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hæcceit@s web. Rivista online di filosofia, cultura e società/ISSN 2282-5762
Primo Levi, Ad ora incerta. Poesie. Garzanti, 2004.
Nota di lettura di Marco Nicastro
Sebbene Franco Fortini in una delle note critiche inserite alla fine della raccolta convenga - del resto
in accordo con l’Autore - sulla “debolezza” qualitativa e tematica di queste poesie, personalmente
sono convinto del contrario: si tratta di veri componimenti poetici, liricamente consapevoli, se
intendiamo per poesia e per lirica la capacità di esprimere profondamente la tragicità e l’intensità
della vita attraverso un proprio autentico timbro ed una propria peculiare modalità d’espressione (in
tal senso la poesia non è strettamente legata al verso e si può essere molto poetici anche scrivendo
in prosa; ciò emerge molto chiaramente dagli scritti più ispirati del Levi prosatore).
È il dolore, spesso direttamente espresso ma quasi mai reso banale dall’impeto del dire, a costituire
il tema dominante della raccolta Ad ora incerta: «Compagno stanco ti vedo nel cuore / ti leggo negli
occhi, compagno dolente. / Hai dentro il petto fame freddo niente / Hai rotto dentro l’ultimo
valore.» (Buna). La ferita che l’autore si porta dentro dopo l’esperienza del lager indirizza
l’andamento tematico della raccolta, e determina in una certa misura anche la struttura intima di
molti componimenti - anaforica, ripetitiva, quasi profetica - necessaria ad esorcizzare il male
soggettivamente vissuto e a lasciarlo vivido e presente nella mente del lettore: «Considerate se
questo è un uomo, / che lavora nel fango / che non conosce pace / che lotta per mezzo pane / che
muore per un sì o un no.» (Shemà).
La prima parte della silloge è profondamente segnata da quella terribile esperienza che ha lasciato
cicatrici emotive difficili da condividere a parole: «questo e altro ci veniva in mente / mentre
continuavamo a cantare; / ma erano cose come le nuvole, / e difficili da spiegare.» (Cantare)
Quanto patito nel lager nazista ha scavato nell’autore un abisso dal quale emerge solo un senso di
povertà, di fredda desolazione, di disperazione - «Compagno vuoto che non hai più nome / uomo
deserto che non hai più pianto» (Buna) - che non lasciano altra prospettiva che la morte: «Vorrei
credere qualcosa oltre, / oltre che morte ti ha disfatta.» (25 febbraio 1944).
La deportazione e la vita nel campo di prigionia sono state forse paradossalmente più terribili per le
scorie che hanno lasciato al sopravvissuto che per quanto direttamente sofferto in quei momenti. Il
ricordo, infatti, ritorna inesorabile nonostante la vita si sia ormai normalizzata, e c’è sempre il
timore, quasi la certezza, che qualcuno possa tornare ad ordinare perentoriamente di alzarsi all’alba
rompendo la tranquillità da poco riassaporata (Cfr. Alzarsi) o che si possano riudire i rumori di un
nuovo rastrellamento: «Prima che nuovamente ci desti, / noto, davanti alle nostre porte, / il
percuotere di passi ferrati» (Attesa).
La paura più grande è quella di non poter più tornare come prima, dopo aver assistito alla
degradazione degli uomini dietro al filo spinato: «Io so cosa vuol dire non tornare. / A traverso il
filo spinato / ho visto il sole scendere e morire» (Il tramonto di Fossoli); si insinua il dubbio che
non si possa più sperare nella possibilità di ritrovare una sicurezza minima e un caldo contatto
umano: «È giunto il tempo di avere una casa / o rimanere a lungo senza casa. / È giunto il tempo di
rimanere soli / oppure a lungo rimarremo soli.» (Da R.M. Rilke).
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La speranza e la gioia di vivere relegate ormai in epoche così remote da non sembrare mai esistite.
È questo l’aspetto più tragico del destino di chi sopravvive: non riuscire a dimenticare la felicità
gustata anche solo saltuariamente prima di quell’esperienza e, al contempo, sentirsi ormai troppo
distante da essa, sentire di non poterla riabbracciare più, tanta desolazione, angoscia e disperazione
ha lasciato la violenza delirante subita - «L’universo ci assedia cieco, violento e strano. / il sereno è
cosparso d’orribili soli morti / sedimenti densissimi d’atomi stritolati» (Le stelle nere).
Il poeta si trova a dover convivere con un senso di futilità delle vicende umane e di impossibilità di
una redenzione degli uomini, anche ultraterrena: «Grumi di nulla, sono pure i nostri simili. / Forse
non esiste più il sole / forse sarà buio per sempre /[…] forse è questa l’eternità che ci attende: / non
il grembo del Padre, ma frizione.» (Via Cigna).
La fiducia nella possibilità di comunicazione e intesa profonda tra gli uomini si incrina, dopo le
violenze viste e subite: «Voci che parlano e non sanno più dire / voci che credono di dire, / voci che
dicono e non si fanno intendere: […] / puro brusio per simulare / che il silenzio non sia silenzio»
(Voci); «Ognuno è nemico di ognuno / spaccato ognuno dalla propria frontiera, / la mano destra
nemica della sinistra» (Partigia).
Dinnanzi a tanta sofferenza, probabilmente inelaborabile, l’ombra della morte diviene un elemento
costante nell’interiorità dell’autore, presentandosi inizialmente con tratti persecutori: «Ti seguirò ai
confini del mondo, / cavalcando sul tuo cavallo / macchiando il ponte della tua nave / con la mia
piccola ombra nera» (Il canto del corvo II). Poi, col passare degli anni, essa inizia ad essere attesa e
anche vagheggiata, a volte consapevolmente come in Approdo: «Felice l’uomo che ha raggiunto il
porto, / che lascia dietro sé mari e tempeste / i cui sogni sono morti o mai nati», o in Verso valle:
«La nostra metà del mondo naviga verso l’inverno. / E presto avranno fine tutte le nostre stagioni.
/[…] È fatto tardi per vivere e per amare, / per penetrare il cielo e per comprendere il mondo.»; altre
volte solo inconsciamente, celata dietro un’ansia di ricerca e di scoperta: «Non trattenetemi amici,
lasciatemi salpare. / Non andrò lontano, solo fino all’altra sponda; /[…] Marinai, obbedite, spingete
la nave in mare» (Plinio).
Pur non avendo la raccolta un’unità d’argomenti - prendendo spesso spunto da aspetti molto
contingenti e frammentari della quotidianità - essa si fonda, a mio avviso, sul tentativo di
elaborazione del dolore lasciato in eredità dal lager, e più ancora del senso di solitudine, di
svuotamento interiore, di sfiducia nell’umanità. Una tematica che nella prima parte della raccolta,
composta dalle poesie cronologicamente più vicine all’esperienza della prigionia, è affrontata più
esplicitamente, mentre nella seconda parte, a distanza di decenni dall’accaduto, prenderà forme più
mediate, quasi pudicamente nascoste attraverso un’identificazione del poeta con cose, piante,
animali, a dirci, non senza una punta di ironia, che l’universo intero porta le stimmate di quella
violenza. Così, leggiamo di un vecchio albero sotto la cui «scorza pendono crisalidi / morte che non
saranno mai farfalle» (Cuore di legno); e di un’imbarcazione in disarmo parcheggiata in un porto
«sola tra le molte nuove / il suo legno è lebbroso, il ferro fulvo di ruggine» con una rigonfia pancia
di legno «gravida di nulla» (In disarmo); oppure di un malmesso ponte che non si sa se «metta
conto di vivere l’indomani» perché «nel cavo del suo pilastro / filtra lento un veleno / un malefizio
vecchio che non descrivo» (Un ponte); di un’agave di montaliana memoria, col suo «fiore altissimo
e disperato, / brutto, legnoso, rigido, ma teso al cielo.», suo peculiare tragico «modo di gridare che /
morrò domani» (Agave); e infine di un dromedario, chiuso nel suo mondo: «Non c’è servo che non
abbia il suo regno. / Il mio regno è la desolazione; / non ha confini» (Il dromedario).
Unico elemento che può contrastare la disperazione e la solitudine e che si pone come aggancio alla
vita è l’amore per una donna (Lucia Morpurgo, poi sua moglie, cui è dedicata emblematicamente la
silloge), che Levi descrive con versi stupendi e tremendamente toccanti in una delle più belle liriche
d’amore della poesia italiana moderna: 11 febbraio 1946. In essa il poeta indica nella speranza di
una donna quasi misticamente intesa («cercavo te nelle stelle») l’unico elemento in grado di
rappacificarlo nel rapporto con il creato («perché mancavi, nelle lunghe sere / meditai la bestemmia
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insensata») e soprattutto con la vita futura («Sono tornato perché c’eri tu»). Sempre su questo tema,
nella poesia Avigliana il poeta gioca sull’analogia tra il nome dell’amata (Lucia) e la luce, così
agognata, così preziosa: «Guai a chi spreca la luna piena / che viene solo una volta al mese»; e
sull’analogia di quel nome con le lucciole, «miti e care» donatrici di luce, capaci di far «svaporare
ogni pensiero».
È possibile che Primo Levi non si trovasse completamente a proprio agio nello scrivere versi come
invece nel prosare: lo testimonia l’ampio intervallo temporale che copre questa sua unica raccolta,
segno della rarità dei momenti di poesia nella sua attività di scrittore. Lo testimonia anche la
necessità di distendere il verso assoggettandolo sempre ai concetti da esprimere, non dando, salvo in
rari casi, particolare rilievo agli aspetti sonori o analogici, né puntando su una particolare
ricercatezza nella strutturazione sintattica. Il suo è spesso un argomentare in versi (specie nella
seconda parte della raccolta) che quindi vengono ad assumere un ritmo prosastico; rari sono gli
enjambements (che possono creare un rallentamento e un effetto di sospensione e di attesa di
senso). Ogni pensiero inizia e si conclude nello spazio di un verso dando a molti componimenti un
ritmo serrato (nonostante la prevalenza di versi lunghi); l’autore però riesce a compiere il miracolo
stilistico di non sacrificare a questa severa lucidità d’analisi, a questo argomentare nitido e a volte
intriso di amara ironia, la delicatezza lirica e l’intensità emotiva del dire. Un argomentare quindi,
come dicevo inizialmente, profondamente poetico, capace di commuovere il lettore e di colpire la
sua immaginazione con la freschezza di certe descrizioni. La bellezza insita in queste poesie, sparse
nel corso di una vita segnata dalla tragedia, ci fa pensare a quanto la scrittura possa essere una via
per contenere - almeno temporaneamente, almeno parzialmente - le angosce più terribili di un
uomo, riuscendo nello stesso tempo a svolgere un’importante funzione civile: lasciare memoria di
eventi, vissuti e ricordi dolorosissimi, quasi inesprimibili, ma fondamentali per la continuità della
vita emotiva di una collettività.
Diceva Primo Levi in Se questo è un uomo, a proposito della scrittura: «Si può chiamare lavoro,
questo mio? Lavorare è spingere vagoni, portare travi, spaccare pietre, spalare terra, stringere con le
mani nude il ribrezzo del ferro gelato. Io invece sto seduto tutto il giorno, ho un quaderno e una
matita […] I compagni del Kommando mi invidiano, e hanno ragione; non dovrei forse dirmi
contento? Ma non appena al mattino io mi sottraggo alla rabbia del vento e varco la soglia del
laboratorio, ecco al mio fianco la compagna di tutti i momenti di tregua: la pena del ricordarsi, il
vecchio feroce struggimento di sentirsi uomo, che mi assalta come un cane nell’istante in cui la
coscienza esce dal buio. Allora prendo la matita e il quaderno, e scrivo quello che non saprei dire a
nessuno.» (corsivo mio).
Fortunatamente per noi, egli trovò in sé la lucidità e la forza per dirlo.
Nota biobibliografica
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Marco Nicastro (Caltagirone 1979), psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico, vive e lavora a Padova. Ha
pubblicato la raccolta di versi Trasparenze (Oèdipus, 2013) e, in ambito clinico, il diario Pensieri psicoanalitici
(Arpanet, 2013).
Collabora con le riviste culturali Hæcceit@s web e Kasparhauser. Sui contributi sono apparsi su Psychiatryonline.it.
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