3. Classificazione del riassorbimento osseo

RIABILITAZIONE IMPIANTO-PROTESICA DEI
SITI ATROFICI: ALTERNATIVE ALLA
CHIRURGIA RICOSTRUTTIVA
SIO - Società Italiana di Implantologia Osteointegrata
Autori: Eugenio Romeo, Stefano Storelli, Diego Lops
Indice:
1. Introduzione
2. Guarigione dell'alveolo post-estrattivo
3. Classificazione del riassorbimento osseo
4. Classificazione della qualità ossea
5. Preservazione alveolare
6. Short implants - impianti di lunghezza ridotta
7. Narrow implants - impianti di diametro ridotto
8. Protesi con estensione o cantilever
9. Conclusioni
10. Bibliografia
1. Introduzione
Gli attuali standard funzionali ed estetici delle protesi parziali a supporto implantare
sono stati oggetto di un costante miglioramento. La letteratura internazionale rende
attualmente disponibile un’ampia documentazione circa la prognosi di sopravvivenza
implantare a medio-lungo termine. L’odontoiatria moderna può di conseguenza
vantare tassi di successo e sopravvivenza implantare a medio-lungo termine che
vanno ben oltre il 90% (Bassi et al. 2013, Levin & Halperin-Sternfeld 2013, Del
fabbro et al. 2013, Buser et al. 2012) .
Pur tuttavia è di comune riscontro nella pratica clinica la difficoltà, se non addirittura
l’impossibilità, di posizionare impianti di dimensioni standard (altezza e diametro
pari o superiore rispettivamente a 10 e 4 mm) in siti edentuli con volume osseo
residuo insufficiente.
Molteplici tecniche chirurgiche (rialzo di seno mascellare, innesti ossei autologhi ad
onlay/inlay, trasposizione del nervo alveolare inferiore, osteogenesi distrazionale,
chirurgia mediante tecnica di splitting crest etc.) sono state perfezionate al fine di
garantire un adeguato volume osseo simultaneamente o precedentemente al
posizionamento implantare. Nondimeno tali procedure appaiono suscettibili di
maggiori rischi e costi per il paziente, oltre a presupporre in molti casi la necessità di
secondi siti di prelievo osseo, intra od extra-orali, e tempi di riabilitazione prolungati.
In alternativa a ciò è stato descritto l’impiego di protesi implanto-supportate con
estensioni, sebbene le indicazioni per questo tipo di riabilitazione appaiano limitate a
casi adeguatamente selezionati in base a fattori di ordine bio-meccanico correlati alla
sotto-struttura protesica (lunghezza dell’estensione) e al paziente (tipo di occlusione e
parafunzioni).
Notevole attenzione viene attualmente posta nei confronti degli impianti di
dimensione ridotta, la cui prognosi di successo e sopravvivenza risulta essere
paragonabile a quella degli impianti standard, laddove siano rispettati alcuni
prerequisiti di posizionamento e protesizzazione, quali la qualità ossea del sito, il tipo
di protesi e il numero di impianti di supporto.
Prima di procedere alla trattazione delle alternative terapeutiche è opportuno riportare
le dinamiche di determinazione delle atrofie ossee e la relativa classificazione
secondo gli attuali orientamenti della letteratura.
2. Guarigione dell'alveolo post-estrattivo
La presenza di un sufficiente volume di osso alveolare e di gengiva cheratinizzata è
un requisito essenziale per ottenere una riabilitazione implanto-protesica ideale. Il
riassorbimento della cresta alveolare dopo un'estrazione dentale è un processo
inevitabile, che si manifesta con alterazioni morfologiche sia dei tessuti molli che
dell'osso. Questo processo può essere di tale rilevanza da impedire il posizionamento
di impianti di dimensioni standard e in alcuni casi anche di impianti di dimensioni
ridotte. Le modificazioni della cresta, che in un primo momento sono legate alle fasi
di guarigione dell’alveolo post-estrattivo per riparazione della ferita estrattiva,
successivamente sono conseguenti al lento riassorbimento del tessuto osseo, dovuto
alla carenza di stimoli meccanici locali.
E' essenziale comprendere le fasi che conducono alla guarigione dell'alveolo dopo
un'estrazione dentale e al rimodellamento della cresta residua (Araujo et al. 2003,
2006; Nevins et al. 2006).
In seguito all’estrazione di un elemento dentario si ha una emorragia, a cui segue la
fisiologica attivazione dei processi di coagulazione, con la formazione di un coagulo
all'interno della cavità alveolare . Dopo trenta minuti l'alveolo è riempito da cellule
ematiche, siero e saliva. L'esame istologico a 24 ore dall'estrazione mostra la
presenza di fibroblasti e fibrina mentre l'area centrale del coagulo va incontro ad
emolisi. Entro due giorni dall'estrazione si viene a formare tessuto di granulazione
con neoformazione vascolare, fibroblasti, leucociti e macrofagi a partire dalla
componente connettivale dell'alveolo. Dopo quattro giorni il coagulo si è trasformato
in un intreccio di fibrina mentre dai margini della ferita gengivale si ha una
proliferazione epiteliale. A partire dalle aree ossee maggiormente danneggiate
durante l'estrazione si ha un’iperattività osteoclastica che porta al riassorbimento del
margine osseo. A una settimana l'alveolo è completamente riempito da tessuto di
granulazione, costituito da una rete vascolare e da tessuto connettivale neoformato,
con la formazione nella parte più apicale di tessuto osteoide. L'epitelio gengivale
prolifera sopra la rete di fibrina del coagulo. A tre settimane l'epitelio è ben
organizzato e al di sotto di esso si ha il rimodellamento osseo delle pareti alveolari
mentre nella porzione apicale si ha neodeposizione ossea. A partire dalla sesta
settimana il rimaneggiamento dell’osso neodeposto porta alla trasformazione
progressiva dell'osso fibroso in osso lamellare con neoformazione di spazi intertrabecolari. Dopo due mesi dall'estrazione l'alveolo è completamente guarito e
ricoperto da mucosa orale cheratinizzata. La maturazione delle trabecole ossee
prosegue fino a conformarsi alla morfologia dell'osso circostante. Nonostante la
crescita in senso coronale, l'osso neoformato non raggiungerà mai il livello originario
dell'alveolo prima dell'estrazione. I cambiamenti anatomici si verificano sia sul piano
orizzontale che su quello verticale, con conseguente riduzione in altezza e in
ampiezza della cresta. E’ stato dimostrato come questa riduzione, maggiore durante il
primo anno dopo l'estrazione, prosegua indefinitamente nel tempo anche se con un
riassorbimento inferiore,.
3. Classificazione del riassorbimento osseo
Per poter attuare un piano di trattamento implanto-protesico è indispensabile
classificare il grado di riassorbimento osseo dei mascellari. Nel corso degli anni,
numerose sono state le classificazioni quantitative del riassorbimento osseo, proposte
dai vari Autori, che hanno permesso di tracciare e rendere confrontabili protocolli
diversi. Tra queste quella maggiormente conosciuta e seguita è la classificazione
elaborata da Cawood e Howell nel 1988, i quali hanno documentato come il
riassorbimento osseo derivante dalla perdita di funzione legata all’assenza dei denti
segua modalità costanti e ripetibili, pur nella diversità tra individuo e individuo. Gli
autori, utilizzando un'analisi anatomica di tipo tridimensionale, hanno riscontrato che
il processo di riassorbimento è quasi totalmente confinato al processo alveolare,
mentre la parte basale non subisce cambiamenti significativi dopo l'estrazione.
Questa classificazione distingue sei classi di atrofia ossea, che di fatto sono gli stadi
che progressivamente si realizzano dopo la perdita degli elementi dentari:
-I classe: la cresta alveolare presenta elementi dentali
-II classe: la cresta alveolare presenta alveoli post-estrattivi
-II classe: la cresta alveolare è ampia e arrotondata, con adeguata altezza e spessore
-IV classe: la cresta alveolare è a lama di coltello, con altezza sufficiente ma spessore
insufficiente
-V classe: la cresta alveolare è appiattita, con altezza e spessore insufficienti
-VI classe ( solo mandibolare): la cresta presenta la scomparsa del processo alveolare
con riassorbimento a coppa.
Alcuni autori hanno recentemente proposto l'introduzione di una VII classe che
classifica le atrofie estreme, caratterizzate dal riassorbimento anche dell'osso basale.
Cawood e Howell sono arrivati per primi alla conclusione che il riassorbimento osseo
fosse diverso anche in funzione della sede in cui si manifestava. Nella mandibola il
riassorbimento osseo, nella regione intra-foramina, è quasi del tutto vestibolare e ha
un andamento orizzontale, mentre, posteriormente ai forami mentonieri, è
prevalentemente verticale. Nel tempo la mandibola edentula va in contro a un
riassorbimento di tipo centrifugo, che riduce l’osso residuo al solo osso basale
posizionato più esternamente rispetto alla cresta alveolare. Nel mascellare, invece, il
riassorbimento osseo è fin dall'inizio prevalentemente orizzontale sul versante
vestibolare di tutta l'arcata. Nel tempo il mascellare va incontro ad un riassorbimento
centripeto, che riduce l’osso residuo al solo osso basale posto internamente all’arco
della cresta alveolare. Nel complesso, il paziente edentulo su entrambe le arcate viene
a trovarsi in una condizione di terza classe scheletrica, con l’osso residuo
mandibolare posizionato vestibolarmente rispetto al mascellare superiore. Tale
osservazione clinica è di fondamentale importanza nel trattamento delle edentulie
totali dei mascellari.
4. Classificazione della qualità ossea
Se le classificazioni morfologiche sono determinanti nella formulazione del piano di
trattamento, di fondamentale importanza è anche la conoscenza della classificazione
della qualità dell'osso per densità e struttura, perché entrambi questi fattori
influiscono sulla scelta del tipo di impianto, sull'approccio chirurgico e sui tempi e le
modalità del carico protesico.
La densità ossea, infatti, non influenza solo la stabilità implantare nella prima fase
chirurgica, ma è determinante nella resistenza ai carichi masticatori dopo la
protesizzazione.
Nel 1985 Lekholm Zarb suddivisero in quattro classi la qualità del tessuto osseo in
base al rapporto tra osso corticale e osso spongioso nella sede presa in
considerazione.
-I classe (D1): osso compatto formato quasi esclusivamente da osso corticale
-II classe (D2): osso con spessa corticale compatta e densa trabecolatura interna
-III classe (D3): osso con corticale meno spessa e spongiosa meno densa
-IV classe (D4): osso con sottile corticale e trabecolatura rarefatta.
L'osso di tipo D1, che non si osserva praticamente mai nel mascellare superiore
mentre si riscontra nella mandibola a livello della sinfisi mentoniera, è poco
favorevole, a causa della ridotta vascolarizzazione, sia alla fissazione di un innesto
che al posizionamento implantare.
La qualità D2 è quella ideale, perché l'osso corticale è sufficientemente spesso per
assicurare la stabilità primaria e l’abbondante vascolarizzazione della spongiosa è in
grado di garantire un’adeguata riparazione ossea. Questa qualità, frequentemente
reperibile nella zona intra-foraminale, si presenta spesso anche nella parte posteriore
della mandibola e può essere osservata anche nel mascellare superiore, per lo più
nelle edentulie parziali.
L'osso D3, che presenta una vascolarizzazione della spongiosa inferiore a quella
dell’osso D2, è di più frequente riscontro nel mascellare in presenza di selle
edentule estese e presenti da molto tempo, ma si osserva spesso anche nella parte
posteriore della mandibola.
L'osso D4, riscontrabile quasi esclusivamente nella parte posteriore del mascellare,
presenta una corticale molto sottile, che non permette un’adeguata stabilità primaria
degli impianti, e una spongiosa poco densa e scarsamente vascolarizzata.
Benché sia evidente l'importanza che assume nella formulazione del piano di
trattamento la diagnosi della quantità e della qualità ossea nel sito dell’intervento,
decisiva è la valutazione da parte dell'operatore della densità ossea, che si percepisce
meccanicamente in sede intra-operatoria, per la conferma o la correzione del piano di
trattamento iniziale..
5. Preservazione alveolare
Poiché è documentato il rapporto esistente tra il successo del posizionamento
implantare e la presenza di un’adeguata quantità ossea, è importante cercare di
contrastare nella maniera più efficace il riassorbimento post-estrattivo della cresta
alveolare.
Nel 2012, all’interno della “Consensus Conference” dell’EAO (European Academy
of Osteointegration), un gruppo di studio si è occupato di definire il concetto di
“socket preservation” in relazione ai risultati pubblicati in letteratura (Wang et al.
2012).
Il meccanismo alla base del riassorbimento della cresta alveolare e di conseguenza le
azioni messe in atto per contrastarlo coinvolgono una complessa successione di
eventi.
L'isolamento della ferita secondo i principi della rigenerazione guidata dei tessuti con
membrane previene l'invaginazione dell'epitelio orale nell'alveolo, favorendo la
rigenerazione ossea. La presenza di una trama osteoconduttiva permette agli
osteoblasti di migrare e di formare osso in maniera più efficiente nello spazio postestrattivo. Inoltre le caratteristiche biochimiche e strutturali dei biomateriali da
riempimento evocano una risposta cellulare dai tessuti adiacenti, fornendo un
ambiente favorevole all’iniziale riparazione ossea.
Attualmente i più comuni metodi chirurgici consistono nel collocare un innesto
all'interno dell'alveolo e nel ricoprirlo con una membrana o con una struttura di
collagene. Taluni collocano una spugna di fibrina nell'alveolo con o senza una
copertura. Tutte queste procedure possono essere seguite da un avanzamento del
lembo, allo scopo di ottenere una chiusura completa o parziale e favorire così una
guarigione per prima intenzione. Inizialmente veniva dato grande rilievo
all’importanza di una ricopertura della membrana con i tessuti molli, per evitarne
l'esposizione all'ambiente orale. Tuttavia, il sollevamento di un lembo mucoperiosteo,
provocando l’interruzione del flusso vascolare, può accentuare, se paragonato ad una
estrazione effettuata senza lembi, il rimodellamento osseo.
L’innesto osseo nel sito estrattivo può essere ricoperto anche con un innesto di
tessuto molle prelevato dal palato o utilizzando la tecnica del lembo di tessuto
connettivale peduncolato nei siti post-estrattivi posteriori del mascellare superiore.
I materiali per sostituzione ossea devono permettere l'osteogenesi e costituire una
trama per le cellule ossee in crescita. Un materiale ideale per la preservazione
alveolare dovrebbe evitare la riduzione di volume che si verifica dopo un’estrazione
dentale e rimanere in situ per un tempo sufficiente da permettere la formazione ossea.
Nel tempo sono stati utilizzati vari materiali da innesto (osso demineralizzato e
disidratato, osso autologo, idrossiapatite, calcio solfato, granuli di corallo) così come
vari tipi di membrane in PFTE, in collagene, in acido polilattico o poliglicolico .
Come materiale da riempimento del sito estrattivo, onde prevenire il collasso dei
tessuti molli durante il processo di guarigione, sono state utilizzate anche spugne di
acido polilattico, poliglicolico o di collagene, le quali possono essere impiegate per
veicolare la proteina 2 ricombinante morfogenetica dell'osso umano o il peptide
sintetico P15 legante.
Quando le pareti dell'alveolo sono intatte si possono usare innesti osteoconduttivi
senza l’impiego di membrane barriera.
L'uso dei materiali da riempimento negli alveoli post-estrattivi è stato però sottoposto
a critica, poiché interferirebbe con i normali processi di guarigione nei siti destinati
ad accogliere gli impianti. Numerosi studi hanno infatti dimostrato che residui di
particelle di materiale da innesto permangono nell'alveolo a distanza di sei, nove mesi
dall'inserimento, anche se non è stato riportato l'effetto di questo materiale residuo sul
successo e la sopravvivenza a lungo termine dell'impianto.
Esistono anche procedure chirurgiche minimali che costituiscono la cosiddetta
“Socket-seal surgery”, o chirurgia di sigillo dell’alveolo.
Clinicamente è evidente come la guarigione dei siti post-estrattivi possa risultare in
una considerevole perdita di altezza e spessore della cresta alveolare,
compromettendo la realizzazione di una protesi su impianti esteticamente e
funzionalmente accettabile. Il concetto di preservazione alveolare è quindi di grande
importanza per la predicibilità e il successo della riabilitazione implantare e, sebbene
non risolva totalmente il problema del riassorbimento post-estrattivo, riesce in parte a
ridurre la necessità di ricorrere a procedure di rigenerazione ossea, soprattutto nei
settori anteriori.
6. Short implants - Impianti di lunghezza ridotta
Numerosi sono gli studi presenti in letteratura, che riportano una sopravvivenza a
medio-lungo termine per gli impianti di lunghezza ridotta assolutamente
sovrapponibile a quella degli impianti di lunghezza “standard” (Corbella et al. 2013,
Monie et al. 2013, Srinivasan et al. 2013, Atieh et al. 2012, Annibali et al. 2012).
Tuttavia, poiché in letteratura vengono definiti “short” gli impianti di lunghezza
compresa tra 5 e 8 mm, questi dati debbono essere interpretati con cautela in
considerazione della non omogeneità del campione preso in esame.
Cionondimeno la prognosi di assoluta affidabilità (>93% a medio-lungo termine)
degli impianti di lunghezza pari a 8 mm ha portato la comunità scientifica a
considerare tali impianti non più “short” ma “standard”, per cui possono essere
definiti “short” solo gli impianti di lunghezza pari o inferiori a 6 mm (Fig.1).
La possibilità di ridurre sempre più la lunghezza delle “fixture” ha consentito di
incrementare la quantità dei siti edentuli trattabili con la chirurgia tradizionale
nell’ottica di una semplificazione del trattamento implantare, che comporti una
riduzione della morbilità per il paziente, un contenimento dei costi e non richieda una
particolare abilità da parte dell’operatore.
Figura 1: impianto di lunghezza ridotta (6 mm).
Poiché le più recenti revisioni sistematiche della letteratura attribuiscono una maggior
quota di fallimenti per gli “short implants” con superficie macchinata e posizionati
nel mascellare superiore, è ormai sistematico l’impiego di impianti con superfici
sottoposte a micro e macro trattamenti onde ovviare a tale evidenza clinica (Sun et al.
2011, Neldam et al. 2010, Romeo et al. 2004 and 2006).
Un altro aspetto dibattuto sull’opportunità di selezionare impianti corti, soprattutto
nei settori diatorici, è quello del rispetto di un corretto rapporto tra corona protesica e
impianto. Studi di biomeccanica e analisi ad elementi finiti hanno evidenziato come
uno sfavorevole rapporto tra la lunghezza dell’impianto e l’altezza del restauro
protesico possa portare a sollecitazioni meccaniche a livello della porzione coronale
della “fixture”, con conseguente riassorbimento osseo peri-implantare (Bayraktar et
al. 2011), che comprometterebbe ulteriormente il rapporto corona protesicaimpianto. Queste supposizioni sono smentite dalla clinica e dai dati riportati dalle più
recenti revisioni sull’argomento, poiché non è stata dimostrata sia per impianti di
lunghezza standard sia per quelli di lunghezza ridotta, alcuna associazione tra
fallimento implantare e sfavorevole rapporto corona protesica – impianto (Anitua et
al. 2013, Sotto-Maior et al. 2012, Birdi et al. 2010, Blanes 2009). Un altro fattore,
valido anche per impianti di lunghezza standard, che viene preso in considerazione
come causa di fallimento per gli “short implants” è il sovraccarico occlusale delle
corone protesiche.
Riguardo infine alla necessità di splintare tra loro o con “fixture” standard gli
impianti corti, ancora una volta le conclusioni degli studi di biomeccanica e le analisi
ad elementi finiti non trovano conforto nell’evidenza riportata da studi clinici
prospettici e revisioni sistematiche (Monie et al. 2013, Srinivasan et al. 2013, Atieh et
al. 2012, Yilmaz et al. 2011), nei quali non viene riscontrata alcuna differenza
statisticamente significativa in termini di sopravvivenza tra “short implant” singoli e
splintati tra di loro o con altri impianti standard. Il fattore fondamentale da tenere in
considerazione è la realizzazione di un’occlusione bilanciata, che non favorisca
sovraccarichi meccanici a livello del complesso fixture-abutment.
In conclusione, l’impiego di impianti di lunghezza ridotta è da considerarsi come
sicuro e predicibile a medio-lungo termine. Nel prossimo futuro sarà possibile
disporre in letteratura di una adeguata quantità di dati clinici sulla performance di
impianti sempre più corti (≤ a 6 mm). Tale trend trova giustificazione nella necessità
sopra citata di limitare sempre più il ricorso a terapie di rigenerazione ossea, le quali
aumentano l’invasività del trattamento, i costi e i tempi necessari alla riabilitazione
del sito edentulo, nell’ottica della semplificazione del piano di trattamento.
7. Narrow implants - Impianti di diametro ridotto
L’impiego di impianti di diametro ridotto ha mostrato una prognosi di assoluta
predicibilità al pari degli impianti di diametro standard, in un follow-up a mediolungo termine (Sohrabi et al. 2012). Le “fixture” di diametro ridotto rappresentano
una scelta terapeutica finalizzata alla semplificazione del piano di trattamento nei siti
edentuli con uno spessore osseo deficitario, purché la quota di osso residuo
disponibile circonferenzialmente all’impianto sia di almeno 1 mm.
La possibilità di disporre di spessori ossei buccali maggiori di 1mm diviene
particolarmente importante nelle aree al alta valenza estetica, allo scopo di ottenere
una maggior stabilità dei tessuti peri-implantari vestibolari, dal momento che la
recessione di tessuto duro, cui segue quella di tessuto molle, può ingenerare
inestetismi, soprattutto nei pazienti con un sorriso gengivale. Una tale evenienza
clinica è verosimilmente più accettabile se si verifica nei settori laterali o posteriori,
che non sono direttamente coinvolti nel sorriso e per i quali vi è una minore richiesta
di estetica da parte del paziente.
Si rende elettiva di conseguenza la scelta dei “narrow implants” non solo in
sostituzione degli incisivi laterali superiori, degli incisivi inferiori e dei premolari, sia
superiori che inferiori, ma anche degli incisivi centrali superiori, al fine di preservare
una quota di tessuto osseo vestibolare residuo in grado di garantire il maggior
supporto possibile ai sovrastanti tessuti molli, dal momento che le “fixture” di
diametro ridotto richiedono operazioni di preparazione del sito meno invasive.
Poiché l’attuale letteratura internazionale riporta documentazione di prognosi a
medio-lungo termine su diametri minimi di circa 3.3mm, le creste ossee edentule di
spessore inferiore a 5-6 mm non possono essere trattate con chirurgia standard, ma
richiedono l’adozione di procedure rigenerative pre-implantari o contestuali al
posizionamento dell’impianto (Sohrabi et al. 2012).
Le attuali raccomandazioni delle principali “Consensus Conference” e delle revisioni
sistematiche prevedono l’impiego di impianti di diametro di almeno 3.3 mm nei
settori anteriori e posteriori, per la riabilitazione delle edentulie sia singole che
multiple.
Risulta interessante la tendenza delle ditte produttrici a mettere a disposizione del
clinico “fixture” di diametro sempre più ridotto, anche se tale trend non appare
supportato dalla letteratura, in quanto l’introduzione sul mercato di impianti di
diametro pari o inferiore a 3.0 mm risulta essere relativamente recente (Fig.2).
Figura 2: Impianti di diametro ridotto in sede diatorica mandibolare.
Malgrado i dati prognostici per impianti singoli e “multi-unit" attestino una
percentuale di sopravvivenza a medio-lungo termine superiore al 94%, va comunque
considerato che l’impiego di “narrow implants” singoli nei settori posteriori deve
prevedere un’attenta valutazione occlusale (Cordaro et al. 2013). Uno schema
occlusale con contatti poco controllati in lateralità, infatti, può favorire il sovraccarico
sulla porzione più vestibolare della corona protesica che, risultando non
adeguatamente supportata a livello della componente “abutment-fixture” può favorire
complicanze protesiche, quali decementazioni o svitamento/frattura della vite di
connessione abutment-fixture (Benic et al. 2013, Mijiritsky et al. 2013, Wang et al.
2013). Tali raccomandazioni sono comunque frutto di considerazioni fatte alla luce di
complicanze protesiche riportate da un numero limitato di articoli, che richiedono
quindi di essere confermate sulla base di un’ampia casistica clinica e non solo di studi
in vitro e di analisi ad elementi finiti.
L’impiego di impianti di diametro e lunghezza ridotti (Bidra & Almas 2013), allo
stato attuale non supportato da evidenza scientifica, deve essere adottato con molta
cautela, soprattutto nei settori diatorici particolarmente sollecitali dai carichi
masticatori. La motivazione di ciò non va ricercata in un incremento del tasso di
fallimento implantare, ancora tutto da dimostrare nonostante sia indubbia la
diminuzione di superficie implantare a contatto con l’osso ricevente, quanto piuttosto
nell’aumentata possibilità di complicanze protesiche minori. Sono necessari a tal fine
dati clinici consistenti a medio-lungo termine sui risultati delle riabilitazioni
protesiche supportate da questo tipo di impianti.
8. Protesi con estensione o cantilever
In protesi implantare, una riabilitazione con estensioni viene utilizzata per la
risoluzione di casi in cui non sia possibile inserire un numero di impianti tale da
consentire la costruzione di un manufatto protesico tradizionale (Fig. 3).
Figura 3: Protesi fissa con estensione distale
Allo stato attuale il ricorso alle protesi con estensioni a supporto implantare è indicato
qualora vi sia una limitazione anatomica al posizionamento degli impianti in uno o
più siti della cresta edentula da riabilitare. Le cause che determinano questa
evenienza possono essere varie: deficit ossei in senso verticale (pneumatizzazione del
seno mascellare, superficializzazione del nervo alveolare inferiore e dell’emergenza
del nervo mentoniero, a causa di un notevole riassorbimento di osso crestale),
orizzontale (carenza ossea trasversale, deiscenze post estrattive, anatomia sfavorevole
della cresta ossea) o associati.
Figura 3: protesi fissa con estensione distale.
Riguardo la performance biomeccanica di protesi con estensione, molte nozioni ed
ipotesi sono state riportate in letteratura. A tal proposito sono indicativi gli studi di
Rangert et al. (1989, 1995, 1997) su forze e momenti applicati a impianti Brånemark
a sostegno di protesi in estensione, in cui viene ribadita la buona resistenza
implantare ai carichi masticatori di direzione assiale rispetto alle singole “fixture”,
mentre è sottolinea l’eventualità di fallimento, inteso come perdita di
osteointegrazione, qualora queste vengano sottoposte a forze generanti momenti
flettenti. Per momento flettente s’intende la risultante di una forza applicata a un
punto, per il braccio di leva: a parità di forze sviluppate durante la masticazione o la
deglutizione, il momento flettente aumenterà sia all’aumentare della lunghezza
dell’estensione per carichi assiali sia all’aumentare della distanza tra il punto di
contatto occlusale e la giunzione “abutment-fixture”.
I risultati di tali studi portano così alla considerazione che estensioni di lunghezza
eccessiva aumentano il rischio di dislocamento della protesi a supporto implantare
sottoposta a carichi per lo più assiali agenti sulle estensioni stesse.
Queste conclusioni non sono state confermate in letteratura, per la mancanza di studi
clinici randomizzati e controllati sull’argomento (Pjettursson & Lang 2008, Zurdo et
al. 2009), anzi sono state smentite da diversi studi in vivo ed istologici su animali (
Ogiso et al. 1994, Gotfredsen et al. 2001, Miyata et al. 2002). Questo trend è stato
successivamente confermato dagli studi clinici controllati di Wennström et al. (2004)
e Hälg et al. (2008). Wennström e collaboratori hanno analizzato complessivamente
50 protesi parziali fisse su impianti con e senza cantilever e non hanno evidenziato
differenze significative (P=0.31) in termini di riassorbimento osseo peri-implantare
(MBL) tra impianti a supporto di protesi con e senza estensione (rispettivamente 0.49
mm vs. 0.38 mm di MBL) a 5 anni dal carico. Dal confronto degli indici MBL delle
“fixture” più vicine alle estensioni con quelli di “fixture” di controllo è emerso che,
sebbene il riassorbimento esibito dalle “fixture” più vicine alle estensioni fosse
superiore a quello delle” fixture” di controllo non è stata individuata nessuna
differenza statisticamente significativa (95% CI: -0.02 -0.087; P>0.05), con una
stimata differenza di MBL annuo di appena 0.003 mm. Risultati sovrapponibili sono
stati recentemente ottenuti da Hälg e collaboratori i quali, in uno studio clinico
controllato su 54 protesi parziali fisse su impianti, di cui 27 con estensione, hanno
rilevato, dopo un periodo di osservazione medio di 5.3 anni, indici MBL di protesi
con e senza estensione rispettivamente di 0.23 mm (SD -0.63mm) e 0.09 mm (SD 0.43mm).
La presenza di estensioni e il loro effetto sui livelli ossei peri-implantari è stata
inoltre studiata, specificatamente nei settori posteriori, da Blanes et al. (2007) i quali,
in uno studio prospettico su protesi parziali fisse impianto-supportate, non hanno
evidenziato alcuna influenza delle estensioni distali e mesiali sull’osso marginale,
dopo un periodo di osservazione di 6 anni.
Infine Romeo e coll. (2009), in uno studio di coorte a 12 anni su 59 protesi parziali
con estensione supportate complessivamente da 116 impianti, hanno confrontato il
riassorbimento osseo peri-implantare delle “fixture” vicine al cantilever con quelle
più distali nella stessa protesi, non rilevando differenze statisticamente significative
(P>0.05) con un range di MBL da 0.8 a 1.2 mm a 12 anni dal carico (follow-up
medio di 8.2 anni). Venivano così confermate le evidenze del precedente studio
prospettico a7 anni (Romeo et al. 2003).
Il concetto che il sovraccarico meccanico della protesi su impianti porti
necessariamente al riassorbimento osseo peri-implantare è di conseguenza
controverso. Infatti, in condizioni cliniche, l’impatto biologico e la categorizzazione
del carico come “eccessivo” rimane non chiara e la sua trasposizione al
riassorbimento osseo peri-implantare non è stata dimostrata. Diversi altri fattori come
il fumo (Lindquist et al. 1997) e il sito di posizionamento, mandibolare o mascellare,
(Jemt & Lekholm 1993) sono stati significativamente associati a un incremento
dell’indice MBL per impianti a supporto di tali protesi. In accordo con questa
osservazione, entrambi gli studi caso-controllo sopracitati di Hälg e Wennström
hanno utilizzato un’analisi statistica tipo “multivariate model” per eliminare
l’interferenza di altri fattori legati alla sopravvivenza implantare, non evidenziando
effetti significativi delle estensioni sulle variazioni dell’osso marginale periimplantare.
Alla luce di tali acquisizioni scientifiche appare opportuno supportare le conclusioni
delle revisioni sistematiche di Zurdo et al. (2009) e Aglietta e coll. (2009) sulla
protesi con estensione implanto-supportata:
- un notevole numero di variabili correlate alla configurazione stessa della sottostruttura protesica risultano influenzarne la capacità di carico, quali l’estensione
bucco-linguale della protesi, l’altezza della sotto-struttura protesica, il numero, la
posizione e l’inclinazione degli impianti di supporto, la lunghezza dell’estensione;
- il design e la superficie implantare influenzano la capacità di supporto ossoimpianto;
- non è attualmente dimostrato l’effetto negativo dell’estensione sul riassorbimento
osseo intorno agli impianti di supporto.
Di conseguenza la determinazione del potenziale effetto del carico biomeccanico sul
riassorbimento osseo peri-implantare resterà non del tutto chiarita fino a quando non
lo saranno anche le altre variabili di cui sopra.
Circa la lunghezza delle estensioni raccomandata, non esistono dati reperibili in
letteratura, perché né in studi clinici controllati né in studi in vitro è stata verificata in
modo esaustivo la lunghezza dell’estensione oltre la quale aumenti in modo
significativo il rischio di complicanza biologica (riassorbimento osseo periimplantare) a carico degli impianti di supporto o tecnica (frattura travata e/o
svitamento delle viti di connessione impianto-abutment) a carico della protesi. Queste
considerazioni sono valide per protesi fisse complete e parziali. Tawil e coll. (2007)
hanno monitorato, mediamente per 53 mesi, 262 “short implant” per studiare
l’influenza di alcuni parametri protesici sulla sopravvivenza e sulle complicanze a
livello implantare, non individuando nella. lunghezza delle estensioni un fattore
peggiorativo del riassorbimento osseo peri-implantare.
Per protesi parziali fisse i dati reperibili in letteratura si riferiscono a lunghezze delle
estensioni consigliate comprese tra 9 e 11 mm (Hälg et al. 2009, Wennström et al.
2004), mentre in Romeo et al. (2003) i valori medi delle estensioni erano pari a circa
6 mm. In generale per protesi parziali fisse si raccomanda una sola corona protesica
in estensione, e la “premolarizzazione” dei molari in estensione.
In merito alla prognosi a medio-lungo termine, la meta-analisi di Aglietta e coll.
(2009) ha riportato una sopravvivenza degli impianti a supporto di protesi fisse con
estensione sovrapponibile a quella delle tradizionali protesi fisse. La relativa
sopravvivenza stimata a 5 e 10 anni ammontava al 98.5 e 97.1%, rispettivamente.
Nello studio di coorte di Romeo et al. (2009), successivo alla revisione di Aglietta
(2009), gli indici di successo e sopravvivenza di 116 impianti a supporto di 59 protesi
con estensione, con follow-up medio di 8.2 anni (range 3-12 aa), erano
rispettivamente del 90.5 e 100%. Tali dati sono lievemente superiori, anche se non
significativamente, a quelli riportati da Aglietta, a fronte però di una percentuale
significativamente superiore di problematiche tecniche (danneggiamento
dell’integrità della protesi con estensione, degli “abutment” o degli impianti di
supporto), che era pari al 43.3% delle protesi osservate a 12 anni. Per le protesi fisse
con estensioni a supporto implantare Aglietta e collaboratori hanno calcolato un tasso
cumulativo di frattura implantare dell’1.3% (95% CI: 0.2-8.3%) e del 2.5% (95% CI:
0.4-15.8%) dopo un periodo di osservazione rispettivamente di 5 e 10 anni e per
quanto riguarda le complicanze tecniche legate alla sovrastruttura protesica hanno
individuato nella frattura del rivestimento estetico l’evento di più frequente riscontro
in tutti gli studi clinici esaminati. Tale complicanza è stata stimata del 10.3% a 5 anni
e del 19.6% a 10 anni, mentre non sono state riportate fratture della sotto-struttura
protesica, neppure a livello del connettore con l’estensione. È stato altresì osservato
un tasso cumulativo di frattura del moncone protesico o della rispettiva vite di
connessione pari al 2.1% (95% CI: 0.9-5.1%) e al 4.1% (95% CI: 1.7-9.7%) dopo un
periodo di osservazione rispettivamente di 5 e 10 anni.
Il tasso di successo protesico del 57.7% a 12 anni su un campione di 59 protesi fisse
con estensione, come conseguenza di ben 22 fratture del rivestimento estetico è stato
riportato da Romeo et al. (2009), i quali hanno giustificato una simile frequenza con
la variazione dei contatti occlusali nel tempo e la relativa necessità di porre attenzione
al corretto bilanciamento occlusale a ogni visita di controllo.
9. Conclusioni
Se il trattamento implantare può essere considerato come routinario nella pratica
clinica quotidiana, è altresì vero che il trend universalmente seguito è quello di una
semplificazione delle procedure, giustificata dalla necessità di permettere al paziente
l’accesso a cure con minori complicanze post-operatorie, riduzione della morbilità,
tempi di trattamento sempre più rapidi e costi il più possibile contenuti. Fatta questa
premessa, per non ricorrere a tecniche operatore-dipendenti (trasposizione del nervo
alveolare inferiore) o che prevedano associazione di procedure di rigenerazione ossea
guidata (GBR verticale, rialzo del pavimento del
seno mascellare), l’alternativa terapeutica è rappresentata, in caso di altezza della
cresta ossea insufficiente al corretto posizionamento di una “fixture” di dimensioni
standard, dal posizionamento di impianti di lunghezza ridotta oppure da protesi con
estensioni, in presenza invece di un deficit di spessore da impianti di diametro ridotto.
Ognuna di queste soluzioni riabilitative va attentamente valutata nelle sue peculiarità
al fine di sfruttarne i vantaggi, tenendo altresì in conto le relative limitazioni di
impiego e le eventuali contro-indicazioni.
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