n° 60 gennaio 2015

Bollettino informativo non periodico della Comunità Cristiana di base di Chieri - Distribuzione gratuita - Stampato c/o Reprograf di Cocco Bruno Corso Casale 123 Torino (To) il gennaio2015
Foglio d’informazione della Comunità Cristiana di Base di Chieri
n° 60
esce dal 1989
L’unico traguardo globale.
P
rima di tutto vennero a prendere gli
zingari. E fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei.
E stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali, e
fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti, ed io
non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e
non c'era rimasto nessuno a protestare.
Bertolt Brecht
Siamo su una brutta china. Vi sono molti segnali inquietanti che stanno a testimoniarlo. I peggiori di tutti
sono le dichiarazioni a dir poco folli di
alcuni personaggi che definire
“istituzionali” sarebbe gettare nel discredito totale quel poco che di accettabile resta delle nostre istituzioni.
“Si tratta di parole” si dice. Ma a
volte le parole sono pesanti come
macigni e comunque si comincia dalle
parole, espressione di pensiero e di
coscienza sotterranea, per arrivare ai
fatti. Sono lo specchio della propria realtà interiore.
Sono comunque parole che non si dovrebbero mai
pronunciare, non che pensare.
Qualche esempio? Un certo sindaco di un certo
paesino, commentando – a modo suo
“spiritosamente” – la dichiarazione della Presidente
della Camera Laura Boldrini, la quale sosteneva
che “i Rom vanno valorizzati” se ne esce dicendo
“I Rom vanno termovalorizzati”.
Un altro sindaco della stessa pasta (e della stessa
linea politica), commentando un post, scrive su un
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noto social network “propongo i clandestini
nell’inceneritore”.
Sono solo due esempi molto eloquenti del degrado mentale cui si può essere giunti. Eppure,
sarebbero poco significativi se essi non riflettessero una sorta di “coscienza collettiva” sempre più
diffusa, che emerge sempre più chiara e distinta e
– direi anche – sfacciata attraverso i nuovi strumenti di democrazia comunicativa: commenti ad
articoli di giornali, commenti a post su FB,
“cinguettii” su Twitter ed altro ancora…
Si leggono drastiche opinioni, informazioni date
per certe, giudizi perentori, che si potrebbero, alquanto schematicamente, raggruppare nelle seguenti categorie:
1) Se in Italia non c’è lavoro, la
colpa è degli “extracomunitari”
che lo rubano agli indigeni. Che
poi vorrei vedere quanti Italiani
sarebbero disposti a fare i/le badanti a tempo pieno, con anziani
spesso aggressivi, nel pieno
dell’Alzheimer. Oppure i raccoglitori di pomodori a tre euro l’ora.
2) Per ottenere una casa popolare,
devi farti togliere la cittadinanza
italiana e risultare clandestino.
3) Ci sono folle di emigranti che
arrivano sui barconi desiderosi di
trascorrere un periodo di vacanze in alberghi extralusso, pagati con le tasse degli Italiani.
4) Sicuramente tutti questi migranti hanno
contratto l’Ebola e adesso arrivano, dopo
un lungo viaggio in mare in condizioni proibitive, freschi sani e pimpanti a infettare
tutti noi.
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5) E soprattutto, il 90% sono terroristi che
arrivano, armati fino ai denti, per assaltare
e occupare le nostre città.
6) Dei circa sessanta milioni di abitanti che
risiedono in Italia, sicuramente un buon
sessanta per cento è costituito da immigrati. Salvateci! Rischiamo di diventare
trascurabile minoranza.
E altre sciocchezze del genere. Non si tiene conto
di altre considerazioni su cui qualche dato e il
buon senso dovrebbero far riflettere.
1) L’Italia non è l’unico Paese meta di immigrazione (oltre che di emigrazione). In altri Paesi,
anche più poveri del nostro, gli immigrati sono
molti di più.
2) Se uno ha l’Ebola, normalmente non se la
sente di fare una lunga e pericolosa traversata in
mare.
3) Spesso chi fugge sono proprio quelli che
non vogliono fare i terroristi, magari proprio
quelle
m i n o r a n z e
(cristiane e musulmane)
oggetto di persecuzioni e
di stragi, su cui poi noi
spargiamo tante
lacrime di coccodrillo.
4) Il “sistema accoglienza” in Italia non è
certo dei migliori e sicuramente non arricchisce
i
migranti, spesso
costretti all’accattonaggio per sopravvivere.
Ma la “coscienza collettiva” di una società, preda di una crisi che morde ormai da troppo tempo,
si va sempre più orientando verso la ricerca di un
capro espiatorio, facile e immediato. Dal senso di
disagio al giudizio affrettato e all’azione di protesta anche aggressiva i passi sono brevi come dimostrano le sollevazioni delle periferie romane (e
non solo) contro le comunità Rom e i migranti in
attesa di riconoscimento dello status di Rifugiato.
Naturalmente, c’è chi pesca subito nel torbido,
come personaggi e forze politiche che approfittano di questo malessere per ergersi a paladini delle
“legittime esigenze degli Italiani dimenticati e bistrattati”. Chi siano queste forze politiche non è
così difficile da intuire: quelle che intendono rinverdire una ideologia vecchia come il cucco, secondo cui il malessere sociale dipende da “corpi
estranei” che non appartengono alla nostra comunità, si chiami essa Patria o Macroregione o Religione. E’ una storia già sentita nelle narrazioni
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tragiche del secolo scorso, quelle che hanno intessuto gli orrori delle due guerre mondiali. E non a
caso assistiamo oggi a un pericoloso convergere
di programmi e idee che vedono schierati sullo
stesso fronte la Lega Nord, i Fratelli d’Italia, Casapound e alcune frange di cattolici oltranzisti. Ma
ancor più pericolosa è la diffusione di tali convincimenti anche in fasce di società civile solitamente
moderate, se non addirittura “di sinistra”. Salvo
poi a scoprire che questi strani personaggi che
incitano alla rivolta contro i campi Rom e le strutture d’accoglienza per gli immigrati sono proprio
quelli che poi, in combutta con il malaffare e con
amministratori complici e compiacenti, lucrano
abbondantemente proprio sui progetti del Terzo
Settore con cui si cerca, in qualche modo, di arginare il disastro sociale e di venire incontro ai bisogni umani degli emarginati. Gettando così nel fango e vanificando anche tutti gli sforzi, faticosi e
lodevoli, di chi con impegno e onestà dedica ad
essi le proprie energie e
il proprio tempo, per ridare loro un po’ di dignità e di autonomia.
L’avanzata delle Destre xenofobe e razziste
non è solo un problema
italiano, come dimostrano i risultati elettorali di
molte nazioni europee.
Ed è un problema seriamente sentito anche a
livello di istituzioni europee se 100 organizzazioni della società civile con
sede in diversi paesi europei hanno lanciato un
appello per la costituzione di un Intergruppo
sull’Antirazzismo e per la Diversità al Parlamento Europeo (ARDI. Anti-racism and Diversity Intergroup).
Insomma, si registra un ritorno al razzismo,
alla xenofobia, al rifiuto del “diverso”, seppure
ammantato da parole d’ordine nuove e da ragioni
politiche attualizzate. E questa mentalità fa larga
presa, a quanto mi è dato di vedere, anche tra
persone “insospettabili”, non particolarmente esagitate e anzi dotate, per altri versi, anche di ragionevolezza e di buon senso. Come mai? Ecco, io
non vorrei, a questo punto, lanciare un semplicistico “J’accuse” da “anima bella”. Sarebbe troppo
semplice e troppo comodo. E anche ipocrita. Vorrei invece sforzarmi di capire. Non di giustificare,
è ovvio, ma di capire. Molta, troppa gente ormai
vive in una condizione di incertezza, di disagio, di
bisogni insoddisfatti. Per esempio, il bisogno di
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trovare un lavoro sicuro, di potersi pagare l’affitto
di una casa o un mutuo, di potersi curare al meglio, se si ammala. E quando i puntelli di un agognato e fino a un dato momento assicurato welfare vengono a sgretolarsi, ci si aggrappa con tutte
le forze alla piccola tavola di salvataggio consentita: i “nostri” diritti, le “nostre” tradizioni, la
“nostra” cultura ecc. Sì, ma gli altri? Chi fugge
dalla fame, dalla guerra, dalle persecuzioni, dalla
miseria? Eppure bisogna chiedersi: se a me venisse tolta o pesantemente ridimensionata la possibilità di vivere in sicurezza e in relativo benessere,
che cosa farei? Che cosa penserei? Inoltre, bisogna anche tener conto che chi vive già nell’area
del disagio ha una soglia di tolleranza molto inferiore nei confronti del degrado di chi sta peggio e
chiede interventi pubblici. E anche del fatto che,
ai livelli del bisogno impellente, si intrecciano e si
mescolano in maniera inestricabile fenomeni di illegalità e
di devianza, di cui i “diversi”
non sono esenti, come esseri
umani. Anche se la percezione
distorta tende a isolare e a
enfatizzare gli episodi di devianza “straniera”.
Le forze politiche nazionalistiche, localistiche, identitarie,
si nutrono di queste rabbie, di
queste insicurezze, di queste
paure. E la Sinistra? Ho come
l’impressione che, allo stato
attuale, le vere forze di sinistra siano alquanto deboli e
impotenti. O succubi delle
“ragioni” dei mercati. Che
manchi, cioè, un progetto politico organico e coraggioso.
Capace di fare presa sulle “masse” e di coinvolgerle in un percorso di affermazione e realizzazione solidale dei diritti di tutti. Perché? Qui occorrerebbe innestare un discorso articolato e complesso, su un nuovo modello di sviluppo in cui la crescita non sia solo un privilegio di alcuni a discapito
di altri. In cui la produzione non sia finalizzata a
una competitività aggressiva e minacciosa tesa
all’incremento dei profitti più che al soddisfacimento dei bisogni. In cui il rispetto dei diritti non
conosca confini e la tutela degli ecosistemi riguardi tutte le popolazioni. Occorrerebbe una visione
globale e interrelata, non particolaristica e identitaria del nuovo welfare. Occorre pensare una nuova organizzazione del lavoro, al servizio della vita
di tutti, non del privilegio di pochi. E forse dovremmo anche fare i conti – tutti, non solo le
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grandi Istituzioni – con un necessario contenimento della ricchezza individuale a favore di un sostegno del reddito per tutti, soprattutto le fasce meno protette (giovani, pensionati, diversamente
abili ecc). Di una diffusione e tutela dei “beni comuni”. In Europa non mancano le forze che guardano in questa direzione. Penso a “Syriza” in Grecia, al movimento “Podemos” in Spagna. Minoritarie, certo, ma significative.
Ma soprattutto, a mio avviso, la vera azione
politica in questo senso sarà attuata dalla miriade
di piccole e grandi associazioni della società civile
che ancora credono nei valori della solidarietà,
dell’inclusione, del dialogo, della condivisione, della creatività operosa e intelligente a fini sociali.
Tante piccole mani e volontà per rigettare indietro
– se fosse possibile – i vieti spauracchi delle pseudorivoluzioni similfasciste.
Vero è che la solidarietà da
sola non basta a risolvere i problemi dei bisognosi se non è
sostenuta da una robusta azione politica, incentrata sulla tutela dei diritti.
Però è anche vero che la
sola politica – intesa come azione legiferante dei rappresentanti del popolo – non è sufficiente se non è sostenuta a sua
volta da una solidale consapevolezza della società civile. O
almeno di quella parte di essa
che ha sviluppato resistenti anticorpi al riproporsi di soluzioni
aggressivamente identitarie.
Ognuno deve metterci la faccia,
il cuore e il cervello per contrastare l’emergere di pulsioni xenofobe e razziste di vecchia memoria.
Laddove c’è grande malessere sociale la cosiddetta “guerra tra poveri” è sempre in agguato. E
c’è chi ne approfitta, svendendo per nobili ragioni
una chiusura e un’ostilità sempre più identitarie e
securitarie.
Ma, insegnava don Milani, “il problema degli altri è
uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia, uscirne
insieme è la politica”. La politica! Questa parola
che si è rivestita di mille sensi ambigui e distorti,
quasi fosse sinonimo di malaffare e di corruzione.
Eppure la sua radice è la “polis”, cioè l’idea di cittadinanza, rafforzata dall’idea del diritto. Che dovrebbe costituire l’unico traguardo veramente
“globale”, senza esclusioni e barriere.
Rita Clemente
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STUDIARE VALE LA PENA
Nella casa Circondariale Lorusso e Cutugno
si attiva, nella sezione femminile, una classe
del corso di Operatore dei Servizi Sociali
di Elisa Lupano
C
i risiamo. È sempre così. Non so dire dei no e
poi mi viene il panico. Il meccanismo è sempre lo stesso: una telefonata, una domanda gentile, due parole sulla bontà del progetto, e in un
nanosecondo riesco a dire si, il tempo giusto di
individuare che nel giorno e ora proposti c’è un
pauroso vuoto di due ore, qualche impegno spostabile, qualcosa che sarebbe stato per me, e
quindi può passare in secondo piano.
Anche questa volta è andata così.
“Ciao, abbiamo aperto una sezione di scuola superiore alle Vallette, sezione femminile, ce
l’abbiamo fatta finalmente, ci sono dodici donne iscritte, hai voglia di andare a insegnare psicologia? È il martedì, dalle 14
all16.”
Chissà come alcune parole passano direttamente al nostro sistema limbico, e non arrivano
neanche alla corteccia associativa, o ci arrivano molto dopo,
quando tutto è già partito. SEZIONE FEMMINILE, CARCERE,
PSICOLOGIA, CE L’ABBIAMO
FATTA. Chi sono io per fermare questo flusso di
cose positive che altri hanno messo in moto?
Così eccomi qui, a parcheggiare davanti alla Casa
Circondariale Lorusso e Cutugno, la carta
d’identità in tasca, una borsa di libri e quaderni, e
12 fotocopie della mia lezione.
Non è la prima volta che entro in un carcere, ma
c’è sempre un filino di ansia, dettata dalla possibilità di sbagliare un procedimento al quale non riuscirò mai ad abituarmi, dal timore che qualcosa
non funzioni. Come varchi la soglia di quel cancello alto 5 metri, sai che non sei completamente
padrona della tua vita, che devi stare alle regole
del protocollo e non te ne devi dimenticare. Nessuno ti conosce, non sei una prof, per quel po’ di
considerazione che è rimasto a questo ruolo, sei
una donna qualsiasi, per giunta un po’ imbranata,
un po’ sorda quando ti parlano dai vetri.
Primo step all’ingresso, consegna carta di identità.
“Dove va?”. Questa la so: “Sezione femminile, alla
scuola”.
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“È volontario o insegnante?” “Veramente tutti e
due…”. Mi danno il pass come visitatore.
Secondo step, questo è più difficile.
Altro vetro, altro passaggio obbligato.
“COME SI CHIAMA?”. Chissà perché devono sempre urlare.
Dico il cognome. Scrive. “IL NOME??”. E va bene,
anche il nome.
Passo dal Metal detector. Oggi quello di turno è
più incarognito del solito. “Non può entrare con
quella borsa”. È una borsa di tela, si vede tutto
quello che c’è dentro, cerco di insistere… Niente
da fare, la borsa non entra.
Vado a chiedere (qui bisogna sempre chiedere) un
lucchetto per un armadietto, sono quasi le 14, ho
fretta. Cerco l’armadietto, la chiave funziona, mano male. Svuoto la borsa e la chiudo dentro, prendo i libri e il registro in mano, sono tanti, mi scivolano, sembro Fantozzi. Anche così
vanno passati al metal detector.
Sul tappeto scorrevole si sparpagliano, gli ultimi sono rimasti sotto
il rullo e devo recuperarli con un
po’ di contorsioni. Li rimetto in
ordine sul tavolo, per poterli portare.
Ora tocca a me, ma la guardia
carceraria se ne è andata e io sono lì, ad aspettare. So che se facessi finta di niente forse nessuno
se ne accorgerebbe, ma se non
fosse così?
Aspetto ancora un po’ poi lo vado
a cercare, sta parlando con un
collega. “Deve ancora passare il Metal su di me”.
Di sicuro se ne era dimenticato, tanto ho l’aria
pericolosa. Davanti, dietro, braccia larghe.
Ok, tutto a posto. Con i miei libri scivolanti passo
dall’ultima porta dell’accettazione, che si apre solo
se la porta che la precede è chiusa, quindi non
dare segni di impazienza, si sta davanti e si aspetta.
Ora sono proprio dentro.
Ancora una sosta alla guardiola della sezione femminile, ancora il nome, faccio vedere il numero
che mi hanno dato come visitatore, ancora dico
dove vado.
Ce l’ho fatta, salgo al terzo piano.
L’aula è una cella adibita ad aula. Ci sono dodici
banchi, non ce ne starebbe uno di più. La cattedra
non c’è, ovviamente, terrebbe troppo posto. Non
è un problema, appoggio i libri in un angolo di un
banco. C’è però una lavagna, e un televisore enorme, con lettore cassette VHS (non ne esistono
più) che ad una prima ricognizione, viene definito
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inutilizzabile: la mia tutor, un’educatrice, il primo
giorno mi ha detto “l’anno scorso l’abbiamo provato, ma si è bloccato e da allora non ci abbiamo più
provato”. Ok, per ora discorso chiuso sulla multimedialità. C’è una speranza: sembra che con i soldi del progetto saranno acquistati dei computer.
Le ragazze sono nel corridoio, stanno facendo
l’intervallo, una sigaretta, e poi rientrano. Oggi ho
portato dei quaderni a righe, avevo quelli con le
righe di terza che le mie nipoti non usavano più,
ma vanno bene uguale. Una ragazza me li aveva
chiesti. Bastano per tutte, meno male, mi accorgo
che chiedono di essere trattate tutte uguali, non si
può fare differenze, come con i bambini. La situazione di dipendenza in cui si trovano, fa vivere
ogni piccola cosa come un’ingiustizia, anche un
quaderno in meno. “E a me?, io non l’ho avuto!!”
no tranquilla, ce n’è ancora uno.
Il primo giorno che sono arrivata, ho chiesto loro
di presentarsi, dire qualcosa sul loro nome, sul
luogo dove sono nate, dire una cosa che piace e
una che non piace.
Sui nomi qualcuno mi dice che è il nome della
nonna, un nome scelto dalla mamma, il nome
dell’albergo dove papà e mamma si sono fermati
una volta…
Sul luogo dove sono nate dicono la provenienza
(Nigeria, Romania, Moldavia, Italia), e se sono
nate in una città o in un piccolo paese.
Tra le cose che piacciono ci sono: ballare, cantare, leggere, ridere.
Tra le cose che non piacciono ci sono l’ingiustizia,
la falsità, le persone che sparlano dietro. Vivian
dice: il ricatto morale. Le chiedo di spiegare meglio.
Il ricatto morale è, secondo lei, quando una persona ti dà o non ti dà una cosa perché lo decide
lei, perché può farlo. È quello che si vive in carcere? Si, dice “noi siamo detenute, perché abbiamo
fatto una cosa sbagliata, e le guardie decidono
cosa possiamo fare e cosa no”. È la colpa che toglie la libertà di decidere, e la dà a qualcun altro
al posto mio.
Io, in quegli occhi non riesco a vedere delle colpevoli, non ci riesco. Vedo delle donne che hanno
voglia di sapere, di capire. Vedo delle donne che
nella loro voglia di venire a scuola non trovano
solo un’alternativa ai corsi di cucito, ma un punto
per ricominciare. Donne che credono di potercela
ancora fare.
Per questo mi sono maestre. Io da loro ho ancora
molto da imparare.
Anch’io ho ripreso da grande a studiare, e lo studio è stato per me un percorso di crescita più che
un conseguimento di un titolo. Per questo le sento
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tanto vicine. Le donne di questa piccola classe in
mezzo alle Vallette non sono quello che hanno
commesso e che le ha portate qui, sono quello
che saranno da adesso in avanti: donne che prendono in mano la loro vita, che fanno progetti, che
pensano alle loro famiglie e ai figli e che per loro
vogliono essere migliori.
Donne che mi dicono, con la loro presenza, le loro
domande, il loro interesse, la loro voglia di capire,
ancora un volta, che studiare vale veramente la
PENA.
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CAITH La casa famiglia
fondata da Vittoria Savio
a Cusco in Perù
Per informazioni: Maria 349.7206529
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Questi tempi di crisi colpiscono anche il
settore dell’informazione, le risorse delle
famiglie e dei singoli sono sempre più
scarse. Per sopravvivere e proseguire il
modestissimo impegno di informazione,
ricerca religiosa e sociale, abbiamo bisogno del vostro aiuto, incoraggiamento e
collaborazione.
Grazie e buon anno nuovo a tutti
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L'anima dell'uomo
A
llora Dio plasmò l'essere umano con la polvere della terra e soffiò nelle sue narici il soffio di vita e l'uomo divenne un essere vivente.
(Genesi 2,7)
Da questo versetto di Genesi è fiorita la
leggenda ebraica sulla creazione dell'anima che
ho scelto tra le molte riportate da Louis Ginzberg
nel primo volume del suo Le leggende degli ebrei.
Le leggende ebraiche, dopo essere state a
lungo trasmesse oralmente, sono passate alla
scrittura durante i secoli che vanno dal II al XIV.
Documentano le meditazioni e gli approfondimenti
fatti dai maestri della Torah che li usavano nelle
loro omelie; ma anche una straordinaria e feconda
contaminazione con l'immaginario popolare del
tempo in cui sono state elaborate.
Questo è il testo:
La cura con cui Dio modellò ogni dettaglio
del corpo dell'uomo non è
nulla in confronto alla Sua
sollecitudine per l'anima
umana. Essa fu creata il
primo giorno: è infatti lo
spirito di Dio che aleggiava sulla superficie delle
acque. Perciò l'uomo, anziché essere l'ultima opera della Creazione, ne è
in realtà la prima.
Questo spirito, o,
per chiamarlo col suo nome consueto, l'anima dell'uomo, possiede cinque
diverse facoltà. Una di esse gli consente di uscire
dal corpo ogni notte per salire al cielo e attingervi
nuova vita per la persona.
Con l'anima di Adamo vennero create le
anime di tutte le generazioni umane. Esse sono
custodite in uno scrigno nel settimo cielo, e di là
vengono tratte ogni volta che occorrono per un
corpo d'uomo.
L'anima e il corpo dell'uomo si uniscono in
questo modo: quando una donna concepisce,
l'Angelo della Notte, Laylah, conduce il seme al
cospetto di Dio, ed Egli stabilisce quale genere
d'essere umano ne sortirà – se sarà maschio o
femmina, forte o debole, ricco o povero, bello o
brutto, grande o piccolo, grasso o magro, e tutte
le altre sue caratteristiche. Solo la rettitudine e la
malvagità sono affidate all'arbitrio dell'uomo. Allora Dio fa cenno all'angelo che ha cura delle anime, dicendo: «PortaMi l'anima tale, che è nascosta in paradiso e ha nome tal dei tali e forma così
e così». L'angelo porta l'anima designata, che
compare alla presenza di Dio, s'inchina e si pro-
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stra al Suo cospetto. In quel momento Dio le ordina: «Entra in questo seme». L'anima apre le labbra e implora: «Signore del mondo! Sono felice di
dimorare in questo mondo, dove vivo dal giorno in
cui Tu mi chiamasti a essere. Perché ora mi chiedi di entrare in questo seme impuro, io che sono
santa e pura e sono parte della Tua gloria?». Ma
Dio la consola: «Il mondo in cui ti farò entrare è
migliore di quello in cui hai vissuto sino a ora, e
solo per questo ti ho creata». Così l'anima è costretta a entrare nel seme contro la sua volontà, e
l'angelo la riporta nel ventre della madre. Due angeli sono incaricati di vegliare a che non l'abbandoni e non ne esca, e le viene posta sul capo una
luce grazie alla quale l'anima può vedere il mondo
da un capo all'altro. Al mattino un angelo la conduce al paradiso e le mostra i giusti, che vi siedono incoronati e ammantati di gloria. Egli chiede
all'anima: «Sai chi sono?»; l'anima risponde di no,
e l'angelo continua: «Quelli che vedi qui furono
formati come te nel ventre delle loro madri. Una
volta venuti al mondo hanno osservato la Torah di
Dio, le Sue leggi e i
Suoi dettami. Per questo godono oggi della
beatitudine in cui li vedi
immersi. Sappi che un
giorno anche tu lascerai il mondo di sotto, e
se avrai osservato la
Torah del Signore sarai
giudicata degna di sedere con questi giusti,
altrimenti sarai condannata all'altro luogo».
Alla sera l'angelo conduce l'anima all'inferno, dove le indica i peccatori che gli angeli della
Distruzione percuotono con flagelli di fuoco. Essi
gridano: «Ohi! Ohi!», ma nessuno ha pietà di loro.
Allora l'angelo le chiede come prima: «Sai chi sono?», e come prima l'anima risponde di no. L'angelo continua: «Costoro che sono divorati dal fuoco sono stati creati come te, ma una volta venuti
al mondo non hanno osservato la Torah del Signore, le Sue leggi e i Suoi dettami. Perciò sono
ora condannati a queste pene ignominiose. Sappi
che anche tu dovrai lasciare il mondo: sii dunque
retta e non malvagia, e ti conquisterai il mondo a
venire».
Tra il mattino e la sera l'angelo conduce
l'anima in giro e le mostra dove vivrà e dove morirà e il luogo in cui sarà sepolta, facendole percorrere il mondo intero e indicandole gli uomini retti, i
peccatori e ogni altra cosa. Alla sera la ripone nel
ventre della madre ed essa vi rimane per nove
mesi.
Quando giunge per l'anima il momento di
uscire dal ventre e di venire al mondo, quello stes-
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so angelo la chiama e le dice: «È giunto per te il
momento di entrare nel mondo». L'anima obietta:
«Perché vuoi farmi venire al mondo?» e l'angelo risponde: «Sappi che così come sei stata formata contro la tua volontà, contro la tua volontà
nascerai, contro la tua volontà morirai e contro la
tua volontà renderai conto di ciò che avrai fatto al
cospetto del Re dei re, il Santo, sia Egli benedetto». Ma l'anima è restia a lasciare il suo posto.
Allora l'angelo dà un buffetto sul naso al nascituro, spegne la luce sul suo capo e lo conduce nel
mondo contro la sua volontà. In quel momento il
bambino dimentica tutto ciò che la sua anima ha
visto e appreso e viene al mondo piangendo, perché lascia un rifugio sicuro e sereno.
Quando giunge per l'uomo l'ora di abbandonare questo mondo, lo stesso angelo appare e
gli chiede: «Mi riconosci?» e l'uomo risponde: «Sì,
ma perché vieni a me oggi e non sei mai venuto
prima?». L'angelo dice: «Per portarti via dal mondo, perché il tempo della tua
dipartita è venuto». […]
Quali immagini di
Dio può suggerire questa
antica storia a un credente
cristiano di oggi che conosce il primo Testamento e
sa che i miti come quello di
Genesi e le leggende religiose come questa non parlano di fatti realmente accaduti? Essi non possono darci lezioni di storia e neppure
di teologia; spesso però manifestano archetipi religiosi
esistenziali che possono ancora coinvolgerci. È
un'esperienza consueta per chi ama le antiche
fiabe; lo sanno i bambini, ma lo sperimentano anche i lettori adulti purché sappiano sognare.
Qual è allora il Dio sognato da quelli che
hanno creato questa storia? E qual è il suo progetto sulla vita dell'uomo?
È un Dio creatore e signore del mondo, di
cui conosce principio e fine; un Dio che tutto vede
e a tutto provvede. Nel creato c'è l'uomo, il suo
prediletto: l'ha fatto esistere, come emanazione di
sé, il primo giorno (in disaccordo con la cronologia
di Genesi 1). Questo Dio manifesta una cura amorevole per le anime che ha creato. Lo scrigno in
cui vengono poste, tutte insieme all'inizio ma spinte poi nel mondo ad una ad una, sottolineando
così il rapporto individuale con Dio di ognuna di
loro; la luce accesa sul capo del bambino nell'utero materno; l'andirivieni degli angeli che dà al nascituro una specie di precoscienza per le scelte
che dovrà fare in vita: sono tutte immagini luminose e forti.
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Si spegne la luce e il bambino nasce. Non
una parola sulla vita di quell'uomo, breve o lunga,
in ricchezza o povertà, gioiosa o dolorosa; alla
storia tutto questo non interessa. Interessa invece
il momento finale, quello della morte. È una scelta
sapiente del narratore parlare in così breve spazio
della vita di un uomo, dalla nascita della sua anima alla morte: una scelta che ci fa tutti uguali.
La morte, prima o poi, arriva per tutti; qui
l'annuncia lo stesso angelo che ha presieduto alla
nascita. Attraverso l'angelo è presente Dio, e l'uomo riprende una relazione diretta con lui, quella
che l'anima aveva avuto prima di nascere, quando
Dio l'ha spinta verso la vita. In un'altra leggenda,
parallela a questa nel contenuto fino a questo
punto, non l'angelo ma Dio stesso appare al morente e gli dice: «Metti per iscritto tutte le tue azioni perché stai per morire». L'uomo scrive tutto e
firma di sua mano. Così, conclude la storia, nel
giorno del giudizio ogni uomo vedrà il libro firmato
da lui. Bella invenzione
narrativa sul libero arbitrio
e la responsabilità personale.
La cura amorevole di Dio
per l'uomo si manifesta
anche nel dono della Torah, il grande presidio religioso della tradizione ebraica. Il bambino che
nascendo ha perduto il
lume acceso sul suo capo, trova nel suo mondo
questo dono di Dio. Un'altra leggenda racconta che
Dio, attraverso l'angelo
Razi'el, ha consegnato il Libro ad Adamo che, dopo la cacciata, era confuso e smarrito.
Torah a parte, nessun elemento di questo
racconto si discosta dalla visione cristiana su Dio
dei secoli passati. È un bell'esempio di trasmissione dall'ebraismo al cristianesimo. Per quel che mi
riguarda, posso dire che la mia nonna Marietta,
contadina montanara trentina nata alla fine
dell'Ottocento, avrebbe condiviso con tutto il cuore l'immaginario di questa leggenda. Conosceva
Genesi ed Esodo e i suoi racconti biblici hanno
nutrito, sera dopo sera, la mia formazione infantile. E come i patriarchi del primo Testamento è
morta piamente e serenamente, «sazia di giorni».
E oggi? Intorno a me percepisco tanti modi
diversi di essere cristiani ma ben poco dell'immaginario dei credenti: si ha pudore a parlarne. Giustamente si guarda alle opere: l'amore per il prossimo piace a Dio, l'individualismo proprietario è un
male, importanti sono le relazioni tra gli umani. Da
questo punto di vista può sembrare che manchi
qualcosa in questa leggenda: non ci sono rapporti
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degli uomini tra loro, l'individuo è isolato, l'orizzonte della salvezza è strettamente individuale. Inoltre nel suo insieme la leggenda è molto antropocentrica, più che i tre capitoli di Genesi che l'hanno generata, e che oggi possiamo interpretare in
modo geocentrico, guardando agli animali, al lavoro dell'uomo, alla cura e coltivazione del suolo.
A un racconto archetipico, sia esso mito, leggenda o fiaba, si può però solo chiedere conto di ciò
che dice, non di ciò che non dice. L'anima dell'uomo ci parla di un Dio che ha per noi amorevole
cura dall'inizio alla fine della vita, non determina le
nostre scelte e ci promette eterna beatitudine. È
un immaginario coerente, armonioso e rassicurante.
Qualcuno potrebbe chiedermi perché do
tanta importanza all'immaginario religioso dei credenti. Per me l'immaginario è parente stretto del
sogno ad occhi aperti, e chi sa sognare può avere
fiducia in se stesso e speranza nell'agire quotidiano. Senza un immaginario su Dio non si può pregare, sia che pensiamo a un Dio che vive in noi o
a un Dio in cui siamo immersi. Non si può neppure parlare di fede.
Com'è oggi il mio immaginario su Dio? Sono figlia del mio tempo e anche del mio percorso
di ricerca religiosa. Guardando al passato posso
dire che solo in particolari momenti di gioia intensa (quando ho partorito i miei figli) o di grande angoscia (quando ho avuto paura di morire per un
cancro) la mia relazione con Dio ha avuto punti di
contatto con il Dio di questa storia. Oggi nel quotidiano vivo un immaginario frammentario e mutevole; la visione solida e luminosa della mia nonna
non può più appartenermi. E il vostro immaginario
su Dio qual è?
Tullia Chiarioni
C.D.B. Chieri informa
Come potete dire “Natale”?
Tutti i bambini e le bambine
nascono
Affamati di stupori
Che scoprono un mondo
Fatto per loro
Per le loro scoperte
Una culla, una casa
Un paradiso accogliente.
Tutti i bambini e le bambine
nascono
Bisognosi di calore
Di latte caldo
Di teneri abbracci
E poi di libertà
Per correre felice
Sulla terra del loro sogno.
Ogni bambino e bambina
È una grande promessa
Un libro da scrivere
Una buona novella
Da annunziare con gioia.
E’ un miracolo ardente.
Ma voi, bambini fatti adulti,
fatti mostri di pietra,
fatti fantasmi di tenebra
come potete impunemente
spegnere questa luce divina
uccidere questa speranza
con la guerra e con la fame
con il dolore e con la paura
con l’indifferenza del cuore
con il freddo nell’anima
con il tradimento di voi stessi
della vostra natura bambina?
Come potete dire “natale”?
Se un solo bambino, una sola bambina
Trema nel buio, incapace di sogni
Con la meraviglia degli occhi
Ridotta a un vacuo terrore
Come un giocattolo rotto o smarrito?
Daisy T.
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C.D.B. Chieri informa
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Da Gesù al cristianesimo
Di don Franco Barbero
sbobinatura e adattamento non rivisti dall’autore
D
a Gesù al cristianesimo c’è un passo o c’è
un continente? Sono la stessa cosa o sono
addirittura due cose diverse? Ecco la domanda.
Per molti preti e per molti teologi, strutture ufficiali cattoliche e protestanti questa domanda potrebbe apparire scandalosa perché per essi è di
un’ovvietà incontrovertibile il fatto che il cristianesimo discenda da Gesù, che lo ha fondato e voluto.
Attualmente una corrente sempre più numerosa di
studiosi e di teologi pone dei grandi interrogativi
rispetto a questa concezione tradizionale. Noi abbiamo l’idea di Gesù fondatore del cristianesimo:
ecco dove sta il grande nodo! facciamo risalire quasi
automaticamente a Gesù
l’attuale struttura e conformazione del cristianesimo:
che esista una chiesa cristiana, dei sacramenti, un
tipo di organizzazione, che
esistano delle verità sulla
sua figura, noi riteniamo
che tutto questo lo abbia
voluto Gesù, lo abbia determinato Lui. La storia ci dice
che questa domanda è stata
posta ormai da molti secoli,
inizialmente dai movimenti
pauperistici, parecchi dei quali furono perseguitati
e messi al rogo. Molti si domandarono, di fronte
agli scandali e alla ricchezza dell’alto clero, se la
Chiesa fosse ancora sulla strada di Gesù. Era una
domanda sul piano etico, che però sollevò molte
inquietudini. Taluni dissero che Gesù non era mai
stato dalla parte dei potenti, non avrebbe approvato i roghi, non avrebbe voluto che chiunque dissentisse venisse punito, non avrebbe fatto differenze tra uomini e donne, o diviso in “santi” e
“dannati”. La chiesa ha sempre aggirato queste
domande parlando della condizione generale di
peccato e di fragilità umana, dicendo che Gesù
aveva additato un ideale di vita, ma era difficile da
attuare, solo pochi lo riuscivano a realizzare.
Più tardi sono iniziati gli studi ed alcuni si domandarono le origini dei sacramenti: il battesimo e
l’eucarestia sono nel Nuovo Testamento, ma gli
altri quando sono nati? Lavorando sui documenti
gli storici videro che erano nati nell’un-dicesimo
secolo; prima furono 8, poi 14. Nel 1215 compare
per la prima volta: “sono sette”. Alla fine del Concilio di Trento si dice: “sono 7, né più, né meno”.
Era la prova di un processo storico che dimostrava
che non tutti provenivano da Gesù. Molti, nei secoli successivi, si domandarono cosa volesse dire
che Gesù è “figlio di Dio”. Vennero date risposte
diverse: Gesù era un agente di Dio, un suo testimone, un profeta del regno, colui che ha ricevuto
da Dio una vocazione particolare. Gli studiosi del
primo Umanesimo, ai quali dobbiamo queste elaborazioni iniziali e studi dei documenti antichi, riscoprirono che nel terzo e quarto secolo la maggioranza pensava che Gesù non fosse Dio. Poi
venne il concilio di Nicea, ma
le differenze di valutazione
sulla persona di Gesù continuarono per molto tempo;
c’era un plurale di cristologie.
E sull’eucarestia si domandarono: “mangiamo davvero
Gesù?”. Il sinodo di Vercelli
dell’XI secolo disse: “no, è un
simbolo, una figura”.
E la morale? Le seconde nozze sono o no lecite? Nel vangelo di Marco c’è scritto di
no, nel vangelo di Matteo c’è
scritto di sì, Paolo dice che si
può: se i due non vanno d’accordo, meglio separarsi. Gli studiosi scoprirono che c’èra un plurale
d’interpretazioni e questo implicava che probabilmente Gesù non avesse istituito i sacramenti, ma
che sul suo vissuto si siano esperite, tentate, elaborate delle interpretazioni. Egli non aveva trasmesso delle norme rispetto alle celebrazioni, ai
dogmi.
Di fronte a tutte queste domande, voi capite
l’importanza della moderna ricerca sul “Gesù storico”: essa ci testimonia che molte delle strutture
ecclesiali e teologiche non hanno niente a che fare con Gesù; talvolta sono assolutamente delle
creazioni storiche, altre volte sono addirittura contro di Lui. Notate che questi studi sono sorretti da
due pilastri: uno è la scienza, l’altro è la fede.
Questa ricerca è stata fatta da credenti e non credenti, ma in larga misura è sorretta dalla fede di
molti credenti, donne e uomini, studiosi, che hanno detto: “a noi interessa davvero la figura di Gesù, è il fondamento della nostra fede; per noi è
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importante capire il più possibile chi è stato, che
cosa ha rappresentato la sua vita, quale è stata la
sua fiducia in Dio, il suo insegnamento, la centralità del suo messaggio”. Questa ricerca non muove
solo dalla curiosità o dalla scienza, che per la carità è fondamentale, ma è animata, in moltissimi
casi, da una grande fede. La scienza ha dato un
apporto straordinario alla religiosità ed alla ricerca biblica. Sono stati scoperti papiri e documenti.
Che cosa è venuto fuori da Cumran, da Nag Hammadi e da tutto l’Egitto? Sono emersi libri della
Bibbia, vangeli apocrifi, scritti, lettere apostoliche.
Gli studiosi non finiscono mai di scoprire nuovi
testi che noi non avevamo, fino a trenta/quaranta
anni fa. Le scoperte che si stanno facendo in Egitto e in altri luoghi continueranno nei prossimi anni, non finiranno. Vedrete quanti altri scritti usciranno! Dopo tutte queste scoperte è un fiorire di
studi, che sono per noi una grandissima ricchezza.
Un’altra riflessione che volevo
fare parte dal libro degli Atti,
cap.11 versetto 26, dove si parla
di “cristiani” ad Antiochia .
“Vedete - dicono - c’erano i cristiani negli anni ’90!”. Certo che
c’erano, ma erano come i Sadducei, i Farisei, gli Esseni, erano
una branca dell’ebraismo, erano
un “partito” religioso al suo interno.
I passi polemici che ci sono in
Paolo e in Matteo contro i farisei,
contro gli scribi non sono contro
un’altra religione, dicono gli studiosi, sono le polemiche culturali,
teologiche dentro il giudaismo del tempo, quindi
completamente ebraiche. Vi era una varietà incredibile di posizioni! Abbiamo usato i conflitti di Gesù con i farisei come prova che aveva fondato il
cristianesimo. No! Gesù era dentro l’ebraismo, si
pensava ebreo, pregava da ebreo, era veramente
e interamente ebreo.
Gesù non è il fondatore del cristianesimo! Era un
profeta escatologico il quale pensava che tale era
il male in quel momento in Israele, che Dio sarebbe intervenuto nella storia, l’avrebbe affrontato e
risolto. Gesù visse e morì con la speranza di un
regno di Dio imminente, credeva, cioè, che Dio
non potesse più sopportare l’ingiustizia e che in
qualche modo avrebbe ristabilito un’umanità nuova, a partire da Israele. Pensava di essere stato
mandato per le pecore perdute d’Israele e che lì
doveva dare la sua vita, per preparare il tempo
della venuta del Regno, della giustizia. Questo è
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molto importante: occorre ricollocare il Gesù storico dentro l’ebraismo.
Certo non era l’unico a pensare queste cose, vi
era stato il Battista: Gesù veniva dalla sua scuola;
vi erano stati altri profeti itineranti ed escatologici:
erano in molti a pensare che Dio non potesse più
sopportare tanta oppressione, ingiustizia, povertà
e che sarebbe intervenuto a favore dei più deboli!
Gesù pensava che il regno di Dio fosse imminente, che sarebbe venuto durante la sua stessa vita,
probabilmente. Ma questo è un dato culturale del
suo tempo. A noi di Gesù interessa il messaggio,
non tanto che abbia sbagliato i tempi! Egli vuole
rinverdire, rinnovare la religione ebraica. Pensa
che gran parte dei sacerdoti e degli scribi abbiano
tradito, e allora va nella sinagoga, nei villaggi,
predica questo Dio accogliente, inclusivo, che non
fa differenza fra uomo e donna. Perciò non sono
le regole che ci salvano, ma
la fiducia nell’amore accogliente di Dio, nel suo perdono. Gesù non era solo in questa predicazione, altri profeti
avevano detto cose simili, ma
Lui le porta alle estreme conseguenze, rompe i confini che
la religione ebraica ufficiale
aveva tracciato. Dobbiamo
dire che non era un caso che
si riferisse sempre ad Isaia ed
ai profeti.
Gesù non è il fondatore di
nessuna nuova religione; ha
invece pensato una pratica di
vita nuova. Noi cristiani ci riferiamo a Lui ed abbiamo dato vita ad una religione. Nel bene o nel male questo è un dato storico, ma una cosa è avere in Gesù il riferimento e fare di Lui il capostipite di una
religione - questo è avvenuto storicamente, non
possiamo saltare i secoli - altro è fare del riferimento il fondatore: sono due cose molto diverse!
Gesù non aveva una volontà fondativa, non ha
dato delle regole per dopo, ma ha detto: “tra di
voi non sia così, siate fratelli e sorelle, non attaccatevi alle ricchezze, privilegiate gli ultimi”. Ha
dato le “regole del regno”, potremmo dire, i
“comportamenti” del regno.
Che cosa è avvenuto quando Lui è morto? I discepoli erano rimasti impressionati soprattutto da due
aspetti della personalità di Gesù: la sua estrema
parzialità, sempre dalla parte dei deboli, si era
messo assolutamente dalla parte della gente, diremmo noi oggi, di chi è calpestato, oppresso,
squalificato moralmente, la gente perduta. L’altra
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cosa che aveva impressionato allo stesso modo e
con pari intensità era la sua fiducia totale in Dio:
nei vangeli 12 volte si parla di Gesù che si ritira a
pregare, a benedire Dio, nella più piena fiducia in
Lui. Questa sorgente è diventata la sua “forza terapeutica”. La sua preghiera era come chi va al
pozzo per attingere l’acqua della salute. Fondamentale è stata l’opera terapeutica di Gesù,del
Gesù taumaturgo; il suo contatto era liberatorio e
talmente pieno di Dio che lo riversava su tutti,
aveva una tale fiducia in Dio che nel contatto con
le persone trasmetteva questa fiducia radicale,
tant’è che i discepoli diranno: “Signore insegnaci a
pregare” e lui dirà “Padre nostro …”. Tutte le sue
preghiere sono prese dal Primo testamento , Egli
le collezionerà dando di Dio un idea sorgiva, amorosa, accogliente, includente.
Gesù è sconfitto e muore sulla croce, ma i discepoli non dimenticheranno
questo maestro che aveva
detto loro: “Dio non mi abbandonerà”. Dopo il dolore e
un primo sbandamento lo
penseranno come il risvegliato da Dio, il risorto.
Si organizzeranno per portare avanti il progetto di Gesù,
la sua pratica di vita, la strada che aveva indicato e non
possono pensarla che
all’interno dell’ebraismo. Saranno un nuovo gruppo, come lo erano i Farisei, gli
Scribi, gli Esseni, saranno i
discepoli del Nazzareno. Ma
si troveranno assolutamente impreparati: Gesù
non aveva dato loro una teologia, delle regole:
“quando non ci sono io sei tu che comandi, sei tu
che organizzi”. Non avevano né una teologia né
un’organizzazione, né un modo perentorio di risolvere alcuni problemi: “Si annuncia il vangelo solo
ai giudei o anche ai pagani? Si applicano le regole
del giudaismo a tutti o no?”. Giacomo, il fratello di
Gesù, penserà l’annuncio del van- gelo solo
all’interno del giudaismo, Paolo era invece per
l’annuncio anche ai pagani, le prime comunità si
domanderanno se tutti dovevano osservare i precetti della legge di Mosè (non mangiare le carni
proibite, farsi circoncidere ecc.). Per Pietro la legge andava osservata, ma non imposta come un
giogo. I problemi erano grandi e così fiorirà una
pluralità di posizioni, di concezioni. Gesù non aveva chiarito questi problemi, aveva insegnato ad
amare e ad accogliere tutti. Si raduneranno a Gerusalemme per risolverli, ma non andranno tutti
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d’accordo! Giacomo, che è quello che presiederà,
cercherà una mediazione che renderà possibile
l’annuncio ai pagani. Ma per lungo tempo si confronteranno le diverse concezioni sulla figura di
Gesù, per alcuni il Messia atteso, per altri un profeta d’Israele, il profeta centrale.
Il cosiddetto cristianesimo era una branca interna
al giudaismo, con posizioni e teologie diverse. Nella metà del II secolo, a partire dagli anni 120 /
180 avviene una novità: nelle maggiori comunità,
quelle di cui abbiamo notizia dagli studi, si profila
il cosiddetto “sistema religioso autonomo”, che
avviene, secondo gli studiosi, quando ci si stacca
dal braccio che ti ha originato e diventi una religione con i propri riti, la propria teologia e una
propria identità. In quella seconda parte del II
secolo nasce il cristianesimo come religione separata dall’ebraismo.
I cristiani non sono più una
branca dell’ebraismo, ma
sono invece una religione
autonoma, in cui cresce il
processo di venerazione di
Gesù identificato come il
Messia: non più il Messia
d’Israele, ma il nostro Messia. Più tardi prevarranno
le categorie filosofiche greche
ed
avverrà
l’identificazione con Dio
nella concezione trinitaria.
Nel II secolo si strutturano
i riti e, mentre nel libro degli Atti si dice: “andavano
unanimi al tempio”, nelle
sinagoghe si recavano normalmente, come ci testimonia Paolo. Si separano i luoghi di culto, nasce la “casa”, la “Domus ecclesiae”. Mentre
prima si radunavano nelle case per alcuni momenti, come facevano anche gli Esseni e i Farisei, però
poi andavano tutti al Tempio, ora non si frequentano più le sinagoghe, avviene la separazione. Il
tragico epilogo di questo processo si avrà nel III
secolo quando nascerà l’accusa ai giudei di deicidio, che prenderà grande vigore nel IV e V secolo,
creando le basi di quel tragico antisemitismo che
sfocerà nella Shoah.
tempi di fraternità
donne e uomini in ricerca
e confronto comunitario
Fondato nel 1971 da fra Elio Taretto
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TTIP: una minaccia
alle porte dell'Europa.
R
aramente l'argomento TTIP fa capolino nel
dibattito televisivo. È solo grazie alle numerose mobilitazioni e petizioni contro tale provvedimento che viene portato alla ribalta di forum televisivi e degli organi di stampa. Più vi è mobilitazione, più vi è crescita dell'informazione come ha
sottolineato Marco Bersani di ATTAC Italia.
Esattamente il TTIP non è nient'altro che il tentativo di Stati Uniti e Unione Europea di realizzare la
più grande area di libero scambio e di totale libertà di investimento dell’intero pianeta. TTIP, infatti,
sta per Partenariato Transatlantico su Commercio
e Investimenti. Il documento è riservato e non
ancora del tutto disponibile, anche se lo scorso 9
ottobre è stato diffuso ufficialmente un documento di 18 pagine dalla Unione Europea. Bisogna
evidenziare che tutti i
negoziati scaturiti fino
a questo momento
sono stati decisamente poco trasparenti e
in parte hanno coinvolto
numerose
lobby. Infatti, gli unici
ad avere avuto informazioni
dettagliate
sul TTIP sono stati
alcuni importanti lobbisti mondiali che sono stati aggiornati con oltre 100 incontri dedicati
all'argomento.
Così come ogni trattato di libero scambio anche il
TTIP è accompagnato da una massiccia campagna di propaganda e comunicazione, atta non a
chiarire i termini del trattato, ma semplicemente
ad esaltare i benefici economici e occupazionali
che otterrebbero i paesi che decideranno di firmarlo.
Eppure il TTIP potrebbe colpire innumerevoli settori importanti creando conseguenze sulla nostra
stessa vita. Negli ultimi mesi, infatti, sono molti gli
articoli scientifici che mettono in luce i possibili
effetti negativi.
Ad esempio sul piano economico l'agricoltura europea composta da oltre 10 milioni di piccole aziende potrebbero, senza dazi doganali, chiudere
battenti, soprattutto nel momento in cui venisse
liberalizzato il commercio delle colture OGM. Sul
piano industriale, la concorrenza delle multinazionali sulle piccole e medio imprese creerebbe la
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necessità di creare
agglomerati sempre più grandi con
una evidente preminenza degli Americani e un peggioramento delle condizioni dei lavoratori con applicazioni di normative simili al “Right to work” americano che potrebbe produrre la perdita in tutta la
zona dell'Unione Europea di circa 600.000 posti di
lavoro. Sul piano dei servizi (acqua, energia, salute ed educazione), invece, verrebbero esposti alla
libera concorrenza in barba a tutte le battaglie sui
“beni comuni” e i risultati ottenuti tramite l'istituzione dei referendum qui in Italia. Sul piano della
privacy, il TTIP prevede un provvedimento simile a ACTA che fu respinto dal Parlamento Europeo nel 2012 in
cui si verrebbe a limitare il libero accesso al web e dando potere per la gestione dei dati personali alle multinazionali del settore. Sul piano finanziario, tutti i servizi
verrebbero liberalizzati così che gli stati nazionali non
potrebbero più avanzare disposizioni per tenere sotto
controllo i poteri della
finanza.
Tuttavia, i settori su cui
interviene il TTIP sono
davvero molteplici. È
evidente che il trattato
così come è stato strutturato ha come unico
interesse il rafforzamento del predominio delle
multinazionali che non
potrebbe essere più
regolamentato o limitato dai governi o dai parlamenti impotenti in quanto esisterebbe una normativa
transatlantica. Inoltre, la parte più inquietante sta nella
possibilità per le imprese multinazionali di chiamare in
giudizio gli Stati sovrani che non si attengano alle prescrizioni di liberalizzazione del mercato che il trattato
promuove così com'è avvenuto nel processo milionario
intentato dalla Philip Morris contro l’Uruguay per il divieto del fumo.
Il TTIP romperebbe così tutte le tutele che la legislazione europea offre ai cittadini in diversi ambiti che risultano inesistenti negli USA. Il disegno del TTIP è un
progetto che si inserisce con forza e decisione nella
linea del neoliberismo di cui si sono viste tutte le conseguenze negative negli ultimi anni. Tali provvedimenti
hanno contratto e indebolito l'economia dall'89 ad oggi
provocando diseguaglianze e una crisi economica di cui
vediamo ancora le conseguenze. Nonostante queste
conseguenze negative delle politiche neoliberiste degli
ultimi anni, che sono sotto gli occhi di tutti, si continua
a proporre ricette che seguono gli stessi indirizzi precedenti e questo dà l'idea della malafede dei proponenti.
Errare è umano, perseverare sarebbe diabolico.
Salvio Calamera
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Fame: perché?
Da istinto primario a metafora
dell’incompletezza e del bisogno dell’altro.
N
on è agevole tirarsi su il morale quando alla
situazione politica interna ed estera si aggiunge un autunno piovoso con la sua sequela di
dolori reumatici sparsi, acciacchi e melanconie
varie.
Fortuna che da sempre mi è venuta in soccorso la lettura! Anche questa volta, quindi, ho cercato e trovato sostegno nei libri e nei loro autori.
In genere faccio un gioco: vago nello studio, passo da una libreria all’altra e lascio che sia il caso a
scegliere per me: mi sono,
così, imbattuta in un racconto
di Franz Kafka: “Un digiunatore” scritto nel 1922.
Amo l’autore, ma devo
ammettere di aver avuto un
momento di rifiuto: mi sembrava che il labirinto kafkiano non mi sarebbe stato di
grande sollievo nei confronti
dei succitati fastidi dell’età,
della stagione e dei tempi.
Ma ogni gioco ha le proprie
regole e in genere non baro
con me stessa, quindi vada
per “Un digiunatore.”
Prima di iniziare la lettura
mi è passata per la mente l’idea che fosse un invito a non lasciarmi tentare dalle leccornie e alle
grasse abbuffate dell’imminente San Martino.
Comunque mi sono applicata diligentemente al
racconto.
Vi si narra la vicenda di un uomo che dà spettacolo della propria capacità di digiunare riscotendo
grande successo; il limite massimo che
l’imprenditore gli ha imposto è di quaranta giorni.
Tuttavia il protagonista, anche quando lo
spettacolo della sua magrezza non interessa più
nessuno, persiste nel digiuno fino alla morte; un
attimo prima della fine, rivela che in realtà non ha
avuto merito nel digiunare, poiché egli non ha mai
trovato nessun cibo che lo soddisfacesse.
Kafka è Kafka e obbliga a cercare un significato nascosto nei suoi racconti “assurdi”: ho ricominciato a leggere “Un digiunatore” con maggiore calma.
Mi sono accorta, quindi, che le note al testo spesso rimandavano all’autore norvegese Knut Hamsen e al suo romanzo “Fame” .
Ammetto di non averne mai sentito parlare,
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ma, rapidamente da Wikipedia, ho appreso che il
romanzo, pubblicato nel 1890, narra la vita di uno
scrittore fallito che, non riuscendo a pubblicare i
suoi lavori, deve fare i conti con la fame e con
l’eccitazione e acutezza mentale che questa condizione gli procura.
Per tale romanzo Hamsen aveva ricevuto il Nobel per la letteratura! Niente di meno!
La presenza dello stesso tema (e quale tema!) in
letterature lontane tra loro e in autori che non avevano potuto subire l’uno l’influsso dell’altro mi ha
indotto ad alcune riflessioni sull’argomento: riflessioni che sono il tema del pezzo che segue.
E’ evidente che la fame è un bisogno primario,
concreto e reale: il primo e unico movimento di cui
è capace il neonato nei confronti di una presenza
esterna è la suzione come dimostra la posizione
istintiva della sua testa.
Ne deriverebbe una serie di considerazioni pratiche su la distribuzione del cibo,
la fame nel mondo, la questione degli OGM etc., ma é altro
ciò su cui intendo fermare
l’attenzione perché, essendo
noi animali culturali e simbolici,
anche la fame non può essere
circoscritta a mero bisogno biologico, ma si offre ad altre interpretazioni.
Da quando l’uomo ha smesso di essere raccoglitore e cacciatore, il cibo è divenuto non
soltanto mezzo di relazione
con il mondo vegetale ed animale, ma anche con il lavoro
umano: agricoltura, allevamento e quello che si svolge in una cucina.
L’uomo non dipende più dalla natura, ma può produrre, per lo meno nel primo mondo, cibo in abbondanza.
E pensare che ancora gli uomini del Medioevo,
soggetti alle carestie, pregavano “ a fame , a bello, a peste, libera nos, Domine”.
Tanto che l’assillo della fame- che è la condizione
più prossima al non essere della morte- produsse,
in quel periodo storico, miti compensatori quali il
Paese di Cuccagna e il Paese di Bengodi: luoghi in cui imperava la sazietà fino all’abbuffata.
Condizione immaginaria che diveniva realtà nel
Carnevale quando il mondo “rovesciato” permetteva anche ai poveri di gozzovigliare.
Di conseguenza i collegamenti con una miriade di discipline, storia e arte per cominciare, sarebbero molteplici, ma scelgo di soffermarmi su
quelli simbolici che sono relativamente evidenti
poiché la fame, in quanto espressione di un bisogno che produce desiderio, comporta la spinta
all’appagamento ingerendo altro da sé.
Gennaio 2015 - n. 60
Quindi la fame non è soltanto bisogno materiale,
ma è metafora della ricerca della relazione con
l’altro: a dire dei sociologi la caratteristica fondamentale del mondo contemporaneo consiste proprio nell’allentarsi del legame con l’altro.
L’ individuo- termine esattissimo per indicare la
parcellizzazione della comunità- appare come una
monade- un unico autosufficiente- in grado di approfittare dell’offerta illimitata di oggetti di godimento a portata di mano o di bocca sempre a disposizione; “libero” dalle limitazioni e dalle contingenze imprevedibili che caratterizzano l’incontro
con l’altro reale.
Egli si trova in una sorta di esasperazione autistica che non percepisce più la dimensione transindividuale.
Credo che questa analisi non abbia nulla di
astruso poiché è sotto i nostri occhi, in continuazione, come il legame societario e statale siano
gravemente compromessi con
terribili conseguenze.
La causa dell’ involuzione di
ciò che già Aristotele aveva definito socialità, è un’ulteriore
conseguenza, a mio avviso,
dell’egemonia del capitalismo
che ha imposto una nuova illusione: l’illusione che l’oggetto
del godimento coincida con
l’oggetto del desiderio e che il
desiderio, a sua volta, coincida
con quelli inventati dal mercato
ed imposti attraverso scaltriti
messaggi e tecniche di comunicazione.
Ne scaturisce l’annullamento
della reale condizione umana
che, invece, è strutturalmente precaria e mancante, dipendente dall’altro; di questa incompletezza
il cibo è l’indizio più tangibile, ma- ripeto- gravido
di valenza simbolica.
Il discorso sulla fame ed il cibo, quindi, è un modo
per parlare dell’essenza dell’umanità che a me
cristiana appare fortemente in contrapposizione
con la mutazione antropologica che la potenza
del capitalismo, il lavaggio del cervello attraverso i
mass media e i ”buoni esempi” stanno tentando
di sdoganare.
Il capitalismo ed il mercato, infatti, hanno fomentato una sorta di superomismo di bassa lega
che camuffa l’incompletezza dell’uomo e fa di tutto per negare la legge della relazione come fondante della nostra specie.
Il bisogno di cibo, quindi, è un aspetto della ricerca dell’altro, è desiderio dell’altro: di relazione
interpersonale autentica, fino ad anelito all’Altro:
l’Assoluto, l’unico che possa saziare per sempre
la “nostra fame” di un cibo che, come il digiunato-
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re di Kafka, non siamo in grado di individuare con
i sensi.
Oggi l’individuo monade, nonostante le apparenze create dalla pubblicità, è di fronte ad una
pienezza illusoria e ad un sostanziale vuoto.
Lo dimostrano, tra l’altro, i disturbi alimentari:
all’anoressica non importa eliminare il cibo, ma
fare esperienza del vuoto che possa personalmente controllare; alla bulimica non interessa il
cibo, ma l’azione maniacale dell’ingurgitare per
riempire un vuoto, di tutt’altra natura, di cui è portatrice.
Tralasciando gli aspetti patologici, anche
all’individuo “normale” e “sanamente” convertito
al consumismo e all’onnipotenza fittizia che questo trasmette, non interessa cosa consuma, ma
l’azione del consumare fine a se stessa proprio
perché l’abbondanza degli oggetti da consumare
ed il godimento di essi non produce, come ho già
detto, la soddisfazione e la
pienezza completa, la capacità di colmare il vuoto inscritto
nella nostra specie, ma una
nuova insoddisfazione che
genera ulteriore consumo.
Procedendo nell’analisi di bisogni sempre più profondi e
raffinati direi che mangiamo
per non morire e mangiamo
perché dobbiamo morire.
In Genesi, Dio, riferendosi
all’albero proibito, dice: “Non
mangiate, altrimenti morrete.”
E, dopo l’infrazione del divieto, usa in successione tre futuri: morirete, lavorerete, partorirete.
E’ così il tempo irrompe nella vita dell’uomo
attraverso le stagioni (agricoltura), attraverso la
gravidanza (nove lune) e tutto diviene attesa: attesa del compimento del frutto, attesa del compimento di una nuova vita, ma, anche, attesa della
morte.
L’umanità ha utilizzato diverse strategie per differire la morte e l’angoscia che essa procura: una di
queste è il convivio.
Viene in mente la cena a casa del liberto Trimalcione, durante la decadenza dell’impero romano:
in quelle pagine del Satyricon, nonostante lo sfoggio e l’abbondanza del cibo, spesso presentato in
una forma trompe l’oeil, la morte è continuamente
allusa o resa esplicita grazie alla descrizione
che Trimalcione fa del Mausoleo che sta facendo
costruire per sé.
Così pure i banchetti raffigurati da Pieter Bruegel il vecchio: quella scena di nozze contadine in
una stalla in cui tutti hanno un’espressione ebbra e
stordita di uno stato di beatitudine che fa dimenticare
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per qualche ora l’angoscia del bisogno o della fine.
Questo tipo di angoscia non ha nulla a che fare
con quella latente sotto l’abbondanza consumistica di
cibo e di relazioni umane frettolose e utilitaristiche che
ci rende incapaci di individuare, nella sarabanda carnevalesca in cui siamo caduti, i nostri reali bisogni; ci rende inadatti a tollerare il nostro vuoto e le frustrazioni
che il negarsi dell’altro ci procura: è un’angoscia disperante che ha come “cura” perversa il consumismo stesso come ben sa il marketing!
(Non è forse l’incapacità di sostenere la frustrazione nell’ambito affettivo o amoroso una delle cause dei
femminicidi?)
L’altra angoscia quella- ripeto- che è connaturata al
nostro stato mortale, è benefica presa di coscienza dei
nostri limiti; benefica perché spinge le persone- non
individui- a compiere innanzi tutto il viaggio interiore
della conoscenza di sé e di ciò di cui ha veramente
fame, l’accettazione degli insuccessi e delle disillusioni
così da formare esseri pienamente adulti che cercano
la relazione con l’altro- non più cibo, ma rapporto umano- come diverso da sé, con esigenze e peculiarità da rispettare
e comprendere a cui riconoscere
il diritto di negarsi al nostro de-
siderio.
Tommaso d’Aquino pone fra i
limiti umani che Gesù aveva assunto con la sua incarnazione
accanto alla morte, la fame e la
sete.
L’Ultima Cena è la tappa conclusiva di un percorso iniziato in Genesi: conclusiva, ma anche un
rovesciamento:
Gesù dice. « In verità, in verità vi
dico: se non mangiate la carne
del Figlio dell'uomo e non bevete
il suo sangue, non avrete in voi la
vita. Chi mangia la mia carne e
beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò
nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il
mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e
beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il
Padre, che ha la vita ha mandato me e io vivo per il
Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per
me ... » (Giovanni 6:53-57 )
Sono espressioni che riprendono sia l’idea del
farmaco che ci guarisce passando attraverso la bocca,
sia l’idea che noi diventiamo ciò che mangiamo: la metamorfosi.
Occorre a questo punto un breve excursus antropologico un po’ scandaloso: i documenti di tutte le civiltà attestano che la nostra specie è stata antropofaga.
Certamente oggi per noi questa pratica è un tabù indiscusso che fa tutt’uno con il disprezzo verso le società
“primitive” che ancora lo praticano.
Con il tempo e la civilizzazione questa pratica è stata
camuffata e trasferita nel mondo dei miti; tra questi il
più inerente a quanto vado trattando riguarda il dio Dioniso fatto a pezzi e divorato dalle baccanti.
Possiamo scandire, quindi, varie tappe nel nostro
divenire: il cannibalismo in base a cui l’uomo è – come ogni altro animale, buono da mangiare; i miti antro-
C.D.B. Chieri informa
15
pofagi trasferiti su una divinità; ma in entrambi i casi il
bisogno e il desiderio non vengono soddisfatti.
Infine l’ estrema metamorfosi alimentare rappresentata
dalla Comunione cioè dall’incorporarsi collettivo
dell’essenza della divinità.
Soltanto attraverso ciò i fedeli ottengono l’immortalità,
cioè la liberazione dal nesso corpo-cibo.
Ciò avviene attraverso la transustanziazione che
rappresenta la differenza fondamentale rispetto a ciò
che accadeva nei riti pagani o in altre religioni monoteiste poiché la transustanziazione non comporta violenza e, quindi, sensi di colpa per la distruzione del dio, né
il rischio della possessione da parte del dio stesso.
Il banchetto di Cristo, apparentemente materiale, svela
all’uomo la sua natura originaria che è divina e che
non può trovare sazietà se non in ciò che le è più simile: l’essenza di Dio che è amore incondizionato e gratutità testimoniati attraverso le azioni e le parole.
Lo conferma un altro testo della Sacra Scrittura:
nel libro del profeta Ezechiele, Dio gli comanda di ingoiare i rotoli della Legge:
“Figlio dell’uomo, mangia ciò
che hai davanti, mangia questo
rotolo, poi va e parla alla casa
di Israele.” Io aprii la bocca ed
egli mi fece mangiare quel rotolo, dicendomi: “Figlio dell’uomo,
tu nutri il ventre e riempi le viscere con questo che ti porgo.”
Io lo mangiai e fu per la mia
bocca dolce come il miele.”( Ezechiele 3,1-3)
Quindi soltanto in virtù della
parola di Dio, l’uomo può salvarsi da ogni forma di cannibalismo, capovolgendo la violenza
connessa all’incorporare in un
atto di liberazione delle proprie
forze psichiche.
L’impulso primordiale e bestiale viene rovesciato in “cultura” -ovvero parola- e la
voracità si trasforma in possibilità di risvegliare nei fratelli la stessa essenza.
In questo caso la lingua, come organo del corpo e manifestazione dello Spirito, riflette la libertà dell’essere
umano; nutrirsi dell’altro acquista il senso di amare
l’altro: la propria identità coincide pacificamente con il
nutrimento dell’altro e l’altro può darsi come nutrimento
e nutrirsi di noi senza innescare un meccanismo distruttivo.
Tale condizione è totalmente umana perché ha perduto
i tratti cannibalici, perché sa relazionarsi senza dipendenza, perché vede l’altro come pari e accetta la fame
di lui.
Insomma alla disperazione prodotta dalla consapevolezza della propria mortalità si sostituisce la pienezza
di vita che nasce dall’accettazione del confine e
del limite, creando la possibilità di comunicare vs
informare; empatia vs strumentalizzazione.
Grazie al banchetto di Cristo possiamo dire che si realizza homo homini salus.
Cettina Centonze
Gennaio 2015 - n. 60
PROLOGO
Dieci anni fa ho smesso di frequentare la
Chiesa.
Un lungo travaglio, una decisione sofferta.
Da allora ho vissuto alcuni momenti di nostalgia, ripensamenti, sensi di colpa.
Dopo gli ultimi eventi circa i candelabri di
Bertone, le polemiche tra integralisti e progressisti circa i crocifissi sull’altare del Duomo di Chieri devo dire che mi sono del tutto
rasserenato e convinto di aver preso una decisione saggia.
DESERTO DI FOLLA
Me ne sarei andato comunque.
Ma con quanti inutili banali rimpianti.
Ipnotizzato come tanti dal Libro
avrei seguito il gregge, le orme del pastore
fino al recinto, alla prigione finale.
Perché di prigione si tratta è inutile negarlo
ma scegliere la sentenza d’esilio
è affare da uomo libero.
C.D.B. Chieri informa
cercando una strada che forse non esiste.
EPILOGO
Se crediamo in Dio non bestemmiamolo
con le nostre giaculatorie, coi nostri rosari.
Non banalizziamolo nel templi di marmo.
Basta con raggi dorati, spade, cuori sanguinanti.
Basta gonfaloni e stendardi.
Il profumo del fiore e il tanfo del letame
sono tabernacolo,
il sorriso ed il pianto di un bambino
sono Betlemme,
ogni rantolo finale è Cristo sulla croce.
Il volto dell’uomo è il volto di Dio
e sovente non ha un bell’aspetto.
Una pennellata di rosa nel cielo
e uno schiaffo in faccia:
Logos e Caos, la solita storia.
La verità non è stampata su pagine di carta,
nel deserto di folla il miraggio divino.
Beppe Ronco
Un maestro di strada un giorno mi disse:
“non ripetere quello che è già stato detto,
non raccontare il già conosciuto.
Interroga l’ignoto, osserva la trasparenza,
cerca l’invisibile.
Non fidarti solo del Libro.”
Di lì sono partito per il viaggio:
ho smesso di guardare le figure,
di ascoltare le voci, di leggere le parole.
Ho cominciato a considerare gli spazi,
il vuoto che separa una cosa dall’altra.
Il panorama si è amplificato, è apparso
un mondo nuovo: ero un uomo diverso.
Dal Libro eran nate tre religioni divise
sempre in lotta fra di loro: milioni di vittime.
Decine di sottoreligioni con sfumature diverse,
tutte con sacerdoti e discepoli convinti.
Un bailamme confuso. Scritto sacro o demoniaco?
Camminare nel deserto è cosa ardua:
il vento sferzante, la solitudine, l’arsura.
Serpenti e locuste sono la compagnia
la tempesta sposta le dune, cancella tracce e
sentieri,
cambia continuamente il paesaggio.
L’uomo solo nel deserto si sente perduto.
È da qui che si può ripartire:
l’unico viaggio consentito,
la sola avventura possibile.
A settant’anni chiudere il Libro
e vagare da solo nel deserto
16
Voi che credete
voi che sperate
correte su tutte le strade, le piazze
a svelare il grande segreto...
Andate a dire ai quattro venti
che la notte passa
che tutto ha un senso
che le guerre finiscono
che la storia ha uno sbocco
che l'amore alla fine vincerà l'oblio
e la vita sconfiggerà la morte.
Voi che l'avete intuito per grazia
continuate il cammino
spargete la vostra gioia
continuate a dire
che la speranza non ha confini
David Maria Turoldo
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I 15 peccati della Chiesa
secondo Francesco
di Vito
Mancuso
in “la Repubblica” del 23 dicembre 2014
V
iva il Papa e abbasso la Curia!, verrebbe spontaneo gridare dopo il magnifico e severo discorso
che papa Francesco ha rivolto ieri ai responsabili della
Curia romana. Il discorso con un’analisi ammirevole e
coraggiosa elenca ben quindici malattie che secondo il
Papa aggrediscono l’organismo di potere vaticano, ma
in realtà si tratta di un’analisi perfettamente estendibile a tutte le altre nomenclature, a tutte le corti che nel
mondo si formano inevitabilmente attorno a chi detiene il potere. Ieri il Papa si è rivolto alla Curia romana,
ma le sue parole colpiscono praticamente tutti gli organi di potere dell’odierna
società, dalla politica
all’economia, dalle università
ai tribunali, in Italia e ovunque nel mondo. Tra le malattie della mente e del cuore dei
burocrati vaticani e non, il
Papa pone al primo posto ciò
che definisce (1) la “malattia
del sentirsi immortale o indispensabile”, vale a dire
l’identificazione del proprio
sé con il potere.
Seguono (2) “la malattia
dell’eccessiva operosità” e (3)
“l’impietrimento mentale e
spirituale”, intendendo con ciò l’atteggiamento di coloro che “perdono la vivacità e l’audacia e si nascondono sotto le carte diventando macchine di pratiche”.
Le altre malattie del potere, elencate dal Papa spesso
con termini colorati, sono: (4) l’eccessiva pianificazione, (5) il cattivo coordinamento che trasforma una
squadra in “un’orchestra che produce chiasso”, (6)
“l’Alzheimer spirituale” che fa
perdere la memoria dell’incontro con il Signore e consegna in balìa delle passioni, (7) la rivalità e la vanagloria, (8) la schizofrenia esistenziale che porta a vivere una doppia vita, di cui la seconda è all’insegna
della dissolutezza, (9) le chiacchiere e i pettegolezzi
che arrivano a un vero e proprio “terrorismo” delle
parole, (10) la divinizzazione dei capi in funzione del
carrierismo, (11) l’indifferenza verso i colleghi che
priva della solidarietà e del calore umano e che anzi fa
gioire
delle difficoltà altrui, (12) la faccia funerea di chi è
duro e arrogante e non sa che cosa siano l’umorismo e
l’autoironia, (13) il desiderio di accumulare ricchezze,
(14) i circoli chiusi e infine (15) l’esibizionismo.
C.D.B. Chieri informa
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Queste sono le numerose malattie che secondo il Papa
aggrediscono la Curia romana e i suoi responsabili.
Ma una domanda s’impone: è davvero così semplice
separare il Pontefice dalla sua amministrazione? La
Curia romana è una creatura dei Papi, è l’espressione
di ciò che per secoli è stato il Papato, governata dagli
infallibili successori di Pietro dei quali tra l’altro quasi
tutti coloro che hanno regnato nel ‘900 sono stati proclamati santi o beati. Com’è quindi possibile il paradosso di papi così vicini a Dio e tuttavia incapaci di
mettere ordine tra i più stretti collaboratori, scelti da
loro stessi? Come si concilia lo splendore dei pontefici
canonizzati con una curia che dipende da loro direttamente e che è così tanto malata?
La Curia romana non è piovuta in Vaticano dal cielo,
né è stata messa lì da qualche potentato straniero, ma
è sorta quale logica emanazione della politica ecclesiastica papale che ha fatto del Vaticano un centro di
potere assoluto, e non un organo di servizio come vorrebbe oggi papa Francesco. Se si vuole la coerenza
del ragionamento, indispensabile alla coerenza
della vita giustamente tanto
cara a papa Francesco, occorre concludere che i mali
della Curia romana non
possono non essere esattamente i mali dello stesso
potere pontificio.
Il papato per secoli ha concepito se stesso come potere assoluto senza spazio
per una minima forma di
critica e meno che mai di
opposizione, traducendo
fisicamente questa impostazione in precisi segni di spettacolare effetto quali il
bacio della pantofola, la sedia gestatoria, e la tiara
pontificia detta anche triregno tempestata di pietre
preziose. Chi lavorava in Curia respirava quotidianamente quest’aria e non c’è nulla da meravigliarsi se
poi, nella sua vita privata, tendesse a riprodurne la
logica circondandosi a sua volta di lusso e di potere. È
stato così per secoli e, come fa intendere il discorso di
papa Francesco, è così ancora oggi. Emblematico è il
caso del cardinal Bertone, per anni a capo della Curia
romana e ora autopremiatosi con un lussuoso superattico nel quale probabilmente si aggira fiero contemplando i frutti di un fedele servizio alla logica del potere.
L’impietrimento mentale e spirituale denunciato da
papa Francesco come malattia n. 3 non è altro che la
conseguenza di come nei secoli è stata interpretata la
figura del successore di Pietro. Quindi la riforma della
curia non può che condurre a una riforma del papato.
Avrà la forza papa Francesco per intraprendere questa
strada? La volontà, di sicuro, sì.
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L'appello
L
’arrivo del Papa «venuto dalla fine del mondo»
che assume il nome di Francesco presentandosi
non come Pontefice Massimo, ma come Vescovo di
Roma, provoca reazioni scomposte dentro la Curia vaticana che, falcidiata da scandali e corruzioni, considera
il Papa come corpo «estraneo» al suo sistema consolidato di alleanze col potere mondano, alimentato da
due strumenti perversi: il denaro e il sesso.
Dapprima il chiacchiericcio sul «Papa strano» inizia in
sordina, poi via via diventa sempre più palese davanti
alle aperture di papa Francesco in fatto di famiglia, di
«pastorale popolare» e di vicinanza con il Popolo di Dio
per arrivare anche – scandalo degli scandali – a parlare
con i non credenti e gli atei.
Dopo lo sgomento di un sinodo «libero di parlare»,
l’attacco frontale di cinque cardinali (Müller, Burke, Brandmüller,
Caffarra e De Paolis), tra cui il Prefetto della Congregazione della
Fede, ha rafforzato il fronte degli
avversari che vedono in Papa
Francesco «un pericolo» che bisogna bloccare a tutti i costi.
C.D.B. Chieri informa
po congelato. I clericali e i conservatori che gli si oppongono sono gli stessi che hanno affossato il concilio
e che fino a ieri erano difensori tetragoni del «primato
di Pietro» e dell’«infallibilità del Papa» solo perché i
Papi, incidentalmente, pensavano come loro.
Noi non possiamo tacere e con forza gridiamo di stare
dalla parte di Papa Francesco. Con il nostro appello alle
donne e agli uomini di buona volontà, senza distinzione
alcuna, vogliamo fare attorno a lui una corona di sostegno e di preghiera, di affetto e di solidarietà convinta.
La «svolta di Papa Francesco» non genera dubbi, al
contrario coinvolge e stimola la maggioranza dei credenti a seguirlo con stima e affetto. Il ministero del
Vescovo di Roma e la sua teologia pastorale suscitano
speranza e anelito di rinnovamento in tutto il Popolo di
Dio e il suo messaggio è ascoltato con attenzione da
molte donne e uomini di buona volontà, non credenti o
di diverse fedi e convinzioni.
Desideriamo dire al Papa che
non è solo, ma che, rispondendo al suo incessante invito,
tutta la Chiesa prega per lui
(cfr. At 12,2). È la Chiesa dei
semplici, delle parrocchie, dei
marciapiedi, la Chiesa dei Poveri, dei senza voce, dei senza
pastori, la Chiesa «del grembiule» che vive di servizio, testimonianza e generosità, attenta ai «segni dei tempi» (Matteo 16,3) e camminando coi tempi per arrivare in
tempo.
Rompendo una prassi di formalismo esteriore, durante gli auguri
natalizi, lo stesso Papa elenca
quindici «malattie» della Curia,
mettendo in pubblico la sua solitudine e chiedendo coerenza e autenticità.
Come risposta all’appello del Papa,
il giorno dopo, il 24 dicembre 2014, Veglia di Natale,
scelto non a caso, il giornalista Vittorio Messori pubblica sul Corriere della Sera «una sorta di confessione che
avrei volentieri rimandata, se non mi fosse stata richiesta», dal titolo «I dubbi sulla svolta di Papa Francesco», condito dall’occhiello: «Bergoglio è imprevedibile
per il cattolico medio. Suscita un interesse vasto, ma
quanto sincero?».
L’attacco è mirato e frontale, «richiesto», una vera dichiarazione di guerra, felpata in stile clericale, ma minacciosa nella sostanza di un avvertimento di stampo
mafioso: il Papa è pericoloso, «imprevedibile per il cattolico medio». È tempo che torni a fare il Sommo Pontefice e lasci governare la Curia. L’autore non fa i nomi
dei «mandanti», ma si mette al sicuro dicendo che il
suo intervento gli «è stato richiesto».
Ci opponiamo a queste manovre, espressione di un
conservatorismo, che spesso ha impedito alla Chiesa di
adempiere al suo compito «unico» di evangelizzare.
Papa Francesco è pericoloso perché annuncia il Vangelo, ripartendo dal Concilio Vaticano II, per troppo tem-
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Allo stesso modo, molti non
credenti, atei o di altre religioni, uomini e donne liberi,
gli esprimono pubblicamente la loro stima e la loro amicizia. La sètta di «quelli che portano vesti sontuose e
vivono nel lusso stanno nei palazzi dei re» (Luca 7,25)
e non possono stare con un Papa di nome Francesco
che parla il Vangelo «sine glossa».
Papa Francesco, ricevi il nostro abbraccio e la nostra
benedizione.
Seguono le firme
Chi condivide l’appello può firmare a questo link:
http://firmiamo.it/fermiamo-gli-attacchi-apapa-francesco
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C.D.B. Chieri informa
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Anselmo Palini - Marianella Garcia Villas.
“Avvocata dei poveri, difensore degli oppressi, voce
dei perseguitati e degli scomparsi” - editrice Ave,
Roma 2014, pp. 270, euro 12,00 - prefazione di Raniero La Valle, postfazione di Linda Bimbi
«Questo libro ripercorre, con grande partecipazione emotiva e con
sapiente penetrazione di fatti e circostanze, la vicenda umana, politica e religiosa di Marianella García Villas, avvocata dei poveri e
sorella degli oppressi, uccisa a 34 anni in El Salvador» (dalla prefazione di Raniero La Valle).
In qualità di presidente della Commissione per i diritti umani del
suo Paese, Marianella venne più volte in Italia a chiedere la solidarietà e il sostegno delle forze politiche, sindacali e sociali del nostro
Paese, come pure si recò in altri Stati e alla Commissione Onu per i
diritti umani.
Per questa sua opera di instancabile denuncia dei massacri e delle
violenze perpetrate dalla giunta militare al potere in Salvador, la
voce di Marianella venne messa a tacere per sempre.
Da monsignor Romero era stata confermata nella scelta della nonviolenza, della denuncia coraggiosa e intransigente ma disarmata, e
come lui pagò con la vita il proprio servizio alla causa dei poveri e
dei perseguitati
Poche settimane dopo il suo assassinio, Marianella venne ricordata
a Roma, in Campidoglio, alla presenza del Presidente della Repubblica Sandro Pertini e del presidente della Camera Nilde Jotti, oltre
a diversi altri esponenti del mondo politico italiano. In tale occasione le relazioni principali vennero affidate al senatore Raniero La
Valle e a mons. Luigi Bettazzi.
La figura di Marianella è stata presto dimenticata sia a livello internazionale che nel suo Paese e oggi è viva solamente presso alcune
realtà che si interessano di diritti umani e di nonviolenza. Questo
lavoro intende rappresentare un contributo affinché si possa togliere
dall’oblio il sacrificio di Marianella e ravvivare la memoria di questa martire della giustizia e della pace.
AGENDA CDB DI CHIERI
Chi volesse inviare lettere, articoli, o collaborare al giornalino, scriva a: Silvano Leso
e.mail: [email protected] - cell. 339.5723228
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La comunità cristiana di base di Chieri si ritrova ogni mercoledì alle ore 21 presso la
sede a Chieri - gli incontri sono aperti a tutti
L’eucarestia viene celebrata l’ultimo sabato o domenica di ogni mese
Il “Perdono comunitario” due volte all’anno, prima di Natale e prima di Pasqua
Lettura biblica. Una ricerca e una riflessione attraverso lo studio delle scritture ebraiche e cristiane libera da ogni condizionamento dogmatico o istituzionale:
quest’anno leggiamo Genesi
Per informazioni sulle serate e sulla comunità - telefonare a Maria 011.9472882 o al
339.5723228 - e.mail: [email protected] - altre informazioni su comunità ed iniziative sono presenti e aggiornate periodicamen te sul sito web:
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