Lucia Bellaspiga Il deserto dei Tartari, un romanzo a lieto fine Una rilettura del capolavoro di Dino Buzzati A Ileana Gialdi Ferragni Racconta Buzzati che, ogni volta che muore una persona cara, nel nostro giardino personale cresce una gobba di terra. «Naturalmente mi domando anche se in qualche giardino sorgerà un giorno una gobba che mi riguarda, magari una gobbettina di secondo o terzo ordine, appena un’increspatura nel prato […]. Eppure una persona quella sera inciamperà nella gobbetta e inciamperà anche la notte successiva e ogni volta penserà, perdonate la mia speranza, con un filo di rimpianto penserà a un certo tipo che si chiamava Dino Buzzati». Insieme ci commuovevamo su queste parole. Oggi nel mio giardino siete uno accanto all’altra. E tu di sicuro batti ancora le mani per la contentezza. Introduzione Un libro da leggere due volte Ciò che abbellisce il deserto è che nasconde un pozzo in qualche luogo. Antoine de Saint-Exupéry L’ufficiale Giovanni Drogo, appena nominato sottotenente, viene comandato alla Fortezza Bastiani, un inaccessibile e remoto avamposto militare, dove una nutrita guarnigione ha il compito di sorvegliare la frontiera desertica che separa l’impero da una misteriosa popolazione: i Tartari. Trascorrerà alla Fortezza tutta la sua vita nella attesa vana di una minaccia che si concretizzerà proprio nel momento in cui, anziano, stanco e malato, dovrà abbandonare per sempre la guarnigione. Proprio quando i Tartari finalmente avranno attaccato l’impero. Wikipedia, la nota enciclopedia popolare on line, propone in questi termini la trama del film Il deserto dei Tartari, diretto per il grande schermo da Valerio Zurlini nel 1976, e noi qui la citiamo soltanto perché rappresenta bene l’opinione corrente, quel sentito dire che nel pensiero della gente fa del romanzo buzzatiano un’opera disperata, caratterizzata da un finale drammatico e tetro. Un finale – lo vedremo – ben diverso da quello originale concepito dallo scrittore. Eppure il bel film di Zurlini è una delle poche trasposizioni cinematografiche da sempre considerate opera di successo e lettura fedele del libro cui si ispira. C’è da chiedersi allora se sia stato il film a diffondere una distorta concezione del romanzo di Buzzati, o se invece il regista Zurlini abbia interpretato l’impressione generale che, a una lettura superficiale, condannava da sempre Il deserto alla nomea di libro senza speranza. Forse la verità è biunivoca. 7 Fatto sta che anche recentissime trasposizioni teatrali ripercorrono la stessa strada proponendo un finale negativo. Basta citare un lungo monologo intitolato Il deserto dei Tartari, portato sulle scene dall’attore Woody Neri secondo l’adattamento di Maura Pettorruso e la regia di Carmen Giordano per Trentospettacoli (http:// www.youtube.com/watch?v=8m79cNKMZPg): un’ora e dieci minuti di teatro suggestivo, fedele al testo di Buzzati, capace di ricreare atmosfere e scegliere le pagine irrinunciabili… fino a un’ora e nove minuti. Il tutto infatti prende una piega inaspettata proprio all’ultimo minuto, quando improvvisamente la trama teatrale supera un bivio invisibile e si allontana dallo spirito del romanzo: «Forse lei non sa, dottore, ma io sono venuto qui per uno sbaglio», pronuncia un Drogo sofferente, quasi farfugliante, riprendendo il tema iniziale del romanzo, quando decenni prima un Drogo ancora giovane e insipiente pensava di restare pochi mesi alla Fortezza Bastiani e poi finalmente tornarsene in città. L’opera teatrale in questione, dunque, si chiude con il tema dell’errore e su questo terribile inganno si spegne l’unica lampadina presente sulla scena, resta solo un buio ineluttabile e nero. Non a caso le recensioni dello spettacolo, di per sé positive proprio grazie alla suggestiva realizzazione, si lasciano però deviare dall’interpretazione dell’adattamento e attribuiscono a Buzzati una filosofia che invece non gli appartiene: «Lo stesso tenente cercherà di commisurarsi e illudersi dell’errore di esser lì: è l’ossessione portante di tutto lo spettacolo, e forse dell’omonimo romanzo del milanese Dino Buzzati, in cui nel “sono qui per uno sbaglio” congelerà ogni tentativo di luce da parte del tenente, compagno solo dello spegnere e accendere le lampadine della stanza/tomba», scrive nell’aprile del 2013 Mauro Racanati in «Pensieri di cartapesta», portale web di critica teatrale, quando la pièce va in scena al Teatro Argot di Roma. E ancora negli stessi giorni Maria Pia Monteduro in «Paneacquaculture.net», scrive che «alla fine, sconfitta crudele, forse stanno veramente arrivando dei nemici, ma ormai Drogo è morente, dimenticato da tutti i suoi stessi commilitoni, e non 8 può partecipare all’attacco: egli assapora così l’amaro gusto della sconfitta di una vita, della resa di fronte a un destino beffardo e spietato». Fine. La critica non nota alcuna discrepanza col testo buzzatiano, insomma, anzi, giudica la pièce «un’operazione teatrale ben riuscita», il che può essere (non stiamo discutendo di questo), ma perlomeno come «rielaborazione liberamente tratta da». Nemmeno le recensioni sui grandi quotidiani nazionali notano nulla, soffermandosi tutti a sottolineare soltanto l’ardua sfida di portare sulla scena un romanzo immobile e privo di trama come Il deserto dei Tartari e l’efficacia scabra ed essenziale del risultato. Persino uno scrittore cristiano che si definisce amante di Buzzati, come Vittorio Messori, descrive il romanzo come un «libro, in effetti, disperato». Lo sostiene sul quotidiano «Avvenire» il 31 gennaio del 2007, in un articolo intitolato infatti Il Deserto senza Dio. E prosegue: «La vita non ha significato, il solo modo di attraversarla è affidarsi, senza riflettere e senza porsi dei perché, a una regola astratta e inflessibile. Il tenente Drogo è un monaco, ma di una religione senza Dio, i regolamenti militari sono le regole del suo Ordine, la Fortezza è il suo monastero. Ma tutto questo non ha alcun significato, come sa bene il prima giovane, poi maturo, infine vecchio ufficiale». Messori, dunque, proprio come il pluripremiato film di Zurlini e la pièce di Pettorruso/Giordano, coglie perfettamente le atmosfere che attraversano il romanzo, ma si ferma prima di individuarne il significato ultimo, comprende il non-senso dell’attesa dei Tartari ma non la rivelazione finale, l’illuminazione che nell’ultima pagina fa sorridere Drogo e lo rende un vincente. Troncare il finale cui l’intero libro tende fin dalla prima riga significa tradirne l’obiettivo. A una lettura attenta e non aprioristica è infatti evidente che l’autore scrive il romanzo con un progetto preciso che lui ha chiaro fin dall’inizio e prende forma man mano, costruisce di capitolo in capitolo proprio quel finale che ci rivelerà solo in ultimo, direi in extremis, sorprendendo noi e insieme Drogo, in contemporanea. Il senso di centinaia di pagine (e di decenni di attesa nella Fortezza Bastiani) è tutto lì, nel sorriso vittorioso di 9 Drogo: censurato questo, crolla il romanzo e il motivo per cui fu scritto. Sarebbe come seguire tutto l’impianto dei Promessi sposi senza il trionfo del bene sul male, o percorrere la struttura rigorosissima della Divina Commedia senza il «riveder le stelle». Anche lo studioso di Buzzati più famoso in Francia, Yves Panafieu, proprio di recente ha riproposto una lettura del romanzo in chiave negativa, dovuta a un’interpretazione quanto meno discutibile dell’intera opera, vista addirittura come denuncia antifascista1. Insomma, poiché l’intento di Buzzati sarebbe stato quello di stigmatizzare il regime, rappresentato dalla Fortezza Bastiani, ne consegue che ogni cosa che avviene sui suoi spalti è di per sé negativa, violenta, fallimentare. E a Drogo – secondo questa lettura, direi per nulla buzzatiana –, divorato dall’entità Fortezza/ Fascismo, non resta che il fallimento. Secondo Panafieu, infatti, Il deserto dei Tartari, «sotto il camuffamento della a-temporalità e della spazialità irriconoscibile, ci ha intelligentemente restituito la dinamica e il significato letale che il militarismo fascista si portava dentro». E per questo Drogo non ha altra prospettiva se non una morte «che, tutto sommato, è un fallimento». Lo stesso Panafieu ammette però che, stranamente, nella lunga intervista che fece a Buzzati nel 1971 (poi sbobinata e divenuta un libro fondamentale pubblicato nel 1973 da Mondadori, Dino Buzzati: un autoritratto) non riuscì «a ottenere da Buzzati questo genere di confidenza», nonostante si fosse raccontato a 360 gradi, in ogni più intima piega e con sincerità persino cruda… Ancora più di recente il critico e giornalista Piero Dorfles, nel saggio pubblicato da Garzanti I cento libri che rendono più ricca la nostra vita – una accattivante rassegna dei romanzi della letteratura mondiale «che sono entrati a far parte dell’immaginario letterario collettivo» e «permettono di stabilire un contatto con Vedi, anche per le citazioni successive, Yves Panafieu, La letteratura come riflesso della storia nazionale: Nievo e Buzzati, in «P.R.I.S.M.I - Revue d’études italiennes», n. 12, a cura di Cristina Vignali, Éditions Chemins de Tr@averse, 2014. 1 10 gli altri lettori perché rappresentano un patrimonio comune ineludibile» – annovera tra questi Il deserto dei Tartari, del quale sottolinea: «Come spesso accade per i grandi libri, l’intreccio non rende la complessità del romanzo, che consiste piuttosto nel clima di sospensione, di attesa». Il Deserto, insomma, è «un romanzo di formazione, che presenta il percorso del protagonista», nota giustamente Dorfles. Solo che nel percorso di Drogo si avventura senza arrivare fino in fondo e anche per lui la storia sfocerà nella «amarezza dei suoi ultimi istanti»: «Quando finalmente all’orizzonte si profila l’armata dei nemici, con cannoni e carriaggi, per Drogo è troppo tardi. Vecchio, stanco, malato, non è più in grado di combattere. Viene allontanato, non vedrà mai i tartari che attraversano il deserto per assaltare la Fortezza, e morirà solo e abbandonato in una misera locanda, sulla strada del ritorno». Così Dorfles descrive il finale. Quella di Drogo sarebbe quindi la storia di un fallimento senza appello, «l’inutile e velleitaria attesa di un evento esterno, che […] dia significato a un’esistenza che è vuota perché noi, da soli, non siamo riusciti a riempirla; col rischio che, se e quando l’evento si debba verificare veramente, sia troppo tardi». Beninteso, esistono anche critiche de Il deserto dei Tartari approfondite e lucide (la stessa Wikipedia sottolinea il fatto che nel film Drogo muore «disperato e pieno di rimpianti», mentre nel libro è «riappacificato con la sua storia, della quale ha finalmente trovato un senso anche ultraterreno»), ma la vulgata resta tuttora quella del romanzo pessimista e, come abbiamo visto, in questa rientrano anche noti scrittori. Ecco perché proponiamo questa rilettura passo passo, accompagnati dallo stesso Buzzati, parlando poco noi e citando sempre lui, in modo da chiudere una volta per tutte la querelle e dimostrare che Drogo non è un perdente ma un vincente, secondo una scaletta limpida nella testa di Buzzati dalla prima riga: la rivelazione che divampa solo nell’ultima pagina balena qua e là lungo tutto il romanzo, senza mai mostrarsi del tutto ma facendosi presagire. Per questo, Il deserto è un libro da leggere due volte: la prima per non 11 capire nulla fino all’epilogo e lasciarsi sorprendere (l’effetto che Buzzati ricercava), la seconda per ricucire le trame e riconoscere a ritroso le tante premonizioni. La vicenda è circolare e alla fine tutto torna. In queste pagine cercheremo di rivelare la ferrea impalcatura – fatta di rimandi, simmetrie, volute ripetizioni – con cui Buzzati costruisce un impianto in cui nulla è lasciato al caso, nemmeno la cadenza dei sorrisi, calcolati, inseriti laddove servono e a uno scopo ogni volta diverso. Percorreremo i passaggi fondamentali, e soprattutto sottolineeremo le frequenti analogie con tanti racconti scritti lungo tutta la sua vita, per dimostrare che il messaggio eroico de Il deserto trova corrispondenza e conferma in tanto altro Buzzati, con coerenza, anche a decenni di distanza. 12
© Copyright 2024 Paperzz