orientali, nell’ambito delle quali esercita la sua professione. Direttore editoriale di Diwali – Rivista contaminata, fondata con l’amico poeta Flavio Scaloni, redattrice della rubrica Black Poetry per Nero Cafè, dal 2009 si è occupata dell’organizzazione di eventi culturali per il Circolo letterario Bel-Ami. La sua prima monografia, Nascosta e lo specchio, vincitrice del concorso Cose a parole II ed., esce nel giugno 2010 con la Giulio Perrone Editore, seguita, nel 2012, da Se le figure, e invece il dolore. Silenzi, Bel-Ami Edizioni. Tra le sue opere, presenti in diverse antologie, si segnala la silloge poetica M/E, di perle e di parole, pubblicata, ancora per la casa editrice Bel-Ami, nella raccolta Perle sciolte (2009). È una de Le Crudeltà Barocche, la cui altra è Laura Di Marco: insieme creano Violenza della ragione e molli intelletti (Liquida Vernuft e fuoco Verstanden), presente in Femminilizzazione del mondo – Arte nel Rumore, Volume #5.] 28 29 Insistenze>>> Alla fine degli anni ‘90 produce una grande serie di piccole tempere su carta: i soggetti sono combinazioni di elementi astratti di ispirazione tribale oppure riscritture di ritratti dell’arte antica, romana ed etrusca o rinascimentale. Nel frattempo si dedica anche allo sbalzo del metallo, di lamine d’argento e rame, creando effetti che si riallacciano alla sua pittura, spesso ricorrendo anche ad incrostazioni di pietre dure, di gusto in genere eclettico, a volte barocco a volte altomedioevale. Contemporaneamente inizia ad usare le pietre nella creazione di gioielli dal sapore etnico e barbaro. Lavora con uguale sensibilità sia che crei una scultura, dipinga un quadro, sbalzi una cornice, disegni un mobile o un gioiello o allestica un arredamento. Le espressioni di stile di Attilio Faroppa assumono forme molteplici, ognuna presenta un raffinato senso della figurazione, equilibrio e compostezza. La sua attenzione si focalizza soprattutto sull’interferenza di forze in un campo determinato, come le forme biomorfiche che spesso si scontrano bizzarramente sul piano pittorico o le figure sbalzate che fluttuano sulla lamina. L’ispirazione nasce da una matrice complessa che trae Pagina 29: Galleria Ex-Ante, Roma. Sotto: Bronzetto; sullo sfondo un acrilico su tela. 30 <<<Insistenze origine dalla passione per l’arte figurativa in tutte le sue manifestazioni e di tutte le epoche. L’autore si concentra quindi piuttosto su un processo che su un genere d’espressione; un processo che mette in moto un’emotività, stimolandone l’espansione attraverso le superfici di ciò che crea con la sua mano o compone con il suo occhio. Soprattutto in pittura, un chiaro segno del suo approccio è l’uso frequente di monocromatismi e bicromatismi che declina in una gamma di sfumature così che le interazioni fra gli elementi compositivi si sviluppino in modo fluido e sofisticato. Predilige i colori freddi come per premiare la sensibilità razionale rispetto a quella passionale; per la loro resa pacificante in alcuni casi e per la loro forza drammaticamente astratta in altri. I colori utilizzati sono quasi sempre acrilici ad acqua, stesi in un lasso di tempo molto ridotto su superfici dalle dimensioni variabili, dalle piccole tele 15x20 alle grandi opere 180x90. Guardando per esempio la serie ‘Territori’, gli accostamenti di blu-grigio, grigio-viola con un rosa smorzato creano un leggero movimento di danza, il cui ondeggiamento sembra ordinato dalle altre forme in grigio che trattengono le tessere più colorate del mosaico visivo. Sono paesaggi simbolici, grandi territori, come nazioni, segnati da frontiere che dovrebbero sparire oppure paesaggi paraurbani, divisi da vie di percorrimento che creano, isolano, circondano: sono le vie di non comunicazione. Sono trasposizioni sulla tela di luoghi stilizzati, simboli di stati mentali o culturali o giuridici. Più o meno ordinati o felici d’aspetto, ma tuttavia separati. Quella di Faroppa non è una denuncia, è una costatazione e vale per il singolo come per il pubblico. L’artista parte dal disegno, quasi in automatismo per le opere astratte, a volte con un’idea sommaria del risultato ma più spesso lasciando correre la mano fino all’ottenimento di un equilibrio compositivo che in tutti i lavori è comunque presente. L’autore ha esposto negli ultimi anni in diverse occasioni fra cui alcune personali a Roma e in Svizzera. Recentemente trasferitosi nella campagna umbra, trova in questa nuova dimensione territoriale lo stimolo per esplorare altre forme espressive come la fotografia e la scrittura. Pubblica su riviste on-line alcuni articoli sulla storia del cinema e brevi scritti ironici. Soprattutto Faroppa si avvicina al mondo della parola poetica pubblicando nel novembre del 2013 la raccolta ‘Alza gli occhi’ per l’editore Portaparole di Roma. Sandra Petrignani definisce questi versi ‘aspri e dolci come il loro autore’. In questa pagina, dall’alto in senso orario: Paesaggio vegetale, acrilico su tela, 2009. Il grande cielo, acrilico su tela, 2009. Nuovi territori, acrilico su tela, 2010. *[Helmut Schilling nasce a Salisburgo da padre austriaco e madre italiana. Trasferitosi a Lugano per motivi di studio, si occupa come ricercatore di estetica del linguaggio. Pubblica il suo primo saggio ‘La vocazione cubista del tu’ a venticinque anni e prosegue nella propria carriera accademica per i successivi dieci anni. A volte affaticato dall’universo delle parole, evade nelle potenzialità del gesto: la recitazione e la scultura del bronzo come necessità fisiche di rappresentazioni visive e materiche.] 31 Inverso>>> maram al masri Spaesa-menti: smarrimenti che fondano le loro origini nella propria psiche, sono quelli di cui ci rendono partecipi i nostri autori. Estranei diventano suoni, parole, persino il proprio viso. E con il non riconoscersi più, il cammino diviene incerto ed impervio, si rende necessario demolire osservare come un uno scenario post-atomico i resti di ciò che erano le obsolete convinzioni e segnare un nuovo percorso dentro sé stessi, innamorarsi del proprio rinnovato “io”, per concepire nuove generazioni di pensieri, ricostruire dunque il proprio cosmo. Laura Di Marco Ucronie 21, Andrea Chiesi, olio su lino, 2013. 32 Poco meno di un anno fa FusibiliaLibri dava alle stampe Sedici nodi – Poesia, volumetto scritto a quattro mani dalle due poete Maram Al Masri (siriana esule a Parigi) e Monica Maggi. Questa plaquette è nata dalla mia personale convinzione che gli incontri significativi debbano essere assicurati alla memoria, e la conoscenza poetica, soprattutto umana, di Maram Al Masri, ospite su iniziativa di Monica Maggi nel luglio 2013 del prestigioso “Festival delle Letterature” a Roma, ha confermato, oltre al suo potere di rivelazione, l’importanza e il valore aggregativo che ha la scrittura tra persone con medesime sensibilità. E la poesia è il medium elettivo, spontaneo, che accomuna queste due autrici la cui riflessione esistenziale sconfina dal vissuto personale fino all’osservazione e alla denuncia dei gravi fatti politici, sociali che si compiono nel mondo, delle crudeltà umane. Alla generosità delle donne, alla loro pietas attinge la voce, quindi la penna, di queste due poete che riconsegnano alla poesia, il suo ruolo ‘nodale’ di denuncia e impegno civile, l’atto di fiducia verso il futuro, lì a esorcizzare con l’empatia dell’amore, l’affermazione del filosofo Theodor Adorno che “dopo Auschwitz non e più possibile la poesia”. Pertanto noi di Fusibilia abbiamo accolto e quindi, voluto ‘fissare’ in questo volumetto il rilancio all’‘agire’ dopo la consapevolezza e l’indignazione per quanto accade di criminale in alcune zone del mondo, nelle modalità che da sempre annoverano vittime sacrificali tra le donne e i bambini. Sedici nodi – Poesia, è una raccolta con il titolo dai diversi rimandi, dalla somma delle otto piu otto poesie inserite, osservando come il numero ‘otto’ rinvii alla “Giornata internazionale della Donna”, al ‘nastro di Moebius’ e al suo concetto di ‘infinito’, simile alla tenacia di queste due donne, e di altre donne-sorelle che, come loro, eleggono la poesia quale mezzo di opposizione. E nel ‘nodo’, sono compresi i significati di ‘memorandum’, ma anche ‘intreccio’, per le poetiche di due autrici diverse ma, in questo modo legate a un progetto comune; e per ultimo ma non ultimo, nell’estensione del titolo si ravvede l’accenno al ruolo di ‘resistenza’ della poesia, nella diversa disposizione della lettura in Sedici NO di poesia, un messaggio più sibillino, ma non meno efficace, affinché sia assicurata alla coscienza del lettore, alle sue soglie critiche e percettive, lo sforzo del narrare non per ambizione personale ma per attenzione alla verità, alla prospettiva di pace, a una dimensione più grata alla vita: “Io non prendo la chitarra per ottenere un applauso, io canto della differenza tra il vero ed il falso altrimenti non canto”, Victor Jara, martire del colpo di stato in Cile. Inverso>>> pensieri, preconcetti, illusioni, ruotare la testa ad Dona Amati 33 Inverso>>> <<<Inverso *[Maram al-Masri, (Latakia, 2 agosto 1962), è una Maram al-Masri con Dona Amati e Monica Maggi in occasione della presentazione del volume Sedici Nodi, ed. FusibiliaLibri. poeta e scrittrice siriana. Vive a Parigi dal 1982 nell’impossibilità di rientrare in patria, dove la sua famiglia vive tuttora. Tutta la sua opera è censurata in Siria. Dal 2011 pubblica regolarmente in Francia per la casa editrice Bruno Doucey. Ambasciatrice della causa siriana nel mondo, la sua poesia è stata tradotta in diverse lingue.] La Siria per me è una ferita che sanguina. È mia madre sul suo letto di morte è la mia infanzia sgozzata il mio incubo e la mia speranza la mia insonnia e il mio risveglio. La Siria per me è l’orfana abbandonata. È una donna violentata ogni notte da un vecchio mostro, abusata, prigioniera, costretta al matrimonio. La Siria per me, è l’umanità che soffre è una bella che canta un’ode alla libertà ma le hanno tagliato la gola. È il popolo dell’arcobaleno che splenderà dopo la tempesta e la folgore. 34 Come fate, sorelle mie con quel dolore al seno gonfio e indurito? Con quel dolore lancinante al ventre inondato di tristezza? Come fate con il sangue che vi scorre tra le cosce? Grumi neri di sangue come fate con quell’odore? Come fate, sorelle mie quando avete il ciclo? Nelle cupe e fredde prigioni prigioni che uccidono violentano prigioni dove incatenate vivete ammucchiate. Come fate, sorelle mie quando esplode negli occhi il sangue? Le facciate delle case sono volti in attesa le finestre, gli occhi della piazza le porte, le bocche. Le facciate delle case teste serrate le une contro le altre, cappelli di mattoni, guardano il cuore della piazza luogo di spettacoli e di contrattazione conversano in silenzio come vecchie vicine. Testimoni eterne delle carovane della Storia specchi del passare del tempo. Attraverso il sorriso delle tende, la luce è riuscita a insinuarsi per denunciare la polvere che danza e quella che si riposa dopo il volo, colta nel flagrante delitto di posarsi in deliziosa indolenza sulla superficie delle cose e sulla mia pelle. La polvere, una viaggiatrice come me un’emigrante come me che, malgrado tutto, non attecchisce da nessuna parte. Senza patria viene da ogni orizzonte, portata dalle ali del vento. Il vento la spazza con la sua scopa con i suoi folti capelli o con le mani. La semina là dove nessuno la immagina la semina persino nel cassetto segreto del cuore. La polvere è la cagna fedele del vento. Gli corre davanti e dietro vola con lui dal nord al sud, dall’ovest all’est silenziosa aderisce come una morbida veste sui corpi abbandonati. 35 laura di marco Davide Cortese Può essere la verosimiglianza un luogo in cui abitare? Io sono lo straniero: la dichiarazione apodittica del primo verso della poesia di Cortese vuole essere un Forse, anche se spaesati in un luogo lontano, nell’inattualità del ricordo o dell’irreale, potremmo. annuncio, un voler “dire” lo spazio abitato dai segni della poesia, lo sconfinamento dell’anima in un nuovo Potremmo abitare un non luogo, un inganno d’occhi che non possiedono il paese del volto. stato dell’essere perché, come testimoniano le parole di Elitis, “La Poesia ci allontana dal mondo quale lo E se mancasse il sonno, approdo ultimo cui concedere i sogni, resteremmo come abitanti senza chiave, abbiamo trovato”. Allora questo speciale straniamento sigillato in parole perdute si rivela fondante occa- esuli, in buio estraneo, a maneggiare sensazioni confuse dalla magia del verso. sione di alterità e mistero. Laura Di Marco la possiede, la chiave. Una condizione di tensione metafisica rigenerante portatrice di sola misteriosa vita. [Maria Carla Trapani] Pupille galleggiano in un buio estraneo che gocciola cadenzato la tua assenza. Non combaciano i nostri esili bordi poggiandovi come pellicola il lenzuolo. Né bacia la tua sagoma il mio orgoglio esule penetrando l’oscurità del desiderio. Un inganno abita insonne questa notte i contorni confusi della vecchia stanza. Inverso>>> Inverso>>> Ce la offre, sempreché non si abbia paura di una vecchia stanza in cui entrare. [Letizia Leone] IO SONO LO STRANIERO Io sono lo straniero. C’è il mio sigillo su queste parole. A voi, a te: straniero. Il mio sigillo su parole perdute. Sono senza città, io. Delle strade quanto del vento. Neppure le ossa sono il mio confine. Abito la vita. E vado. Comunque voi mi amiate, comunque voi mi odiate, io vi sono straniero. E straniero sono a me stesso. Non c’è malvagità in questo, né solitudine, in questo, credete. Solo misteriosa vita. Sopra: Marcello Mastroianni ne ‘Lo Straniero’, regia di Luchino Visconti, 1967, tratto dall’omonima opera di A. Camus Di lato: Sadder than a Single Star that Sets at Twilight in a Land of Reeds, Sydney Long, olio su tela, 1899. *[Davide Cortese è nato nell’ isola di Lipari nel 1974 e vive a Roma. Si è laureato in Lettere moderne all’Universi- 36 *[Laura Di Marco è responsabile della rubrica InVer- tà degli Studi di Messina con una tesi sulle “Figure meravigliose nelle credenze popolari eoliane”. Nel 1998 ha pub- so per Diwali - Rivista Contaminata. Poeta, performer, blicato la sua prima silloge poetica, titolata “ES” (Edas, Messina), alla quale sono seguite le sillogi: “Babylon Guest grafica... con una passione per l’arpa, le sue sono Dita House” (Libroitaliano, Ragusa, 2004), “Storie del bimbo ciliegia” (un’autoproduzione del 2008), “ANUDA” (Aletti Edi- Inquiete.] tore, Roma, 2011), “OSSARIO” (Arduino Sacco Editore, Roma, 2012) e “MADREPERLA” (LietoColle, Como, 2013).] 37 Giuseppe Bonaccorso annamaria giannini “Qui”, è un preciso luogo e nello stesso istante, un “non luogo” che si colloca nell’infinito. Nei versi di Annamaria Giannini le rappresentazioni sensibili diventano oggetti in un processo di fusione Un ripetuto avverbio quello di Giuseppe Bonaccorso che suona quale epitaffio ai propri ardenti deside- con l’io, così il paesaggio di una città quale Lisbona diventa la tela di materia e di poesia che trama, passo ri, agli amori trascorsi, che vuole essere rimpianto ed altresì stadio di consapevolezza. Un punto di arrivo dopo passo, sensazioni e condizioni di questa “realtà”. Il flusso complessivo della narrazione procede per dove mestamente quietare l’animo che ha a lungo infruttuosamente vagato. Non c’è saggezza che si pos- “casi” isolati di fantasmi da ascoltare sulla schiena. sa raggiungere senza passare per un rituale di purificazione, né alba da vedere per l’uomo che si è nutrito Fantasmi che si rivelano nella loro essenza di condizioni esistenziali: il poeta ha ormai assimilato in sé le durante il cammino, di tutto il proprio buio. cose, i fatti, gli ambienti in un bosco intimo che ha uscite al vento. Qui. Dove poggiano i miei piedi e dove il sole mi congela in un’ombra senz’anima. Qui. Dove respiro gli ultimi gemiti del giorno, inghiotto ogni stella, e abbraccio torbidamente la luna. Qui. Dove qualcuno talvolta mi vede, dove la folla gorgheggia, e dove la cattedra antica è nel bagno d’un manicomio, qui è sepolto l’ultimo me, sazio di inutili labbra. In quella carezza d’addio, in quello sguardo scolpito nella cera, sul dorso di una busta mai spedita, si sveglia il primo, timido ruggito carminio, vestigia di un’aurora che congeda la notte, come un amante inebriato, il suo ultimo amplesso. Nel paradiso dei saggi, io ardo, lento come una brezza scarlatta, sopra un immenso rogo di mirti. *[Giuseppe Bonaccorso è nato a Caltagirone (Catania) nel 1979. Laureato in Ingegneria con un orientamento verso l’intelligenza artificiale, si è da sempre interessato di scienze umane e psicologia del profondo, cercando il loro nesso con la vita quotidiana. Ha pubblicato diversi articoli e saggi e attualmente collabora con parecchie riviste italiane di letteratura e cul- [Letizia Leone] NELL’ABITARMI, ARIA LISBONA C’è una stanza dell’abitarmi, aria dove poso le domande sospese che so risponderò solo più tardi quando avrò mangiato ogni temporale e dato un nome a tutti quei silenzi che riportano in vita i nostri morti Eppure ogni persiana ha gli occhi ruba la vita nelle strade strette un fiume che l’argilla fa passare Così ascolto il pianto dell’oceano disegni d’ocra sulla veglia tua di madre il battere di tacchi sul selciato le notti di taverna e una signora dai fianchi fatti d’onda, labbra rosse tura generale. Tra le sue pubblicazioni saggistiche e filosofiche si ricordano: ‘Saggi sull’Intelligenza artificiale e la Filosofia della Mente’ (2011) e ‘Il dispiegarsi del tempo psicologico’ (2013). In ambito poetico e narrativo ha pubblicato, tra gli altri: ‘Frammenti dal profondo’ (2011), ‘Storia di Pietro’ (2011), ‘Ballando con gli specchi’ (2011), ‘Gocce di mercurio’ (2011), ‘Il doppio cosciente’ (2011), ‘Vertigini astratte’ (2012), (quando d’inverno un poco di legna al fuoco ravviva la mancanza delle braccia) vorrei fosse per te un promemoria quello spezzarsi in rami che trascrivo sulla lavagna delle cose belle come fossero punto per partire per rivedere il bosco ad occhi lievi ‘Infinita nigredo’ (2013) e ‘Il senso del tempo’ (2013).] invece avrai quaderno e penna nuovi domande su un domani che non ho le mie certezze fili delle tende Inverso>>> Inverso>>> [Laura Di Marco] lei si nasconde dietro un riso d’aria ma se la cerco so dove incontrarla Lisbona dai capelli lunghi eppure ogni cuore ha un fianco insonne fantasmi da ascoltare sulla schiena poi l’eco delle mani, le preghiere chine alla distanza che non disseta piove su Lisbona dai capelli rossi lei che divide in pugni il grano buono come a scrivere bocca su ogni spiga che cambierai la puoi trovare dove finisce il mare si sottrae, nel bosco intimo che non ha uscite al vento 38 39 Inverso>>> Marino santalucia CUORE DI BAMBOLA È nello spazio improbabile del cuore di una bambola che vorrei fuggire, là dove tutto è da inventare, dove giochi d’ombra divengono respiri e il vento mai è foriero della morte giovane a far cadere il cielo negli occhi di una madre Gli Spaesamenti di Santalucia ci riconfermano le ricerche sulla percezione e sull’autopercezione sviluppate c’è il segreto di un bacio nello sguardo che ai disattenti fisso appare, il sapore delle more, la paglia intrecciata dei destini la ruota di una gonna colorata ad inventarsi fiore tra le pietre un girotondo d’anime da fare invidia a Dio sarei stato? Questioni che solo la poesia può evidenziare con poche vere parole circondate dal silenzio dello nel suo ultimo libro “Gli angoli del corpo”. L’essere dislocati da sé rovescia i luoghi comuni del sentire, svapora e illumina l’ombra dell’alienazione, mette in cammino verso le frequenze ritmiche del proprio cuore e pone davanti a domande radicali: quale essere Inverso>>> spazio bianco. [Letizia Leone] Lui, il cuore delle bambole, batte tra mani bambine e non cerca niente che la parola amore, come una vela il mare *[Annamaria Giannini nasce nel 1965 a La Spezia durante una sosta dei genitori diretti in Sardegna, la terra che porta stampata sul viso e nel cuore. Il padre marinaio fa si che abiti tante città senza mai cambiare odore e ancora oggi il porto di un paese è dove si sente a casa. Da quattro anni vive a Roma, dove ha portato in teatro ‘Alda Merini Project’ e uno spettacolo itinerante per la sensibilizzazione sul femminicidio volto alla raccolta di fondi per la ricostruzione del tetto della Casa delle donne di Roma. Ha partecipato a varie antologie, ultima delle quali ‘Sotto il cielo di Lampedusa’ e sta terminando la sua prima silloge. È stata varie volte pubblicata su Venerdì di Repubblica da Stefano Bartezzaghi coi suoi palindromi. Al mo- Vorrei raggiungermi unirmi a lui, stargli accanto e solo allora sentirne il cuore stordito senza fiato perduto allo stesso tempo con quella beltà e violenza solenne. Stavo appena sbocciando, quale essere sarei stato? Dovevo impararlo sforzandomi verso l’esistenza d’esser autentico, libero dall’altrui sguardo dalle ombre dalle radici. mento sta organizzando un evento poetico a Roma in collaborazione con i 100Thousandpoetsforchange per il 27 settembre.] A destra: Soumrak, Jakub Schikaneder, olio su tela, 1896. *[Marino Santalucia fa parte dell’ONG “Emergency” dal 2004. Nel 2010 ha pubblicato la silloge poetica Versi Riversi, Giulio Perrone Editore. Suoi testi sono inseriti in diverse antologie (Edizioni Progetto Cultura, Edizioni Ursini, Opposto.net, Fusibilia Libri, e Lietocolle Editore). Nel 2011 partecipa a “Teatri di Vetro Festival Ammaro Amore”, alla “Settimana della A sinistra: Lady Marjorie Manners later marchioness of Anglesey, James Jebusa Shannon, olio su tela, 1883. 40 Poesia di Eboli” ed alla “Prima Edizione Mare in Vista Cultura”.] 41 patrizia sardisco Francesco vico Incertezza e disorientamento per il futuro è quello che ci trasmette Patrizia Sardisco, che porta a chiedersi Un perdersi nella propria identità è ciò che ci fa percepire Francesco Vico, che parte da noi stessi ed è al se ci sia ancora qualcosa che valga la pena difendere che non sia stato già brutalmente violato. Quasi una contempo parte di noi stessi. Ed allo stesso modo di quando si fissa un oggetto a lungo fino a perderne visione post-apocalittica quella attraverso cui l’autrice si muove, luogo inconfortevole e ormai brullo, ina- la certezza dei contorni, o si pronuncia la stessa parola sino a smarrirne il significato per come lo si cono- datto persino a fare da culla alle proprie speranze. sce e renderlo un termine estraneo, così lo scrutarsi a lungo il viso davanti ad uno specchio destruttura contorni somatici, ma anche comportamenti e convinzioni, ci fa fuoriuscire dal nostro “io” inviando indietro [Laura Di Marco] passare sopra i resti *[Patrizia Sardisco è nata a Monreale, dove vive attualmente.Laureata in Psicologia, si è specializzata e pensi che sia nobile passare sopra i resti di un tempio sconsacrato che sia credibile cercare ancora qualcosa di valore nel campo della didattica speciale. Lavora in un Liceo di Palermo. Scrive in lingua italiana e in dialetto siciliano. Suoi racconti brevi e alcune poesie si trovano on-line sui blog Tutta colpa della maestra, Apertura a Strappo, La presenza di Erato, Versante Ripido, Carte sensibili, Vibriss. Selezionata e premiata in un calice uno scritto un corporale! diversi concorsi letterari, ha pubblicato in antologica forse concepiremo tra questi ruderi [sogni pensieri mostri] figli di desiderio e ambizione ma qua è già stato tutto saccheggiato di schegge acuminate si feriranno mani anima e piedi. Sue recensioni di opere poetiche e di narrativa sono i sudari puliti sono finiti con Lietocolle (Verba Agrestia 2012 e 2013) e AaS. apparse nella rivista Arenaria (cartaceo) e su L’indice dei Libri (on line). Ha curato l’introduzione di opere di Inverso>>> Inverso>>> un’immagine che disorienta al punto da chiedersi “Chi sono?”. [Laura Di Marco] RIFLETTERE e forse davvero sono io questo: gli occhi segnati, i peli nel naso, il naso attaccato di sbieco (che poi ho scoperto che il mio naso di solito è dritto, è la testa che tengo inclinata). Lo guardo negli occhi, mi guarda negli occhi un momento, sembra riflettere. Poi una voce lo chiama per nome si asciuga le mani ed esce dal bagno io resto qui nello specchio e mi chiedo “se lui sono io io chi sono?” narrativa e poesia.] Sopra: Young man in the mirror, Fotografia @ G.N.A.M., 2008. *[Francesco Vico, ligure, classe 1982. Collezionista di nuvole, buddhista part-time, pericolo per la società. Scrive poesia (Natale, Alessio, i pupazzetti e altre storie; L’amore ai tempi del Cavaliere), prosa (Le avventure di Luchi & Striche; Perle di saggezza di uno scarabeo stercorario), fa l’editore (Matisklo Edizioni), organizza spettacoli e performance (Aria di Festa; Fontanella Imbottigliata; Generatore Automatico-Ecologico di Realtà). Nel tempo libero prova a dipingere con risultati raccapriccianti e cerca di far sì che il mondo sia un posto un po’ migliore rispetto a come l’ha trovato.] 42 43 il focus di Gli Haiku Chiyo-jo Dona Amati Foto Miloje Savic 44 Inverso>>> <<<Inverso Che l’haiku si stia ponendo al centro dell’attenzione letteraria è dimostrato dal moltiplicarsi delle iniziative che si snodano, non solo nel web, tra ambienti deputati alla poesia e quelli di più vario interesse per la cultura nipponica. La webgrafia si incrementa di rubriche e progetti divulgativi dedicati alla composizione poetica giapponese, come a voler indicare il bisogno di un accesso privilegiato alla meditazione, il pensiero Zen appunto, al quale l’haiku è strettamente correlato. Un segnale in controtendenza rispetto all’opacità di riflessione che caratterizza certa società occidentale, la quale, - almeno apparentemente – sembra esprimere una minor vocazione alla profondità di pensiero. Questa rinnovata attenzione non è ascrivibile a una semplice emulazione modaiola nei confronti di una tradizione orientale, quanto piuttosto a un’esigenza di trarre benessere da uno stile di vita diverso, basato sulla concentrazione di capacità verticale, su un più totale assorbimento sensoriale che si svolge da una osservazione oggettiva, tra pieni e vuoti in sospensione, dove ciò che maggiormente conta è il sollievo dell’equilibrio tra elementi naturali e introspettivi, attraverso la loro progressiva visione. Dei “maestri” fondatori già sappiamo, Basho, Issa, Buson, ma tra i moltissimi haijin uomini, la storia ci rende anche i nomi di poete donne che a quest’arte si dedicarono con medesimo raccoglimento ed ascetismo. Chiyo-jo, vissuta nel diciottesimo secolo, è considerata l’haijin donna di maggior rilievo, probabilmente perché di lei è a noi pervenuta una più ampia produzione rispetto alle altre, e perché ebbe maestri importanti come Kagami Shiko, discepolo di Basho che le consentirono grande intensità di scrittura. Iniziò a comporre poesia all’età di sette anni e già a diciassette la sua popolarità era diffusa in tutto il Giappone. Si sposò giovanissima ma perse il marito prematuramente; sul finire della sua vita diventò monaca buddista non, come disse, per rinunciare al mondo, ma “per insegnare al suo cuore ad essere come l’acqua limpida che scorre giorno e notte”. In Giappone a Matto, sua città natale, è stato realizzato il “Museo Chiyo-Jo Haiku”, una struttura multimediale in cui vengono conservati haiku su diversi supporti e dove tutti, soprattutto i bambini, possono proseguire la conoscenza di questa particolare forma d’arte poetica e di struttura del pensiero. Dona Amati Foto Angelika Leik 45 Inverso>>> Instante>>> Chiyo –jo (1703-1775) allapperà o no questo cachi raccolto per primo Lo spaesamento è una distanza, un senso l’aquilone anche ieri nel cielo al solito posto di distacco in una realtà che non ci appartiene, a cui non riusciamo, non vogliamo appartenere. È un senso di inadeguatezza reciproca tra noi e il contesto. Ha comunque inverno desolato nel mondo di un solo colore il suono del vento a che fare con il non vivere il momento, come ogni volta che quel che ci aspettiamo non c’è, o che quel che c’è aspettiamo passivamente che finisca. Lo spaesamento è un fuori tempo farfalle sul cammino d’una fanciulla davanti e dietro di lei prolungato e imbarazzante, una solitudine interiore invincibile. Non c’è tristezza, né felicità; al limite fredda analisi e un sottile pioggia primaverile proprio ora le cose diventano splendide e latente disprezzo ossidato sulla superficie del cuore. È quello sguardo altrove, di fronte alla persona che non amiamo più, prima della confessione, spiaggia alla bassa marea: tutto ciò che prendo è vivo forse anche prima della consapevolezza. È quel vortice immobile che ci avvolge in quello sguardo altrove, di fronte a chi non ci ama più, dopo la confessione, dopo la Oh! Il convolvolo! Attorcigliato intorno al secchio. Andrò dal vicino a chiedere l’acqua. Foto Angelika Leik 46 disperazione, a cavallo della consapevolezza. Pietro Bomba Foto Angelika Leik 47 <<<InstantE Angelika Leik The Dark Side of Summer Nei giorni più caldi dell’estate ogni tanto pure le cicale tacciono e l’aria scintillante sembra assorbire tutto, suoni, colori, movimenti, il tempo stesso; la mente rimane sospesa in uno spazio indefinito, fra mondi paral- Instante>>> leli. Lì è dove emergono le immagini di questa serie di fotografie di Angelika Leik. *[Angelika Leik è nata a Monaco di Baviera nel 1961. Da sempre appassionata del mondo delle immagini, ma sopratutto delle produzioni degli altri, si laurea in storia dell’arte, del teatro e dell’etnologia. Ha lavorato nell‘art management, nell’editoria specializzata in fotografia & arte. Ha vissuto a Teheran, Buenos Aires, Monaco, New York & Lussemburgo. Nel 2005 si trasferisce in Umbria dove vive e lavora (fra l’altro gestice un piccolo b&b).] 48 49 Instante>>> Pasquale comegna Le foto di Pasquale Comegna suscitano un incanto che va ben oltre la percezione visiva. La sua è una capacità rara di saper cogliere la grafia della luce in quei momenti in cui il presente è la somma esatta di ciò che è appena stato e ciò che sarà subito dopo. La sensazione è quella di “plenitudo vitae” nella fusione degli elementi in equilibrata composizione. La selezione di un particolare soggetto in quell’attimo specifico, cioè in quell’atomos indivisibile del tempo, anima racconti di distese armonie che obbligano a fermarci per guardare ed apprezzare. Il dialogo interno all’immagine è a volte in curioso rapporto fra i soggetti, a volte sottinteso nelle atmosfedell’artista. (Mara Quadraccia) Instante>>> re create dall’aria o dall’acqua; l’osservatore viene in questo gioco di immaginazione entrando nella magia *[Pasquale Comegna vive e lavora a Roma dal 1977. Tra le sue collaborazioni più recenti si ricordano la campagna fotografica per la catalogazione delle opere d’arte presso le ambasciate italiane all’estero, svolta nel biennio 2013 – 2014 per il Ministero dei Beni Culturali e il Ministero degli Esteri; l’inserto fotografico per il volume ‘Addio gran secolo dei nostri vent’anni’, G. Mughini, Bompiani editore, 2013; l’inserto ‘Antiquariato del ‘900’ per il Sole 24ore, 2013. Numerose mostre all’attivo tra cui quella nel 2011 a Roma nell’ambito del Festival della Fotografia Naturalistica e quella nel 2009 a Roma dal titolo ‘L’Altra Metà della Scena’.] 50 51 Instante>>> 52 <<<InstantE 53 <<<InstantE Miloje savic Ho deciso di calarmi nella natura, totalizzante e poderosa nella forma di un torrente di montagna, e di fondermi completamente con essa fino a perdere la mia identità, per trovarne una nuova. La libellula, così veloce, mobile e seduttiva, mi è sembrata una ricompensa senza eguali. Il riferimento alle metamorfosi di Kafka sembra quasi obbligato, ma in realtà sono partito dall’idea di esplorare e reinterpretare il concetto di ‘estasi’ nella sua accezione più arcaica e originale. ‘Ex-stasis’ è uscire dal proprio sé, affrancarsi dal corpo e sospendere la mente in uno stato mistico di infinita elevazione. In estasi l’uomo trascende la propria natura e si identifica, seppur temporaneamente, con il cosmo. In questo senso non mi sono preoccupato più di tanto della pur secolare tradizione cristiana sull’argomento, se non per lo studio delle opere dei grandi padri della pittura, Giotto e Caravaggio, sull’estasi di San Francesco. Mi sono spinto in avanti nell’arte fino a completare Instante>>> il mio lavoro preparatorio con i post-impressionisti e i preraffaelliti cercando di cogliere i loro insegnamenti circa l’uso della luce e l’approccio erotico al soggetto. Questo sono io che mi bagno nelle acque provvidenziali di una coscienza in evoluzione. Questa è la mia rinascita. (Miloje Savic) *[Miloje Savic nasce in Serbia, studia in UK, diventa cittadino del mondo. Si muove tra Stati Uniti ed Europa, la macchina fotografica sempre al seguito. L’Italia è uno dei suoi paesi d’elezione ed è spesso a Roma. Ha all’attivo mostre fotografiche a NYC, Belgrado, Manchester. È membro dell’Associazione Americana Haiku.] 54 55 <<<InstantE Carlo travaglini allocatelli LA VITA SEGRETA DEGLI EDIFICI Queste fotografie sono state originariamente ispirate da un quadro visto per caso nella vetrina di un negozio qualsiasi. Si trattava di una prospettiva di due edifici, affacciati l’uno di fronte all’altro; non c’era molto di più di due terrazzi e un poco di cielo, ma quell’immagine comunicava inaspettatamente qualcosa. Raccontava la storia di una relazione intima tra i due palazzi, una relazione forzata che si estendeva nel tempo da molti anni, indifferente alla vita delle persone che avevano vissuto tra quelle mura. È stato allora che ho realizzato che la città è piena di storie, di ambizioni, di passioni, ma queste storie non sono raccontate dagli abitanti delle città. Queste storie sono raccontate continuamente e con un linguaggio misterioso, dai palazzi delle città, dalle loro finestre, dai terrazzi… Le case delle città hanno evoluto una vita Instante>>> propria, distante e dilatata nel tempo, che scorre su un piano temporale che è diverso dal nostro. È sufficiente camminare per la città e prestare solo un po’ d’attenzione per poter ascoltare misteriosi racconti di solitudine, d’amore, di arroganza o di amicizia; a volte i palazzi parlano tra di loro, altre volte con la luce del cielo o con le nuvole. Non mi è mai capitato di ascoltare nulla dalle persone, che sembrano aggirarsi per le città come muti fantasmi. Io credo che ascoltare e collezionare queste storie raccontate in un’altra lingua sia forse l’unica maniera di descrivere la città, oggi. (Carlo Travaglini Allocatelli) *[Carlo Travaglini Allocatelli vive e lavora a Roma. L’interesse per la fotografia nasce diversi anni fa, quando per sviluppare un negativo si entrava ancora -esclusivamente- in camera oscura.] 56 57 <<<InstantE Johan Raiz Cette série s’appelle ‘Exploration photo-graphique’. Par un travail sur la photographie l’auteur essaie de recréer la trace du souvenir, la coloration émotionnelle, l’impression laissée par une rencontre avec le monde. L’auteur explore différents matériaux et colorants (fleurs, épices, bois, encre), ainsi que les marques du temps (rayures, poussières), afin d’ajuster la réalité à son univers intérieur. Questa serie s’intitola ‘Esplorazione foto-grafica’. Attraverso un lavoro sulla fotografia l’autore cerca di ricreare la traccia del ricordo, la coloritura emotiva, l’impressione lasciata da un incontro con il mondo. L’autore esplora diversi materiali e colori (fiori, spezie, legno, inchiostro), così come i segni del tempo (graffi, polvere), Instante>>> al fine di adattare la realtà al suo universo interiore. (trad.ne di Flavio Scaloni) *[Johan Raiz, nazionalità francese, vive e lavora a Grenoble, nella regione del Rhône-Alpes. Coniuga la propria professione come psicologo clinico alla passione per le arti visive, la fotografia in commistione con la pittura in una continua sperimentazione di forme e colori.] 58 59 Instante>>> 60 <<<InstantE 61 Inmobile>>> <<<Inmobile ANIMI ALIENI ARIANNA DEGNI DBPIT [DER BEKANNTE POST-INDUSTRIELLE TROMPETER] Il senso di smarrimento, il sentirsi estranei nel proprio pianeta, conosciuto, ma per qualche motivo… decisamente ostile. Un percorso attraverso suoni distorti e illustrazioni cupe, ricco di sentimento critico e creatività. Due artisti, amici di vecchia data, che con strumenti diversi esprimono il loro disagio verso tutto e tutti, due introversi che si mettono in gioco con la loro ironia che non perdona nessuno. Arianna Degni DBPIT 62 Tra gli alieni già approdati su questo pianeta della galassia, sicuramente non può passare inosservato DBPIT, il trombettista post-industriale, che dello “spaesamento” ha fatto un vero e proprio stile di vita. DBPIT è un conosciuto musicista della scena industrial romana. Autore dei suoi testi, poeta d’avanguardia e trombettista sperimentale, nasce un po’ per caso e un po’ per gioco. La sua ossessione verso una realtà che sfugga dai codici consueti, la passione per la fantascienza, i fenomeni inspiegabili e l’archeologia “proibita” costituiscono la sua principale caratteristica, sia nella musica che nella vita, al punto tale che lui stesso si percepisce e definisce un “alieno”. Proprio per questo motivo, la sua musica sembra provenire da altri mondi, non ci sono suoni riconducibili a paesaggi esistenti (nonostante i field-recording), non ci sono regole, note riconducibili a spartiti o metriche da rispettare… ma solo piena libertà d’azione e creatività. La sua tromba distorta, sottolinea puntualmente il disagio e la costrizione del dover vivere in un mondo ostile, popolato prevalentemente da umani ostili anch’essi, che si preoccupano solo dei loro bisogni venerando predicatori e divinità atte al controllo delle loro menti. Nella sua ricca produzione musicale, indubbiamente emerge la storia di Mr. Mallory, il signor “nessuno”, l’antieroe per eccellenza che, come spesso avviene nei fumetti, viene investito da una forte esplosione nucleare che non lo uccide ma lo muta geneticamente in maniera radicale, facendo si che perda il suo braccio sinistro in cambio di sei braccia destre… peccato che il povero Mallory fosse mancino dalla nascita e si ritrovi, a questo punto, ad essere ancora più solo col suo disagio. Questa storia, dai tratti autobiografici, prende vita nel 2004 con l’uscita del cd The Outstanding Story Of Mr. Mallory che si concluderà con il volontario letargo del protagonista che si arrenderà davanti alla cattiveria umana. A distanza di otto anni ecco ricomparire il nostro antieroe in The Return of Mr. Mallory, un cofanetto multimediale dove il signor “nessuno” riprende vita attraverso un lavoro più complesso che unisce musica sperimentale e interazione video, in un racconto amaro composto da cinque brevi episodi. In questo sequel, DBPIT si avvale della collaborazione della sua socia e compagna nella vita XxeNa, che dona un corpo bidimensionale a Mr. Mallory e realizza i video delle storie che compongono la sua nuova produzione interagendo anche in modalità live, durante le loro performances. Una discesa all’inferno accompagnata da suoni marziali, a tratti più elettronici e sprettrali. Il lavoro è interamente scaricabile su* https://archive.org/details/thereturnofmrmallory 63 Inmobile>>> <<<Inmobile After the long sleep https://www.youtube.com/ watch?v=w6i3WcHckMA There is no superhero https://www.youtube.com/ watch?v=GqqEWa-jzXo Ratrace https://www.youtube.com/ watch?v=De08Iy1NiyM Vampires https://www.youtube.com/ watch?v=0LwZ5-IVciM Escape to outer space https://www.youtube.com/ watch?v=RWDVtsAEiH0 *I video proposti sono stati caricati su Youtube appositamente per i lettori di Diwali. Sono registrazioni live, ci scusiamo per la qualità delle immagini. http://dbpitxxena.altervista.org/ 64 65 <<<Inmobile Grazie http://www.youtube.com/ watch?v=fg4a0l7lCk0 The Path http://www.youtube.com/ watch?v=nLXIlyqNroI FABIO MAGNASCIUTTI Acuto, ironico e pungente, con un’incredibile capacità di sintetizzare gli accadimenti quotidiani oltre ad una creatività infinita e velocissima, che appartiene veramente a pochi, almeno in questo pianeta. Fabio Magnasciutti, illustratore e vignettista oltre che fondatore e vocalist della band Her Pillow, ha al suo attivo numerose collaborazioni, tra cui la Repubblica, l’Unità, il Misfatto, gli Altri, Linus, Left, e il Manifesto. Nel 2005 ha fondato insieme a Lorenzo Terranera la scuola di illustrazione Officina B5. Ha curato sigle e animazioni di programmi per Rai 3 come Che tempo che fa e Pane quotidiano e realizzato illustrazioni per AnnoZero e Servizio pubblico. Assolutamente “spaesato” Fabio Magnasciutti cerca costantemente un punto di vista alternativo alla consuetudine offrendoci una serie di intuizioni e di percorsi che vanno a contrapporsi alle tradizionali modalità. Il pensiero laterale lo accompagna in buona parte della sua vita, sia professionale che privata; i significati celati dalle immagini, dai suoni e dalle parole, risultano ai suoi sensi molto più affascinanti di quelli palesi e gli svelano continuamente realtà sorprendenti e spesso indecifrabili… proprio per questo motivo decisamente affascinanti! Il trovarsi o sentirsi fuori dal proprio ambiente, dalla propria pelle, da ciò che è considerato “casa”, può offrire la 66 percezione di angoli misteriosi, allo stesso tempo destabilizzanti e acuti ma, interpretati in senso letterale, decisamente meravigliosi! Gli sfondi grigi e tormentati, i personaggi cupi e caustici sempre pronti a commentare l’aberrazione che ci circonda, caratterizzano le illustrazioni “quotidiane” che questo artista pubblica ormai da tempo, su diversi blog e social network, stuzzicando e accompagnando le giornate di chi è in sintonia con il suo immaginario laterale e con la sua spiccata ironia. https://www.facebook.com/fabio.magnasciutti Pensiero https://www.youtube.com/watch?v=R-kqm11XZM *Illustrazioni di Fabio Magnasciutti 67 InDICAZIONI>>> Inmobile>>> Astenghio http://www.youtube.com/ watch?v=Udg9OApw0-I Tra poesie e romanzi ogni passo è una macchia d’inchiostro. Non vogliamo però rintracciare i nostri passi ma perderli di vista. Abbandonarsi alla letteratura è spogliarsi del propri abiti, abitare gli occhi dell’Altro e abbracciare l’esistenza da una prospettiva eccentrica. Per poi tornare nel mondo e provare la deliziosa vertigine che sempre ci coglie al limitare di un sogno troppo realistico per non essere reale. Spazio ai versi e alla prosa, selva luminosa in Ease https://www.youtube.com/watch?v=8 EvHHG5H4bM&list=UUO5kegFr17Mu n3jldO9RGPA&index=34 cui smarrire il cammino. Michela Pistidda *[Arianna Degni - XXeNa nasce e vive a Roma. Di professione graphic designer e art editor ha lavorato per case editrici come RCS, De Agostini Editore, Giunti, Newton Compton Editore e per clienti come Greenpeace Italia, Unicef, Amnesty International, FIOM e molti altri. Si esprime anche attraverso musica, videoarte e pittura. Nel 2008 inizia la collaborazione con il musicista sperimentale DBPIT (Der Bekante Post Industrielle Trompeter) con lo pseudonimo XXENA. dbpitxxena.altervista.org] Soirée sur la Loire, Félix Vallotton, olio su tela, 1923. 68 69 <<<InDICAZIONI Le fantasticherie della donna selvaggia - Scene primitivE di Hélène Cixous InDICAZIONI>>> È in una calda notte di luglio, in rue Philippe a Parigi, che il fantasma dell’Algeria torna a visitare Hélène Cixous. Dopo una lunga gestazione nel ventre della memoria, ecco che sopraggiungono le prime doglie, il travaglio, il parto della consapevolezza identitaria: la coscienza di non appartenere. “Tutto il tempo in cui ho vissuto in Algeria ho sognato di giungere un giorno in Algeria” scrive febbrile Hélène, incipit perduto e poi ritrovato di questo libro. Nata nel 1937 a Orano, territorio coloniale francese, da una famiglia di origine ebraica, Hélène Cixous ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza ad Algeri nel quartiere del ClosSalembier. In questo patchwork identitario un motivo prevale su tutti: l’Algeria, che si è insinuata nelle vene come una malattia che non lascia scampo e negli anni ha contagiato nuove regioni dello spirito. Una malattia (quanto rimane dello “sguardo coloniale” in questa definizione in negativo? [N.d.r.]) che ha come cifra la privazione e che consiste nella “impressione di essere posseduta da una sensazione di spossessamento”. Algeria: terra di conquista, provincia coloniale che si sottrae allo sguardo del conquistatore. Hélène, figlia dell’impero coloniale francese, non possiede l’Algeria e non è neppure posseduta dall’Algeria: subisce il vuoto del rifiuto, la reclusione in una terra di nessuno, il divieto all’appartenenza. Il suo è il disorientamento di una figlia di fronte all’abbandono della propria madre, che l’ha partorita e tuttavia la costringe a un destino di orfana. Madre-patria, madre-lingua: chi è Hélène? A quale terra, a quale cultura, a quale lingua appartiene? All’Algeria cui è legata da un cordone ombelicale o alla lingua francese che è modalità d’interpretazione del mondo e strumento espressivo? Solo la narrazione di sé, ossia la rievocazione del passato, può offrire una risposta: Hélène deve farsi levatrice della propria identità, come un tempo sua madre ostetrica nella 70 Clinica di Algeri, se vuole comprendere le proprie origini. Questo processo maieutico di autodefinizione si innesca a Parigi, come se la distanza spazio-temporale potesse garantire la chiarità di sguardo necessaria per fugare le ombre di un’esperienza in parte rimossa, certo trasfigurata. Insieme al fratello Hélène tenta di dipanare un garbuglio di fili contraddittori, perché il vissuto restituito dalla memoria individuale è necessariamente polifonico. Suoni visioni sogni si succedono in un inseguimento a scapicollo, nella corsa a perdifiato di Hélène verso un miraggio inafferrabile: verso l’Algeria, “una realtà senza realtà”, e dunque verso se stessa. Volti e oggetti cari – Aïcha, il Velò, il Cane – giganteggiano sullo sfondo tremulo di un eden perduto: “Ti suggerisco di chiamare questo libro il Paradiso perduto, dice mio fratello. Cioè l’inferno perduto, dico io. Tutto quello che perdiamo è paradisiaco, dice mio fratello. È infernale, dico io. L’inferno del paradiso”. Paradiso inaccessibile dietro le mura imbiancate a calce e inferno in bella mostra oltre il cancello aperto-chiuso della casa nel Clos-Salembier: attraverso gli occhi dei due fratelli la realtà algerina è un fronte, una trincea dove si consuma l’eterna battaglia tra desiderio struggente di inclusione (nei margini: sogno di appartenenza alla colonia) e delusione aspra di fronte agli usci serrati (fuori dai margini: accusa di appartenenza all’impero). E tre volte marginale è lo sguardo dell’autrice: in quanto francese, in quanto donna, in quanto bambina. Proiezione e ossessione, l’Algeria insiste: “nome vellutato della fuggevolezza”; miraggio di archetipica appartenenza, è l’origine per antonomasia, utero e matrice, eden da cui Hélène è stata espulsa, in cui non ha mai avuto e mai avrà diritto di cittadinanza, in cui la cacciata si accompagna a un destino di caduta, a un futuro precipitare nel pozzo dei ricordi senza fondo che agguantano di notte e costringono alla scrittura. La scrittura, infatti, è lo strumento della ‘Con il cuore che batte insisto spio ancora oggi forse una porta può aprirsi nella Città di Algeri se busso molto forte alla memoria di mia madre ancora oggi cammino lungo il muro di cinta tasto sogno di entrare nel paese di cui sono l’aborto testardo’ reminiscenza, scalpello della costruzione ostinata di sé, e tuttavia è dispositivo labile perché, come i ricordi, è passibile di perdita (si pensi all’episodio che dà inizio al romanzo). Se passato e presente, Parigi e Algeri si confondono, e le coordinate spazio-temporali si liquefanno nel territorio dell’interiorità, anche la lingua che abita Hélène prende a gorgogliare e a scorrere fluida, sottraendosi all’alveo regolatore della sintassi e tracimando nell’imprecisione fulgida della rievocazione, spazzando via punteggiatura congiunzioni nessi logici: “Con il cuore che batte insisto spio ancora oggi forse una porta può aprirsi nella Città di Algeri se busso molto forte alla memoria di mia madre ancora oggi cammino lungo il muro di cinta tasto sogno di entrare nel paese di cui sono l’aborto testardo”. Perché fantasticherie? Perché il vissuto rievocato dalla Cixous si pretende prelogico, andrebbe ascritto all’atemporalità del mito, e nel ricordo si rivela sedimento spurio di una metabolizzazione parziale, di un fare-i-conti che non giunge mai a conclusione ma si ripete, rimugina, rimastica all’infinito. Perché appunti selvaggi? Perché precedono il logos, pretendono una lettura quasi corporea, chiamano in causa i cinque sensi, sono scanditi da un ritmo ipnotico ed evocativo, un tambureggiare che echeggia nelle viscere e che costringe il lettore a cedere a un incanto quasi sciamanico, una litania che induce all’identificazione totalizzante che spiazza, disorienta. Perché nella memoria di tutti noi esiste un Clos-Salembier. TITOLO Le fantasticherie della donna selvaggia – Scene primitive AUTORE Hélène Cixous TR. IT. Nadia Setti EDITORE Bollati Boringhieri PREZZO DI COPERTINA 15,00 € PAGINE 123 ISBN 9788833915913 Michela Pistidda 71 <<<InDICAZIONI Da nessun luogo con affetto - Poesie di Iosif Brodskij InDICAZIONI>>> Premio Nobel per la letteratura nel 1987, esule russo naturalizzato americano, Josif Brodskij è stato saggista e traduttore, ma soprattutto una delle maggiori voci della poesia russa contemporanea. Il volume edito da Adelphi nel 2004 con il semplice titolo di “Poesie” raccoglie una serie di versi - scelti dall’autore stesso - che abbracciano un arco temporale e geografico molto ampio: dal 1972 al 1985, dall’Inghilterra di Auden all’Italia delle calli veneziane o delle piazze di Roma, dalle paludi baltiche dove Brodskij è nato e cresciuto alla costa di Cape Cod sull’Oceano Atlantico. Esilio e memoria sono i temi attorno ai quali si sviluppa la produzione lirica di Brodskij. Per chi è costretto a lasciare la propria terra, “il corpo sembra una carta arrotolata, scala uno per tre”. Sparigliato dal viaggio, il corpo si fa quindi geografia confusa che deve spiegarsi in quanto mappa e in quanto enigma identitario. Sotto i colpi delle vicende umane anche i punti cardinali e i riferimenti geografici si sgretolano e divengono elusivi: “perso è l’orientamento”. Il poeta non sa più dove sia il Nord, regione il cui freddo, in passato, gli “ha messo una penna tra le dita/per riscaldarle strette a pugno”, e dove ora cerca rifugio e ricetto. Vaga nel sud canicolare dove “il corpo riesce a nascondersi, ma l’ombra no”. Dall’estremo Occidente contempla “il confine orientale dell’Impero affonda[re] nella notte”. Come Orfeo, smembrato e disperso ai quattro venti, così il poeta ha il proprio “guardaroba/all’estremo orientale”, la sua testa fluttua sulle acque dell’oceano (“quanto ghiaccio nel bicchiere bisogna gettare per fermare il Titanic del pensiero?”) e le sue membra compongono un “patchwork più informe dell’Europa”. Il viaggio, traslazione del peso del corpo in un altro luogo, scava solchi profondi, lascia tracce indelebili che trasformano l’esperienza individuale in metafora esistenziale 72 e racchiudono in sé la domanda per antonomasia: “chi sono?” Per sciogliere questo enigma può essere d’aiuto farsi amico lo spazio, prendere il largo “partecipando alla geografia, all’azzurrità”, poiché “ogni vela di profilo sembra un punto interrogativo:/lo spazio custodisce la risposta”. In alternativa è possibile rivolgersi al tempo: ecco che entra in gioco la funzione gnoseologica della memoria. Coltivare il ricordo, vivere nel presente e nel passato, sono l’unico metodo efficace per conoscer(si), mettersi a fuoco, fissare in contorni provvisori la propria mutevole identità. Dimenticare, infatti, è perdersi (vibra come un’accusa l’incipit “Hai scordato il villaggio, sperso nelle paludi…”) e del resto non è garanzia di traguardo, di sedentaria soluzione: “l’alfabeto di dimenticare/non ti permetterà il fine del tuo viaggio, il punto ‘b’”. Occorre quindi praticare e celebrare il movimento che porta con sé, ineluttabile, il mutamento: “se c’è qualcosa da cantare è il cambio del vento”; con la consapevolezza, tuttavia, che mai potrà aprirsi il vicolo cieco che ogni uomo reca in sé ovunque e che il distacco e la solitudine, “l’uomo al quadrato”, si dispiegano senza soluzione di continuità nel corso dell’esistenza. Al centro di questo turbinare ininterrotto di latitudini e stagioni, volti e oggetti cari c’è tuttavia un nucleo di pacifica stasi, un punto in cui tutto resta immobile e uguale a sé: l’occhio del ciclone. È la lingua russa, esplorata e vissuta in tutte le sue gradazioni e potenzialità, da declinare nel lessico quotidiano e nel ritmo telegrafico di “Parte del discorso”, così come nel respiro vario e versicolore di “Ninnananna di Cape Cod”. Madrepatria dello spirito, non-luogo atemporale che sfida ogni legge, la lingua e per associazione la scrittura sono l’essenza identitaria del poeta: luce nella notte, punto fermo al movimento delle lancette, riparo al precipitare dei termometri. Nel versificare di Brodskij, la lingua assume l’andamento leggero d’una Io non so più in quale terra riposerò. Tu stridi, stridi, penna, la carta consuma brezza marina, la ridente freschezza della spuma di mare, lo slancio caracollante d’un planare di gabbiani che alternano colpi d’ala ad attimi di sospensione. Strappate le radici, quindi, non resta che “abbraccia[re] forte l’aria”, “alla cui immateriale azzurrità simile/è questa vita”. Michela Pistidda TITOLO Poesie AUTORE Iosif Brodskij TR. IT. Giovanni Buttafava EDITORE Adelphi PREZZO DI COPERTINA 18,00 € PAGINE 223 ISBN 9788845906466 73 <<<InDICAZIONI LA Passione della nuova Eva di Angela Carter InDICAZIONI>>> Sono passati quasi quarant’anni dalla pubblicazione di The Passion of New Eve, e trent’anni esatti dalla sua prima traduzione italiana per ‘i tipi’ Feltrinelli con il titolo La passione della nuova Eva. Rileggere e far leggere oggi questo romanzo potrebbe dare un nuovo impulso al dibattito di genere, rimettendo sul tavolo gli interrogativi che si snodano attorno alla costruzione dell’immagine della donna. È un vero peccato che questa eccezionale scrittrice, prematuramente scomparsa nel 1992 e ancora oggi acclamata nel panorama internazionale, alchimista della parola e sapiente narratrice dalla fantasia iperbolica, in grado di affrontare con levità e impegno argomenti delicati e tematiche spinose, non riesca ancora a trovare uno spazio adeguato presso il pubblico italiano; complice, va detto, lo scarso numero di traduzioni in circolazione. La passione della nuova Eva segue le vicissitudini di un giovane insegnante inglese, Evandro, innamorato fin da bambino dell’attrice e femme fatale per antonomasia Tristessa de St. Ange, nel viaggio picaresco che lo porterà ad abbandonare una New York distopica, assediata da bande di guerriglieri che rivendicano i diritti dei neri, degli omosessuali e delle donne, e ad attraversare la distesa sterile del deserto dell’Arizona dove verrà rapito dalla comunità di amazzoni della città sotterranea di Beulah, la città della Grande Madre. Qui Evandro, tramite un processo di psicochirurgia avanzata, una tecnologia impastata di mito e altissima scienza, perderà una parte di sé, la parte maschile (andros, in greco, significa uomo), e secondo i piani della Grande Madre, una creatura che non è simulacro ma sussume simbolo e realtà, diventerà la nuova Eva per riattivare la partenogenesi archetipica e dare origine con il proprio stesso sperma a una nuova progenie. 74 Di fronte alla Grande Madre, Evandro viene invaso dal timor sacro. L’orrore scaturisce di fronte al reale, ossia quando l’uomo vede smantellati i costrutti simbolici e i discorsi con cui ha tentato di idealizzare la donna, di espellerla dalla realtà, di trasformarla in un’astrazione, dunque facile da assoggettare, dominare, sottomettere. La dimensione naturale del femminile appare terrificante in tutta la propria potenza anche perché in grado di dare la vita. La Grande Madre era “Madre; ma troppo madre; un essere femmina tropo grandioso, troppo volgare per la mia povera immaginazione”, perché rappresentava una “fertilità bastante a se stessa”; ovvero, non partorita dal maschile ma interamente autocostruitasi. Al polo opposto c’è Tristessa de St. Ange, la diva del cinema muto. Tristessa è “frammento di pura mistificazione”, esasperazione iperbolica dell’etereo femminino, “bella come solo ciò che non esiste può essere, ossessione infinita di paradossi, ricetta di perenne insoddisfazione”, tanto affascinante perché dominata da un “eroismo assurdo e tragico con il quale ella aveva saputo negare la vita reale”. Tristessa è la costruzione maschile per antonomasia, una immagine in movimento priva di carne, reale ma senza sostanza; è maschile come maschile, in realtà, è il suo sesso. Quando scoprirà la vera identità sessuale di Tristessa, Evandro si renderà finalmente conto che l’ideale femminile in cui credeva è “un’illusione nel vuoto, l’immagine vivente dell’intero sistema di ombre platonico, un’illusione capace di riempire il vuoto che era in me”. “E ora sarai ciò che tu stesso hai prodotto”: questo è il contrappasso di Evandro, ossia diventare la realizzazione delle proprie fantasie erotiche. Le rappresentazioni di genere implodono: “Mi avevano trasformata nell’incarnazione del manifesto centrale di Playboy. Ero l’oggetto Il disorientamento nello iato tra ideale e reale: decostruzione e ricerca dell’identità di genere di tutti i desideri che erano confusamente coesistiti nella mia mente. Ero diventato la mia stessa fantasia masturbatoria”. Tutto quindi si articola attorno all’equilibrio dinamico tra simbolo e realtà. Il femminile viene costruito dallo sguardo maschile e si estrinseca come recita, mistificazione. Se il corpo femminile colonizzato dallo sguardo maschile è inconsistente, come quello di Tristessa, pura costruzione simbolica, la corporeità mostruosa e terrorifica del femminile rappresentata da Madre, latrice di vita e di morte, natura allo stato puro e al tempo stesso pura astrazione, sgomenta il maschile, che non è in grado di relazionarsi alla complessità di un altro che aveva preteso bidimensionale, pura estetica senza ontologia. La scelta di ambientare il romanzo negli Stati Uniti non è dettata solamente da un intento satirico nei confronti della società statunitense (il Nuovo Mondo, appunto), ma è anche riconducibile al mito tutto americano della terra promessa, che offre infinite possibilità di autorealizzazione. Da una New York apocalittica e dalla distesa sterile e bestiale del deserto ha inizio il cammino iniziatico di Evandro, che per metafora ricalca passo passo le tappe del processo alchemico di creazione dell’oro. Dal nigredo, la materia in putrefazione, nasce la nuova Eva, la Eva futura. New York, “cuore dello scannatoio”, è una “gigantesca metafora di morte” in cui Evandro abbandona le proprie spoglie maschili per poi rinascere nel deserto come donna, prima a Beulah e poi, sotto le stelle, negli amplessi con Tristessa. Ascrivibile al genere del realismo magico per la commistione di elementi reali e di fantasia, questo romanzo è molto di più: è un inno alle potenzialità inespresse del linguaggio, uno spettacolo di pirotecnia stilistica e formale che raggiunge apici di lirismo estatico, come nel can- to alla Grande Madre (“in una mano ella stringe il sole/ nell’altra la luna/dal dorso si scuote le stelle”), e sprofonda nello sbocco sguaiato di grugniti cacofonici e bestiali di Zero e delle sue sette mogli, che “chiurlavano, miagolavano, squittivano, ruggivano e chioccavano”. Tratto Il ritorno della bella giardiniera, Max Ernst, Tecnica mista su tela, 1967. 75 InDICAZIONI>>> peculiare della scrittura carteriana è anche il gusto per il pastiche e il mélange di generi, registri, stilemi, in cui trovano spazio il racconto picaresco e la narrazione mitica, la fantascienza distopica e la gothic novel, la fiaba e la commedia erotica. La trama di riferimenti intertestuali è talmente fitta da dare le vertigini. Per chi sappia cogliere le briciole disseminate dall’autrice lungo il sentiero, la delizia è infinita: ecco l’albatros di Coleridge a Baudelaire, ecco Giocasta Edipo Tiresia, ecco Wagner Tchaikovskij e Chopin, oltre a tutte le stelle del cinema che hanno conosciuto una fine tragica, da Marilyn Monroe a Lupe Velez. Di fronte all’impossibilità di svelare l’enigma dell’identità di genere, Eva/Evandro ricorda che “il tempo dell’eros ferma tutti gli altri” tempi. La donna che era stata uomo e l’uomo che era stato donna si amano al di là della propria caratterizzazione biologica o genitale, al di là dell’identità di genere che hanno decostruito e ricostruito. Attraverso l’amore danno vita al “grande ermafrodita platonico, […] l’essere che ferma il tempo in quella eternità autogenerantesi che è l’eternità degli amanti”. Michela Pistidda TITOLO La passione della nuova Eva AUTORE Angela Carter TR. IT. Barbara Lanati EDITORE Feltrinelli PREZZO DI COPERTINA 7,75 € PAGINE 194 ISBN 9788807013010 76 Il mare e le metafore che incarna sono al centro della raccolta di poesie Quando sorride il mare di Floriana Porta, giovane scrittrice, fotografa e pittrice torinese. La silloge si suddivide in tre parti ed è completata da una rassegna di haiku, brevi componimenti poetici della tradizione giapponese. Il mare è soggetto indiscusso del libro, spazio reale e spazio immaginario nel quale perdere corpo e spirito. La semplicità dello stile e l’omogeneità del contenuto intervengono a dar vita a un acquerello dove prevalgono i colori chiari, le tinte soffuse, le sfumature tenui; ma non mancano le pennellate più scure delle fosse oceaniche, i rimandi a profondità imperscrutabili. Per mezzo di un’accumulazione di immagini antitetiche, lo spazio geografico del mare appare sia come dimora del tempo, della memoria, sia come bacino di eternità o di esistenza primigenia, un concetto a cui si riferiscono i frequenti richiami ai fossili che “conservano le tracce/ di un antico passato”. Ora dominato dal silenzio, ora loquace d’una lingua ignota (“Un moto obliquo/di taciturne corde vocali”), il teatro marino è ventre che dona la vita, “utero purpureo/ubriaco di memorie”, e destino di morte, simbolo di una forza creatrice che “abita ogni cosa” e che è capace allo stesso tempo di distruzione. Pur essendo attraversato della luce, che gioca sopra la spuma e si rifrange sulle increspature a fior d’acqua, il mare non si sottrae alle tenebre che si trovano racchiuse negli abissi inghiottendo “pensieri afotici”, o nelle tempeste che lo spazzano soffocando paure e terrori. Mare è anche sinonimo di viaggio: viaggio dei pensieri che corrono “sulla stessa rotta degli albatri” e viaggio di “memorie apocrife” da un lato all’altro dell’orizzonte. Oppure viaggio da intendersi come movimento incessante della materia, realizzazione di un crogiolo di energie che si manifestano nel moto ondoso (“Onde”) e nel flusso e riflusso delle maree, dominate dalla forza attrattiva della luna (“Maree apogeali”). Da una tavolozza di “polveri colorate” ecco i brevi “strati di impasto” degli haiku conclusivi, dove i “giochi di onde/ pungente nostalgia/in erosione” suggellano una poesia che è leggera e trasparente come la brezza salmastra del mare. InDICAZIONI>>> Quando sorride il mare di Floriana Porta TITOLO Quando sorride il mare AUTORE Floriana Porta EDITORE Book Publishing PREZZO DI COPERTINA 9,90 € PAGINE 63 ISBN 9788898590087 *[Michela Pistidda, traduttrice per una piccola agenzia milanese, è funambola di parole nel quotidiano ma perde l’equilibrio se si tratta di scrivere la propria biografia.] 77 <<<InDICAZIONI SOTTO FASI LUNARI di GIORGIO CASALI ‘Non passa niente per il cuore che non sia La luna: arriverà tra poco piena’ InDICAZIONI>>> Quelle sopra riportate sono le battute iniziali di Macchie lunari, una delle poesie presenti nella raccolta Sotto fasi lunari di Giorgio Casali, giovane poeta, classe 1986, e speaker radiofonico modenese alla sua quarta pubblicazione. E questo piccolo satellite, che già sin dall’antichità ha ispirato tanti autori, è davvero il protagonista assoluto dell’ultima fatica letteraria dello scrittore Casali: una luna che osserva da lontano, “una luna quasi sempre piena, in un’atmosfera ancora provinciale perciò più piena di accensioni, feste di paese e simboli antichissimi da decrittare” (Anna Ruotolo, Prefazione), mentre si consumano incontri, amori, tradimenti e la vita prosegue nel suo corso. Poesie prevalentemente brevi, quelle di Giorgio Casali, intervallate da testi, anch’essi brevi, di prosa poetica. Accanto alla luna, presenza ricorrente in quasi tutti i componimenti, tra gli altri protagonisti della raccolta troviamo il paesaggio modenese, con le sue colline e i suoi paesi e, non ultima, la musica. Non solo molte poesie, infatti, raccontano di dischi, concerti (basti, come esempio, Due biglietti) o gruppi musicali (si veda Rex il cane, Amnesiac, Polly Jean, tanto per citarne alcuni), ma la raccolta si apre proprio con una citazione da All and everyone di PJ Harvey (Death was everywhere) a ricordarci, come il ciclo delle fasi lunari, il passare del tempo (altro tema dominante) e il suo scorrere, per cui anche il dolore più bruciante è destinato a passare (Vieni dolore, entrami prendimi … fino a quando un giorno/arrivederci poi tanti saluti), mentre noi “cittadini”, a differenza dei nostri nonni “Non sappiamo più niente/delle fasi lunari e del vino”. E nella cornice di questa continuità, di questo fluire, le poesie di Giorgio Casali ci ritraggono, in rapidi schizzi, quasi sempre sotto lo sguardo benevolo della luna, di volta in volta le donne, la fede, le preghiere, la notte, la morte. 78 Brevi pennellate in cui si mescolano nuovo e antico, le feste nei locali alla moda, i viaggi di ritorno da un concerto, le tradizioni e la religiosità semplice delle donne. Una poetica, quella di Giorgio Casali che si richiama e ci ricorda quella di Cesare Pavese, nei suoi aspetti discreti e intimisti e dominata da storie semplici e vere, da paesaggi di provincia, da atmosfere notturne, nostalgie e coscienza del tempo che passa leggero sulla vita. Nei testi di Casali possiamo inoltre trovare un raffinato gioco di richiami, allusioni e incontri oltre che in campo musicale, con la letteratura del Novecento: Camillo (Sbarbaro), Pier Vittorio Tondelli (Altri libertini molto più cretini/spendono il mattino a pensare al pomeriggio in Pieno di benzina), Gianluigi Sacco, Andrea Salieri, il tuttoniente di Clemente Rebora (Notte senza sogni). Come efficacemente descrive Anna Ruotolo nella prefazione del libro, “l’io di Giorgio e gli altri suoi personaggi sono anime che de-siderano, nel senso di sentire la mancanza delle stelle. E non perché hanno cessato di volere piuttosto perché sono fermi sotto gli astri e contemplano e sempre attendono. Un desiderio attivo, una volontà di aspettare e così diventare parte degli accadimenti più singolari.” Punto d’osservazione stra-lunato, quello di Casali, uno stato di spaesamento e smarrimento di chi è pronto a lasciarsi sorprendere e quindi ritrovarsi: So dove trovarti, luna/ma preferisco non cercare sul calendario/le faccine mezze piene o piene./Voglio invece esser colto di sorpresa/appena passata la curva in salita,/ spiarti dietro i rami del cipresso/scaldarti col fumo della mia preghiera. (Avvento) TITOLO Sotto fasi lunari AUTORE Giorgio Casali EDITORE Incontri PREZZO DI COPERTINA 12,00 € PAGINE 125 ISBN 9788896855546 *[Alessandra Carnovale vive e lavora a Roma. Si divide tra manualità (modellazione, principalmente) e scrittura (poesia). Ha partecipato a mostre e concorsi Alessandra Carnovale letterari, ottenendo premi e riconoscimenti.] 79 InCHINA>>> 80 81
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