Bollettino informativo non periodico della Comunità Cristiana di base di Chieri - Distribuzione gratuita - Stampato c/o Reprograf di Cocco Bruno Corso Casale 123 Torino (To) aprile 2014 Foglio d’informazione della Comunità Cristiana di Base di Chieri n° 58 esce dal 1989 INCUBI E SOGNI volta, confesso, faccio fatica a parlare di Q uesta politica italiana in senso stretto, anche perché sinceramente non so più dove andiamo né a che cosa tendiamo. Quello che so è che ogni Grande Leader che appaia sulla scena propone il suo Sogno. Per vent’anni ci siamo abbuffati del Sogno berlusconiano, un sogno in verità di plastica e di burlesque: un milione di posti di lavoro, godimenti serali da Maria De Filippi, identificazioni di maschi vogliosi con il grande Satrapo, di ragazze fisicamente ben dotate con le più famose Olgettine, facile accesso ai soldi pubblici per privati piaceri da parte di Nominati innominabili e via dicendo. Anche se di tenore diverso, anche Grillo ci ha abbagliati con il suo grande Sogno. Un sogno di totale palingenesi morale, verso cui marciare compatti, animo uno et uno corde, nel segno della Rete e dell’hashtag rivelatore di verità inconfutabili, verso l’obiettivo finale della Decrescita felice. A patto però che “tutti gli altri” – politici, giornalisti, dissidenti, diffidenti ecc. – la smettano di criticare, anzi di parlare, anzi fors’anche di respirare. Adesso si aggiunge a questi il grande Sogno renziano. Che fosse proprio codesta la “carta vincente” mancante al PD, l’unico grigio partito rimasto senza sogno ma con tante realistiche promesse di “lacrime e sangue”? Ed ecco il grande e giovine Tosco che promette sogni a gogò, innamoramenti folli tra giovani ed istituzioni (i vecchi tacciano e dormano soltanto, aprile 2014 possibilmente senza sognare alcunché), passioni ardimentose, frenesie attivistiche e ideali non meglio precisati da realizzare a breve, nel segno di folgoranti marce calendarizzate su Excel con meticolosa precisione. Nel frattempo c’è qualcuno che cade, qualcuno che dissente, qualcuno che credeva ma si è dovuto ricredere…qualcuno chi? A giudicare dai sondaggi, molti Italiani si sentono sempre attratti da uno di questi grandi sogni e sperano. Altri, per fedeltà, per abitudine o per convinzione ideale, si aggrappano ancora ai “piccoli partiti”, che sempre di più pare rivestano il ruolo di “cespugli” ai piedi della grande quercia o, all’occorrenza, di “utili idioti”. Altri ancora – e non pochi – hanno abbandonato qualsiasi sogno o convinzione o speranza e ingrossano le file dei probabili “renitenti al voto”. E’ vero che la realtà spesso è insopportabile e, piuttosto che sogni, fa vivere degli incubi, tanti, troppi incubi. L’incubo di perdere il proprio posto di lavoro. L’incubo di non farcela a lavorare in condizioni sempre più difficoltose e per un orizzonte temporale lunghissimo. L’incubo di uscire ogni giorno da casa con il miraggio di cercare un lavoro che non si trova. L’incubo di non trovare mai lavoro o di non ritrovarlo mai più. L’incubo di non riuscire a pagare tasse, mutui, bollette. L’incubo di non riuscire a tenersi la propria piccola attività artigianale, il proprio negozietto, la piccola impresa. L’incubo di ammalarsi e di non potersi curare, di essere sfrattato e di non sapere dove andare a vivere. Ma proprio questo è il punto. Se la politica non è capace di diradare gli incubi, ha fallito il suo compito e anche il sogno svanisce. Intendiamoci: avere un sogno non è affatto male, anzi! Aiuta a vivere, aiuta a operare nella (Continua a pagina 2) Aprile 2014 - n. 58 C.D.B. Chieri informa direzione scelta e voluta. Tuttavia…a mio avviso, anche i sogni, quando si incontrano con la realtà, trovano i loro trampolini di lancio oppure i loro ostacoli. Il rischio è che si trasformino, prima o poi, in illusioni, lasciando dietro di loro vuoto e nebbia, cioè confusione. Certo, realizzare un sogno politico, che riguardi la polis, cioè la cittadinanza non è facile poiché la realtà sociale è complessa e nessuno ha la bacchetta magica. Quindi, per prima cosa, io sarei restia dal credere che un uomo solo, l’Uomo della Provvidenza, riesca a tanto, comunque egli si chiami. Inoltre, sempre a mio avviso, il sogno della Polis non può riguardare solo pochi privilegiati, altrimenti rinnega la sua stessa ragione d’essere: in un periodo in cui, per vari motivi, la maggioranza della popolazione soffre povertà e violazione di diritti fondamentali (tra cui il diritto al lavoro), in alcun modo sono giustificabili pensioni o stipendi d’oro, sprechi di denaro pubblico per regalie e autogratificazioni, sperequazioni reddituali intollerabili. Credo poi che un sogno politico debba fondarsi su valori di onestà, trasparenza e giustizia sociale, pertanto sono illusorie promesse che vengono da classi dirigenti o uomini politici che abbiano già dato ampiamente prova di proteggere comportamenti truffaldini, personaggi equivoci, connivenze similmafiose. Sono altresì convinta che, in una società democratica, le relazioni a tutti i livelli, a partire da quello istituzionale (che dovrebbe servire da esempio e modello), debbano essere improntate al rispetto reciproco. Che non significa esimersi dalla critica, anche rigorosa e determinata, ma dall’insulto facile, dall’invettiva ad effetto, dall’offesa gratuita e pretestuosa, dalla brutale e poco fantasiosa battuta razzista o sessista. Penso ancora che qualche volta forse, più che farsi la guerra ad oltranza, sarebbe utile riscoprire un minimo di valori e di ideali condivisi ed operare insieme per realizzare un obiettivo di bene comune. Ma forse sto davvero sognando troppo! Rita Clemente TEMPLI E PALAZZI UN SOGNO Chiudete pure la porta, non gridate il mio nome. Me ne resto fuori da solo sotto questo cielo di presepe che odora di muschio e cartapesta. Lo so che dentro siete prostrati di fronte ai vostri altari: ostensori, scrigni di preziosi armadi stipati di sacre teche, codici, pergamene,miniature, lasciti, testamenti. Avete riscattato i vostri compleanni? Quale profitto dai contratti stipulati? A quali eredi l’incombenza del vostro necrologio? Sento risuonare dall’interno grasse risate, il ticchettìo della tastiera, il fruscio di carte e documenti, il dischiudersi di serrature e il bip di codici segreti, il fremito pauroso di ricchezze nascoste ed il silenzio rabbioso delle povertà subite. Ascolto il vostro brindisi d’augurio: sconfiggere la crisi è la priorità. Di giustizia non se ne parli, è utopia. Un giorno un farabutto -clown fece scaturire dalle mani guantate Una colomba bianca che se ne volò via. Poi mi sussurrò all’orecchio: “il re è nudo, smascherato il sacerdote, fidati di me!” niente nome o indirizzo né richiesta di riscatto. Imbroglione o saggio? Tenete pure la porta chiusa, non gridate il mio nome. Me ne resto fuori da solo: lasciatemi sognare. Beppe Ronco 2 Aprile 2014 - n. 58 C.D.B. Chieri informa 3 Che ne sarebbe della Chiesa se fallisse Francesco di VITO MANCUSO la Repubblica 2014 I n un mondo dove tutto è potere e calcolo, la figura genuina di questo papa ci fa comprendere che non tutto in noi è potere e calcolo, che c'è ancora spazio per la gratuità, l'amore sincero, la volontà di bene per il bene. Il suo fallimento sarebbe la fine della luce che si è accesa E se papa Francesco fallisse? Non ci sono dubbi che dietro le aperture riformiste del cardinal Kasper e di altri cardinali ci sia proprio il Papa, ma che cosa avverrebbe se le riforme auspicate non andassero in porto e le attese di una nuova primavera si rivelassero solo illusioni? Nella relazione al Concistoro straordinario sulla famiglia Kasper ha affermato che "dobbiamo essere onesti e ammettere che tra la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute di molti cristiani si è creato un abisso". Quanto affermato per la famiglia vale a mio avviso per molti altri ambiti della dottrina cattolica, anzi io penso che valga per il concetto stesso di dottrina, intesa come sistema di verità stabilite che il credente è tenuto a professare e su cui vigila la Congregazione per la Dottrina della Fede, che prima del 1965 si chiamava Sacra Congregazione del Sant'Uffizio e prima del 1908 si chiamava Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione. Elencare i molti elementi che rendono l'insegnamento della Chiesa "lontano dalla realtà e dalla vita" non è difficile. Oltre alla dottrina sul matrimonio vi sono la regolazione delle nascite con il clamoroso fallimento pratico e teorico dell'Humanae Vitae di Paolo VI, l'identità sessuale e l'omosessualità al cui riguardo occorre cessare di parlare di malattia come ancora spesso si fa, il ginepraio della bioetica da cui non si esce continuando a ripetere solo dei no soprattutto sulla fecondazione assistita, il destino degli embrioni congelati, la diagnosi degli embrioni prima dell'impianto, il principio di autodeterminazione a livello di testamento biologico. Vi sono poi i problemi ecclesiologici che già nel 1987 Hans Küng definiva "noiose vecchie questioni", cioè la scarsità delle vocazioni sacerdotali e religiose, il celibato del clero, i criteri di nomina dei vescovi, la collegialità come metodo di governo, la questione laicale, la questione femminile, la riforma della curia romana, il rispetto dei diritti umani all'interno della Chiesa (di cui "la tratta delle novizie" denunciata dal Papa è solo un aspetto), la libertà di ricerca in ambito teologico. Qui non accenno neppure ai molti problemi teologici, sia in sede di teologia fondamentale sia in sede di teologia sistematica, che mostrano tutta la fragilità della tanto celebrata dottrina, se non per dire il problema vero e proprio concerne l'identità del messaggio cristiano, al cui riguardo ci si deve chiedere: qual è oggi la buona notizia di ciò che viene detto vangelo? Penso che questo sia il nodo decisivo e che per scioglierlo occorre alzare la mente e ragionare per secoli. Se si impara a farlo, si vedrà più lontano, si capirà "che cosa lo Spirito dice alle chiese" e ci sarà meno paura e meno pessimismo. Occorre saper vedere infatti non solo quello che muore, ma anche quello che nasce, perché a qualcosa che muore si lega sempre qualcosa che nasce. Che cosa muore? Sant'Agostino diceva che egli non avrebbe potuto credere al vangelo se non l'avesse spinto l'autorità della chiesa cattolica (Contra ep. Man. 5,6: "Ego vero evangelio non crederem, nisi me catholicae ecclesiae commoveret auctoritas"), fondando così il modello della fede che fa del cristiano un ecclesiastico, cioè un membro di una struttura di cui deve accettare la dottrina. Oggi questo modello sta morendo, l'epoca della fede dogmatico ecclesiastica che implica l'accettazione di una dottrina e di un'autorità è ormai alla fine perché il metodo sperimentale della scienza è entrato anche nella vita spirituale dove ora il soggetto vuole sperimentare in prima persona, e con ciò la fede di seconda mano mediata dall'autorità ecclesiastica è superata. Al suo posto sta nascendo un cristianesimo non-dogmatico che dall'esteriorità dottrinale passa all'interiorità esistenziale, che all'autorità istituzionale preferisce l'autenticità personale. Il passaggio da Benedetto XVI a Francesco è una manifestazione di questo movimento epocale, così come lo sono i risultati del sondaggio mondiale commissionato dal Vaticano che mostrano una grande distanza tra la dottrina ufficiale e la fede realmente vissuta. Ne viene che se il cristianesimo vuole tornare a essere percepito come una buona notizia che risana e rallegra l'esistenza, e insieme come verità di quel processo che chiamiamo generalmente mondo, si deve sottoporre a riforma. La dottrina sulla famiglia è solo il primo inevitabile passo. Se non lo fa, l'esito è segnato dalle parole di un giovane riportate nelle Conversazioni notturne a Gerusalemme di Carlo Maria Martini: "Non so che far- Aprile 2014 - n. 58 mene della fede. Non ho nulla in contrario, ma cosa dovrebbe darmi la Chiesa?". È il pensiero della gran p a rt e d e i g i o va n i e u ro p e i. Qualcuno teme che questa riforma possa inquinare l'identità cristiana. Ma per il cristianesimo la rilevanza è parte costituiva dell'identità, non qualcosa che viene dopo. Un'identità irrilevante non può essere un'identità cristiana, tanto meno cattolica cioè universale. "Voi siete il sale della terra" (Mt 5,13), "voi siete la luce del mondo" (Mt 5,14): l'identità cristiana è da subito relazionale, è essere-per, prende senso solo nella relazione, così come il sale ha senso solo in relazione ai cibi o il lievito alla farina (Mt 13,33: "Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata"). Ne consegue che se viene meno la relazione, viene meno l'identità. Il cristianesimo vive della logica della relazione con l'alterità e tale logica lo spinge inevitabilmente verso la riforma, obbedirle non è una concessione al relativismo, è semplicemente un dovere verso il Vangelo. Ma se papa Francesco non ce la farà? Se non riuscirà a sanare lo Ior, a rendere il governo della Chiesa cattolica più conforme al volere del Vaticano II, a incidere sul rapporto con la politica italiana facendo cessare per sempre la compravendita di favori tra cardinali e ministri troppo sensibili agli interessi della Chiesa, a mettere ordine tra i vescovi e i superiori degli ordini religiosi richiamando tutti a uno stile di vita sobrio e conforme ai valori evangelici, a dare il giusto spazio alle donne a livello di condivisione del potere aprendo al diaconato e al cardinalato femminili, a riformare la morale sessuale, a impostare su basi nuove il reclutamento e la formazione del clero, a dare finalmente più libertà alla ricerca teologica? Se papa Francesco fallisse in tutto ciò? Ha scritto qualche giorno fa un non credente come Eugenio Scalfari che grazie a Francesco "Roma è ridiventata la capitale del mondo... Roma, la città di papa Francesco, è il centro del mondo". Scalfari parlava ovviamente della leadership spirituale, di cui l'occidente ha un immenso bisogno per continuare a credere nei grandi ideali dell'umanità, tradizionalmente definiti come bene, giustizia, uguaglianza, solidarietà, fratellanza. In un mondo dove tutto è potere e calcolo, la figura genuina di questo papa ci fa comprendere che non tutto in noi è potere e calcolo, che c'è ancora spazio per la gratuità, l'amore sincero, la volontà di bene per il bene. Il suo fallimento sarebbe la fine della luce che si è accesa nell'esistenza di tutti gli esseri umani non ancora rassegnati al cinismo e alla crudeltà della lotta per l'esistenza, e con Roma che tornerebbe a essere periferia del mondo sarebbe la fine per gli ideali della spiritualità in occidente. Se lo ricordino i cardinali, i monsignori e i teologi che stanno facendo di tutto per bloccare e far fallire l'azione riformatrice di papa Francesco. C.D.B. Chieri informa 4 E se provassimo ad approvarla? L e prossime elezioni amministrative potrebbero cambiare completamente l'assetto del Comune di Chieri. Sono numerosi i nuovi soggetti politici che potrebbero introdurre inediti modelli assiologici modificando il volto della città. Un nuovo consiglio comunale, una nuova giunta e nuove proposte politiche. Tuttavia, la strada è ripida ed è tutta in salita. La campagna elettorale sta iniziando ed è importante oggi come non mai essere maggiormente chiari sulle proposte politiche che si vogliono avanzare per la città. Il Comitato Acqua Pubblica Chieri ha avanzato negli anni numerose proposte alla politica locale: poche di queste proposte sono state accolte ma molte sono cadute nel vuoto. Negli incontri con gli amministratori abbiamo spesso avanzato idee, suggerimenti, consigli per promuovere azioni politiche coraggiose di fronte ad una situazione critica e drammatica dove le istituzioni hanno perso legittimità popolare e dove famiglie e persone sono stretti dagli affanni economici. Non è un caso che spesso ci siamo fatti promotori di una nuova finanza pubblica e sociale che vedeva nell'azione della ripubblicizzazione della Cassa Depositi e Prestiti un'inversione di rotta dalle attuali politiche economiche. Inoltre, come movimento abbiamo avanzato proposte politiche che sono state legittimate dal consenso popolare come la proposta di trasformazione di SMAT S.p.A. in ente di diritto pubblico: caduta in un silenzio assordante, chiusa in qualche cassetto del Comune di Chieri. Riteniamo opportuno a questo punto che tutte le forze in campo in questa nuova competizione elettorale siano chiare e dichiarino da che parte sono: se mantenere in una società per azioni la SMAT o se ripubblicizzarla in azienda speciale consortile. Più di 850 chieresi hanno sottoscritto quella proposta e meritano di avere una risposta dalla politica che ad oggi non è arrivata. Nei prossimi mesi come Comitato Acqua Pubblica Chieri lanceremo un appello affinché le forze politiche durante la campagna elettorale dichiarino la propria posizione sulla trasformazione di SMAT in quanto non accetteremo più ambiguità da parte delle forze politiche e non transigeremo Aprile 2014 - n. 58 C.D.B. Chieri informa su comportamenti politici scorretti usati per fermare i movimenti dei beni comuni e le proposte da loro avanzate. Nel frattempo la politica inizi anche a discutere di quelle manovre economiche riguardo al servizio idrico integrato che troppo spesso passano inosservate. L'11 marzo 2014 IREN e SMAT hanno promosso un'offerta pubblica di acquisto della SAP – Società Acqua Potabili S.p.A. per “ottimizzare le possibili sinergie nel settore dell'acqua, superando la gestione frammentata a livello locale e realizzando una gestione integrata delle concessioni in cui le tre società sono attualmente titolari”. Le forze politiche attuali nel Comune di Chieri sono consapevoli di questa manovra o sono del tutto ignare? Che cosa ci aspetta? Siamo solo alle battute iniziali, ma quest'ultima operazione permette di comprendere come mai all'interno di molte forze politiche si continui a voler mantenere con la forza la società per azioni che altrimenti non avrebbe potuto promuovere tale acquisizioni. Non è ancora dato sapere quali siano gli scenari futuri di questa mossa, ma con il tempo avremo maggiori indicazioni che scommetto non saranno piacevoli. Questi segnali che possono essere intesi come lontani dalle scelte politiche ne sono invece la logica conseguenza ed i cittadini devono percepire tutto ciò come il segnale più evidente della classe politica su come vengano disattese le scelte di un voto democratico referendario. Noi vediamo i sintomi ma non possiamo ignorare la malattia e allora qualunque buon medico ci consiglierebbe che prevenire è meglio che curare. Salvio Calamera Comitato Acqua Pubblica Chieri Silenzio Bambine vendute Ragazzi sfrontati Gettati per strada Ragazzi muti Di terrore negli occhi Abbracciati a un fucile Più alto di loro Donne stuprate E abbandonate Sul ciglio di un deserto Uomini maturi Con mani forti e nodose E una lettera in tasca Lettera di licenziamento Uomini e donne gettati Nei terrori di un ambulatorio Col biglietto da visita Di una morte vicina Vecchi sprofondati In poltrone fuori moda E nella disperata follia Di parole che non vengono Bambini uomini e donne Che domani moriranno Tra le onde del mare Nelle pieghe di una giungla In un carcere oscuro Tra gli assilli della fame Con il vuoto nelle mani E la stanchezza nel cuore. Mondo di dolore Che precipiti nella resa D’una vuota non ragione. Silenzio. Daisy T. 5 Aprile 2014 - n. 58 Dio e gli animali ‘S i narra del cane, all’ indomani della sua creazione, che molto dispiaciuto di dover abbandonare il Creatore, prova in tutti i modi di convincerLo a lasciarlo rimanere con Lui. Vista però l’ irremovibilità di Dio nel volerlo inviare sulla Terra -proprio perché lo considera la sua creatura meglio riuscita - il povero cane Lo supplica allora di creare, per lui, un compagno terreno. Una nuova creatura che sia il più simile possibile a Dio stesso, da cui essere inseparabile e ai piedi della quale potersi stendere a riposare. Dio é perplesso, non vuole cedere, sicuro com’ é di aver raggiunto il proprio massimo della creazione, realizzando il cane. Ma l’animale insiste: Gli assicura che si accontenterà del risultato ottenuto, quale che sia. Dio allora ci pensa un po’ su e, alla fine, rientrato nel proprio laboratorio, commosso da tanta bontà, accontenta il suo fedelissimo amico: crea l’ uomo.’ Questa breve ma toccante storia si incontra quasi alla fine del libro di cui vorrei incoraggiare la lettura: In Paradiso ad attenderci di Paolo De Benedetti con Maurizio Scordino, lungo dialogo tra un credente, l’autore, e un non credente intorno a temi, religiosi e laici, che li accomunano e li appassionano. La storia del cane e del suo Creatore é quasi un ebraico midrash e come tale può essere interpretata. L’eroe é un animale che ha le caratteristiche del cane domestico; in quanto primo cane é un archetipo non solo della sua razza, ma forse, di tutti gli altri animali nel rapporto con il Creatore. È innocente, ha sentimenti e bisogni, é capace di collocarsi al suo posto nel progetto di Dio per la vita sulla Terra. In quanto cane domestico é affettuoso e fedele. Il racconto ci dice che avendo già sperimentato la gioia di stare vicino a Dio non vuole lasciarlo. Soffre per questo, con schiettezza si rivolge a lui e patteggia la sua discesa sulla Terra. Dio é il grande artigiano che, nel suo laboratorio, ha costruito un capolavoro di cui é fiero: il cane, non l’ uomo. Ama questa terra che noi in seguito popoleremo e vuole che là ci sia la sua opera più bella. Dio e il cane si parlano, si confrontano, si intendono: quasi un C.D.B. Chieri informa 6 modello della relazione che un credente potrebbe avere con il suo Dio. Scandalosamente per il nostro antropocentrismo il racconto suggerisce che noi esistiamo perché il primo cane potesse essere consolato della lontananza da Dio stendendosi a riposare ai nostri piedi. Un finale coerente al racconto e allusivo ad uno dei temi più arditi del libro potrebbe essere questo: giunto sulla Terra e assolto, tra gioie e dolori, il suo compito di amico dell’ uomo, il nostro cane morirà e rivivrà nell’ oltre nella gioia di essere di nuovo insieme al suo Creatore. Per come Paolo immagina il paradiso, là certamente ci saranno tutti gli animali e, forse, tutto ciò che sulla terra ha ricevuto da Dio il dono della vita: ‘Se tutto ciò che Dio stesso ha creato, infatti, non fosse ammesso a ritornare in vita nel futuro escatologico in cui fermamente credo, avrebbe ragione chi ritiene la morte superiore e definitiva rispetto a tutto il resto, Dio compreso’. Dalle riflessioni di Paolo, spesso riprese e allargate laicamente da Maurizio Scordino, vien fuori un ritratto di Dio biblicamente fondato in modo ebraico cristiano e di grande spessore per chi ha confidenza con il primo e secondo Testamento. Ne cito alcuni tratti. L’ esistenza di Dio per il credente non e’ una questione metafisica, bensì dialogica. Dio é il mio tu. Il Dio della Bibbia non é il Dio dei filosofi. Si può essere in lite con Dio e questa é una prova della sua esistenza. Dio, che ha dato la vita a uomini e animali, ha un progetto che contempla l’ alleanza con gli uni e con gli altri. Dio farà tornare vivi tutti i morti: come e dove ‘sono affari suoi’. Sicuramente la morte non può essere più potente di Dio. Aprile 2014 - n. 58 Dio ascolta chi si rivolge a lui, uomo, animale, pianta che sia. Dio é prima di tutto misericordia e compassione. Può farsi asino con l’ asino maltrattato e perfino forse margherita o insalata soffrendo con esse quando sono recise. Dio soffre in particolare con l’ innocente perseguitato. A causa del nostro modo di trattarli gli animali spesso lo sono. Il pensiero di Paolo sui grandi temi che vengono affrontati nel libro é talvolta decisamente provocatorio rispetto alla conservazione teologica ufficiale. É però un pensiero comunicativo perché umile. Quando é il caso, infatti, Paolo intercala le sue affermazioni con alcune espressioni significative: ‘se così si può dire’; ‘sospeso’, o, detto in altro modo ‘ Verrà Elia e risolverà le difficoltà; ‘ altra interpretazione’ o, per dirla con l’ esegesi rabbinica,’ ricerca del settantunesimo senso’; infine il detto pure rabbinico ’Insegna alla tua lingua a dire non so, per non passare per bugiardo’. Per la sua teologia degli animali ardita e innovativa, Paolo De Benedetti é conosciuto e apprezzato in Italia da molti animalisti e vegetariani non credenti; perfino dai bambini che amano gatti, cani, cavalli, asini e mucche e che hanno ricevuto da genitori e nonni i suoi piccoli libri di poesie, come Gattilene. Temo invece che siano ancora troppo pochi i credenti cristiani che si sono accorti di quanto evoluta, aperta e gioiosa sia la via verso Dio su cui Paolo cammina e ci indica, da maestro sapiente. Tullia Chiarioni In Paradiso ad attenderci. Il pensiero, l’ impegno e i ricordi del teologo che ama gli animali. di Paolo De Benedetti con Maurizio Scordino Edizioni Sonda srl, 2013. C.D.B. Chieri informa 7 STORIE DI ORDINARIA PRECARIETÀ Testimonianze di ragazzi dello Sportello Lavoro di ASAI (interviste di Elisa Lupano) Tahmine. Mille lavori, ma non sa fare i cappuccini. Tahmine compirà 29 anni a maggio. È venuta in Italia solo per il desiderio di andare via. Non ha subito discriminazioni di nessun tipo nel suo paese, l’Iran, ma è un desiderio di molti ragazzi iraniani di andare all’estero per conoscere il mondo e capire. Lei ha cercato un modo legale per uscire, e l’unico era lo studio. Aveva già cominciato l’università in Iran (Informatica), ma non le piaceva. Dopo un corso di tre mesi di Italiano in Iran è partita, ha fatto l’esame di Italiano in Ambasciata, i test di ammissione (per studenti stranieri) alla Facoltà di Scienze Motorie ed è stata ammessa. Intanto viveva in una casa in condivisione con altri ragazzi iraniani, e lavorava al mattino distribuendo un giornale gratuito: “Eco”, gestito da un Iraniano. Questo lavoro le durerà 4 anni e mezzo. Dopo un anno la distribuzione dei giornali è stata presa da una Cooperativa, questo da un lato le ha permesso una maggiore apertura (non era più solo a contatto con iraniani), dall’altro non le ha più permesso la frequenza, che è obbligatoria a Scienze Motorie, anche perché dopo i giornali, andava a fare un lavoro di magazzino e etichettatura, sempre per la stessa cooperativa. La sua giornata cominciava alle 7, fino alle 10 distribuiva giornali poi il magazzino fino alle 18 – 19, con a volte solo mezz’ora di pausa. Aveva un contratto a tempo indeterminato, ma la Cooperativa ha dichiarato fallimento (falso), un anno e mezzo dopo la sua assunzione, e lei ha continuato a lavorare con loro in nero per qualche giorno alla settimana. Ma i suoi lavori non sono stati solo questi: contemporaneamente ha fatto altro. Siccome distribuiva giornali nell’isola pedonale di Torino, ha conosciuto tante persone che le hanno dato altri lavori, e lei ha sempre tentato tutto. Ha lavorato per un restauratore molto famoso di Torino, dove ha anche imparato qualche tecnica, poi per un orologiaio-gioielliere, dove ha fatto la commessa. “Era un pezzo di merda, mi dice, voleva anche altro, ma io l’ho messo subito a posto. Però mi ha tenuto a lavorare, perché sapeva che di me si poteva fidare, e poteva lasciarmi anche sola alla cassa”. Ha lavorato come baby sitter, prima a Pino Torinese, dove doveva fare anche tutto il resto, co- Aprile 2014 - n. 58 me tagliare l’erba, pulire casa ecc.: si trattava di una sostituzione per luglio e agosto, che poi ha lasciato. Poi a Torino, in una famiglia dove si trovava molto bene, ma veniva sempre pagata in nero. È stata questa famiglia a darle una mano quando nel 2009 stava per scadere il suo permesso di soggiorno, e, dopo la rinuncia all’Università, quindi con la perdita del permesso per studio e senza contratto di lavoro rischiava di essere clandestina: anche se non lavorava più per loro, si è fatta assumere (pagandosi i contributi) per ottenere il permesso di lavoro. Appena arrivato il permesso si è licenziata, ormai era a posto per un po’. È anche stata in casa di un signore anziano, ma non era molto chiaro cosa volesse da lei…. E se ne è andata. Verso il 2010 le cose incominciano a girare meglio. Fa la baby sitter a un bambino di 6 mesi, con un contratto in regola. Conosce l’ASAI che, in collaborazione con la Fondazione Operti, trova un lavoro (5 mensilità) in un bar. C’è stata 20 giorni, ma non ha funzionato. Non faceva bene i cappuccini, racconta, e la signora sempre la trattava male. Lei non ha problemi a relazionarsi con le persone, ma lì proprio non riusciva a ingranare. Allora, per non perdere le quattro mensilità che le restavano del progetto e non perdere credibilità con l’ASAI si trova un altro lavoro, in un negozio di abbigliamento. Era un buon posto, ma anche questo ha chiuso poco dopo il termine della sua borsa lavoro, quindi non è stata assunta. Dopo un’esperienza in una pizzeria, in cui faceva la cameriera, ma anche aiutava nei compiti i figli del gestore, c’è stato il trasloco dello Sportello lavoro dell’ASAI da via San Pio V a via Principe Tommaso: in quell’occasione ha avuto un contratto di lavoro accessorio da giugno a novembre 2012, ha aiutato nel trasloco, ha dato il bianco, sistemato insieme al gruppo dello Sportello, i locali della nuova sede, che erano piuttosto malmessi. La collaborazione con l’ASAI è proseguita con un contratto di collaborazione occasionale finanziato dal FEI (Fondo Europeo per l’Immigrazione), poi con il Progetto LIFT per 5 mensilità. Adesso, da marzo, continua la collaborazione allo Sportello con un contratto a progetto. George, ovvero: la strategia del network. George, è egiziano, laureato in Giurisprudenza, specializzazione in Diritto Marittimo. Ha 33 anni. È venuto in Italia nel 2012 per un progetto sulla produzione di energia solare legato alla nautica che poi, quando è arrivato, non è stato approvato, quindi si è trovato a Torino, con un po’ di C.D.B. Chieri informa 8 soldi, ma senza lavoro. A quel punto ha deciso di stare in Italia. Non sapeva una parola di italiano e si è iscritto a un corso di Italiano dell’ASAI, contemporaneamente a uno dell’UPM, al Centro Interculturale, poi andava a lezioni da un insegnante privato. In questo modo poteva avere una visione più ampia, imparare più in fretta. Questa è stata la sua strategia: George spesso utilizzerà la strategia del lavorare su più fronti per i suoi progetti. I suoi obiettivi sono ben chiari: lavorare per quello che ha studiato, il Diritto marittimo. Ma il mercato è fermo, e quindi… ha incominciato come muratore, o come imbianchino, ha dato il bianco in casa di amici, volontari ASAI, e da chiunque lo chiamasse. Con quello che guadagnava andava a visitare i saloni nautici che ci sono in Italia, distribuendo curriculum e presentandosi. Si è costruito pian piano una mappa delle cose da fare, degli ambienti da frequentare. Si è pagato l’affitto, condividendo casa con altri amici, sempre vestito pulito e ordinato. Sa che presentarsi con giacca e cravatta, magari anche con la valigetta dei documenti fa un’impressione migliore. Ha vissuto così quasi due anni, poi ha deciso di seguire il consiglio che tutti gli davano, di andare fuori dall’Italia, e ha cominciato un’analisi del mercato nautico. Si è preparato con metodo, senza tralasciare nulla. Ha deciso per la Danimarca, dopo diverse indagini di mercato, perché sembrava l’ambiente più favorevole, e poi era un trampolino di lancio per la Svezia e la Norvegia altri possibili mercati del suo settore. Ha letto libri sulla storia e la cultura danese. Ha visto molti film danesi, documentari, ha imparato le basi della lingua. Ha chiesto aiuto ad amici, che avessero fatto esperienza all’estero, per avere i riferimenti che gli potevano servire. Non poteva mantenere contemporaneamente la casa in Italia, quindi l’ha lasciata, portando la sua roba nelle scatole nelle cantine degli amici, per riprendersele al suo ritorno. È partito con il minimo indispensabile. Ha sentito la voglia di vincere una sfida, di aprire una strada. Mi dice che questo è un modo che ha di affrontare la vita. Poi considera i due anni passati in Italia anni persi, che non hanno fatto progredire il suo obiettivo, ed era ora di partire. È importante anche inserire nel curriculum esperienze non troppo lontane dalla tua formazione, e fare il muratore è lontano. Perché la Danimarca? “Per capire la serietà di una ditta e la sua stabilità si calcola la velocità di risposta alle mail: dalla Danimarca hanno sempre risposto in gior- Aprile 2014 - n. 58 nata, dalla Svezia entro le 24 ore. In Italia non rispondono e basta”. Come sono le regole per uno straniero? Con il permesso di soggiorno in Italia, si può viaggiare all’estero per tre mesi. Se non si ritorna entro sei mesi si perde il diritto di avere il permesso di soggiorno. Ma c’è poco controllo, lui ci è stato quattro mesi. Per trovare un’abitazione ha preso contatti con la Chiesa copta del posto, lui è cristiano copto, che l’hanno ospitato per un po’, poi ha trovato una casa con altre persone. Cosa serve per trovare lavoro? Presentarsi come una persona seria, e separare l’amicizia dal lavoro. George si sente un po’ di usare le persone, perché sfrutta le conoscenze in suo favore, mi racconta. Questa è la parte di lui che considera “cattiva”. Esce anche la sera con qualcuno che ha conosciuto, ma lascia perdere l’amicizia se questa non porta a breve un lavoro. È importante essere sempre disponibili, la gente impara a contare su di te. In Danimarca ha lavorato in un’impresa di pulizia. Si tratta di lavoro a “basso profilo”, ma è andato bene anche quello. È entrato in un Circolo egiziano, anche questo è servito per trovare un lavoro per un mese. Poi ha cercato amicizie danesi, per “aumentare il network, la rete”, mi racconta. In questo caso si è iscritto in tre scuole diverse, e poi ha proseguito dove c’erano più probabilità di avere contatti utili per il lavoro. Adesso è tornato, ma ripartirà, per la Svezia e la Norvegia, anche lì ha intenzione di aprire nuove strade. C.D.B. Chieri informa 9 La materia non esiste, tutto è energia di Leonardo Boff Con la nascita dell’universo, ha fatto simultaneamente irruzione lo spazio-tempo. Il tempo è il movimento della fluttuazione delle energie e dell’espansione della materia. Lo spazio non è il vuoto statico all’interno del quale tutto avviene, ma quel processo continuamente aperto che permette alle reti di energia e agli esseri di manifestarsi. La stabilità della materia presuppone la presenza di una potentissima energia soggiacente che la mantiene in questo stato. In verità, noi percepiamo la materia come qualcosa di solido perché le vibrazioni dell’energia sono talmente rapide che non riusciamo a coglierle con i nostri sensi. Ma in questo ci aiuta la fisica quantistica, esattamente perché si occupa delle particelle e delle reti di energia. L’energia è e sta in tutto. Senza energia nulla potrebbe esistere. Come esseri coscienti e spirituali, siamo una realizzazione estremamente complessa, sottile e interattiva di energia. Cos’è questa energia di fondo che si manifesta sotto tante forme? Non c’è nessuna teoria scientifica che la definisca. Sempre di più, abbiamo bisogno dell’energia per definire l’energia. Non è dato sfuggire a questa ridondanza, notata già da Max Planck. Questa Energia forse costituisce la migliore metafora di quello che significa Dio, i cui nomi variano, ma sempre indicando la stessa Energia soggiacente. Già il Tao Te Ching (il Libro del Tao e della virtù considerato come una delle vette del pensiero cinese, opera di Lao-tse, ndt) diceva la stessa cosa del Tao: “il Tao è un vuoto turbinante, sempre in azione e inesauribile. È un abisso insondabile, origine di tutte le cose, e unifica il mondo”. La singolarità dell’essere umano è poter entrare in contatto cosciente con questa Energia. Egli può invocarla, accoglierla e percepirla nella forma di vita, di irradiazione e di entusiasmo Aprile 2014 - n. 58 C.D.B. Chieri informa 10 Perdonare e farsi perdonare Il valore della teshuvà ebraica Di Franco Barbero Da un incontro a Piossasco — sbobinatura e adattamento non rivisti dall’autore "N ell'ebraismo ci sono alcune parole molto significative che rimandano al concetto di perdono e di colpa: tikkun “tu hai la possibilità di rigenerare il mondo”; teshuvà “ritornare verso di noi, verso l’altro, l’altra, verso Dio”. Queste parole della spiritualità ebraica, che Gesù succhiò con il latte materno e che visse nei villaggi, rappresentano un po’ la pratica del perdono dentro la realtà delle nostre contraddizioni. Per l’ebraismo c’è una benedizione all’origine del tutto. All’inizio era la benedizione e non il peccato, ma c’è anche l’accompagnamento delle nostre incoerenze. Un libro molto bello che vi raccomando è: “Farsi perdonare. Il valore della teshuvà”, scritto da Paolo De Benedetti con Massimo Giuliani. Come sapete De Benedetti, conoscitore insuperabile dell’ebraismo, nella freschezza dei suoi 85 anni continua a darci una serie di racconti che lui ha raccolto dalla sua pratica del Talmud e dagli insegnamenti dei rabbini. In questo testo fa una annotazione sul primo libro della Bibbia e dice: il capitolo iniziale di Genesi usa sempre, per dire Dio, il termine “Elohim”, un nome legato al concetto di giustizia. Ma il capitolo secondo, e questa è un’annotazione precisa, testuale, usa “Jahveh”, che è legato al concetto di misericordia. Quindi, nei due brani della creazione Dio, secondo la tradizione ebraica, non fa mai a meno della giustizia e della misericordia: in qualche modo anche in Lui c’è un conflitto, una battaglia, anche Dio è diviso tra giustizia e misericordia. Ma alla fine, come vedremo, prevale sempre la seconda. Noi facciamo fatica a fare teshuvà, a ritornare a Dio, a tornare a Lui volgendoci affettuosamente agli altri, a ravvederci. Facciamo anche fatica a ritornare verso noi stessi, cioè a perdonarci. Questo è il cammino della teshuvà. In tutto il creato siamo l’unica specie vivente che può tornare sui propri passi. Una delle fatiche della nostra vita è quella di “ritornare”: se l’odio, la rottura di una relazione hanno costruito una prigione in noi, un allontanamento, la cosa essenziale, che nell’esperienza ebraico-cristiana risulta decisiva, è: “io saprò ripensarmi? saprò rivedermi? saprò convertirmi”. Perché teshuvà vuol dire questo: “ritornare sui miei passi, riconsiderare la mia vita e fare un movimento nella direzione opposta”. Farsi perdonare, perdonarsi e perdonare è una matassa complessa; verrà poi tradotta nel greco metanoia: la conversione. Non c’è un momento perdonante assoluto. Specialmente nel Primo Testamento perdonare, perdonarsi, farsi perdonare è sempre un cammino, lento, difficile, contraddittorio. La letteratura del Primo Testamento non mitizza, non esalta mai la capacità di perdonare d’un balzo, completamente. E quindi ripropone sempre al credente la teshuvà, momenti anche liturgici nella preghiera del mattino, della sera, nello shabbat, nello Yom Kippur, in cui si dice: “ricordati di porre dei gesti di perdono verso gli altri, verso di te, mentre chiedi perdono a Dio e prendi atto della sua riconciliazione; e in questi gesti impegna il tuo cuore. Ricordati che un’azione senza cuore è un’ipocrisia. La teshuvà è compiere dei gesti lentamente, ripetutamente per farli discendere nel tuo cuore”. Nell’esperienza del movimento di Gesù ci sarà un’esplosione di questo sentimento della teshuvà. Devo dire che nei secoli le chiese cristiane qualche cosa hanno fatto, hanno cercato di coniugare questa esigenza con dei riti. Per esempio nel II secolo nacque la cosiddetta penitenza antica: se tu avevi ucciso non partecipavi più all’eucaristia, ma rimanevi fuori del luogo di culto, in attesa di un tempo di conversione. Inoltre non c’era nessun uomo e nessuna donna che potessero perdonare un altro liturgicamente; la comunità si radunava ed organizzava un cammino di conversione. La penitenza antica non conosceva la figura di un assolutore, di cui compare notizia, per la prima volta, in un documento intorno al 560, in Spagna. Ma un Concilio dice: “abbiamo saputo che c’è qualche sacerdote che dà un’assoluzione dai peccati: è assolutamente proibito”. Nel 1215, nel II Concilio Lateranense, viene stabilito un numero fisso di sacramenti: 7, e viene disposto che solo il prete, che allora si era già trasformato da presbitero in “sacerdox”, può assolvere dai peccati. Que- Aprile 2014 - n. 58 sto è tutt’ora vigente, ma nel Concilio Vaticano II viene deciso che si può fare la liturgia penitenziale comunitaria, dove nessuno assolve, ma si annuncia che Dio genera in noi il perdono, ci garantisce la sua riconciliazione. Sono rimaste entrambe: la confessione individuale e quella della liturgia. Lungo i secoli l’esperienza del perdono ha assunto molte forme. In seguito il potere sacro si è arrogato la facoltà di perdonare: questo è stato il grande errore. Il perdono è l’azione congiunta di Dio e nostra; non c’è nessuno che, magicamente o per una potestà, mi può perdonare. E’ il movimento dei nostri cuori che asseconda l’azione di Dio, la presa d’atto che Dio è per noi misericordia. Nell’itinerario liturgico delle varie confessioni: ebraiche, islamiche, cristiane, ci sono molti momenti belli, come per esempio nel muro del pianto per l’ebraismo, nei quali ci si domanda, in silenzio, nella preghiera, nell’annuncio, nella liturgia, cosa possiamo fare per ritornare a Dio, per ritornare a noi stessi. Riandando alla teshuvà si può dire che ha tre chiavi per perdonare e perdonarsi: una ce l’ho io dall’interno, un’altra ce l’ha chi mi perdona, ma sovente queste due chiavi da sole non sono sufficienti, perché nella vita succede anche l’imperdonabile, come la Shoah per gli ebrei. C’è a volte l’imperdonabile tra di noi, può esserci qualcosa che è più grande di noi. La mistica cristiana, in certe forme un po’ devianti, ha detto che tutto si può perdonare: la donna stuprata deve perdonare…. L’ebraismo riflette in un altro modo: c’è dell’imperdonabile, esiste un’impossibilità, a volte, di perdonare, ma c’è una “terza chiave” ed è Dio che pronuncia il suo unico perdono, ma esige che noi facciamo giustizia sulla terra. Nel cammino del perdono proviamo una grande fatica a perdonarci, perché sovente nasce il rimpianto, la difficoltà di andare oltre e sorge il cosiddetto “senso di colpa”. Secondo gli autori del libro noi siamo ad un bivio: o ci assolviamo totalmente, o ci condanniamo per tutto. Chi si assolve completamente non diventa mai un essere responsabile, perché non trova mai la sua colpa, non riconosce mai dove ha sbagliato; ma chi si condanna di tutto, ugualmente non si vede nella realtà. Occorre trovare un equilibrio che mi consenta di essere responsabile, non girare attorno ai miei errori, non involvere, non imprigionare la mia vita nei miei sbagli. Nella nostra esperienza cristiana, spesso abbiamo l’idea di un Dio della perfezione, che esige da noi la santità; questo ha funestato la nostra educazione religiosa. L’idea della santità, della perfezione, di un Dio che la esige da noi, non solo ha offeso la realtà di Dio, ma ha reso difficili i rapporti tra noi, perché o c’è la finzione o la menzogna, o il senso di colpa. C.D.B. Chieri informa 11 Nel libro ci sono due bei racconti che dicono: Israele, tu sarai colui che si allontana continuamente da me, ma io sarò sempre colui che ti cerca; tu non saprai venirmi incontro, ma io ti incontrerò. Quanto sono belli i racconti del Talmud e delle novelle ebraiche! Il senso di colpa paralizza il nostro cammino. Quello che bisogna cancellare dentro di noi è l’idea di perfezione: non saremmo creature! Prendere atto della nostra creaturalità, del nostro limite, della nostra fallibilità è una delle conquiste del cammino di fede. Questo è stato l’insegnamento di Gesù ai discepoli: il vangelo di Luca è tutto un cammino in cui li educa, li guarda negli occhi, li rimprovera amabilmente, li sorregge in questo percorso. Rispetto al senso di colpa ci sono due eccessi. Nella nostra società tutto è diventato possibile, decolpevolizzato e questo è un modo per perdere la responsabilità. Ma all’opposto, nelle nostre tradizioni religiose ci ha perseguitati lungamente il senso di colpa: non siamo mai all’altezza, non abbiamo mai fatto abbastanza, non l’abbiamo mai fatto abbastanza bene. Questo rende brutto Dio, perché Egli non ci vuole santi, ma donne e uomini come siamo e così ci ama. La condizione per sentirci liberi e in cammino, nella teshuvà è quella di cancellare da noi l’orizzonte della perfezione, perché essa è una malattia. Vi ricordate il libro della nostra grande scienziata Rita Levi -Montalcini:“Elogio dell’imperfezione”? Se la scienza non conoscesse l’imperfezione non procederebbe. E’ proprio l’imperfezione, la consapevolezza della nostra creaturalità e della nostra fallibilità che ci fanno andare avanti. Che cos’è che ci permette, come credenti, di perdonare a noi e di perdonare agli altri? E’ il fatto che Dio ci perdona. La teshuvà, Dio che viene a noi, ci permette questa grande pace con Lui e di recuperare la dimensione del rapporto con gli altri. Dio come forza, come invito, come stimolo, sorgente di teshuvà, un Dio che ci viene incontro perché possiamo andare incontro a noi stessi ed agli altri. Un’altra riflessione che si deve fare è che il perdono è un cammino graduale: non siamo angeli svolazzanti, ma creature camminanti. Dobbiamo essere consapevoli che nella nostra vita il quotidiano, il piccolo passo che facciamo è veramente quello che Dio ama e su cui Egli sorride. Ogni persona nella propria esistenza può fare teshuvà, può sentire che Dio viene verso di lei e che, in qualche modo, essa può andare verso l’amore per sé e verso l’amore per gli altri. Gesù nell’ebraismo viene visto come il paradosso dell’amore per il nemico. Dai maestri di Israele Gesù viene considerato colui che ha portato l’amore all’estrema conseguenza. Wiesel e i grandi studiosi Aprile 2014 - n. 58 ebraici della figura di Gesù dicono: “Il nostro maestro Yeshua ci ha superato, perché ha continuato la tradizione del Pentateuco e dei profeti ed andando oltre Geremia ed Ezechiele ha reso il perdono illimitato. Nella via del perdono non dobbiamo mai tornare indietro, il perdono è una strada mai finita, una strada in cui dovremo andare avanti sempre. Nel Secondo Testamento la parola “perdonare” ricorre 142 volte, segno che era già un problema allora. Questo è molto consolante! Si vede che nelle comunità paoline il rancore, l’odio erano una realtà molto presente. L’umanità del Secondo Testamento è straordinariamente bella: 142 volte “perdonare” significa che nella realtà dei nostri vissuti c’è questo grande cammino da compiere, mai finito, mai da interrompere. Nella nostra storia c’è stato anche il perdonismo, che è una cosa molto diversa dal perdonare! E’ l’incapacità di affrontare i conflitti e di dirci le cose; è quello che copre, che nasconde le tensioni; che dice: “volemose tutti bene” ed ha creato una confusione politica e culturale. Il perdonismo delle chiese cristiane è quello che ha impedito a noi di riconoscere, perdonandoci, i nostri debiti del passato. Quindi il perdonismo, come mania politica e culturale, è nemico della verità. Un’altra riflessione che mi sembra importante è sulle ferite aperte della nostra esistenza. Sarebbe ingeneroso pensare che con un atto di fede e di volontà noi dimentichiamo tutte le lacerazioni irrisolte della nostra vita: impossibile! Il perdono, anche quello di Dio, deve essere situato nel contesto umano: chi ha perso un figlio nella guerra, una donna stuprata, un bambino violentato, un operaio licenziato e vilipeso, e tanti altri esempi che potremmo fare, sono ferite aperte e bisogna ricordare che chiedere a queste persone atti di esaltante perdono sovente è una falsità, è un’ipocrisia. La teshuvà può rappresentare un cammino verso il perdono, ma non dobbiamo mai sacrificare la nostra umanità. Noi siamo persone di cui si possono curare le ferite, qualche volta anche guarirle. Ma certe afflizioni lasciano una traccia che nemmeno Dio può chiederci di dimenticare. Ci possono essere delle sofferenze enormi nella vita, a livello personale, o anche collettivo: non è lecito dire a chi ha avuto un figlio bruciato nel forno crematorio: “devi perdonare…” Non c’è un cammino di fede che prescinda dalla nostra umanità e sarebbe una pessima educazione cristiana per i bimbi, i giovani, le persone, ma prima di tutto per noi, quella di vedere nella fede il superamento di tutte le nostre difficoltà. Dio è un Dio che cammina con noi; anche nella teshuvà è un Dio che ci aiuta a perdonare C.D.B. Chieri informa 12 agli altri, alle altre, a noi stessi e soprattutto che vuole darci la pace. Quello che abbiamo fatto e ciò che non abbiamo fatto sta nel perdono e nelle mani di Dio. La nostra vita, nella sua semplicità, è sotto il sorriso di Dio. Che bello questo pensare il Dio della compagnia! Nei due passi di Geremia 31,26-29 e di Ezechiele 18,1 -4 si legge: “non dite mio padre, mia madre hanno sbagliato e io ne porterò le conseguenze”; purtroppo nella storia si subiscono alcuni effetti, ma non c’è il peccato di qualcuno che ricade su di te: davanti a Dio tu nasci nella tua identità, Egli non ti carica le colpe del tuo popolo, perché il Suo amore, come dice il salmo 136, non ha mai fine. Per l’ebreo la teshuvà vuol dire vivere in pace, sapendo che Dio ti accompagna, in pace con ciò che tu sei stato, sei stata, con ciò che hai potuto/non hai potuto fare; in pace, se puoi, con gli altri. Cerca questo cammino, perché ricordati che solo se hai la pace fai tikkun; solo se sei un uomo, una donna di pace potrai costruire qualcosa nel mondo, nelle relazioni. Se tu non ti sei perdonato, se non hai accolto il perdono di Dio dentro di te, non c’è tikkun che tenga, non si costruisce il futuro. Senza la pace nel tuo cuore, senza il sorriso di Dio sopra di te, tu vagherai, ma non costruirai il mondo nuovo, quello che viene chiamato “il regno di Dio” . tempi di fraternità donne e uomini in ricerca e confronto comunitario Fondato nel 1971 da fra Elio Taretto Contribuisci al progetto CAITH La casa famiglia fondata da Vittoria Savio a Cusco in Perù Per informazioni: Maria 349.7206529 Aprile 2014 - n. 58 “Noi: gli idioti”. Passato e futuro di un epiteto. N el mondo latino fu presto attribuito ai cristiani l’epiteto di idioti; l’etimologia del termine stava ad indicare colui che ama una vita dedita al privato, lontana dall’esercizio del potere politico. Questo atteggiamento incline a vivere da privato cittadino disinteressato, indifferente o irridente nei confronti dell’impegno politico si era diffuso in generale nelle filosofie ellenistiche, ma in particolare di quella epicurea. Anche questo termine va inteso nel suo significato denotativo e non in quello connotativo e dispregiativo che ha assunto attraverso i secoli. La filosofia del giardino – così era anche indicata dal luogo in cui Epicuro incontrava i suoi discepoli - si interrogava su come raggiungere la felicità o atarassia che consisteva nella mancanza di turbamenti. Visto che, secondo Epicuro, l’infelicità scaturiva dai bisogni inappagati, il filosofo con lungimiranza profetica distinse tre tipi di bisogni: quelli naturali e necessari; quelli naturali, ma non necessari; quelli né naturali né necessari. Tali, non naturali e non necessari, erano giudicati dal maestro la ricerca della gloria e del potere ottenuti attraverso la partecipazione politica: essa quindi era sconsigliata al saggio. L’epicureismo fu particolarmente osteggiato a Roma poiché per un romano il negotium, ovvero l’impegno politico, rappresentava l’essenza stessa del suo essere cittadino dell’Urbe. La filosofia del giardino, quindi, con la sua preferenza per una vita lontana dalle seduzioni del potere, volta a cogliere soprattutto le piccole gioie e a coltivare l’amicizia sincera fondata sull’affinità di gusti, aveva preparato il campo ai cristiani. Questi, infatti, fecero propria la scelta di “vivere nascostamente”: e fu così che si “meritarono” l’epiteto di idioti nel significato originario di cittadini disinteressati all’agire politico. A ciò contribuirono probabilmente altri fattori come la necessità di doversi nascondere a causa delle persecuzioni e il rifiuto dei “valori” pagani antitetici a quelli cristiani. Al di là di queste cause contingenti, tuttavia, credo che valse un motivo più radicale: una diffusa diffidenza nei confronti del potere in quanto tale. C.D.B. Chieri informa 13 D’altra parte qual era stato l’atteggiamento del maestro a tal proposito? Quale giudizio aveva trasmesso il Cristo ai suoi discepoli e, quindi, ai suoi seguaci su questo argomento? Vediamolo attraverso le scritture. In Marco 12,13-17 leggiamo l’episodio in cui il Rabbi viene interrogato dai farisei riguardo al dovere di pagare il tributo a Cesare. E’ noto che egli risponde: “quel che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio a Dio.” Aggiungiamo il testo delle tentazioni di Gesù nel deserto trattato in Marco, Matteo e Luca: lo scenario è quello del monte sopra Gerico dove il Rabbi é condotto per essere tentato. Da quell’altura satana mostra a Gesù tutti i regni della terra e glieli offre: “ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrassi in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo.” Conosciamo il rifiuto reciso di Gesù; la Sua ripugnanza marchia il potere come una prerogativa diabolica. Un ulteriore riscontro neotestamentario si trova in Apocalisse 13 dove viene descritto il potere della prima bestia, (identificata con l’impero romano di Domiziano 81-96 d. C., proclamatosi “dominus et deus) : “le (alla bestia) fu concesso di fare guerra contro i santi (i cristiani) e di vincerli; le fu dato potere su ogni tribù, popolo, lingua e nazione.” C’è poi un altro passo, presente soltanto in Marco e Matteo: mi riferisco all’episodio in cui, nel corso del terzo annuncio della passione, salendo a Gerusalemme, la madre di Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, avendo ascoltato il Rabbi preannunciare l’avvento di un regno, gli chiede di riservare una collocazione di riguardo ai suoi due figli. E’ notevole come questa donna non sia indicata dagli evangelisti con un nome proprio, ma con quello generico di madre ad intendere che anche quel ruolo, che pure appare sacro in quanto legato al dono della vita, può essere vissuto con egoismo ed aridità: infatti essa pensa soltanto alla sistemazione dei propri figli mostrando di non aver compreso la novità del Nazareno. Questi comprende di essere stato frainteso anche dagli altri discepoli altrettanto desiderosi di una “sistemazione” e afferma: “Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così, ma chi vuol diventare grande tra voi sarà vostro servitore e chi vorrà essere il primo tra voi sarà vostro schiavo.” Parole simili da una parte azzerano di colpo l’ illusione dei discepoli che la sequela del maestro potesse o possa avere come compenso la possibilità di fare carriera, dall’altra appaiono durissime nei confronti degli imperi. Il termine greco- traslittero nell’alfabeto latino- katexousiàzo era stato tradotto nella versione della Bibbia Aprile 2014 - n. 58 CEI del 1974 con l’espressione “esercitano il potere”, mentre nella versione del 2009 è stato tradotto con il più drastico “opprimono”. Certamente è arduo stabilire quale sia la traduzione corretta, cioè quella più vicina alle intenzioni di Cristo, visto che Marco e Matteo usano lo stesso verbo, tempo e persona. La verifica, quindi, non può scaturire da un confronto tra le fonti, non può essere filologica, ma misurata in termini storici e sul nostro vissuto. A proposito del termine impero mi sovviene il titolo della prima puntata della saga di “Guerre stellari” intitolata appunto “L’impero colpisce ancora”: a dimostrare come, persino a livello di intrattenimento, siamo portati a vedere nell’impero l’organizzazione politica più disumana e più lontana dal cristianesimo. Gli imperi, infatti, si fondano su una rappresentazione mitica e non reale della natura umana avallando la contrapposizione di padroni vs schiavi con la conseguenza che sul piano economico si giunge al paradosso che i padroni sono mantenuti dagli schiavi. Queste caratteristiche sono vigenti non soltanto negli imperi propriamente detti, ma anche negli Stati moderni, là dove lo Stato diviene un idolo che richiede come ogni divinità antropofaga, sacrifici. La logica adattiva dell’uomo fa sì che questa rappresentazione mitica, in grado di millantare e giustificare la distinzione tra individui superiori contrapposti ad altri inferiori, diventi un messaggio subliminale indiscusso dalle masse acritiche i cui desideri sono stati artatamente trasformati in bisogni Ne consegue che viene accettato persino il tributo di sangue- sofferenze- che lo Stato/idolo chiede giustificando tale richiesta ora con la necessità storica, ora economica, ora politica, ora sistemica cosicché la sofferenza dell’altro è data come inevitabile. In questa follia collettiva si interrompe la relazione autentica e cresce l’entropia di percorsi individuali che si incentrano nel conflitto, nella dissimulazione, nell’ipocrisia: tutte emozioni negative, malsane che dovrebbero essere epurate dall’educazione impartita dalla famiglia e dalla scuola per garantire sia igiene mentale, sia una società armoniosa; invece esse vengono incoraggiate dai mezzi di comunicazione che si nutrono proprio di questa negatività finalizzata allo spettacolo. Diventa difficile esercitare lo spirito critico contro questo perverso sistema; richiede coraggio fare parte di una minoranza tacciata di profetizzare sventure e catastrofi; risulta più facile arrendersi alla maggioranza. Quindi, come affermava Marcuse: « Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno del progresso tecnico. » Che il cristianesimo organizzandosi nelle chiese sia venuto a patti con i sistemi politici è cosa nota e questo cedimento rende le chiese responsabili, o perlomeno corresponsabili, delle aberrazioni del potere a cui ha saputo opporre soltanto un galateo perbenistico per la propria conservazione. Dall’altra parte i martiri di tutti i tempi, invece, hanno pagato con la vita la loro opposizione alla bestialità dei regimi. C.D.B. Chieri informa 14 Il cristiano, infatti, grazie all’azione di Cristo nostro Salvatore, è divenuto persona nel senso pieno del termine, cioè dotato di libertà che lo fa agire seguendo impulsi costruttivi, servendo i propri simili, capace di relazioni gratuite. Ora che la crisi del sistema capitalistico ha mostrato il suo volto disumano, procurando sofferenze, insicurezza, ed ogni tipo di fuga da queste condizioni quale sarà il ruolo dei cristiani? Abbiamo spiragli d’azione coerenti con il nostro credo? O siamo condannati ad essere ancora e sempre (?) “idioti”?. Cettina Centonze RINGRAZIAMO tutte e tutti coloro, che hanno risposto al nostro appello e ci hanno inviato il loro contributo. Ci aiuterà a sopportare meglio i costi di distribuzione che tendono a strangolare le piccole e piccolissime testate. Interpretiamo questo vostro sostegno come un incoraggiamento al dialogo, alla ricerca biblica e teologica, al pluralismo nella comunità dei credenti, Vorremmo che questo foglio diventasse sempre di più uno “spazio” per chi è in ricerca, per credenti e “diversamente credenti” in questa difficile stagione politica ed ecclesiale Aprile 2014 - n. 58 Il professore e lo zingaro. Seconda parte. di Rita Clemente I l Campo era addobbato a festa, con palloncini colorati a nastri multicolori. Era una mite serata di fine settembre, faceva frescolino fuori e Miro, previdente, aveva detto a Giuseppe di prendere un maglioncino di lana. Ma i bambini in giro schizzavano da tutte le parti vestiti – i maschietti – con pantaloncini e magliette colorate; le femminucce con gonnelline svolazzanti e corpettini luccicanti. Erano tutti in maniche corte e non sembravano patire per questo, anzi! Una fiammata naturale di allegria si sprigionava da quelle piccole energie di folletti straripanti vitalità. Giuseppe assisteva a uno spettacolo pirotecnico di fuochi d’artificio fatti di braccine e di gambette svolazzanti, di vocine acute, di corpicini piroettanti come in un enorme circo che era semplicemente la vita. Le donne e le ragazze erano bellissime: indossavano gonne fruscianti, corpetti inamidati e maniche a sbuffo, con perline e strass che mandavano ipnotici bagliori; avevano le pettinature e il portamento da regine. Anche gli uomini erano eleganti: taluni con la barba lunga, altri senza, tutti con capelli nero corvini e gli occhi ardenti di passioni le più svariate. Gli zingari! – pensava Giuseppe – come ce li immaginiamo noi gli zingari? Donne lamentose che chiedono l’ elemosina, ragazzette sporche e scaltre che s’infilano negli appartamenti per rubare e giovani scapestrati che vivono di espedienti, senza arte né parte! Che ne sappiamo di tradizioni millenarie che hanno aiutato questi popoli a sopravvivere nel caos rutilante della storia, in mezzo a pregiudizi, violenze, guerre, disprezzo, persecuzioni! Non sono angeli, certo! Nomadi, dicono! che vuol dire? siamo tutti nomadi della vita! dove vivevo io solo tre anni fa? chi sono io adesso, se non un profugo esiliato per sempre dalla sua storia, dai suoi affetti, dalle sue abitudini! E pensando così gli cadde addosso un’opprimente pietà per se stesso. Si sarebbe messo a piangere se una ragazza bruna, bella come una madonna ancestrale, non si fosse avvicinata a lui con un bicchiere colmo di un liquido rosso: - Bevi, nonno, bevi! questo dà forza, dà allegria! Giuseppe ringraziò, prese la tazza e cominciò a sorseggiare. Vino, era vino, dolce e frizzante. Risentì la voce un po’ roca di suor Angelica: - Signor Giuseppe, non abusiamo con il vino! fa male! Fa male? ma è la vita che fa male! chi mi guarirà dalle sue ferite e dalle sue illusioni? questa gente ha capito il meglio: vivi e lascia vivere! non sono dentro i marchingegni della nostra società organizzata e putrefatta? forse non sopravviveranno o forse anche loro cambieranno e da indigeni del mondo si trasformeranno in cittadini ossequiosi di uno Stato e di una bandiera. Ma questo domani. A noi è data solo la benedizione e la tortura dell’oggi. E oggi io C.D.B. Chieri informa 15 sono qui, più nomade di loro perché espulso dalla mia stessa vita. Oggi è festa e voglio godermela tutta! Sull’onda di questi pensieri, bevve tutto il vino, si pulì con la manica del maglione e restituì il boccale alla ragazza. - Grazie! davvero buono! – Lei sorrise, civettuola, riprese la tazza e con un fruscio svanì in un’ondata di colore scuro. Passò la malinconia, il vino rosso aveva portato nelle sue vene un ardimento da troppo tempo sconosciuto. Si lasciò trasportare e divenne ilare, gioioso, quasi infantile. Mangiarono agnello cotto al barbecue, pitta di erbe e formaggio, peperonata all’agro e tanti, tanti dolci. Poi cominciarono le danze. Qui lo spettacolo raggiunse il diapason e Giuseppe si sentì trasportare lontano, in un paradiso fatto di gonne svolazzanti, di piedi dal passo irruente, di corpi che s’inarcavano, si piegavano, si slanciavano in alto, o dondolavano lenti al ritmo di un sogno. Una signora poderosa, con capelli crespi e due vistosi orecchini tondeggianti in similoro abbrancò la sedia a rotelle con una stretta vigorosa e gli disse: - Balliamo, nonno! Lui si lasciò trasportare, si lasciò volteggiare, si lasciò stordire da mille mani che si passavano la sedia dall’una all’altra con vigore, ma anche con grande delicatezza. Quando, dopo un quarto d’ora di quella sarabanda, la donna lo riportò al suo posto, era ebbro e stranito. Rideva, rideva come un bambino insensato. - Se…. adess…adesso mi vedess…vedesseee suor An… gelica! – riuscì ad articolare, tra una sillaba ed una risata. - Bene! prossima volta portiamo qui suor Angelica. Vedrai lei come si diverte! – fece Miro. E insieme risero come due forsennati. Al termine delle danze, ci furono i canti. Solisti o in gruppo, tutti i cantanti trasmettevano un non so che di pizzicore nella pelle e di struggimento nel cuore. Ma il canto più bello venne alla fine. - Questo è l’inno del nostro popolo – gli disse Miro – Si chiama Djelem djelem, che significa Andiamo andiamo. Perché noi sempre andiamo in un viaggio continuo che è la vita, che è il dolore di non avere casa e la felicità di avere come casa il mondo! ma pochi capiscono questo. Per questo noi sempre diciamo Lacho drom, buon viaggio! Si levarono, alte e solenni, portate al diapason da una voce maschile e da un coro di voci miste, le note di Djelem djelem. - Questo è anche il canto di nostro sterminio, sai? tutti conoscono sterminio degli Ebrei, ma pochi sanno di zingari morti in campo di concentramento. Era il Porrajmos. A Giuseppe ricadde addosso una strana tristezza, ma non pesante, non oppressiva, come quella di prima. Perché non era la sua tristezza, ma una sottile, penetrante sensazione di empatia. E per la prima volta nella sua vita provò, per gli zingari, un sentimento molto simile all’ ammirazione. A casa di Miro ritrovò la sua famiglia, che già aveva conosciuto alla festa. La moglie, Jovanka, era la donna vigoro- Aprile 2014 - n. 58 sa e allegrissima che lo aveva invitato a ballare. Gli offrì ancora dei biscotti e dello slatko di prugne. - Questo viene da nostra terra! – disse. E Giuseppe, a dispetto delle raccomandazioni di suor Angelica, fece onore anche a quelle prelibatezze. Miro aveva cinque figli, di cui tre in età scolare, una d’asilo e l’ultimo nato, di sette mesi. - Sapete? – fece Giuseppe con voce scherzosamente severa – io sono un professore. Posso interrogarvi tutti e mettervi il voto. I ragazzi ridevano. - Ma che professore! – fece Vladimir, il secondo nato – tu sei nonno! - Nonno sì – ribattè lui – ma anche professore! - Vuoi vedere mio quaderno? – gli chiese Marika, la maggiore, signorinetta di 12 anni, che frequentava prima media. - Certo che voglio vederlo! E allora fu un turbinio di fogli, di quaderni, di libri, di disegni. - Guarda anche il mio! - Anche il mio! - Guarda, nonno il mio disegno! - Basta, basta – si udì perentoria la voce di Jovanka – tardi, tardi! Ora di dormire! Nonno stanco! - Sì, nonno vecchio! – disse con sussiego Irina, la terzogenita. - Ma che dici! – la rimproverò suo padre. - No, dice la verità – fece Giuseppe – nonno vecchio e stanco! sapete quanti anni ho? indovinate! - Venti! - Eh, no, molti, molti di più! - Cinquanta! - Di più, di più! - Nonna ne ha cinquantadue! – fece il saputello Vlady. - No, io di più, di più! - Allora cento! – buttò lì Marika. - Beh, adesso non esageriamo! ve lo dico io: ne ho 86! - Ahhh! ahhh! ahhh! - Tu tanto, tanto nonno! – fece Jasmine, la bimba dell’asilo. - Sì, hai ragioone piccolina. Io tanto, taaaanto nonno! Tutti risero. - Bene, ora di dormire – fece Miro – Nonno dorme in nostra camera. Lasciarono a Giuseppe la loro camera matrimoniale e loro andarono a dormire con i figli: Miro nella camera dei maschietti e Jovanka in quella delle femminucce. Giuseppe era tanto stanco, ma felice. Aveva l’impressione di avere vissuto. Solo, gli restava dentro un tarlo…come una specie di sorda malinconia…Ma perché? Nessuno dei miei nipoti mi ha mai chiesto di vedere i loro quaderni. Formulando questo pensiero, diede un volto e un nome alla malinconia che gli scorreva dentro, come un rigagnolo infetto. Sentì un discreto bussare alla porta. - Giuseppe, tutto bene? – echeggiò il vocione di Miro nella casa ormai silenziosa. - Sì, sì, grazie…Ah, Miro? - Sì? - Puoi entrare un momento per favore? Miro entrò nella stanza. C.D.B. Chieri informa 16 - Ti ringrazio per la splendida serata e per la tua magnifica ospitalità. - Ma niente, per noi, normale. Gente va, gente viene, casa nostra casa di tutti amici. - Senti, vorrei chiederti un ultimo favore… - Sì, dimmi. - Quella canzone…quella che avete cantato alla fine… - Djelem, djelem? - Sì, quella. Andiamo, andiamo. Se potrai…vorrei venisse cantata al mio funerale. Riecheggiò un’altra risata. - Tu non sai cosa dici. Noi zingari mai parlare di morte, specialmente quando contenti. - Oh, scusa…non sapevo! - Ma quel viaggio tutti faremo, Giuseppe. Forse viaggio più bello, chissà! Io ti prometto canteremo canzone se… - Grazie! grazie di cuore! buona notte! - Lacho drom nel regno dei sogni, Giuseppe! PARTE TERZA A novembre la nebbia si dipanava sottile con le sue graffianti goccioline sulle curve silenziose e imbarazzate dei colli. Ogni gocciolina era un umido artiglio che si conficcava nella carne dei vecchi, procurando dolori da tempo familiari. Alle quattro del pomeriggio, come al solito, Luisella passò con il suo carrello: - Tè o succo di frutta? Giuseppe non rispose. Era troppo intento ad assaporare le fitte acute che si dipartivano dal suo costato e percorrevano in rigagnoli rossi l’itinerario delle ossa provate. - Signor Giuseppe! - Oh, mi scusi, non l’avevo sentita! Tè, grazie! - Ma… pensavo succo di frutta…lei non prende mai il tè! - Mai essere prevedibili, Luisella! La donna sorrise. - Come ha chiamato la bimba? - Deborah. Ma perché non va un po’ giù in salone? Vede un po’ di gente! - No, grazie! Oggi va bene così. Tutto uguale, tutto come prima, salvo che c’era una piccola Deborah e che il signor Giuseppe prendeva il tè, invece del succo di frutta. La settimana precedente Miro gli aveva detto: - Purtroppo ti porto notizie non belle. - Spara subito, non tenermi in ansia! - Il mio contratto di lavoro con la Casa di Riposo si concluderà venerdì prossimo. Torna signora Luisella. - Ah! Beh, questo lo sapevamo! E l’altra notizia? - E’ scoppiato incendio al Campo Nomadi dove erano miei cugini. Roulotte bruciata. Loro devono andare via. Ma dove? - Terribile! Ma come è successo? - Oh, queste cose molto frequenti per noi. Quando gadgi non vogliono più campo…scoppia incendio…e noi via! Lacho drom! - Che farai adesso, Miro? - Per lavoro, non preoccupato. Cerco altro posto. Ma cosa fare per miei cugini? Ora ospito in casa mia, ma poi? Aprile 2014 - n. 58 - Mi dispiace, non sai quanto. Ma per noi, niente cambia. Io, quando posso, vengo trovarti. - Grazie. Lo so, sei un amico. - Solo, per qualche settimana non potrò. Finché non sistemo questione. Con associazioni di volontariato abbiamo fatto Comitato, io mediatore culturale. Avremo molto da fare. - Lo capisco. Ma come è potuto scoppiare questo incendio? - Loro dicono, colpa nostra. Ma non è così. Mio cugino ha visto: due giovani con moto l’altra notte giravano attorno al campo… - Pensi sia stato doloso? - Ci sono indagini in corso…ma daranno colpa a zingari. In ogni caso, loro devono andare via! Giuseppe tacque, pensieroso. Ricordava quel giovane alto e bruno, che suonava il violino. E la moglie, la ragazza prosperosa che gli aveva offerto il vino rosso. E i bambini, quei fuochi d’artificio schizzanti dappertutto. Ricordava la loro voglia di vivere, la loro allegria. In fondo, si accontentavano di poco: un pezzo di terra, e poi lo trasformavano in un piccolo Eden di suoni, colori, musiche, profumi d’agnello, sensualità di corpi in movimento, spettacolo pirotecnico di bambini folletti. Poi, un incendio…Gli zingari devono sgombrare il campo! Gli zingari vanno via, scompaiono all’orizzonte e nessuno ne saprà più nulla. Del resto, chi mai aveva saputo come si chiamavano, come vivevano, che cosa gli piaceva fare… - Ora cugino vuole comprare pezzo di terra per portare sua famiglia. La voce di Miro gli giungeva come da lontananze estreme. - Però di sicuro verrò da te prima di Natale. Farti gli auguri! Natale! Già, era “quasi” Natale. Eppure, gli sembrava ancora lontano, lontano, come avesse dovuto scalare una montagna per raggiungerlo! Coraggio, andiamo attraverso i giorni! Djelem, djelem! Chissà se gliela faremo ad arrivare! Per un vecchio di 86 anni compiuti anche un solo giorno è come una montagna da scalare. Il giorno dell’Immacolata c’era un gran daffare alla “Casa di Riposo”! Bisognava addobbare l’albero nel salone grande, mettere i decori alle finestre, sistemare in cappella le stelle di Natale per la vigilia, e poi preparare i dolcetti e il vin brulé. Sarebbero venuti gli animatori – i giovani di una Associazione di volontariato – e avrebbero allietato le serate di ospiti e parenti. Poi, per le feste, chi poteva sarebbe stato portato a casa dei figli o dei nipoti, gli altri sarebbero rimasti…La Superiora si dava un gran da fare e suor Angelica, mite ed efficiente, cercava di assecondarla in tutto. Nel reparto affidato alle sue cure sarebbero andati via tutti. Tutti, tranne – naturalmente – il professore Olivieri. Oh, i suoi figli avrebbero inviato una cospicua somma perché non gli mancasse nulla, e per le necessità della Casa. Lo avevano raccomandato in modo speciale a suor Angelica, che conosceva la moglie di Lucio, erano state compagne di scuola. Magari, il pomeriggio di Natale avrebbero fatto una scappata… Nella mattinata suor Angelica portò il professore in cappella per la messa e poi in salone, dove due signore volonta- C.D.B. Chieri informa 17 rie, lì del paese, si recavano verso le 11 per leggere i giornali. I dolorini al costato intanto si erano fatti più intensi e ricorrenti, ma Giuseppe non disse nulla. Assistè alla messa (da giovane non era mai stato né credente, né praticante, ma da quando aveva perso la sua Giulia e altre disgrazie avevano funestato la sua famiglia sentiva il bisogno di ancorarsi a qualcosa di consolante e di duraturo). Guardando la statua della Madonna sorridente, con le braccia accoglienti, sentiva scorrere lacrime sulle guance. Aveva considerato sempre il Cristianesimo un fatto storico – culturale, la devozione non lo aveva mai interessato, eppure…eppure in quel momento sentiva tutto il bisogno della mano di un Padre o di una Madre, chiunque fosse, che si prendesse cura di lui, e delle creature che lui amava. Così aveva pregato! Nel salone, sebbene non ne avesse particolare voglia, ascoltò diligentemente le notizie pubblicate su “La Stampa”, il giornale di Torino. Il Campo Nomadi di Lungo Stura, dove alcuni giorni fa è divampato un incendio che ha distrutto otto roulottes, è stato completamente evacuato. Tutti gli zingari che lo occupavano sono andati via. Resta da vedere se troveranno un’altra sistemazione confacente. L’Amministrazione Comunale…ecc. ecc. Giuseppe si fece rileggere tre o quattro volte questa notizia da Monica. Poi – con grande sorpresa della ragazza – si prese il volto tra le mani e scoppiò a piangere. Solo suor Angelica riuscì a capire il motivo di quel pianto. Allora lo riportò in camera e – su sua richiesta – gli portò il giornale, poi carta e penna. Quel giorno Giuseppe non scese a pranzo né a cena. La notte le fitte al costato erano diventate incalzanti e dolorosissime. Si lamentava così tanto che Anselmo ritenne opportuno chiamare l’infermiera di guardia. Gli misurarono la temperatura: 39. Il giorno dopo lo ricoverarono d’urgenza e la diagnosi fu: broncopolmonite. Il professore Giuseppe Olivieri non ce la fece ad arrivare sino a Natale: morì cinque giorni dopo l’Immacolata, esattamente il giorno di santa Lucia. Poiché non aveva parenti in loco, la salma venne riportata alla Casa di Riposo e le suore dovettero organizzare il funerale. Ovviamente i suoi parenti erano stati informati, ma due giorni dopo il ricovero di Giuseppe, le suore, costernate, ricevettero questo telegramma: Familiari prof. Olivieri impossibilitati venire delegano suor Angelica Ricciardi approntare tutto quanto necessario bene nostro congiunto, anche assistenza privata. Non fu lasciato solo: le suore, a turno, si diedero il cambio per assisterlo, ma più a lungo di tutte rimase con lui suor Angelica, nelle cui mani – la notte tra il 12 e il 13 dicembre – Giuseppe rese l’ultimo respiro. Il funerale venne stabilito per il 15 dicembre, nella piccola cappella della Casa di Riposo. Per la traslazione del corpo al camposanto si sarebbe interessata una lontana cugina, che avrebbe presenziato alla cerimonia. Così, alle ore 10.00 del 15 dicembre 2010, ebbe inizio la cerimonia funebre per dare l’addio al professor Giuseppe Olivieri, ospite da quattro anni della Casa di Riposo “Anni Sereni”. C’era pochissima gente: tre suore, tra cui – naturalmente – suor Angelica; il signor Aprile 2014 - n. 58 Anselmo e la lontana cugina, una signora sui sessanta, grassoccia, non molto alta, con una chioma impertinente di capelli biondo - ossigenati. Poca gente, la cerimonia sarà brevissima era il pensiero recondito di tutti. A don Pino toccava anche – naturalmente – dire quattro parole, ma non conoscendo l’uomo e sicuro di non dover sollecitare nessuna particolare corda emotiva, si tenne molto sulle generali, parlando della morte come riposo eterno e della speranza cristiana nella risurrezione. L’unica che versò qualche lacrima fu suor Angelica: quell’uomo burbero e scontroso, ma anche così solo, le aveva fatto sempre tanta pena, e molto più ora, che se ne andava così, senza nessuno, nessuno dei suoi cari. Piangeva anche perché lui le aveva affidato la sua ultima lettera, quella che aveva scritto nella sua camera il giorno dell’Immacolata, quando le aveva chiesto carta e penna. Le aveva anche chiesto il grande favore di leggerla attentamente e poi di consegnarla ai suoi figli. Cari figli – era scritto su quel foglio – vostra madre e io abbiamo fatto per voi tutto il possibile perché aveste una vita dignitosa. In questi ultimi anni non ci siamo visti spesso, ma non ve ne faccio una colpa: ognuno di voi ha i suoi problemi. So che avete provveduto a me nel modo migliore che vi è stato possibile: qui, grazie alle suore, sono stato trattato bene, seguito e curato. Ora vi chiedo solo un grande favore, e non potete negarlo al vostro povero padre. Per quello che mi resta di mio – anche vendendo la casa di proprietà – ho stabilito una quota per ciascuno di voi, secondo le sue necessità. Vi chiedo di devolvere il dieci per cento di quello che riceverete a un mio carissimo amico, Miroslav Seferovic, che lo destinerà a un suo progetto di utilità sociale. Ve lo chiedo perché quest’uomo mi è stato molto vicino in questi ultimi mesi e per me è stato un grande amico… Suor Angelica ricordava queste parole e piangeva. Immaginava lo sconcerto dei familiari e le loro possibili obiezioni: Ma chi è quest’uomo? E cosa c’entra con noi? E cosa ha fatto a nostro padre per indurlo a destinargli del denaro? Con tutto il bisogno che abbiamo noi, di soldi! Con tutto quello che abbiamo speso per lui! Uno zingaro, poi! Ma forse no, forse avrebbero capito…e accettato. Il discorso di don Pino volgeva al termine ma…ad un tratto le suore videro che si bloccava a metà di una frase, che guardava stupito verso la porta d’ingresso della cappella… - Ma chi è questa gente? – chiese alla Superiora. In effetti, i pochissimi presenti sentirono anch’essi un trepestio concitato di passi. Si voltarono, e videro un gruppo di una trentina di persone, uomini e donne, vestiti in maniera strana: giubbotti, pantaloni attillati e gonne lunghe…Li guidava un signore piuttosto corpulento, di media statura, che fece loro cenno di prendere posto e di fare silenzio. La superiora riconobbe, nel signore che guidava il gruppo, l’inserviente Miroslav Seferovic e fece cenno al prete di continuare a officiare. La piccola cappella era piena e i posti a sedere risultarono persino insufficienti: alcuni fra gli strani personaggi rimasero indietro, in piedi. A suor Angelica scappò un sorriso e in cuor suo ringraziò il Signore di questa estemporanea novità. La cerimonia con- C.D.B. Chieri informa 18 tinuò e gli zingari vi assistettero in rispettoso silenzio. Solo verso la fine, Miro si avvicinò a suor Angelica e le sussurrò qualcosa all’orecchio. Lei fece sì, sì e i due si scambiarono un sorriso d’intesa. Dopo la benedizione della bara, si udì, alta e acuta, la voce di suor Angelica che chiedeva a tutti: - Vi prego, non uscite ancora! Poi si rivolse a don Pino e spiegò: - Questa è una richiesta particolare del professore Olivieri, una cosa a cui il nostro caro Giuseppe teneva molto. Voleva che, alla sua cerimonia funebre, questi suoi amici gli dedicassero un loro canto, che lui amava molto. L’uditorio si rimise seduto e suor Angelica, rivolta a Miro, fece: - Prego! Si udì l’avvio frusciante di un violino e una acuta introduzione musicale. Poi, alte e solenni, si levarono voci di uomini e di donne, prima il solista, poi il coro. Nessuno capiva le parole, ma tutti rimasero colpiti e come affascinati: il canto, triste e struggente, li trascinava in una sconosciuta e altissima regione dello spirito, dove non c’era tempo, né differenze, né incombenze, né età, né morte… Djelem, djelem, lungone dromenca Maladilem baxtale Romenca Aj Romale, katar tumen aven E Čahrenca baxtale dromenca / E Cahrenca bokhale chavenca Aj, Romale, Aj, Čavale, Aj, Romale, Aj, Čavale. Vi-man sas u bari familija Mudardala e kali legija. Ora non era più suor Angelica a piangere. Piangevano anche Miro e Jovanka e i loro cugini, e le suore. Perfino la lontana cugina biondo – ossigenata si lasciò prendere dalla commozione e anche don Pino. Il professore Olivieri se ne andò così all’ultima dimora, scortato da un numero imprecisato di amici e fratelli e sorelle e figli e figlie che mai e poi mai avrebbe immaginato di avere. F I N E Semestrale di formazione comunitaria Aprile 2014 - n. 58 C.D.B. Chieri informa AGENDA CDB DI CHIERI Chi volesse inviare lettere, articoli, o collaborare al giornalino, scriva a: Silvano Leso via Reaglie 18 Torino 10132 - e.mail: [email protected] - cell. 339.5723228 Segnalateci amici a cui credete possa interessare “CdB informa”, lo spediremo gratis ai loro indirizzi. - Chi vuole contribuire può farlo su c/c postale n° 40759151 intestato a Leso Silvano - causale: contributo a cdb informa La comunità cristiana di base di Chieri si ritrova ogni mercoledì alle ore 21 presso la sede a Chieri - gli incontri sono aperti a tutti L’eucarestia viene celebrata l’ultimo sabato o domenica di ogni mese Il “Perdono comunitario” due volte all’anno, prima di Natale e prima di Pasqua Lettura biblica. Una ricerca e una riflessione attraverso lo studio delle scritture ebraiche e cristiane libero da ogni condizionamento dogmatico o istituzionale: quest’anno leggiamo il vangelo di Matteo Per informazioni sulle serate e sulla comunità - telefonare a Maria 011.9472882 o al 339.5723228 - e.mail: [email protected] - altre informazioni su comunità ed iniziative sono presenti e aggiornate periodicamen te sul sito web: www.cdbchieri .it 19
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