Sent.596/2014 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DEI CONTI SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE LAZIO IL GIUDICE UNICO DELLE PENSIONI dott. Luigi IMPECIATI nella pubblica udienza del 6 giugno 2014, con l’assistenza del segretario d’udienza dott. Marco OLIVIERI, esaminati gli atti ed i documenti di causa, uditi l’avv. Pendibene per la parte ricorrente e la dott.ssa Annamaria Alimandi per il Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio pensionistico iscritto al n. 073390/PG del registro di Segreteria promosso dalla sig.ra Laura LEVI e dal sig. Vittorio LEVI , quali eredi della sig.ra Marina Foà rappresentata e difesa dall’avv. Raffaele Pendibene, elettivamente domiciliati presso lo studio del difensore in Roma, via Po n. 28 AVVERSO Il provvedimento n. 86561 RI-GE del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 12.12.2008 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO I sigg. Laura e Vittorio LEVI, nell’asserita qualità di eredi della defunta sig.ra Marina Foà, scomparsa il 27.3.2006, impugnano dinanzi questa Corte il provvedimento in epigrafe (e la presupposta Delibera n. 089198 del 20.12.2007) con il quale, nel respingere il ricorso gerarchico proposto avverso il provvedimento di prima grado sopra ricordato, si è confermato il rigetto della pretesa di liquidazione dell’assegno vitalizio di benemerenza previsto dalla legge n. 932/80. I ricorrenti si dolgono che, prima la Commissione e poi il Direttore Generale del competente Dipartimento, non hanno dato valore alle prove depositate e, in particolare in sede di ricorso amministrativo, alle dichiarazioni contenute nell’atto notorio del 28.6.2006. Richiamando ampiamente l’indirizzo giurisprudenziale, anche di questa Corte, in ordine ai contenuti dell’art. 4 della legge n. 261/67 e dell’art. 1 della legge n. 96/55, parte ricorrente insiste sulla natura di “atto persecutorio” delle privazioni e degli sconvolgimenti della vita subita dalla dante causa dei ricorrenti, incidenti su valori enunciati come inviolabili dalla nostra Costituzione. Ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso sia per l’idoneità probatoria di quanto allegato e sia per la sussistenza degli altri requisiti previsti dall’art. 4 della legge n. 261/67. Con memoria depositata il 27.12.2013, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, nel trasmettere i documenti d’interesse, ha confermato che il ricorso gerarchico è stato respinto per la mancata dimostrazione, ancorché sollecitata, di documentazione probante le asserite persecuzioni subìte. Ha chiesto, pertanto, che il ricorso sia respinto. Con ulteriore, breve memoria depositata il 24 giugno 2014 lo stesso Dicastero ha eccepito l’improcedibilità del ricorso per difetto di competenza territoriale in quanto la dante causa dei ricorrenti non era residente in questa regione, al pari di uno dei due figli, che hanno introdotto il presente giudizio. All’odierna udienza l’avv. Pendibene, nel chiedere, preliminarmente, il rigetto dell’eccezione che precede, nel merito ha insistito per l’accoglimento del ricorso sussistendo, a suo avviso, nella documentazione in atti la prova delle condotte persecutorie subìte dalla sig.ra Sereni, ava degli odierni ricorrenti. MOTIVI DELLA DECISIONE I signori Laura e Vittorio LEVI hanno proposto ricorso innanzi questa Sezione Giurisdizionale, nella qualità di eredi della sig.ra Marina Foà, lamentando l’ingiustizia del diniego opposto alla domanda proposta dalla loro dante causa al fine di ottenere, nella qualità di orfana della sig.ra Eleonora Sereni, l’assegno di benemerenza reversibile previsto dall’art. 3 della legge n. 932/80. Il Ministero dell’Economia, con breve memoria depositata il 24 giugno 2014 ha eccepito l’incompetenza territoriale di questa Corte sul presupposto che il sig. Vittorio Levi non sia residente nella Regione Lazio e che, in ogni caso, il foro competente andrebbe individuato ai sensi dell’art. 22 c.p.c.. Al riguardo va detto, risolutivamente, che l’eccezione posta è inammissibile per tardività. Infatti l’art. 38 c.p.c. in via generale e l’art. 416 c.p.c., per quanto riguarda il rito del lavoro (rito in parte applicabile al giudizio pensionistico), dispongono la decadenza di quelle eccezioni, riguardanti l’incompetenza (in questo caso) territoriale qualora non siano state tempestivamente eccepite nella prima memoria di costituzione; cosa che, per quanto riguarda il Ministero dell’Economia, non è successo avendo riguardo alla costituzione avvenuta con atto del 27 dicembre 2013. Questo Giudice non ignora che, in materia di prescrizione, la giurisprudenza di questa Corte, in talune decisioni, ha ritenuto che l’eccezione relativa possa essere proposta anche nell’udienza dibattimentale prevista dall’art. 420 c.p.c. per effetto del mancato, testuale richiamo dell’art. 416 c.p.c. nell’art. 5 della legge n. 205/2000 allorché, si reputa in maniera tassativa, il Legislatore ha voluto l’applicabilità, nel giudizio pensionistico, solo di talune disposizioni di quel rito. Ma in disparte il fatto che una norma non può essere applicata se la si priva del suo collegamento genetico e funzionale con la norma presupposto, l’art. 420 c.p.c. indica – con chiaro riferimento al precedente art. 416 c.p.c. – che all’udienza possono , in caso di gravi motivi (e quindi neanche liberamente) “modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate, previa autorizzazione del giudice”. Ed il principio generale che regola la proponibilità delle eccezioni, processuali e di merito, è che le eccezioni in senso stretto o non rilevabili d’ufficio soggiacciono, per evidenti ragioni di economia processuale, alla sanzione della loro decadenza se non proposte nel primo atto defensionale, ove non diversamente consentito. Un principio di siffatta natura e cogenza, immanente in tutto l’ordinamento processualcivilistico non può, crede questo Giudice, essere messo in discussione da una lettura formale e restrittiva del dato normativo. La conseguente riflessione è che l’eccezione di incompetenza territoriale, al di fuori dai casi di cui all’art. 28 c.p.c., vada tempestivamente espressa, in ossequio al principio dispositivo del processo (anche) pensionistico. Risolta, nel modo che precede e pur prendendo atto che, effettivamente, il sig. Vittorio Levi non è residente nella regione Lazio, questo Giudice deve procedere ad una valutazione, nel merito, del ricorso. Le doglianze di parte ricorrente sono infondate. Esse si basano, in buona sostanza, sull’omessa valutazione dell’atto notorio del 28 giugno 2006 (rep. n. 661920 per atti notaio d’Agostino di Roma) da parte delle competenti autorità amministrative e, in definitiva, nel mancato riconoscimento della sussistenza del presupposto del soggiacimento, da parte dell’ava dei ricorrenti sig.ra Eleonora Sereni, ad azioni discriminatorie derivanti dalla sua appartenenza alla razza ebraica. La Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici ha rigettato la domanda (e lo stesso esito ha avuto il ricorso contro il provvedimento negativo della Commissione) assumendo, nel primo caso, la mancanza di documentazione probante le persecuzioni subìte dalla madre dell’istante (e nonna dei ricorrenti) e, in sede di gravame, ne è stato deciso il rigetto, malgrado la presentazione dell’atto di notorietà suindicato, perché non ritenuto esaustivo a provare la sussistenza dello specifico requisito.. Punto dirimente è, allora, valutare se quanto riportato nell’atto di notorietà è sufficiente a dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la sig.ra Sereni ebbe a subire atti di persecuzione a causa della sua appartenenza alla razza ebraica. E’ bene dire, innanzitutto, in relazione all’ atto di notorietà, che le dichiarazioni ivi riportate sono assistite dal regime di prova previsto dall’art. 2700 c.c per cui non può, allo stato, dubitarsi della genuinità di quanto attestato dalle testi. Ciò precisato, è bene ricordare – in via generale - che la norma dell’art. 3 della legge n. 932/80, che ha modificato e sostituito l'art. 4 della legge 24 aprile 1967, n. 261, prevede la concessione di un assegno vitalizio di benemerenza a carico dello Stato, reversibile, ai cittadini italiani (o ai loro congiunti, in caso di decesso dei soggetti interessati) che siano stati perseguitati nelle circostanze di cui all'art. 1 della legge 10.3.1955, n. 96. Ora, per quel che riguarda il caso concreto, occorre premettere che, tra le varie circostanze contemplate dal citato art. 1 della suddetta legge n. 96/1955, come modificato e ampliato dalle successive leggi n. 261/1967 (art. 1) e n. 932/1980 (art. 1), oltre a fatti specifici, quali le condanne, il confino, la carcerazione, la restrizione in campi di concentramento, è prevista, alla lettera c), l'ipotesi di avere subito “atti di violenza o sevizie da parte di persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste o di emissari del partito fascista”. Sul punto, collegando tale ipotesi nel contesto generale della normativa relativa ai perseguitati politici, secondo la lettura che ne dà la giurisprudenza di questa Corte, che questo Giudice condivide, le “violenze e le sevizie” in esame, non devono necessariamente comportare le conseguenze di tipo esclusivamente fisico e invalidante contemplate al primo comma dell'art. 1 della legge n. 96/1955, ma possono anche rivestire carattere morale o intellettuale, compromettere o frustare i normali rapporti sociali e di vita dell'uomo, essere, in una parola, lesivi dei diritti fondamentali dell'individuo. Essi devono assurgere, comunque, ad un significativo grado di intensità, o rivestire un carattere di continuità per il loro reiterarsi ed essere di tale natura da poter inequivocabilmente assumere la qualificazione di “atti persecutori” (Corte conti SS.RR. n. 1/QM/98). L’ampiezza definitoria della locuzione “atti di violenza” è stata poi ancor più puntualmente colta dalla Corte Costituzionale la quale, nella sentenza n. 268/98 ha affermato, trattando delle leggi razziali, che “In questo contesto normativo, la discriminazione razziale si è manifestata con caratteristiche peculiari, sia per la generalità e la sistematicità dell’attività persecutoria, rivolta contro un’intera comunità di minoranza, sia per la determinazione dei destinatari, individuati come appartenenti alla razza ebraica, secondo i criteri legislativamente stabiliti”. Emerge, così, da un’armonica lettura della giurisprudenza, richiamata nella sentenza n. 8/QM/2003, che “Appagante e consona a un'interpretazione costituzionalmente corretta della normativa in riferimento è la nozione del concetto di “atti di violenza” già formulata con la predetta sentenza risolutrice (n. 1/QM/98 n.d.r.) laddove gli stessi vengono identificati in tutti gli atti che abbiano concretamente determinato la lesione del diritto della persona in uno dei suoi valori costituzionalmente protetti, in quanto tale accezione, estendendosi anche alle ipotesi di “violenza morale”, risponde, come appunto ivi chiarito da queste Sezioni riunite, all'esigenza di non isolare, nell'ambito dei diritti della persona, un unico valore (quello dell'integrità fisica), trascurando tutti gli altri che completano il diritto della personalità”, con la conseguenza che solo la “mera” soggezione passiva alle leggi razziali esclude il beneficio economico di cui si tratta ma non il concreto assoggettamento a quelle misure discriminatorie. Continua, infatti, la richiamata sentenza delle SS.RR. “Per contro, la concreta applicazione delle leggi razziali nei confronti dei singoli soggetti passivi, a opera della pubblica amministrazione e a mezzo dei soggetti titolari del relativo potere, interruppe la soggezione quale “stato d'attesa” e determinò l'avvio uti singuli delle attività persecutorie che incisero sulle posizioni giuridiche soggettive dei destinatari delle norme discriminatici concretizzando specifiche azioni lesive provenienti dall'apparato statale e intese a ledere le persone colpite nei loro valori inviolabili”. Ne consegue, ad avviso di questo Giudice ed in condivisione con il prevalente indirizzo giurisprudenziale, che aver subìto, sulla propria persona, la discriminazione razziale posta dalla normativa ed attuata dalle autorità amministrative e politiche, costituisce sicuramente fattispecie concretizzante il presupposto richiesto dall’art. 1 lett. c) della legge n. 95/55. Nel caso sottoposto all’odierna cognizione si può apprezzare, dall’atto notorio prodotto, unico documento presentato a supporto della pretesa, che la sig.ra Sereni, nel 1938, era residente a Napoli e che, per effetto dell’espatrio del figlio Bruno, sovente si recava a Londra – ove si era rifugiato il figlio – per consentirgli di vedere la di lui figlia, affidata alle cure della nonna rimasta in Italia. Colpita da ictus per gli evidenti disagi, dopo l’8 settembre 1943 decise di rifugiarsi al nord presso un convento di suore nel parmense e successivamente, in periodo sconosciuto ma riferito comunque 1943/45, abbandonò il convento per rifugiarsi, ospite, presso alcune famiglie, sempre nel parmense. Altri elementi della sua famiglia perirono a causa di malattie o deportati e la sig.ra Sereni (nata nel 1870) morì nel 1947 a causa di un secondo ictus. Questi, in breve, i fatti riportati nel documento indicato e che, a valutazione di questo Giudice, non possono ritenersi sufficienti a supportare la pretesa di parte ricorrente. L’elemento che manca, ad avviso di questo giudicante, è la specificità delle sofferenze subìte ricollegabile all’appartenenza alla razza ebraica. Non vi è dubbio che la paura della deportazione abbia indotto la sig.ra Sereni a spostarsi da Napoli a Parma e poi, probabilmente, a cambiare rifugio sotto l’incalzare degli eventi. Ma si tratta di valutazioni che, per quanto ragionevoli, appartengono alla sfera della volizione privata, non diversamente da quello che avrebbe potuto fare qualsiasi cittadino non appartenente alla razza ebraica, per sfuggire al pericolo della guerra, ai bombardamenti, alle vessazioni delle truppe nazifasciste. Nella fattispecie non vi è alcun riscontro oggettivo che, come in casi analoghi, tipo l’allontanamento da scuola o dal lavoro, possa connettere in maniera oggettiva l’appartenenza alla razza ebraica con la lesione di un diritto fondamentale, almeno in modo assolutamente peculiare rispetto alle restrizioni che ogni cittadino subisce per effetto dell’evento bellico. Il semplice rifugiarsi in un convento o presso famiglie generose per paura di subire eventi bellici non può costituire requisito per l’ottenimento del beneficio che, contrariamente opinando, spetterebbe ad ogni cittadino ebreo presente, durante la guerra, sul territorio nazionale per il solo fatto dell’appartenenza razziale. Ma questo non è stato previsto dal legislatore che ha voluto, invece, la verificazione di concreti atti di persecuzione che, ad avviso di questo Giudice, non possono ravvisarsi nella fattispecie. In conclusione, il ricorso, essendo infondato, dev’essere respinto. Non vi è luogo, stante la materia, a giudizio sulle spese. P.Q.M. Il Giudice Unico delle Pensioni della Corte dei Conti - Sezione Giurisdizionale per la regione Lazio, definitivamente pronunciando, RESPINGE il ricorso n. 073390/PM del registro di Segreteria proposto dalla sig.ra Laura LEVI e dal sig. Vittorio LEVI Nulla per le spese. Così deciso in Roma nell’udienza del 4 luglio 2014, nella quale è stata data lettura del dispositivo. IL GIUDICE f.to dott. Luigi IMPECIATI Depositata in Segreteria il IL DIRIGENTE Pubblicata mediante deposito in Segreteria il 18/07/2014 Per il Direttore Il Dirigente F.to Domenica Lagana’
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