Spaesamenti Downloads - Diwali rivista contaminata

Spaesamenti
Numero VI estate 2014
L'Editorial
Sommario
3
InSistenze
4
L’iperromanticismo di Andrea Chiesi di Simone Scaloni
5
Svelare velando di Geremia Doria
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Nel laboratorio del traduttore Diwali incontra Michele Piumini
14
Dietro al muro dell’arte: il mistero di Banksy di Valerio Francola
18
Amir Wahib and the perspectives of time di Mara Quadraccia
21
Topografie dell’assenza di Michela Pistidda
24
Pagani di Maria Carla Trapani
27
I territori astratti di Attilio Faroppa di Helmut Schilling
29
InVerso
32
Maram al Masri
33
Laura Di Marco
35
Flavio Scaloni
Davide Cortese
37
Redazione
Giuseppe Bonaccorso
38
Pietro Bomba, Alessandra Carnovale,
Annamaria Giannini
39
Arianna Degni, Laura Di Marco, Mario Lucio
Marino Santalucia
41
Falcone, Valerio Francola, Fabiana Frascà,
Patrizia Sardisco
42
Francesco Vico
43
Focus: Gli Haiku di Chiyo-jo di Dona Amati
44
InStante
47
Angelika Leik
48
Pasquale Comegna
51
Miloje Savic
54
Carlo Travaglini Allocatelli
56
Johan Raiz
58
InMobile
62
Animi alieni di Arianna Degni
65
InDicazioni
69
Le fantasticherie della donna selvaggia di Hélène Cixous
71
Da nessun luogo con affetto - Poesie di Iosif Brodskij
72
La passione della nuova Eva di Angela Carter 74
Quando sorride il mare di Floriana Porta 77
Edizioni Les Mots Contaminés
Sotto fasi lunari di Giorgio Casali
78
Associazione culturale no-profit
InChina 20, Rue Condorcet, 38000, Grenoble - Francia
Mario Lucio Falcone
settembre 2014 - n.6 - anno 2
www.rivistadiwali.it
Direttore Editoriale
Maria Carla Trapani
Direttore Responsabile
Giulio Gonella, Letizia Leone, Michela Pistidda
Ufficio Stampa
Federica Venni
Technical Consulting
Pierluigi Stifanelli
Diwali - Rivista Contaminata
Trimestrale di Arte & Letteratura
Copertina Johan Raiz
Quarta di copertina Angelika Leik
Contatti
facebook.it/diwalirivistacontaminata
[email protected]
ISSN 2275-0606
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L’Editorial
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Cari lettori, Diwali è lieta di annunciare l’ottenimento dell’International Standard Serial Number, ossia l’ISSN. Noterete in calce al colophon la presenza di questo codice, che
pur nella sua natura meramente numerica ha un grande
significato. Questo risultato testimonia che la nostra rivista,
fatta da noi insieme a voi, risponde a tutti i requisiti di un
autentico prodotto editoriale. L’ISSN è di fatti lo strumento ufficiale che consente a studenti, ricercatori, specialisti
dell’informazione e bibliotecari di riferirsi in maniera precisa ad una determinata pubblicazione in serie. Pubblicare
su una rivista accreditata con l’ISSN significa pubblicare
in maniera certificata, con tutte le implicazioni del caso.
Vogliamo condividere insieme a voi la gioia di tutta la redazione, che ha lavorato con impegno e serietà per far
crescere la rivista in questi due anni di attività. È per questo motivo che abbiamo ritenuto di celebrare il traguardo
raggiunto con una grande festa, in pieno stile diwaliano.
Una serata di fusioni e intrecci artistici che si terrà il 14 dicembre p.v. al Circolo degli Artisti di Roma.
Come sapete, amiamo i cross over, le sperimentazioni,
non temiamo le incursioni in territori poco battuti: daremo
quindi spazio alla video-arte, alla fotografia, all’irrompere
di sonorità avanguardistiche. Proporremo letture, interviste, presentazioni, e soprattutto performances artistiche
che vi impatteranno: visivamente, acusticamente, sensorialmente.
L’Arte non avrà limiti, e se anche dovesse suo malgrado
incapparvi, nell’Evento Contaminato troverà il posto giusto per scardinarli, scavalcarli, dissolverli nell’opera, persino fingere (?) che non esistano.
L’Evento Contaminato sarà diwaliano a 360°: col cannocchiale puntato sul panorama artistico e sulle nuove promesse.
E come se ciò non bastasse, i nostri grafici sono già all’o-
pera per realizzare un highlight su carta, un progetto accattivante e originale che vedrà gli autori della rivista presenti
in una veste inedita. Queste iniziative saranno sostenute
dalla neonata Associazione culturale Les Mots Contaminés, e potrete trovare tutte le informazioni sull’evento
sulle pagine internet della rivista, dell’associazione e sui
relativi canali social. Come sempre, avremo bisogno del
vostro sostegno, il motore ad energia rinnovabile che ha
spinto Diwali ad arrivare fin qui.
Diwali – Rivista Contaminata sta avanzando a vele spiegate, sta allargando il proprio bacino di lettori e conquistando nuovi spazi nel panorama editoriale: continuate a
leggerci, a diffonderci... a contaminarci!
Diwali - Rivista Contaminata
Row of Trees, Jan Mankes, olio su tela, 1915.
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Insistenze>>>
Eterno viandante, l’artista, non è mai davvero a casa in nessun tempo né luogo.
Il processo creativo implica, infatti, l’attitudine a cogliere la realtà con occhi diversi e perdersi in connessioni
insolite tra elementi distinti della quotidianità. Che resta identica a se stessa, eppure si disvela differente. Ed
L’iperromanticismo di Andrea Chiesi
Simone scaloni
ecco lo spaesamento, uno smarrimento di fronte a (s)oggetti che mostrano inaspettatamente un volto nuovo,
rendendosi ad un tempo familiari e irriconoscibili.
Paesaggi urbani post-industriali, nella loro decadenza quasi apocalittica sono oggetti dell’arte di Andrea Chiesi
(Simone Scaloni) e del suo nichilismo attivo, opere romantic-noir incentrate sulle tematiche principali della
memoria e del lavoro, dove il Tempo è visto come un Chronos implacabile e saturnino, che divora i suoi figli e,
con loro, ciò che avevano prodotto. Proseguiamo con i complessi interventi artistici di Christo e Jean-Claude
cio storico o di un particolare ambiente naturale, risvegliando un sentimento di meraviglia e stupore per quanto ritenuto fino a quel momento già “noto”.
“Spaesamento” può essere, poi, anche la condizione del traduttore, nello svolgimento della sua professione,
sempre in bilico tra una lingua e un’altra, un genere letterario e un altro, una cultura e un’altra, tra la propria
personalità e quella dell’autore originale (Incontro con Michele Piumini).
Dello spazio urbano, seppure con modalità completamente differenti, si appropria anche Bansky (Valerio
Francola) e la sua arte di strada. Ed è in virtù di questa incursione nel vissuto di ogni passante, potenziale
spettatore, che la Street Art trova il modo di sorprendere, di far riflettere, anche sorridere, in virtù dei suoi temi
contro la guerra, anti-capitalistici, anti-establishment e a favore della pace e il suo stile originale in cui elementi quotidiani, ma anche personaggi, opere famose vengono trasformate, quasi stravolte, grazie all’aggiunta
di elementi “estranei”. Con Mara Quadraccia ci avventuriamo, invece, nella Manhattan di Amir Wahib, ar-
Andrea Chiesi è un pittore emiliano, nato a Modena il 6 novembre 1966, che vive e lavora nella sua terra. Autodidatta, si forma all’inizio degli anni Ottanta negli ambienti Punk
e Underground dei primi centri sociali italiani e al contatto
di gruppi musicali e artisti affermati come Osvaldo Arioldi
e le Officine Schwartz, Emidio Clementi e i Massimo Volume, Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni e i CCCP
Fedeli alla linea, il Consorzio Suonatori Indipendenti. La
Controcultura, la contestazione all’establishment, la tendenza romantica all’anarchia e alla radicalità, rappresentano il punto di partenza per l’ispirazione artistica dell’autore.
L’Iperrealismo americano degli anni Sessanta, la grafica
d’animazione giapponese e la fotografia industriale ne costituiscono invece i diretti riferimenti iconografici e stilistici.
A un primo sguardo ai dipinti di Andrea Chiesi è difficile
non rilevare subito un senso di decadenza, straniamento,
inquietudine. Sono paesaggi metropolitani contemporanei
nei quali è del tutto scomparsa ogni forma di vita. Non ci
sono esseri umani, non ci sono animali. Anche le giostre,
i camion e le automobili sembra che si muovano da soli,
senza conducenti a guidarli. Gli alberi sono un profilo nero
e frastagliato all’orizzonte, sotto cieli lirici e tumultuosi da
Giudizio Universale. Sono scenari urbani che hanno attraversato l’Apocalisse e ne sono usciti desertificati, allucinati, seppure apparentemente intatti. La luce che li pervade
è livida e fredda. È una luce metafisica.
Eppure questi paesaggi non sono mai negativi. Il nichilismo che suggeriscono è anzi un nichilismo attivo. L’atmosfera che evocano è sì da aurora boreale o da Apocalisse
di Giovanni, da fine della storia del genere umano, ma
Insistenze>>>
(Geremia Doria), costrutti di grande impatto visivo ed emotivo, in grado di cambiare la fisionomia di un edifi-
chitetto e designer, la cui arte, influenzata dalle sue origini egizie, unisce fisica e metafisica, tempo (quasi una
moderna “religione”) e spazio in una pittura che ricerca l’oltre del visibile per tracciare nuove dimensioni nei
paesaggi urbani.
Novello Virgilio, Neil Gaiman (Michela Pistidda), con il suo “Nessun dove” (Neverwhere) ci accompagna ad
esplorare il mondo infero, caotico e pulsante della Londra Sotto, popolato di esclusi, corpi estranei della società, per aiutarci a costruire nuove geografie e identità, inventando rinnovati significati simbolici e pratiche sociali tramite un uso sovversivo degli spazi e dei tempi del margine, unica possibilità per sfuggire all’alienazione
e allo spaesamento della condizione post-moderna. Maria Carla Trapani in “Pagani” ci conduce in un ager
pagensis, là dove solo chi ha il coraggio di spaesarsi può trovare la propria dimensione umana ed artistica. I
lettori di Diwali impareranno infine a conoscere Attilio Faroppa (Helmut Schilling), artista poliedrico per eccellenza e in continuo movimento (Svizzera, Roma, campagna umbra), capace di spaziare tra interior design,
pittura, scultura, sbalzo del metallo e, ultimamente, fotografia e scrittura, dedicandosi a ciascuna di queste
forme di arte con la propria personale sensibilità e raffinatezza. Alessandra Carnovale
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Insistenze>>>
è anche enigmaticamente positiva. Si avvertono sempre
una tensione costante, un senso di attesa, quasi di minaccia incombente, ma anche un forte calore umano, addirittura un sentimento della Natura, un’energia empatica
che invita alla vicinanza e alla condivisione. Si tratta di una
sensazione sottile, all’apparenza contraddittoria e difficile
da descrivere, ma presente e caratteristica dell’opera di
Andrea Chiesi.
La produzione artistica del pittore emiliano si articola tutta
intorno a due temi principali: la Memoria e il Lavoro. È l’artista stesso a dichiarare di “sentire il dovere di ricordare”
(nello specifico gli operai delle Fonderie Riunite di Modena
uccisi dalla polizia durante uno sciopero nel gennaio del
1950), e che la sua opera “ha a che fare con il Tempo”. Il
pittore, dunque, sente il bisogno di ritrarre quei luoghi in
cui un tempo si lavorava, si produceva e si viveva. Quegli
stessi luoghi in cui oggi non si lavora, non si produce e
non si vive più. Da qui, probabilmente, quella sensazione
di svuotamento e di sospensione dei suoi dipinti.
Sono temi, questi della memoria e della storia del nostro
Paese, o della nostalgia di un tempo passato e di un lavo-
<<<Insistenze
ro che non sarà mai più quello di una volta, centrali nell’espressione artistica di Chiesi, il quale nel suo procedere è
sempre “mosso da un sentimento di irrequietezza, decadente, romantic-noir”. Ed è proprio questo sentimento romantico e nero che si percepisce nelle sue opere e che fa
pensare a certe figure dei primi dell’Ottocento di Caspar
David Friedrich, risucchiate e sconfitte dall’immensità e
dalla sconvolgente superiorità della Natura. Anche Friedrich infatti, figura dominante del Romanticismo in pittura,
nei suoi quadri esprimeva stati d’animo legati alla desolazione e all’inquietudine. Ma mentre in Friedrich era Gea, la
Natura, con la sua devastante potenza tellurica a vincere
sull’Uomo e le sue attività, in Chiesi è Chronos, il Tempo,
il Moloch implacabile e saturnino, ad aver divorato i suoi
figli e con loro ciò che avevano prodotto.
Si tratta in sostanza del passaggio, avvenuto e irreversibile, dalla Civiltà della Produzione (quella dei nostri padri)
alla Civiltà dei Consumi (la nostra). Ciò che è rimasto di
questa transizione sono i relitti, i reperti archeologici di
fabbriche, strutture industriali, magazzini, stanze d’ufficio,
parcheggi, scali ferroviari e portuali. Ma anche abitazioni
Pagina 5: Kryptoi 18, Olio su lino, 70x100, 2007.
Sotto: Ucronie 36, Olio su lino, 70x100, 2014.
Pagina 7: Ucronie 23, Olio su lino, 100x70, 2013.
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Insistenze>>>
private, luna-park e sale-giochi, biblioteche e ambienti ricreativi, scale e corridoi, androni e sale d’attesa, vetrate e
spogliatoi, servizi igienici per impiegati e operai. Una sorta
di mondo ai confini della realtà, deserto e inospitale, un
paesaggio postindustriale e postmoderno, sul quale è calato il silenzio dell’obsolescenza e dell’oblio, ma carico di
energia, illuminato da un’intensa luce spirituale, e capace
di vibrare e generare emozioni forse più di prima.
È questa la magia dei luoghi ritratti da Andrea Chiesi, immobili e sospesi, ma inspiegabilmente attraenti e magnetici. L’elemento della distorsione spazio-temporale, dello straniamento, dello slittamento in un’altra dimensione,
sia caratteristica costitutiva della grande tradizione italiana. Pensiamo alla Metafisica di Giorgio De Chirico e Carlo
Carrà, ai paesaggi di Mario Sironi e agli interni di Felice
Casorati, alle nature morte di Giorgio Morandi, ma anche
a certe sequenze cinematografiche indimenticabili di Federico Fellini e Michelangelo Antonioni, alle pagine di Ennio Flaiano (tanto per citarne alcuni). Lungi dal voler fare
paragoni o anche solo suggerire accostamenti, sempre
rischiosi e spesso inopportuni, sembra che l’opera e la
poetica di Andrea Chiesi si inseriscano con dignità e coerenza nel solco di questa gloriosa tradizione nazionale.
La tecnica operativa di Chiesi per la realizzazione dei suoi
dipinti si avvale sempre del supporto fotografico dal quale
non può prescindere. L’artista prima fotografa i suoi soggetti, i paesaggi e gli interni, e poi li dipinge. Nella fase
pittorica propriamente detta Chiesi fa uso di colori ad olio
su tele di lino, ma anche di inchiostro nero-violaceo su
carta, probabilmente per la stesura preliminare di bozzetti
e disegni preparatorii. I colori utilizzati sono tre: il bianco,
il nero e il grigio nelle sue diverse gradazioni. Quindi un
colore unico, in realtà, che va dal minimo d’intensità luminosa (il nero) al massimo (il bianco) Occasionalmente
compaiono piccoli elementi rossi. Dunque una tavolozza
ridotta al minimo a conferma del carattere essenzialmente grafico, incisivo e romantic-noir dello stile del pittore. I
tempi di realizzazione sono lunghi e sapienti, dal momento
che l’artista trascorre la maggior parte delle sue giornate
chiuso in laboratorio a dipingere, con lentezza e pazienza
artigianale, come si faceva una volta.
Infine, è interessante rilevare come Andrea Chiesi, nella
scelta dei titoli per le sue ormai numerose mostre personali, faccia spesso ricorso all’uso del vocabolario greco dell’Antichità Classica. E così ci imbattiamo in termini come Apokalypsis, Siderale (di ferro), Moloch/Chronos
(Saturno, il Tempo), Thule (l’Altrove identificato nella mitica
isola dell’Atlantico del Nord, terra di ghiaccio e fuoco sulla
8
<<<Insistenze
quale non tramontava mai il Sole, abitata dal popolo degli
Iperborei e organizzata in una società ideale pressoché perfetta, da sempre considerata il confine estremo della Terra
o addirittura al di là della Terra conosciuta), Kryptoi (appellativo che nell’antica Sparta veniva attribuito ai ragazzi che
si rifiutavano di sottostare a qualunque gerarchia o forma
di potere costituito, che vivevano da antagonisti nascosti
ai margini della città, avevano il cranio rasato e vestivano
sempre di nero), Metamorphosis, Chaos, e il più recente
Ucronie (allostorie, fantastorie, storie di un Altrove).
Goethe,appena arrivato in Italia, scrisse che “dove c’è
molta luce l’ombra è più nera”. Cèline, dal canto suo, che
“tutto ciò che c’è di interessante accade nell’ombra. Non
si sa nulla della vera storia degli uomini”. Andrea Chiesi, forse per proporci una chiave di lettura della sua opera, scrive: “Uffici, qualche scrivania, telefoni e computer
fuori uso, faldoni abbandonati, calendari impolverati, sedie, ricordi evanescenti, echi delle vite trascorse fra queste mura. Lavoro statale, posto fisso, sicuro, pensione, e
poi figli che invece hanno dovuto affrontare il tempo del
precariato diffuso. Muri scrostati, bagni inservibili. Posti
dimenticati, sospesi, inutili, morti, in attesa di scomparire
del tutto…e poi giù nei sotterranei, buio pesto, l’occhio si
è abituato e un po’ alla volta ha iniziato a vedere. Avrebbe potuto esserci di tutto qui sotto, una catacomba, un
mitreo, cadaveri o refurtiva clandestina. Invece non c’era
nulla. Non ero deluso. C’era quello che conta, c’era e non
si vedeva”.
Pagina 9: Ucronie 25, dettaglio, Olio su lino, 50x70, 2013.
*[Simone Scaloni vive a Roma tra le pieghe di una
decennale passione per l’arte. Diplomato in restauro
pittorico, si laurea in seguito in Storia dell’Arte. Si interessa particolarmente alle stampe dell’800 ma non si
preclude incursioni nelle manifestazioni dell’arte contemporanea.]
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<<<Insistenze
svelare velando geremia doria
Insistenze>>>
Land: terra, territorio, paesaggio. Quello offerto dalle multiformi variazioni della natura, o quello realizzato dall’uomo; ancora, le architetture, quelle storiche e millenarie, e
quelle simboliche e cariche di significato.
È in questi territori che si muove la creatività di Christo e
Jean-Claude, coppia simbolo del lavoro sulla percezione visiva dello spazio. È la Land Art, l’arte che si cala nel
paesaggio e lo trasforma, transitoriamente, per restituirlo
uguale a se stesso eppure completamente nuovo. Opere
imponenti e complesse, che a partire dagli anni ‘60 hanno
cambiato i connotati di luoghi famosissimi oppure pressoché sconosciuti fino ad allora.
Il mondo accademico dell’arte per decenni è rimasto sospettoso e chiuso di fronte alla portata innovativa e mediatica di queste opere; il mercato dei galleristi e dei collezionisti, disorientati dal non poter acquistare né possedere
le opere per dare loro un valore monetario, ha faticato ad
entrare in sintonia con la Land Art. Ci sono voluti tempo e
impegno perché questa forma di espressione venisse capita e accolta nell’olimpo dell’arte ‘ufficiale’.
Siamo sul finire degli anni ‘50, Christo Vladimirov Yavachev, di origine bulgara, cresce in una famiglia di imprenditori tessili. Lascia la terra natìa, stretta nella morsa dello
stalinismo più intransigente, e arriva in Austria, a Vienna,
dove si iscrive all’Accademia di Belle Arti. Non completa
gli studi, è irrequieto, si sposta nuovamente, prima in Svizzera, a Ginevra, poi in Francia, a Parigi. Qui conosce quasi
subito Jean-Claude, sua futura sposa e partner artistica.
Aderisce, seppur con scarso convincimento, alla corrente
del Nuovo Realismo di Yves Klein, Mimmo Rotella, Arman.
Si avvicina alle arti plastiche, alla scultura; il suo genio e
il suo vissuto familiare gli suggeriscono di investigare le
potenzialità espressive dei tessuti. Secondo una poetica
non lontana da quella della Pop Art, Christo ha l’intuizione
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di attribuire dignità artistica a oggetti di uso quotidiano e
di scarso valore intrinseco: tutto può diventare scultura,
se avvolto da tessuto e legato con lo spago o con nastri
di vario tipo. Le sue prime creazioni piacciono al mercato,
vendono, riscuotono interesse, e Christo capisce che la
strada è quella giusta, inizia a pensare a realizzazioni ambiziose, vere e proprie sfide da un punto di vista concettuale e materico.
Il 1961 è l’anno in cui i coniugi Christo realizzano la loro
prima collaborazione a Colonia, rivestendo di tessuto pile
di barili al porto industriale.
In questi anni i Christo iniziano una nuova serie di lavori, consolidando e allargando l’uso del tessuto a nuovi supporti.
Rivestono di stoffa vetrine, porte e finestre: nascondono ciò
che c’è dietro, nel tentativo di stuzzicare la curiosità dello
spettatore. L’atto di nascondere, di celare, diventa la cifra
del loro lavoro. È in questo periodo che progettano i primi
rivestimenti di interi edifici e spazi urbani. Conquistano una
fama sempre crescente e i riconoscimenti sul piano internazionale non tardano ad arrivare. Il terreno è pronto per
dar vita ai grandi empaquettages, colossali occultamenti di
edifici, monumenti e spazi naturali.
Le prime realizzazioni interessano la città di Spoleto, con la
Wrapped Fountain e la Wrapped Medieval Tower nel 1968,
nello stesso anno la città di Berna, con la Künsthalle.
Il 1969 è denso di lavoro, con la realizzazione del Wrapped Floor and Stairway al Museo di Arte Contemporanea
di Chicago e la prima opera ad alto impatto sulla natura,
la Wrapped Coast in Australia. Quest’ultima un’impresa
nient’affatto scontata: ricoprire un tratto di costa, per lo
più articolata in scogliere, con il mare non sempre a favore, richiede uno sforzo immane.
Il ripido tratto costiero che viene impacchettato è lungo
quasi 2,4 Km e largo circa 250 m, raggiunge picchi di 26
m di altezza dal livello del mare: 90.000 metri quadrati di
tessuto anti-erosione sono utilizzati, insieme a 56 Km di
corda di polipropilene. Una squadra di 15 arrampicatori
professionisti, 110 operai e studenti dell’università di Sidney lavorano per circa 17.000 ore.
L’Italia è uno tra i primi paesi al mondo ad intuire l’originalità e il valore dell’arte dei Christo, e nel 1970 ospita per la
seconda volta gli artisti, questa volta in Piazza Duomo a
Milano: il monumento a Vittorio Emanuele rimane avvolto
nel tesssuto per 48 ore. Gli artisti ritorneranno nel 1974, a
Roma, per l’impacchettamento delle mura aureliane, nel
tratto compreso tra Via Veneto e Villa Borghese.
Nel 1972 viene innalzata la enorme tenda gialla nella Rifle
Valley in Colorado: un sipario, quasi una diga, a dividere in
due una immensa vallata incontaminata. È un’opera con
un forte richiamo, anche politico: una struttura artificiale
può dividere ciò che l’uomo è abituato a vedere e vivere
come un unicum.
Sempre nel ‘72 l’opera Running Fence mostra una forte
somiglianza con la Grande Muraglia cinese, somiglianza
curiosamente accentuata da una coincidenza: la morte
di Mao Tse-Tung avvenuta il giorno prima l’inaugurazione
dell’opera. La struttura è lunga quasi 40 Km e resta in loco
per due settimane prima di essere debitamente rimossa e
tutti i materiali riciclati.
Pagina 10: Wrapped Fountain, Spoleto,1968. Reinterpretazione
di Pietro Bomba.
Sopra: Valley Curtain, Colorado, 1972.
Quattro anni dopo, nel ‘76, in California, un’opera non
dissimile nel significato viene realizzata alzando una staccionata di tessuto attraverso le contee di Sonoma e Marin.
Gli anni ‘80 sono quelli che consacrano Christo e JeanClaude, cui tutto sembra ormai permesso.
Nel 1983 prende corpo un progetto impensabile: rivestire di tessuto gli isolotti di un arcipelago. 600.000 metri
quadrati di polipropilene rosa rivestono le coste delle isole
della baia di Biscayne in Florida. Le isole, che fino ad allora
erano state utilizzate quasi solo come discariche, si elevano al rango delle Ninfee di Claude Monet. Nel periodo tra il
novembre 1982 e l’aprile 1983 furono venduti oltre 5.000
biglietti di elicottero per sorvolare e osservare l’arcipelago
in questa veste.
L’equipe dei Christo comincia a comprendere che anche
i materiali preparatori utilizzati – tavole, bozzetti numerati, fotografie originali in tiratura limitata, modellini in scala,
prove di tessuti – possono avere un mercato, e contribuire così al sostenimento delle spese: tutto viene messo
in vendita, e il mondo dell’arte, alla ricerca di collectibles,
risponde in maniera entusiastica. Sembra che si sia finalmente trovato il modo di toccare con mano opere intangibili, soddisfacendo i collezionisti a caccia dell’affare e gli
artisti alla ricerca di fondi.
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Insistenze>>>
Nel 1985 la coppia è a Parigi. Il Pont Neuf è uno dei monumenti più amati della città, il ponte sulla Senna più antico della capitale, uno dei luoghi più visitati e fotografati
al mondo.
Per i Christo guadagnarsi l’approvazione ha significato una
battaglia durata 10 anni. L’autorizzazione dovette arrivare
dal sindaco della città, Jacques Chirac, e dal presidente
della Repubblica, François Mitterand. I 40.000 mq di stoffa in poliammide ricoprirono il ponte e lo colorarono d’oro
per due settimane.
Nel 1991 il duo di artisti è in Giappone, paese notoriamente povero di spazi aperti illimitati. Qui i Christo pensano di
intervenire con il collocamento di 1340 ombrelli blu nella
regione di Ibaraki. Un’opera gemellata con i 1760 ombrelli
gialli che nello stesso anno sono disposti in California. The
umbrellas sono un’unica opera d’arte, in due sedi, separate dall’oceano. Il progetto più dispendioso dei Christo,
arrivato a costare 26 mld di dollari. Ogni ombrello è alto
sei metri, con un diametro di circa 9 metri e un peso complessivo di 200 Kg.
Nello spazio limitato e prezioso del Giappone gli ombrelli
sono disposti in maniera intima, molto vicini gli uni agli altri,
a seguire le geometrie delle risaie; nella vegetazione lussureggiante, acquatica, gli ombrelli sono di un blu carico.
Nelle vastità della California e delle sue terre da pascolo,
la configurazione degli ombrelli è libera e senza direzione
precisa. Le brune colline della California sono tappezzate
di macchie dorate, come funghi incantati. Con quest’opera emerge come i Christo siano andati ben al di là dell’impacchettamento, per dare vita ad installazioni sempre più
complesse nel paesaggio.
L’empaquettage del Reichstag di Berlino è il coronamento del sogno di una vita: 24 lunghi anni di preparazione e
di battaglie politiche, per ottenere permessi che arrivano
nel 1995, anno in cui i lavori iniziano. L’opera è pronta
nel Maggio dello stesso anno e riscuote un successo clamoroso.
Nel 1998 prende vita l’installazione dei Wrapped Trees,
alla fondazione Beyeler di Basilea. Gli artisti avvolgono la
cima degli alberi in polipropilene lasciando libero il tronco, a mostrare la forma primordiale dell’albero. Il tessuto
lascia intravedere i rami che premono contro l’esterno,
come se madre natura si stesse sensualmente mostrando
agli spettatori. L’opera rimane in mostra per 3 settimane
durante l’autunno, esposta alle intemperie.
The gates al Central Park, del 1995, nel cuore di Manhattan, la città che non dorme mai e in perpetuo movimen-
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<<<Insistenze
to, una realizzazione zen, meditativa, di cancelli dai quali
sventolano drappi di stoffa arancione.
Jean-Claude, parlando del proprio lavoro, lo ha definito
come ‘incentrato sul sentimento di Meraviglia’: creare stupore, riaccendere la curiosità, svelare qualcosa di nuovo... occultando qualcosa di preesistente. L’opera d’arte,
architettonica, paesaggistica, naturale, c’è già. Il compito
dell’artista è quello di richiamare l’interesse dello spettatore, introducendo una variazione, una modifica nel colore,
nella forma, nella percezione della luce.
Meravigliarsi di qualcosa che si conosce, o meglio, che si
pensava di conoscere fino all’intervento di Christo e JeanClaude.
‘Tutta la nostra opera può essere
intesa come un grido di libertà’
*[Geremia Doria nasce a Trieste nel settembre di 40
anni fa. Interior designer di professione, si interessa di
antiquariato e collezionismo d’arte. Frequenta con regolarità gallerie e case d’asta e negli anni acquisisce e
affina le proprie competenze nell’arte contemporanea,
con una forte predilezione per gli autori figurativi. Scrive
note critiche e monografie per diverse riviste di settore.
Vive con uno Scottish terrier e non è presente in nessun social network.]
Pagina 12: Surrounded Islands, Miami – Florida, 1983.
Sopra: Wrapped Reichstag, Berlino, 1995. Tutte le immagini sono reinterpretazioni fotografiche di Pietro Bomba.
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<<<Insistenze
Nel laboratorio del traduttore
Diwali incontra Michele Piumini
DRC: Puoi farci qualche esempio delle trappole linguistiche di fronte alle quali il traduttore rischia di ritrovarsi lost
in translation?
MP: Uno dei rischi maggiori è quello dei calchi: trovandosi
continuamente a contatto con una lingua straniera, è facile
che il traduttore, senza rendersene conto, riproduca nella
lingua d’arrivo strutture tipiche (nel mio caso) dell’inglese
ma non dell’italiano. A volte è difficile tracciare un confine
netto tra ciò che è accettabile nella nostra lingua e ciò che
non lo è, e mi è capitato di trovarmi in disaccordo con i
miei revisori: le lingue sono sistemi in continua evoluzione,
anche e soprattutto in seguito alle traduzioni dall’una all’altra (vedi il verbo “realizzare” usato nel senso dell’inglese to
realize), ed esistono strutture linguistiche “borderline”. Ma
ciò non toglie che ci siano calchi immediatamente riconoscibili come tali, per quanto diffusi: pensiamo per esempio
a “prendere un respiro” (fino a prova contraria, in italiano i
respiri si fanno).
Insistenze>>>
DRC: Michele, innanzitutto parlaci di te: la tua formazione, le traduzioni che hai all’attivo, i tuoi attuali progetti.
MP: La mia prima vera traduzione risale al 2000, nel pieno
degli studi universitari. Non ho una formazione specifica
orientata alla traduzione: gli studi di lingue e letterature
straniere moderne mi hanno aiutato poco o nulla in questo senso; la motivazione e la passione per questo lavoro
sono nate sul campo e grazie a un profondo amore per la
lingua inglese che coltivo da una ventina d’anni. A tutt’oggi, fra libri per ragazzi, romanzi, raccolte di racconti e saggi di vario genere (soprattutto musicali) ho all’attivo oltre
sessanta titoli. Attualmente sto traducendo The Believing
Brain, un interessantissimo saggio di Michael Shermer, direttore della rivista americana «Skeptic». Seguirà Hercule Poirot and the Greenshore Folly, un inedito di Agatha
Christie.
DRC: Ti sei quindi occupato di narrativa come di saggistica, e all’interno della narrativa hai avuto molte esperienze
nella traduzione di letteratura d’infanzia. Come cambia il
ruolo del traduttore rispetto al genere?
MP: Tradurre per l’infanzia richiede un equilibrio difficile
da definire, che si apprende con l’esperienza: da un lato
occorre trovare soluzioni “a misura di bambino”, dall’altro
non bisogna eccedere nel semplificare e “bambineggiare”, per evitare di risultare paternalistici (per esempio, mai
aggiungere diminutivi assenti nell’originale). In ogni caso,
ciascun genere richiede competenze specifiche.
DRC: Ti sei mai occupato di poesia? In caso contrario ti
piacerebbe?
MP: Mi è capitato di tradurre testi in rima per bambini,
non poesie per lettori adulti. Da appassionato musicofilo
e musicista dilettante mi piacerebbe provare, per misu-
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dare al lettore l’impressione di leggere un testo scritto nella propria lingua, vale a dire non tradotto. Il che ci porta al
“cuore paradossale” dell’arte del tradurre: più il traduttore
è bravo, meno si avverte la sua mano. È il tema, ampiamente discusso, del “traduttore invisibile”.
rarmi con un tipo di traduzione che richiede massima attenzione all’aspetto ritmico e, per l’appunto, musicale del
linguaggio.
DRC: Entrando nel vivo del processo traduttivo, quali sono
le maggiori difficoltà del mestiere?
MP: Come accennavo prima, ogni genere ha le proprie caratteristiche e difficoltà. Per tradurre saggistica, per esempio, occorre saper svolgere ricerche mirate ed efficaci, e
per spaziare da un genere all’altro bisogna sapersi calare
in maniera quasi “camaleontica” nei vari registri: even if lo
puoi tradurre “malgrado” in un romanzo o in un saggio,
non in un libro per bambini. Nel complesso, c’è una “regola d’oro” che vale sempre: tradurre bene significa saper
DRC: Quali sono le maggiori difficoltà di resa a livello stilistico?
MP: In generale, possiamo dire che tradurre narrativa richiede uno sforzo ininterrotto per “annullarsi” nella voce
dell’autore: una certa dose di soggettività è inevitabile, ma
occorre resistere alla tentazione di “abbellire” il testo, riscriverlo mettendoci del proprio (non è facile, specie quando
si traduce per la/e prima/e volta/e) e soprattutto sciogliere
i nodi, spiegare ciò che l’autore lascia volutamente oscuro. Nella saggistica, genere per definizione denso e “informativo”, occorre impostare sintatticamente i periodi in
modo da renderli chiari e “naturali” senza perdere per strada nessun elemento: un risultato che, essendo l’inglese
per sua natura più sintetico e quindi in qualche modo più
“nonfiction-oriented” rispetto all’italiano, spesso si ottiene
inserendo subordinate o addirittura sdoppiando i periodi.
e al tempo stesso di compartecipazione che consente
di trasporre contenuti e forme linguistiche da una lingua
all’altra?
MP: Difficile rispondere senza fare esempi concreti, in
ogni caso la traduzione (non sono certo il primo a dirlo)
è un processo di negoziazione continua: l’equidistanza
è un ideale a cui si tende costantemente, ma a volte,
per garantire la leggibilità del testo, sacrificare (ed eventualmente “italianizzare”) qualcosa è inevitabile. Va inoltre ricordato che esistono lettori e lettori: chi legge un
saggio è mediamente attrezzato a comprendere riferimenti “altri”. C’è poi la nota del traduttore, strumento al
quale per varie ragioni è bene ricorrere con parsimonia:
sta alla sensibilità del singolo traduttore decidere quando è il caso, ed è comunque prevista e accettata solo
nell’ambito di certi generi testuali.
DRC: Quali sono le strategie da mettere in atto di fronte
all’impossibilità di trovare un corrispettivo adeguato a
espressioni linguistiche o concetti culturalmente specifici?
MP: Dipende dal contesto. Mi è capitato di trovare il
termine changeling in una biografia di Jim Morrison di
cui ho tradotto una parte: se si fosse trattato di un libro
sul folklore americano avrei lasciato il termine in inglese
aggiungendo la definizione, ma in quel particolare caso
ho scelto, prendendomi una piccola libertà, di renderlo
con “trovatello”. Non è la stessa cosa, ma ho ritenuto
che nel contesto il termine potesse avere un senso sufficientemente simile a quello di changeling nell’originale.
DRC: Ti è mai capitato di incontrare difficoltà insormon-
DRC: La traduzione quindi è un processo che comporta
necessariamente uno spaesarsi, un rinunciare alla propria
identità linguistica per approdare nella terra di nessuno
tra due universi culturali, farsi ponte per il testo e per i
lettori. Ci sono particolari strategie che metti in atto per
raggiungere questa particolare posizione di equidistanza
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Insistenze>>>
tabili e quindi di rinunciare alla scelta di un traducente? In
questo caso, sei favorevole o contrario alle note a piè di
pagina?
MP: Credo che si possa parlare di intraducibilità insormontabile solo a proposito delle cosiddette culture-bound
words, vale a dire le parole (come l’appena citato changeling) che si riferiscono a idee o oggetti specifici di una
cultura e in quanto tali intraducibili nelle altre lingue: anche
l’italiano ne ha (basti pensare a “pizza”). Se il contesto impone di riprodurle nella loro forma originale e di fornire la
definizione, tendo a inserire quest’ultima direttamente nel
testo: la nota del traduttore, che spezza l’uniformità grafica della pagina, la riservo a questioni che richiedono un
chiarimento più ampio.
DRC: In genere qual è il tuo atteggiamento nei confronti
del testo culturalmente dato e quindi, in ultima analisi, del
lettore: preferisci mantenere un senso di straniamento oppure scegli di addomesticare il testo? Puoi farci qualche
esempio?
MP: Una delle domande più frequenti che gli allievi mi fanno è: “Quanto bisogna essere fedeli all’originale? Quanto
ci si può allontanare?”. Non esiste una formula sempre
valida, non parliamo di una scienza esatta: l’unica soluzione è valutare caso per caso, e l’unica indicazione che mi
sento di dare, e alla quale cerco di attenermi per quanto
possibile, è che bisogna allontanarsi dall’originale solo se
è davvero necessario. Naturalmente il concetto di “necessario” è quanto mai relativo: proprio per questo, si può e
si deve discutere di ogni singolo caso.
DRC: Parliamo del rapporto con l’autore. Sappiamo che
spesso il traduttore può e anzi deve interloquire con l’autore per poter proporre una resa adeguata dei punti più
oscuri o ambigui. Puoi raccontarci qualche tua esperienza?
MP: Ultimamente mi capita quasi sempre di scrivere ai
“miei” autori: mi presento e chiedo il permesso di contattarli in caso di dubbi o domande. Sono sempre molto felici
di collaborare, perché lo interpretano come un segno di
professionalità e scrupolosità. L’esperienza più sorprendente in questo senso riguarda Simon Reynolds, un critico
musicale inglese del quale ho tradotto Post-punk 19781984, Hip-hop-rock e Retromania: avendogli segnalato
16
<<<Insistenze
alcune imprecisioni nei primi due libri (utili ai fini di eventuali ristampe), mi ha inserito nei ringraziamenti del terzo.
Qualche mese fa, a New York, ho avuto il piacere di pranzare insieme a Will Hermes, un altro giornalista musicale,
del quale ho tradotto New York 1973-1977.
DRC: Come cambia quindi l’atteggiamento nei confronti
del testo se l’autore non è più in vita, ad esempio nel caso
della ritraduzione dei classici?
MP: Nell’impossibilità di comunicare con gli autori scomparsi, in caso di dubbi un paio di volte (traducendo Jack
Kerouac e Oscar Wilde) mi è capitato di entrare in contatto
con i curatori dei volumi originali. Riguardo al testo, cerco
di mantenere un non sempre facile equilibrio tra la fedeltà
al tono e al linguaggio “d’epoca” dei classici e la necessità
di produrre una versione che sia leggibile al giorno d’oggi.
DRC: Per quanto riguarda invece il rapporto con l’editore,
puoi svelarci qualcosa di ciò che avviene dietro le quinte,
ossia in redazione?
MP: Ogni editore fa storia a sé, e molto dipende dalle dimensioni: più l’editore è grande, più può permettersi di
diversificare il lavoro, assegnando le varie fasi (correzione
bozze, editing, impaginazione...) a persone distinte. Nelle realtà più piccole, invece, è tipico il caso dell’editore
in persona che fa “tutto da solo”. In veste di traduttore
a confronto con i revisori, mi capita raramente di dover
ingoiare rospi o avere a che fare con personaggi irragionevoli: nella stragrande maggioranza dei casi, la proficua
collaborazione con revisori eccellenti permette a me e a
loro di imparare molto, ed è la strada maestra per arrivare
alla migliore versione possibile del testo.
DRC: Sappiamo che sei anche insegnante di traduzione:
ci racconti la tua esperienza con Herzog?
MP: È nata nel 2005 quasi per caso, grazie a un incontro
fortuito. Non avevo mai insegnato prima, ma per qualche
ragione sentivo che era nelle mie corde, perciò mi sono
proposto. Nove anni dopo, non posso che dirmi felice di
aver assecondato quell’istinto: il feedback dei miei allievi è regolarmente positivo, e la soddisfazione più grande
è aver aiutato molti di loro a cominciare a tradurre (se
esordienti assoluti) o incrementare notevolmente il volume
delle traduzioni. Alcuni dei titoli che hanno tradotto (per
esempio Argo, cotradotto dalla mia collega ed ex allieva
Sara Crimi) suscitano tutta la mia invidia! Senza contare,
ovviamente, tutti gli spunti che gli allievi mi danno permettendomi di migliorare continuamente e imparare da loro
almeno quanto loro imparano da me.
tempo stesso creatività. Le tariffe sono in genere molto
basse, il riconoscimento da parte della collettività e del
mondo della cultura in generale è scarso, per non dire
inesistente. La situazione oggi è ancora invariata? Vedi
qualche spiraglio per il futuro dei traduttori?
MP: Gli spiragli sono pochi, è vero, ma per esperienza
posso dire che ci sono: qualche mese fa una mia ex allieva diventata editor di una piccola casa editrice mi ha
chiesto dei nomi per organizzare una prova di traduzione, e ora alcuni altri allievi stanno lavorando per lei. So di
insegnanti che scoraggiano gli allievi, perché “diventare
traduttori è impossibile”: è un atteggiamento che non
capisco, se lo pensassi anch’io non vedrei motivo per
continuare a insegnare. Ciò non significa che io voglia
in alcun modo sminuire le enormi e innegabili criticità:
quello del traduttore, in particolare nel nostro paese, è
un lavoro difficile da cominciare, malpagato, poco riconosciuto e sostanzialmente privo di garanzie. Proprio
per questo io consiglio di provarci solo a chi è davvero
motivato, perché solo la motivazione, unita a un pizzico
di fortuna, può regalare al traduttore soddisfazioni straordinarie, tali da convincerlo che ne vale la pena.
DRC: Come cambia il ruolo del traduttore quando si fa
insegnante per trasmettere i ferri del mestiere?
MP: Insegnare a fare il proprio mestiere è un’esperienza
unica, che consiglio a chiunque ne abbia la possibilità,
soprattutto se parliamo di un lavoro, come quel del traduttore, nel quale non si “arriva” mai: si può (e si deve)
migliorare sempre. Il confronto con gli allievi mi permette
di inquadrare il mio lavoro da un punto di vista diverso
e, come già detto, di imparare moltissimo: spesso dalla
“freschezza” degli esordienti spuntano istintivamente soluzioni più efficaci di quelle trovate dopo lunga riflessione
dal traduttore affermato. Ogni volta che le loro idee mi
piacciono più delle mie, e non capita di rado, sono felice
di riconoscerlo.
DRC: Quello del traduttore non è un mestiere facile: richiede competenze, impegno, abnegazione, rigore e al
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<<<Insistenze
Dietro al muro dell’arte: il mistero
di Banksy Valerio francola
Insistenze>>>
Osservare le opere di Banksy, scorrendo le immagini senza soluzione di continuità, dà fin da subito l’impressione di
essere di fronte a qualcosa di nuovo. Ancor prima di conoscere e approfondire il personaggio si ha la percezione
che la cosiddetta Street Art con Banksy raggiunga una
dimensione, pur discussa, di autentica arte. Sono diverse
le intuizioni dell’artista inglese che suscitano un meritato interesse. Partiamo dalla tecnica dello stencil, utilizzata intensivamente, che diventa uno strumento allo stesso
tempo funzionale e simbolico per la Street Art: si tratta
di una metodica molto veloce ed economica che ben si
presta all’utilizzo da parte di giovani artisti (spesso con
pochi soldi in tasca), costretti a esprimersi attraverso un
linguaggio illegale. La tecnica si lega inevitabilmente all’altra caratteristica fondamentale dell’opera di Banksy e più
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in generale della Street Art, la superficie impiegata: è lo
spazio pubblico, urbano, architettonico e paesaggistico.
Il fruitore dell’opera è il semplice passante, o chi si affacci
da una finestra su un palazzo diventato ‘tavola’ o ancora
chi, seduto su una panchina di una stazione ferroviaria,
aspetti il proprio treno. La città diventa un museo a cielo
aperto, tutti siamo potenziali spettatori: Banksy rapisce i
passanti inconsapevoli, strappandoli alla loro quotidianità, anche solo per pochi secondi. È in questa incursione
nel nostro vissuto che la Street Art trova il modo di sorprenderci, di farci riflettere, sorridere, spesso amaramente. Il messaggio diventa immediato, libero da preconcetti,
arriva dal muro grezzo dritto alla componente emotiva di
ognuno di noi.
Cerchiamo di capire meglio chi è Banksy. Nasce a Bristol,
sesta città più popolosa dell’Inghilterra famosa per la produzione del cartone, probabilmente nel 1974 o 1975. Non
si tratta di incertezza di chi scrive, Banksy vincola la sua
attività all’anonimato, scoop e informazioni sulla sua presunta identità si rincorrono da anni. In una ‘sedicente’ intervista al The Guardian, fu lo stesso giornalista a domandare alla persona che sedeva di fronte a lui come avrebbe
potuto avere la certezza di intervistare il vero Banksy. La
risposta fu: ‘You have no guarantee of that whatsoever’,
‘Even his mum and dad don’t know who Banksy is’ e
ancora ‘They think I’m a painter and decorator’. L’anonimato è per Banksy in parte una necessità, per poter lavorare serenamente senza incorrere in continue problematiche legali, ma è anche indubbiamente una geniale mossa
pubblicitaria. La strategia ha attirato l’attenzione di gente comune e di molti personaggi celebri, affascinati dalla
scelta in controtendenza di un artista che decide di rimanere nell’ombra in un mondo dove affermare la propria
fama sembra un must. L’anonimato dà a Bansky la libertà
di lavorare su qualsiasi tema, senza vincoli di alcun tipo,
anche quando vengano trattati argomenti politicamente
o eticamente controversi: le rappresentazioni dall’artista
infatti ruotano quasi sempre intorno a slogan contro la
guerra, anti-capitalistici, anti-establishment e a favore della pace. In qualche occasione anche le opere più ironiche
e ‘leggere’ riportano immagini che possono destare reazioni negative, soprattutto quando il fruitore non sceglie
di guardare ma è spettatore obbligato (a volte fin troppo
giovane …), come già abbiamo accennato in precedenza. Sono un esempio le opere raffiguranti gli organi riproduttivi femminili resi attraverso il naturale sviluppo di una
pianta cresciuta lungo un muro o ancora la celebre cabina telefonica piegata e sanguinante di Londra, ferita da
una lancia infilzata. Non possiamo pretendere per Banksy
quello che nemmeno artisti più ‘tradizionali’ della storia
dell’arte hanno avuto, e cioè un consenso unanime della
critica. A metà tra l’essere considerato infatti un vandalo
e l’estremo opposto, ovvero un rivoluzionario impegnato
nello stravolgimento dello status quo culturale (si veda il
murales in cui gli attori di Pulp Fiction impugnano banane
invece di pistole), la carriera di Banksy è una escalation di
idee radicali.
Prima di tutto i famosi Rats, apparsi per la prima volta nelle
strade di Bristol, per poi invadere anche le vie di Londra,
New York e Parigi; i Rats sorreggono cartelli con messaggi tra i più svariati, da ‘we are all fakes’ a ‘you lie’, fino al
simbolo della pace. Ma sono rappresentati anche impegnati nell’utilizzare oggetti per loro ‘inusuali’ come macchine fotografiche, ombrelli o armi. Il soggetto dei topi è
stato scelto in quanto si tratta di esseri odiati, cacciati e
perseguitati, eppure capaci di mettere in ginocchio intere
civiltà. ‘Se sei piccolo, insignificante e poco amato allora
i topi sono il modello definitivo da seguire’, ha affermato
l’artista stesso.
L’attività di Banksy non si ferma soltanto agli spazi aperti,
anche sedi istituzionali diventano oggetto delle incursioni
del writer inglese. Tra le sale dei più apprezzati musei internazionali si sono trovate ‘stranezze’ senza precedenti: aggiunte di elementi palesemente contrastanti con le
opere originali (oggetti contemporanei, personaggi che
fuoriescono dal quadro etc.). In alcuni casi i musei hanno
deciso di mantenere l’opera ‘abusiva’ nella propria collezione permanente: emblematico è il caso della piccola
tavoletta ‘primitiva’ raffigurante una figura umana stilizzata a caccia mentre spinge un carrello della spesa, ancora
visibile nella Galleria 49 del British Museum.
Sono soltanto alcuni esempi importanti di idee che hanno
reso Banksy sempre più conosciuto a livello internazionale, non solo per il suo profilo satirico e umoristico ma an-
Pagina 18: Uno dei Rats apparsi nelle strade di Londra.
Sopra: West Bank Barrier, Israele, 2005. Tutte le immagini sono reinterpretazioni fotografiche di Giulio Gonella.
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Insistenze>>>
te delle difficoltà che ha dovuto affrontare, Banksy segue
senza interruzione, con decisione e convinzione, il suo
percorso. Possiamo plausibilmente considerarlo come
colui che ha elevato la Street Art a livelli impensati prima,
a dispetto di quanti hanno sempre considerato questa
forma d’arte come l’espressione metropolitana del malessere di minoranze etniche anglo-americane.
«Creating a work of art is creating a world; art is never an adventure of fancy because in a work of art the primordial forces must come out clearly» W. Kandinsky
*[Valerio Francola è uno storico dell’arte romano
formatosi all’Università ‘La Sapienza’ specializzandosi negli studi dell’arte contemporanea. Collabora
con diverse riviste come critico ed opinionista e negli ultimi anni ha avuto modo di approfondire il complesso tema dei beni culturali nell’ambito del lavoro di
ricerca portato avanti dalla Fondazione Astrid e culDue opere in cui Banksy rielabora immagini molto note: la fotografia che
ritrae la disperazione di Kim Phúc durante la guerra del Vietnam. La
bambina è tenuta per mano da Mickey Mouse e Ronald MacDonald.
La colomba della pace con un giubbetto anti-proiettile e il mirino di un
cecchino puntatole contro.
20
Amir Wahib and the Perspectives
of Time Mara Quadraccia
minato con la sua collaborazione alla recente pubblicazione ‘I beni culturali tra tutela di mercato e territorio’, a cura di Luigi Covatta, edita da Passigli Editore.]
The creative process of the young talented Amir Wahib
has deep and solid roots in his culture: not only Time but
also Place. Having an influence on our formation as human beings these two basic elements are fully balanced
in the artist.
His long and challenging project on clocks and buildings
in Manhattan comes, consciously or unconsciously, from
a specific time and place; his Egyptian origin and his home
in Heliopolis remind us of the obelisks and the pyramids
that force us to look up at the sky while firmly standing
on the ground.
It is the attitude of the ancient and modern man in the
in the quest for a meaning of “religo”, the connection
between earth and heavens, physics and metaphysics.
The image of Aton may easily appear considering Amir’s
attraction for the present religion of Time: the artist proudly
claims that he has a complete respect for punctuality
“clocks show the perfection that humans have reached”.
It is no accident that he has chosen to conduct his project
in N.Y.C., the city that never sleeps, where you have to
be on time or you may take your time, whose very heart
is Times Square.
Times and squares, clocks and buildings, going beyond
time and beyond space, from visible to invisible and,
through art, back from the invisible to the visible
The artist, an architect and designer, has the ability to discern orderly patterns where lines build up other dimensions and unveil new perspectives in urban landscapes
Amir owes a great deal to the early Impressionists, especially Matisse, even in the subjects of some of his paintings, as according to his favorite master “Art is made of
balance… in a way like a good chair”.
In fact chairs are some of Amir’s favorite subjects, which
he identifies as male elements: an empty chair seems to
be waiting for someone but with no need to be occupied
as it rests on the basis of its four legs, like four pillars or
four lines formed by an intersection.
His art is also generated from Kandinsky in the dynamic
utilization of warm and cold colors, yellows and blues,
and of points, lines and curves.
The inner subjects open up to far away perspectives sometimes on a calm horizon, more often on a succession
of elements, like doors, shutters or windows which still
convey a sense of waiting, for something to happen or
for someone to arrive.
The lack of a human figure in these works does not betray a lack of interest in the human body; his first painting
Insistenze>>>
che per performance dalla valenza ideologica importante:
nell’agosto del 2005 l’artista ha realizzato 9 murales lungo
il muro che Israele ha eretto lungo le zone di Betlemme,
Ramallah e Abu Dis (Cisgiordania). Si tratta di ‘squarci’
realizzati con la tecnica del trompe l’oeil che permettono
di ‘guardare’ al di là del muro, talvolta insieme a figure di
adolescenti, vittime di un sistema che non li tutela a sufficienza.
Pur tra diverse difficoltà Banksy, molte delle quali emerse
chiaramente ripercorrendo opere e temi dell’artista, continua a lavorare seguendo il suo metodo. Non importa se
un anonimo writer nel 2010 oscura la sua reinterpretazione della Santa Teresa del Bernini, raffigurata con in mano
delle patatine e un panino in via Benedetto Croce a Napoli; o ancora non importa se l’ex sindaco di New York,
Michael Bloomberg, nel 2013 ha definito i graffiti ‘segni di
decadenza’ riferendosi al lavoro che Banksy stava portando avanti riqualificando i muri di diversi quartieri di New
York, da Staten Island all’Upper West Side; e ancora non
importa essere corteggiati da potentissime multinazionali.
Anche di fronte a tutto questo e forse anche grazie a mol-
21
Insistenze>>>
being a portrait of his mother, then presenting female
figures as the central subjects of some of his most fascinating works. There he seems to get closer to Nolde’s
Expressionism, both in the use of colors and the similarity
in the choice of backgrounds, which are usually marinas.
In addition to this aspect he seems to recall the German painter when he focuses his attention on religious
subjects, such as the Last Supper.
There are also Renaissance reminiscences for the presence of his own portrait in the group and with the circularity and movement as in Chagall, strength in the section
of powerful colors.
Yet he has turned to abstraction to recall the human presence in the grids of time and space so that the subjective experience takes on inner observations.
If, according to Kandinsky in “Du Spirituel dans l’Art”,
spiritual life is a pyramid where the artist has the mission
to lead to the top, Amir is working on the right perspective as an artist of our time.
Pagina 21: Autoritratto, acrilico su tela.
Sotto, a sinistra: The Clock Tower, acrilico su tela.
<<<Insistenze
Nelle opere di Amir Wahib, giovane e talentuoso artista nato a Il Cairo ma residente e attivo a New York,
si compie l’ostensione spaziale del tempo, religione
postmoderna. Attraverso lo slancio verticale proprio
delle piramidi e degli obelischi della terra natia, Wahib
salda il legame tra fisica e metafisica in una pittura che
ricerca l’oltre del visibile per tracciare nuove dimensioni nei paesaggi urbani. L’equilibrio dell’impressionismo
di Matisse e la predilezione per le geometrie e l’alternarsi di colori freddi e caldi di Kandinsky concorrono
a creare lo spazio dell’attesa: emblema ne è la sedia
vuota, soggetto preferito dall’artista, ma anche porte,
finestre, imposte socchiuse intervengono a coniugare il
non-tempo verbale. Non manca l’attenzione per il soggetto umano: figure femminili potenti ed enigmatiche
che popolano quadri in cui i cromatismi decisi e la scelta di temi religiosi e ambientazioni marine richiamano
la lezione espressionista di Nolde. Tuttavia l’interesse
dell’artista è prevalentemente orientato all’oggetto, al
paesaggio, al reticolo di spazio e tempo privato del soggetto umano: unica via interiore per la vetta della spiritualità che gli artisti come Wahib aiutano a conquistare.
Sintesi in Italiano a cura di Michela Pistidda
A destra: Times Square, 40x30 inc., acrilico su tavola.
In questa pagina, dall’alto in senso orario:
The Corridor, 40x28 inc., acrilico su tela.
The Dancing Chair, 28x20 inc., acrilico su tela.
My 4 Doors, 24x20 inc., acrilico su tela.
*[Mara Quadraccia, born in Amelia, Umbria 19 Feb.
1953, is a teacher of English and the President of the
UNITRE, Adult Education Association. From 1989 to
1994 she was elected in the Town Council and was responsible for Tourism and Education and then for European partnerships.
She has organized many art exhibits and presented
many books of poets and writers. She is the author of
a book on traditional cooking “Le Umbriache” and of
specialized guide books. She has run many European Leonardo Projects and the Grundtvig 3T, Traditions
Through Time.]
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<<<Insistenze
Topografie dell’assenza
Michela Pistidda
Insistenze>>>
Perdere la strada, perdere l’orientamento nella “foresta di
simboli” che è la realtà urbana per antonomasia: la metropoli, Londra. Toccare i margini e precipitare nella non esistenza degli esclusi: diventare l’Altro, lo straniero, il corpo
estraneo nell’organismo della società. E tuttavia è possibile smarrirsi senza perdersi del tutto; praticare la psicogeografia, ovvero indagare lo spazio urbano percorrendolo a
piedi, inventare nuove modalità di creazione e riconquista
della città, forgiare significati altri e sovvertire quelli predominanti sono metodi che permettono di ristabilire il nesso
tra individuo e comunità, di varcare lo strappo nella rete
opprimente del discorso egemone, di trovare l’uscita dal
dedalo intricato di segni e metafore metropolitane.
Queste strategie rivoluzionarie di rilettura e ricostruzione
creativa del corpo urbano come resistenza alla margina-
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lizzazione vengono messe in pratica nella Londra di Neverwhere, miniserie TV trasmessa dalla BBC nel 1996 e
nel 2000 diventata un libro fantasy di grande successo
tradotto e pubblicato in Italia da Fanucci (Neil Gaiman,
Nessun dove). Al centro della narrazione è la società di
Londra Sotto, una città parallela che si sviluppa al di sotto
della Londra “istituzionale” e che dà rifugio ai senzatetto, ai reietti, ai vagabondi, a tutti i soggetti marginali ed
emarginati. In questo non-luogo il protagonista, Richard
Mayhew, si trova suo malgrado catapultato: perde casa,
lavoro, affetti; diventa letteralmente invisibile; e insieme a
un gruppo di personaggi si trova costretto a vagabondare
nel sottosuolo, in cerca di un mostro mitologico annidato
nelle viscere della città.
Sotto un’apparenza leggera e fantastica di fiaba metropolitana, la narrazione si presta a infiniti piani di lettura e
chiama in causa concetti e categorie imprescindibili per
analizzare la realtà postmoderna, in primis il ruolo della
città e il rapporto tra spazio urbano e spazio umano, ossia la società e l’individuo. Infatti, se la città è un testo,
un sistema di segni simile a un linguaggio, come sostiene Barthes, al tempo stesso è anche un palinsesto, un
manoscritto su cui vengono scritti, cancellati e iscritti altri
significati politici, sociali e culturali. Impossibile da mappare per la sua intrinseca ipertrofia spaziale e semiotica,
la metropoli viene a perdere il ruolo di punto di riferimento della collettività, della memoria, dell’identità. Anche la
concezione del tempo in quanto entità diacronica lineare,
misurabile e quindi affidabile, muta e cede alla soggettivizzazione, alla manipolazione, alla distorsione in una miriade di percezioni personali contrastanti. I confini tra città
reale e immaginaria si fanno porosi, mentre nuovi divieti,
barriere, spazi proibiti vengono imposti attraverso il dispiegamento di un panopticon moderno, realizzato con
«Ricreare con la fantasia lo spazio urbano per sopravvivere all’esclusione sociale»
una pletora di sistemi sofisticati, ad esempio gli impianti
di telecamere a circuito chiuso.
La ristrutturazione continua dello spazio urbano promossa dalle dinamiche del capitalismo intacca quindi i tessuti
molli della città: narrazioni, immagini, storie, ricordi, sogni,
gli individui stessi. La malleabilità del corpo urbano porta
con sé la malleabilità del corpo sociale: la norma non è più
il convivere comunitario, ma la polverizzazione dinamica in
una miriade di monadi isolate e irrelate. Lo spazio urbano
viene investito dalla logica dell’usa e getta, è prodotto da
consumare ed eliminare; lo stesso avviene con il ruolo sociale degli individui. In un corpo urbano che appare come
il risultato di una operazione di collage spazio-temporale
simile al montaggio cinematografico, i soggetti umani si
trovano spiazzati. Il carattere della metropoli apre infatti la
strada a infinite possibilità di costruzione del sé, ma può
dall’altro lato favorire il disorientamento, l’esclusione, l’alienazione e l’espulsione dal consorzio civile. Chi incarna
l’alterità, in qualsiasi modo essa si declini, viene scartato,
emarginato e si perde: scompare.
E finisce a Londra Sotto. Londra Sotto, per dirla con Foucault, è un’eterotopia, ossia uno spazio fuori dallo spazio
che contiene tutti i luoghi reali di una cultura e li collega
rappresentandoli, contestandoli e sovvertendoli; e un’eterocronia, ossia un luogo fuori dal tempo dove il tempo
si accumula e vengono riassunte tutte le epoche. Londra
Sotto costituisce il nuovo cuore di tenebra di retaggio imperiale, il margine per antonomasia dove si annida l’alterità, l’epitome dello scarto, delle macerie, dell’invisibile.
Equivale al subconscio di Londra, che è composto dai
sedimenti della storia di grandi e umili, da ricordi dimenticati e sogni abortiti, da trame letterarie e reticoli culturali,
da archetipi antropologici e topoi letterari. E per tracciare
le geografie dell’assenza, è appunto necessario adottare
il punto di vista degli “scarti” della società, ossia i soggetti e le comunità che vivono i margini. Proprio per questa
posizione eccentrica, gli abitanti di Londra Sotto hanno
accesso al sottotesto della metropoli, invisibile deposito
simbolico e metaforico dove si sovrappongono silenziosi
i secoli, tra le stazioni abbandonate della metropolitana, i
tunnel antiaerei della seconda guerra mondiale, la rete fognaria, i fiumi sepolti e le fosse comuni. Per riappropriarsi
dello spazio urbano gli abitanti di Londra Sotto praticano
la flânerie dello scarto, perché solo attraversando e conoscendo la spazzatura simbolica, recuperando il passato
dimenticato e cancellato, si può accedere a una comprensione maggiore della città, del corpo sociale e degli individui; inoltre si dedicano al détournement, ossia strappano
al contesto di appartenenza luoghi istituzionali, punti di
riferimento geografici e culturali, tradizioni consolidate per
riempirli di nuovi scopi e significati. Ad esempio il Mercato
Fluttuante, il più grande bazar delle comunità nomadiche
di Londra Sotto, richiama la pratica delle TAZ, occupazioni temporanee di aree urbane altrimenti interdette. Di
volta in volta si tiene di notte in uno dei cosiddetti “spazi
dell’autorità”, ovvero luoghi ad altissima carica simbolica,
accessibili al pubblico durante il giorno e carichi di un ruolo funzionale al potere politico o economico: i grandi magazzini Harrods, l’incrociatore HMS Belfast e perfino il Big
Ben. I territori simbolo del potere da cui certe comunità
sono state espulse vengono quindi rivendicati da queste
stesse comunità e ricolonizzati con un sistema altro di valori e di senso.
La riappropriazione passa anche attraverso la ridenominazione: edifici, quartieri, stazioni della metropolitana assumono a Londra Sotto un nuovo nome grazie a procedimenti ludici, calembour, analogie, assonanze. Ad esempio,
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Insistenze>>>
ti, non possono essere controllati, circoscritti, disciplinati
nello spazio. La mobilità che incarnano elude qualsiasi
panopticon ed è in aperta contestazione delle ossessioni stanziali contemporanee. Viaggiare, più precisamente
camminare, è l’unico sistema per entrare genuinamente in relazione con la metropoli postmoderna: per comprenderla è necessario esperirla fisicamente, percorrerla,
camminarla.
Inventando nuovi significati simbolici e pratiche sociali con
un uso sovversivo degli spazi e dei tempi del margine, gli
abitanti di Londra Sotto ci insegnano che lasciare briglia
sciolta alla fantasia e riplasmare di nuovi sensi il reale sono
le uniche modalità di sopravvivenza allo spaesamento e
all’alienazione della condizione postmoderna.
*[Michela Pistidda, traduttrice per una piccola agenzia milanese, è funambola di parole nel quotidiano ma
perde l’equilibrio se si tratta di scrivere la propria biografia.]
Pagina 24: Presentazione della serie Neverwhere andata in onda per la BBC.
Pagina 25: The Banquet in the Thames Tunnel, George Jones, olio su tela, 1827.
Sopra: Metropolitana di Londra, fotografia di repertorio.
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PAGANi Maria carla trapani
Potremmo ritirarci in paese, ma solo per spaesarci. Conteniamo questo desiderio nel solco lasciatoci da un etimo che consapevolmente tradiamo, per rimescolarlo a
nostro piacimento. Perché è in un ager pagensis il nostro paese, nel Villaggio che è anche Castello, ma non
Patria o Nazione, né asfittica cittadina. Il paese che può
spaesarci è situato su un “colle”, su “picco di monte”,
un campo nel quale mettere al riparo i corpi, gli affetti,
i beni della nostra comunità. Un campo sicuro, perché
fortificato, non dall’uomo, ma dalla natura; su un colle,
appunto, o su un picco di monte. Un campo sicuro che
assicura, anche, perché preserva uno spazio che si sottrae alla religione del nostro tempo. Nel paese che spaesa crescono i pagani. Abitatori del pago, possono farsi
guardiani degli dei di un tempo altro, devoti di dei falsi
ai cittadini, ma sacri ai paesani. Come pagani, abitano il
paese per spaesarsi.
Abitare il paese da pagani è quindi spaesarsi, aperti all’abisso di un culto che solo nel nostro villaggio è investito
del sacro.
Lo stato di eccezione è proclamato, dal basso. L’Apocalisse culturale, nella forma della chiacchiera quotidiana,
non è più profilo all’orizzonte, ma realtà vissuta nella polis. E non ha senso fuggire, se non per divenire abitatori
del pagus. Il solo luogo in cui il rito non è immediatamente sussunto alla chiacchiera. E solo nel rito non desacralizzato l’arte può sottrarsi alla sua fine, che è la fine
dell’uomo.
Ma l’arte è allora resistenza agli dei del nostro tempo,
desacralizzati all’origine, secolarizzati se non da sempre
nel secolo. Occorre perciò volgere lo sguardo alla fortezze, dove gli uomini custodiscono il sacro nella devozione
agli dei di un tempo altro. I pagani in questo senso resistono, e solo loro, spaesandosi.
A volte gli artisti smettono di resistere. Depongono le
armi, per conservare, quasi sempre ingannandosi, quel
po’ di gloria che il complicato intreccio di mercato e riconoscimento ha concesso loro. Oppure sconfitti dalle cose
piccole, incalzati o schiacciati da un destino umano che
storna lo sguardo, sfila gioie dalle dita, aggrava lo sguar-
Insistenze>>>
il distretto di Knightsbridge diventa “Night’s bridge”, ovvero “il ponte della notte”: presso l’omonima stazione della metropolitana c’è un ponte che si protende sopra un
abisso di tenebra. Per tracciare nuove geografie del potere è utile anche dare vita a un processo di metamorfosi in
molteplici direzioni. Il corpo umano diventa corpo urbano
e viceversa: la stazione di Seven Sisters dà vita a sette
sorelle guerriere. Il confine tra reale e immaginario evapora, tanto che sotto stazione della metropolitana di Islington, chiamata “Angel”, si nasconde un arcangelo caduto,
Lucifero postmoderno, mentre i treni della metropolitana
assomigliano a creature selvagge simili ai vermi di Dune.
Infine, anche la distinzione tra umano e animale sfuma:
la comunità zoomorfa dei “parla-con-i-ratti” è asservita ai
topi antropomorfi di Londra e come suggerisce lo stesso
nome vengono meno anche le barriere del linguaggio.
Onnipresente è la dimensione del viaggio. I personaggi
attraversano spazio e tempo e vivono il nomadismo, l’adesione incondizionata alla scissione tra identità e luogo,
che paradossalmente consente di esercitare un potere
maggiore sul territorio. Gli abitanti di Londra Sotto, infat-
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Insistenze>>>
colori, che non sono altro che il loro scorrere, che non richiamano attenzione, insensibili alla cura. Disattenti e incuranti, gli
artisti sono allora conformi alla patria, tradendo il paese nel
quale pure, un giorno, hanno sentito di potersi spaesare.
I territori astratti di Attilio Faroppa
Helmut Schilling
Attilio Faroppa intraprende il proprio percorso artistico alla
fine degli anni ‘80, dopo essersi trasferito a Roma dalla
Svizzera dove è nato nel 1952 e ha lavorato nel mondo
della finanza a Lugano. Pur amando molto la terra natìa,
l’ambiente formale e freddo delle banche suscita in Faroppa un sentimento crescente di allontamento: un mondo
che non gli appartiene, troppo distante dalle infinite declinazioni della creatività e dell’espressione artistica. Faroppa prende il coraggio a due mani e ‘molla tutto’ per
intraprendere un nuovo percorso professionale e umano.
Dal 1990, nel cuore della città eterna, gestisce con passione una sorprendente galleria di interior design: Ex Ante. È
un’esperienza ventennale che gli vale una collocazione di
primo piano sulla scena della capitale e non solo... Faroppa conosce la produzione dei più celebrati designers del
momento e si lega per amicizia con alcune star, soprattutto francesi, come Mattia Bonetti ed Elizabeth Garouste,
Pierre Casenove e Nathalie du Pasquier, Davide Pizzigoni.
Collabora con i più importanti architetti d’interni di Roma
ed espone nei maggiori saloni del settore in Italia e a Parigi. Ospita innumerevoli mostre di design e di pittura.
Disegna mobili, soprattutto lampade, tavoli, console e
divani per i quali vengono usati principalmente materiali come il ferro battuto e il bronzo in fusione. Dipinge per
hobby, soprattutto su porcellana, ma la fantasia ed il gusto
per forme e colori per lo più astratti trasformano i banali
oggetti dipinti in veri e propri oggetti d’arte che incontrano
uno straordinario successo. Si avventura anche nel mondo della scultura, modellando piccoli nudi stilizzati che diventano dei bronzetti molto apprezzati.
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do e disinnesca infine quel miracoloso congegno nel quale
tecnica ed estro, misteriosamente, si articolano per dare vita
al genio creativo. E allora l’arte si accomoda, stanca prende
la forma che trova. E ciò che trova sono le immagini, i suoni, i
Pagina 27: Maschera tradizionale Punu, origine Gabon.
Sopra: Il pentacolo, ovvero la trappola del diavolo. Le immagini derivano da archivi di pubblico dominio.
*[Maria Carla Trapani è nata e vive a Roma. Di formazione filosofica, approda in seguito alle discipline orientali,
nell’ambito delle quali esercita la sua professione. Direttore editoriale di Diwali – Rivista contaminata, fondata con l’amico poeta Flavio Scaloni, redattrice della rubrica Black Poetry per Nero Cafè, dal 2009 si è occupata dell’organizzazione di eventi culturali per il Circolo letterario Bel-Ami. La sua prima monografia, Nascosta e lo specchio, vincitrice del
concorso Cose a parole II ed., esce nel giugno 2010 con la Giulio Perrone Editore, seguita, nel 2012, da Se le figure,
e invece il dolore. Silenzi, Bel-Ami Edizioni. Tra le sue opere, presenti in diverse antologie, si segnala la silloge poetica
M/E, di perle e di parole, pubblicata, ancora per la casa editrice Bel-Ami, nella raccolta Perle sciolte (2009).
È una de Le Crudeltà Barocche, la cui altra è Laura Di Marco: insieme creano Violenza della ragione e molli intelletti
(Liquida Vernuft e fuoco Verstanden), presente in Femminilizzazione del mondo – Arte nel Rumore, Volume #5.]
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Alla fine degli anni ‘90 produce una grande serie di piccole
tempere su carta: i soggetti sono combinazioni di elementi astratti di ispirazione tribale oppure riscritture di ritratti
dell’arte antica, romana ed etrusca o rinascimentale. Nel
frattempo si dedica anche allo sbalzo del metallo, di lamine d’argento e rame, creando effetti che si riallacciano
alla sua pittura, spesso ricorrendo anche ad incrostazioni
di pietre dure, di gusto in genere eclettico, a volte barocco a volte altomedioevale. Contemporaneamente inizia ad
usare le pietre nella creazione di gioielli dal sapore etnico
e barbaro.
Lavora con uguale sensibilità sia che crei una scultura,
dipinga un quadro, sbalzi una cornice, disegni un mobile
o un gioiello o allestica un arredamento. Le espressioni di
stile di Attilio Faroppa assumono forme molteplici, ognuna
presenta un raffinato senso della figurazione, equilibrio e
compostezza.
La sua attenzione si focalizza soprattutto sull’interferenza di forze in un campo determinato, come le forme biomorfiche che spesso si scontrano bizzarramente sul piano pittorico o le figure sbalzate che fluttuano sulla lamina.
L’ispirazione nasce da una matrice complessa che trae
Pagina 29: Galleria Ex-Ante, Roma.
Sotto: Bronzetto; sullo sfondo un acrilico su tela.
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<<<Insistenze
origine dalla passione per l’arte figurativa in tutte le sue
manifestazioni e di tutte le epoche.
L’autore si concentra quindi piuttosto su un processo che
su un genere d’espressione; un processo che mette in
moto un’emotività, stimolandone l’espansione attraverso
le superfici di ciò che crea con la sua mano o compone
con il suo occhio.
Soprattutto in pittura, un chiaro segno del suo approccio
è l’uso frequente di monocromatismi e bicromatismi che
declina in una gamma di sfumature così che le interazioni fra gli elementi compositivi si sviluppino in modo fluido
e sofisticato. Predilige i colori freddi come per premiare
la sensibilità razionale rispetto a quella passionale; per la
loro resa pacificante in alcuni casi e per la loro forza drammaticamente astratta in altri. I colori utilizzati sono quasi
sempre acrilici ad acqua, stesi in un lasso di tempo molto
ridotto su superfici dalle dimensioni variabili, dalle piccole
tele 15x20 alle grandi opere 180x90.
Guardando per esempio la serie ‘Territori’, gli accostamenti di blu-grigio, grigio-viola con un rosa smorzato creano un leggero movimento di danza, il cui ondeggiamento
sembra ordinato dalle altre forme in grigio che trattengono
le tessere più colorate del mosaico visivo.
Sono paesaggi simbolici, grandi territori, come nazioni,
segnati da frontiere che dovrebbero sparire oppure paesaggi paraurbani, divisi da vie di percorrimento che creano, isolano, circondano: sono le vie di non comunicazione. Sono trasposizioni sulla tela di luoghi stilizzati, simboli
di stati mentali o culturali o giuridici. Più o meno ordinati
o felici d’aspetto, ma tuttavia separati. Quella di Faroppa
non è una denuncia, è una costatazione e vale per il singolo come per il pubblico.
L’artista parte dal disegno, quasi in automatismo per le
opere astratte, a volte con un’idea sommaria del risultato
ma più spesso lasciando correre la mano fino all’ottenimento di un equilibrio compositivo che in tutti i lavori è
comunque presente.
L’autore ha esposto negli ultimi anni in diverse occasioni
fra cui alcune personali a Roma e in Svizzera. Recentemente trasferitosi nella campagna umbra, trova in questa
nuova dimensione territoriale lo stimolo per esplorare altre
forme espressive come la fotografia e la scrittura. Pubblica su riviste on-line alcuni articoli sulla storia del cinema e brevi scritti ironici. Soprattutto Faroppa si avvicina al
mondo della parola poetica pubblicando nel novembre del
2013 la raccolta ‘Alza gli occhi’ per l’editore Portaparole
di Roma. Sandra Petrignani definisce questi versi ‘aspri e
dolci come il loro autore’.
In questa pagina, dall’alto in senso orario:
Paesaggio vegetale, acrilico su tela, 2009.
Il grande cielo, acrilico su tela, 2009.
Nuovi territori, acrilico su tela, 2010.
*[Helmut Schilling nasce a Salisburgo da padre austriaco e madre italiana. Trasferitosi a Lugano per motivi di studio, si occupa come ricercatore di estetica del
linguaggio. Pubblica il suo primo saggio ‘La vocazione
cubista del tu’ a venticinque anni e prosegue nella propria carriera accademica per i successivi dieci anni. A
volte affaticato dall’universo delle parole, evade nelle
potenzialità del gesto: la recitazione e la scultura del
bronzo come necessità fisiche di rappresentazioni visive e materiche.]
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maram al masri
Spaesa-menti: smarrimenti che fondano le loro
origini nella propria psiche, sono quelli di cui ci
rendono partecipi i nostri autori.
Estranei diventano suoni, parole, persino il proprio
viso.
E con il non riconoscersi più, il cammino diviene
incerto ed impervio, si rende necessario demolire
osservare come un uno scenario post-atomico
i resti di ciò che erano le obsolete convinzioni
e segnare un nuovo percorso dentro sé stessi,
innamorarsi del proprio rinnovato “io”, per
concepire nuove generazioni di pensieri, ricostruire
dunque il proprio cosmo.
Laura Di Marco
Ucronie 21, Andrea Chiesi, olio su lino, 2013.
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Poco meno di un anno fa FusibiliaLibri dava alle stampe
Sedici nodi – Poesia, volumetto scritto a quattro mani
dalle due poete Maram Al Masri (siriana esule a Parigi)
e Monica Maggi. Questa plaquette è nata dalla mia personale convinzione che gli incontri significativi debbano
essere assicurati alla memoria, e la conoscenza poetica,
soprattutto umana, di Maram Al Masri, ospite su iniziativa
di Monica Maggi nel luglio 2013 del prestigioso “Festival
delle Letterature” a Roma, ha confermato, oltre al suo
potere di rivelazione, l’importanza e il valore aggregativo
che ha la scrittura tra persone con medesime sensibilità. E la poesia è il medium elettivo, spontaneo, che accomuna queste due autrici la cui riflessione esistenziale
sconfina dal vissuto personale fino all’osservazione e alla
denuncia dei gravi fatti politici, sociali che si compiono
nel mondo, delle crudeltà umane. Alla generosità delle donne, alla loro pietas attinge la voce, quindi la penna, di queste due poete che riconsegnano alla poesia,
il suo ruolo ‘nodale’ di denuncia e impegno civile, l’atto
di fiducia verso il futuro, lì a esorcizzare con l’empatia
dell’amore, l’affermazione del filosofo Theodor Adorno
che “dopo Auschwitz non e più possibile la poesia”. Pertanto noi di Fusibilia abbiamo accolto e quindi, voluto
‘fissare’ in questo volumetto il rilancio all’‘agire’ dopo la
consapevolezza e l’indignazione per quanto accade di
criminale in alcune zone del mondo, nelle modalità che
da sempre annoverano vittime sacrificali tra le donne e
i bambini. Sedici nodi – Poesia, è una raccolta con il titolo dai diversi rimandi, dalla somma delle otto piu otto
poesie inserite, osservando come il numero ‘otto’ rinvii
alla “Giornata internazionale della Donna”, al ‘nastro di
Moebius’ e al suo concetto di ‘infinito’, simile alla tenacia
di queste due donne, e di altre donne-sorelle che, come
loro, eleggono la poesia quale mezzo di opposizione. E
nel ‘nodo’, sono compresi i significati di ‘memorandum’,
ma anche ‘intreccio’, per le poetiche di due autrici diverse ma, in questo modo legate a un progetto comune; e
per ultimo ma non ultimo, nell’estensione del titolo si ravvede l’accenno al ruolo di ‘resistenza’ della poesia, nella
diversa disposizione della lettura in Sedici NO di poesia,
un messaggio più sibillino, ma non meno efficace, affinché sia assicurata alla coscienza del lettore, alle sue
soglie critiche e percettive, lo sforzo del narrare non per
ambizione personale ma per attenzione alla verità, alla
prospettiva di pace, a una dimensione più grata alla vita:
“Io non prendo la chitarra per ottenere un applauso, io
canto della differenza tra il vero ed il falso altrimenti non
canto”, Victor Jara, martire del colpo di stato in Cile.
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pensieri, preconcetti, illusioni, ruotare la testa ad
Dona Amati
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<<<Inverso
*[Maram al-Masri, (Latakia, 2 agosto 1962), è una
Maram al-Masri con Dona Amati e Monica
Maggi in occasione della presentazione
del volume Sedici Nodi, ed. FusibiliaLibri.
poeta e scrittrice siriana. Vive a Parigi dal 1982 nell’impossibilità di rientrare in patria, dove la sua famiglia vive
tuttora. Tutta la sua opera è censurata in Siria. Dal 2011
pubblica regolarmente in Francia per la casa editrice
Bruno Doucey. Ambasciatrice della causa siriana nel
mondo, la sua poesia è stata tradotta in diverse lingue.]
La Siria per me
è una ferita che sanguina.
È mia madre sul suo letto di morte
è la mia infanzia sgozzata
il mio incubo e la mia speranza
la mia insonnia e il mio risveglio.
La Siria per me
è l’orfana abbandonata.
È una donna violentata ogni notte da un vecchio
mostro,
abusata, prigioniera,
costretta al matrimonio.
La Siria per me,
è l’umanità che soffre
è una bella che canta un’ode alla libertà
ma le hanno tagliato la gola.
È il popolo dell’arcobaleno
che splenderà dopo la tempesta e la folgore.
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Come fate, sorelle mie
con quel dolore al seno
gonfio e indurito?
Con quel dolore
lancinante
al ventre
inondato di tristezza?
Come fate con il sangue
che vi scorre tra le cosce?
Grumi neri di sangue
come fate con quell’odore?
Come fate, sorelle mie
quando avete il ciclo?
Nelle cupe e fredde
prigioni
prigioni che uccidono violentano
prigioni
dove incatenate
vivete ammucchiate.
Come fate, sorelle mie
quando esplode negli occhi il sangue?
Le facciate delle case
sono volti in attesa
le finestre, gli occhi della piazza
le porte, le bocche.
Le facciate delle case
teste serrate le une contro le altre, cappelli di
mattoni,
guardano il cuore della piazza
luogo di spettacoli
e di contrattazione
conversano in silenzio
come vecchie vicine.
Testimoni eterne
delle carovane della Storia
specchi del passare
del tempo.
Attraverso il sorriso delle tende,
la luce è riuscita a insinuarsi
per denunciare la polvere che danza
e quella che si riposa dopo il volo,
colta nel flagrante delitto
di posarsi in deliziosa indolenza
sulla superficie delle cose
e sulla mia pelle.
La polvere,
una viaggiatrice come me
un’emigrante come me
che, malgrado tutto, non attecchisce da nessuna
parte.
Senza patria
viene da ogni orizzonte,
portata dalle ali del vento.
Il vento la spazza con la sua scopa
con i suoi folti capelli
o con le mani.
La semina là dove nessuno la immagina
la semina persino nel cassetto segreto
del cuore.
La polvere è la cagna fedele del vento.
Gli corre davanti e dietro
vola con lui
dal nord al sud,
dall’ovest all’est
silenziosa
aderisce come una morbida veste
sui corpi
abbandonati.
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laura di marco
Davide Cortese
Può essere la verosimiglianza un luogo in cui abitare?
Io sono lo straniero: la dichiarazione apodittica del primo verso della poesia di Cortese vuole essere un
Forse, anche se spaesati in un luogo lontano, nell’inattualità del ricordo o dell’irreale, potremmo.
annuncio, un voler “dire” lo spazio abitato dai segni della poesia, lo sconfinamento dell’anima in un nuovo
Potremmo abitare un non luogo, un inganno d’occhi che non possiedono il paese del volto.
stato dell’essere perché, come testimoniano le parole di Elitis, “La Poesia ci allontana dal mondo quale lo
E se mancasse il sonno, approdo ultimo cui concedere i sogni, resteremmo come abitanti senza chiave,
abbiamo trovato”. Allora questo speciale straniamento sigillato in parole perdute si rivela fondante occa-
esuli, in buio estraneo, a maneggiare sensazioni confuse dalla magia del verso.
sione di alterità e mistero.
Laura Di Marco la possiede, la chiave.
Una condizione di tensione metafisica rigenerante portatrice di sola misteriosa vita.
[Maria Carla Trapani]
Pupille galleggiano
in un buio estraneo
che gocciola cadenzato la tua assenza.
Non combaciano i nostri esili bordi
poggiandovi come pellicola il lenzuolo.
Né bacia la tua sagoma
il mio orgoglio esule
penetrando l’oscurità del desiderio.
Un inganno abita insonne questa notte
i contorni confusi
della vecchia stanza.
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Ce la offre, sempreché non si abbia paura di una vecchia stanza in cui entrare.
[Letizia Leone]
IO SONO LO STRANIERO
Io sono lo straniero.
C’è il mio sigillo su queste parole.
A voi, a te: straniero.
Il mio sigillo su parole perdute.
Sono senza città, io.
Delle strade quanto del vento.
Neppure le ossa sono il mio confine.
Abito la vita.
E vado.
Comunque voi mi amiate,
comunque voi mi odiate,
io vi sono straniero.
E straniero sono a me stesso.
Non c’è malvagità in questo,
né solitudine, in questo, credete.
Solo misteriosa vita.
Sopra: Marcello Mastroianni ne ‘Lo Straniero’, regia di Luchino Visconti,
1967, tratto dall’omonima opera di A. Camus
Di lato: Sadder than a Single Star that Sets at Twilight in
a Land of Reeds, Sydney Long, olio su tela, 1899.
*[Davide Cortese è nato nell’ isola di Lipari nel 1974 e vive a Roma. Si è laureato in Lettere moderne all’Universi-
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*[Laura Di Marco è responsabile della rubrica InVer-
tà degli Studi di Messina con una tesi sulle “Figure meravigliose nelle credenze popolari eoliane”. Nel 1998 ha pub-
so per Diwali - Rivista Contaminata. Poeta, performer,
blicato la sua prima silloge poetica, titolata “ES” (Edas, Messina), alla quale sono seguite le sillogi: “Babylon Guest
grafica... con una passione per l’arpa, le sue sono Dita
House” (Libroitaliano, Ragusa, 2004), “Storie del bimbo ciliegia” (un’autoproduzione del 2008), “ANUDA” (Aletti Edi-
Inquiete.]
tore, Roma, 2011), “OSSARIO” (Arduino Sacco Editore, Roma, 2012) e “MADREPERLA” (LietoColle, Como, 2013).]
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Giuseppe Bonaccorso
annamaria giannini
“Qui”, è un preciso luogo e nello stesso istante, un “non luogo” che si colloca nell’infinito.
Nei versi di Annamaria Giannini le rappresentazioni sensibili diventano oggetti in un processo di fusione
Un ripetuto avverbio quello di Giuseppe Bonaccorso che suona quale epitaffio ai propri ardenti deside-
con l’io, così il paesaggio di una città quale Lisbona diventa la tela di materia e di poesia che trama, passo
ri, agli amori trascorsi, che vuole essere rimpianto ed altresì stadio di consapevolezza. Un punto di arrivo
dopo passo, sensazioni e condizioni di questa “realtà”. Il flusso complessivo della narrazione procede per
dove mestamente quietare l’animo che ha a lungo infruttuosamente vagato. Non c’è saggezza che si pos-
“casi” isolati di fantasmi da ascoltare sulla schiena.
sa raggiungere senza passare per un rituale di purificazione, né alba da vedere per l’uomo che si è nutrito
Fantasmi che si rivelano nella loro essenza di condizioni esistenziali: il poeta ha ormai assimilato in sé le
durante il cammino, di tutto il proprio buio.
cose, i fatti, gli ambienti in un bosco intimo che ha uscite al vento.
Qui. Dove poggiano i miei piedi
e dove il sole mi congela in un’ombra senz’anima.
Qui. Dove respiro gli ultimi gemiti del giorno,
inghiotto ogni stella,
e abbraccio torbidamente la luna.
Qui. Dove qualcuno talvolta mi vede,
dove la folla gorgheggia,
e dove la cattedra antica è nel bagno d’un
manicomio,
qui è sepolto l’ultimo me,
sazio di inutili labbra.
In quella carezza d’addio,
in quello sguardo scolpito nella cera,
sul dorso di una busta mai spedita,
si sveglia il primo, timido ruggito carminio,
vestigia di un’aurora che congeda la notte,
come un amante inebriato,
il suo ultimo amplesso.
Nel paradiso dei saggi,
io ardo, lento come una brezza scarlatta,
sopra un immenso rogo di mirti.
*[Giuseppe Bonaccorso è nato a Caltagirone (Catania) nel 1979. Laureato in Ingegneria con un orientamento verso l’intelligenza artificiale, si è da sempre
interessato di scienze umane e psicologia del profondo, cercando il loro nesso con la vita quotidiana. Ha
pubblicato diversi articoli e saggi e attualmente collabora con parecchie riviste italiane di letteratura e cul-
[Letizia Leone]
NELL’ABITARMI, ARIA
LISBONA
C’è una stanza dell’abitarmi, aria
dove poso le domande sospese
che so risponderò solo più tardi
quando avrò mangiato ogni temporale
e dato un nome a tutti quei silenzi
che riportano in vita i nostri morti
Eppure ogni persiana ha gli occhi
ruba la vita nelle strade strette
un fiume che l’argilla fa passare
Così ascolto il pianto dell’oceano
disegni d’ocra sulla veglia tua di madre
il battere di tacchi sul selciato
le notti di taverna e una signora
dai fianchi fatti d’onda, labbra rosse
tura generale. Tra le sue pubblicazioni saggistiche e
filosofiche si ricordano: ‘Saggi sull’Intelligenza artificiale e la Filosofia della Mente’ (2011) e ‘Il dispiegarsi del tempo psicologico’ (2013). In ambito poetico
e narrativo ha pubblicato, tra gli altri: ‘Frammenti dal
profondo’ (2011), ‘Storia di Pietro’ (2011), ‘Ballando
con gli specchi’ (2011), ‘Gocce di mercurio’ (2011),
‘Il doppio cosciente’ (2011), ‘Vertigini astratte’ (2012),
(quando d’inverno un poco di legna al fuoco
ravviva la mancanza delle braccia)
vorrei fosse per te un promemoria
quello spezzarsi in rami che trascrivo
sulla lavagna delle cose belle
come fossero punto per partire
per rivedere il bosco ad occhi lievi
‘Infinita nigredo’ (2013) e ‘Il senso del tempo’ (2013).]
invece avrai quaderno e penna nuovi
domande su un domani che non ho
le mie certezze fili delle tende
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Inverso>>>
[Laura Di Marco]
lei si nasconde dietro un riso d’aria
ma se la cerco so dove incontrarla
Lisbona dai capelli lunghi
eppure ogni cuore ha un fianco insonne
fantasmi da ascoltare sulla schiena
poi l’eco delle mani, le preghiere
chine alla distanza che non disseta
piove su Lisbona dai capelli rossi
lei che divide in pugni il grano buono
come a scrivere bocca su ogni spiga
che cambierai
la puoi trovare dove finisce il mare
si sottrae, nel bosco intimo
che non ha uscite al vento
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Marino santalucia
CUORE DI BAMBOLA
È nello spazio improbabile del cuore di una bambola
che vorrei fuggire, là dove tutto è da inventare, dove
giochi d’ombra divengono respiri e il vento mai è foriero
della morte giovane a far cadere il cielo negli occhi di una madre
Gli Spaesamenti di Santalucia ci riconfermano le ricerche sulla percezione e sull’autopercezione sviluppate
c’è il segreto di un bacio nello sguardo che ai disattenti
fisso appare, il sapore delle more, la paglia intrecciata dei destini
la ruota di una gonna colorata ad inventarsi fiore tra le pietre
un girotondo d’anime da fare invidia a Dio
sarei stato? Questioni che solo la poesia può evidenziare con poche vere parole circondate dal silenzio dello
nel suo ultimo libro “Gli angoli del corpo”.
L’essere dislocati da sé rovescia i luoghi comuni del sentire, svapora e illumina l’ombra dell’alienazione, mette in cammino verso le frequenze ritmiche del proprio cuore e pone davanti a domande radicali: quale essere
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spazio bianco.
[Letizia Leone]
Lui, il cuore delle bambole, batte tra mani bambine
e non cerca niente che la parola amore, come una vela
il mare
*[Annamaria Giannini nasce nel 1965 a La Spezia
durante una sosta dei genitori diretti in Sardegna, la
terra che porta stampata sul viso e nel cuore. Il padre
marinaio fa si che abiti tante città senza mai cambiare odore e ancora oggi il porto di un paese è dove si
sente a casa. Da quattro anni vive a Roma, dove ha
portato in teatro ‘Alda Merini Project’ e uno spettacolo itinerante per la sensibilizzazione sul femminicidio volto alla raccolta di fondi per la ricostruzione del
tetto della Casa delle donne di Roma. Ha partecipato
a varie antologie, ultima delle quali ‘Sotto il cielo di
Lampedusa’ e sta terminando la sua prima silloge. È
stata varie volte pubblicata su Venerdì di Repubblica
da Stefano Bartezzaghi coi suoi palindromi. Al mo-
Vorrei raggiungermi
unirmi a lui, stargli accanto e
solo allora sentirne il cuore
stordito senza fiato
perduto allo stesso tempo
con quella beltà e violenza solenne.
Stavo appena sbocciando,
quale essere sarei stato?
Dovevo impararlo
sforzandomi verso l’esistenza
d’esser autentico, libero
dall’altrui sguardo
dalle ombre
dalle radici.
mento sta organizzando un evento poetico a Roma
in collaborazione con i 100Thousandpoetsforchange
per il 27 settembre.]
A destra: Soumrak, Jakub Schikaneder, olio su tela, 1896.
*[Marino Santalucia fa parte dell’ONG “Emergency” dal 2004. Nel 2010 ha pubblicato la silloge poetica Versi Riversi,
Giulio Perrone Editore. Suoi testi sono inseriti in diverse antologie (Edizioni Progetto Cultura, Edizioni Ursini, Opposto.net,
Fusibilia Libri, e Lietocolle Editore). Nel 2011 partecipa a “Teatri di Vetro Festival Ammaro Amore”, alla “Settimana della
A sinistra: Lady Marjorie Manners later marchioness of Anglesey,
James Jebusa Shannon, olio su tela, 1883.
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Poesia di Eboli” ed alla “Prima Edizione Mare in Vista Cultura”.]
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patrizia sardisco
Francesco vico
Incertezza e disorientamento per il futuro è quello che ci trasmette Patrizia Sardisco, che porta a chiedersi
Un perdersi nella propria identità è ciò che ci fa percepire Francesco Vico, che parte da noi stessi ed è al
se ci sia ancora qualcosa che valga la pena difendere che non sia stato già brutalmente violato. Quasi una
contempo parte di noi stessi. Ed allo stesso modo di quando si fissa un oggetto a lungo fino a perderne
visione post-apocalittica quella attraverso cui l’autrice si muove, luogo inconfortevole e ormai brullo, ina-
la certezza dei contorni, o si pronuncia la stessa parola sino a smarrirne il significato per come lo si cono-
datto persino a fare da culla alle proprie speranze.
sce e renderlo un termine estraneo, così lo scrutarsi a lungo il viso davanti ad uno specchio destruttura
contorni somatici, ma anche comportamenti e convinzioni, ci fa fuoriuscire dal nostro “io” inviando indietro
[Laura Di Marco]
passare sopra i resti
*[Patrizia Sardisco è nata a Monreale, dove vive
attualmente.Laureata in Psicologia, si è specializzata
e pensi che sia nobile
passare sopra i resti
di un tempio sconsacrato
che sia credibile cercare ancora
qualcosa di valore
nel campo della didattica speciale. Lavora in un Liceo di Palermo. Scrive in lingua italiana e in dialetto
siciliano. Suoi racconti brevi e alcune poesie si trovano on-line sui blog Tutta colpa della maestra, Apertura a Strappo, La presenza di Erato, Versante Ripido, Carte sensibili, Vibriss. Selezionata e premiata in
un calice uno scritto un corporale!
diversi concorsi letterari, ha pubblicato in antologica
forse concepiremo tra questi ruderi
[sogni pensieri mostri]
figli di desiderio e ambizione
ma qua è già stato tutto saccheggiato
di schegge acuminate
si feriranno mani anima e piedi.
Sue recensioni di opere poetiche e di narrativa sono
i sudari puliti sono finiti
con Lietocolle (Verba Agrestia 2012 e 2013) e AaS.
apparse nella rivista Arenaria (cartaceo) e su L’indice
dei Libri (on line). Ha curato l’introduzione di opere di
Inverso>>>
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un’immagine che disorienta al punto da chiedersi “Chi sono?”.
[Laura Di Marco]
RIFLETTERE
e forse davvero sono io questo:
gli occhi segnati, i peli nel naso,
il naso attaccato di sbieco
(che poi ho scoperto
che il mio naso di solito è dritto,
è la testa che tengo inclinata).
Lo guardo negli occhi, mi guarda
negli occhi un momento, sembra riflettere.
Poi una voce lo chiama per nome
si asciuga le mani ed esce dal bagno
io resto qui nello specchio e mi chiedo
“se lui sono io
io chi sono?”
narrativa e poesia.]
Sopra: Young man in the mirror, Fotografia @ G.N.A.M., 2008.
*[Francesco Vico, ligure, classe 1982. Collezionista di nuvole, buddhista part-time, pericolo per la società. Scrive poesia (Natale, Alessio, i pupazzetti e altre storie; L’amore ai tempi del Cavaliere), prosa (Le avventure di Luchi & Striche;
Perle di saggezza di uno scarabeo stercorario), fa l’editore (Matisklo Edizioni), organizza spettacoli e performance (Aria
di Festa; Fontanella Imbottigliata; Generatore Automatico-Ecologico di Realtà). Nel tempo libero prova a dipingere con
risultati raccapriccianti e cerca di far sì che il mondo sia un posto un po’ migliore rispetto a come l’ha trovato.]
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il focus di
Gli Haiku
Chiyo-jo
Dona Amati
Foto Miloje Savic
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<<<Inverso
Che l’haiku si stia ponendo al centro dell’attenzione letteraria è dimostrato dal moltiplicarsi delle iniziative che si
snodano, non solo nel web, tra ambienti deputati alla poesia e quelli di più vario interesse per la cultura nipponica.
La webgrafia si incrementa di rubriche e progetti divulgativi dedicati alla composizione poetica giapponese, come
a voler indicare il bisogno di un accesso privilegiato alla
meditazione, il pensiero Zen appunto, al quale l’haiku è
strettamente correlato.
Un segnale in controtendenza rispetto all’opacità di riflessione che caratterizza certa società occidentale, la quale,
- almeno apparentemente – sembra esprimere una minor
vocazione alla profondità di pensiero. Questa rinnovata
attenzione non è ascrivibile a una semplice emulazione
modaiola nei confronti di una tradizione orientale, quanto
piuttosto a un’esigenza di trarre benessere da uno stile
di vita diverso, basato sulla concentrazione di capacità
verticale, su un più totale assorbimento sensoriale che si
svolge da una osservazione oggettiva, tra pieni e vuoti in
sospensione, dove ciò che maggiormente conta è il sollievo dell’equilibrio tra elementi naturali e introspettivi, attraverso la loro progressiva visione.
Dei “maestri” fondatori già sappiamo, Basho, Issa, Buson,
ma tra i moltissimi haijin uomini, la storia ci rende anche i
nomi di poete donne che a quest’arte si dedicarono con
medesimo raccoglimento ed ascetismo.
Chiyo-jo, vissuta nel diciottesimo secolo, è considerata
l’haijin donna di maggior rilievo, probabilmente perché di
lei è a noi pervenuta una più ampia produzione rispetto
alle altre, e perché ebbe maestri importanti come Kagami
Shiko, discepolo di Basho che le consentirono grande intensità di scrittura. Iniziò a comporre poesia all’età di sette
anni e già a diciassette la sua popolarità era diffusa in tutto il Giappone. Si sposò giovanissima ma perse il marito
prematuramente; sul finire della sua vita diventò monaca
buddista non, come disse, per rinunciare al mondo, ma
“per insegnare al suo cuore ad essere come l’acqua limpida che scorre giorno e notte”.
In Giappone a Matto, sua città natale, è stato realizzato il
“Museo Chiyo-Jo Haiku”, una struttura multimediale in cui
vengono conservati haiku su diversi supporti e dove tutti,
soprattutto i bambini, possono proseguire la conoscenza
di questa particolare forma d’arte poetica e di struttura
del pensiero.
Dona Amati
Foto Angelika Leik
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Inverso>>>
Instante>>>
Chiyo –jo (1703-1775)
allapperà o no
questo cachi
raccolto per primo
Lo spaesamento è una distanza, un senso
l’aquilone
anche ieri nel cielo
al solito posto
di distacco in una realtà che non ci appartiene,
a cui non riusciamo, non vogliamo
appartenere. È un senso di inadeguatezza
reciproca tra noi e il contesto. Ha comunque
inverno desolato
nel mondo di un solo colore
il suono del vento
a che fare con il non vivere il momento, come
ogni volta che quel che ci aspettiamo non c’è,
o che quel che c’è aspettiamo passivamente
che finisca. Lo spaesamento è un fuori tempo
farfalle sul cammino d’una fanciulla
davanti e dietro di lei
prolungato e imbarazzante, una solitudine
interiore invincibile. Non c’è tristezza,
né felicità; al limite fredda analisi e un sottile
pioggia primaverile
proprio ora le cose
diventano splendide
e latente disprezzo ossidato sulla superficie
del cuore.
È quello sguardo altrove, di fronte alla persona
che non amiamo più, prima della confessione,
spiaggia alla bassa marea:
tutto ciò che prendo
è vivo
forse anche prima della consapevolezza.
È quel vortice immobile che ci avvolge in
quello sguardo altrove, di fronte a chi non
ci ama più, dopo la confessione, dopo la
Oh! Il convolvolo!
Attorcigliato intorno al secchio.
Andrò dal vicino a chiedere l’acqua.
Foto Angelika Leik
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disperazione, a cavallo della consapevolezza.
Pietro Bomba
Foto Angelika Leik
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Angelika Leik
The Dark Side of Summer
Nei giorni più caldi dell’estate ogni tanto pure le cicale tacciono e l’aria scintillante sembra assorbire tutto,
suoni, colori, movimenti, il tempo stesso; la mente rimane sospesa in uno spazio indefinito, fra mondi paral-
Instante>>>
leli. Lì è dove emergono le immagini di questa serie di fotografie di Angelika Leik.
*[Angelika Leik è nata a Monaco di Baviera nel 1961. Da sempre appassionata del mondo delle immagini, ma
sopratutto delle produzioni degli altri, si laurea in storia dell’arte, del teatro e dell’etnologia. Ha lavorato nell‘art management, nell’editoria specializzata in fotografia & arte. Ha vissuto a Teheran, Buenos Aires, Monaco, New York &
Lussemburgo. Nel 2005 si trasferisce in Umbria dove vive e lavora (fra l’altro gestice un piccolo b&b).]
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Pasquale comegna
Le foto di Pasquale Comegna suscitano un incanto che va ben oltre la percezione visiva.
La sua è una capacità rara di saper cogliere la grafia della luce in quei momenti in cui il presente
è la somma esatta di ciò che è appena stato e ciò che sarà subito dopo.
La sensazione è quella di “plenitudo vitae” nella fusione degli elementi in equilibrata composizione.
La selezione di un particolare soggetto in quell’attimo specifico, cioè in quell’atomos indivisibile del tempo,
anima racconti di distese armonie che obbligano a fermarci per guardare ed apprezzare.
Il dialogo interno all’immagine è a volte in curioso rapporto fra i soggetti, a volte sottinteso nelle atmosfedell’artista. (Mara Quadraccia)
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re create dall’aria o dall’acqua; l’osservatore viene in questo gioco di immaginazione entrando nella magia
*[Pasquale Comegna vive e lavora a Roma dal 1977. Tra le sue collaborazioni più recenti si ricordano la campagna
fotografica per la catalogazione delle opere d’arte presso le ambasciate italiane all’estero, svolta nel biennio 2013 –
2014 per il Ministero dei Beni Culturali e il Ministero degli Esteri; l’inserto fotografico per il volume ‘Addio gran secolo
dei nostri vent’anni’, G. Mughini, Bompiani editore, 2013; l’inserto ‘Antiquariato del ‘900’ per il Sole 24ore, 2013. Numerose mostre all’attivo tra cui quella nel 2011 a Roma nell’ambito del Festival della Fotografia Naturalistica e quella
nel 2009 a Roma dal titolo ‘L’Altra Metà della Scena’.]
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Miloje savic
Ho deciso di calarmi nella natura, totalizzante e poderosa nella forma di un torrente di montagna, e di fondermi completamente con essa fino a perdere la mia identità, per trovarne una nuova. La libellula, così veloce, mobile e seduttiva, mi è sembrata una ricompensa senza eguali. Il riferimento alle metamorfosi di Kafka
sembra quasi obbligato, ma in realtà sono partito dall’idea di esplorare e reinterpretare il concetto di ‘estasi’
nella sua accezione più arcaica e originale. ‘Ex-stasis’ è uscire dal proprio sé, affrancarsi dal corpo e sospendere la mente in uno stato mistico di infinita elevazione. In estasi l’uomo trascende la propria natura e
si identifica, seppur temporaneamente, con il cosmo. In questo senso non mi sono preoccupato più di tanto
della pur secolare tradizione cristiana sull’argomento, se non per lo studio delle opere dei grandi padri della
pittura, Giotto e Caravaggio, sull’estasi di San Francesco. Mi sono spinto in avanti nell’arte fino a completare
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il mio lavoro preparatorio con i post-impressionisti e i preraffaelliti cercando di cogliere i loro insegnamenti
circa l’uso della luce e l’approccio erotico al soggetto.
Questo sono io che mi bagno nelle acque provvidenziali di una coscienza in evoluzione.
Questa è la mia rinascita. (Miloje Savic)
*[Miloje Savic nasce in Serbia, studia in UK, diventa cittadino del mondo. Si muove tra Stati Uniti ed Europa, la macchina
fotografica sempre al seguito. L’Italia è uno dei suoi paesi d’elezione ed è spesso a Roma. Ha all’attivo mostre fotografiche a NYC, Belgrado, Manchester. È membro dell’Associazione Americana Haiku.]
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Carlo travaglini allocatelli
LA VITA SEGRETA DEGLI EDIFICI
Queste fotografie sono state originariamente ispirate da un quadro visto per caso nella vetrina di un negozio
qualsiasi. Si trattava di una prospettiva di due edifici, affacciati l’uno di fronte all’altro; non c’era molto di più
di due terrazzi e un poco di cielo, ma quell’immagine comunicava inaspettatamente qualcosa. Raccontava
la storia di una relazione intima tra i due palazzi, una relazione forzata che si estendeva nel tempo da molti
anni, indifferente alla vita delle persone che avevano vissuto tra quelle mura.
È stato allora che ho realizzato che la città è piena di storie, di ambizioni, di passioni, ma queste storie non
sono raccontate dagli abitanti delle città. Queste storie sono raccontate continuamente e con un linguaggio
misterioso, dai palazzi delle città, dalle loro finestre, dai terrazzi… Le case delle città hanno evoluto una vita
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propria, distante e dilatata nel tempo, che scorre su un piano temporale che è diverso dal nostro. È sufficiente camminare per la città e prestare solo un po’ d’attenzione per poter ascoltare misteriosi racconti di
solitudine, d’amore, di arroganza o di amicizia; a volte i palazzi parlano tra di loro, altre volte con la luce del
cielo o con le nuvole. Non mi è mai capitato di ascoltare nulla dalle persone, che sembrano aggirarsi per le
città come muti fantasmi.
Io credo che ascoltare e collezionare queste storie raccontate in un’altra lingua sia forse l’unica maniera di
descrivere la città, oggi. (Carlo Travaglini Allocatelli)
*[Carlo Travaglini Allocatelli vive e lavora a Roma. L’interesse per la fotografia nasce diversi anni fa, quando per
sviluppare un negativo si entrava ancora -esclusivamente- in camera oscura.]
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Johan Raiz
Cette série s’appelle ‘Exploration photo-graphique’. Par un travail sur la photographie l’auteur essaie de recréer la trace du souvenir, la coloration émotionnelle, l’impression laissée par une rencontre avec le monde.
L’auteur explore différents matériaux et colorants (fleurs, épices, bois, encre), ainsi que les marques du temps (rayures, poussières), afin d’ajuster la réalité à son univers intérieur.
Questa serie s’intitola ‘Esplorazione foto-grafica’. Attraverso un lavoro sulla fotografia l’autore cerca di ricreare la traccia del ricordo, la coloritura emotiva, l’impressione lasciata da un incontro con il mondo. L’autore
esplora diversi materiali e colori (fiori, spezie, legno, inchiostro), così come i segni del tempo (graffi, polvere),
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al fine di adattare la realtà al suo universo interiore. (trad.ne di Flavio Scaloni)
*[Johan Raiz, nazionalità francese, vive e lavora a Grenoble, nella regione del Rhône-Alpes. Coniuga la propria professione come psicologo clinico alla passione per le arti visive, la fotografia in commistione con la pittura in una continua
sperimentazione di forme e colori.]
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Inmobile>>>
<<<Inmobile
ANIMI ALIENI ARIANNA DEGNI
DBPIT
[DER BEKANNTE POST-INDUSTRIELLE
TROMPETER]
Il senso di smarrimento, il sentirsi estranei nel
proprio pianeta, conosciuto, ma per qualche
motivo… decisamente ostile. Un percorso
attraverso suoni distorti e illustrazioni cupe,
ricco di sentimento critico e creatività.
Due artisti, amici di vecchia data, che con
strumenti diversi esprimono il loro disagio
verso tutto e tutti, due introversi che si
mettono in gioco con la loro ironia che non
perdona nessuno.
Arianna Degni
DBPIT
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Tra gli alieni già approdati su questo pianeta della galassia, sicuramente non può passare inosservato DBPIT, il
trombettista post-industriale, che dello “spaesamento” ha
fatto un vero e proprio stile di vita.
DBPIT è un conosciuto musicista della scena industrial romana. Autore dei suoi testi, poeta d’avanguardia e trombettista sperimentale, nasce un po’ per caso e un po’ per
gioco.
La sua ossessione verso una realtà che sfugga dai codici
consueti, la passione per la fantascienza, i fenomeni inspiegabili e l’archeologia “proibita” costituiscono la sua principale caratteristica, sia nella musica che nella vita, al punto
tale che lui stesso si percepisce e definisce un “alieno”.
Proprio per questo motivo, la sua musica sembra provenire da altri mondi, non ci sono suoni riconducibili a paesaggi esistenti (nonostante i field-recording), non ci sono
regole, note riconducibili a spartiti o metriche da rispettare… ma solo piena libertà d’azione e creatività.
La sua tromba distorta, sottolinea puntualmente il disagio
e la costrizione del dover vivere in un mondo ostile, popolato prevalentemente da umani ostili anch’essi, che si
preoccupano solo dei loro bisogni venerando predicatori
e divinità atte al controllo delle loro menti.
Nella sua ricca produzione musicale, indubbiamente emerge la storia di Mr. Mallory, il signor “nessuno”, l’antieroe
per eccellenza che, come spesso avviene nei fumetti, viene investito da una forte esplosione nucleare che non lo
uccide ma lo muta geneticamente in maniera radicale, facendo si che perda il suo braccio sinistro in cambio di
sei braccia destre… peccato che il povero Mallory fosse
mancino dalla nascita e si ritrovi, a questo punto, ad essere ancora più solo col suo disagio.
Questa storia, dai tratti autobiografici, prende vita nel 2004
con l’uscita del cd The Outstanding Story Of Mr. Mallory
che si concluderà con il volontario letargo del protagonista che si arrenderà davanti alla cattiveria umana.
A distanza di otto anni ecco ricomparire il nostro antieroe
in The Return of Mr. Mallory, un cofanetto multimediale
dove il signor “nessuno” riprende vita attraverso un lavoro
più complesso che unisce musica sperimentale e interazione video, in un racconto amaro composto da cinque
brevi episodi.
In questo sequel, DBPIT si avvale della collaborazione della sua socia e compagna nella vita XxeNa, che dona un
corpo bidimensionale a Mr. Mallory e realizza i video delle
storie che compongono la sua nuova produzione interagendo anche in modalità live, durante le loro performances. Una discesa all’inferno accompagnata da suoni marziali, a tratti più elettronici e sprettrali.
Il lavoro è interamente scaricabile su*
https://archive.org/details/thereturnofmrmallory
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Inmobile>>>
<<<Inmobile
After the long sleep
https://www.youtube.com/
watch?v=w6i3WcHckMA
There is no superhero
https://www.youtube.com/
watch?v=GqqEWa-jzXo
Ratrace
https://www.youtube.com/
watch?v=De08Iy1NiyM
Vampires
https://www.youtube.com/
watch?v=0LwZ5-IVciM
Escape to outer space
https://www.youtube.com/
watch?v=RWDVtsAEiH0
*I video proposti sono stati caricati su Youtube appositamente per
i lettori di Diwali. Sono registrazioni live, ci scusiamo per la qualità
delle immagini.
http://dbpitxxena.altervista.org/
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<<<Inmobile
Grazie
http://www.youtube.com/
watch?v=fg4a0l7lCk0
The Path
http://www.youtube.com/
watch?v=nLXIlyqNroI
FABIO MAGNASCIUTTI
Acuto, ironico e pungente, con un’incredibile capacità di
sintetizzare gli accadimenti quotidiani oltre ad una creatività infinita e velocissima, che appartiene veramente a
pochi, almeno in questo pianeta.
Fabio Magnasciutti, illustratore e vignettista oltre che fondatore e vocalist della band Her Pillow, ha al suo attivo
numerose collaborazioni, tra cui la Repubblica, l’Unità, il
Misfatto, gli Altri, Linus, Left, e il Manifesto. Nel 2005 ha
fondato insieme a Lorenzo Terranera la scuola di illustrazione Officina B5.
Ha curato sigle e animazioni di programmi per Rai 3 come
Che tempo che fa e Pane quotidiano e realizzato illustrazioni per AnnoZero e Servizio pubblico.
Assolutamente “spaesato” Fabio Magnasciutti cerca costantemente un punto di vista alternativo alla consuetudine offrendoci una serie di intuizioni e di percorsi che vanno a contrapporsi alle tradizionali modalità.
Il pensiero laterale lo accompagna in buona parte della
sua vita, sia professionale che privata; i significati celati
dalle immagini, dai suoni e dalle parole, risultano ai suoi
sensi molto più affascinanti di quelli palesi e gli svelano
continuamente realtà sorprendenti e spesso indecifrabili… proprio per questo motivo decisamente affascinanti!
Il trovarsi o sentirsi fuori dal proprio ambiente, dalla propria pelle, da ciò che è considerato “casa”, può offrire la
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percezione di angoli misteriosi, allo stesso tempo destabilizzanti e acuti ma, interpretati in senso letterale, decisamente meravigliosi!
Gli sfondi grigi e tormentati, i personaggi cupi e caustici
sempre pronti a commentare l’aberrazione che ci circonda, caratterizzano le illustrazioni “quotidiane” che questo
artista pubblica ormai da tempo, su diversi blog e social
network, stuzzicando e accompagnando le giornate di chi
è in sintonia con il suo immaginario laterale e con la sua
spiccata ironia.
https://www.facebook.com/fabio.magnasciutti
Pensiero
https://www.youtube.com/watch?v=R-kqm11XZM
*Illustrazioni di Fabio Magnasciutti
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InDICAZIONI>>>
Inmobile>>>
Astenghio
http://www.youtube.com/
watch?v=Udg9OApw0-I
Tra poesie e romanzi ogni passo è una
macchia d’inchiostro. Non vogliamo però
rintracciare i nostri passi ma perderli di vista.
Abbandonarsi alla letteratura è spogliarsi
del propri abiti, abitare gli occhi dell’Altro e
abbracciare l’esistenza da una prospettiva
eccentrica. Per poi tornare nel mondo e
provare la deliziosa vertigine che sempre ci
coglie al limitare di un sogno troppo realistico
per non essere reale.
Spazio ai versi e alla prosa, selva luminosa in
Ease
https://www.youtube.com/watch?v=8
EvHHG5H4bM&list=UUO5kegFr17Mu
n3jldO9RGPA&index=34
cui smarrire il cammino.
Michela Pistidda
*[Arianna Degni - XXeNa nasce e vive a Roma. Di professione graphic designer e art editor ha lavorato per case
editrici come RCS, De Agostini Editore, Giunti, Newton Compton Editore e per clienti come Greenpeace Italia, Unicef, Amnesty International, FIOM e molti altri. Si esprime anche attraverso musica, videoarte e pittura. Nel 2008 inizia
la collaborazione con il musicista sperimentale DBPIT (Der Bekante Post Industrielle Trompeter) con lo pseudonimo
XXENA. dbpitxxena.altervista.org]
Soirée sur la Loire, Félix Vallotton, olio su tela, 1923.
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<<<InDICAZIONI
Le fantasticherie della donna
selvaggia - Scene primitivE
di Hélène Cixous
InDICAZIONI>>>
È in una calda notte di luglio, in rue Philippe a Parigi, che il
fantasma dell’Algeria torna a visitare Hélène Cixous. Dopo
una lunga gestazione nel ventre della memoria, ecco che
sopraggiungono le prime doglie, il travaglio, il parto della
consapevolezza identitaria: la coscienza di non appartenere. “Tutto il tempo in cui ho vissuto in Algeria ho sognato di giungere un giorno in Algeria” scrive febbrile Hélène,
incipit perduto e poi ritrovato di questo libro.
Nata nel 1937 a Orano, territorio coloniale francese, da
una famiglia di origine ebraica, Hélène Cixous ha vissuto
l’infanzia e l’adolescenza ad Algeri nel quartiere del ClosSalembier. In questo patchwork identitario un motivo prevale su tutti: l’Algeria, che si è insinuata nelle vene come
una malattia che non lascia scampo e negli anni ha contagiato nuove regioni dello spirito. Una malattia (quanto
rimane dello “sguardo coloniale” in questa definizione in
negativo? [N.d.r.]) che ha come cifra la privazione e che
consiste nella “impressione di essere posseduta da una
sensazione di spossessamento”.
Algeria: terra di conquista, provincia coloniale che si sottrae allo sguardo del conquistatore. Hélène, figlia dell’impero coloniale francese, non possiede l’Algeria e non è
neppure posseduta dall’Algeria: subisce il vuoto del rifiuto, la reclusione in una terra di nessuno, il divieto all’appartenenza. Il suo è il disorientamento di una figlia di fronte all’abbandono della propria madre, che l’ha partorita e
tuttavia la costringe a un destino di orfana. Madre-patria,
madre-lingua: chi è Hélène? A quale terra, a quale cultura, a quale lingua appartiene? All’Algeria cui è legata da
un cordone ombelicale o alla lingua francese che è modalità d’interpretazione del mondo e strumento espressivo?
Solo la narrazione di sé, ossia la rievocazione del passato,
può offrire una risposta: Hélène deve farsi levatrice della
propria identità, come un tempo sua madre ostetrica nella
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Clinica di Algeri, se vuole comprendere le proprie origini.
Questo processo maieutico di autodefinizione si innesca a
Parigi, come se la distanza spazio-temporale potesse garantire la chiarità di sguardo necessaria per fugare le ombre di un’esperienza in parte rimossa, certo trasfigurata.
Insieme al fratello Hélène tenta di dipanare un garbuglio di
fili contraddittori, perché il vissuto restituito dalla memoria individuale è necessariamente polifonico. Suoni visioni
sogni si succedono in un inseguimento a scapicollo, nella
corsa a perdifiato di Hélène verso un miraggio inafferrabile:
verso l’Algeria, “una realtà senza realtà”, e dunque verso
se stessa. Volti e oggetti cari – Aïcha, il Velò, il Cane – giganteggiano sullo sfondo tremulo di un eden perduto: “Ti
suggerisco di chiamare questo libro il Paradiso perduto,
dice mio fratello. Cioè l’inferno perduto, dico io. Tutto quello che perdiamo è paradisiaco, dice mio fratello. È infernale, dico io. L’inferno del paradiso”. Paradiso inaccessibile
dietro le mura imbiancate a calce e inferno in bella mostra
oltre il cancello aperto-chiuso della casa nel Clos-Salembier: attraverso gli occhi dei due fratelli la realtà algerina è
un fronte, una trincea dove si consuma l’eterna battaglia
tra desiderio struggente di inclusione (nei margini: sogno
di appartenenza alla colonia) e delusione aspra di fronte
agli usci serrati (fuori dai margini: accusa di appartenenza
all’impero). E tre volte marginale è lo sguardo dell’autrice:
in quanto francese, in quanto donna, in quanto bambina.
Proiezione e ossessione, l’Algeria insiste: “nome vellutato
della fuggevolezza”; miraggio di archetipica appartenenza,
è l’origine per antonomasia, utero e matrice, eden da cui
Hélène è stata espulsa, in cui non ha mai avuto e mai avrà
diritto di cittadinanza, in cui la cacciata si accompagna a
un destino di caduta, a un futuro precipitare nel pozzo dei
ricordi senza fondo che agguantano di notte e costringono alla scrittura. La scrittura, infatti, è lo strumento della
‘Con il cuore che batte insisto spio ancora oggi forse una porta
può aprirsi nella Città di Algeri se busso molto forte alla memoria
di mia madre ancora oggi cammino lungo il muro di cinta tasto
sogno di entrare nel paese di cui sono l’aborto testardo’
reminiscenza, scalpello della costruzione ostinata di sé, e
tuttavia è dispositivo labile perché, come i ricordi, è passibile di perdita (si pensi all’episodio che dà inizio al romanzo).
Se passato e presente, Parigi e Algeri si confondono, e
le coordinate spazio-temporali si liquefanno nel territorio
dell’interiorità, anche la lingua che abita Hélène prende a
gorgogliare e a scorrere fluida, sottraendosi all’alveo regolatore della sintassi e tracimando nell’imprecisione fulgida
della rievocazione, spazzando via punteggiatura congiunzioni nessi logici: “Con il cuore che batte insisto spio ancora oggi forse una porta può aprirsi nella Città di Algeri
se busso molto forte alla memoria di mia madre ancora
oggi cammino lungo il muro di cinta tasto sogno di entrare
nel paese di cui sono l’aborto testardo”.
Perché fantasticherie? Perché il vissuto rievocato dalla Cixous si pretende prelogico, andrebbe ascritto all’atemporalità del mito, e nel ricordo si rivela sedimento spurio di
una metabolizzazione parziale, di un fare-i-conti che non
giunge mai a conclusione ma si ripete, rimugina, rimastica
all’infinito.
Perché appunti selvaggi? Perché precedono il logos, pretendono una lettura quasi corporea, chiamano in causa i
cinque sensi, sono scanditi da un ritmo ipnotico ed evocativo, un tambureggiare che echeggia nelle viscere e che
costringe il lettore a cedere a un incanto quasi sciamanico, una litania che induce all’identificazione totalizzante
che spiazza, disorienta. Perché nella memoria di tutti noi
esiste un Clos-Salembier.
TITOLO Le fantasticherie della donna
selvaggia – Scene primitive
AUTORE Hélène Cixous
TR. IT. Nadia Setti
EDITORE Bollati Boringhieri
PREZZO DI COPERTINA 15,00 €
PAGINE 123
ISBN 9788833915913
Michela Pistidda
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<<<InDICAZIONI
Da nessun luogo con affetto - Poesie
di Iosif Brodskij
InDICAZIONI>>>
Premio Nobel per la letteratura nel 1987, esule russo naturalizzato americano, Josif Brodskij è stato saggista e
traduttore, ma soprattutto una delle maggiori voci della
poesia russa contemporanea. Il volume edito da Adelphi
nel 2004 con il semplice titolo di “Poesie” raccoglie una
serie di versi - scelti dall’autore stesso - che abbracciano
un arco temporale e geografico molto ampio: dal 1972 al
1985, dall’Inghilterra di Auden all’Italia delle calli veneziane
o delle piazze di Roma, dalle paludi baltiche dove Brodskij
è nato e cresciuto alla costa di Cape Cod sull’Oceano
Atlantico.
Esilio e memoria sono i temi attorno ai quali si sviluppa la
produzione lirica di Brodskij. Per chi è costretto a lasciare
la propria terra, “il corpo sembra una carta arrotolata, scala uno per tre”. Sparigliato dal viaggio, il corpo si fa quindi
geografia confusa che deve spiegarsi in quanto mappa
e in quanto enigma identitario. Sotto i colpi delle vicende
umane anche i punti cardinali e i riferimenti geografici si
sgretolano e divengono elusivi: “perso è l’orientamento”.
Il poeta non sa più dove sia il Nord, regione il cui freddo,
in passato, gli “ha messo una penna tra le dita/per riscaldarle strette a pugno”, e dove ora cerca rifugio e ricetto.
Vaga nel sud canicolare dove “il corpo riesce a nascondersi, ma l’ombra no”. Dall’estremo Occidente contempla “il confine orientale dell’Impero affonda[re] nella notte”.
Come Orfeo, smembrato e disperso ai quattro venti, così
il poeta ha il proprio “guardaroba/all’estremo orientale”, la
sua testa fluttua sulle acque dell’oceano (“quanto ghiaccio nel bicchiere bisogna gettare per fermare il Titanic del
pensiero?”) e le sue membra compongono un “patchwork
più informe dell’Europa”.
Il viaggio, traslazione del peso del corpo in un altro luogo, scava solchi profondi, lascia tracce indelebili che trasformano l’esperienza individuale in metafora esistenziale
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e racchiudono in sé la domanda per antonomasia: “chi
sono?” Per sciogliere questo enigma può essere d’aiuto
farsi amico lo spazio, prendere il largo “partecipando alla
geografia, all’azzurrità”, poiché “ogni vela di profilo sembra
un punto interrogativo:/lo spazio custodisce la risposta”.
In alternativa è possibile rivolgersi al tempo: ecco che entra in gioco la funzione gnoseologica della memoria. Coltivare il ricordo, vivere nel presente e nel passato, sono
l’unico metodo efficace per conoscer(si), mettersi a fuoco,
fissare in contorni provvisori la propria mutevole identità.
Dimenticare, infatti, è perdersi (vibra come un’accusa l’incipit “Hai scordato il villaggio, sperso nelle paludi…”) e del
resto non è garanzia di traguardo, di sedentaria soluzione:
“l’alfabeto di dimenticare/non ti permetterà il fine del tuo
viaggio, il punto ‘b’”. Occorre quindi praticare e celebrare
il movimento che porta con sé, ineluttabile, il mutamento:
“se c’è qualcosa da cantare è il cambio del vento”; con
la consapevolezza, tuttavia, che mai potrà aprirsi il vicolo
cieco che ogni uomo reca in sé ovunque e che il distacco
e la solitudine, “l’uomo al quadrato”, si dispiegano senza
soluzione di continuità nel corso dell’esistenza.
Al centro di questo turbinare ininterrotto di latitudini e stagioni, volti e oggetti cari c’è tuttavia un nucleo di pacifica stasi, un punto in cui tutto resta immobile e uguale a
sé: l’occhio del ciclone. È la lingua russa, esplorata e vissuta in tutte le sue gradazioni e potenzialità, da declinare nel lessico quotidiano e nel ritmo telegrafico di “Parte
del discorso”, così come nel respiro vario e versicolore
di “Ninnananna di Cape Cod”. Madrepatria dello spirito,
non-luogo atemporale che sfida ogni legge, la lingua e per
associazione la scrittura sono l’essenza identitaria del poeta: luce nella notte, punto fermo al movimento delle lancette, riparo al precipitare dei termometri. Nel versificare
di Brodskij, la lingua assume l’andamento leggero d’una
Io non so più in quale terra riposerò.
Tu stridi, stridi, penna, la carta consuma
brezza marina, la ridente freschezza della spuma di mare,
lo slancio caracollante d’un planare di gabbiani che alternano colpi d’ala ad attimi di sospensione.
Strappate le radici, quindi, non resta che “abbraccia[re] forte l’aria”, “alla cui immateriale azzurrità simile/è questa vita”.
Michela Pistidda
TITOLO Poesie
AUTORE Iosif Brodskij
TR. IT. Giovanni Buttafava
EDITORE Adelphi
PREZZO DI COPERTINA 18,00 €
PAGINE 223
ISBN 9788845906466
73
<<<InDICAZIONI
LA Passione della nuova Eva
di Angela Carter
InDICAZIONI>>>
Sono passati quasi quarant’anni dalla pubblicazione di
The Passion of New Eve, e trent’anni esatti dalla sua prima traduzione italiana per ‘i tipi’ Feltrinelli con il titolo La
passione della nuova Eva. Rileggere e far leggere oggi
questo romanzo potrebbe dare un nuovo impulso al dibattito di genere, rimettendo sul tavolo gli interrogativi
che si snodano attorno alla costruzione dell’immagine
della donna.
È un vero peccato che questa eccezionale scrittrice, prematuramente scomparsa nel 1992 e ancora oggi acclamata nel panorama internazionale, alchimista della parola e sapiente narratrice dalla fantasia iperbolica, in grado
di affrontare con levità e impegno argomenti delicati e tematiche spinose, non riesca ancora a trovare uno spazio
adeguato presso il pubblico italiano; complice, va detto,
lo scarso numero di traduzioni in circolazione.
La passione della nuova Eva segue le vicissitudini di un
giovane insegnante inglese, Evandro, innamorato fin da
bambino dell’attrice e femme fatale per antonomasia Tristessa de St. Ange, nel viaggio picaresco che lo porterà
ad abbandonare una New York distopica, assediata da
bande di guerriglieri che rivendicano i diritti dei neri, degli
omosessuali e delle donne, e ad attraversare la distesa
sterile del deserto dell’Arizona dove verrà rapito dalla comunità di amazzoni della città sotterranea di Beulah, la
città della Grande Madre. Qui Evandro, tramite un processo di psicochirurgia avanzata, una tecnologia impastata di mito e altissima scienza, perderà una parte di
sé, la parte maschile (andros, in greco, significa uomo),
e secondo i piani della Grande Madre, una creatura che
non è simulacro ma sussume simbolo e realtà, diventerà
la nuova Eva per riattivare la partenogenesi archetipica
e dare origine con il proprio stesso sperma a una nuova
progenie.
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Di fronte alla Grande Madre, Evandro viene invaso dal
timor sacro. L’orrore scaturisce di fronte al reale, ossia
quando l’uomo vede smantellati i costrutti simbolici e i
discorsi con cui ha tentato di idealizzare la donna, di
espellerla dalla realtà, di trasformarla in un’astrazione,
dunque facile da assoggettare, dominare, sottomettere.
La dimensione naturale del femminile appare terrificante
in tutta la propria potenza anche perché in grado di dare
la vita. La Grande Madre era “Madre; ma troppo madre;
un essere femmina tropo grandioso, troppo volgare per
la mia povera immaginazione”, perché rappresentava una
“fertilità bastante a se stessa”; ovvero, non partorita dal
maschile ma interamente autocostruitasi.
Al polo opposto c’è Tristessa de St. Ange, la diva del
cinema muto. Tristessa è “frammento di pura mistificazione”, esasperazione iperbolica dell’etereo femminino,
“bella come solo ciò che non esiste può essere, ossessione infinita di paradossi, ricetta di perenne insoddisfazione”, tanto affascinante perché dominata da un “eroismo
assurdo e tragico con il quale ella aveva saputo negare
la vita reale”. Tristessa è la costruzione maschile per antonomasia, una immagine in movimento priva di carne,
reale ma senza sostanza; è maschile come maschile, in
realtà, è il suo sesso. Quando scoprirà la vera identità
sessuale di Tristessa, Evandro si renderà finalmente conto che l’ideale femminile in cui credeva è “un’illusione nel
vuoto, l’immagine vivente dell’intero sistema di ombre
platonico, un’illusione capace di riempire il vuoto che era
in me”.
“E ora sarai ciò che tu stesso hai prodotto”: questo è il
contrappasso di Evandro, ossia diventare la realizzazione delle proprie fantasie erotiche. Le rappresentazioni di
genere implodono: “Mi avevano trasformata nell’incarnazione del manifesto centrale di Playboy. Ero l’oggetto
Il disorientamento nello iato tra ideale e reale:
decostruzione e ricerca dell’identità di genere
di tutti i desideri che erano confusamente coesistiti nella
mia mente. Ero diventato la mia stessa fantasia masturbatoria”.
Tutto quindi si articola attorno all’equilibrio dinamico tra
simbolo e realtà. Il femminile viene costruito dallo sguardo
maschile e si estrinseca come recita, mistificazione. Se
il corpo femminile colonizzato dallo sguardo maschile è
inconsistente, come quello di Tristessa, pura costruzione
simbolica, la corporeità mostruosa e terrorifica del femminile rappresentata da Madre, latrice di vita e di morte,
natura allo stato puro e al tempo stesso pura astrazione,
sgomenta il maschile, che non è in grado di relazionarsi
alla complessità di un altro che aveva preteso bidimensionale, pura estetica senza ontologia.
La scelta di ambientare il romanzo negli Stati Uniti non
è dettata solamente da un intento satirico nei confronti della società statunitense (il Nuovo Mondo, appunto),
ma è anche riconducibile al mito tutto americano della
terra promessa, che offre infinite possibilità di autorealizzazione. Da una New York apocalittica e dalla distesa
sterile e bestiale del deserto ha inizio il cammino iniziatico di Evandro, che per metafora ricalca passo passo le
tappe del processo alchemico di creazione dell’oro. Dal
nigredo, la materia in putrefazione, nasce la nuova Eva,
la Eva futura. New York, “cuore dello scannatoio”, è una
“gigantesca metafora di morte” in cui Evandro abbandona le proprie spoglie maschili per poi rinascere nel deserto come donna, prima a Beulah e poi, sotto le stelle,
negli amplessi con Tristessa.
Ascrivibile al genere del realismo magico per la commistione di elementi reali e di fantasia, questo romanzo è
molto di più: è un inno alle potenzialità inespresse del linguaggio, uno spettacolo di pirotecnia stilistica e formale
che raggiunge apici di lirismo estatico, come nel can-
to alla Grande Madre (“in una mano ella stringe il sole/
nell’altra la luna/dal dorso si scuote le stelle”), e sprofonda nello sbocco sguaiato di grugniti cacofonici e bestiali
di Zero e delle sue sette mogli, che “chiurlavano, miagolavano, squittivano, ruggivano e chioccavano”. Tratto
Il ritorno della bella giardiniera, Max Ernst, Tecnica mista su tela, 1967.
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InDICAZIONI>>>
peculiare della scrittura carteriana è anche il gusto per il
pastiche e il mélange di generi, registri, stilemi, in cui trovano spazio il racconto picaresco e la narrazione mitica,
la fantascienza distopica e la gothic novel, la fiaba e la
commedia erotica. La trama di riferimenti intertestuali è
talmente fitta da dare le vertigini. Per chi sappia cogliere
le briciole disseminate dall’autrice lungo il sentiero, la delizia è infinita: ecco l’albatros di Coleridge a Baudelaire,
ecco Giocasta Edipo Tiresia, ecco Wagner Tchaikovskij
e Chopin, oltre a tutte le stelle del cinema che hanno
conosciuto una fine tragica, da Marilyn Monroe a Lupe
Velez.
Di fronte all’impossibilità di svelare l’enigma dell’identità
di genere, Eva/Evandro ricorda che “il tempo dell’eros
ferma tutti gli altri” tempi. La donna che era stata uomo e
l’uomo che era stato donna si amano al di là della propria
caratterizzazione biologica o genitale, al di là dell’identità
di genere che hanno decostruito e ricostruito. Attraverso
l’amore danno vita al “grande ermafrodita platonico, […]
l’essere che ferma il tempo in quella eternità autogenerantesi che è l’eternità degli amanti”.
Michela Pistidda
TITOLO La passione della nuova Eva
AUTORE Angela Carter
TR. IT. Barbara Lanati
EDITORE Feltrinelli
PREZZO DI COPERTINA 7,75 €
PAGINE 194
ISBN 9788807013010
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Il mare e le metafore che incarna sono al centro della raccolta di poesie Quando sorride il mare di Floriana Porta,
giovane scrittrice, fotografa e pittrice torinese. La silloge
si suddivide in tre parti ed è completata da una rassegna di haiku, brevi componimenti poetici della tradizione
giapponese.
Il mare è soggetto indiscusso del libro, spazio reale e
spazio immaginario nel quale perdere corpo e spirito. La
semplicità dello stile e l’omogeneità del contenuto intervengono a dar vita a un acquerello dove prevalgono i
colori chiari, le tinte soffuse, le sfumature tenui; ma non
mancano le pennellate più scure delle fosse oceaniche, i
rimandi a profondità imperscrutabili.
Per mezzo di un’accumulazione di immagini antitetiche,
lo spazio geografico del mare appare sia come dimora
del tempo, della memoria, sia come bacino di eternità o
di esistenza primigenia, un concetto a cui si riferiscono
i frequenti richiami ai fossili che “conservano le tracce/
di un antico passato”. Ora dominato dal silenzio, ora loquace d’una lingua ignota (“Un moto obliquo/di taciturne
corde vocali”), il teatro marino è ventre che dona la vita,
“utero purpureo/ubriaco di memorie”, e destino di morte, simbolo di una forza creatrice che “abita ogni cosa”
e che è capace allo stesso tempo di distruzione. Pur essendo attraversato della luce, che gioca sopra la spuma
e si rifrange sulle increspature a fior d’acqua, il mare non
si sottrae alle tenebre che si trovano racchiuse negli abissi inghiottendo “pensieri afotici”, o nelle tempeste che lo
spazzano soffocando paure e terrori.
Mare è anche sinonimo di viaggio: viaggio dei pensieri
che corrono “sulla stessa rotta degli albatri” e viaggio di
“memorie apocrife” da un lato all’altro dell’orizzonte. Oppure viaggio da intendersi come movimento incessante
della materia, realizzazione di un crogiolo di energie che
si manifestano nel moto ondoso (“Onde”) e nel flusso e
riflusso delle maree, dominate dalla forza attrattiva della
luna (“Maree apogeali”).
Da una tavolozza di “polveri colorate” ecco i brevi “strati
di impasto” degli haiku conclusivi, dove i “giochi di onde/
pungente nostalgia/in erosione” suggellano una poesia
che è leggera e trasparente come la brezza salmastra
del mare.
InDICAZIONI>>>
Quando sorride il mare
di Floriana Porta
TITOLO Quando sorride il mare
AUTORE Floriana Porta
EDITORE Book Publishing
PREZZO DI COPERTINA 9,90 €
PAGINE 63
ISBN 9788898590087
*[Michela Pistidda, traduttrice per una piccola agenzia milanese, è funambola di parole nel quotidiano ma
perde l’equilibrio se si tratta di scrivere la propria biografia.]
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<<<InDICAZIONI
SOTTO FASI LUNARI
di GIORGIO CASALI
‘Non passa niente per il cuore che non sia
La luna: arriverà tra poco piena’
InDICAZIONI>>>
Quelle sopra riportate sono le battute iniziali di Macchie
lunari, una delle poesie presenti nella raccolta Sotto fasi
lunari di Giorgio Casali, giovane poeta, classe 1986, e speaker radiofonico modenese alla sua quarta pubblicazione.
E questo piccolo satellite, che già sin dall’antichità ha ispirato tanti autori, è davvero il protagonista assoluto dell’ultima fatica letteraria dello scrittore Casali: una luna che
osserva da lontano, “una luna quasi sempre piena, in un’atmosfera ancora provinciale perciò più piena di accensioni,
feste di paese e simboli antichissimi da decrittare” (Anna
Ruotolo, Prefazione), mentre si consumano incontri, amori, tradimenti e la vita prosegue nel suo corso.
Poesie prevalentemente brevi, quelle di Giorgio Casali, intervallate da testi, anch’essi brevi, di prosa poetica.
Accanto alla luna, presenza ricorrente in quasi tutti i componimenti, tra gli altri protagonisti della raccolta troviamo
il paesaggio modenese, con le sue colline e i suoi paesi e,
non ultima, la musica.
Non solo molte poesie, infatti, raccontano di dischi, concerti (basti, come esempio, Due biglietti) o gruppi musicali
(si veda Rex il cane, Amnesiac, Polly Jean, tanto per citarne alcuni), ma la raccolta si apre proprio con una citazione
da All and everyone di PJ Harvey (Death was everywhere)
a ricordarci, come il ciclo delle fasi lunari, il passare del
tempo (altro tema dominante) e il suo scorrere, per cui
anche il dolore più bruciante è destinato a passare (Vieni
dolore, entrami prendimi … fino a quando un giorno/arrivederci poi tanti saluti), mentre noi “cittadini”, a differenza
dei nostri nonni “Non sappiamo più niente/delle fasi lunari
e del vino”.
E nella cornice di questa continuità, di questo fluire, le poesie di Giorgio Casali ci ritraggono, in rapidi schizzi, quasi sempre sotto lo sguardo benevolo della luna, di volta
in volta le donne, la fede, le preghiere, la notte, la morte.
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Brevi pennellate in cui si mescolano nuovo e antico, le feste nei locali alla moda, i viaggi di ritorno da un concerto,
le tradizioni e la religiosità semplice delle donne.
Una poetica, quella di Giorgio Casali che si richiama e ci
ricorda quella di Cesare Pavese, nei suoi aspetti discreti e
intimisti e dominata da storie semplici e vere, da paesaggi
di provincia, da atmosfere notturne, nostalgie e coscienza del tempo che passa leggero sulla vita.
Nei testi di Casali possiamo inoltre trovare un raffinato gioco di richiami, allusioni e incontri oltre che in campo musicale, con la letteratura del Novecento: Camillo (Sbarbaro),
Pier Vittorio Tondelli (Altri libertini molto più cretini/spendono il mattino a pensare al pomeriggio in Pieno di benzina),
Gianluigi Sacco, Andrea Salieri, il tuttoniente di Clemente
Rebora (Notte senza sogni).
Come efficacemente descrive Anna Ruotolo nella prefazione del libro, “l’io di Giorgio e gli altri suoi personaggi
sono anime che de-siderano, nel senso di sentire la mancanza delle stelle. E non perché hanno cessato di volere
piuttosto perché sono fermi sotto gli astri e contemplano
e sempre attendono. Un desiderio attivo, una volontà di
aspettare e così diventare parte degli accadimenti più singolari.”
Punto d’osservazione stra-lunato, quello di Casali, uno
stato di spaesamento e smarrimento di chi è pronto a lasciarsi sorprendere e quindi ritrovarsi:
So dove trovarti, luna/ma preferisco non cercare sul calendario/le faccine mezze piene o piene./Voglio invece esser colto di sorpresa/appena passata la curva in salita,/
spiarti dietro i rami del cipresso/scaldarti col fumo della
mia preghiera. (Avvento)
TITOLO Sotto fasi lunari
AUTORE Giorgio Casali
EDITORE Incontri
PREZZO DI COPERTINA 12,00 €
PAGINE 125
ISBN 9788896855546
*[Alessandra Carnovale vive e lavora a Roma. Si
divide tra manualità (modellazione, principalmente) e
scrittura (poesia). Ha partecipato a mostre e concorsi
Alessandra Carnovale
letterari, ottenendo premi e riconoscimenti.]
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