“LA BIBBIA: PAROLA DI DIO PER L’UOMO” (Note non riviste dall’autore) INTRODUZIONE Il Papa raccomandava alcuni anni fa di portare per le vacanze, tra gli altri libri da leggere, il libro della Bibbia. Lo fa ancora nella “Tertio millennio adveniente” (n. 40), in preparazione al Giubileo: “I cattolici tornino con rinnovato interesse alla Bibbia”. Qui si colloca il perché di questo corso. Si tratta, infatti, di un libro poco conosciuto, anche dagli stessi cristiani, che, nonostante l’apertura del Concilio Vaticano II, mantengono con esso un rapporto distante, fatto di timore, che non è quello santo con cui accostarsi a leggerlo, a causa della sua non-comprensione. Accanto ad evidenti motivi storici, quali la difesa anti-modernista, la pastorale ecclesiastica non recepì, purtroppo, le indicazioni della “Divino Afflante Spiritu” di Pio XII (1943), la quale, ricalcando la “Provvidentissimus Deus” di Leone XIII (1893), oltre a rilanciare gli studi biblici secondo la moderna metodologia scientifica, proponeva ed invitava a corsi biblici per la conoscenza e la diffusione dei libri su cui si fonda la fede cristiana, quelli della Bibbia appunto, e preferì chiudere i medesimi alla lettura personale, financo a considerare in maniera assurda peccato la loro lettura. Il Concilio Vaticano II e la lungimiranza di Giovanni XXIII e di Paolo VI abbattono gli ultimi baluardi di un edificio conservatore ormai in frantumi e la Bibbia torna ad essere nelle mani di tutti, almeno in linea di principio. La Bibbia rimane oggi il libro più acquistato e meno letto. Nonostante le numerose traduzioni (CEI, TOB, in lingua corrente) ed i tanti sussidi messi a disposizione per una migliore comprensione di essa, la Bibbia rimane un libro difficile, oscuro, non di facile comprensione. Si preferisce abbandonarlo dopo le prime pagine, mentre si relega la sua lettura ai brani della Messa domenicale, i quali non si comprendono neppure. Ciò a causa di tanti fattori, quali la perdita di familiarità con il modo di pensare e, dunque, letterario (cioè modo di scrivere) della Bibbia stessa e, in non pochi casi, la superficialità e la trascuratezza dei pastori, che spesso non si impegnano a studiare prima loro medesimi e a spezzare poi al popolo santo di Dio la Parola. Questo corso risponde alla insistente richiesta di buona parte del popolo di Dio, desideroso di conoscere e capire la Bibbia, non soltanto da un punto di vista intellettuale, come dato culturale e scientifico, ma anche e soprattutto dal punto di vista del cuore e della fede, come sacramento di quella Parola di Dio che come afferma san Paolo in 1 Tessalonicesi, opera in colui che crede. Scopo del corso non è una lettura biblica né tanto meno una lectio divina, ma una introduzione alla lettura della Bibbia. Spiegando il processo ed il contesto di formazione di libri sacri nella loro divisione interna alla medesima Bibbia, ed illustrando le diverse forme e i vari generi letterari adottati dagli autori sacri, questo corso intende facilitare l’accostamento personale alla Bibbia, fornendo piste e chiavi di lettura senza tralasciare la lettura vera e propria di alcuni brani, proposti anche dall’uditorio attraverso domande in merito. Ciò perché, avveratasi la profezia di Amos (8, 11-12) che così predice: “Ecco, verranno giorni, dice il Signore Dio, in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola del Signore. Allora andranno errando da un mare all’altro e vagheranno da settentrione a oriente, per cercare la parola del Signore, ma non la troveranno”, possa conpiersi oggi la profezia di Geremia (31, 34): “Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri dicendo: “Riconoscete il Signore”, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore”. Ascoltiamo oggi la sua voce per entrare nel suo riposo e dare ragione così della speranza che è in noi a quanti ce lo chiedono e a quanti travisano le medesime parole della scrittura (fondamentalismo e spiritualismo). 2 ALCUNE NOTE DI TEOLOGIA FONDAMENTALE La Bibbia è il sacramento della Parola di Dio: la Parola di Dio non si identifica con la Bibbia. La Parola di Dio è Dio stesso nella persona di Gesù: la Bibbia ne è il sacramento. Come noi teniamo il Corpo e il Sangue di Gesù nelle mani sotto le specie del pane e del vino, così teniamo la Parola di Dio nelle mani sotto le specie della Scrittura, della Bibbia: e così pure la leggiamo e la proclamiamo liturgicamente. Attraverso la sua Parola, Dio si rivela all’uomo parlandogli e incontrandolo nella sua situazione storica: ciò con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere illuminino le parole e le parole le opere (Dei Verbum 2). Ecco perché la Parola di Dio che è Cristo, si è fatta carne e nella Bibbia si segue la logica dell’Incarnazione nell’intreccio di parola umana e parola divina che svela il mistero di Dio, vicino e insieme imprendibile. La Parola di Dio si lascia rinchiudere nei limiti e nelle contraddizioni della parola umana: ma proprio questo scandalo per ogni uomo e per ogni cristiano fa sì che Dio rimanga Altro, sempre al di là di ogni parola e di ogni concetto definitorio, eppure presente con forza nella storia di ogni uomo e di tutti gli uomini di tutti i tempi. Lo scandalo della croce che rivela Gesù come Cristo e, dunque, la sua figliolanza divina e la sua divinità nel rapporto con il Padre e nel dono dello Spirito (rivelazione della Trinità), si ripete necessariamente, e doveva così essere per l’identità Cristo-Parola di Dio, nella caduta chenotica della parola nella Scrittura, nella traccia scritta, realtà simbolica di presenza-assenza, di pienezza-svuotamento. La Dei Verbum (DV) esprime chiaramente quanto detto. Inoltre, la Costituzione Dogmatica mette in luce alcuni punti riguardanti la Parola di Dio e la Scrittura che qui brevemente riassumo. 3 Sacra Tradizione e Sacra Scrittura Riconosciuti la natura divina della Parola ed il carattere rivelatorio della medesima in Cristo, la DV afferma la coesistenza di una tradizione orale e di una scritta della medesima Parola: la seconda non è il deposito scritto della prima solamente, e la prima non è diversa od opposta alla seconda (DV 9). Sacra tradizione e Sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della Parola di Dio affidato alla Chiesa (DV 10), sono tra loro congiunte e comunicanti e formano in certo qual modo una sola cosa, tendendo allo stesso fine. Infatti la Sacra Scrittura è la Parola di Dio in quanto è messa per iscritto sotto l’ispirazione dello Spirito Santo; la Sacra Tradizione trasmette integralmente la Parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli e ai loro successori affinché questi, illuminati dallo Spirito di unità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano (DV 9). Se alcune cose tramandate oralmente sono state poi fissate per iscritto a formare la Bibbia, altre hanno trovato posto in scritti non biblici, in atti liturgici ed in consuetudini. Ciò vale sia per l’Antico Testamento e l’ambiente giudaico sia per la Chiesa. Per il primo si ha: Mosè ⇒ Bibbia: Tanak e altri scritti ⇒ rabbini con scritti Per il secondo si ha: Mosè ⇒ Cristo ⇒ Apostoli ⇒ Bibbia ⇒ Padri, Magistero, Liturgia (Credo). La continuità è data dalla successione apostolica con i Vescovi per la Chiesa. La nostra fede si basa su questa successione: noi crediamo sulla testimonianza di altri che hanno visto, udito e toccato con mano; testimonianza che facciamo nostra attraverso una catena di tradizioni che ha carattere di sacralità religiosa grazie all’intervento dello Spirito Santo (Battesimo, Cresima, Eucaristia e Ordinazione episcopale). La tradizione progredisce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito Santo: la comprensione degli eventi e delle parole divine cresce con la riflessione e lo studio dei credenti, con la loro contemplazione, con la predicazione (8). 4 L’ispirazione La Bibbia è ispirata: autore ne è lo Spirito Santo. “Per la composizione dei libri sacri Dio scelse degli uomini, di cui si servì nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte” (DV 11). Il concetto di una parola ispirata è presente nel popolo ebraico e negli autori neotestamentari: per il primo: Is 34,16 nel “libro di Jhwh”, probabilmente una prima raccolta di profezie isaiane, presenta “la bocca del Signore e il suo Spirito”; Ne 9,3.20 attribuisce la Torah allo Spirito di Dio; GF (verso il 95 d. C.): “Tra noi non è permesso a tutti di scrivere la storia, ma soltanto i profeti raccontarono con chiarezza i fatti lontani e antichi per averli appresi mediante ispirazione divina (kata ten epinoian ten apo theou mathonthon)e quelli contemporanei per esserne testimoni. Per questo non esiste tra noi un’infinità di libri discordi e contraddittori, ma 22 soltanto che abbracciarono la storia di tutti i tempi e che sono giustamente considerati come divini.” (CA I,8, 37-38). per il secondo: Mc 12,36: “Davide, mosso dallo Spirito Santo, ha detto”; At 1,16; 4,25 ancora su Davide ispirato; Eb 3,7 introduce il Sal 95,7-11 con l’espressione “Come dice lo Spirito Santo”. Testi biblici fondanti l’ispirazione: a) 2Tm 3,14-16: “ispirata da Dio”, un aggettivo verbale che ha significato passivo come risulta da un confronto con la letteratura ellenistica per ciò che concerne l’uso del termine, un hapax biblico, sia perché lo Spirito agisce come soggetto di ispirazione nei confronti di persone e realtà. b) 2Pt 1,16-21: momento di riconoscimento delle scritture proprie del cristianesimo attraverso la prova della Trasfigurazione e del carattere ispirato della Scrittura che servono a spiegare il ritardo della parusia. Si afferma così il carattere ispirato della S. S. (lo Spirito Santo spinge gli uomini a parlare in nome di Dio, la natura dell’ispirazione, che è un’azione di Dio in e per mezzo degli uomini, non un’azione umana, il bisogno di un’autorità divinamente ispirata per l’interpretazione medesima della S.S. Le 5 annotazioni sul carattere ispirato delle antiche Scritture vengono formulate in un momento in cui il canone della Chiesa apostolica comincia ad apparire articolato nelle sue due grandi sezioni. (vd. 1Tm 5,18 che cita come Scrittura Lc 10,7 e 2Pt 3,16 che accosta le Lettere di Paolo alle altre Scritture). I Padri: I Padri si impegnarono a sostenere: a) Dio come Autore: S. Agostino scrive: “Come l’unico e vero Dio è il creatore dei beni temporali e dei beni eterni, così egli medesimo è l’autore di entrambi i Testamenti, poiché il Nuovo è figurato nel Vecchio e il Vecchio è figurato nel Nuovo” (Contra Adversarios legis et prophetarum 1,17,35), per cui si contrastavano le eresie gnostiche, marcionite e manichee, che opponevano i due testamenti come fossero due economie di salvezza diverse; b) l’uomo come strumento di Dio: strumento musicale nel quale si soffia (Atenagora), cetra toccata dal plettro (Anonimo, Cohhortatio ad Grecos 8), non sotto un’alienazione mantica ed estatica simile agli oracoli pagani come affermava Montano; contro di lui Girolamo scrive: “Non è vero, come si immagina Montano con le donne insipienti, che i profeti abbiano parlato in estasi, così da non sapere ciò che dicevano” (Prologo ad Is. In PL 24,19); vd. DAS p. 6; c) la Scrittura come manifestazione della condiscendenza (sunkatabasis) di Dio e sua lettera: concezione nata con Origene e sviuluppata dal Crisostomo, per il quale essa è “l’apparire e il mostrarsi di Dio, non come egli è, ma come può essere visto da colui che è capace di tale visione, offrendo il suo aspetto alla debolezza di chi lo guarda” (De Incomprehensibili Dei natura: PG 48,722A). La sua affermazione è ripresa dalla Divino Afflante Spiritu: “In effetti, come il Verbo sostanziale di Dio si è fatto simile agli uomini in tutto, eccetto il peccato (Eb 4,15), così anche le parole di Dio, espresse con lingua umana, si sono fatte somiglianti al linguaggio umano in tutto, eccettuato l’errore. In questo consiste quella condiscendenza del provvido nostro Dio, che già S. Giovanni Crisostomo 6 con somme lodi esaltò e più volte asseverò trovarsi nei Libri Sacri” (p. 6 ripreso da DV 13). I Concili Puntano la loro attenzione nel tempo su: a) L’ORIGINE DIVINA DEI DUE TESTAMENTI E DIO QUALE AUTORE: Concilio I di Toledo (400 circa): “Se qualcuno afferma e crede che c’è un Dio dell’antica Legge e un altro Dio del Vangelo, sia anatema”: è la più antica professione di fede sul carattere ispirato dei due testamenti; Statuta Ecclesiae Antiquae (fine V sec.): “Se egli crede che Dio è l’unico e identico autore dell’AT e del NT, cioè della Legge, dei Profeti e degli Apostoli” (può essere ordinato vescovo) Concilio di Firenze (XVII ecumenico) nel Decreto per l’unione con la Chiesa cattolica da parte dei Giacobiti copti ed etiopi monofisiti in data 4 febbraio 1442 vi aggiunge l’ispirazione: “La Santa Romana Chiesa professa che un solo , identico Dio è autore dell’AT e del NT, cioè della Legge, dei Profeti e del Vangelo, perché i santi dell’uno e dell’altro Testamento hanno parlato sotto l’ispirazione del medesimo Spirito Santo. Essa accetta e venera i loro libri, che vengono indicati con questi titoli…”; b) IDENTICA NATURA DIVINA DI TUTTI I LIBRI (contro i Riformatori che avevano adottato l’AT secondo il canone ebraico, escludendo i “deuterocanonici” scritti in greco): Concilio di Trento nel Decreto sui libri sacri e sulle Tradizioni da ricevere, Sessione IV, 8 Aprile 1546 (vd. fotocopia allegata p. 406). Il Tridentino riprende la formulazione di Dio quale autore dei libri dell’AT e del NT; usa per i libri biblici l’espressione “sacri e canonici”, cioè ispirati e normativi; usa il verbo 7 dictare non solo per i libri biblici, ma anche per la tradizione orale, con il significato qui non di “dettare”, ma “prescrivere, insegnare, suggerire”. c) DEFINIZIONE DOGMATICA DELL’ISPIRAZIONE: Concilio Vaticano I in Dei Filius (24 Aprile 1870), cap. 2 De rivelatione, e canone 4: “La Chiesa ritiene i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento sacri e canonici, non perché, composti per iniziativa umana, siano stati approvati dalla sua autorità, e neppure soltanto perché contengono la Rivelazione senza errore, ma perché scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio come autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa”. Ci si oppone qui alla teoria dell’approvazione susseguente (identifica ispirazione e canonicità: un libro composto con le sole capacità umane poteva divenire ispirato qualora la Chiesa lo riconoscesse tale e lo inserisse nel canone: un libro è ispirato perché è canonico) sostenuta dal benedettino Daniele von Haneberg, Vescovo di Spira (+1876) e a quella dell’assistenza negativa (identifica ispirazione e inerranza: l’ispirazione è volta a far evitare errori) sostenuta da Bonfrère e altri. d) SVILUPPO DELLA DOTTRINA DELL’ISPIRAZIONE SINO AL VATICANO II: La Providentissimus Deus di Leone XIII (18 Novembre 1893) e la Divino afflante Spiritu di Pio XII (30 Settembre 1943). La prima, nel contesto dell’inerranza, stabilisce che (vd. allegato p. 410): il rischio qui è di far coincidere Dio con l’agiografo quale autore letterario, giacchè l’influsso ispirativo di Dio interessa tutto il processo psicologico che conduce all’opera letteraria nei suoi tre momenti, intellettivo, volitivo e operativo, cioè conoscenza, decisione di oggettivare letterariamente ed esecuzione. Lo stesso concetto è ripreso da Benedetto XV nell’Enciclica Spiritus Paraclitus (1920). La seconda DAS rivaluta l’agiografo come strumento vivo (vd. allegato p. 410). In questo Pio XII rivaluta la categoria di instrumentum tipicamente tomista; p. Lagrange distinguerà allora tra causa principale, Dio, e causa strumentale, 8 l’uomo, fra le quali non esiste contrapposizione. Rahner parlerà di Dio come autore dei libri, in quanto autore della Chiesa apostolica come norma oggettivata per mezzo di testimonianze scritte e orali. L’agiografo è l’autore letterario, Dio l’autore quale causa agente. Congar afferma contro Rahner che la Chiesa aveva la consapevolezza di possedere delle Scritture che ne fissavano per iscritto la fede e che esse erano redatte da singoli con il carisma dell’ispirazione: gli agiografi sono veri autori e non operai della Chiesa. Benoit parla di analogie dell’ispirazione, situando l’ispirazione biblica nel contesto carismatico. Sviluppando la sua intuizione. Grelot distingue: 1. carisma profetico nell’AT e apostolico nel NT per annunziare la Parola di Dio; 2. carisma funzionale, di cui godettero quelli che intervennero per conservare e trasmettere la Parola; 3. carisma scritturistico, per fissare per iscritto la Parola. Non sappiamo come si leghino gli ultimi due. A. Schoekel studia il concetto di ispirazione agganciandolo a quello della creazione letteraria in tre tempi: raccolta di materiali, intuizione, esecuzione. L’ispirazione interviene negli ultimi due: l’ispirazione biblica è essenzialmente un carisma di linguaggio. L’ispirazione si estende fino alla formulazione materiale dei concetti con parole umane che analogicamente sono parole di Dio Il Canone La tradizione fa conoscere alla Chiesa il canone integrale di libri sacri attraverso la regola della fede: un libro è canonico se risponde alla fede della comunità che lo legge e che l’ha tradotto (cfr. DV 8). Canone significa appunto “norma” (Gal 6, 14-16). Nei primi secoli della Chiesa con l’espressione “canone della verità” si indica il nucleo centrale della dottrina apostolica, in base al quale si giudica la verità di alcuni insegnamenti. Soltanto nel IV sec. il termine canone indica l’elenco delle Scritture. Atanasio nel 367 nella Lettera festale distingue tra kanonizomena e apokryfa e fornisce l’elenco dei libri canonici dell’Antico e del Nuovo Testamento, per quest’ultimo di 27 9 libri e così lo riprenderà Trento, come prima Eusebio aveva distinto fra gli endiathkos, i “libri testamentari”, tre gruppi: omologoumena, libri da tutti accettati; antilegoumena, libri discussi da molti; notha, cioè spuri. Dopo il Concilio di Trento, per distinguere i libri non accolti nel canone dei Riformatori, Sisto da Siena (+1569) introdusse la terminologia di protocanonici e deuterocanonici, questi ultimi assai discussi per ciò che concerne la loro canonicità prima di essere accolti dalla Chiesa. I deuterocanonici sono 7 per l’AT: Tb, Gdt, 1 e 2Mac, Bar, Sir, Sap, Dn 13-14, Est 10,4—16,24; e 7 per il NT: Eb, Gc, Gd, 2 e 3 Gv, 2 Pt, Ap: vd. Tabet 86.92). Per i deuterocanonici dell’At la discussione si avviò dal canone chiuso adottato dagli ebrei che riscosse la simpatia delle comunità cristiane viventi a contatto con quelle ebraiche. Inoltre il timore che gli apocrifi penetrassero nella pratica ecclesiale fece sì che alcune chiese non accettassero se non i libri sicuri, che presentavano una tradizione stabile e ferma. La discussione si concluderà nel V/VI sec. allo stesso modo i deuterocanonici del NT: le difficoltà di comunicazione e la diversità culturale non facilitavano la trasmissione degli scritti, che rimanevano presso la comunità alla quale erano destinati, gli apocrifi facevano accettare difficilmente libri non consolidati dalla tradizione, il fatto che tali lettere giustificassero alcune tesi degli eretici ne rese timido l’uso. Il canone indica dunque la lista ufficiale di quei libri che la Chiesa accoglie e riconosce come facenti parte della sua fondazione a comunità di fede; in quanto canonici quei libri servono come norma profetica e apostolica di ciò che è proprio e legittimo nella trasmissione della verità rivelata e nella strutturazione della vita cristiana. Un libro è canonico perché è ispirato. In tal caso esso diventa normativo. La Bibbia è “norma normans non normata” Un primo canone delle Scritture ebraiche è dato nel prologo del Sir con le tre parti Torah, Profeti e Scritti, questi ultimi non definitivi, cui si deve aggiungere quello di Flavio Giuseppe in Contra Apionem 1,8 (Vd. Fabris p. 384), che conta 22 libri in corrispondenza delle lettere dell’alfabeto, mentre l’apocrifo 4Esdra 14,18-47 menziona 10 24 libri. La discussione sulla canonicità dei libri del terzo gruppo cominciò a quietarsi soltanto dopo il 70 d. C., quando cioè l’ebraismo sentì la concorrenza del nascente movimento cristiano che fissava anch’esso un canone di libri sacri, includendovi i deuterocanonici presenti nella LXX. Quest’uso da parte cristiana ha fatto ritenere che vi fosse un canone alessandrino distinto e diverso da quello palestinese, ipotesi smentita dalla critica sia perché la redazione della LXX abbraccia circa tre secoli, il che indica la non esistenza di un canone rigido delle Scritture ebraiche, sia perché i codici differiscono sulla presenza o meno di un libro nella LXX medesima. Inoltre non esisteva un canone rigido per l’ambito palestinese per ciò che concerne gli Scritti, la terza parte della Bibbia ebraica: lo dimostra Qumran con la presenza di Bar 6, Tb e Sir e il fatto che Jamnia non stabilì rigidamente un canone per gli scritti, ma solo per Torah e profeti. Infatti Qo e Ct furono ancora oggetto di discussione, mentre il Sir fu letto (un rotolo ebraico del Sir è stato ritrovato nel 1964 a Masada, ultima roccaforte della resistenza ebraica contro i romani). I criteri seguiti a Jamnia, che escluse i libri scritti in greco, furono i seguenti: a) antichità del libro (prima del profeta Malachia) b) libro scritto in ebraico c) conformità del libro alla dottrina farisaica Gli autori cristiani ritengono subito i libri dell’AT come canonici, ma la questione è più complessa. 2Pt 3,15 parla di un Corpus paulinum, Giustino verso la metà del II sec. testimonia dell’uso liturgico di Profeti e Vangeli o Memorie degli Apostoli, il Diatessaron di Taziano composto a Roma tra il 170 e il 180 d. C. dice di una presenza dei 4 Vangeli riconosciuti come canonici, ma la dicitura NT è attribuita a Tertulliano nel 200. Importante per i testi canonici del NT è il Canone Muratoriano dal nome del suo scopritore L. A. Muratori che lo rinvenne nel 1740 in un manoscritto dell’VIII sec. della Bibbia Ambrosiana proveniente da Bobbio. L’elenco, il più antico dei libri del NT, è mutilo dell’inizio e forse della fine. Pare sia databile attorno al II sec. d. C.; il luogo di composizione sembra essere Roma, la lingua il greco e il latino. Sconosciuto l’autore, difficile l’attribuzione a Ippolito (vd. Fabris 389). Il frammento sostiene il carattere normativo dei 4 Vangeli, degli Atti degli Apostoli, di tredici lettere 11 paoline, di Gd e 1-2 Gv, dell’Ap. Non include Eb, 1-2 Pt, Gc e 3Gv, mentre accetta come cristiano il libro della Sapienza. In questo giocò molto l’eresia di Marcione (rifiutava l’AT e del NT leggeva solo 10 lettere di Paolo, tranne le Pastorali ed Ebrei, e il Vangelo di Lc, epurato dai rimandi alla Legge di Mosè) e degli gnostici come pure il contatto tra comunità ebraiche e comunità cristiane. Alcuni autori optarono poi per il canone ebraico (Origene, Atanasio, Cirillo di Gerusalemme, Girolamo), altri (Agostino) per quello ampio comprendente i deuterocanonici giacchè usati nella liturgia di numerose Chiese e importanti per la dottrina e la vita. I concili di Ippona (393) e di Cartagine (397 e 419) sancirono il canone ampio, confermato da papa Innocenzo I nel 405, ma tali pronunciamenti non furono ritenuti definitivi. Lo stesso accadde per il canone lungo del concilio di Firenze (1441) ripreso poi a Trento e che comprende l’antica edizione latina Volgata e la versione greca dei LXX (Decretum de libris sacris et de traditionibus recipiendis dell’8 Aprile 1546: “Se qualcuno non accogliesse come sacri e canonici gli stessi libri interi, con tutte le loro parti, come si è soliti leggerli nella Chiesa cattolica e si trovano nell’antica Volgata latina, e consapevolmente disprezzasse le suddette tradizioni: sia anatema”). Per il NT è importante per la canonicità di un libro: provenienza apostolica: “il riconoscimento dello straordinario e ristretto arco di tempo in cui la sua fondazione fu portata a termine dal ministero di insegnamento degli apostoli e dei loro stretti collaboratori”. conformità alla regola della fede l’uso liturgico Il problema del canone nel canone: a) canonal criticism (Sanders, Childs): un libro va studiato tenendo conto del canone dei libri in sé e dell’intero canone biblico. Per Sanders non si devono comunque trascurare le diverse tradizioni, giacchè concorrendo alla redazione finale e canonica del libro, rilevano conseguentemente lòa loro canonicità; 12 b) Protocattolicesimo di von Harnack, Bultmann, Kaesemann: solo un nucleo di ciò che i libri biblici contengono è ispirato, perché riguarda la fede, il resto non è ispirato (vd. Fabris 393), in quanto fa parte di tutto quel processo storico, che investe per Bultmann anche alcune parti del NT, attraverso il quale il genuino cristianesimo evangelico degenerò nel cattolicesimo con le sue istituzioni cultuali, gerarchiche, la sua dottrina specifica. Occorre allora stabilire un “canone nel canone”, distinguendo ciò che è normativo e obvbligante da ciò che non lo è. Il criterio di distinzione è dato dalla giustificazione in virtù della fede. L’asserto è stato criticato ribadendo la verità dell’intero NT, pur nella sua diversità, che testimonia la ricchezza e la pluralità di espressione non solo del cattolicesimo, ma primariamente del cristianesimo. Il Magistero interpreta Interpreta autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa il magistero vivo della Chiesa, che esercita la sua autorità nel nome di Gesù Cristo. Il magistero non è però al di sopra della Parola di Dio, ma la serve, assistito dallo Spirito Santo, per divino mandato piamente la ascolta, santamente la custodisce e fedelmente la espone. Da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato (DV 10). Inerranza e verità della Bibbia In questa ottica si comprende l’inerranza della Scrittura, che non ha nulla di materiale e non è contro lo sviluppo culturale e scientifico nella storia. Il non sbagliare della Scrittura riguarda la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre lettere (DV 11). Già Galilei affermava che la Sacra Scrittura insegna non come si muove il cielo, ma come si va in cielo. Affermata da Leone XIII nella PV a fronte delle conclusioni delle nuove discipline umane, che affermavano la presenza di errori. Una proposta di soluzione era stata avanzata dal Rettore dell’Institut Catholique 13 di Parigi, mons. Maurice D’Hulst, con Jean Didiot, Rettore di Lilla, che giudicava l’inerranza alla stessa stregua dell’infallibilità del Papa, promulgata dal Vat. I, in materia di fede e morale (Fabris, 416). Questa la risposta dell’enciclica: “ sarebbe del tutto illecito sia il restringere l’ispirazione solo ad alcune parti della Sacra Scrittura, sia l’affermare che lo stesso agiografo ha errato. Né si può tollerare il modo di fare di coloro che credono di superare tante difficoltà affermando che l’ispirazione riguarda le cose delkla fede e dei costumi e nient’altro, poiché ritengono falsamente, trattandosi della verità delle asserzioni, che non tanto bisogna ricercare quali cose abbia detto Dio, quanto piuttosto per quale scopo le abbia dette. Infatti tutti i libri della Sacra Scrittura, con tutte le loro parti, sono stati scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. Quindi non vi può essere errore nella divina ispirazione, a tal punto che essa non solo esclude per se stessa ogni errore, ma così necessariamente lo esclude e lo respinge come è necessario che Dio, somma Verità, non sia per nulla autore di alcun errore. Questa è l’antica e costante fede della Chiesa”. L’enciclica è seguita da Benedetto XV con la Spiritus Paraclitus (1920) e da Pio XII con la DAS: tutte si esprimono in negativo sulla inerranza limitata. In positivo sull’inerranza della Scrittura in ogni campo si esprimeva lo schema preparatorio “De Fontibus Revelationis” che i Padri conciliari del Vat. II discussero e respinsero nella prima sessione del Concilio (novembre 1962), visto il carattere della sua assolutezza (l’inerranza è applicata a “qualunque cosa religiosa o profana”) vd. Fabris, 417. L’indicazione del Vat. I non andava secondo lo schema preparatorio del Vat. II: infatti non legava ispirazione e inerranza, giudicava l’inerranza una qualifica della Rivelazione da ancorare alla verità di Dio che ispira gli autori della Sacra Scrittura e non la assimilava all’infallibilità del papa. Fabris, 417. Il Vat. II e la DV 11: il “per la nostra salvezza” quale angolo formale di visione (carattere dichiarativo, non limitativo); DV 12 per l’interpretazione e la distinzione tra l’intenzione dell’agiografo e quella di Dio. La Scrittura è allora una realtà teandrica per ricercarne il senso profondo, quello spirituale vero, non si può saltare il senso letterale espresso secondo lo stile e le forme letterarie proprie del tempo dell’autore e della sua cultura. Inoltre si deve badare al 14 contenuto e all’unità della Scrittura, alla Tradizione e all’analogia della fede. Non deve scandalizzare la parola umana della Bibbia: Dio nella sua “condiscendenza” ha assunto la natura umana e incontra l’uomo nella sua storia, nella concretezza della sua vita, celandosi spesso nelle pieghe di essa (Elia e la brezza). La Chiesa venera le Scritture come il corpo di Cristo (DV 21): per questo esorta i fedeli ad apprendere la sublime scienza di Gesù Cristo con la frequente lettura delle divine Scritture. “L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo” (San Girolamo in DV 25). Ciò perché la Chiesa di Cristo, tutta ministeriale e comunionale annunzi la salvezza al mondo intero il quale ascoltando creda, credendo speri, sperando ami. 15 STRUTTURA DELLA BIBBIA Materiale scrittorio, lingue, manoscritti: presentazione generale La Bibbia che noi abbiamo è tradotta per l’Antico Testamento (AT) dal TM, un testo ebraico vocalizzato (l’ebraico non ha vocali) tra il VI e il X secolo d. C. dai Masoreti, maestri ebrei, e che si avvicina all’originale per il confronto del TM con altri testi della Bibbia in papiri e pergamene (critica textus); per il Nuovo Testamento (NT) dal greco (lo stesso per la critica textus). Più precisamente: 1. la critica testuale si ripropone di ricostruire la forma più vicina possibile all’originale. Essa si occupa dei testimoni del testo e della loro storia, a partire dalla fattura dei mss. e dai metodi di trasmissione del testo stesso e dalla storia dello studio di tale testo. Inoltre si avvale di principi scientifici per scegliere la lezione migliore fra le varianti di un testo; 2. la paleografia (scrittura antica) è la scienza che si occupa dello studio delle grafie antiche e di tutte le caratteristiche di una superficie scritta: materiale, stile di scrittura, presenza di segni diacritici e di interpunzione, fattura dei libri antichi. Il materiale scrittoio è costituito per i mss. ebraici da pergamena e papiro; i mss. greci del NT più antichi sono su papiro, i più numerosi sono su pergamena. Parti del testo biblico sono copiate su cocci (ostraka) o altro materiale. 1. Il papiro designa la pianta e la carta con essa prodotta. Le strisce, di opportuna lunghezza si accostano e si sovrappongono le une perpendicolari alle altre, quindi vengono essiccate e poi pressate. I fogli, essiccati poi al sole, venivano incollati per formare il rotolo (tomos), in media di 20 fogli. Sulle fibre orizzontali presenti all’interno (recto) era più facile scrivere che su quelle verticali (verso) sul lato del papiro. Per scrivere si usava una canna 16 appuntita, il kalamos, e un inchiostro nero. Il papiro è usato sin dal III millennio a. C. in Egitto. La carta più fine è la più antica. 2. Il codice è costituito da tavolette di legno incerate unite da legacci passanti per fori laterali e costituisce il primo stadio del libro. Il libro deriva il suo nome dal latino liber che designa la membrana sottostante la corteccia degli alberi, utilizzata per scrivere (designa perciò anche la parte interna del fusto di papiro). La parola carta deriva dal greco chartes che indica il rotolo non scritto. 3. La pergamena deriva dalla pelle animale, usata come materiale scrittorio dall’VIII sec. in Persia. Può essere ricavata ovunque e raschiata e riscritta (da qui i palinsesti: su 241 codici maiuscoli del NT 55 sono palinsesti. Il più celebre palinsesto biblico è quello denominato C o O4 del V sec., contenente AT e NT, riutilizzato nel XII sec. per la versione greca dell’opera di Efrem il Siro, da cui discende il nome di Efrem rescritto). Il costo è più alto rispetto al papiro, vi si devono tracciare le righe e la superficie riflette meglio la luce e perciò stanca l’occhio. L’inchiostro usato era nero o marrone, per le lettere iniziali il rosso (ruber, da cui rubrica). 4. La carta fu inventata dai cinesi nel I sec. d. C. e diffusa dagli Arabi nell’VIII sec. I codici in pergamena furono sostituiti da quelli di carta a partire dal XII-XIII sec. La forma più antica del libro fu il rotolo, chiamato volumen “ciò che si gira”: sul bastoncino iniziale si indicava il contenuto, era scritto in colonne solo dall’interno, si leggeva con entrambi le mani per svolgere e riavvolgere. Il codice soppiantò il rotolo perché più pratico a leggersi (una sola mano), poteva essere scritto da entrambi i lati, poteva contenere più testi in un unico libro. I cristiani lo usarono di contro al rotolo degli ebrei. I mss. del NT sono in codice, quelli ebraici in rotolo. I codici ebraici appaiono nell’VIII sec. d. C. I più antichi codici di papiro sono biblici. I codici si arricchirono di pagine, giacché formati da più fascicoli di fogli piegati a metà (all’inizio erano solo quattro, come attesta il nome latino quaternio). Il testo, come nei rotoli, era suddiviso in colonne; la 17 suddivisione in libri delle opere antiche corrisponde alla lunghezza media di un rotolo che era circa di 9-10 m. al massimo. La Bibbia si compone di 46 libri dell’AT e 27 del NT per un totale di 73 libri. Il nome Bibbia deriva dal greco biblia, plurale di biblion, a sua volta diminuitivo di biblos o bublos, termine con cui si indicava il rotolo scritto e significa “i libri” (ta biblia: 1Mc 12,9; 2Mc 2,13 per definire la raccolta delle tre parti della Bibbia ebraica), in italiano è poi passato al singolare per indicare tutto il libro. Le lingue originali della Bibbia sono tre: l’ebraico (AT), l’aramaico (Daniele 2,4 - 7,28; Esdra 4,8 - 6,18; 7, 12-26; Ger 10,11; due parole di Gen 31,47 e per parti di Tb, Gdt, Bar, 1Mc, frammenti di Ester, Sir, scritti in ebraico o in aramaico originariamente, anche se pervenuti in greco) e il greco di Sap, 2Mc, aggiunte a Dn e Ester, del NT Sia l’ebraico che il greco derivano dall’alfabeto fenicio: il primo è consonantico, il secondo è vocalico. Dal fenicio derivarono il paleoebraico e l’aramaico. Dall’aramaico derivarono gli alfabeti siriaci e tra questi, nato da una forma corsiva, l’ebraico quadrato, uniformato nel I sec. a. C. L’ebraico fa parte delle lingue cananaiche nord- occidentali, sviluppatosi a partire dal IX sec. a. C. con differenze registrabili nei testi biblici sino al post esilio, quando gli scribi risolsero uniformando le divergenze linguistiche. La lingua migliore fu quella dell’età monarchica e del Proto- Isaia. L’esilio babilonese determinò la scomparsa dell’ebraico come lingua parlata (fu lingua sacra liturgica e per gli scritti biblici) e il prevalere dell’aramaico imperiale (VIII-III sec. a. C.). L’aramaico biblico fa parte delle lingue semitiche nord- occidentali e si divide in: a) aramaico antico (IX-VIII sec. a. C.); b) aramaico classico (VII sec. a. C. - era cristiana) parlato nei grandi imperi orientali (assiro, babilonese, persiano); c) aramaico recente (Targumim, Talmud j e b). L’aramaico biblico è una variante di quello imperiale; i suoi testi sono databili tra V e II sec. a. C. 18 Il greco biblico è quello della koinè, un dialetto greco antico con assunzione di elementi ionici, al quale si aggiunsero gli influssi di altre lingue, oltre i mutamenti suoi propri. Nacque con le conquiste di Alessandro Magno e fu la lingua internazionale del mondo ellenistico. Il greco biblico comprende il greco della LXX e il NT, che linguisticamente dipende dalla LXX, la quale ultima possiede una lingua di traduzione (però Sap è stato composto direttamente in greco nel I sec. d.C.). Il NT rappresenta un ulteriore evoluzione della lingua greca verso il greco moderno rispetto alla LXX (itacismo: la pronuncia di eta con ita in età bizantina; e iotacismo: la sostituzione grafica della lettera iota ad altre vocali o dittonghi). Dalla LXX il NT mutua la terminologia tecnica teologica del giudaismo (lessico) ed espressioni di stampo semitico come apocritheis eipen “rispondendo disse” o kai egeneto “e avvenne”. Il NT non presenta un’omogeneità linguistica e varia per stile da un libro all’altro I mss. biblici più antichi, sia quelli greci in caratteri maiuscoli e molti in caratteri minuscoli, sia quelli ebraici medievali, presentano una scriptio continua, cioè senza spazi o intervalli tra le parole. A seconda della forma della scrittura i mss. si dividono, infatti, in maiuscoli o onciali, con una scrittura simile a quella capitale usata per i monumenti, più arrotondata nelle lettere e meno lineare, dove le lettere sono tutte di ugual misura, circa 1 oncia; e in minuscoli, con una scrittura minuscola con i caratteri legati e di diversa altezza, usata a partire dal IX sec. Negli scritti ebraici in aramaico si avevano degli spazi piccoli tra le parole, con problemi di divisione tra parola e parola. Le vocali ebraiche furono inserite solo nell’VIII sec. d. C. e gli accenti ancora più tardi. I mss. greci più antichi sono maiuscoli, senza accenti, né spiriti o altri segni, introdotti tra il VII e il IX sec. d. C. La minuscola per ovvie ragioni soppiantò la maiuscola: richiede meno materiale, era più veloce, i costi diminuivano (IX sec. d. C.). I mss. minuscoli, benchè più tardivi, sono spesso la copia fedele di mss. maiuscoli andati perduti. La parte finale di un mss. si chiama colofone (cima, termine): contrapposto al prologo, in esso si danno informazioni circa il contenuto, lo scriba e il suo lavoro. I mss. ebraici sono più ricchi di informazioni di quelli greci. 19 Per ovviare le difficoltà di lettura si adottò il sistema colometrico (in ogni linea 1 sola frase di senso compiuto), che sostituì così il sistema sticometro (ogni linea doveva comprendere tante sillabe quante sono in uno stico o esametro di Omero, cioè 15-16 sillabe pari a 34-38 lettere). La necessità di trovare velocemente passi o brani della Bibbia per scopo didattico o liturgico ha determinato la divisione del testo in sezioni. Il testo ebraico venne diviso in sezioni ad uso sinagogale e dal IX sec. in poi si ha una divisione in versetti costituita da due punti. Agli inizi del sec. XIII Stefano Langton suddivise in capitoli la Vulgata. Nel 1528 Sante Pagnini curò l’edizione a Lione di una Bibbia con testo ebraico e versione latina interlineare, in cui ogni versetto, capitolo per capitolo, era contrassegnato da un numero arabo. La numerazione attuale risale a Robert Estienne (1555), che riprende la numerazione del Pagnini per l’AT e vi aggiunge il NT in greco-latino e un AT in latino. DEFINIZIONE DEI TESTIMONI Critica testuale: si ripropone di ricostruire la forma più vicina possibile all’originale. Essa si occupa dei testimoni del testo e della loro storia, a partire dalla fattura dei mss. e dai metodi di trasmissione del testo stesso e dalla storia dello studio di tale testo. Inoltre si avvale di principi scientifici per scegliere la lezione migliore fra le varianti di un testo; Critica letteraria: muovendo dalla prima e dai dati forniti da essa si prefigge di individuare le varie stratificazioni del testo. Un testo nasce da: 1. redazione, cioè messa per iscritto originale o basata su testi (fonti) precedenti; 2. trascrizione, cioè la trasmissione scritta dell’opera attraverso la copia dello scriba; 3. recensione, cioè la revisione di un manoscritto, condotto con l’ausilio di altri testimoni, per eliminare errori o introdurre nuove lezioni. Vediamo adesso come procede la critica testuale ed i suoi metodi. La critica testuale deve distinguere e valutare criticamente le famiglie di testimoni rappresentati dai mss. (un mss. è detto testimone di un tipo di testo) che veicolano 20 pertanto una tradizione più ampia. Lackmann ha stabilito il metodo genealogico per individuare il cosiddetto stemma codicum, ossia “la strutturazione dei documenti mss. secondo i rapporti genetici che legano ogni copia ai testimoni precedenti”. Può così accadere che due rami della tradizione che stanno ai margini della corrente di maggioranza in un’area laterale e che concordano in una data lezione siano rappresentative di una versione del testo più antica ed originaria, nonostante l’attestazione minima del numero dei mss. Il criterio per stabilire la parentela tra i mss. è la condivisione degli errori, che sono di due tipi: congiuntivi o separativi: a) “Si dice errore congiuntivo quell’errore che dimostra la connessione tra due o più testimoni; deve trattarsi di un errore di tale natura da non potersi ritenere commesso da più scribi indipendentemente l’uno dall’altro”. b) “Si dice errore separativo quell’errore che dimostra l’indipendenza di un mss. da un altro; deve trattarsi di un errore di tale natura da non poter essere stato sanato congetturalmente dai testimoni che non lo condividono. Tutti i testimoni portatori di una lezione che costituisca un errore separativo rispetto al resto della tradizione si possono considerare discendenti da un medesimo archetipo, ossia da un unico capostipite, già corrotto (sempre nel senso, neutrale, di portatore di variante rispetto all’originale)” (vd es. Fabris 316). A questo punto occorre valutare il peso delle singole lezioni, indicando quella che probabilmente si avvicina il più possibile all’originale. La lezione che spiega l’origine di tutte le altre è da preferirsi, ma non è sempre così. Questo principio è retto da altri sussidiari, che sono i seguenti: la prova esterna e quella interna, quest’ultima comprendente le probabilità trascrizionali e le probabilità intrinseche: Per una corretta critica si ricorre La prova esterna comprende: a) data del testimone, cioè la datazione del testo che il testimone rappresenta; b) distribuzione geografica dei testimoni che concordano nell’attestare una variante, dopo aver accertato che testimonianze lontane geograficamente siano anche indipendenti; 21 c) relazione geneaologica dei testi e delle famiglie di testimoni. I testimoni vanno più valutati che contati. Si può così stabilire quali testimoni contengano una famiglia o un tipo testuale. La prova interna prevede le probabilità trascrizionali e cioè: a) preferire la lezione non parallela ad un’altra di un testo documentato in due passi, poiché gli scribi tendevano ad armonizzare i testi (vd. Fabris 317); b) preferire la lezione più difficile, cioè più difficile per lo scriba, che era così tentato di correggere il testo, ma in realtà quella originaria corretta; c) preferire la lezione breve a due condizioni: che non sia avvenuta omissione del passo per la ripetizione all’inizio o alla fine di parole simili e che lo scriba non abbia omesso materiale giudicato superfluo o contrario a devozioni o usanze o aggiunto e ampliato il testo creando così lezioni conflate; d) preferire la lezione che spiega l’origine delle altre (regola aurea); Le probabilità intrinseche dipendono dalla valutazione di ciò che è più verosimile che l’autore abbia scritto e si basano su: a) esame dello stile e del lessico dell’autore in tutto il libro; b) contesto immediato; c) accordo con l’uso dell’autore altrove e per il NT nei Vangeli; d) ambiente aramaico della predicazione di Gesù per il NT; e) influenza della comunità cristiana sulla formulazione e la trasmissione del passo in questione, sempre per il NT. Si stabilisce così il tipo testuale più vicino all’originale nei suoi testimoni e attraverso essi. APPENDICE: GLI ERRORI ERRORI ACCIDENTALI • Omissioni: a) aplografia: omissione di una lettera o di una parola; 22 b) parablepsis (in greco “guardare di traverso”) per homoioteleuton o homoioarcton: quando il copista salta da una parola all’altra che finisce o inizia allo stesso modo; • Dittografia: ripetizione di lettere, parole o frasi intere; • Errori di udito per parole omofone, ma di diversa grafia (in greco più facile per il fenomeno dell’itacismo) e per la mancata distinzione fonetica tra vocali lunghe e brevi: Gv 5,39: marturousai con amartavousai del cod. D [05]; • Errori di memoria, nel tentativo di ricordare il testo mentre si copiava; • Confusione o scambio di lettere e di parole; • Metatesi di lettere e parole; • Divisione o unione errata delle parole con alterazione del senso. ERRORI VOLONTARI: • Adattamenti grammaticali o lessicali del testo. Nel NT l’Ap presenta esempi di semitismi e solecismi (dal greco soloikismos “sgrammaticatura”, da Soli, colonia greca in Cilicia, i cui abitanti erano considerati sgrammaticati nell’espressione linguistica); • Armonizzazione; • Glosse, esplicitazioni, conflazioni; • Correzioni dettate da preoccupazioni teologiche. IL TESTO DELL’ANTICO TESTAMENTO Manoscritti ed edizioni a stampa costituiscono la tradizione dei diversi libri biblici dell’AT. Tradizione diretta: il testo si conserva in forma esplicita e in lingua originale; Tradizione indiretta: traduzioni, citazioni, rielaborazioni, commenti. 23 Ogni testimone – così si definiscono i manoscritti, come abbiamo visto - ha una propria storia testuale e una propria tradizione testuale: il testo letterario, la sua recezione come opera in sé conclusa da trasmettere fedelmente, la sua interpretazione. Un testo come Is 7,14 può essere valido se riferito alla traduzione della LXX e all’uso del NT per la tradizione interpretativa del testo, ma non per la critica testuale. L’uso delle fonti esterne (i commenti, in particolare) consente di ricostruire il quadro culturale in cui va inserita storicamente ogni lettura degli scritti relativi. Solo quando si sia giunti alle forme più antiche del testo, si potrà operare correttamente sul piano critico-testuale, sottoponendo il complesso delle lezioni o varianti (varia lectio) che si sono raccolte al vaglio critico (interpretatio), per giungere, sulla base di criteri interni ed esterni, a una scelta (selectio) tra le diverse lezioni, oppure, ove occorra, all’emendazione dei passi corrotti (sia con l’aiuto di un qualche ramo della tradizione [emendatio ope codicum], sia per congettura [emendatio ope ingenii]). L’AT è comunemente letto in edizioni che riproducono fedelmente il testo di un solo manoscritto, con l’eventuale aggiunta, a piè pagina, di un apparato in cui sono raccolte una scelta di varianti tratte da altri manoscritti e dalle versioni antiche e le principali congetture avanzate dagli studiosi per sanare i passi corrotti (mostrare l’esempio della Bibbia Ebraica Stuttgartensia). Le edizioni più diffuse: a) N. H. Snaith per la British and Foreign Bible Society b) Biblia Hebraica Stuttgartensia diretta da K. Elliger e W. Rudolph, prima di R. Kittel I codici (ogni edizione a stampa si serve del codice ritenuto optimus): a) Codice di S. Pietroburgo B 19a Lenigradensis della famiglia del Codice di Aleppo, il più antico dei codici completi (1008) (BHS); b) Codice di Aleppo del 950 (Hebrew University); c) Codice del Cairo contenente il testo dei profeti (da Gs a Zaccaria) dell’895 d. C.; d) Codice babilonese o Petropolitano dei Profeti, il più antico che porti una data, 916. 24 I primi tre codici appartengono alla famosa scuola dei masoreti della famiglia Ben Asher che rappresentano la scuola tiberiense, che si impose. Ma il processo di unificazione della tradizione dei manoscritti, imposto dai tiberiensi, aveva portato alla scomparsa quasi totale delle forme testuali diverse da quella masoretica, che, prima di Qumran, erano attestate solo indirettamente da versioni antiche. Il testo masoretico non era l’unico e l’assoluto nell’antichità: la scuola tiberiense lo fece diventare textus receptus. I masoreti, tra cui i tiberiensi, sono così chiamati dal termine masora, che significa tradizione e indica quell’insieme di note che accompagnano il testo biblico e che sono poste o ai margini superiore e inferiore (masora magna) o a lato e tra le colonne del testo (masora parva) o alla fine del manoscritto (masora finalis): vd. tav. 1-2. I masoreti hanno fissato la vocalizzazione del testo a cominciare dal sec. VII per evitare la deformazione della lettura sinagogale e parallelamente all’introduzione di vocali nei testi siriaci e arabi. Il sistema vocalico oggi usato è quello tiberiense della famiglia dei Ben Asher. Accanto ad esso si hanno pure quello babilonese e quello palestinese. Il pluralismo testuale è un dato di fatto confermato da Qumran, anche per la presenza di diversi gruppi o scuole in seno alla società ebraica, che leggevano a volte il testo per giustificare una loro posizione teologica o ideologica (Fabris 310). Qumran contiene manoscritti databili tra il III-II sec. a. C. e il I sec. d. C.: importante è la grotta 4. Risultano attestate, nell’originale ebraico, molte lezioni che sinora si conoscevano solo attraverso le versioni antiche (specie la LXX) e che in genere venivano considerate frutto del lavoro di interpretazione dei traduttori, non come resa fedele di un originale diverso da quello masoretico (probabilmente la traduzione dei LXX si rifà a un testo diverso dal TM). Cross ritiene che la varietà testuale di quei secoli rifletterebbe la diversità della tradizione del testo biblico nei tre centri più importanti: a) Palestina: testo con forme lunghe, inserzioni e glosse e richiami a passi paralleli (Pentateuco samaritano e alcuni mss. di Qumran); b) Babilonia: testo breve (TM); c) Egitto: testo a metà fra i due sopra (LXX). 25 È la “teoria dei testi locali” di F. M. Cross, molto discussa. Si ritiene che il testo rifletta l’interesse di un gruppo, non di una regione, o di gruppi in contrasto tra loro all’interno dell’area palestinese. La LXX sembra riconducibile al tempio di Gerusalemme, il TM ai farisei. IL TESTO DEL NT I testimoni del NT; versioni e citazioni I testimoni del testo del NT sono diretti (i mss. greci) e indiretti (versioni e citazioni dei Padri e degli scrittori antichi. Le versioni antiche sono fatte sulla base di mss. vicini nel tempo al testo originale. Divennero necessarie verso la fine del II sec., quando le lingue locali iniziarono ad affermarsi e ad entrare nella liturgia, che usava il greco, almeno sino al 180, in Oriente come in Occidente. La critica testuale usa le versioni con prudenza: gli autori non conoscono spesso bene il greco o propongono un sunto, non una traduzione, persone diverse hanno fatto traduzioni da mss. greci diversi, la traduzione spesso è fatta contro un’altra o contro lo stesso mss., spesso le traduzioni derivano da altre traduzioni. Hanno valore solo quelle dal testo greco o rivedute in base ad esso e che derivino da una forma unica originale, senza frammistione o mescolanza di versioni diverse. Le più importanti e note versioni sono: le latine, Vetus latina e Vulgata, le siriache (Vetus syra, Peshitta), le copte, l’armena, la georgiana, l’etiopica, la paleoslava, la gotica. Le citazioni dei Padri servono a localizzare e a datare varianti e tipi testuali attestati nei mss. e nelle versioni. Ma spesso lo scriba adattava il testo al mss. che conosceva (il testo era dettato dall’autore a più scribi insieme. Ciascun scriba riceveva l’indicazione del passo, che poi riferiva da sé. Ogni scriba si riferiva ad un mss. diverso). Inoltre l’autore parafrasava il testo o lo citava a memoria più che copiarlo da un mss. a sua disposizione. La produzione dei manoscritti (=le copie) 26 I libri del NT furono all’inizio unità a sé stanti e solo dalla fine del II sec. si ha notizia della raccolta dei 4 Vangeli. Probabilmente il primo insieme di scritti neotestamentari fu costituito dalle Lettere paoline, che venivano ricopiate e scambiate fra le varie comunità (Col 4,16). Agli inizi della vita della Chiesa la copiatura dei testi biblici era fatta da privati, che riproducevano per sé o per la comunità il testo di uno o più libri del NT o dell’AT. La diffusione del Cristianesimo provocava il moltiplicarsi delle copie e spesso, per la fretta, queste risultavano poco curate. Ma dopo il riconoscimento ufficiale del Cristianesimo da parte dello Stato (IV sec.) si fece ricorso alla riproduzione di copie negli scriptoria, dove più scribi lavoravano contemporaneamente sotto dettatura. Il lavoro procedeva più celermente, ma non sempre più correttamente. Si creavano errori legati sia alla pronuncia, sia a disattenzione, sia a ricezione difettosa dello scriba, come già notato. Negli scriptoria lavorava almeno un correttore che rivedeva le copie sulla base dell’originale: la diversa mano di scrittura permette di distinguere il copista dal correttore. Dall’età bizantina i mss. biblici furono riprodotti dai monaci, più accurati e meno frettolosi. I libri furono divisi in capitoli e versetti con l’inserzione di titoli per facilitare la lettura privata e il reperimento di passi paralleli; altri espedienti sono rappresentati dai canoni (=tavole) di Eusebio di Cesarea. Ogni Vangelo fu diviso in sezioni numerate progressivamente la cui lunghezza dipende dalla relazione con uno o più passi paralleli. In margine al testo è posto, sotto o a fianco del numero della sezione , il numero del canone in cui la sezione è citata. Ogni canone contiene le indicazioni numeriche dei passi dei Vangeli in diverse combinazioni: rimandi numerici dei passi presenti in tutti e quattro i Vangeli; rimandi dei passi comuni ai Sinottici; rimandi dei passi comuni di Mt, Mc e Gv; rimandi ai passi specifici di ogni Vangelo. Es. in margine a Gv 4,44 si ha 35/1: si va al canone 1 in cui il passo in questione è indicato con il numero 35 (vd. anche Novum Testamentum graece di Nestle- Aland). 27 La scriptio continua dei mss. crea infatti problemi per una corretta suddivisione del testo. Altre difficoltà insorgono dalle abbreviazioni e contrazioni, più frequente dopo il passaggio dalla maiuscola alla minuscola. Dal sec. I si contrassero i nomi, propri o comuni, indicanti Dio, Gesù, personaggi o località bibliche: si tratta dei nomina sacra, denominazione imprecisa, ma ancora in uso, coniata da L. Traube agli inizi del sec. XX. I sistemi di contrazione sono diversi e vari. La presenza del nomen sacrum andava segnalata con una lineetta orizzontale soprascritta: la dimenticanza ha indotto i lettori a interpretare diversamente il testo. Sul valore numerico delle lettere si sono poi basate la gematria e l’isopsefia: la prima interpreta la parola in base al numero della lettera, la seconda stabilisce rapporti fra parole che hanno stesso valore numerico. Il sistema è usato a scopo cautelativo per parole tipiche o simboliche. Nei mss. è impiegato per nascondere il nome dello scriba o altre notizie. La classificazione dei manoscritti I manoscritti sono classificabili in base al materiale di cui sono fatti (papiri, ostraka), al tipo di scrittura (maiuscoli, minuscoli), all’uso (lezionari, amuleti): I lezionari Sin dal IV sec. esiste un sistema di letture dei Vangeli e delle Lettere, ordinati secondo il calendario liturgico delle domeniche e delle feste: si tratta dei lezionari. I lezionari presentano una forma di testo più antica, perché il modo di citare la Bibbia in essi è conservatore. Essendo libri liturgici inseriscono nel testo espressioni quali “in quel tempo” o “fratelli” nelle Lettere, che non abbiamo nel testo. Gli altri manoscritti 28 Le denominazioni più antiche dei mss. greci neotestamentari sono connesse con il luogo di provenienza o di conservazione, con il nome del possessore, con la segnatura della biblioteca in cui erano custoditi o con qualche loro caratteristica. Un primo passo per la loro classificazione fu compiuto da J. A. Bengel (1687-1752) che pubblicò il Prodromus Novi Testamenti recte cauteque ordinandi, dove espose alcuni principi: i testimoni del testo vanno valutati, non contati, cioè classificati in gruppi, famiglie, tribù, nazioni, si deve preferire la lezione più difficile. J. J. Wettstein nella sua edizione del NT nel 1751-1752 usò le lettere maiuscole latine per designare i mss. maiuscoli e i numeri arabi per i minuscoli, raggruppando i mss. in base al contenuto. J. S. Semler (1725-1791) introdusse il concetto di recensione, cioè di revisione del testo operata da un curatore e classificò i mss. del NT in tre recensioni (Alessandrino, Orientale, Occidentale). K. Lachmann (1793-1851) editò il NT in base ai codici dell’Alessandrino e ricostruì il testo biblico in base ai codici più antichi. C. von Tischendorf continuò con lo stesso sistema di Semler e designò con ’alef il cod. Sinaitico da lui scoperto; inoltre, poiché i mss. maiuscoli superavano le lettere dell’alfabeto latino, egli ricorse alle lettere maiuscole dell’alfabeto greco. Importante la sua edizione del NT conosciuta come editio octava critica maior (2 voll. Leipzig 1869-1872). C. R. Gregory (1846-1917) stabilì l’uso dei numeri arabi preceduti da 0 per i mss. maiuscoli; inoltre numerò i papiri separatamente dagli altri mss., servendosi della lettera P in caratteri gotici, seguita da un numero arabo progressivo ed esponente, e riunì in un altro elenco i lezionari. Questa sistema, contemporaneo all’altro di von Soden, è ancora seguito con qualche modifica. Nel periodo tra le due guerre B. H. Streeter (1874-1937) formula la teoria dei testi locali, seguendo il metodo genealogico di B. F. Wescott e F. I. Hort, e di von Soden e di K. Lake prima di lui, e individua un testo per ogni grande centro del cristianesimo antico (Alessandria, Cesarea, Antiochia, Roma, Cartagine e la Gallia). Individua così le quattro famiglie o i 4 tipi testuali, ai quali attribuire poi i manoscritti. Essi sono: 1. Alessandrino (sigla H) 2. Occidentale (sigla D) 3. Bizantino (sigla K) 4. Cesariense (sigla C) 29 Il Cesariense, accanto a un altro testo detto Antiocheno, apparterrebbe al testo Orientale. Il testo Occidentale comprende i tipi testuali Italo-gallico e Africano. La loro storia inizia in Egitto verso il II sec. quando il testo fu sottoposto a due revisioni diverse a partire dalle copie (apografa): una con la finalità di rendere il testo più simile agli autografi originali (H), l’altra di renderlo più intelligibile e chiaro (D) Nel sec. III le due revisioni si fusero: nasce il tipo C. Nel sec. IV ad opera di Luciano di Antiochia (III sec.) fu elaborato K per rendere più elegante H , senza trascurare i dati di D, con una chiara finalità teologica. H sarà presente in Egitto e Palestina, D in Occidente, K in Siria, Asia Minore e Costantinopoli. Il tipo K fu il textus receptus (la denominazione risale ai fratelli Elzevier nel 1633, nella loro prefazione alla seconda edizione del NT che riprendeva la prima edizione di Ginevra del 1551 del NT ad opera di Robert Estienne, latinizzato in Stephanus, che intanto aveva già curato tre edizioni a Parigi dello stesso NT nel 1546,1549, 1550), cioè il testo usato perché ritenuto migliore per le edizioni del NT sino al XVIII sec., cioè sino a quando la critica non riconobbe essere H più fedele al testo originale. Su K si basarono queste edizioni: • Il quinto volume della Bibbia Poliglotta Complutense (dal nome latino di Alcalà) promossa da cardinale di Toledo Francisco Ximenes de Cisneros (1437-1517). • La prima edizione a stampa, che per motivi di tempo soppiantò la precedente complutense togliendole il primato, fu quella dell’umanista olandese Erasmo da Rottedarm (1466?-1536). Il textus receptus fu abbandonato da E. Wells, matematico e teologo di Oxford, che preferì i mss. più antichi e su di essi pubblicò il suo NT. Da ricordare che le quattro famiglie testuali sono recensioni diverse del testo originario. La classificazione dei papiri che contengono il 65% del NT (conservano meglio Gv, Mt e Atti) registra come papiri più antichi il P46, il P66 e il P45 (i papiri si classificano con P unito ad un numero esponente). I più importanti e cospicui papiri neotestamentari si hanno nella collezione di papiri Chester Beatty, conservati nell’omonimo museo a Dublino, di cui fanno parte il P45, P46, P47: acquistati dall’inglese Chester Beatty in Egitto negli anni 1930-31, risalgono al III sec. d.C. e contengono sezioni notevoli dei 30 Vangeli e di Atti. Il P46 contiene un codice di 10 lettere paoline, mancante la 2Ts e comprendente Eb, ordinate secondo la lunghezza. Il testo è vicino alla recensione H; e in quella Bodmer a Ginevra: tra questi importanti il P75, somigliante al tipo codice Vaticano, per cui diventò insostenibile l’opinione secondo la quale il NT fosse stato totalmente rielaborato verso il IV sec. d. C., giacchè il nostro papiro risale al 175-225; il P72, scritto verso i sec. III-IV, è il testimonio più antico sulle lettere cattoliche e la loro integrazione nel canone. Il P52 è il più antico testimonio del NT, risalendo alla prima metà o addirittura al primo quarto del II sec. Proveniente da Ossirinco in Egitto e conservato alla “John Rylands Library” di Manchester, testimonia che il Vangelo di Gv non è stato composto più tardi del I sec., essendo già conosciuto e scritto nella valle del Nilo verso gli anni 120-130. (per una descrizione vd. Tabet 121-122 da leggere in classe). I codici onciali sono contrassegnati i primi 51 con una lettera maiuscola dell’alfabeto latino o greco e una cifra arabica preceduta da zero, i restanti con la sola cifra arabica preceduta da zero. I più importanti sono: • S (01) ) Sinaitico scritto nel IV sec. in Egitto e scoperto da von Tischendorf nel 1859 nel monastero di Santa Caterina sul Sinai, contiene l’AT lacunoso e tutto il NT. Presenta il testo H, più mani di correttori e i canoni di Eusebio; • B (03) Vaticano, scritto nel IV sec. e conservato nella Biblioteca Vaticana contiene quasi integralmente il testo dell’AT greco e del NT secondo la recensione H. Presenta la più antica divisione del testo fra quelle attestate nei codici pergamenacei; • A (02) Alessandrino, risale al V sec., scritto in Egitto, contiene l’AT e il NT con molte lacune; • C (04) Codice palinsesto, è il celebre codice rescritto di Efrem del V sec., contenente l’AT e il NT con lacune; • D (05) codice di Beza o Cantabrigiensis (codice di Cambridge), scritto nel V sec. in Francia, bilingue greco-latino, riporta Vangeli e Atti, con un testo conflato, ricco cioè di glosse, aggiunte o omissioni di parole o frasi. 31 • D (06) Claromontano, perché scoperto nel monastero di Clarmont, scritto nel V sec. nell’Italia meridionale contiene tutte le lettere di Paolo. • X (038) codice di Koridethi proveniente dal Mar Nero e conservato in Georgia, scritto nel sec. VIII contiene il testo lacunoso dei Vangeli.(vd. Tabet 120 o Fabris 326). I codici minuscoli sono classificati con un numero arabico. Sono suddivisi in quattro categorie a seconda dell’epoca in cui sono stati scritti e delle caratteristiche paleografiche che presentano: 1. Codices vetustissimi IX-X sec. 2. Codices vetusti X-XIII sec. 3. Codices recentiores XIII-XV sec. 4. Codices novelli, posteriori all’invenzione della stampa Le famiglie più note che raggruppano alcuni codici minuscoli sono la 1 ( Codici Lake) e la 13 (Codici Ferrar). I codici Lake prendono il nome dallo studioso che li esaminò, raggruppandoli per la loro affinità e le loro caratteristiche filologiche. Appartengono al XI-XIV sec.; i codici Ferrar discendono da un archetipo presente nell’Italia meridionale e sono stati copiati tra l’XI e il XV sec. Prendono il nome dal loro identificatore. Loro caratteristica è porre Gv 7,53—8,11, il passo dell’adultera dopo Lc 21,38.(Vd. Fabris 327 e Tabet 121). Le versioni Della Bibbia si hanno diverse traduzioni sin dall’antichità. Esse si suddividono in due categorie: una di matrice giudaica per il solo AT e una di matrice cristiana per l’AT e il NT. In questo punto ci interesserebbero solo quelle del NT, ma per ragioni didattiche prenderemo qui in esame anche le versioni dell’AT. Le versioni di origine giudaica 32 Il Pentateuco samaritano non è propriamente una versione, ma rappresenta una differente tradizione testuale formatasi in seguito allo scisma tra Samaritani e Giudei nel I sec. d. C. Tra il PS e il TM ricorrono circa 6000 differenze tra varianti ed ortografie; il PS concorda invece in 2000 frequenze con la LXX ed è citato in alcuni passi del NT. Le varianti sono a volte intenzionali, per giustificare il culto samaritano contro quello gerosolimitano, ma spesso anche il TM è stato modificato nella polemica antisamaritana (Dt 27,4: Garizim del PS contro Ebal del TM). Del PS esisteva una versione in greco, il Samaritikon, citato da Origene. Rimane ancora una traduzione in aramaico, il Targum samaritano, e una araba, utili per la ricostruzione del testo, anche se presentano numerosi problemi di critica testuale. La LXX costituisce la più antica traduzione del testo ebraico ed aramaico dell’AT in greco ed ebbe inizio nel III sec. a. C. ad Alessandria d’Egitto. Due le fonti principali sulla sua origine: la “Lettera di Aristea a Filocrate”, la cui datazione, assai discussa, oscilla tra II e I sec. a. C., detta anche “pseudo-Aristea”, trattandosi di uno scritto pseudoepigrafo, e la rielaborazione della suddetta nel cap. 12 delle Antiquitates Iudaicae di Flavio Giuseppe. A queste si aggiungono le notizie della tradizione rabbinica, le citazioni dei Padri. La denominazione di versione della LXX è da collegarsi al numero dei saggi che lavorando autonomamente stilarono la stessa traduzione, come vuole la leggenda. I testimoni oscillano tra 70 e 72 saggi nel tentativo di dividere il n. dei saggi per le 12 tribù di Israele. Essa nacque in relazione alla versione del Pentateuco, da cui si avviò la traduzione: la denominazione di “versione della LXX”, infatti, era limitata soltanto alla Torah. In seguito si estese alla traduzione degli altri libri biblici del canone ebraico, ai quali si aggiunsero quelli del canone alessandrino (deuterocanonici) in lingua greca, essendo perduto l’originale semitico: Tb, Gdt, Bar, 1Mc, aggiunte a Dn, Est, Ger, 1Esd e Sir (del quale si è rinvenuto in parte a Masada l’originale ebraico). A questi furono aggiunti libri composti direttamente in greco: Sap, 2Mc, aggiunte greche a Ger, Est, Salmi (che fanno parte del canone cristiano), 3 e 4 Mc (esclusi dal canone cristiano). Viene anche chiamata Alessandrina, per essere stata composta ad Alessandria o Greca 33 perché è la principale versione in greco, utilizzata dagli ebrei della diaspora che non parlavano più l’ebraico, ma il greco. La data di composizione è circa la prima metà del III sec. a. C., giacché il prologo del Sir parla delle tre parti della Bibbia ebraica, Torah, Profeti e Scritti, come già acquisite (siamo nel 130 a. C.) e il colofone di Ester nella versione greca dà notizia che il testo di Est in greco fu introdotto in Egitto nel quarto anno del regno di Tolomeo e Cleopatra, cioè il 78-77 a.C. dopo essere stato tradotto a Gerusalemme all’inizio del I sec. a. C. Il lasso di tempo tra l’inizio e la fine della traduzione è notevole: 3 e 4 Mc e Sap furono probabilmente composti nel I sec. d. C. Per individuare il luogo della traduzione gli studiosi si basano su alcuni indizi di natura lessicale e/o storica: in Palestina sarebbero stati tradotti le Meghillot, in Alessandria gli altri libri (vd. Fabris 349 nota 6). Il motivo della traduzione è spiegato diversamente dalle fonti: quelle ebraiche (Filone e lo Pseudo- Aristea) lo attribuiscono al re Tolomeo per il desiderio di conoscere la Legge degli ebrei, secondo cui vivevano le colonie giudaiche d’Egitto, tra le quali primeggiava Alessandria. Giustino, Ireneo, Clemente Alessandrino e Tertulliano attribuiscono al re un interesse culturale: egli dispose la traduzione per arricchire la biblioteca d’Alessandria. La critica moderna vi vede invece delle motivazioni cultuali e liturgiche: disporre di testi a uso liturgico per ebrei che non conoscevano più l’ebraico. Accanto a queste possono spiegare l’esigenza della traduzione motivazioni culturali, pedagogiche e catechetiche: la traduzione serviva alla lettura personale e all’educazione. Infine si sono scorti motivi apologetici e missionari per difendere gli ebrei dall’accusa di idolatria e favorire il proselitismo. Ma sembrano valere le motivazioni date dalle fonti antiche. Testimoni diretti del testo della LXX sono papiri e mss. pergamenacei a partire dal II sec. a. C. I più antichi papiri si riferiscono al Pentateuco e sono stati rinvenuti a Qumran e in Egitto; più numerosi sono i papiri cristiani a partire dal II-III sec. d. C. I codici della LXX sono più di 1500 e sono designati come quelli del NT: i più completi, antichi ed importanti sono il Vaticano (B) e il Sinaitico (S) del IV sec. e l’Alessandrino del V sec. Testimoni indiretti sono le citazioni dei Padri della Chiesa (che permettono di 34 localizzare i tipi testuali) e dei rabbini oltre che Giuseppe Flavio, Filone e il NT, che cita la LXX o in forme divergenti dal TM o nelle forme ebraizzanti o in forme testuali sconosciute. I libri veterotestamentari più citati sono Isaia, i Salmi e il Pentateuco. La lingua della LXX da un punto di vista grammaticale, morfologico e lessicale rappresenta un testimone prezioso della storia del giudaismo ellenistico, perché mostra le equivalenze scelte dai traduttori nella loro opera di transculturazione del pensiero biblico dalla mentalità semitica a quella greca indoeuropea. Il NT continua l’evoluzione semantica della terminologia tecnica del giudaismo nel passaggio al cristianesimo nascente. La traduzione è più a senso nei primi libri tradotti (il Pentateuco) e più letterale nei libri successivi. Lo stesso accade con le revisioni della LXX. Si ha dunque che la versione più lontana dall’ebraico sia la più antica, quella più fedele la più recente. Il testo della LXX è diverso dal TM e spesso vicino a Qumran, che riportano un testo altro da quello masoretico. Il traduttore disponeva allora o di un mss. diverso dal TM o lo modificava volutamente, allontanandosene. Altre versioni giudaiche in greco: le “revisioni” o “recensioni” della LXX Il testo della LXX si diffuse dal II sec. a. C tra gli ebrei del mondo greco-romano e dal I sec. d. C. tra i cristiani, che la usarono nella predicazione per mostrare la messianicità di Gesù. Alla fine del I sec. d. C. la LXX fu rigettata dal giudaismo, in quanto adottata dai cristiani come testo ufficiale dell’AT e da loro letta in chiave cristologica e messianica. Il testo fu oggetto di numerose “revisioni” a carattere ideologico o teologico, al fine di renderlo più “ortodosso”. La prima revisione avvenne in Palestina nel I sec. d. C. ed è conosciuta con il nome di kaige. In realtà si tratta in parte di una revisione, in parte di una nuova versione. Lo scopo era rendere il testo della LXX più fedele all’ebraico. Altre versioni o revisioni sono a noi giunte in frammenti (oltre ad averne notizia dagli autori antichi) nella nota Hexapla di Origene, opera filologica che lo tenne impegnato per più di trent’anni (215-245) con la collaborazione di molte persone, in cui egli trascrisse oltre al testo ebraico dell’AT la sua traslitterazione in caratteri greci e le 35 quattro versioni greche di Aquila, Simmaco, LXX e Teodozione. Ognuna occupava colonne diverse e nei testimoni le colonne spesso occupano un ordine di colonne diverso. Il nome di Hexapla (sestuplice) non risale ad Origene, ma ad Eusebio e ad Epifanio. La prima colonna (testo ebraico) non è conservata e si pensi derivi, come la seconda, da una precedente sinossi giudaica. La seconda colonna costituisce un documento molto interessante della pronuncia dell’ebraico nell’antichità. Per i Salmi vi erano altre 2 colonne (Octapla) che riportavano anche le versioni denominate Quinta e Sexta. L’Hexapla mostra, infatti, anche altre versioni, denominate la Quinta, la Sexta e la Septima, delle quali non si conosce bene se fossero revisioni o traduzioni e se fossero continue o meno. La Quinta (distinta dalla quinta colonna dell’Hexapla che riporta il testo della LXX con segni diacritici) era stata trovata da Origene ad Azio. L’opera è anonima e occupava la settima colonna dell’Hexapla riportando Re, Giobbe, Cantico, i 12 profeti, i Salmi. La Sexta doveva esistere per i Salmi, i 12 profeti, Es, Re, Cct, Gb e secondo Girolamo è di origine ebraica. La Septima è testimoniata solo da Girolamo che la cita per Gb, Salmi, Lam, Cct e 12 profeti. Origene pare che intraprese il lavoro dell’Hexapla per un duplice motivo: polemico: preparare i cristiani ad affrontare le dispute con gli Ebrei (Epistola ad Africano 9); scientifico: ricostruire il testo della LXX, compromesso dall’esistenza di copie differenti tra loro, da correzioni e interventi dei copisti (Commentario a Mt 15,14). Origene ebraizzò il testo della LXX e lo rese eclettico a causa dei suoi segni diacritici confusi poi dai testimoni, che li inserirono anche nel testo puro della LXX. Uno dei testimoni principali della versione origeniana è la versione siro-esaplare, che la traduce letteralmente e ne riproduce i segni critici più fedelmente dei mss. greci. Nel 638, quando Cesarea fu conquistata dagli arabi, l’Hexapla andò perduta insieme alla biblioteca. 36 Girolamo parla poi di trifaria varietas, cioè delle tre recensioni importanti della LXX nell’antichità che furono: a) quella di Luciano di Antiochia (250-312) in Asia Minore, citata dai padri antiocheni, come Giovanni Crisostomo e Teodoreto, e nelle annotazioni marginali dei mss. greci e della versione siro-esaplare. Luciano lavora su 1Esdra, Mac, i profeti. Non si distingue bene lo stato pre- da quello post-origeniano, al quale ultimo la recensione lucianea deve molto; b) Esichio in Egitto, anche se si dubita di una sua recensione, oltre che della sua esistenza. Si pensa piuttosto ad una recensione alessandrina, della quale si trova traccia nelle opere dei padri alessandrini; c) Origene in Palestina, del quale abbiamo già parlato. È da notare che le recensioni cristiane vollero stabilire il miglior testo della LXX, scegliendo tra le varianti dei mss. a loro disposizione. Le opere dei Padri, in special modo Girolamo, attestano versioni greche antiche diverse dalla LXX: l’intenzione di queste versioni greche, tra l’altro successive alla LXX, puntava ad ottenere un testo fedele all’ebraico secondo il testo premasoretico. Tra queste le più note riportate nell’Hexapla di Origene sono: Teodozione operò probabilmente una revisione di una traduzione greca dell’AT già esistente. Teodozione sembra essere un giudeo proselito di Efeso, la cui opera fu contemporanea di quella kaighe (30-50 d. C.) o della revisione/traduzione originaria palestinese. I motivi per questa datazione si ritrovano nel fatto che già nel NT si hanno citazioni dell’AT secondo una forma testuale che corrisponde alla revisione di Teodozione e che nei libri più tardi della LXX si ritrovano influssi di tale revisione. Della sua opera rimane il testo di Dn, che alla fine del III sec. ha soppiantato la versione della LXX del medesimo libro; attraverso i segni diacritici sono giunte le parti di Ester, Ger e Gb inserite da Origene lì dove mancavano nella LXX. La lingua testimonia di una fedeltà all’ebraico che preferisce lasciare nella lingua semitica la parola per la quale non esiste un’equivalenza in greco. 37 Aquila fu originario di Sinope nel Ponto. Visse sotto il regno di Adriano (117138), da pagano si convertì all’ebraismo passando per il cristianesimo. Secondo la tradizione fu allievo di Rabbi Aqiba, da cui dipende nella sua traduzione. Letterale sino all’esasperazione, Aquila era erroneamente considerato come autore del Targum Onqelos sul Pentateuco, giacché con quest’ultima opera la sua traduzione presenta numerose affinità e parti identiche. Per certi libri, come i 12 profeti e Re, Aquila si basò su una precedente revisione giudaica del testo greco dell’AT, mentre dalla LXX si discosta notevolmente. Scopo della traduzione di Aquila era servire da base per l’esegesi rabbinica a lui contemporanea e mostra tratti di polemica anticristiana. Simmaco, un ebionita o un un samaritano convertitosi all’ebraismo, avrebbe operato nella seconda metà del II sec. d. C. Presenta affinità con alcune citazioni veterotestamentarie del NT e con i libri del Siracide e della Sapienza. Linguisticamente, la sua versione è la più corretta e la più chiara: traduce i calchi dell’ebraico operati dalla LXX con espressioni idiomatiche, varia le traduzioni di una medesima espressione e mostra un lessico mediato dalla letteratura scientifica del II sec. d. C. Le versioni aramaiche: i Targumim Targum (plurale Targumim) è termine aramaico che significa “interpretazione” e sta ad indicare le versioni orali, poi scritte, dell’AT ebraico, fatte nella sinagoga durante e dopo la lettura per rendere comprensibili i testi ai fedeli e a scopo catechetico. La redazione scritta si ha già in età precristiana: lo testimonia Qumran con il Targum di Giobbe, il più esteso fra gli antichi (metà I sec. a. C.) e con frammenti di un Targum al Levitico. La redazione scritta dei Targumim si pone comunque in età tardiva: essi contengono però materiali antichi, che testimoniano una forma testuale più antica del TM e interpretazioni dell’epoca neotestamentaria. Si hanno Targumim di tutti i libri dell’AT tranne Esdra-Neemia e Daniele. Nei Targumim il testo non è semplicemente tradotto, ma parafrasato, aggiungendo frasi esplicative, reintegrandolo secondo le esigenze teologiche dell’epoca, attualizzandolo con riferimenti a fatti della vita 38 contemporanea. Si tratta di opere di esegesi giuridica volta a stabilire la norma di vita per gli ebrei con un fondamento scritturistico. Fu l’espressione letteraria dei maestri ebrei tannaiti (coloro che ripetono). I targumim si distinguono in due forme: a) la palestinese, più antica; b) la babilonese, una revisione dei testi targumici palestinesi operata a partire dal sec. V d. C. in Babilonia. Il Targum palestinese è conosciuto in due forme: a) una completa detta dello Pseudo Jonatan a causa di una lettura errata della sigla TJ che indica il Targum Jerushalmi I, che sarebbe una revisione del Targum Onqelos del Pentateuco. Contiene molto materiale midrashico, cioè molto commento, ed è più una parafrasi che una traduzione. La redazione risale alla fine del V sec. d. C., dopo i Talmudim, ma contiene materiali antichi; b) l’altra frammentaria proveniente dalla Genizah del Cairo, che contiene la forma più antica del Targum palestinese senza influenze dell’Onqelos. I frammenti presentano resti di sette mss. nei quali stava la versione del Pentateuco datati tra il VII e il IX sec. d. C. Ad essi si aggiungono: c) il Targum Neofiti I scoperto da A. Diez Macho nella Biblioteca Vaticana nel 1956. Si tratta di 477 fogli in pergamena e fornisce la versione del Pentateuco. Pare essere antico (II sec. d. C.) e la lingua testimonia uno stadio antichissimo di aramaico parlato. Permette di riconoscere gli elementi originali e antichi dello Pseudo Jonatan, quelli tipicamente palestinesi di Onqelos, e chiarisce la relazione esistente tra la Peshitta e il Targum palestinese. d) Il Targum Jerushalmi II, in stato frammentario, che conserva 860 vv. del Targum palestinese del Pentateuco. Parafrasa a volte interi capitoli, a volte qualche parola o dei versetti. I Targum Babilonesi furono redatti intorno al IV-VII sec. d. C. in Babilonia, sulla base di un materiale palestinese più antico. La loro vocalizzazione fu posta in analogia con quella del TM, ma la loro forma consonantica fu fissata molto presto. Sono frutto 39 dell’opera di revisione sistematica e delle discussioni rabbiniche babilonesi, al fine di ristabilire una forma testuale fedele all’interpretazione ebraica ortodossa, rivista sul testo ebraico ed epurata dai midrashim. Si hanno questi Targumim: a) T. Onqelos (IV-V sec.), versione ufficiale della Torah, fornito poi di una vocalizzazione, una redazione accademica dotta per il gusto della letterarietà tipicamente babilonese. Ritornato in Palestina, ne soppiantò il Targum e si impose. b) T. Jonatan ben Uzziel (VII sec.), discepolo di Hillel, è la versione ufficiale dei profeti. c) Targumim degli Agiografi, mai riconosciuti ufficialmente dagli ebrei perché non letti nella sinagoga. La lingua e le tradizioni rivelano l’origine palestinese, ma la loro redazione si estese sino al VII sec. d. C., permettendo così all’ebraico babilonese di estendersi ed imporsi. Le versioni di origine cristiana Due le versioni cristiane: una la Vetus, dipendente dalla LXX in versione preesaplare, senza cioè le recensioni dei secc. III-IV, per l’AT, dalla recensione occidentale (D) per il NT; l’altra la Vulgata, fatta sul TM in un periodo in cui ancora il testo di quest’ultimo non era stato fissato nella sua forma definitiva per la mancanza di annotazioni delle vocali. Vetus latina È attestata a partire dal II-III sec. d. C: in Africa, in Gallia meridionale e in Italia ad uso delle comunità cristiane di lingua latina. Viene anche chiamata versione pregeronimiana (anche al plurale se si considera la sua duplice attestazione). Due le versioni principali: una redatta nell’Africa proconsolare intorno al 150 d. C. (Vetus Afra), l’altra redatta in una località ignota dell’Europa, forse Roma, tra il II-III sec. d. C., che Agostino chiama Itala (da cui Vetus Itala) e che considera superiore alle altre versioni per la fedeltà al testo e la chiarezza. Alcuni libri di tale versione, non 40 revisionati né tradotti da Girolamo, entrarono a far parte della Vulgata: essi sono 1 e 2Mc, Bar, Epistola di Ger, Sir, Sap. È citata dai Padri e trasmessa da mss. risalenti al V sec., almeno i più antichi. La Vetus fu comunque copiata fino al sec. XIII. Benchè soppiantata nel V sec. dalla Vulgata, continuò ad esercitare il suo influsso su quest’ultima. Fu revisionata per ordine di Papa Damaso da Girolamo nel 382. Girolamo si servì della LXX nella recensione origeniana. Di questa revisione rimangono solo Gb e Salmi e parti di Pr, Cct, Qo. La revisione dei Salmi, detta Psalterium Gallicanum, entrò poi nella Vulgata al posto della successiva revisione sull’ebraico. Vulgata Fu redatta da Girolamo nel 390, dopo che egli si fu trasferito a Betlemme nel 386. Per l’AT, cioè i libri protocanonici, Girolamo si riferì al testo ebraico e a quello aramaico per Tobia e Giuditta ed i frammenti deuterocanonici di Dn nella versione greca di Teodozione. Vi si aggiunsero poi i deuterocanonici della Vetus latina ed il Psalterium gallicanum ed ancora la revisione del NT operata da Girolamo nel 383 su versioni precedenti che si basavano sulla recensione occidentale, cioè il tipo testuale D, i cui autori rimangono ignoti e dei quali si può soltanto notare la fedeltà al testo e la redazione in una lingua latina popolare e non letteraria grazie alle citazioni di Pelagio e dei suoi seguaci (inizi sec. V). Di queste versioni del NT Girolamo corresse i punti alterati. Il lavoro di redazione della Vulgata continuò sino alla morte, avvenuta nel 405. La Vulgata sottolinea fortemente le implicazioni messianiche veterotestamentarie, fatto che nutre la pietà cristiana, ma che impone limiti al dialogo con il mondo ebraico, che pure Gerolamo auspicava come frutto della sua versione. La diffusione della Vulgata produsse un gran numero di mss. e dunque di alterazioni testuali. Si stabilirono così tre recensioni fra le tante considerate più vicine al testo originale: 1. recensione di Cassiodoro (sec. VI); 2. recensione di Alcuino (Francia, sec. VIII); 41 3. recensione di Teodolfo, vescovo di Orléans (Francia, sec. VIII: meno riuscita della 2.); La Bibbia parigina edita dall’Università di Parigi nel sec. XIII introdusse la divisione in capitoli all’interno della Vulgata, divisione realizzata da Stefano Langton, cancelliere della medesima Università e poi cardinale e arcivescovo di Canterbury (+1228). In essa vi sono anche i Correttori biblici, cioè la raccolta di varianti, ciò che costituisce l’antenato della critica testuale. La Vulgata fu stampata proprio da J. Gutenberg a Magonza nel 1452 e prese il nome di Bibbia Mazarina. I primi tentativi di edizione critica, realizzata su codici antichi, apparvero nel sec. XVI nella Bibbia Complutense (1522), nella Poliglotta omonima e nella Parigina di Roberto Stefano, cioè la Estienne (158), nella quale fu introdotta la versione in versetti. La Vulgata divenne testo ufficiale della Chiesa cattolica con il decreto Insuper del Concilio di Trento nella Sessione IV dell’8 aprile 1546 che afferma: “il Concilio stabilisce e dichiara che l’antica edizione della Vulgata, approvata dalla stessa Chiesa da un uso secolare, deve essere ritenuta come autentica nelle lezioni pubbliche, nelle dispute, nella predicazione e nella spiegazione e che nessuno, per nessuna ragione, può avere l’audacia o la presunzione di respingerla”. Ciò accadde a causa della proliferazione di testi e contro la Riforma protestante. L’autenticità cui si riferisce il Concilio non è da intendersi nel senso della critica testuale quanto nel senso dell’autorità della Volgata in materia di fede e morale. Il decreto richiedeva poi una revisione della Vg che possedesse i caratteri della “massima esattezza”: essa fu approntata nel 1592 sotto papa Clemente VII e prende il nome di Sisto-Clementina (papa Sisto V la fece revisionare già nel 1590). Una commissione pontificia per la determinazione del testo della Vulgata, istituita da Pio X nel 1907, ha avuto sede da allora nell’abbazia di san Gerolamo a Roma. Iniziando da Gen (1926), gli editori benedettini della Biblia Sacra juxta Latinam Vulgatam Versionem hanno pubblicato 12 volumi dell’AT, che comprendono la maggior parte delle versioni di Gerolamo dal testo ebraico con il Psalterium gallicanum. 42 La Neo-Volgata nasce sotto Paolo VI che avviò i lavori di revisione con la costituzione della Pontificia Commissione per la Neo- Volgata il 29-11-1965, al fine di correggere la Vg sulla base di testi precedenti e mantenere la Neo-Vg per l’uso liturgico e per lo studio. È stata promulgata da Giovanni Paolo II con la Costituzione Apostolica “Scripturarum Thesaurus” del 25-4-1979. Le versioni siriache La Peshitta Detta anche Peshitto nella tradizione occidentale, può essere definita la Vulgata siriaca, ancora in uso nelle chiese sire. Di origine antica, anche se non determinabile, è trasmessa da mss. del sec. V, i più antichi, poiché in questo periodo essa divenne autorevolmente la Bibbia di tutti i cristiani di lingua siriaca. Il nome di Rabbula, vescovo di Edessa, morto nel 435, è colegato senza alcuna garanzia all’elaborazione della Peshitta, specialmente dei suoi vangeli. Benchè essa già esistesse ai suoi tempi, egli non ne fece uso. È discusso se la versione sia di origine cristiana o giudaica e se sia stata fatta direttamente sul testo ebraico o sulla base di un Targum, almeno per ciò che concerne l’AT, come può apparire analizzando il libro di Cr. La Peshitta dipende, sempre per l’AT, dalla LXX, da cui tradusse Tobia, Giuditta, Maccabei, Baruc, Sapienza e le parti deuterocanoniche di Dn. La LXX esercitò il suoi influsso nella traduzione di Salmi, Isaia e i 12 profeti, ma la loro non fu una traduzione diretta. Il NT presenta i resti di alcune lezioni occidentali e di altre caratteristiche antiche e presenta un adattamento al tipo bizantino di mss. greci che era già usuale verso il 400 d. C. Per questo per il NT non si parla di una traduzione, ma di una revisione di una redazione dell’antica versione siriaca basata su mss. del tipo testuale Koinè. Per il NT comprende solo 22 libri, tralasciando le piccole lettere cattoliche (2.3 Gv, 2Pt, Gd) e l’Apocalisse. La versione non presenta un carattere uniforme e i mss. presentano una recensione uniformatrice. La divisione della Chiesa sira in due rami, occidentale e orientale, portò a distinguere due forme diverse di Peshitta. 43 La versione siro- palestinese È redatta in un dialetto aramaico occidentale (siro-palestinese appunto) parlato in Palestina nei secc. IV e V dai cristiani lì residenti. Questo dialetto ha molte somiglianze con il Samaritano e trova attestazione nel Targum del Pentateuco. In particolare, era parlato dai Melchiti imperiali, cioè i seguaci del Concilio di Calcedonia dopo lo scisma della Chiesa di Edessa, e veniva scritto con una grafia derivata dall’estrangela (dal greco strogulè=rotonda e indica la più antica scrittura siriaca. La versione dell’AT ha subito l’influsso dell’Hexapla di Origene. Di esso si conoscono i librti del Pentateuco, Gb Prov, Sal, Is e altri libri in forma frammentaria, derivati da più antichi testi siriaci e forse giudeo-aramaici. Frammenti si hanno del NT risalenti al VI sec. La versione siro-esaplare (solo per l’AT) Sorse, insieme alla versione Filosseniana, per il desiderio dei siriani Melchiti, aderenti alla chiesa bizantina e romana, e dei Giacobiti, monofisiti siro-occidentali, al fine di uniformare la loro Bibbia con quella dei LXX. Redatta per l’AT soltanto, e non per tutta la Bibbia come le prime due sopra, viene attribuita a Paolo, vescovo di Tella, traduttore di 1-2 Re, nella Mesopotamia settentrionale. Consiste nella traduzione siriaca della quinta colonna degli Hexapla di Origene. La data di composizione è il 612-615 d. C. Versioni siriache del NT Sono precedute dal Diatessaron di Taziano, dalla fine del sec. II e fino al sec. V assunto come testo ufficiale dei cristiani di Edessa, come attestano le citazioni di Efrem il siro, fonte principale per la ricostruzione del testo. Si tratta di un’armonizzazione continua, che intesse insieme marteriale dei quattro vangeli con brani tratti dagli apocrifi (Storia di Giuseppe il falegname e il Vangelo degli ebrei). Originario della Siria, nato verso il 110, Taziano visse molti anni a Roma come discepolo di Giustino. Asceta estremo tornò in patria dopo il 165 e iniziò la composizione dell’opera. È difficile stabilire se sia stato scritto prima in greco o in siriaco La forma greca del Diatessaron è andata perduta, tranne un frammento di 14 righe risalente al III sec., scoperto nel 1933 a Dura Europos sull’Eufrate. Andò perduto a causa degli oppositori, come Teodoreto di Ciro che verso il 44 425 ne distrusse quasi tutte le copie perché sospettava Taziano di eresia. Il Diatessaron venne sostituito dai quattro vangeli in siriaco. Esse sono due: 1. Vetus syra, la più antica e la più lacunosa, di cui si posseggono due mss. contenenti i quattro Vangeli ritrovati l’uno nel monastero di Santa Caterina al Sinai detto sirosinaitico(sys), l’altro nel deserto di Nitria in Egitto da W. Cureton detto sirocuretoniano (Syc). Subiscono l’influsso del Diatessaron e rappresentano, pur nelle loro diversità, una medesima versione. Il testo greco sottostante è arcaico e di tipo occidentale. 2. La versione Filosseniana attribuita a Policarpo, corepiscopo di Mabbug, che la eseguì nel 507-508 sul testo greco per ordine di Filosseno, vescovo monofisita della città. È andata perduta e la versione di Tommaso di Harqel (616) non la restituisce bene perché la integra con il tipo testuale Koinè e con altri mss. GEOGRAFIA BIBLICA Il luogo degli eventi biblici è compreso all’interno della Mezzaluna Fertile, che si estende dalla Mesopotamia all’Egitto. Il territorio della terra di Israele, facente parte del più ampio denominato geograficamente Siria- Palestina dall’epoca ellenistica e sino alla dominazione romana, si estende per circa 320-400 Km da Dan nel nord a Bersabea nel sud ai margini del Sinai, includendo anche il deserto del Neghev e la Rift Valley giordanica (Dan e Bersabea in linea d’aria coprono infatti solo 240 Km). Il territorio di Israele copre così quella che è chiamata la fossa o depressione giordanica che si estende dal bacino di Hule, fonte del Giordano a nord, al Mar Morto a sud (400 m sotto il livello del mare), il punto più basso della crosta terrestre. Questa vasta area si può suddividere in quattro striscie parallele, che si estendono da nord a sud, da est a ovest: 1. i monti della Transgiordania; 2. la Rift Valley giordanica; 3. i monti della Palestina o Cisgiordania; 45 4. la pianura costiera del Mediterraneo. Le due catene montuose, quella transgiordanica e quella palestinese, sono la continuazione rispettivamente delle catene del Libano e dell’Antilibano, in Siria. In origine si trattava di un’unica catena, che si spaccò in due da nord a sud a causa del ripiegamento della crosta terrestre. Nell’area palestinese questa spaccatura formò la Rift Valley giordanica, lungo la quale oggi scorre il fiume Giordano dalla zona nord nel bacino di Hule fino al Mar Morto. La spaccatura raggiunge i 390 m sotto il livello del mare alla superficie del Mar Morto e si continua poi nella vallata dell’Araba, territorio semidesertico, che si apre nel golfo di Aqaba. La spaccatura continua sino al lago Nyassa e alle cascate Vittoria in Africa, nel Kenya. Probabilmente qualcuna delle montagne presentò una natura ed un’attività vulcanica: a est di Israele, il Gebel Druze ha lasciato tracce vulcaniche nella lava o basalto eruttati sul Basan e sul deserto orientale transgiordanico. Il ribollire sotterraneo è evidente nelle sorgenti calde di Callirrhoe, sulle sponde nord-orientali del Mar Morto. Terremoti sono attestati nell’antichità come ai nostri giorni. I monti della Transgiordania sono più alti di quelli della terra di Israele e sono tagliati da est ad ovest da una serie di spaventosi canyons o gole, che costituivano, per i suoi abitanti, delle frontiere naturali. I monti meridionali della Transgiordania, che costituivano il territorio dell’antico Edom, cominciano a circa 30 Km a nord-est di Elat (Golfo di Aqaba). Quindi attraverso le montagne di granito di Madian si giunge ad Edom. Fanno parte della Transgiordania le regioni di Edom, Moab, Ammon, Galaad, Basan. La Rift Valley giordanica è una valle elevata, con un’altitudine che va dai 500m circa ai 1000 m., originata dalla spaccatura delle due catene montuose del Libano e dell’Antilibano. Ospita il bacino di Hule, lungo oltre 13 Km e largo quasi 5 Km, anticamente alla convergenza dei quattro corsi d’acqua che filtrano dai monti del Libano e che danno vita al Giordano. I più importanti di essi sono due, il Liddani e il Baniasi, che nascono ai piedi dell’Ermon. Il bacino, che formava una zona paludosa insalubre, venne prosciugato. Costituiva un punto di passaggio obbligato per il Libano e la Siria: per questo venne edificata l’antica roccaforte di Cazor, sui monti a sud-ovest dello 46 stesso lago di Hule. Dal bacino di Hule si passa, dopo 16 km, al lago (così lo chiama Luca) di Tiberiade (così nel Vangelo di Giovanni, il più tardivo, che così lo chiama con il nome che il lago prese nel I sec. d. C., dopo che Erode il Grande vi fece erigere la città omonima in onore dell’imperatore) o Mare di Galilea (in Matteo e Marco), in ebraico Kinnereth (arpa, da cui il nome di pianura di Genesaret in Mt 14,34, lago di Genesaret in Lc 5,1 e lago di Genesar in Flavio Giuseppe), teatro del ministero galilaico di Gesù, lungo 20 km e largo 12 km. Qui si trovano le località menzionate nei Vangeli, insieme alla regioni della Batanea e della Decapoli. Il Giordano finisce poi nel Mar Morto. Chiuso dai monti sui due lati, lungo 80 km e largo 16 km, è il punto più basso della superficie terrestre, 396 m sotto il livello del mare. È anche chiamato Mar d’Araba, Mare Salato, Lago Asfaltide. In esso oltre il 27% delle sostanze sono composti chimici solidi; il suo contenuto salino aumenta continuamente perché i sette miliardi di tonnellate di acqua che vi si immettono ogni giorno non hanno sfogo e la costante evaporazione lascia residui solidi. Sulla costa nord-occidentale, presso la sorgente di Ain Feshkha, sorgono le rovine di Qumran, il centro in cui visse la comunità che produsse i Rotoli del Mar Morto. Sorgono qui la sorgente di Engaddi, dove Davide cercò rifugio da Saul (1Sm 24,1; Ct 1,14), e la fortezza di Masada, ultimo baluardo della resistenza ebraica contro Roma. La sezione meridionale della Rift Valley, cioè i 160 km delle paludi salate di Sebkha che giungono fino al golfo di Aqaba, costituisce la regione chiamata Araba. Fiancheggiato su entrambi i lati dai monti si innalza fino a 200m per poi riabbassarsi al livello del mare. Fu abitata dai Nabatei, gli abitanti di Petra, ed è importante sia perché fu una delle strade di cui Israele si servì per avanzare da da Kades Barnea alla Transgiordania sia perché costituì il centro dell’industria del rame di Salomone. Sorgevano qui la fortezza di Elat, contesa tra Giuda ed Edom e la città di Ezion-Gheber, famosa per il porto ivi costruito da Salomone. I monti della Palestina o Cisgiordania si estendono verso sud sino al Negheb, con l’unica interruzione della pianura di Esdrelon, che la taglia in direzione nordovest/sud-est. Il Negheb è la regione meridionale della Palestina, un’area più o meno trapezoidale delimitata da Gaza, il torrente d’Egitto, Ezion-Gheber e Sodoma, 47 fiancheggiata a ovest dal deserto della costa e ad est dall’Araba. Il Negheb (Sud) è chiamato nella Bibbia deserto di Sin, anche se questo nome si riferisce alla propaggine meridionale estrema, nei pressi di Kades-Barnea, località bilica famosa insieme a quella di Bersabea, legate alla storia patriarcale e agli eventi delle peregrinazioni nel deserto conseguentemente all’esodo nel ciclo di Miriam, sorella di Mosè, e nei racconti del dono miracoloso dell’acqua. La costa mediterranea venne abitata nel 1200 a. C. dai “popoli del mare”, i cosiddetti Filistei, un amalgama di indo-europei originari di Creta, Cipro, Sardegna, Sicilia e altre isole del Mediterraneo. Superiori in guerra, conquistarono, con l’aiuto dell’Egitto, la fascia costiera, costituendovi una pentapoli formata dalle città di Gaza, Ascalon, Asdod sulla costa e Gat ed Ekron all’interno. Lungo questa costa correva la Via Maris, la strada principale che dall’Egitto attraverso Cafarnao conduceva alla Siria. Qui, tra i monti della Giudea e la pianura filistea, sta una striscia di colline larga dai 16 ai 23 km e alta tra i 100 e i 450m: è la Sefela, “terra bassa”, passaggio naturale dalla Filistea alle montagne e luogo fertilissimo, protetto da città fortificate: Debir, Lachis, Libna, Azeka, Makkeda, Bet-Semes e Ghezer, ricorrenti nei racconti biblici di guerra. La costa presenta città famose quali Akko, Dor, Joppe, Asdod, Askalon, la stessa Gaza. A nord si trova il massiccio montuoso del Carmelo che forma la baia di Haifa e Acco, sulla pianura di Esdrelon, chiamata Izreel nella sua propaggine orientale. La pianura di Esdrelon si stende dalla baia di Haifa alla Rift Valley giordanica. Sulla piana di Esdrelon passava la Via Maris: per questo sorsero qui quattro fortezze a sua custodia e difesa: Iokneam, Meghiddo, Taanach e Ibleam. Legata alla tribù di Giuseppe, fu teatro di lotte interne tra le tribù del nord e quella stessa di Giuseppe per il suo controllo e possesso. Da Joppa (Giaffa) nel sud per 60 km sino al nord si estende la pianura di Saron (probabilmente “terra piatta”), più stretta della pianura filistea avendo una larghezza di 16 km. Una collina d’arenaria emerge come un’isola al centro della pianura, in direzione nord-sud; le zone ai lati di questa collina, a causa della deviazione dei tre torrenti e dei wadi che essa determina proprio ai suoi stessi lati, erano paludose. Gli ostacoli che presenta la struttura del terreno di questa regione furono un deterrente 48 notevole agli spostamenti e insediamenti umani. La strada maestra rasentava la base dei monti e le poche città importanti – Joppa (Giaffa), Lod (Lidda), Afek, Gilgal e Soco – erano situate lungo il perimetro della pianura. Solo in epoca neotestamentaria strade e ponti resero la pianura di Saron più praticabile. Qui sorse Iabne o Iamnia o Iabneel, la città del rabbinismo, e, costruita da Erode il Grande, Cesarea Marittima (o Torre di Stratone), con il suo porto, sede della legione romana di stanza in Israele e del procuratore/prefetto romano. Il fiume più importante è il Giordano (il cui nome significa “in forte discesa”), un corso d’acqua non più largo di 18-24 m, che raggiunge la sua massima velocità di scorrimento nei 16 km che separano il bacino di Hule dal Lago di Galilea, giacché, scorrendo attraverso una stretta gola di basalto le cui pareti si innalzano sul fiume fino a 350 m, il fiume scende dagli oltre 60 m d’altitudine di Hule ai 205 m sotto il livello del mare del lago di Galilea. Naaman il Siro lo trovò poca cosa rispetto ai fiumi imponenti di Damasco. Con le sue anse e i suoi meandri, soprattutto a metà del suo corso dal lago di Galilea verso il sud, il Giordano si è scavato nella Rift Valley un letto assai profondo chiamato lo Zor. In certi punti lo Zor è largo più di 1 km e mezzo e profondo oltre 45 m. coperto dalle acque a primavera, quando le nevi dell’Ermon, sciogliendosi, gonfiano il Giordano, lo Zor è spesso un folto impenetrabile di cespugli e di alberi che, nell’antichità, offriva rifugio ad animali selvatici, leoni compresi. Il terreno attorno allo Zor consiste di terremare deserte, ossia di grigie colline di marna dalla terra sterile e friabile, dette qattara. Il Giordano così divide anziché unire, tranne che nei percorsi più facilmente guadabili a nord. I suoi tre affluenti maggiori sono lo Yabbok, l’Arnon e lo Yarmuk. Lo Yarmuk aveva una portata d’acqua pari a quella del Giordano stesso. Lo Yabbok con la città di Adama alla sua confluenza con il Giordano è la spiegazione delle acque ridotte o ferme del Giordano nell’episodio dell’ingresso nella Terra con Giosuè (Gs 3,16): testimonianze storiche confermano, infatti, che le frane nella zona di Adama hanno talvolta fermato temporaneamente le acque del Giordano. Il clima varia a seconda delle principali caratteristiche ambientali del territorio. Fondamentalmente vi sono due stagioni: l’estate, calda e asciutta, e l’inverno, fresco e piovoso. La costa è calda con in media 25° d’inverno e 34° d’estate. La temperatura 49 della regione montagnosa Di Israele è di 2-3 gradi in meno di quello della costa. L’estate in questa zona montagnosa porta giornate calde e assolate e notti più fresche. Il cattivo tempo sulle montagne non è causato dall’umidità, come sulla costa, ma dal vento, sia che si tratti del vento che porta la pioggia dal Mediterraneo sia che si tratti del Khamsin o scirocco che soffia dal deserto in maggio e in ottobre. Il portico di Salomone nel Tempio era l’unico a riparare dai venti (Gv 10,23). In tal senso Gerico è invivibile d’estate, ma diventa una località climatica ideale d’inverno. Il territorio più vicino al Mediterraneo riceve più piogge, perché la catena montuosa palestinese, con le sue cime più altre, agisce come una barriera alle perturbazioni provenienti dal mare, costringendole a scaricare le loro acque sulle pendici occidentali delle montagne. In corrispondenza, le pendici orientali sono molto più aride. Un’annata buona è quella in cui la pioggia autunnale, precoce, cade in ottobre, nel periodo della semina, e quella primaverile, tardiva, in marzo e aprile, appena prima della mietitura. La Bibbia conosce queste due stagioni e la preghiera ebraica fa sua l’espressione salmica “manda la pioggia al tempo opportuno” inserendo in questi periodi la richiesta della pioggia. Caratteristico della terra di Israele è il wadi, ossia una valle che d’estate è asciutta, trasformandosi però in un canale di rapidi flutti e di violenti correnti nella stagione delle piogge. Quando sono asciutti i wadi servono come strade per salire sui monti. Le tre regioni in cui si divide la terra di Israele sono: la Galilea a nord (a sua volta divisa in Alta e Bassa Galilea), la Samaria al centro, la Giudea al sud. La Galilea, posta fra la pianura di Esdrelon e Dan, si stende per circa 55-65 km da sud a nord, e per 32-40 km da est a ovest. È divisa in due parti da una linea di frattura, una faglia, la piana di Ramah, che da oriente ad occidente va dal lato nord del lago di Tiberiade fino alla città di Tolemaide (oggi Akko) sulla costa mediterranea. L’alta Galilea o Galilea settentrionale, dai contrafforti della catena del Libano, arriva a ovest fino a Peq’in, alla frontiera con Tolemaide e all’est fino al Giordano. Copre circa 240 km2 con un terreno elevato che raggiunge i 900-1200 m. piogge abbondanti e forti venti caratterizzano questa regione che di fatto è l’inizio della catena del Libano a nord. Presenta poche città, importanti però nella storia di Israele, quali Giscala, Safed, e molti luoghi di rifugio, dove alture inaccessibili offrirono la possibilità di resistere ad eserciti 50 molto forti. Da qui si cominciò la guerra giudaica, nonostante la regione fosse aperta ai contatti con la Siria e la Fenicia. I villaggi dell’Alta Galilea erano abitati da persone di fede tradizionalista e conservatrici: essi sono citati nella lista delle 24 classi sacerdotali di servizio a turno da un sabato al successivo nel Tempio di Gerusalemme. La Bassa Galilea o Galilea meridionale copre un’area di 750 km2 e risulta costituita da morbide colline che non superano i 600m d’altezza. Isaia la definisce Galilea delle genti, per la presenza di pagani in essa, presenza che fu costante. Il terreno è costituito da una serie di bacini alluvionale assai fertili, mentre i villaggi conseguentemente sorgono sulle colline. nella zona collinosa centrale presenta, come monte più alto, il Tabor (588 m). La Samaria si estende per 23 km comprendendo il territorio a nord di Efraim (siamo nella tribù di Manasse) fino alla pianura di Esdrelon. Si tratta di una regione collinosa che presenta ricche pianure e ampie vallate. Il clima permette la coltivazione di cereali. La Giudea è la regione montuosa che inizia a nord di Bersabea e continua fino poco oltre Gerusalemme. I monti, non molto fertili, toccano gli 800 m di media, con il monte Silo a 915m, e superano i mille sull’altopiano di Baal Hatsor; rimangono poi sui 700m verso sud. Ad est, dove l’altopiano scende verso il Mar Morto e la Rift Valley, si stende il deserto di Giuda, rifugio di banditi e di fuggiaschi o luogo di ritiro per religiosi eremiti. Non esistono sorgenti d’acqua nel tratto di strada che separa Gerusalemme da Gerico. Ad ovest di Giuda, la Shefela fiancheggiava le montagne ed offriva una zonacuscinetto contro l’espansione filistea. A sud la difesa è costituita dai monti di Bersabea e dal deserto del Negheb, percorso da razziatori. La tribù di Giuda, che può essere entrata dal sud piuttosto che attraverso il Giordano, sembra essersi alleata con un gruppo di popolazioni meridionali come i Keniti, i Kezziti, i Calebiti e gli Ieracmeliti, che essa introdusse nella confederazione israelitica. Giuda incorporò anche il territorio di Simeone (Gs 19,9), dai confini molto caghi, formando in tal modo un’unità territoriale completamente indipendente dalle tribù israelitiche del nord: un’indipendenza che rimase evidente lungo tutto il corso della storia ebraica. A nord la difesa era costituita da Gheba, nella tribù di Beniamino, che Giuda riconosce e difende 51 come sua (città e tribù). Fra le città di Giuda la più importante, come è ovvio, è Gerusalemme, che sorge a 700 m sul livello del mare ed è circondata da colline e monti un po’ più alti, che sono: all’esterno verso nord il monte Scopus (831 m), a ovest il Monte degli Ulivi (818 m), a sud il Monte dello Scandalo (734 m) e il Monte del Cattivo Consiglio. Il monte coperto da Gerusalemme è isolato su tre vallate. Ad oriente la vallata del Cedron, che separa la città dal Monte degli Ulivi. Viene identificata con la Valle di Giosafat, nella quale Gl 3,2-12 pone il raduno di tutte le nazioni per il giudizio universale. Ad occidente di Gerusalemme c’è la valle di Innom che gira attorno alla parte meridionale del monte per incontrare il Cedron presso sud-est, presso Akeldama (At 1,19). Questa valle (Ge-Innom da cui Geenna) acquistò una fama poco simpatica perché usata per bruciarvi le immondizie e per i culti di divinità pagane. Il monte stesso di Gerusalemme era diviso in due colline, una ad occidente e l’altra ad oriente, da una valle molto meno profonda, oggi appena visibile, detta Tyropeion (“dei formaggiai”). La città cananea (gebusea) che Davide conquistò si trovava sull’estremità meridionale della collina orientale, dove il Cedron e il Tyropeyon si avvicinavano l’uno all’altro per entrare poi nella valle di Imnon, sovrastante l’unica sorgente della città, il Ghicon, dalla quale Davide e il suo esercito salirono, con una tecnica ancora sconosciuta, verso la città. La collina occidentale di Gerusalemme, più alta e imponente, conosciuta dalla tradizione come Sion o Città di Davide nella sua parte meridionale (qui Erode e i ricchi avevano la loro residenza e qui sorge il Cenacolo), contiene nella sua parte settentrionale, detta Gareb, il Golgota, fuori le mura al Tempo di Gesù (le mura di Gerusalemme furono tre in tre epoche diverse: mura di Salomone-Neemia, mura di Erode il Grande, mura di Agrippa I). la città di Davide sorgeva nella zona sud-est della collina orientale chiamata Ofel ed era separata dal Moria da un avvallamento riempito (il Millo). Il Moria fu l’area del Tempio a nord dell’Ofel, acquistato da Davide da Arauna il Gebuseo. Ancora più a nord sta Bezeta, che conteneva la Piscina Probatica e la Porta delle Pecore. Cenni sull’influsso della geografia nella vita e nella storia delle popolazioni: tendenza all’isolamento o apertura, facilità o meno di comunicazione, scambio culturale ed economico. Interessante l’osservazione di Galbiati: “L’influsso della geografia fisica 52 che impedì alle popolazioni residenti – compresi i piccolissimi regni delle città fortificate dei Cananei, prima che vi si stabilissero gli Israeliti – di avere un grande ruolo nella storia politica e nella cultura, favorì invece quella che è da ritenersi la vocazione fondamentale di Israele, l’esser cioè depositario di un messaggio religioso assolutamente nuovo e tale da poter resistere alle tentazioni di sincretismo e di assimilazione alle correnti religiose di popoli culturalmente più dotati. L’espressione più alta e, diremmo, più esasperata di questo volersi tenere nell’isolamento più assoluto dal punto di vista religioso, si ha nel Deuteronomio, eco di una catena ininterrotta di messaggi provenienti dagli ambiti profetici. Questa catena va da un capo all’altro nella storia biblica e, se nella lotta contro parziali cedimenti finì per trionfare nell’epoca postesilica, ciò si deve anche al fatto che potè contare sulle caratteristiche di una popolazione predisposta dalle condizioni geografiche all’isolamento e a reagire con crisi di rigetto alle pretese di popoli più potenti e più dotati di civiltà materiali” (in Fabris, 149). (articolo consigliato per l’esame: R. E. BROWN, S. S. – R. NOTH, S. J., Geografia biblica, in AA.VV., Nuovo Grande Commentario Biblico, Queriniana, Brescia 1997, 1546-1573). ARCHEOLOGIA BIBLICA L'archeologia oggi tende a definirsi sempre più come scienza autonoma fondata epistemologicamente. Nel senso moderno del termine l’a. è un’invenzione del XVIII sec. Con l’Illuminismo cerchie sempre più numerosi di eruditi iniziarono a inseguire sistematicamente il passato dell’umanità. Il nome si deve all’archeologo lionese Jacob Spon, che l’introdusse nella lingua francese; l’idea è molto più antica. È fuor di dubbio che generazioni d’uomini, ancor prima della scoperta della scrittura, ancor prima delle società agricole, abbiano avuto conoscenza del passato. Un passato di cui sappiamo solamente che si rivelava attraverso oggetti conservati con cura, tesaurizzati perché portavano la traccia di un comportamento o di uno stile non più di moda. In Mesopotamia, in Egitto, in Cina, dal II millennio a. C., alcuni sovrani iniziano a scavare tombe e santuari per scoprire i resti dei loro lontani predecessori. Architetti e scribi sono chiamati per 53 liberare i muri, decifrare le iscrizioni, restaurare le dimore degli dei o degli antichi sovrani. Tutto dimostra che per i governanti dei primi stati della storia, il controllo del passato è una necessità politica e religiosa, garanzia della stabilità del regime. Nel V sec. a. C. in Grecia, i sofisti inventeranno il termine di archaiologia, inteso come la scienza del passato: origine dei popoli, delle usanze, delle città. L’archaiologia è una parte della ricerca (historia) sugli avvenimenti del passato. Ma essa è più attenta alle istituzioni, alle singolarità dei popoli che ad ordinare cronologicamente i fatti. Così Tucidide, riflettendo sulla storia comparata di Atene e di Sparta, o Pausania, commentando le rovine di Micene, mettono a confronto la tradizione con il paesaggio e le vestigia identificabili. Fanno dei monumenti e degli oggetti una fonte della storia (così Tucidide nell’archeologia siciliana). Il Medioevo vedrà la riorganizzazione dello spazio per gli usi cristiani. Nell’Europa delle grandi invasioni, i chierici, forti della loro ottima conoscenza della tradizione greco-latina, devono spiegare al popolo l’origine di antichi monumenti, poi destinati ad altri usi, che spuntano nel caso di una costruzione, di una nuova pianificazione o della creazione di una nuova città. La preoccupazione per l’antichità prende forme molto diverse, dagli editti di Teodorico che prescrivono di rispettare i monumenti di Roma ai riti ecclesiastici intesi a purificare rovine, statue o vasi antichi della loro influenza pagana, fino alle ricerche organizzate dai papi e dai re, per scoprire sia le reliquie dei santi sia i tesori dei pagani. Il primo Rinascimento si muove e prosegue la stessa linea. Gli eruditi italiani dei secc. XIV e XV, Petrarca e Ciriaco d’Ancona, gettano le basi di un altro approccio del passato. La Grecia e Roma antiche sono oggetto di conoscenza che il ritorno alle fonti e la critica filologica possono contribuire ad illuminare. Si confronta la tradizione scritta con l’epigrafia, la descrizione dei monumenti e ben presto la scienza delle medaglie: la numismatica. I precursori del Rinascimento si chiamano e si proclamano nuovamente antiquari, non più eruditi. Essi sono i conoscitori e i collezionisti delle vestigia del passato. Con il ritorno dei papi da Avignone a Roma, la città eterna ritorna ad essere la capitale intellettuale dell’Europa. Trasformare la città del Medioevo in metropoli del mondo cristiano diventa un imperativo, e queste operazioni urbanistiche implicano lo scavo del suolo. Uomini come Flavio Biondo e Raffaello danno al mestiere di antiquario i suoi metodi e la sua dignità. La scienza degli antiquari romani è un modello per tutti gli eruditi del XVI secolo. Inglesi e scandinavi sono i pionieri, perché devono supplire alla mancanza di fonti scritte con l’osservazione del paesaggio, e gettare le basi di una geografia storica che porta l’erudito ad uscire 54 dal suo studio; monumenti, monete, vasi, iscrizioni diventano strumenti della storia.. Ad essi si aggiungono tedeschi, francesi e olandesi; rinascono allora le discussioni dimenticare dai tempi degli storici greco-latini sui meriti comparati delle fonte storiche o sul peso della tradizione scritta rispetto alla raccolta delle antichità. L’attenzione non è più limitata alle vestigia del mondo classico, ma si apre alle mummie egiziane, ai megaliti, cioè le tavole dei giganti, alle selci tagliate, alle pietre focaie, alle urne che gli scavi rivelano. In quest’epoca, nonostante la diffidenza degli ecclesiastici, il benedettino B. de Montfaucon stabilisce le regole del discorso archeologico, mentre il Conte di Caylus inventa il metodo tipologico, postulando che ogni oggetto manifesta un luogo e un’epoca identificabili. Buffon stabilì, esplorando “l’oscuro abisso del tempo”, che la storia del mondo deve contarsi in decine, addirittura in migliaia di anni. Boucher de Perthes fece prendere coscienza dell’alta antichità dell’uomo e diede così inizio all’estrazione dei fossili necessari a stabilire una paleontologia umana che fa dell’uomo un animale tra gli altri. L’a. moderna è tributaria di questa evoluzione. Essa è fondata su tre pilastri: la tipologia, che stabilisce l’evoluzione degli oggetti nello spazio e nel tempo; la stratigrafia, che osserva la posizione degli oggetti nei differenti strati; la paleontologia, che descrive la variazione delle specie animali e vegetali. A questi recentemente si è aggiunto il metodo archeometrico (dall’archeometria) che, verificando attraverso leggi fisiche la datazione e la provenienza degli oggetti, rivela che in tre millenni di progressi discontinui gli antiquari del passato hanno preparato la base per gli archeologi del presente. Dopo gli anni 1950 l’a. cambia: ai margini delle scienze dell’uomo e della natura, essa ha saputo fare sue tanto le scoperte della fisica moderna quanto i nuovi orientamenti della storia e dell’antropologia. L’a., contrariamente all’etnologia e alla storia, è totalmente tributaria di dati esclusivamente materiali, che sono esumati nello scavo. L’etnologia, infatti, dispone di una ricca informazione, poiché essa ha o ha avuto la possibilità di osservare e porre domande a degli interlocutori. La storia lavora sui testi soprattutto, ma la scrittura non compare che in un esiguo numero di società, molto sviluppate, dove essa è maneggiata in genere solo dai ceti privilegiati della popolazione. Numerosissime società sono , dunque, inaccessibili alla storia e, anche in caso contrario, interi ambiti della sfera culturale restano nell’ombra. L’a. interroga il dato, del quale deve saper ascoltare e interpretare il linguaggio. Questo costituisce un handicap, perché i dati non parlano da soli. Spetta all’archeologo dar loro un senso, operazione alquanto delicata. 55 Ciò che si trova nello scavo si riduce a poche cose: resti di oggetti che sono stati fabbricati, prodotti o solamente utilizzati dall’uomo, insieme, per esempio, a prodotti manifatturati; ma ci sono anche vestigia botaniche ed ossee. Ci sono pure i resti di edifici, d’impianti e installazioni fissi, creati dall’uomo per gli scopi più diversi. C’è infine il terreno archeologico stesso, creato sia dall’attività umana (per esempio, con la formazione di depositi organici legata ai meccanismi di rifiuto), sia dalla decomposizione dei resti antropici ad opera degli agenti naturali (la pioggia, il vento, ecc.). L’archeologo deve stabilire rapporti tra ciò di cui dispone e ciò che desidererebbe, cioè essenzialmente tra vestigia materiali ed elementi non materiali. Ora questi rapporti sono molto diversi, a seconda del ruolo giocato da fattori naturali e culturali, e cioè, alla fine, in che modo i dati rimasti riflettano una volontà o un’intenzione umana. Ci sono dei campi in cui predominano, ad esempio, le costrizioni naturali. La decomposizione dei prodotti organici, per esempio, è perfettamente estranea alla volontà umana. Nella sua relazione con la natura l’archeologo deve tenere conto delle proprietà inerenti ai materiali, alle piante e agli animali su cui egli esercita la sua azione e ciò o per conoscenza ritenuta oppure, se le domande sono troppo particolari in un determinato caso, attraverso la sperimentazione o l’osservazione. Se vuole invece affrontare il campo culturale e trattare per esempio della parentela, dell’alleanza o del potere, si deve appellare ad altri tipi di relazioni. Ogni società, infatti, funziona su una rete di convenzioni che si manifestano nell’individuo attraverso una gamma di atteggiamenti, di gesti, di attività: tutto quello che si potrebbe globalmente chiamare “comportamenti”. Almeno alcuni di questi comportamenti possono trovare un’eco nella materia (l’esogamia: la donna porta con sé i suoi arredi. Da questi si può arrivare a dedurre la pratica esogamica stessa) Osservando società tradizionali ancora esistenti, l’archeologo può far ricorso alle informazioni di ordine materiale presenti nella letteratura etnologica., che però solo raramente sono messe in relazione con gli elementi culturali che interesserebbero all’archeologo. L’archeologo può attingere negli atlanti etnografici per cercarvi delle correlazioni tra un tratto materiale che egli studia e questo o quel tratto culturale. Tuttavia queste correlazioni sono più spesso tendenziali che sistematiche e derivano dall’osservazione più che dalla spiegazione. L’archeologo può sostituirsi all’etnologo ed esplorare egli stesso le relazioni che gli interessano in società tradizionali ancora viventi. Vi troverà alcuni elementi di spiegazione, ma può analizzare bene solo alcuni casi particolari. La ristrettezza del campo d’osservazione rende 56 delicata ogni generalizzazione. Numerose relazioni tra l’universo materiale e il resto della sfera culturale sono perfettamente arbitrarie e poggiano interamente sull’iniziativa umana. Alcuni elementi materiali (per esempio oggetti, tratti architettonici o pratiche funerarie) sono forniti di un significato puramente convenzionale e dunque proprio di una società. Molto spesso, questi tratti si organizzano in trame per formare quelli che si possono chiamare codici simbolici: in essi, ogni tratto ha senso solo se in rapporto agli altri, conformemente ad una scala di valori opposti. Per penetrare il senso di questi codici l’archeologo deve impegnarsi in una vera opera di decifrazione. Questa operazione è possibile solo se egli ha un’idea di quanto la gente del passato cercava di esprimere, cosa che si ottiene attraverso l’etnologia, che permette all’archeologo di conoscere a quale tipo di società appartiene quella che ha creato il codice, in modo da definire con molta precisione la conoscenza di cui si servirà. L’archeologia, allo stesso tempo, è utile all’etnologia, perché solo essa ha la padronanza del tempo, cioè la possibilità di affrontare le cose in termini di mutamento e di origine. L'archeologia biblica nel suo stesso nome rivela la problematicità del suo esserci e del suo essere-scienza. Venne sostituita dapprima dal termine "palestinologia" che indicò così la cultura materiale degli scavi effettuati nella terra della Bibbia, preferita alla vecchia dizione “teologia biblica” in quanto più adatta a preservare la laicità della disciplina stessa, liberandola da ogni equivoco confessionale. Ma neppure tale scelta fu soddisfacente a rispondere alla domanda su quale identità e quale valore assegnare, concretament, a questa disciplina all’interno dell’investigazione biblica. Intanto, l'a. passava da scienza mitica, romantica, legata spesso a miti nazionali, a sapere scientifico, sostituendo il criterio fattuale di collezione degli antiquari con quello funzionale di campionatura: l'archeologo aveva cominciato a riflettere in modo critico sulla correttezza delle operazioni ermeneutiche che compiva per giungere ai giudizi di conoscenza del passato, rendendo così conto a tutti della fondatezza delle sue conclusioni. Si preferì a questo punto riferirsi al solo territorio e non alla cultura e si coniarono i termini asettici di "a. della Palestina" o "a. siro-palestinese". Ogni eventuale connessione con il testo biblico o con la vicenda religiosa era considerata non oggettiva e non pertinente dal punto di vista storico culturale, per cui si demandava al singolo l'approfondimento di tale tematica. P. Aarata Mantovani così spiega: “non a caso ho scelto la definizione “archeologia palestinese”, invece della consueta “archeologia biblica” perché ho 57 voluto eliminare qualsiasi condizionamento di carattere religioso o ideologico, nel tentativo di portare avanti una ricerca il più possibile obiettiva e lasciando al lettore, se lo vorrà, di trattare eventuali connessioni con i testi biblici […]. Questo tipo di approccio vuole evitare un certo ‘concordismo’, mirante a far ‘quadrare’ dati archeologici e dati letterari, una tendenza che, come vedremo in seguito è ben presente in questi genere di studi, specialmente in ambito israeliano. la moderna a. israeliana o ‘archeologia della Terra d’Israele’, secondo la definizione coniata da Y. Aharoni, tecnicamente avanzata, insiste particolarmente sui risultati storici finali, cercando di correlare, a volte arbitrariamente, qualsiasi dato emerso, seppur minimo, con le notizie bibliche, nel tentativo di individuare la presenza di elementi ebraici in Palestina anche nelle epoche più remote. Questa tendenza al concordismo è comunque riscontrabile fin dagli albori della ricerca archeologica in Palestina, poiché la molla che ha messo in movimento gli scavi in Terra Santa è stato proprio il desiderio di illustrare e di verificare la Bibbia: attraverso le ricerche archeologiche si voleva tanto studiare l’ambiente in cui gli eventi biblici avevano avuto luogo, quanto apportare delle prove che dimostrassero la veridicità del testo sacro. Ci sono voluti anni affinché l’archeologia palestinese volgesse la propria attenzione anche ad epoche e zone diverse da quelle ‘bibliche’ ed assumesse quindi lo status di disciplina storica. L’archeologia palestinese, definita in senso geografico, mira a ricostruire ‘storicamente’ gli insediamenti e le manifestazioni culturali che si sono verificate all’interno di tutto il territorio palestinese, tenendo in egual conto sia la zona costiera e transgiordanica, sia la zona giudaica, da sempre privilegiata dall’archeologia ‘biblica’ traendone, quando possibile indicazioni sullo svolgimento dei fatti storici’ (P. Arata Mantovani, Introduzione all’archeologia palestinese, 7-8). L’errore non sta nel fare un’archeologia legata alla cultura religiosa di un popolo, ma nel condizionare l'autonomia della ricerca, facendola dipendere dalle questioni di fede che quella religione implica, non nel trattare la storia religiosa di un popolo, oggettivata nelle sue scritture, come materiale informativo della sua stessa cultura. Le fonti scritte, anche quando non documentano la storia di un popolo, ne registrano fedelmente il processo culturale che testimonia l’intelligenza della sua identità storica. All’antica archeologia biblica si rimproverava giustamente di mantenere una concezione territorialmente e cronologicamente parziale che rinchiudeva la ricerca solo dentro il dato veterotestamentario, non mettendo in rilievo la naturale contiguità spazio-temporale con le civiltà della Mesopotamia e dell'Egitto, come anche la stessa continuità storica con le 58 successive epoche intertestamentaria e neotestamentaria; a quella siro-palestinese si rimproverava di operare con troppa disinvoltura nel contesto storico-culturale, prescindendo volontariamente da ogni serio confronto con una corretta esegesi delle fonti scritte della storia biblica. Oggi, accettato l'indirizzo non confessionale della ricerca biblico-archeologica e in presenza di una forte metodologia storico-antropologica si è ripresa la denominazione di archeologia biblica, rilevando l’interdisciplinarietà tra archeologia ed esegesi, quest’ultimo problema di non facile soluzione sino a quando le due scienze non risolvano reali problemi di credibilità scientifica e si dotino di uno statuto epistemologico che permetta loro di affrontare tutte le domande di senso che incontrano nei loro processi conoscitivi. Il problema, infatti, non si risolve attraverso una collaborazione, peraltro in sordina, che vorrebbe salvaguardare l’autonomia i entrambi, ma non raggiunge la sintesi da molti auspicata.. L’archeologia non consiste allora solo nel trovare reperti, nello scoprire e catalogare antichità, nello scovare documenti. L'archeologia deve riportare gli oggetti rinvenuti a orizzonti di senso. In tal senso, l’archeologia non è più una disciplina descrittiva, ma una scienza ricostruttiva del passato. Nasce così la distinzione tra archeografia, disciplina descrittiva che realizza in modo sistematico la raccolta e la classificazione dei dati, e l’archeologia in senso proprio, intesa come luogo di una vera opera di interpretazione dei reperti materiali in funzione culturale. Il dato materiale, infatti, non doveva essere inteso come semplice traccia morfologica dei mutamenti storici del passato in un determinato territorio, ma, in quanto prodotto antropico, anche se muto, doveva essere riconosciuto e giudicato come il segno pietrificato di un processo culturale che qualunque azione dell'uomo sempre comporta. Il dato archeologico è significativa espressione materiale di un determinato comportamento culturale in un contesto geografico e ambientale cronologicamente databile. In quanto “oggetto”, ogni produzione dell'uomo si presenta dunque non come atto arbitrario e soggettivo del solo autore, ma piuttosto come effettiva testimonianza, anche se non sempre riuscita, di sintesi culturale dei comportamenti e delle consuetudini sociali del suo preciso ambiente storico. L’archeologica deve così coniugare scienze naturali, che descrivono le correlazioni tra i dati, e scienze storiche, che ricercano e sviluppano i nessi di significato: si tratta di tener presenti così scienze e discipline che tentano di coniugare il sapere strutturale della sincronia con quello dinamico della diacronia, dando luogo a indirizzi di ricerca post-processuale che, forse, sarebbe più 59 conveniente definire post-moderna, dove il funzionalismo dei simboli viene privilegiato rispetto al suo statico significato originario. In archeologia si introducono, pertanto, nuove discipline, come la paleontologia, e la paletnologia, si adottano nuove tecniche conoscitive e si fa uso di concetti nuovi come gli ecofatti, termine introdotto per indicare, accanto allo studio dei manufatti, anche l’analisi del materiale vegetale e faunistico che si riscontra nei dati paleoambientali, giudicati indispensabili, e di fatto privilegiati, per ricostruire l’insieme dei processi culturali avvenuti nel lungo periodo delle società estinte. In archeologia il processo conoscitivo che va dal dato al risultato comprende almeno tre tappe o tre distinti momenti di ricerca: 1. l’osservazione e il recupero dei dati archeologici (survey e scavo); 2. la loro classificazione (descrizione degli ecofatti e definizione funzionale, tipologica e cronologica dei manufatti: classification); 3. l'interpretazione del passato (spiegazione, lettura culturale, cioè sociale, antropologica e storica dei reperti: explanation). L’archeologia biblica, nella mediazione dello spazio-tempo, guidata dal buon senso dell’archeologo, che contemporaneamente diventa cosciente dei suoi atti conoscitivi, in modo che le sue affermazioni possano essere verificabili da tutti, libera dalla dittatura delle fonti scritte, attraverso il recupero del ruolo di significazione del dato e della cultura materiale, rimane affascinata dalla teoria della storia secondo Fernand Braudel (vd. fotocopie allegate da leggere: “La storia secondo Fernand Braudel”). La tecnica degli scavi divenne disciplina universitaria indipendente con Mrs Kathleen M. Kenyon: fino ad allora era stata una branca degli studi classici, della teologia, dell’etnografia e degli studi orientali. Lo scavo avviene in tal modo: in primo luogo, uno studio attento della Bibbia e di altre fonti indica la zona del territorio di Israele in cui una particolare località biblica potrebbe trovarsi.. Poi, il British Survey, la base delle principali carte geo-topografiche oggi in uso, e le carte topografiche di Israele mostrano se un nome arabo tradizionale corrisponda al nom ebraico biblico del luogo. Infine, una ricognizione dell’intera area e la raccolta di pezzi di ceramiche possono indicare in anticipo quanto in profondità si dovrà scavare prima di incontrare il periodo biblico che interessa. Attualmente gli archeologi hanno accesso alle informazioni acquisite attraverso fotografie aeree e ricognizioni del territorio che possono essere estremamente utili per decidere dove scavare. 60 Lo scavo era limitato nel metodo stratigrafico a fosse piuttosto ristrette di 5m2. Questo metodo è tuttora utile per datare eventi della storia politica, come distruzione di città (metodo diacronico). Per cercare di ricostruire l’ambiente quale era nell’antichità, tuttavia, gli archeologi devono scavare aree più ampie ed estese: è il metodo orizzontale o sincronico, utile per avere un’idea della vita quotidiana delle popolazioni antiche. Il luogo che gli archeologi scavano si chiama tell, cioè “rovine”. Un tell tende ad assumere una forma molto caratteristica di un tronco di cono. Il tell – così lo si definisce – è una collina che è andata crescendo a seguito di fasi successive di insediamento assumendo la forma di un tronco di cono. Un tell non può essere scavato isolatamente, poiché una località deve essere sempre considerata nel suo contesto. Gli archeologi pertanto operano ricognizioni del territorio, e studi sull’intera regione, come mezzi per capire i fenomeni quali l’insediamento di una popolazione, i sistemi commerciali, gli avvicendamenti nella popolazione, le strutture sociali, l’ecologia e l’0economia dell’antichità. L’attuale interesse per l’ambiente che ci circonda ha reso gli archeologi consapevoli dell’importanza dell’ambiente nell’antichità e della sua relazione con la presenza dell’uomo. Per ottenere poi il maggior numero di informazioni, gli scavi si compongono di staff interdisciplinari, e non di singoli archeologi. Specialisti in scienze naturali e sociali, tra cui geologi, antropologi fisici e culturali, idrologi, etnologi, paleoetnobotanici e zoologi collaborano insieme sul campo insieme agli archeologi. Il vasto repertorio di nuove testimonianze raccolte in gran numero con questo sforzo di cooperazione è estremamente utile per ricostruire sia la storia che il processo culturale della società del passato. Nello stesso tempo, le tecniche di ricupero, registrazione e analisi dei dati sono sostanzialmente migliorate. Inoltre nello scavo stratigrafico si è rinunciato ad immettere nel terreno esaminato la rigida stratigrafia geologica: i confini sono labili. Molti materiali vennero riutilizzati o caddero nello strato precedente. Gli stessi strati si perdono o crollano sotto il peso di quelli superiori; ancora molti edifici o utensili vengono riutilizzati dagli abitanti degli strati successivi, rendendo così ancor più difficile l’identificazione temporale dei dati materiali. L’archeologia in Israele è caratterizzata da una estrema scarsità di costruzioni di prestigio, di testimonianze epigrafiche monumentali e dalla povertà dei manufatti 61 artistici. L’unico ritrovamento archeologico abituale ed abbondante è la ceramica, che così permette la definizione della cultura dei popoli della terra di Israele ed una attribuzione cronologica relativamente sicura. L’argilla era infatti il materiale più usato, sia nella forma di mattoni crudi e malta sia nella forma di mattoni cotti in fornace e ceramica. Le ceramiche si infrangono facilmente, ma i frammenti non si possono ridurre in polvere. Da una qualunque parte del bordo o da certi altri piccoli frammenti è possibile ricostruire con grande esatezza la dimensione e la foggia d’origine. Lo sviluppo dell’archeologia biblica si riflette nei risultati di studiosi come Petrie, Vincent, Albright e Mazar nel perfezionare “l’orologio delle ceramiche”, cioè un quadro che presenta i tipi di ceramica caratteristici dei secoli e delle zone geografiche che si sono succeduti nella storia. Dall’insieme dei ritrovamenti archeologi emerge un dato sorprendente: la mancanza di originalità e di realizzazioni monumentali in terra di Israele, quindi una certa povertà dei manufatti, all’interno di una cultura sostanzialmente fenicia, ma arretrata e artisticamente inferiore rispetto ai più importanti centri culturali limitrofi: la Fenicia, la Siria e l’Egitto. E per parlare di Israele bisogna aspettare la fine dell’età del Ferro, cioè l’VIII-VI sec., il periodo cioè pre- ed esilico (leggere P. Arata Mantovani p. 84. Non così il NGCB 74: 108). I periodi archeologici in terra di Israele si suddividono così: Paleolitico 1.600.000-18.000 Inferiore 1.600.000-120.000 Medio 120.000-45.000 Superiore 45.000-18.000 Epipaleolitico (Mesolitico) 18.000-8.000 Neolitico 8.000-4.500 Pre-ceramica 8.000-6.000 Ceramica 6.000-4.700 Tardo 4.700-4.500 Calcolitico 4.500-3.200 62 Età del bronzo antico 3.200-2.000 BA I 3.200-3.000 BA II 3.000-2.800 BA III 2.800-2.400 BA IV 2.400-2.000 Età del bronzo medio 2.000- 1.550 BM I (BM II A) 2.000-1.800 BM II (BM II B) 1.800-1.650 BM III (BM II C) 1.650-1.550 Età del bronzo recente 1.550-1.200 BR I 1.550-1.400 BR II 1.400-1.200 Età del ferro 1.200-539 Prima 1.200-900 Tarda 900-539 Periodo persiano 539-332 Periodo ellenistico 332-64 Periodo romano 64 a. C. – 324 d. C. Primo 64 a. C. – 135 d. C. Tardo 135-324 Periodo bizantino 324-640 Primo periodo islamico 640-1174 Crociate 1099-1291 Tardo periodo islamico 1174-1918 63 Storia biblica Fonti per la storia di Israele: bibliche: la Bibbia come raccolta di racconti antichi a sfondo storico e di notizie extrabibliche: 1. scritte: iscrizioni, documenti, testi letterari, lettere, ecc.; 2. reperti non linguistici, come ritrovamenti archeologici, costruzioni, ceramiche, ecc.; 3. nomi di località palestinesi (in lingua araba), come furono raccolti nel secolo scorso dai viaggiatori. La prima menzione di Israele si ha nella stele del 1219 a. C. ritrovata a Tebe sullla quale è inciso il Canto della vittoria di Merneptah, faraone. Qui Israele è un popolo che giace spezzato e non ha grano da seminare. Una descrizione diversa da Es 1,1-5. Da dove viene dunque Israele? I testi biblici non sono concordi nel rispondere. Si sono formulate diverse teorie: a) conquista. Gli Israeliti si impadronirono del paese attraverso una guerra nel XII sec. a. C. (accordo con i testi biblici: Gs 1,11); il fatto è confermato dalla presenza di distruzioni databili al periodo finale del Tardo Bronzo. È la tesi della scuola americana di W. F. Albright, G. E. Wright, Y. Yadin. b) immigrazione o infiltrazione. Gruppi nomadi di pastori al seguito del pascolo divennero poi sedentari per il contatto con popolazioni a sistema agricolo: è la tesi di A. Alt. I testi biblici quali il libro di Gs sono in tal caso eziologici circa le origini. In tal senso è più vicino alla storia (verisimile) il Libro di Giudici, che parla di relazioni conflittuali degli israeliti con i cananei e gli altri popoli e di lotte sociali e religiose per rendersi indipendenti. Sociologi ed etnologi rigettano però la teoria di Alt. I sociologi gli rimproverano di non conoscere bene le leggi che regolano lo sviluppo delle società primitive. N. P. Lemche preferisce parlare di evoluzione da una civiltà pre-statale ad una forma organizzata che prevede il culto, la politica, e l’amministrazione centralizzata. c) rivoluzione. Rivoluzione contadina contro il sistema cananeo, rifugio nelle montagne, unione attorno al dio El. Venuta dei gruppi del dio JHWH, che fomentarono la rivolta. È la tesi di G. E. Mendenhall nel suo articolo “the Israelite 64 Conquest of Palestine” in BA 25 (1962) 66-87, ripresa e diffusa da N. K. Gottwald, che prende in considerazione la documentazione di Tell el- Armana, designazione moderna della capitale del regno d’Egitto fatta costruire dal faraone Amenhotep IV (Akhenaton, 1364-1347), la quale presenta nelle lettere provenienti dai re cananei una società differenziata in varie classi sociali, alcune integrate, altre tenute ai margini del sistema politico- sociale. Tra questi gli Hapiru/Abiru, che disturbano l’amministrrazione dei centri cananei. Un gruppo di israeliti avrebbe conosciuto al Sinai la religione jahwista e l’avrebbe poi trasmessa agli altri gruppi, mediante forme di aggregazione o confederazione. Il culto jahwista che si presentava con le caratteristiche dell’uguaglianza e della libertà avrebbe generato la rivlta contro le città-stato cananee dirette secondo criteri di dispotismo e disuguaglianza sociale. Troviamo perciò gruppi di Israeliti o nomadi fuorisiti dall’Egitto e israeliti o nomadi stanziati nelle montagne della Transgiordania (vd. P. Arata Mantovani, p. 79-81). d) Evoluzione. Decadenza della città a causa della chiusura delle vie di comunicazioni internazionali e popolamento delle montagne della Giudea da parte di sevi della gleba e di affittuari provenienti dalle pianure che si stabilirono pacificamente nelle zone poco popolate delle montagne dando origine a nuove comunità agricole (ritribalizzazione). Il Dio dal Nome impronunciabile sarebbe allora una divinità cananea prevalsa sulle altre. Numerose le ipotesi e le spiegazioni. Un dato però è certo: non esistono città distrutte e grandi insediamenti in questo periodo, l’archeologia non li rileva. I. Finkelstein così afferma: 1. non si ha traccia negli scavi e nei surveys di una conquista armata, ma si trovano elementi per ipotizzare una presa di possesso graduale del paese. Si notano insediamenti di clan israelitici prima nella regione centrale montagnosa di EfraimManasse. Successivamente gli insediamenti raggiungono le regioni più lontane e difficili come il Negev e la Galilea; 2. le testimonianze sul fenomeno delle origini di Israele sono costituite da una serie impressionante, per numero e per caratteristiche, di piccoli insediamenti in alcune regioni bibliche (Galilea, Manasse, Efraim, Giuda, Negev, Galaad e Moab). 65 Daver scrive: “in conclusione, si può tranquillamente stabilire che oggi le prove archeologiche sono massicciamente contrarie al modello classico della conquista degli israeliti così come viene descritto nel libro di Giosuè e come veniva accettato dagli studiosi biblici fino a poco tempo fa. Molti siti del TB-F I non sono stati distrutti per niente; tra quelli distrutti, la maggior parte delle distruzioni si deve addebitare ai filistei, oppure a forze sconosciute. Alcune possono essere state operate dagli israeliti, ma di questo manca la certezza” (vd. anche il prosieguo dell’articolo di P. Kaswalder, L’archeologia e le origini di Israele, in RivBiblIt XLI (1993) 171-188). In realtà, si assistette pertanto intorno al XIII sec. a. C. al passaggio dalla città, ormai decaduta, al sistema tribale, che era presente anche prima insieme alla città. Nuove tecniche (lavorazione del ferro e cisterna ermetica) resero possibile la vita nelle montagne. Nel 1200 a. C. le tribù delle montagne si unirono, contro le città di Canaan, per dar vita a Israele, dal nome del loro dio El, il dio creatore dei cananei. JHWH era sconosciuto a questi popoli. Ruben, Simeone e Levi scompaiono o sono emarginati. Le tribù adorano il dio El. I gruppi dall’Egitto si uniscono ad essi e fanno prevalere il dio JHWH. Nessuna istituzione centrale, ma uguaglianza: decisioni e giudizi erano presi dagli anziani delle tribù, il culto era dei leviti, in alcune circostanze straordinarie sorgevano i giudici. Probabilmente le tribù di Giuda vennero dal sud e strinsero alleanza con i popoli lì presenti, conservando conseguentemente una certa indipendenza alla quale mai vollero rinunciare. La tribù è costituita da 50 alleanze locali formate dalle famiglie patriarcali. Le famiglie patriarcali riunite in alleanza erano otto o dieci. La tribù offriva reciproca assistenza e difesa. I matrimoni avevano luogo preferibilmente, ma non necessariamente, all’interno della tribù. Gli organi giuridici ed amministrativi erano costituiti dall’assemblea degli uomini adulti e dal consiglio degli anziani. L’alleanza delle famiglia patriarcali o clan comprendeva 50-100 persone dello stesso villaggio. Importante qui il ruolo del capofamiglia nell’esercizio del potere politico, giudiziario, amministrativo e bellico. L’ipotesi dell’anfizionia delle 12 tribù confederate proposta da Noth sulla base di Gs 24 è smentito da Gdc 5 che nomina solo 10 tribù. Manca l’aspetto fondamentale dell’anfizionia, cioè il santuario, Israele è legato al dio El, non a JHWH di cui si parla in 66 Gs 24. Si può meglio parlare di società non organizzate in uno stato e quindi acefale, cioè prive di un’istanza centrale, e tuttavia stabili, rette dagli anziani, economicamente agricole, con delle genealogie precise, a volte con qualche leader. I gruppi dall’Egitto si unirono a questi che avevano pure compiuto il loro esodo dalla città alle montagne perché oppressi. Israele diventa tale con il dio JHWH (Gen-Gdc). Le tribù radunate attorno all’adorazione di JHWH instaurarono tra loro rapporti di parentela e crearono genealogie tra i loro patriarchi, definendo per essi caratteri simili, quali la peregrinazione, come è nella penna dello Jahwista. I nomi dei patriarchi erano tipici della Mesopotamia nord-occidentale del II millennio a. C. e si diffondono in seguito. Non si comprendono nel loro significato originario. I patriarchi abitano fuori dalle città, non sulla costa, ma nella Terra centrale e meridionale e nella zona a est del Giordano. I racconti più importanti si svolgono negli antichi luoghi sacri. Il dio El è per loro un dio personale. L’esodo avvenne non nelle dimensioni narrate. Probabilmente fu la ribellione di un piccolo gruppo, forse semiti, che fuggirono dalle città-magazzino per vie già praticate (Bock p. 46). Il mare è difficilmente determinabile anche dai testi biblici discordanti tra loro: forse una palude con sabbie mobili ai margini del deserto. Il nome Jhwh è legato al deserto del Sinai e a gruppi di seminomadi che lì risiedevano, parenti dei fuoriusciti dall’Egitto (vd. anche la fuga di Mosè a Madian: leggere dall’Atlante di Galbiati-Aletti pp. 15.66). Mosè è la figura del mediatore, probabilmente un leader del tempo che in seguito assunse i tratti che ritroviamo nei testi. Nel deserto si sancisce l’alleanza, sulla base dei patti allora vigenti tra le nazioni (cfr. il codice di Hammurabi), tra Jhwh e Israele, alleanza che tuttavia è sorta in epoca tardiva in Israele: il credo storico deuteronomista di Dt 26,5-10 non la conosce. E poiché tutto è localizzato nel deserto di Kades, si pensa che siano state raccolte tradizioni eziologiche diverse su luoghi e popolazioni di questo medesimo deserto. Dell’infiltrazione con Giosuè si è già discusso. Le dodici tribù si stabiliscono nella Terra abitata ancora dai cananei e dai popoli del mare, i Filistei, sulla costa (Bock. 54). I giudici furono capi carismatici sorti in determinate circostanze: si distinguo in sei grandi e sei piccoli. Il pericolo filisteo costante, il desiderio di unificare le leggi, il culto comune di Jhwh favorirono la nascita 67 della monarchia, che però inglobò anche i non-israeliti. Il tentativo di diventare re da parte di Abimelech (Gdc 9) fallirà. Solo Saul vi riuscirà, attraverso la sconfitta dei Filistei. Ma Saul non rispettò le tribù e le loro leggi, annullò ordini sacri, intervenne nelle questioni cultuali e assunse la fisionomia di un tiranno. Davide giunse al potere perché oltre a rispettare le tribù e le loro leggi, strinse alleanze con i nemici e coinvolse le tribù meridionali che erano state escluse da Saul. Il figlio di Saul regnava a nord, ma fu assassinato. Davide divenne allora re del nord (Israele) e del sud (Giuda). Davide conquistò la rocca dei Gebusei, Gerusalemme, per assicurarsi l’autonomia dalle tribù, sconfisse tutti i nemici e creò un regno che andava dalla Siria centrale ai confini dell’Egitto. Il giudizio storico su Davide è più cauto della descrizione biblica: certamente fu questo il periodo di massimo splendore per Israele, giacché Davide riuscì a tenere unite intorno alla sua persona tutte le tribù, stringendo alleanze con i popoli vicini, alleanze rispettate a causa della capacità bellica di Israele in quel momento e del collasso delle altre potenze intorno, che prima di Israele erano giunte all’unificazione nazionale e allo splendore. L’arca trasferita a Gerusalemme segnò l’inizio del cammino verso l’accentramento del culto nella sola città di Gerusalemme che sarà effettivo solo con Giosia. La discendenza di Davide occupò tutta la restante parte della sua vita e del suo regno, con intrighi e sanguinose lotte fratricide. Alla fine Davide scelse Salomone. Costui si dimostrò ottimo statista: intraprese rapporti commerciali con tutti i popoli vicini e strinse con loro alleanze attraverso matrimoni. Fu un mecenate delle arti, un saggio. Con lui si costruì il Tempio su un modello cananaico del quale egli fu il primo sacerdote. L’alleanza trono-stato non piacque a nessuno, come pure l’ingerenza fiscale divenuta gravosa, dalla quale erano esclusi Gerusalemme e Giuda. Ciò porto alla sua morte alla divisione nei due regni del Nord (Israele) e del Sud (Giuda con Gerusalemme). È questo il tempo dei profeti, che denunciano le sperequazioni sociali, la contaminazione del culto e i sacrifici umani, l’apertura agli stranieri, le alleanze diplomatiche. Israele era poi un regno esteso, mentre Giuda si presentava più compatto. Il IX sec. vede l’ascesa degli Assiri che conquistarono la Siria nel 738. Giuda resiste in quanto stato cuscinetto con l’Egitto e grazie alla sottomissione di Acaz; Israele 68 con capitale Samaria è distrutto nel 722 a.C. e i suoi abitanti deportati. Alcuni trovarono rifugio in Giuda e vi introdussero le loro concezioni religiose e i loro scritti sacri. La zona fu ripopolata e stranieri si mescolarono ai sopravvissuti. In questo periodo si colloca la guerra siro-efraimita (734-732 a. C.) e la profezia dell’Emmanuele (Is 7,114). Nonostante la ribellione al tempo del re Ezechia e la ricerca di alleanza con l’Egitto, Giuda non venne distrutto dagli assiri (2Re 18-19; costruzione del canale di Siloe): nacque il mito della città indistruttibile. Con Giosia inizia la riforma religiosa ispirata dal ritrovamento del Dt e l’accentramento del culto a Gerusalemme (622 a. C.: 2 Re 22-23). Intanto i Babilonesi si sostituiscono agli Assiri nella scena politica mondiale. Ciò parve segnare l’inizio della pace, ma Giosia morì a Meghiddo ucciso dal faraone Necao. L’avanzata babilonese fu rapida. Gerusalemme venne saccheggiata e assediata a più riprese per poi essere alla fine distrutta (598 a. C.) Sotto il regno di Sedecia, nell’estate del 587-586, Gerusalemme capitolò definitivamente. Il popolo venne deportato e altri fuggirono inutilmente in Egitto. La liberazione avvenne soltanto con l’avvento dei Persiani e specialmente con Ciro, che permise nell’anno 538 di ricostruire il Tempio e aprì la via del ritorno agli esuli (editto in lingua aramaica trasmesso da Esd 6,3-5). È il tempo di Esdra e Neemia, dei difficili rapporti tra esuli e sopravvissuti in patria, del problema dell’identità ebraica con il divieto dei matrimoni misti, dell’opposizione probabile tra Garizim e Sion. Il Tempio divenne la sede del sommo sacerdote, per il quale fu introdotta una consacrazione eguale a quella del re. Molti però rimasero in Babilonia e in altri centri (diaspora). Scompare la profezia, sorge l’apocalittica. Si forma il nucleo consistente della Bibbia. Periodo oscuro storicamente sull’organizzazione interna e sulle sette (farisei, sadducei, qumraniani, esseni, ecc.) che in questo periodo si formano: uniche fonti la Bibbia e Giuseppe Flavio. Al governo persiano seguì quello macedone – ellenestico, con i diadochi, cioè i generali di Alessandro Magno, ai quali succederanno gli epigoni. Nella Siria- Palestina e nella Terra di Israele essi sono rappresentati dalla dinastia dei Tolomei in Egitto con capitale Alessandria e da quella dei Seleucidi in Siria con capitale Antiochia. Se nel 301 69 con la battaglia di Issos i Tolomei ottennero il governo della Terra di Israele, fu con Antioco III il Grande e la sua vittoria a Panion (200 a. C.) che i Seleucidi riuscirono a governare su questo prezioso lembo di terra. Antioco concesse ai sacerdoti, agli anziani e ai dottori della legge notevoli privilegi, tra cui l’esenzione dalle tasse ed ellenizzò Gerusalemme. Il punto massimo di ellenizzazione si raggiunse con Antioco IV Epifane, che volle abrogare tutte le istituzioni religiose e culturali ebraiche, profanando persino il tempio. Scoppia così la rivolta guidata dalla famiglia dei Maccabei (o Asmonei) che intorno al 164 riuscirono, dopo lunghe guerre narrate nei libri dei Maccabei, a riconquistare Gerusalemme e il tempio, cacciando i Seleucidi (25 Kisleu [14 dicembre] 164 a. C. istituzione di Hannukah). I Maccabei ottengono l’appoggio romano, dato in realtà solo per debellare la potenza seleucide: vd. la lettera dei legati romani residenti in Siria del 163 in 2Mc 11,34-38 e il senatus consultus del 161in 1Mc 8,23-30. Inizia così la lunga dinastia dei sommi sacerdoti asmonei: Gionata, il primo (160-142), che si autonominò sommo sacerdote nel 158 a. C., invischiato in ambigui rapporti diplomatici all’interno del conflitto tra tolomei e seleucidi, cui segue Simone (142-134), che riconquistò l’akra di Gerusalemme, la cittadella abitata dai siriani, nel 142-141, e Giovanni Ircano I (134-104) che divenne re pur senza assumere il titolo regale. Fu lui a riportare in auge l’antico regno di Davide, fra l’altro con la distruzione del tempio o altare dei Samaritani sul Garizim e la circoncisione forzata degli Idumei. Le sette cominciarono il loro schieramento: ai farisei che rifiutavano Giovanni quale sacerdote si opponevano i sadducei che lo sostenevano nella sua duplice funzione. Il suo regno passò poi nelle mani di Alessandro Ianneo (103-76) e della moglie Salome Alessandra (76-67) sotto la reggenza della quale i farisei acquisirono il potere. Una nota linguistica: la parola asmoneo si applica alla dinastia dei sommi sacerdoti (Simone, Giovanni Ircano) e poi dei re (Aristobulo I, Alessandro Ianneo, Alessandra, Aristobulo II), che rivestirono l’incarico del potere supremo dei giudei tra il 142 e il 63 a. C. Abitualmente, si riserva l’appellativo maccabeo (martello) ai tre capi dell’insurrezione giudaica, i figli gloriosi di Mattatia di Modin: Giuda, Gionata e Simone. Secondo Giuseppe Flavio in AJ XII, 265, asmoneo deriverebbe dal nonno di Mattatia, un sacerdote originario di Gerusalemme di nome per l’appunto Asmoneo. Non 70 si conosce nulla di questo personaggio, il cui nome, probabilmente, è da ricollegare ad una località: Hashmon (Gs 15,27), Hushin (1Cr 8,11) o Hasmonah (Nm 33,29). La parola asmoneo non si trova nei libri dei Maccabei, ma in GF e nel Talmud e nella Mishnah. Intanto si faceva minacciosa l’avanzata romana. I figli di Alessandra, Aristobulo II e Ircano II, si scontrano. A sostenere Ircano si fa avanti Antipatro, figlio del governatore idumeo sotto Ianneo e padre del futuro Erode il Grande. Secondo Giuseppe (AJ XIV, 810), Antipatro apparteneva a una grande e ricca famiglia idumea, i cui membri si sarebbero convertiti alla religione giudaica sotto Giovanni Ircano. Nel 63 a. C. Pompeo marcia su Gerusalemme e la cinge d’assedio, conquistandola (entra pure nel tempio ma non vi trova nulla nel Santo dei Santi). Il regno seleucide è trasformato in provincia di Siria- Palestina, retta da un governatore e da diversi procuratori. Sotto la dominazione romana fa la sua comparsa Erode il Grande, un Idumeo che era salito al trono per aver falsato e fatto scomparire le genealogie. Figlio di Antipatro, amico dei Romani, arricchì Israele di nuove città e rese il Tempio una delle 7 meraviglie del mondo. Regnava però sulla violenza e sul terrore. Alla sua morte il regno venne diviso tra i suoi figli più giovani in quattro stati: 1. Archelao ottenne il governo su Giudea, Idumea e Samaria, diventandone etnarca, e mantenne il titolo di re; 2. Erode Antipa fu signore della Galilea e della Perea; 3. Filippo divenne tetrarca del territorio nord-orientale del Giordano; 4. Salomè ottenne tre città. In questo periodo assumono una fisionomia ben definita le sette ebraiche quali noi le conosciamo (farisei, sadducei, sicari, zeloti), insieme a movimenti, di ispirazione messianica, che propugnavano la liberazione e la salvezza di Israele per mano di Dio o di un suo inviato consacrato (Messia – messianismo). È questo il tempo in cui fa la sua comparsa anche il movimento di Gesù di Nazaret. I procuratori romani continuano a vessare la popolazione con il fisco e il terrore, profittando pure delle lotte interne. Il 66 d. C, segna lo scoppio della prima rivolta e della guerra giudaica sotto il procuratore Gessio Floro. I partiti rivoluzionari sono di 71 diversa estrazione, ma intendono liberare Gerusalemme dal nemico. La guerra si protrae sino al 70 d. C., quando Tito, figlio di Vespasiano, assedia e distrugge Gerusalemme. Le ultime resistenze si concentrarono a Masada, dove nel 74 un gruppo di zeloti diede la morte a sé e ai propri familiari per non cadere in mano ai romani. Masada rimane ancor oggi il simbolo della volontà di libertà del popolo ebraico. La Giudea divenne provincia imperiale; il legato imperiale risiedeva a Cesarea Marittima. È questo il periodo di formazione della letteratura rabbinica (Mishnah, Ghemara, Talmud). Un’altra rivolta si ebbe nel 132-135 d. C. guidata da Simone Ben Kosebah, ribattezzato da Rabbi Aqiba Simone Bar Kokebah (figlio della stella; la stella è simbolo di regalità, infatti Simone sembrava essere il discendente di Davide). Si raggiunse un breve periodo di indipendenza, cessato nel 135 con la morte in battaglia di Simone. Dopo il 135 l’imperatore Adriano cambiò il nome di Gerusalemme in Aelia Capitolina. Si introdussero gli dei e l’accesso alla città venne proibito, sotto pena di morte, a tutti gli ebrei. A questo punto la storia si divide in storia ebraica con il rabbinismo e storia cristiana con la Chiesa. Per approfondire le istituzioni del popolo ebraico (famiglia, clan, tribù, monarchia, culto, profezia, diritto: R. DE VAUX, Le istituzioni dell’Antico Testamento, Marietti, Casale Monferrato 19773; R. RENDTORFF, Introduzione all’Antico Testamento. Storia, vita sociale e letteratura d’Israele in epoca biblica, Claudiana, Torino 2001, 117-156 (valido come articolo per l’esame). CENNI SUI POPOLI DELLA MESOPOTAMIA (articoli per l’esame: S. MOSCATI, Antichi Imperi d’Oriente, Newton Compton, Roma 1997, 13-26; M. LIVERANI, Le civiltà mesopotamiche, vol. 3 in Storia Universale Corriere della Sera, Torino 2004, 5-48) Il mondo orientale nella sua accezione più ristretta si estende su circa 2.000.000 Km2, un’area ristretta e compatta che alterna catene montuose, pianure alluvionali e 72 aridi tavolati. Dal regime pluviale mediterraneo si passa rapidamente al clima steppico del deserto siro-arabico o altrove al clima di alta montagna. Grandi fiumi, come il Tigri e l’Eufrate, attraversano zone altrimenti condannate ad un’aridità quasi totale. Zone di alta concentrazione demografica sono a stretto contatto con zone pressoché vuote. Il rilievo giunge fra i 3500 e i 4000 metri nel Turo, nel Ponto e negli Zagros, e supera i 5000 in Armenia (Ararat); mentre la depressione del Mar Morto (-395 dal livello del mare) è la più profonda del mondo. Per dare un’immagine semplificata del Vicino Oriente si usa spesso l’immagine della “fertile mezzaluna”: un semicerchio di terre fertili, irrigate, atte all’insediamento agricolo ed urbano va dalla Palestina (Israele) alla Siria alla Mesopotamia, confinando a sud col deserto siro-arabico e a nord con le alte terre anatoliche, armeniche, iraniche. In senso più ampio il Vicino Oriente comprende pure l’Egitto. In tal senso si pone il problema di tutte le popolazioni e le culture eterogenee eppure in contatto tra loro che si avvicendarono in questa estesa regione: Egiziani, Sumeri, Assiri, Babilonesi, Ebrei, Hittiti. Una classificazione dei popoli può prendere approssimativamente a base le diverse zone geografiche dell’area orientale: ad esse si connettono le condizioni della vita e, conseguentemente, gli impulsi e le leggi del movimento. La fascia esterne del desero arabo è la sede delle genti semitiche, pastori seminomadi che l’aridità della steppa spinge a successive riprese verso le fertili regioni circonvicine. Qui i Semiti incontrano altre genti, diverse, con le quali si compenetrano, determinando un complesso etnico molto vasto. Ad ovest, nella valle del Nilo, elementi molteplici confluiscono nel popolo egiziano, e la lingua se ne fa specchio. Nell’opposta valle mesopotamica i Semiti incontrano i Sumeri, gente di incerta origine la cui lingua, di tipo agglutinante non rivela affinità genetica con alcun’altra lingua conosciuta. I due popoli coesistono e concorrono alla determinazione della politica e della vita economicosociale della regione. Nella striscia di costa siro-palestinese, che congiunge le due valli di fiumi, i Semiti trovano popolazioni altre. Il predominio andrà qui ai Semiti, diversi a loro volta nelle successive fasi di occupazione, ma nell’insieme sostanzialmente dominanti le vicende e la loro documentazione storico-letteraria. Senonché, la natura particolare della zona, punto d’incontro e d’intercambio, fa sì che le grandi alterazioni 73 politiche successivamente vi si riflettano, aumentando e complicando senza posa il complesso etnico già frammisto. Al di là della Mezzaluna Fertile, sugli altipiani dell’Anatolia e dell’Iran, vivono di nuovo dei nomadi, non più pastori di pecore e di cammelli come quelli del deserto, ma cacciatori e cavalcatori. Questi nomadi sono di stirpi diverse, ma un fatto essenziale li accomuna: il loro intervento su larga scala nella storia orientale è connesso al movimento di genti indoeuropee, che di essi costituiscono parte almeno nella classe dirigente. Queste popolazioni soppiantarono altre più antiche imparentate tra loro: Elamiti, Hurriti, ecc. Il territorio è sovrabbondante rispetto alla popolazione, vi è abbastanza acqua per rendere la terra produttiva, il lavoro umano rende possibile la sistemazione infrastrutturale delle acque e della terra e poi il loro sfruttamento continuo. I tre elementi – terra, acqua, lavoro – si condizionano dunque a vicenda, e il popolamento è sì condizionato dalla disponibilità di risorse alimentari, ma a sua volta ne condiziona la produzione. Lo sviluppo demografico è instabile e vario per diverse cause e riflette modelli sociali e culturali di versi (vd. M. LIVERANI, Le civiltà mesopotamiche, vol. 3 in Storia Universale Corriere della Sera, Torino 2004, 29-31: leggere). Le grandi fasi innovative sono sostanzialmente tre (vd. Liverani, 35). I modi di produzione sono due: quello palatino e quello domestico (vd. Liverani 39-40). Nell’Antico Oriente non esiste, per ciò che concerne la produzione letteraria, il genere storiografico vero e proprio, fine a se stesso: iscrizioni reali ed annali sono testi di carattere politico e di intento celebrativo, sono sostanzialmente propaganda. Veicolano, dunque la storia, ma non come semplice fatto, piuttosto come ideologia politica o teologica (vd. Liverani, 43-44). La letteratura celebrativa consegnata nelle iscrizioni reali ed in altri testi di emanazione palatina è mossa da evidenti scopi politici, riconducibili agli intenti della legittimazione, della celebrazione, della contrapposizione, della comunicazione (Liverani, 44-48). 74 ANTICO TESTAMENTO LIBRI STORICI “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6, 4-5). E’ questo il significato fondamentale dei libri storici dell’AT: nella storia di Israele, che la Chiesa accoglie in pieno e che ogni uomo rivive nella sua personale esistenza, si rende presente Dio, che si confessa unico ed al quale ci si lega totalmente in un rapporto esclusivo, ma aperto. La storia umana, scritta con parole umane, diventa il luogo della presenza di Dio proprio nella sua apparente e paradossale assenza: l’uomo dall’occhio penetrante come Balaam vi scorge il suo passaggio, lo crede con il cuore, lo confessa con la bocca, lo deposita nella Scrittura la quale diviene una kenosi successiva a quella storica e insieme ad essa parallela e simultanea (è la stessa logica dell’ispirazione divina della Bibbia). La storia diventa così storia di salvezza: ciò giustifica la lettura della Bibbia a due livelli complementari, umano e spirituale, secondo la sua stessa natura. La storia non perde la sua autonomia, ma questa si acquista nella dipendenza da Dio che in essa si rivela; la storia di Israele mantiene una sua validità come storia di un popolo in sé e nel suo rapporto con Dio e la lettura tipologica del NT (Mosè-Cristo, Diluvio-Battesimo, sacrificio di Isacco-sacrificio di Cristo) non la annulla, ma la porta a pienezza in Cristo, punto di discontinuità che in questa stabilisce la continuità tra i 2 Testamenti, mentre si delinea il cammino di Dio con l’uomo nel nascondimento stesso di Dio nelle pieghe della storia che la stessa lettura tipologica rivela. Non dunque inferiorità dell’AT e superiorità del NT, ma illuminazione vicendevole, tensione e compimento, desiderio e incompiutezza, segno e realtà. I libri storici di cui trattiamo sono, secondo l’ordine della CEI: ♦ - Pentateuco Genesi (Gen) Esodo (Es) Levitico (Lv) Numeri (Nm) 75 - Deuteronomio (Dt) ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ Giosuè (Gs) Giudici (Gdc) Rut (Rt) 1 e 2 Samuele (1 e 2 Sam) 1 e 2 Re (1 e 2 Re) ♦ 1 e 2 Cronache (1 e 2 Cr) ♦ Esdra (Esd) ♦ Neemia (Ne) ♦ Tobia (Tb) ♦ Giuditta (Gdt) ♦ Ester (Est) ♦ 1 e 2 Maccabei (1 e 2 Mac) Il Pentateuco appartiene alla sezione Torah della Bibbia ebraica. Torah significa legge, ma nel senso di istruzione divina e di rivelazione della sua sapienza nella storia del culto e di un popolo, Israele, il più piccolo fra i popoli della terra, eppure scelto da Dio, che stringe con esso un’alleanza incaricandolo di una missione. La Bibbia si apre con un complesso di 5 libri chiamati Pentateuco o Torah degli ebrei. Essi sono nell’ordine: Genesi (Gen), Esodo (Es), Levitico (Lev), Numeri (Nm), Deuteronomio (Dt). La denominazione dei libri quale la conosciamo deriva dalla versione greca dei LXX, che chiama il libro volendo riassumere il contenuto. In ebraico il libro prende il nome dalla prima parola con la quale inizia il rotolo che si apre per essere letto. Per cui si ha questa denominazione: Ebraico – TM B’resit (in principio) W ellelh s mot (e questi sono i nomi) Wayyiqra (e chiamò) Greco – LXX e Vg Γενεσις (Genesi perchè tratta delle origini del mondo, dell’uomo e del popolo d’Israele) Εξοδος (Esodo, uscita dall’Egitto) Λευιτικον (Levitico, leggi attinenti in 76 B midbar (nel deserto) Oppure Wayydabber (e parlò) ‘elleh hadd barim (queste le parole) particolare la tribù di Levi) Αριτµοι (Numeri, censimento degli ebrei usciti dall’Egitto) ∆ευτερονοµιον (Deuteronomio o seconda legge rispetto a quella contenuta nei libri precedenti) Nella tradizione ebraica i cinque libri vengono indicati con l’espressione Torah o Torah di Mosè o il libro della Torah (così già nell’AT: sefer ha-Torah in Ne 8,3; Torah Moshe’ in 2Cr 23,18; 30,16; sefer Torah Moshe’ in 2Re 14,6 e Ne 8,1), ritenendone, contro i risultati del metodo storico-critico, Mosè quale autore (in realtà Mosè ricevette la Torah sul Sinai); secondo certi midrashim la scrisse sotto dettatura di Dio stesso nei 40 giorni e nelle 40 notti durante i quali rimase sul monte. Tuttavia, il metodo storico-critico non nega la storicità di Mosè né la sua funzione di legislatore né il suo ruolo di protagonista (ma qualcuno l’ha pure erroneamente messo in dubbio) anche se ne limita la portata. La suddivisione in 5 libri è detta anche dalla tradizione ebraica hamishah humshe ha-Torah “i cinque quinti della Torah”. A partire da Filone di Alessandria (I sec. d.C.), i giudei della diaspora e poi i cristiani di lingua greca e latina, ripresero questa espressione traducendola con pentateucov sottinteso biblov cioè un libro intero, unico, che si legge di seguito (non esistevano capitoli e paragrafi né tantomeno titoli, che furono aggiunti dopo) ma che è contenuto in cinque rotoli posti in cinque (pente) astucci (teucov). Anche se alcuni parlano di un Tetrateuco, volendo fare di Dt un libro a sé, giacché parenetico come stile e differente pertanto dai precedenti, o altri ancora di Esateuco, includendovi Gs e dunque l’ingresso nella Terra promessa, è pur vero che la tradizione ebraica e cristiana hanno voluto mantenere l’ordine di 5 libri conchiusi in sé e ben delimitati da un preciso piano teologico, dentro il quale particolari temi (elezione alleanza, promessa) si richiamano e si intrecciano a costruire una trama ben definita. Centrale rimane la figura di Mosè come protagonista che lega i libri fra di loro; ma non meno importante (ed è forse il motivo principale) è la figura di Israele nella genesi sua 77 propria e nell’instaurazione e sviluppo di un rapporto con Dio, basato da quest’ultimo su elezione-alleanza-promessa e da lui per primo voluto, cose tutte che si ritrovano “emblematicamente” nella storia dei patriarchi (Abramo, Isacco, Giacobbe) e ancor prima nel racconto dei 6 giorni della creazione al cap. 1 di Genesi. La narrazione del Pentateuco incomincia con il racconto dell’origine del cosmo e dell’uomo (Genesi 1-2) e della storia primitiva dell’umanità (Genesi 3-11); segue la storia dei patriarchi d’Israele, Abramo, Isacco e Giacobbe (Gen 12-50 = 2a parte del libro, ma la divisione risponde più a criteri interpretativi ed a esigenze di studio. In realtà i due blocchi non vanno separati, in quanto la loro costituzione è simmetrica e costruita secondo parallelismi, per cui la scelta di Israele nella 2a parte si inserisce nel quadro universalistico del mondo e delle nazioni quale è delineato nella 1a parte. Inoltre, il piano di Dio è sempre portato avanti da una coppia: Adamo ed Eva, Abramo e Sara, Isacco e Rebecca, Giacobbe e Rachele + Lia). Si tratta quindi della schiavitù d’Egitto, della liberazione e del pellegrinaggio nel deserto sino a Esodo 1-18. In Esodo 19 ha luogo l’avvenimento centrale della costituzione di Israele come popolo di Dio attraverso l’alleanza del Sinai, la rivelazione del decalogo e del codice dell’alleanza, cui si aggiungono diverse prescrizioni rituali (cf. Es 19-40), concernenti per la maggior parte la costruzione del tempio futuro, le feste, i sacrifici. Segue il libro del Levitico contenente la legislazione cultuale con le leggi sui sacrifici, sull’investiturta dei sacerdoti, sulla purità. Del Levitico è importante il capitolo 18, il cosiddetto codice di santità. Il libro di Numeri riprende il filo degli avvenimenti: le schiere delle tribù di Israele, disposte come un esercito, si muovono nel deserto del Sinai fino a Kades (cf. Nm 1-19), quindi si spostano a Moab, dove Mosè fornisce ulteriori disposizioni (cf. Nm 20-36). Il Dt racconta gli episodi accaduti nella pianura di Moab: il libro si presenta strutturato in 3 grandi discorsi di Mosè (1-4; 5-28; 29-30), con il ricordo delle tappe nel deserto e un completamento della legislazione precedente. L’insieme si conclude con le ultime vicende e la morte di Mosè (cf. Dt 31-36). La morte di Mosè ha fatto concludere che non fosse lui l’autore del Pentateuco: questo è uno degli elementi più evidenti. Essa però sigilla la chiusura del Pentateuco o Torah: secondo la tradizione rabbinica, infatti, la Torah sarebbe bastata a Israele se egli non 78 avesse peccato con il vitello d’oro. A causa di questo peccato, ma anche degli altri, sono stati dati i Profeti (anteriori e posteriori) e gli Scritti. P. Beauchamp (1985) afferma che con la morte di Mosè si vuole significare che la legge non entra nella terra promessa se non in virtù della fedeltà ad essa che Israele “oggi” (termine ricorrente nel Dt) si assume. Israele possiede la terra sotto il giudizio di Dio: ma deve restare Israele, altrimenti la terra sarà tolta. La legge è allora sempre lì a ricordare che la terra è dono, non possesso. La storia raccontata nel Pentateuco si svolge tra i secc. XIX – XVIII a.C. (l’inizio dell’epoca dei Patriarchi) e il sec. XV o XIII a.C. (l’epoca di Mosè) in un territorio che si estende dalla Mesopotamia all’antico Egitto. Questa immensa distesa vede l’avvicendamento di diversi imperi, molti dei quali però svolgono la loro storia al tempo della redazione dei cinque libri e sono lì posti retroattivamente. Guerre e conquiste, crisi economiche e rivolte sociali spiegano il loro avvicendarsi e la migrazione dei popoli in cerca di nuove terre. Ogni impero è legato a un dio dal quale si sente eletto e chiamato e che offre loro una terra: si tratta di una legittimazione della conquista fatta attraverso una storia patriarcale che poi si apre ad una guerra di conquista voluta e condotta dallo stesso dio (Abramo compra delle terre a Canaan che poi saranno riconquistate dagli Israeliti con Giosuè: la guerra è dunque una guerra giusta, voluta dal Dio, per riappropriarsi di ciò che l’antenato aveva acquistato per i suoi discendenti). Le guerre sono guerre di dei e molti dei testi biblici presentano affinità contenutistica con i testi dei popoli vicini. Il monoteismo di Abramo e poi di Israele è uno stadio in realtà successivo, trasferito indietro nel tempo all’epoca della redazione, essendovi tracce di una fede che affiorano dall’analisi dei testi rilevati come più antichi e primitivi. Il primo a mettere in questione l’autenticità mosaica del Pentateuco è il riformatore A. Karlstad (+1541) seguito da Hobbes (+1679) e Spinoza (+1677). Fu però Richard Simon (+1712) ad affermare nel suo “Histoire critique du Vieux Testament” (Paris, 1678) che Mosè compose la parte legislativa e la Genesi fondandosi su materiali precedenti. Il resto sarebbe opera di scrittori posteriori, che avrebbero messo per iscritto una larga tradizione risalente a Mosè. Con Esdra, secondo Simon, si sarebbe giunti 79 all’attuale configurazione del Pentateuco. Simon parte da dati di critica letteraria quali ripetizioni nel Pentateuco, disordini logici o cronologici, contraddizioni, differenze di stile, ecc. J. Astruc (+1766) dà l’avvio all’ipotesi documentaria distinguendo le 2 fonti “J” ed “E”, a seconda se Dio sia chiamato con il nome di Jahvé o di Elohim. J.G. Eichhorn (+1827) individua la fonte sacerdotale “P”. Colui che dà la forma più completa all’ipotesi documentaria è il filologo ed esegeta tedesco protestante J Wellhausen (1844-1918). Assumendo il principio hegeliano dell’evoluzionismo religioso e muovendo da dati esclusivamente letterari, e non storico-archeologici, Wellhausen postula che il Pentateuco sia nato dalla redazione di brani disparati, appartenenti a ben precisi ‘documenti’ o ‘parti’ che egli così distingue: Sigla Sec. a.C. Premosaico (aninismo: culti tribali nei santuari) J IX Mosaico (monolatria E VIII RJE VIII/VII (dopo catuta Samaria) VII Periodo Profetico (monoteismo Giudaico (nomismo Luogo Stile regno del sud Descrittivo, narrativo, poetico, antropomorfico D regno nord più riflessivo regno del sud Parenetico (Giosia 622) RDT P ~450 Pentateuco IV scuola sacerdotale Preoccupazioni cultuali e genealogiche La teoria documentaria fu sottoposta a revisioni e critiche: alcuni la rifiutarono in toto, altri pensarono di dividere una fonte in due strati successivi (ad es. O. Eissfeldt distingue J1 e J2) o di introdurre nuove fonti (ad es. L, cioè la fonte laica). Von Rad (1993) pensa che il Pentateuco nasca da saghe di natura cultuale ed eziologica assemblati secondo il filo conduttore del credo di Israele che egli crede di ravvisare in alcuni brani come Dt 26,5-9 e 6,20-24 ed arricchita con l’inserzione della tradizione sinaitica, assente nei brani del credo antico da lui citati, delle storie dei patriarchi, dapprima brevi ed in seguito rielaborati teologicamente dallo ‘J’, della preistoria, opera tutta della creatività di “J”, che così sarebbe l’autore di Gen 1-11. Il problema in Von 80 Rad è dato dalla determinazione del concetto di saga e della sua natura di storia narrata diversamente dalla storiografia: quando parla di saga come storia della fede del popolo contrapposta alla grande storia, Von Rad cade in errore, in quanto proprio la storia di fede di un uomo, Abramo, è la storia di Israele, la sua grande storia, e Abramo conduce anche delle guerre. I due piani sono inscindibili (cfr. G. VON RAD, Genesi. La storia delle origini, Paideia, Brescia 1993, 35-36). Rendtorff riprende la teoria di Von Rad e parla di “unità maggiori indipendenti” in sé compiute, elaborate e riunite insieme secondo punti di vista e pensieri informatori molto vari, riflessi dallo stile o da aggiunte lessicali. Così facendo però, Rentdorff tradisce Von Rad e la stessa intenzione biblica sostenendo una cesura tra la storia delle origini e quella dei patriarchi. Vede all’opera, nella redazione del Pentateuco più la scuola ‘dt’- ‘dtr’ (deuteronomica-deuteronomistica), che assicura la continuità con i libri successivi, che ‘P’. (R. RENDTORFF, Introduzione all’Antico Testamento. Storia, vita sociale e letteratura d’Israele in epoca biblica, Claudiana 1994, 211-220) La tradizione ebraica parte da un presupposto diverso e non si attarda su rilievi storico-critici. La Torah è parola di Dio e come tale va considerata un “unicum”. Così si afferma in Pirqè Abot 1.1: “Mosè ricevette la Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè e Giosuè agli Anziani e gli Anziani ai Profeti e i Profeti la trasmisero agli Uomini della Grande Assemblea”. Il termine Torah non significa solo “legge”, ma “insegnamento”. La radice ebraica del termine dà l’idea di mirare un bersaglio, di tirare una freccia, di indicare una direzione. Inoltre, per consonanza con altre radici, il termine Torah evoca anche la luce e il fuoco (vedi Es 19, festa di Shabuot). La Torah quale parola di Dio è una, ma è rivelata sotto due forme, scritta e orale, giacché “una parola ha detto Dio, due ne ho udite” (Sal 62 (61), 12). Essa è ricevuta (qibel) e trasmessa (masar), è principio ordinatore di condotta della comunità di Israele, la halakah. La Torah orale è come una siepe attorno alla Torah scritta, che riassume nella regola d’oro che fu di Gesù e di Hillel: “Così tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa è infatti la Torah e i Profeti” (Mt 7,12); e Hillel aggiunge: “Il resto è interpretazione. Vai e studia”. Questa idea del Testo scritto e del Testo orale risale alla 81 distruzione del 1° Tempio ed anche Gesù l’ha ricevuta. Gesù legge e spiega la scrittura secondo la maniera dei maestri ebrei. L’interpretazione della Scrittura non è solo halakicah (giuridica) ma anche haggadicah (haggadah=racconto): da qui il midrash, questa lettura-ricerca del senso nascosto delle Scritture ponendo attenzione alle ripetizioni, a ciò che non è detto, a discordanze logiche, al valore numerico delle lettere (Gematria), alla scomposizione delle parole, alla forma di ogni singola lettera. I maestri ebrei non cambiano il testo, non parlano di glosse o di fonti: la Torah è data da Dio e creata prima dei 6 giorni della creazione. Essa è da sempre nel cielo ammirata dagli angeli. I maestri ebrei, come il noto ‘Aqiba’, anche quando “la Torah parla il linguaggio degli uomini” (R. Ishmael), si impegnano a fare le corone nelle lettere della Torah, cioè ad esplicitare tutti i sensi possibili. Ed è così, dunque, che accanto ad un senso ovvio, quale appare dal testo (peshat), si ha pure un senso altro che dal primo nasce (darash) e che spiega e attualizza. La peculiarità e la validità della Parola non risiedono più nel fatto che essa è in cielo, ma nel fatto che essa è data a Israele che la trasmette e la interpreta. Anche Dio deve sottostare alla sua Parola interpretata dagli uomini che diventa Parola rivelata, perché questa è la sua volontà: se Egli viene meno a ciò, i maestri lo riprendono ed Egli non può fare altro che dichiararsi sconfitto. La halakah non è mai un dogma incontestabile, ma un cammino sempre più profondo e largo alla ricerca della unità mai raggiunta, i cui frammenti si ottengono all’interno di una cultura della discussione, dove allo stesso tempo tutte le interpretazioni sono valide e sullo stesso piano eppure si deve propendere per la maggioranza per non aumentare le divisioni Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re appartengono all’opera storiografica “dtr”, secondo la definizione coniata da Noth nel 1943, cioè all’opera di una scuola consolidatasi nel post-esilio che rielabora materiali precedenti. Nella Bibbia ebraica sono i profeti anteriori. Rut è un libro di natura sapienziale, posto nella LXX dopo i Gdc, usato per la festa di Shabuot (settimana o pentecoste): è qui posto perché gli eventi in essa narrati sembrano svolgersi all’epoca di Gdc, anche se la data di composizione del libro si situa 82 in età monarchica per alcuni, in età post-esilica per altri. Rut fa parte delle Meghillot, i cinque rotoli di scritti di natura sapienziale usati nelle feste ebraiche secondo il seguente schema: Cantico dei Cantici Pesach Rut Shabuot Lamentazioni il 9 del mese di Ab per commemorare la distruzione del Tempio Qohelet Sukkot Ester Purim 1 e 2 Cronache, Esdra, Neemia sono un tutto unico: nella Bibbia ebraica il libro di Cr viene dopo l’unico libro di Esd-Ne, anche se dovrebbe essere messo prima, e fanno parte degli scritti, non di libri storici. L’unità di stile e di idee fondamentali e, dunque, di composizione è rivelato anche dalla ripetizione in Esd 1,1-3 di 2 Cr36, 2223. Per la composizione Esd e Ne vengono prima di 1 e 2 Cr, stesi verso il 300 a. C.. Tobia, Giuditta, Ester (greco), 1 e 2 Maccabei non sono accolti dalla Bibbia ebraica: fanno parte dei deuterocanonici della LXX. Risentono molto dell’influenza sapienziale, il loro scopo è didattico, la forma narrativa è quella della novella o del romanzo epico. Est (ebraico) fa parte del rotolo delle megillot ed era letto durante la festa di Purim (festa ebraica forse simile al giorno di Mardocheo, maturata da una festa persiana, come per il Natale cristiano). L’ESILIO E I LIBRI STORICI L’esilio è il momento centrale per Israele della comprensione della sua storia passata e della sua messa per iscritto, diciamo finale. Anche noi come Israele siamo oggi in esilio e ripensando insieme agli ebrei deportati in Babilonia, la storia passata, ci convertiamo veramente a Dio, ne troviamo il volto autentico che a noi si rivela, senza più la pretesa di conoscerlo e di piegarlo ai nostri concetti e voleri. 83 In esilio non c’è più per Israele né re né profeta né tempio: la monarchia è distrutta da un potere più grande perché ha perso il suo legame con Dio; la profezia è scomparsa perché si è compiuta; i sacrifici non ci sono più perché il tempio, la casa di Dio, che pretendeva di far abitare lì Dio, che i cieli non possono contenere, è distrutto. I sacerdoti e gli scribi ripensano allora alla storia passata, vi trovano il passaggio di Dio, il suo amore, la sua fedeltà, anche nel dolore e nella prova vi scoprono il loro amore e la loro fedeltà di risposta, ma anche la loro infedeltà e il loro peccato (l’idolatria): fanno memoriale, ma così riattualizzano. Il memoriale si deposita nel libro scritto che dà identità al popolo di fronte agli altri popoli e diviene per questo normativo: nasce la Bibbia, promessa e speranza di un nuovo avvento di Dio e della sua opera, compiuta già mentre si scrive. E Israele tornerà in patria. Tecnicamente, per la composizione dei libri ci si servì di unità narrative maggiori distinte. Esse erano costituite da racconti autonomi, da novelle (Giuseppe), da saghe, da liturgie di fondazione o di genere (Gerico), da preghiere, da inni commemorativi, da discorsi celebrativi, da detti e brevi raccolte sapienziali-didattiche, da storie di profeti (Elia, Eliseo, Samuele, Isaia, Michea ben (ben=figlio) Imla). Ognuno di questi documenti ha fonti diverse, che la critica letteraria ha così diviso: “J” (Jahvista) – “E” (Elohista) – “P” (Priester Codex (=Sacerdotale) ) – “Dtr” (Deuteronomico) e “dtr” (deuteronomistico) e che si estendono dal IX al V secolo a. C.. La più difficile da ricostruire è l’”E”, mentre “P”, “Dtr” e “dtr” danno tutto il tono alle tradizioni precedenti nella loro redazione finale e segnano la base per gli scritti successivi dall’apocalittica alla linea sapienziale. Questi documenti non sono solo di Israele, ma anche degli altri popoli del Vicino Oriente, dei quali riflettono le medesime idee (ad es. il re-pastore babilonese scelto da Dio a rappresentarlo in terra e la figura del re Davide). Come negli altri popoli, alcuni erano tramandati oralmente, altri (liturgie di guerra o alleanza) fissati per iscritto e disposti in un santuario per essere letti periodicamente. I redattori misero insieme tutto questo materiale senza nulla tralasciare, seguendo un ordine più pedagogico che propriamente storico, anche se non scissero i due piani: il Dio d’Israele è il Dio della vita, cioè della storia, del singolo e della 84 comunità, uniti questi ultimi da un destino medesimo indissolubile: ciò spiega la ripetizione di tanti brani, come ad es.: due racconti della creazione (Gen 1 – 2, 4a e 2,4b – 3,24), due racconti della vocazione di Mosè (Es 3,1 – 4,17 e 6,2 – 7,7) due decaloghi (Es 20,2-17 e Dt 5,6-18) con varianti notevoli, due codici dell’alleanza (Es 20,22 – 23,33 (elohista), Dt 12,1 – 26,15 (accentua il culto rispetto a Es, che mantiene gli altri santuari, a Gerusalemme). “P” insiste sulle classi sacerdotali, sui precetti, sul sabato, la circoncisione, la purità (vedi Levitico specialmente, oltre Nm ed Es); “Dtr” e “dtr” sulla terra, l’elezione, il patto (berit). Numerosi i rimandi simbolici di tipo numerico: torna frequentemente il numero 40 e il numero 12 (tribù di Israele, del figli di Giacobbe, 12 Giudici maggiori e minori), come anche il 7 e il 50 (Pentecoste). Molti scritti hanno espressione critica e furono composti a Babilonia (cfr le origini). Oggi la critica letteraria insieme ai metodi archeologici, sociologici ed antropologici e alla filosofia del linguaggio (v. i nostri modi popolari di espressione) ha raggiunto una più profonda conoscenza delle istituzioni di Israele e dei popoli del Vicino Oriente, della storia di questo lungo periodo, di mutamenti geo-politici, con una comprensione più piena, ma non definitiva, della storia di salvezza narrata dalla Bibbia, questo grande memoriale delle gesta di Dio in mezzo al suo popolo riconosciute attraverso la fede e confessata in un atto di fede scritto che nulla tralascia delle contraddizioni della storia umana proprio perché risalti maggiormente l’azione creatrice e provvidenziale di Dio e proprio lì dove sembra non esserci. E’ forse un caso che il libro di Ester eviti di nominare il nome di Dio, cosa che creò scandalo agli estensori dell’Ester greco che invece citano il nome di Dio in abbondanza? Non dicono forse entrambi con il silenzio e la voce, l’azione dell’unico Dio nella storia umana? Per cui nulla va nascosto o rigettato di questa parola di vita, che, per quanti l’ascoltano e la custodiscono, diventa benedizione e vita per lunghi giorni sulla terra. 85 LIBRI PROFETICI “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio . Parlate al cuore di Gerusalemme E gridatele che è finita la sua schiavitù, e stata scontata la sua iniquità, perché ha ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per tutti i suoi peccati” (Is. 40, 1-2 ) Questo brano può riassumere il messaggio profetico, che è insieme di condanna del peccato e di correzione del peccatore, mentre manifesta la pedagogia divina scaturente dal suo amore misericordioso. Ogni profeta è infatti costituito “per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare” (Ger. 1,10) attraverso la Parola del Signore posta sulla sua bocca. Il profeta è infatti portatore di una parola non sua e che spesso comunica senza il consenso diretto della sua volontà e controvoglia ad un popolo di dura cervice che si ostina a non ascoltare. Una Parola che costringe il profeta alla solitudine per poter essere ascoltata, compresa e poi annunciata: una solitudine che separa il profeta da tutti e dal comune modo di pensare, per condurlo sui sentieri di Dio, così diversi da quelli degli uomini, così come lo sono i suoi pensieri. Una Parola che è gioia e letizia del cuore ed insieme dolce alla bocca, ma amara nelle viscere, una Parola che promette insieme sventura e consolazione, morte e vita, castigo e salvezza, in cui la misericordia non è sterile irenismo né la severità intransigenza infruttuosa. Una Parola che diviene il centro della storia di questi uomini senza storia, che scompaiono dietro il rapporto conflittuale, e per questo sanante e redentivo tra la parola dell’uomo e la Parola di Dio che si invera nella storia. Ecco perché il profeta è definito “uomo della Parola”. 4.2.1 I LIBRI PROFETICI SECONDO LA VERSIONE CEI 86 Comprendono i quattro libri maggiori: Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele più il rotolo dei dodici profeti minori. Subito dopo Geremia la Bibbia greca e la Volgata pongono il libro delle Lamentazioni (Lm) che la Bibbia ebraica pone invece tra gli Scritti e che fa parte di “megillot”: la CEI segue la LXX e Vulgata secondo la tradizione di 2 Cr 35,25 (“Geremia compose un lamento su Giosia… Esso è inserito fra i lamenti”) che ne attribuisce la composizione a Geremia: il contenuto del libro le è di grande appoggio. Ma Geremia non poteva dire, come afferma l’A. di Lm, che la profezia era svanita, né lodare Sedecia e gli egiziani: l’opera risale probabilmente ad un autore del 587 a. C., che scrive dopo la caduta di Gerusalemme. Baruc, dopo Lm è assente dalla Bibbia ebraica, in quanto faceva parte dei deutero-canonici: la LXX lo pone tra Ger e Lm , la Vulgata dopo Lm (così CEI). Sarebbe stato scritto da Baruc, segretario di Geremia e personaggio influente alla corte e nella casta sacerdotale: ma si tratta di pseudonimia. Il libro risale al I secolo a. C.; ad esso la LXX aggiunge la Lettera di Geremia che è poi diventata il cap. 6 di Baruc, una dissertazione contro gli idoli risalente al periodo maccabaico. Il ricordo di Bar si è perpetuato nella tradizione: a lui la tradizione rabbinica attribuì due apocalissi del II secolo d. C, una in greco, l’altra in siriaco, mentre un frammento del testo greco è stato rinvenuto a Q e risale al 100 a. C. Ecco perché questo libro sapienziale porta il suo nome. Il libro di Daniele non appartiene propriamente al genere profetico: è composto tra il 167 e il 164 a. C., in età maccabaica, durante la persecuzione di Antioco Epifane, da un autore che racconta fatti già accaduti ponendoli in bocca a Daniele veggente. Lo scopo è didattico-esortativo (rafforzare la fede in tempo di persecuzione), lo stile sapienziale-apocalittico (confluiscono in esso le tradizioni dell’apocalittica seguita all’ultimo dei profeti: l’apocalittica contiene la profezia ma allo stesso tempo è un genere autonomo che nasce dalle sue ceneri). L’età recente del libro spiega il suo posto nella Bibbia ebraica: esso è posto tra Ester e Esdra, nel gruppo degli Scritti. La LXX e la Vulgata lo pongono tra i profeti e gli aggiungono alcune parti deuterocanoniche assenti nel TM: salmo di Azaria e cantico di 3 giovani, storia di Susanna, storie di Bel e 87 del serpente sacro. Sviluppa il tema del giorno del Signore ed ha il Figlio dell’uomo, figura (messianica?) di cui si approprierà Gesù per parlare di sé. Il profetismo si ha a Mari (XVIII sec.) secondo alcuni con caratteristiche similari a Israele. Mosè ritenuto il 1° profeta – Scuole di profeti – profezia con incisione e taglio – Criterio di verità della profezia di Dt 18,9-22 (deve compiersi la parola del profeta) non certo profeti di corte. I profeti maggiori sono così detti perché il loro rotolo è più lungo, per ciascuno, rispetto all’unico rotolo in cui sono contenuti, tutti insieme, i 12 profeti minori: la differenza è quantitativa, non qualitativa. La raccolta era già costituita al tempo del Siracide. La Bibbia ebraica li ordina cronologicamente secondo la successione storica loro attribuita, la LXX li pone prima dei profeti maggiori: BC segue l’ordine della Bibbia ebraica e della Vulgata. Sono tutti profeti scrittori e vanno dall’VIII al VI secolo a. C.: sono così chiamati perché scrivono i loro oracoli e li redigono in raccolte e libri a differenza di quelli del IX sec e della prima parte dell’VIII sec. come Samuele, Elia, Eliseo, Natan e Gad che troviamo nei libri di Samuele e di Re (detti per questo “profeti anteriori” nella Bibbia ebraica per distinguerli dai nostri chiamati “profeti posteriori”). Giona è più sapienziale che profetico. In realtà scrissero tutti i loro oracoli o direttamente o per mezzo di discepoli scribi, per testimoniare la veridicità della loro profezia: le loro scuole e le scuole postesiliche, soprattutto “dtr”, composero redazionalmente queste unità letterarie di profeti seguendo quest’ordine: oracoli contro Israele e Giuda e castigo, oracoli contro le nazioni, consolazione e restaurazione. I temi erano presenti singolarmente in ciascuna delle unità profetiche. Inoltre i loro oracoli vennero integrati o attualizzati (come i capp 31-33 di Ger, dati prima per il Nord (nel 720-700 a.C.) e poi adattati per il Sud negli anni 590-587) perché ritenuti veritieri e normativi, mentre la loro normatività viene allo stesso tempo riconosciuta e fissata. Si possono così riconoscere 1°, 2° e 3° Is o 1° e 2° Zc. Le forme fisse e ricorrenti sono: “Così dice il Signore”, oppure, “Oracolo del Signore” e “Parola di Jahvè. 88 I profeti si esprimono pure con “azioni simboliche (la vita del profeta è segno (Isaia con la moglie e i figli; Os e la sua storia d’amore) I profeti si presentano sulla scena negli anni più difficili di Israele: non solo perché siamo in piena dominazione assira prima e babilonese poi, ma soprattutto perché il consolidarsi dello stato monarchico, già con Davide e Salomone, aveva portato ad un tradimento delle tradizioni jahviste, con un conseguente sincretismo religioso, dovuto all’assimilazione del culto di Baal dei Cananei, e con la creazione di una stratificazione sociale che prevedeva le distanze tra nobili proprietari terrieri e poveri contadini costretti a cedere la loro parte di terra, che spettava loro di diritto come membri del popolo ebraico cui Dio aveva concesso la terra per ogni uomo, ed a lavorare per i nobili come schiavi. I nobili avevano combattuto con il re e per il re, ricevendo da lui dopo la vittoria terreni come pagamento e premio. Jahvé assumeva le fattezze di Baal oppure accanto ai sacrifici offerti a Jahvé si dava culto in luoghi alti (alture e pali sacri) ai Baal (padrone, marito, signore ⇒ Osea) per ottenere fecondità della terra e pioggia (prostituzione sacra) ⇒ idem oggi con i cristiani che si rivolgono ai maghi. Lo stato di Israele aveva assunto le forme istituzionali, ormai decadenti, di Canaan, caratterizzate da lusso riservato a pochi, da corruzione, sfruttamento, dominio, sperequazione sociale, e le aveva accolte proprio quando esso era in crisi, diviso in due da spinte autonomistiche territoriali. I profeti, ritornando al passato di Israele e alle antiche tradizioni (Esodo, Tribù, Deuteronomio ritrovato sotto Giosia nel 680 a Gerusalemme nel tempio, che influenzò Osea che influenzò Geremia e parte di Esodo), chiamati dalla Parola di Dio sono inviati a parlare in nome di Dio davanti al popolo, ai capi, al re, alle nazioni: il termine “nabi”, tradotto in greco con “profetes” ha questo significato. Sinonimi sono missionario e veggente. Avvertono la chiamata in forti mozioni interiori, mentre le visioni sono più comprensione della simbologia naturale che rimanda all’interpretazione del corso degli eventi (mandorlo in Ger). Non si danno previsioni del futuro ma discernimento del 89 piano di Dio nella storia del suo popolo per salvarlo. La Parola chiama più dentro la vita che con sogni o estasi, che si attenueranno nei profeti posteriori rispetto a quelli anteriori, secondo anche la linea di Dt per il quale il sogno non è verace, e che torneranno nell’apocalittica. Vicini al culto e alla liturgia del tempio dove era riservata loro una parte delle funzioni pubbliche come predicatori (Geremia può denunciare tranquillamente nel tempio i suoi oracoli di distruzione) e una zona di residenza dove ricevevano la chiamata (Isaia e Geremia). Non si scagliano contro i sacrifici o la classe sacerdotale per far valere un culto spirituale, ma cercano di far ritornare il popolo ed i sacerdoti ad una interiorizzazione degli stessi atti di culto, intesi come comunione con Dio e fonte di moralità, cioè di eguaglianza e di giustizia tra i membri del popolo e con gli stranieri. Fedeli al patto di Dio con il suo popolo, anche se non lo nominano quasi mai, e convinti soprattutto della protezione di Dio al suo popolo, vogliono far evitare in politica qualsiasi alleanza con altre nazioni nella battaglia contro i nemici: la ricerca dell’alleanza e allo stesso tempo la presunzione degli israeliti che Dio è con loro e che nulla potrà loro nuocere e che l’alleanza è voluta da Dio perché annunziata dai profeti (ma quelli sono falsi, profeti di corte, come tanti nel vicino Oriente antico) provocherà l’allontanamento di Dio, la distruzione come castigo e punizione dell’infedeltà e del peccato cultuale e sociale, la deportazione. In esilio Israele si ravvederà e allora i profeti annunzieranno la consolazione e la restaurazione, con il ritorno in patria del resto da cui germoglierà un popolo numeroso, la ricostruzione del tempio sul Sion monte di Dio e di Gerusalemme ove affluiranno tutti i popoli, salvo poi, come Ag e Zc a dover stimolare il popolo apatico nel ricostruire il tempio dove Dio vuole riabitare dopo essere andato via a causa della iniquità del suo popolo(gloria di Ez), per poi comprendere la sua trascendentalità e santità e il fatto che l’elezione non è presunzione di salvezza, di possesso di Dio e di conoscenza del suo volere, perché Dio può eleggere altri popoli (Ciro e i Persiani) e vede che tutte le nazioni sono salve mentre Israele sarà in mezzo ad esse segno della sua presenza. Il giorno del Signore è così per loro giorno di tenebra e di oscurità, di battaglia e di distruzione, dopo le quali giungerà la prosperità e la pace. Sostenitori della casa di Davide e del sacerdozio aronnitico, non sembrano poi sostenere 90 così a fondo il messianismo regale, propugnato in Is 8, 23 – 9,6; Mi 5,1-3a; Zc 9,9 e forse Is 7, 10-17, l’oracolo dell’Emmanuele. Se i profeti anteriori si interessano ad ogni aspetto della vita, i profeti posteriori a parti della vita come il culto e la condanna delle ricchezze. Tutti però annunciano una salvezza di Dio che si manifesta come punizione e redenzione, senza estremizzazioni né rigoristiche né sentimentalistiche. Il profeta permette lo svolgersi del processo e del rib tra Dio e l’uomo, dove è sempre la Parola di Dio a prevalere (Is 55) e a convertire: essa produce ciò che Dio vuole e per cui l’ha mandata, seminando la legge di Dio nel cuore nuovo dell’uomo, un cuore di carne, non più di pietra, donato da Dio stesso insieme al suo spirito per stipulare una nuova alleanza che sarà eterna. Il profeta Malachia, ultimo del canone, con la menzione di Elia, profeta escatologico per eccellenza, chiude la profezia ed apre all’apocalittica. Ma la profezia innerva tutta la storia di Israele e tutta la Scrittura intesa come parola rivolta da Dio all’uomo nella storia per mezzo della storia, un appello alla conversione che Dio concede nella dilazione del giudizio fino al tempo della mietitura, un criterio di discernimento della storia personale e comunitaria ed una base di decisione a favore della volontà di Dio. Questo era pure l’insegnamento della Sapienza, presente in Is 11 e 40 ma con toni più universalistici che solo il post-esilio e la diaspora potevano dare. Con i profeti ha inizio il monoteismo in Israele: Jahvé non è solo il primo fra gli dei, ma l’unico Dio. 91 LIBRI SAPIENZIALI “La Sapienza forse non chiama e la prudenza non fa udir la voce? In cima alle alture, lungo la via, nei crocicchi delle strade essa si è posta, presso le porte, all’ingresso della città, sulle soglie degli usci essa esclama: << A voi, uomini, io mi rivolgo, ai figli dell’uomo è diretta la mia voce. Imparate, inesperti, la prudenza e voi, stolti, fatevi assennati. Ascoltate, perché dirò cose elevate, dalle mie labbra usciranno sentenze giuste, perché la mia bocca proclama la verità e abominio per le mie labbra è l’empietà. Tutte le parole della mia bocca sono giuste; niente vi è in esse di falla ce o perverso; tutte sono leali per chi le comprende e rette per chi possiede la scienza. Accettate la mia istruzione e non l’argento, la scienza anziché l’oro fino, perché la scienza vale più delle perle e nessuna cosa preziosa l’uguaglia. (Prov. 8) Questa sapienza, seguendo la quale si ottiene la vita, come seguendo la follia si va incontro alla morte, in una ripresa delle due vie della benedizione e della maledizione del Dt, è l’oggetto dei libri sapienziali che la BC apre con Giobbe e conclude con Siracide. Secondo lo schema di BC sono libri sapienziali: ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ Salmi Giobbe (Gb) Proverbi (Prov) Qoelet (Ecclesiaste) (Qo) Cantico dei Cantici (Ct) ♦ Sapienza (Sap) ♦ Siracide (Sir) Nella Bibbia ebraica fanno parte della 3^ sezione “Gli Scritti!; Ct e Qo erano letti a Pasqua e nella festa delle capanne e fanno parte di megillot Deuterocanonici: scritti in greco, sono apocrifi per la Bibbia ebraica. Del Sir è stato scoperto un rotolo quasi per intero a Masada, in ebraico; Sap è l’ultimo libro dell’AT (50 a. C.) 92 Rimangono fuori altri libri di natura sapienziale come Dn, Gn, mentre gli altri libri del rotolo “Scritti” sono entrati nella BC tra i libri storici e profetici (Baruc e Lamentazioni). I libri sapienziali, che si estendono dall’epoca monarchica al 50 a. C. (Sapienza), hanno come fonte Davide e Salomone. Secondo la tradizione, a Davide va la paternità dei Salmi, poiché cantore e devoto del culto lo presentano a noi 2 Sam e 1 Re e 1 e 2 Cr; a suo figlio Salomone la paternità dei proverbi, degli enigmi e delle parabole, cioè di tutti gli altri scritti sapienziali, poiché appare dai libri storici come il re più saggio della terra del suo tempo, visitato per questo anche dalla regina della lontana Saba nel Sud, il solo che richiese la sapienza nel governare a Dio, sapienza che non gli giovò molto se già sul finire della sua vita il regno comincia a vacillare per poi spezzarsi in due tronconi alla sua morte (gli storici biblici dicono a causa delle sue molte mogli che lo indussero all’idolatria). I nomi di Davide e di Salomone dicono però che la letteratura sapienziale, e i saggi che la coltivano nascono in ambiente di corte e ha uno scopo essenzialmente pratico: formare i dirigenti e i consiglieri del re, in questo non differenziandosi né contenutisticamente né formalmente dalla letteratura sapienziale degli altri popoli del Vicino Oriente, specialmente l’Egitto. Numerosi i paralleli tra gli altri popoli con moduli espressivi e forme di pensiero identiche: la sapienza, come la profezia di Mari, non è esclusiva di Israele, che se non l’apprende da altri popoli, la coltiva come loro. E scandalizza non poco che a prima vista si tratti di una sapienza pratica e ovvia quella di cui si parla (trasmissione orale) e si scrive, di una sapienza che sta accanto a Jahvé quasi come un’ipostasi in Prov 8 ed anche poi in Sir. 24 e in Sap. 9,4 (sapienza paredra di Dio) e che solo alla fine da questi due ultimi libri insieme al poema sapienziale di Baruc sarà identificata con la Torah, mentre prima il nome di Dio, Jahvé, compariva solo per dire la fede di questi saggi che potevano sembrare addirittura atei. C’è chi parla di una sapienza pratica antica e di una teologia più recente: ma non conviene mai separare gli ambiti perché ogni filone della letteratura veterotestamentaria è un continuum di tradizioni e di fonti (orali e scritte) che subisce rimaneggiamenti, aggiunte, complementi, commenti, edizioni e redazioni. La donnasapienza in Siracide 24 trova si posto in Israele e nella Torah: ma non si tratta altro che 93 della stessa visione universalistica dei profeti. Ciò avviene perché Israele è segno tra le nazioni della presenza di Dio che raggiunge le nazioni proprio nell’esilio di Israele, come vuole Bar, nel luogo dove non si dimentica l’elezione e la promessa, ma si scrivono per renderle presenti, perché Israele sia tale attorno al libro contro i libri degli altri popoli, che non rifiuta né combatte né accetta perché li ha già dentro di sé, nella sua vita per manifestare Dio agli altri popoli. Ciò permette a Israele di dialogare con le nazioni, mentre l’ellenismo incalza, e di mantenere intatta la sua fede in Jahvè. La Sapienza, presente nella creazione, regola l’ordine cosmico, di cui quello sociale è riflesso: essa è anche sapienza pratica (lavorare il legno, tagliare pietre, tessere) e questo suo duplice aspetto inserisce l’uomo all’interno di questa armonia cosmica, per dire che egli sì fa tutto, ma animato dalla sapienza divina, per cui tutto dipende da Dio. E’ messo a tacere chi affermava che i saggi erano atei. Questa stessa sapienza presente nella creazione configura il matrimonio come istituto che sigilla la fedeltà dell’amore nel suo stesso avverarsi come alleanza istituita nella carne e nel sangue dal rapporto sessuale, espressione della benedizione divina che il Cantico dei cantici esprime con punte di alto lirismo. Ed il saggio, istruito dal padre e soprattutto dalla madre, poiché la sapienza è donna, poiché molte sono le donne sapienti nella Bibbia, ed anche il saggio stesso e il suo maestro si divertono, se la donna saggia e virtuosa fa ben funzionare la casa, è invitato a sposare la sapienza, anzi l’ha già sposata: “Questa ho amato e ricevuto fin dalla mia giovinezza, ho cercato di prendermela come sposa … Ho dunque deciso di prenderla a compagna della mia vita, sapendo che mi sarà consigliera di bene e conforto nelle preoccupazioni e nel dolore. Tornato a casa, riposerò vicino a lei, perché la sua compagnia non dà amarezza, né dolore la sua convivenza, ma contentezza e gioia”. Perché la Sapienza dona immortalità e incorruttibilità, promette la retribuzione nell’aldilà per le opere di bene compiute quaggiù, contro il comune modo di pensare, che poi degenera nell’orgoglio e nella presunzione, proclama beati la sterile, l’eunuco e il giovane morto prematuramente. Il male e la morte sono inquadrati nell’ordine cosmico, anche se il saggio vive il dramma del loro mistero e della loro incomprensibilità: se Qoelet sa che c’è un tempo per ogni cosa sotto il cielo e che tutto è vanità, Giobbe protesterà la sua giustizia contro Dio fin quasi alla bestemmia e 94 affronterà il male e il pericolo della morte non con la sterile rassegnazione di chi crede che sia Dio a permettere tutto questo, ma con la forza di chi lotta, forte della sua concezione che il dolore e la morte servono a punire i peccatori, non i giusti, per scoprire alla fine che Dio ha decretato la vita per tutti, ma non può impedire alla natura di scoprire, tramite la morte, che la vita non è un bene che essa possiede di per sé, ma un dono che viene da Dio. Cade la concezione e si apre lo spazio di una rivelazione: la vita nasce dalla morte, anche se l’uomo non crederà mai nella morte. Passando attraverso la sentenza della morte, la vita (bene della Sapienza) mostrerà di essere un dono fatto al mondo e di non provenire da esso. Perciò Dio ha creato tutto per la vita e non gode della morte, introdotta nel mondo a causa del diavolo. E così i saggi sperimentano che non sono loro a salvare il mondo, ma Dio: questo Dio che non definiscono, ma che lodano. Nei Salmi ogni uomo ed ogni comunità trova la sua propria voce: nascendo dalle profondità dell’animo umano essi si configurano proprio per questo, come Parola di Dio, preghiera stessa coniata da Dio per l’uomo, che dall’uomo sale a Dio. Dio ci ha donato le parole con cui vuole essere lodato: da qui l’importanza della LO, il canto delle lodi di Dio, così come lo cantava Israele accompagnandosi con gli strumenti musicali (mizmor) nel tempio (i Salmi sono ritenuti canti dei leviti) Ogni salmo attinente Davide, il re, o i figli di Core o per loro (è discusso il senso della preposizione le) è supplica collettiva o individuale, lamentazione, ringraziamento, inno, richiesta di perdono o di aiuto (Salmo 50 “Miserere” o “De Profundis”) che ogni uomo sente di dover cantare in ogni luogo e in ogni tempo. E chi loda Dio loda pure la sua legge con cui la sapienza si identifica: essa è il libro dei comandamenti di Dio. Se elementi sapienziali troviamo nel Pentateuco e nell’opera storica “dtr”, la ripresa di temi dei libri storici allargati e commentati secondo il metodo midrashico aprono la storia di Israele e dunque la presenza di Dio in essa agli altri popoli, rivelando al contempo che Israele è il solo popolo saggio e intelligente e che mai nessuno ha posseduto la sua sapienza. Non è un caso, inoltre, che il libro dei Salmi si divida in cinque parti separate da brevi dossologie: 1 – 41 42 – 72 95 73 – 89 90 – 106 107 – 150 mentre Proverbi si componga di nove collezioni 1–9 10 – 22,16 22,17 – 24,22 24,23 – 34 25 – 29 30,1 – 14 30,15 – 33 31,1 – 9 31,10 – 31 La sapienza allora come architetto insegnerà a scoprire e a vivere nell’armonia cosmica stabilita dalla legge di Dio, mentre come bambina ama il riso che si erge contro la vanità del mondo e la transitorietà di ogni evento e per questo non si stacca dalla vita, ma la vive più profondamente, con sapore, nella verità e nella libertà. Teme Dio perché l’ama, ne accetta la concezione perché lo conosce come padre, se la perde ne va in cerca come l’amata nel Cantico dei Cantici, accettando ferite e percosse pur di ritrovarlo e di riposare al suo fianco, sul suo petto. Perché la Sapienza nasce da Dio e a lui ritorna conducendo gli uomini, tutti gli uomini, rinnovando la sua alleanza con loro attraverso Israele e ponendo in essi quelle delizie che l’uomo chiede con il grido e che vede in una promessa che si rinnova e in un desiderio che si accresce, ma non in una compiutezza che si manifesterà solo in Gesù Cristo, Figlio di Dio, venuto però sulla terra per far gustare un poco della divina sapienza e insegnarci così a tendere non verso le cose visibili che sono di un momento, ma verso le cose invisibili che sono eterne: il desiderio si espande e si ritrova nelle sorgenti del proprio cuore scaturenti dall’infinito dell’anima, luogo dell’abitazione di Dio che solo dona la vita e sazia l’uomo di ogni bene attraverso una croce che gli fa comprendere il suo essere figlio e non schiavo, creatura libere di fronte a Lui, destinata a diventare come Lui non per suo volontà o forza propria, ma per dono, attraverso la sapienza dall’alto che è piena, poi pacifica, mite, arrendevole, senza falsità e ipocrisia, piena di misericordia e di buoni frutti. Per essa un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace: di shalom. 96 NUOVO TESTAMENTO VANGELI E ATTI “Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere” (Gv 21,24) E’ proprio questa la natura dei Vangeli e di Atti: quella di essere una testimonianza su Gesù da parte del discepolo, cioè un confessare la propria fede in colui che si riconosce, attraverso il dono che è la Rivelazione, Figlio di Dio, e la fede della comunità cui si appartiene, attraverso la narrazione della vita di Gesù e dei prodigi da lui compiuti nella sua gloria in mezzo alla sua Chiesa e fra i pagani da Risorto, mantenendo stretto il legame fra Gesù e Cristo, anzi non ponendosi neppure il problema di un divisione, giacché il Risorto è quello stesso Gesù crocifisso che Dio ha risuscitato dai morti costituendolo suo figlio con potenza, cioè rivelando la sua eterna figliolanza e divinità, in quanto Verbo, agli uomini. Ciò è proprio di una comunità semitica che narra la presenza e l’azione di Dio nella storia non attraverso concetti, ma narrando la storia già compiuta e sulla quale si è scritto in nuce e si è meditato: i libri storici dell’AT e la storia della loro formazione gettano non poca luce sul processo di composizione dei Vangeli. Per cui è vero che i Vangeli non sono una biografia di Gesù, ma partono ugualmente dall’evento Gesù, dalla sua storia e, come tali, sono storici e ricchi di informazioni storiche; mentre la qualifica di narrazioni teologiche non ne fa delle produzioni “mitiche”, in quanto la fede è sempre storica, ma qui la fede in un uomo crocifisso perché condannato a morte dalle autorità sfida la stessa storia e si impianta con forza in essa: sarebbe stato meglio dimenticare, tornare alle proprie case (Emmaus, precedere in Galilea) e al proprio lavoro, anziché raccontare 5 volte (i vangeli e la notizia contenuta in 1Cor 15,5-6) di apparizioni dello stesso crocifisso, compreso e 97 annunciato, alla luce del compimento delle Scritture, come Risorto perché risuscitato da Dio. Il criterio letterario della attestazione multipla non inganna: Gesù dopo la sua morte è stato visto vivo dai suoi discepoli (non solo dai 12, ma a più di cinquecento fratelli) e questa memoria è stata trasmessa con forza e per prima da tutte le comunità, perché il fatto non visto, ma compreso, della risurrezione sta alla base della fede cristiana e della comprensione piena dei Vangeli e Atti. E la parola “Vangelo” indica proprio una “buona notizia”, che per gli evangelisti è Gesù Cristo. Il termine non compare molto in LXX, dove invece abbonda il verbo, né nel giudaismo intertestamentario. E’ invece usato nel culto imperiale romano a indicare la buona notizia dell’ascesa al trono o della vittoria dell’imperatore (stele del 9 a. C. per la nascita di Augusto). Paolo lo usa 60 volte con genitivo oggettivo e soggettivo (di Dio, di Gesù Cristo). E nel NT è presente 76 volte; Marco lo utilizza 5 volte in forma assoluta, non così Matteo, mentre Luca lo adopera solo in Atti. Il primo autore che chiama vangeli gli scritti che noi conosciamo è Giustino, il quale usa per essi anche la forma “memoria degli Apostoli”. Ciò intorno al 150 se Giustino muore nel 165. Gli autori non imposero loro alcun titolo. Quando la raccolta fu costituita si aggiunsero due termini: “secondo… + nome dell’evangelista”, secondo un’antica tradizione. Questo semplice titolo di 2 parole, ben presto si ampliò in “il vangelo secondo…”. Ciò per indicare l’unità del vangelo nella sua quadruplice forma, che è sempre necessario mantenere (la Chiesa condannò il Diatesseron di Taziano). Se questi scritti furono inseriti d’autorità apostolica e furono ben presto ritenuti normativi rispetto agli altri sorti e circolati anche essi tra le chiese è perché essi ripercorrevano la storia del Signore in concordanza con la tradizione ricevuta: messi da parte gli altri scritti, detti apocrifi, ritenuti edificanti, per porre fine ad eresie ed errori (Marcione), questi scritti o Vangeli, furono accettati come autoritativi e normativi per la fede e alla fine entrarono nel canone con una importanza pari ai libri dell’AT (il cui canone definitorio non era ancora stato fissato). I primi tre Vangeli sono Sinottici perché disponendoli in colonne parallele li si può leggere contemporaneamente con un solo colpo d’occhio. Giovanni (Gv) ha una sua 98 storia particolare perché è il frutto di una lunga e profonda riflessione personale, oltre che comunitaria. Atti fa parte dell’opera lucana e seguirebbe al Vangelo (ma lo studio sulla passione di Cristo in Luca e il suo confronto con il martirio di Stefano devono far rivedere la questione della composizione. Forse Luca lavorava ad entrambi man mano che scopriva nuove fonti: si comprende perché scrisse prima il martirio di Stefano e su questo la passione di Gesù). Per la datazione si ha: Matteo (Mt): 80 d. C. in Siria Marco (Mc): 50 d. C. a Roma Luca (Lc) e Atti (At): 70 d. C. a Roma e in Grecia Giovanni (Gv): 100 d. C. in Asia Minore (Efeso ?) Lo stile di Mc e ruvido, pieno d’aramaismi e scorretto, ma vitale e spontaneo. Mt è aramaizzante, ma più forbito e corretto. Lc è complesso, imita lo stile dei LXX, difetta solo quando rispetta le fonti. Gv ha un greco eccellente segnato da semitismi. La data e il luogo di composizione e lo stile di ogni Vangelo sono importanti per determinarne l’autore, l’ambiente vitale, la natura e gli scopi. I Vangeli furono scritti dalla comunità per la comunità: sono dunque egualmente importanti la tradizione e la redazione. La tradizione orale di detti e fatti di Gesù trovò espressione in inni liturgici e in apposite catechesi stilate secondo la forma sapienziale, sempre trasmesse oralmente. Queste unità letterarie (forme), trasmesse oralmente e poi successivamente messe per iscritto, sono studiate dalla critica delle forme o storia delle forme inaugurata da K. L. Schmidt nel 1919 in uno studio dal titolo La cornice della storia di Gesù. Lo stesso anno è M. Dibelius a dare a questo metodo il suo nome, appunto storia delle forme, che è anche il titolo di un suo libro. R. Bultmann distinguerà tra la predicazione missionaria palestinese e la polemica e l’apologetica di stampo ellenistico. Queste forme letterarie hanno i loro paralleli nella letteratura ebraica ed ellenistica e sono strettamente legate al loro Sitz im Leben, cioè il loro ambiente vitale, le comunità. Si distinguono così le seguenti forme: Gruppo A: la tradizione delle parole 1. Sentenze profetiche 99 2. Sentenze sapienziali 3. Detti sulla sequela 4. Detti sulla venuta 5. Norme per la comunità 6. Meshalim o parabole Gruppo B: la tradizione dei fatti 1. Paradigmi-esempi 2. Discussioni 3. Racconti di miracolo 4. Racconti biografici 5. Racconti di chiamata 6. Racconti teofanici 7. Storia della passione Sul valore storico delle forme vd. R. Fabris, Introduzione alla lettura dei Vangeli Sinottici e degli Atti degli Apostoli, BSR, Roma 1995, 15-17. La scomparsa dei primi testimoni e il pericolo di errori e travisamenti spinse a mettere per iscritto tale patrimonio orale (memorizzato secondo alcune tecniche basate sul ritmo della frase, alcune attribuibili direttamente a Gesù), raggruppandolo tematicamente in pericopi ed in sezioni narrative più ampie. I redattori intervennero ordinando tutto questo materiale, di cui il primo e il più organico per la trama narrativa fu il racconto della passione(che insieme alla Resurrezione e alla confessione di Gesù quale Signore costituisce il kerygma, cioè il primo annuncio della fede, che sarà anche poi la formula battesimale: 1Cor 15,3-4), anche secondo il loro intento pedagogico e le esigenze della comunità che essi riflettono e per la quale scrivono (alcune chiese sono state già fondate e cominciano a darsi una struttura come rivelano At e le lettere di Paolo ⇒ settenario). Della redazione e degli evangelisti quali autori veri, e non solo semplici compilatori, si occupa la storia della redazione, inaugurata dagli studi di W. 100 Trilling, di W. Marxsen., di H. Conzelmann. L’attività redazionale può così essere riassunta: 1. correzione e modifiche della tradizione o di un testo precedente; 2. spostamenti di una parola o di un particolare; 3. aggiunte di carattere teologico; 4. sentenza di applicazione o di attualizzazione. La trama evangelica si sviluppa su quattro tappe: 1. preparazione messianica sulle rive del lago e predicazione di Giovanni il Battista; 2. attività di Gesù in Galilea; 3. viaggio a Gerusalemme; 4. passione e morte di Gesù a Gerusalemme. La presenza di fonti comuni (molti parlano per Mt e Lc della fonte “Q” unita a Mc, cioè una raccolta di detti di Gesù, diversi da quelli del Vangelo di Tommaso, ma non tutti la riconoscono) e l’intenzione teologica spiega le somiglianze ed anche le divergenze o le omissioni dei Sinottici (in Lc manca 6,45—8,26 di Mc, mentre è sua propria la sezione di 9,51—18,14) e la peculiarità giovannea, dove sono presenti i Sinottici. La concordanza dei vangeli sinottici si può suddividere seguendo un triplice ordine: 1. tradizione comune o triplice: i brani evangelici, riguardanti detti e fatti di Gesù, sono riferiti da tutti e tre i vangeli, dove quello di Mc, occupa una posizione mediana tra Mt e Lc; 2. tradizione duplice: concordano i due vangeli di Mt e Lc; 3. tradizione semplice: un solo vangelo con una trama comune che si adatta allo schema teologico di ciascun vangelo. Sulla base di questo schema si sono formulati otto grandi sistemi di ipotesi circa la redazione dei vangeli sinottici riconducibili a due grandi orientamenti: l’ipotesi delle due fontie quella di più documenti orali o scritti. La prima suppone che Mt e Lc dipoendano da Mc, nella forma attuale oppure precedente, e da una fonte che spiega la 101 loro convergenza denominata Q dal tedesco Quelle, cioè “fonte”, a volte identificata con il vangelo aramaico di Mt di cui parla Papia di Gerapoli La seconda sostiene che alla base dei tre vangeli sinottici vi sono diversi documenti, tre o più, che furono tradotti in greco e che riproducono la tradizione comune a diversi stadi o livelli della sua evoluzione. Sulla base di questa i tre autori hanno lavorato per produrre gli attuali tre vangeli sinottici. La teoria delle fonti non soddisfa in pieno: Mc in certi casi sembra più antico, in altri più recente di Mt e Lc, i quali a loro volta presentano reciproche concordanze contro Mc che sembrano opporsi a una comune dipendenza da questo Vangelo. Probabilmente Mt e Lc hanno utilizzato un’antica versione del Vangelo di Mc prima che quest’ultimo ricevesse una redazione posteriore. La fonte Q è ricostruita in diverso modo dagli studiosi. Inoltre i logia che vi si accumulano si trovano in Mt e in Lc con una disposizione che fa pensare a due raccolte più che a una: da una parte quelli della sezione centrale di Lc, detta pereana, dall’altra quelli del resto del suo vangelo. Entrambi concordano con Mt, ma quelli della prima parte, raggruppati in Lc, sono invece sparsi in Mt. Sembra allora che Mt e Lc abbiano attinto da due fonti diverse i medesimi logia: da una parte una fonte F o S (Vaganay) che Lc ha sostanzialmente ripreso nella sua pereana e che Mt spezzetta e sparge nei suoi discorsi, dall’altra parte uno strato antico, caratteristico del vangelo di Mt. Il sostrato arcaico di Mt, e anche di Lc, come di Mc, conduce ad ammettere tre redazioni successive, almeno per Mc e Mt: un documento di base, una prima redazione, una redazione definitiva, quella attuale. Tra le diverse redazioni si sono prodotte delle interazioni, per cui la prima redazione di Mc può aver subito l’influsso del documento base di Mt, da cui le somiglianze là dove dipende, ma può aver influenzato a sua volta l’ultima redazione del primo vangelo, che ne viene allora a dipendere. Si potrebbe così delineare questo sviluppo: all’inizio un “primo” vangelo di Mt (Mt1) che riuniva fatti e parole di Gesù dal battesimo alla resurrezione. Accanto ad esso una fonte F, che accoglieva le stesse parole e azioni del Signore, ma in altra forma, o altre. Scritti in aramaico, i due documenti furono poi tradotti in greco. Il Vangelo di Mt subì un rifacimento in greco per i cristiani 102 provenienti dal paganesimo (Mt2). Probabilmente, esisteva un altro vangelo arcaico, alla base dei racconti della passione in Lc e Gv. Quindi 4 documenti: Mt1, F, Mt2, A(vangelo arcaico). Sulla base di Mt1 e Mt2 nasce una prima redazione marciana (Mc1), conosciuta da Mt e Lc. Mt frattanto viene combinato con F, distribuita lungo tutto il vangelo. Lc utilizza Mt2 per un vangelo proto-lucano e Mt già combinato con F, inserendo F, che conosceva personalmente, nella sezione centrale, quindi ha usato per i racconti di passione e resurrezione A, comune a Gv. Infine Mt viene rimaneggiato con Mc nella sua forma antica. Mc a sua volta è rivisto con Mt con F, mentre Lc è rivisto sulla base di Mc1. Questa a grandi linee ed esemplificata, la formazione dei Vangeli, la quale è ancora discussa dagli studiosi secondo diverse tesi, alcune molto complesse, che qui non possiamo riportare. E’ certo che questi scritti si intersecano mediatamente o immediatamente. L’evento della risurrezione ha permesso di comprendere il mistero di Gesù alla luce delle Scritture di Israele, seguendo le forme letterarie delle quali esso si iniziò a descrivere. E cosi, se le prime raccolte furono inni o “semplici” catechesi di natura cristologica o escatologica, il loro ampliamento e completamento venne operato seguendo in tutto il modo di riscrivere le Scritture proprio di Israele, sia tecnicamente, cioè nell’atto dello scrivere, sia formalmente, cioè nel modo di pensare a riscrivere. Per cui la Scrittura illumina l’evento e l’evento illumina la Scrittura: si da inizio alla lettura tipologica dell’AT, prefigurazione del nuovo, attraverso soprattutto il mondo e il modo midrashico (“midrash sono ad esempio i Vangeli dell’infanzia di Mt: riferiscono un fatto vero, ma interpretato alla luce della Scrittura – abbondano le citazioni -, per cui esso diviene una confessione di fede ed insieme una catechesi alla comunità di Mt, composta da ebreo-cristiani e da pagano-cristiani, sul compimento delle Scritture e sulla salvezza offerta da Dio nel verbo incarnato, l’Emmanuele, a ebrei e pagani egualmente. E così altri esempi , senza però ridurre il vangelo ad un midrash grande che annienterebbe la realtà storica, perché è l’ancoramento stretto a quest’ultima e la salda padronanza della Scrittura che permette il midrash). 103 Gli autori sono anzitutto le comunità, le quali redigono le loro testimonianze secondo le forme letterarie del loro tempo, che anche Gesù conosceva: ad esse appartengono i redattori dei nostri vangeli, posti sotto l’autorità apostolica di Mt, Mc, Lc e Gv per affermare la conformità con la tradizione e per ciò stesso la loro validità. L’identificazione di questi apostoli non è così pacifica: Matteo e Giovanni facevano parte della cerchia dei 12, Luca della cerchia di Paolo e Marco di quella di Pietro. Di Matteo, che si presume scrisse un primo vangelo in aramaico, è difficile dire se si tratti dello stesso Levi chiamato da Gesù: il Vangelo non dice niente del suo autore. La tradizione ecclesiastica più antica (Papia, prima metà del sec. II) e alcuni padri (Origene, Girolamo, Epifanio) lo attribuiscono a lui, ma il Vangelo non conferma questa ipotesi (alcuni parlano della firma di Matteo al suo vangelo: lo scriba che trae cose antiche e cose nuove). Mc, composto a Roma durante la vita di Pietro e dopo la sua morte, dopo la persecuzione di Nerone secondo alcuni (Marco usa molti latinismi), è identificato con Giovanni-Marco, originario di Gerusalemme, compagno di Paolo e Barnaba (v. Atti), poi di Pietro a Babilonia. Luca, secondo Ireneo (fine II sec. d. C.) è il medico Luca menzionato da Paolo. Giovanni sarebbe l’apostolo di Gesù secondo la tradizione, tranne che per Papia, che parla di un presbitero Giovanni. Alcuni ritengono che sia Giovanni perché egli non è mai menzionato nel Vangelo: non è questo un criterio sicuro, giacché Matteo (se Levi è uguale a Matteo) si firma per autenticare il suo vangelo parlando della sua vocazione. Più giustamente altri pensano che si tratti di un autore che si riallaccia alla tradizione della chiesa giovannea, del quale però sconosciamo il nome. Forse “quel discepolo che Gesù amava” troppo presente e troppo importante nel Vangelo per non esserne lui l’autore. Per studiare i Vangeli oggi ci si avvale oltre che del metodo storico-critico anche di altri metodi, quali quello sociologico, antropologico, linguistico, che permettono di inquadrare Gesù nell’ambiente del suo tempo e di comprendere meglio i vangeli. E così veniamo a sapere che Gesù nasce a Betlemme, vive a Nazaret dove con il “presunto “ padre Giuseppe svolge il mestiere di costruttore, recandosi anche nella vicina Sepphoris, dove assistette anche a rappresentazioni teatrali (l’ipocrita di fariseo 104 deriva dalla maschera indossata dagli attori). Di ceto medio, è attratto dalla predicazione del Battista, di cui diviene discepolo (Gv 3, 22-26) per poi seguire una via tutta sua. Stabilisce la sua residenza a Cafarnao, luogo di sbocco e di incontro delle grandi vie di comunicazione del Sud e del Nord verso la Siria e la Mesopotamia, nella Galilea abitata dai pagani e da pochi ebrei per questo, perché considerati inferiori, disprezzati dai giudei. Amico dei farisei, dei quali critica però l’osservanza scrupolosa, ma senz’anima di precetti della loro tradizione umana, poco legato ai Sadducei e ai rivoluzionari Zeloti, con nessun contatto con gli esseni di Qumran, conoscitore dell’ebraico, del greco, dell’aramaico, raccoglie attorno a sé un gruppo di discepoli, fra i quali emergono 12, a lui più legati, di diversa estrazione sociale, alla ricerca di nuove terre e nuovi lavori perché gravati dalla politica fiscale romana. Gesù fonda perciò un movimento di cristiani itineranti come tanti altri del suo tempo: l’unica differenza è la proclamazione della già venuta del Regno nella umiltà e nel nascondimento della sua persona, mentre egli si comprende man mano nell’intimo della sua coscienza come Figlio di Dio. Si scontra con tutti e alla esaltazione iniziale fa seguito un isolamento progressivo che lo porterà alla morte per un calcolo politico (Caifa): ma qui si svela la sua diversità. I discepoli lo rivedono vivo, lo comprendono Risorto e forti del dono dello Spirito lo annunciano ad ebrei e pagani. Sorgono ovunque comunità di uomini della via detti poi cristiani ad Antiochia, che rischiano il martirio. La predicazione tra i pagani è facilitata dalla presenza di timorati di Dio. I discepoli parlano in persona Cristi (“Chi si vergognerà della mia parola, anche il Figlio dell’Uomo si vergognerà di lui”), accettano di subire il martirio per non adorare l’imperatore, pur proclamando di vivere sottomessi alle istituzioni, esprimono diverse esigenze a seconda della comunità da cui provengono e a chi si rivolgono (Lc condanna la ricchezza; Mt la giustifica con l’elemosina). La Chiesa compie il suo cammino nel mondo attraverso di essi, fra i quali spiccano Pietro e Paolo, fondatori di diverse chiese, che accentuano diversi modi di comprendere il mistero di Cristo e di vivere il discepolato (cfr. ad es. la questione del sostentamento dei predicatori itineranti). 105 [GESÙ E IL SUO AMBIENTE 1. I Vangeli come documento storico I racconti protocristiani su Gesù e i Vangeli che da essi derivano non sono inattendibili. Essi presentano un ritratto ragionevolmente fedele di Gesù come ebreo del suo tempo, accanto alla confessione di lui come il Risorto. Il Gesù ritratto nei Vangeli e non solo il Cristo della fede, ma anche il Gesù storico. Non è difficile per gli studiosi oggi separare l’attività redazionale dal materiale originario tradizionale. Gesù viene così collocato nell’ambiente ebraico del I sec., che gli è proprio e che è ben conosciuto grazie alla notevole quantità di testimonianze archeologiche e di scritti e manoscritti (Qumran, Giuseppe Flavio). La famiglia di Gesù: della discendenza di Davide? Secondo la testimonianza dei Vangeli, la famiglia di Gesù era di ascendenza davidica: la notizia è alquanto discussa, giacché la conservazione delle liste genealogiche extraevangeliche non è sicura ed inoltre bisognava giustificare la messianicità di Gesù. Allo stesso modo si discute sulla composizione del nucleo familiare: vi erano o no dei fratelli e sorelle o queste rappresentavano il clan? Nonostante il racconto della nascita verginale, Luca rinuncia a fare di Maria una discendente di Davide e neppure colloca la sua appartenenza alla stirpe sacerdotale, ma solo vi accenna col dire che era parente di Elisabetta (1,36), discendente di Aronne (1,5) e sposa a un sacerdote. Sarà poi Giulio l’Africano a interpretare il racconto lucano dell’infanzia secondo l’ottica dell’ascendenza davidica. Sono le genealogie a far discendere Gesù da Davide attraverso l’adozione legale di Giuseppe, descritto per l’appunto quale membro del casato davidico. Gli evangelisti sembrano non aver problemi nel conciliare nascita verginale e ascendenza davidica. Ma i problemi interni delle genealogie e le loro rispettive differenze lasciano pensare che esse siano state 106 composte appositamente per dimostrare una discendenza da Davide. Non si ha notizia di famiglie di discendenza davidica al tempo di Gesù e se vi fossero state e numerose non avrebbe più senso parlare di Gesù come Messia davidico in incognito. Le genealogie al tempo di Gesù furono bruciate da Erode per impedire che qualcuno gli rinfacciasse la sua non appartenenza alla razza ebraica. Non è sicuro, come vuole fare Eusebio, che tutti conservassero la loro genealogia, non solo delle famiglie sacerdotali, ma anche di quelle nobiliari. A proposito poi delle genealogie di Lc e Mt da notare che, se entrambi collocano la nascita di Gesù a Betlemme, città natale di Davide, Luca la introduce in ragione del censimento, Matteo ne fa la dimora stabile sino a quel momento (a Nazareth si stabiliscono al ritorno dall’Egitto). Betlemme è un luogo teologico della fede cristiana per confessare Gesù come figlio di Davide e Messia (Gv 7, 41-42). Gesù fu dunque un ebreo di Galilea probabilmente nato a Nazareth, dove visse per circa trent’anni sino al momento del suo battesimo da parte del Battista, che fu prima suo maestro (Lc 3, 32 e Gv 3, 25-26). Il nome Gesù era comune all’epoca, anche perché, per rispetto, non si davano i nomi dei grandi della storia biblica (es. Mosè). Anche il nome Miriam era comune in onore della sorella di Mosè. Secondo la notizia di Mc 6,3 Gesù ebbe fratelli e sorelle. I suoi fratelli si chiamavano Giacomo, Iose, Giuda e Simone. Secondo alcuni il testo si riferirebbe a dei cugini o parenti, membri dello stesso clan (J. Blinzer, I fratelli e le sorelle di Gesù, Paideia, Brescia 1975) La lingua di Gesù e la sua educazione Gesù parlava l’aramaico, conosceva l’ebraico, la lingua sacra, parlava pure il greco. Studiò nella scuola rabbinica grazie anche alla sua professione ereditata dal padre: quella di costruttore più che di carpentiere. Ciò gli procurava una certa indipendenza lavorativa ed un certo benessere economico. Gesù non era un povero privo di sussistenza né un salariato dal lavoro saltuario, ma un lavoratore indipendente riconosciuto che probabilmente, pur non essendo ricco, vendeva e commerciava i suoi prodotti. La parola greca tekton sembra indicare un costruttore più che un semplice falegname (Mc 6,3; 13,55). Nella tradizione ebraica i costruttori /falegnami sono ritenuti 107 particolarmente istruiti tanto che si chiedeva: “C’è un falegname tra noi o un figlio di falegname perché possa risolverci il problema?”. Come tekton Gesù lavorò anche nella città di Sepphoris, vicina a Nazareth, città greca ricca, con banche, archivi, il ginnasio, il teatro, dove forse Gesù si recò per assistere a rappresentazioni sacre (il Mosè di ). Non c’era sufficiente lavoro solo a Nazareth e Gesù si spostava con Giuseppe. Cfr. il detto di Mt 5,14 riferito a Sepphoris. Gesù poi mostra in varie occasioni di conoscere il mondo cittadino e di saper trarre le sue immagini sia dal mondo contadino che da quello urbano, e non solo del carpentiere, ma persino, secondo alcuni, dell’attore di teatro (upokrites). Il mestiere di carpentiere non era incompatibile con gli studi per diventare rabbi; ogni rabbi è poi tenuto al lavoro nell’ebraismo. Pur non essendo uno scriba accreditato, la gente dà a Gesù l’appellativo di Rabbi, comune al tempo per designare maestri e studiosi della Torah. Gesù apprese le prime nozioni in casa dal padre (Gv 5,19-20), Giuseppe, e poi frequentò le scuole delle sinagoghe. Padroneggiava perfettamente sia la Sacra Scrittura sia la tradizione orale e sapeva come applicare questo patrimo nio di dottrine e di sapere tradizionale. Secondo Flusser, l’istruzione ebraica di Gesù era nettamente superiore a quella del “greco” Paolo. Se Gesù parlava aramaico – e lo testimoniano gli aramaismi del vangelo: effata, abba, mamona, pasca, kepha, talita koum – conosceva e parlava altrettanto bene l’ebraico e il greco. L’ebraico era la lingua della preghiera (Lc 4, 16-19), mentre il greco costituiva la lingua internazionale parlata da tutti (commercianti, piccoli artigiani, produttori). La Galilea era d'altronde abitata da pagani di lingua greca, il lago di Tiberiade comprendeva anche o era vicino al territorio greco della Decapoli, Sepphoris era città greca. Gesù parla con il centurione, con la sirofenicia, con gli abitanti di Gerasa; Pietro parlerà con Cornelio. Il ministero di Gesù Gesù fondò un movimento di carismatici itineranti fondato sul comandamento dell’amore, che fu la dottrina peculiare del suo insegnamento. In nome di questo principio cardine innovò la dottrina tradizionale, ma giunse ad un punto di rottura con 108 tutti gli strati della società ebraica. L’epilogo del suo ministero con la morte in croce fu la concorrenza di cause politiche e progetto divino. Gesù inizia il suo ministero a trent’anni (è la notizia di Lc che richiama Davide e la sua unzione regale a 30 anni: 2Sm 5,4), subito dopo il battesimo. Nato tra il 7 o 6 a. C. Gesù fu battezzato intorno al 28/29 d. C., intorno ai 34 anni. Il suo ministero è descritto in termini teologici, da qui la variante uno/tre anni di Gv e dei Sinottici. La sua morte è da collocare nel 30, all’età di 35 anni. Gesù non fondò una religione, ma un movimento di carismatici itineranti, gente desiderosa non solo della salvezza dell’anima, ma di miglioria economica, vista la pressione fiscale e il sopravvenire di catastrofi naturali che avevano minato la produzione (ne parla Gesù in quelli che sono i discorsi apocalittici). Il punto cardine della dottrina di Gesù fu l’interpretazione nuova del precetto dell’amore, conosciuto dall’ebraismo, estesa sino ai precetti minimi (es. l’ira o la concupiscenza), sino ad estendersi al nemico. Le sue idee non piacquero a molti: specie i sadducei e i sacerdoti sentirono minacciati i loro interessi economici (Gesù e il tempio) e riuscirono a coinvolgere la folla dinanzi alla quale Gesù aveva giudicato inutile il lavoro di abbellimento del tempio. Era poi un motivo politico a muovere tutto: i romani avevano un altro ebreo da giustiziare e gli ebrei il popolo da salvare in attesa della vera rivolta. Solo i farisei gli rimasero più vicini. Gesù morì e poi fu confessato vivo e risorto. Ma questa è già un’altra storia.] Tutto questo è narrato nei quattro Vangeli e in Atti secondo quanto già detto. I simboli degli evangelisti: Matteo ⇒ uomo ⇒ genealogia di Gesù all’inizio Marco ⇒ leone ⇒ Battista che grida Luca ⇒ toro ⇒Zaccaria offre il sacrificio Giovanni ⇒ aquila ⇒ altezza della sua teologia (“In principio era il Verbo”) 109 LETTERE DI PAOLO - LETTERE CATTOLICHE - APOCALISSE “Dichiaro a chiunque ascolta le parole profetiche di questo libro: a chi vi aggiungerà qualche cosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro; e chi toglierà qualche parola di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa, descritti in questo libro. Colui che attesta queste cose dice: “Si, verrò presto!”. Amen. Vieni, Signore Gesù. La grazia del Signore Gesù sia con tutti voi. Amen! (Ap 22, 18-20) Con questo ammonimento e con questa supplica della Chiesa che chiede il ritorno del suo Signore nella gloria, invitandolo ad abbreviare il tempo dell’attesa, l’Apocalisse chiude il canone di libri biblici, dei quali oggi passiamo in rassegna l’ultima parte relativa al NT, le Lettere. Di queste, 13 sono attribuite a Paolo più una, la lettera agli Ebrei, che oggi si riconosce non essere di Paolo; una a Giacomo, non l’apostolo, ma il presbitero, fratello del Signore; due a Pietro, tre a Giovanni, una a Giuda. Alla fine si ha l’Apocalisse. A Paolo si attribuiscono: Romani (Rm), 1 e 2 Corinzi (1 e 2 Cor), Galati (Gal), Filippesi (Fil), 1 Tessalonicesi (1 Ts), Filemone (Fm), il cosiddetto “settenario paolino”. Efesini (Ef) e Colossesi (Col), 2 Tessalonicesi (2 Ts), 1 e 2 Timoteo (1 e 2 Tm) e Tito (Tt) (le lettere pastorali) sono della sua scuola: lo dà ad intendere lo stile, così diverso da quello paolino, e la struttura della chiesa, troppo avanzata per i tempi di Paolo e troppo statica per interessare l’apostolo. Per le altre lettere la paternità apostolica se è sicura a livello di normatività, non lo è altrettanto a livello di redazionalità e composizione: è certo comunque che queste lettere riflettono la predicazione dell’apostolo di cui portano il nome e la struttura di chiesa da essi fondata. Queste lettere narrano della vita delle prime comunità, dei loro fondatori, del loro rapporto con il mondo culturale del tempo. Formatesi attorno alla fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, morto, risorto e asceso al cielo, del quale si attende la venuta, dapprima immediata, poi rimandata nel tempo della benevolenza di Dio che vuole salvi tutti gli uomini, queste comunità dovranno 110 risolvere problemi pratici, per i quali ricorrono all’apostolo-fondatore, il quale dà consigli, ammonisce, rimprovera, esorta, gioisce e soffre con esse come un padre con il figlio. Paolo si trova dunque a dover illuminare sulla condizione delle vedove, delle vergini, sulla carne immolata agli idoli e su altri diversi punti, come faranno anche gli altri apostoli. Le sue lettere, che coprono un arco di tempo che va dal 50 al 65, durante il quale compie 3 viaggi missionari, per poi finire arrestato a Gerusalemme e morire a Roma essendo cittadino romano di Tarso, riflettono il suo amore per tutte le chiese e lo zelo per Cristo che lo spinge a predicare il Vangelo: Paolo è un convertito che pone al servizio della causa di Cristo il suo temperamento appassionato che lo aveva fatto eccellere nell’attaccamento alle tradizioni dei Padri e nella persecuzione contro la chiesa. Sua principale preoccupazione è chiarire che la salvezza e la giustificazione vengono da Dio per la fede in Cristo e non dalle opere della Legge che ha trovato la sua compiutezza in Cristo. Da qui il fatto che la comunità deve essere unita, che non ci devono essere divisioni tra cristiani provenienti dal giudaismo e cristiani provenienti dal paganesimo, che l’Eucaristia deve essere espressione dell’unità e dell’amore vicendevole, che i carismi sono in vista dell’utilità comune e che nessuno ne è escluso, che questi vanno esercitati senza invadere il campo dell’altro e con umiltà. L’apostolo, il missionario è pronto a dare la vita per mantenere questa comunione e preferisce essere messo al bando pur di non ostacolare il cammino verso l’unità, anche se la fede può essere espressa secondo diverse prospettive, ma secondo una sola verità, che sarà quel deposito della fede dove confluisce la sacra dottrina delle Pastocoli. Anche i presbiteri, continuando l’opera dell’apostolo, non spadroneggeranno sul gregge loro affidato, ma lo sorveglieranno volentieri e di buon animo, rispettando e programmando il cammino di ciascuno. Pronti ad animare la fede di tutti, la sostengono inoltre nei momenti di persecuzione: loro compito principale e direi quasi esclusivo è presiedere la preghiera. Non hanno in loro tutti i carismi che gli altri esercitano senza però lasciarsi andare in esaltazioni mistiche (in tal caso l’Apostolo richiama all’ordine e al fatto che il carisma è dato per l’utilità comune e non serve se nessuno lo comprende). Tutti i membri della comunità contribuiscono all’edificazione della comunità pur ricoprendo diversi ruoli nel mondo (padrone, servo, moglie, marito, ricco, povero), non si distinguono più nella 111 realtà nuova, quella escatologica, inaugurata con il Battesimo, dove tutti sono uno in Cristo Gesù. E quando partecipano all’Eucaristia non fanno distinzione tra persone più o meno importanti: se questo accade, Paolo come Giacomo sono pronti a rimproverare. Il mondo è fuori da Dio perché passa la sua scena: tutte le funzioni e i ruoli che si ricoprono nel mondo scompaiono nella celebrazione eucaristica, dove si è tutti uguali giacché essa prefigura ed anticipa la comunità escatologica. Allo stesso modo l’Apocalisse non traccia una prefigurazione della fine del mondo, ma secondo lo stile profetico-apocalittico mostra una chiesa perseguitata, ma orante, sicura della protezione del suo Signore, di cui richiede supplichevole la venuta, che la libererà dal pericolo, cioè dalla persecuzione dello stato, simboleggiato dal drago, come il 666 che non è altro che il nome di Nerone Cesare nella “gematria” ebraica. In tal modo invita a perseverare nella prova, come pure la lettera agli Ebrei, giacché il NT compie la promessa dell’AT e la parusia compirà quella del NT, già iniziata a compiersi in Gesù e nel suo mistero pasquale. Lo stile di Paolo è passionale e segue il suo temperamento e l’incalzare del suo pensiero: conosce il greco, la Bibbia ebraica e la LXX, l’oratoria greca e il metodo esegetico di farisei (futuri rabbini). Gli altri autori sono vicini al mondo letterario semitico da cui provengono, conoscono la LXX e sanno scrivere bene in greco. I termini si caricano di nuovi significati specie in Paolo. 112 CONCLUSIONI Alla fine del nostro corso riporto un detto dei Padri: Detti di Rabbini Studio della Parola e accoglienza dell’uomo perché così Gesù disse: “Chi ascolta le mie parole e le mette in pratica è simile ad un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia”. Ed infatti, secondo i rabbini su tre cose sta il mondo: sulla Torah, sul culto e sulle opere di misericordia. Ed un rabbino, al discepolo che gli chiedeva perché andasse veloce mentre pregava e fosse lento mentre leggeva la Scrittura rispose: “Perché quando prego parlo con Dio come con un altro uomo, quando leggo la Scrittura è Dio che mi parla e non debbo lasciare cadere nessuna delle sue parole “. [Abbiamo già parlato di testimoni di questi scritti: il testo siriaco o antiocheno (300 d. C.); quello alessandrino contenuto nel Vaticano e nel Sinaitico, quello occidentale (Codice di Beza), attestato anche in Oriente. La lingua usata è il greco, scritto però secondo una mentalità semitica (si pensi al Mt aramaico perduto).] 113 BIBLIOGRAFIA - AA.VV., Grande Commentario Biblico, Queriniana, Brescia 1997. - S. BOCK, Breve storia del popolo d’Israele, EDB. - L.A. SCHOEKEL, La Parola ispirata. - A. J. SOGGIN, Introduzione al’AT, Paideia. - A. J. SOGGIN, Storia di Israele, Paideia - G. THEISSEN, Sociologia del Cristianesimo pimitivo. - R. DE VAUX, Le istituzioni dell’AT. - A. WIKENHAUSER – J. SCHMID, Introduzione al NT, Paideia. - Costituzione Conciliare Dei Verbum. - Collana LOGOS, Corso di studi biblici, ELLE DI CI, 8 volumi tutti editi. - ALESSANDRO SACCHI, I libri storici, Paoline - PAUL BEAUCHAMP, L’uno e l’altro testamento, Paideia 1985. 114 INDICE 1. INTRODUZIONE Pag 1 2. ALCUNE NOTE DI TEOLOGIA FONDAMENTALE 4 3. STRUTTURA DELLA BIBBIA 9 4. ANTICO TESTAMENTO 13 4.1 Libri Storici 13 4.1.1 I luoghi degli eventi 16 4.1.2 La storia degli eventi 17 4.1.3 L’esilio e i libri storici 19 4.1.4 Alcuni esempi 22 4.2 23 Libri Profetici 4.2.1 I libri Profetici secondo la versione CEI 24 4.3 31 5. Libri Sapienziali 39 NUOVO TESTAMENTO 5.1 Vangeli e Atti 39 5.2 Lettere di Paolo – Lettere Cattoliche - Apocalisse 47 6. CONCLUSIONI 52 7. BIBLIOGRAFIA 54 115
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