Relazione Messina - Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria

STABILE ORGANIZZAZIONE E PREZZI DI TRASFERIMENTO
Sebastiano Maurizio Messina
Professore Ordinario di Diritto tributario
Università di Verona
Premessa
I temi della stabile organizzazione e del transfer pricing che mi sono stati assegnati
risultano di straordinaria attualità ed importanza nell’ambito della fiscalità nazionale
e internazionale, come dimostrano non solo i recenti casi di colossi multinazionali
praticamente senza residenza ma anche il crescente numero di sentenze emesse dai
Giudici di legittimità e di merito su questioni ad essi inerenti e i recenti interventi
dell’OCSE e del G20 volti (fra l’altro) ad individuare “soluzioni” anche normative
per contrastare tutti quei comportamenti “elusivi” o “fraudolenti” finalizzati a
separare artificiosamente gli utili dalle attività che li generano.
A riguardo nel “Rapporto BEPS” del 20131 l’OCSE - sulla base dei risultati di
un’analisi compiuta negli ultimi anni sulle tecniche di pianificazione fiscale
aggressiva sviluppate da alcuni gruppi multinazionali - ha constatato ad es. che in
molti dei suoi Paesi membri le imprese tendono a sostituire gli accordi di
“distribuzione” stipulati con le filiali locali con dei meri contratti di agenzia o di
commissione, in modo da spostare di fatto gli utili al di fuori del Paese nel quale
hanno luogo le vendite a parità di funzioni svolte dal venditore, e ha ravvisato una
causa di detto fenomeno proprio nell’attuale interpretazione delle norme
convenzionali relative alla nozione di stabile organizzazione personale2.
OCSE, Addressing Base Erosion and Profit Shifting (BEPS), pubblicato il 12 febbraio 2013,
consultabile sul sito dell’OCSE (http://www.oecd.org/ctp/beps-reports.htm). Per i primi
commenti in dottrina cfr. J. Owens, The Taxation of Multinational Enterprises: an Elusive Balance, in
Bulletin for International Taxation, 2013, 8, p. 441; Y. Brauner, BEPS: An Interim Evaluation, in World
Tax Journal, 2014, 2, p.10; A. De Graaf, P. De Haan, M. De Wilde, Fundamental Change in Countries’
Corporate Tax Framework Needed to Properly Address BEPS, in Intertax, 2014, 5, pag. 306.
2 Segnatamente secondo l’OCSE a causa dell’attuale interpretazione delle norme convenzionali
relative alla nozione di stabile organizzazione personale, le vendite di beni appartenenti ad
un’impresa estera possono essere effettuate in un altro Paese utilizzando il personale di una filiale
locale della predetta impresa estera, senza però che gli utili generati da tali vendite risultino
imponibili in tale Paese allo stesso modo di come lo sarebbero stati quelli generati da vendite
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Segnatamente per quanto qui rileva nell’ambito del “Piano di azione”3 presentato nel
luglio del 2013 per dare attuazione al suddetto “Rapporto BEPS”, cui ha fatto
seguito la pubblicazione ad agosto e settembre del 2014 del “Report to G20
Development Working Group on the impact of BEPS in Low Income Countries” e del “2014
Deliverables”, l’OCSE ha inserito sia un’ “azione”, la n. 7 “Prevent the artificial avoidance
of PE status”, dedicata all’introduzione di misure volte ad evitare in modo artificiale
la qualifica di stabile organizzazione, ossia a contrastare il fenomeno delle stabili
organizzazioni occulte4 sia delle azioni, le nn. 8, 9 e 10 “Assure that transfer pricing
outcomes are in line whit value creation”, nelle quali si individuano delle misure finalizzate
a contrastare la movimentazione dei beni intangibili all’interno delle imprese del
gruppo, tramite il trasferimento del rischio o l’allocazione eccessiva di capitale a
società appartenenti al gruppo o tramite transazioni nelle quali delle imprese
indipendenti non si impegnerebbero o si impegnerebbero raramente.
Stabile organizzazione e prezzi di trasferimento costituiscono, dunque, ad oggi due
istituti di notevole rilevanza sotto il profilo internazionale, in quanto mirano a
salvaguardare le pretese tributarie dei singoli Stati a fronte di strategie di
pianificazione fiscale aggressiva adottate da gruppi multinazionali.
Tali istituti - sebbene simili sotto il profilo funzionale - sono concettualmente
distinti; di tal che nel prosieguo della relazione si evidenzieranno le peculiarità di
ciascuno.
Esemplificando si può affermare che l’analisi volta a verificare la presenza di una
stabile organizzazione consiste anzitutto in un’indagine di tipo qualitativo, finalizzata
a definire se esista un criterio di collegamento che faccia diventare fiscalmente
rilevante in un Paese l’attività (d’impresa) ivi svolta da un’impresa estera; se tale
indagine ha esito positivo (nel senso che viene individuato un criterio di
collegamento) l’analisi mira a determinare il quantum ossia la quota di reddito
imputabile a tale entità.
comparabili effettuate da un distributore autorizzato.
3 OCSE, Action Plan on Base Erosion and Profit Shifting, pubblicato il 19 luglio 2013.
4 Inoltre un gruppo di lavoro del Comitato affari fiscali dell’OCSE (Focus Group on Artificial Avoidance
of PE Status) sta aggiornando la definizione di stabile organizzazione contenuta nel Modello di
convenzione fiscale, in modo da impedire tali abusi.
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Per quanto concerne il transfer pricing l’analisi di congruità della politica dei prezzi di
trasferimento è invece meramente quantitativa, in quanto mira a verificare se i
corrispettivi relativi a transazioni infragruppo risultano in linea con le normali
condizioni di mercato esistenti tra operatori indipendenti in condizioni similari.
Ciò premesso e in attesa delle modifiche al Modello di convenzione, si tenta di fare
il punto sull’applicazione e sull’interpretazione dei due istituti e delle relative
discipline nella giurisprudenza interna.
1. La nozione di stabile organizzazione
Cominciando dalla stabile organizzazione (d’ora in poi S.O.), appare opportuno
ricordare brevemente che nell’ambito delle imposte dirette la stabile organizzazione
può essere:
- materiale, quando opera attraverso una sede fissa di affari, ovvero uffici,
attrezzature e altri mezzi impiegati per l’attività di impresa in modo permanente; essa
implica cioè la presenza fisica in uno Stato contraente dei mezzi organizzati
dell’imprenditore residente nell’altro Stato contraente5.
- personale, allorché si sia in presenza di specifici soggetti che svolgono l’attività
economica per conto dell’imprenditore non residente in grado di vincolare il
soggetto straniero6.
Stabile organizzazione materiale e personale possono coesistere, nel senso che la
presenza di una (di per sé sufficiente a far scattare l’imposizione nel Paese ospitante)
non esclude l’altra.
Ciò premesso ai fini delle imposte dirette il quadro normativo di riferimento è
costituito dall’art. 5 del Modello di Convenzione OCSE e, ove più favorevole,
Art. 5, par. 1-4, Modello OCSE. Secondo la Cassazione la stabile organizzazione materiale è
“contraddistinta dall’esistenza di una struttura fissa, dotata di beni materiali e di personale, mediante
la quale l’impresa estera svolge la propria attività economica nel territorio dello Stato” (Cassazione,
sentenza n. 1118 del 17 gennaio 2013).
6 Art. 5, par. 5-6, Modello OCSE. Secondo la Suprema Corte essa è “caratterizzata dalla presenza di
un’attività negoziale a favore dell’impresa estera, non sporadica od occasionale, posta in essere con
carattere di abitualità da intermediari qualificati, aventi il potere di vincolare l’impresa estera, i quali
concludano in nome e per conto di tale impresa, contratti diversi da quelli di acquisto di beni”
(Cass., sentenza n. 1183/2011, cit.).
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dall’art. 162 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (d’ora in avanti T.u.i.r.)7, introdotto
in occasione della riforma tributaria del 2003, il quale detta la nozione/definizione
“interna” di stabile organizzazione, modulata sul base di quella contenuta nel citato
art. 58.
Detta disposizione definisce stabile organizzazione qualsiasi «sede fissa d’affari per
mezzo della quale l’impresa esercita in tutto o in parte la sua attività».
Quattro sono gli elementi che connotano il concetto di s.o.:
a) l’esistenza di una installazione di affari (ad es. un ufficio);
b) la stabilità (geografica e temporale) di tale installazione;
c) la riconducibilità all’ordinario esercizio dell’impresa;
d) la sua idoneità a generare reddito.
Quanto al primo elemento si precisa che esso è ravvisabile in presenza nono solo di
una stabile organizzazione materiale ma anche di quella personale.
La stabilità dell’installazione deve essere intesa sia sotto il profilo temporale (i.e.
nel senso che l’attività d’impresa deve essere esercitata per un apprezzabile lasso di
tempo di almeno 12 mesi) sia sotto quello geografico (i.e. nel senso che deve
sussistere un collegamento fra la stabile organizzazione d’impresa e il territorio dello
Stato contraente in cui l’imprenditore non ha la propria residenza) 9.
Per quanto concerne la riconducibilità della s.o. all’ordinario esercizio dell’impresa si
ritiene comunemente che l’installazione debba essere destinata ad «un’attività
rientrante nel quadro normale degli affari realizzati dall’imprenditore estero e, purché tale attività
sia in relazione di servizio rispetto agli obiettivi globali dell’impresa» 10.
Ai sensi dell’art. 169 T.u.i.r. la disciplina interna prevale su quella del Modello e/o sugli accordi
internazionali contro la doppia imposizione, se più favorevole per il contribuente
8 La definizione elaborata dall’OCSE ha infatti condotto ad una sostanziale armonizzazione del
concetto di stabile organizzazione. Quanto all’IVA – come meglio si vedrà - fino all’adozione del
Regolamento n. 282/2011 non esisteva una definizione positivizzata di stabile organizzazione,
sebbene già nella VI Direttiva si facesse riferimento al “centro di attività stabile” .
9 La giurisprudenza internazionale ha avuto modo di chiarire che per essere “stabile” l’installazione
non deve essere necessariamente radicata al suolo; muovendo da tale assunto, ad esempio, la
Suprema Corte dei Paesi Bassi ha qualificato come stabile organizzazione uno yacht sul quale si
svolgevano continuativamente attività produttive di reddito riconducibili all’imprenditore non
residente, cosi Hoge Raad, 13 ottobre 1954, n. 11908 (BNB 1954/336).
10 In questi termini, cfr. LOVISOLO, La stabile organizzazione, in UCKMAR V. (coordinato da), Diritto
tributario internazionale, Padova, 2005, p. 443.
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È, infine, necessario che l’installazione risulti idonea a contribuire alla produzione
del reddito; con la conseguenza che non possono dar luogo a una s.o. tutte quelle
attività di carattere meramente ausiliario e preparatorio e, in quanto tali, insuscettibili
di produrre reddito.
In sostanza, pertanto, attraverso l’assetto organizzativo istituito sul territorio
straniero il soggetto non residente deve svolgere la propria attività, o perlomeno
porre in essere un segmento rilevante e significativo di tale attività 11. In tal senso si è
sostenuto che l’organizzazione deve essere strumentale ad una attività svolta
abitualmente nel territorio straniero da un soggetto non residente12.
Perché possa individuarsi una s.o. occorre quindi verificare la sussistenza, da una
parte, di una certa autonomia dell’organizzazione, riscontrabile nella sua capacità di
regolare l’attività di impresa sul territorio13; dall’altra, di una situazione comunque di
dipendenza. Altrimenti detto le decisioni devono essere riconducibili al soggetto non
residente (i.e. riferibili essenzialmente ai vertici manageriali e direttivi del soggetto
collettivo) ed essere attuate nel territorio attraverso la catena operativa e la
distribuzione delle funzioni proprie della “organizzazione di attività” istituita nel
territorio straniero.
Il paragrafo 2 dell’art. 5 cit. contiene poi un elenco non tassativo di elementi idonei a
far presumere una stabile organizzazione materiale: sede di direzione, succursale,
ufficio, laboratorio, miniere e giacimenti, cave e zone di estrazioni di gas e petrolio.
La presenza di questi elementi tuttavia da sola non è sufficiente a far affermare
automaticamente che si sia in presenza di una stabile organizzazione. Invero,
secondo il commentario al Modello OCSE tale elenco contiene delle presunzioni
Nel Commentario OCSE, art. 5 par. 24, è chiarito che l’attività realizzata sul territorio straniero
per il tramite della stabile organizzazione deve rappresentare “una parte essenziale e significativa”
dell’attività di impresa considerata unitariamente; evidentemente tale precisazione vale ad escludere
che possano ricondursi alla “organizzazione di attività” gli atti preparatori o ausiliari, in quanto privi
dell’elemento di significatività e rilevanza rispetto all’attività di impresa svolta sul territorio straniero.
12 Cfr. Cass. 27.11.1987 n. 8815 e n. 8820; Cass. 7.3.2002 n. 3367 e n. 3368; Cass. 25.5.2002 n. 7682;
Cass. 25.7.2002 n. 10925
13 Nella prassi dell’Amministrazione finanziaria è reiteratamente evidenziato il requisito della
“autonomia funzionale” della stabile organizzazione rispetto alla casa-madre, al fine di sottolineare
l’attribuzione di funzioni specifiche e autonome alla organizzazione dell’attività realizzata nel
territorio straniero. In tal senso v. Circ. Min. 17.3.1979 n. 12/12/345; Ris. Min. 1.2.1983 n. 9/2389.
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semplici e non relative; sicché non c’è alcuna inversione dell’onere della prova a
carico dell’impresa estera14.
Quanto alla stabile organizzazione personale, il Modello OCSE distingue l’ipotesi
dell’«agente dipendente» – inteso quale soggetto che opera in nome e per conto
dell’impresa non residente con il potere di concludere contratti (diversi da quelli di
acquisto) in maniera continuativa ed abituale (art. 5, par. 5) – da quella dell’«agente
indipendente» ossia di un soggetto che opera in nome proprio nell’ambito della propria
ordinaria attività ma per conto dell’impresa non residente con il potere di
concludere contratti vincolanti per quest’ultima (art. 5, par. 6).
Con la conseguenza che solo in presenza di un “agente dipendente” si può ravvisare
secondo il Modello l’esistenza di una stabile organizzazione personale.
La nozione desumibile dal modello di convenzione OCSE in quanto relativa
all’imposizione diretta non è pertinente15 e non è applicabile in materia di Iva.
In tale ambito fino all’adozione del Regolamento n. 282/2011 non esisteva una
definizione positivizzata di stabile organizzazione, sebbene già nella VI direttiva si
facesse riferimento al “centro di attività stabile”. A tale carenza ha supplito la
giurisprudenza della CGE la quale – al fine di risolvere le problematiche sorte
soprattutto sulla territorialità delle prestazioni di servizi nonché sulla spettanza del
diritto al rimborso e sulla imponibilità delle operazioni fra casa madre e stabile – ha
elaborato nel corso degli anni una compiuta nozione di s.o. nell’Iva, affermando che
“affinché un centro d’attività possa essere utilmente preso in considerazione, in
deroga al criterio preferenziale della sede, come luogo delle prestazioni di servizi di
un soggetto passivo, è necessario che esso presenti un grado sufficiente di
permanenza e una struttura idonea, sul piano del corredo umano e tecnico, a
rendere possibili in modo autonomo le prestazioni di servizi considerate”16. La
nozione di s.o. elaborata dalla CGE è ora positivizzata nell’art. 11 del Regolamento
Sul punto anche lo stato italiano si è adeguato.
Corte di Giustizia, sentenza FCE Bank, causa C- 210/04. In particolare secondo la Corte
“l’utilizzazione dei Modelli indicati nel catalogo contenuto nell’art. 5 della Convenzione-tipo
dell’Ocse nella materia dell’Iva non può avvenire sic et simpliciter” in quanto le due “categorie”
perseguono finalità differenti.
16 Corte di Giustizia, sentenza Berkholz, causa C-168/84.
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n. 282/2011, il quale ai paragrafi 1 e 2 – rispettivamente ai fini di individuare il luogo
in cui si intendono effettuate le prestazioni rese e effettuate (artt. 44 e 45 della
Direttiva)17 - definisce la s.o. come “qualsiasi organizzazione, diversa dalla sede
dell’attività economica di cui all’art. 10 del presente regolamento, caratterizzata da
un grado sufficiente di permanenza e una struttura idonea in termini di mezzi
umani e tecnici atti a consentirle:
-
“di ricevere e di utilizzare i servizi che le sono forniti per le esigenze proprie
di detta organizzazione”
-
o “di fornire i servizi di cui assicura la prestazione”.
È così confermato che la presenza di una struttura idonea (a ricevere e utilizzare i
servizi o a fornirli) e la permanenza nel tempo di detta struttura (sotto il profilo
temporale) sono i due elementi costitutivi della s.o. Iva.
Da quanto sin qui esposto è evidente che – ferma restando la diversità delle nozioni
- tanto in materia di imposte dirette quanto in ambito IVA l’individuazione di una
stabile organizzazione è anzitutto una questione di fatto18 legata all’atteggiarsi dei
modelli di business dei gruppi; di talché la verifica della sua esistenza necessita di
un’indagine caso per caso.
Invero sia l’art. 5 del Commentario sia l’art. 162 del Tuir descrivono le circostanze di
fatto in presenza delle quali essa si individua o, se si preferisce, indicano gli elementi
costitutivi della fattispecie. In altri termini dette disposizioni determinano i fatti che
debbono essere provati perché si verifichino gli effetti giuridici ivi previsti.
In ambito IVA, poi, il giudizio sulla “idoneità” della struttura è un giudizio sul fatto,
essendo rimesso all’interprete /giudice il compito di operare una valutazione caso
per caso in ragione dell’attività concretamente svolta dalla società non residente nel
territorio dello Stato. Non esistendo un livello minimo predefinito di consistenza
della struttura al di sotto del quale possa ritersi automaticamente non configurabile
una s.o., potrebbe ritenersi “idonea” a configurare una s.o. anche una struttura
La definizione del par 2 è funzionale anche all’individuazione dei debitori di imposta (192bis)
In tal senso cfr. AMATUCCI, F., Principi e nozioni di diritto tributario, 2a ed., Torino, 2011, p. 129, nt.
24, secondo l’A. «non esiste uno schema standard di stabile organizzazione. Per individuarla, infatti, é necessario
valutare la realtà imprenditoriale del soggetto non residente che si avvale di risorse materiali e personali in Italia».
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caratterizzata da un apporto assai esiguo del mezzo umano o tecnico ma in ogni
caso sufficiente in relazione al tipo di attività svolta dal non residente a consentire
alla s.o. di prestare i relativi servizi (fornire i servizi di cui assicura la prestazione).
Basti pensare alle attività volte alla prestazione di servizi ad elevato
contenuto/apporto personale (creazioni di siti web di software rese da imprese).
1.1 La c.d. “stabile occulta” con particolare riferimento alla stabile
organizzazione personale
Trattandosi di una questione di fatto, in numerosi casi la sussistenza di una s.o. è
dubbia.
Ciò accade frequentemente nelle ipotesi di cd. stabile organizzazione occulta,
termine di creazione puramente giurisprudenziale con il quale ci si riferisce a
situazioni in cui l’Amministrazione ritiene sussistente una stabile organizzazione
(materiale o personale) in presenza di installazioni occultate o dissimulate dal
contribuente.
Così ad es. si sono ravvisate stabili organizzazioni occulte in fattispecie caratterizzate
dalla presenza di un soggetto estero, il quale:
-
opera in Italia senza aver nessuna presenza formale e limitandosi ad inviare
nel nostro Paese personale dipendente;
-
possiede un ufficio di rappresentanza particolarmente strutturato;
-
ha in Italia una società controllata ed esercita linee di business annidate in
quest’ultima e «dirette» dal soggetto non residente, le quali sono appunto
ritenute s.o. del non residente19.
Una delle situazioni più controverse è quella dell’individuazione di una stabile
personale, la quale - come detto - esiste a condizione che l’attività sia svolta
attraverso il ricorso ad agenti o intermediari dipendenti dalla casa madre. Si ricorda
che ai sensi dell’art. 5 del Commentario al Modello nonché dei commi 6 e 7 dell’art.
162 del T.u.i.r., perché ci sia una stabile personale occorre che un soggetto concluda
Tale ultima ipotesi, la quale è peraltro quella più diffusa, si basa sulla contestazione dell’esistenza,
all’interno di una società italiana autonoma, che non è certo una stabile organizzazione, di strutture
e persone “occulte” nel senso di “non dichiarate come stabile organizzazione”.
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abitualmente contratti (diversi da quelli di acquisto) in Italia in nome dell’impresa
estera; mentre non c’è stabile organizzazione se l’impresa estera esercita attività
mediante un commissionario o altro intermediario indipendente.
Il thema probandum è, dunque, costituito dalla dipendenza o indipendenza
dell’intermediario che agisce nell’altro Stato contraente.
Tale indagine - da condurre caso per caso - deve essere effettuata alla luce del
consolidato principio giurisprudenziale secondo cui l’accertamento dei requisiti della
stabile organizzazione va effettuato con riguardo non tanto ai profili formali bensì
soprattutto in relazione ai dati sostanziali espressi dall’assetto organizzativo presente
nel territorio20.
Ora, volendo scomporre la fattispecie, per affermare la sussistenza di una stabile
organizzazione personale dovrà verificarsi e provarsi che:
– vi sia un soggetto, residente o non residente, che conclude contratti nel territorio
dello Stato in nome dell’impresa;
– tale attività sia esercitata abitualmente da tale soggetto;
– i contratti conclusi siano diversi dal mero acquisto di beni;
– tale soggetto non sia un mediatore, un commissionario generale od un altro
intermediario che goda di uno status indipendente che agisce nel contesto della sua
ordinaria attività.
È quindi necessario anzitutto che l’Agenzia, su cui incombe l’onere di provare i fatti
costitutivi, dia la prova della circostanza che l’agente concluda contratti “in nome
dell’impresa” estera.
In proposito occorre da subito precisare che per i nostri Giudici di legittimità questa
espressione va intesa nel senso che si deve «acclarare se l’agente operante in Italia abbia
concluso contratti che vincolano l’impresa estera, indipendentemente dal fatto che quei contratti siano
In tal senso v. ex multis Cass. 25.7.2002 n. 10925; Id. 6.4.2004, n. 6799; Id. 7.10.2011, n. 20597; Id.
n. 1118/2013. In specie secondo la Corte “Ai fini del riscontro, da parte del giudice di merito,
dell’esistenza di un’organizzazione stabile in territorio nazionale, sia essa di tipo "materiale" o
"personale", è necessario - in altri termini - che le situazioni di fatto portate, in concreto, a
conoscenza dell’Ufficio, e valutate - come elementi a carattere presuntivo ed indiziario - nella loro
globalità, denotino il fine dei soggetti operanti in territorio italiano di esercitare - in modo non
sporadico o occasionale - un’attività economica, che può consistere anche nella sola conclusione di
contratti in nome e nell’interesse di una società non residente” (così Cass. n. 1118/2013 che sul
punto rinvia a Cass. n. 7682/02, n. 10925/02, n. 20597/11).
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stati effettivamente conclusi “a nome dell’impresa»
21
e che questo elemento «ben possa
desumersi - in fatto - anche alla stregua di elementi a carattere indiziario e
presuntivo, purché siffatti elementi rivelatori dell’esistenza di una stabile organizzazione
vengano, in concreto, “considerati globalmente e nella loro reciproca connessione” (Cass.
10925/02, in motivazione)»22.
In ordine agli elementi indiziari un aspetto connesso e allo stesso tempo
controverso è quello della rilevanza da attribuire alla partecipazione alle trattative.
Il paragrafo 33 del Commentario, come modificato nel corso 2004, sul punto ora
precisa che la partecipazione alla fase delle trattative da parte di agenti non muniti di
poteri di rappresentanza non è elemento sufficiente a costituire una stabile
organizzazione personale.
Il Governo italiano, tuttavia, intervenendo in sede di revisione del Commentario, ha
affermato che nell’interpretazione del Modello OCSE l’Italia non può disattendere
quella data dai propri giudici nazionali, i quali - muovendo dalla precedente
formulazione del Commentario ed in specie dal rilievo che “Tale potere (quello di
concludere contratti in nome dell’impresa n.d.r.), secondo il Commentario (sub art. 5, par.
5, punto 33), non deve essere inteso nel senso di una rappresentanza diretta, ma comprende anche
tutte quelle attività che abbiano contribuito alla conclusione di contratti, anche se gli stessi siano
stati conclusi in nome dell’impresa. …”23 – hanno ritenuto la partecipazione alle trattative,
sotto le direttive della società estera, elemento idoneo ad integrare la fattispecie della
V. Cass. civ. sez. V, sent., 9 aprile 2012, n. 3769, Boston Scientific International B.V.
Cfr. Cass. n. 1118/2013, Smi San Marino Investimenti Sa. Muovendo da tale assunto la Corte ritiene
nel caso la sentenza di appello affetta da vizio motivazionale, in quanto il Giudice del gravame - pur
avendo “avuto cura di indicare analiticamente siffatti elementi … omissis … individuandoli, quanto
meno, nei seguenti: a) svolgimento di un’attività contrattuale di rilievo economico significativo in Italia, ad opera della
[società estera]; b) spendita del domicilio fiscale in Italia, da parte di detta società; c) perdurante residenza e
domicilio in [Italia] del legale rappresentante e del procuratore ad acta della [società estera]; d) titolarità, in capo
alla contribuente, di conti bancari e di dossier titoli in aziende di credito italiane; e) transito su detti conti di poste
economicamente rilevantissime, connesse all’attività della società estera ….” - ha omesso “una attenta
valutazione unitaria e globale” “operando un acritico richiamo, sul punto, alla decisione di prime
cure”.
23 Cfr. Cass. sez. V, sent. 25 luglio 2002 n. 10925. In essa la Corte - al fine di corroborare la
rilevanza dell’elemento sostanziale - rinvia ad “Autorevole dottrina internazionale” la quale “non ha
mancato di sottolineare che l’espediente di separare la materiale attività di conclusione di contratti da quella di formale
stipulazione degli stessi ("split-up of business responsibilities on the hand and legal authority on the
other") può essere considerata come elusione fiscale (tax circumvention) dovendosi ritenere prevalente, per
l’applicazione del paragrafo 5, la sostanza sulla forma.
21
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10
stabile organizzazione personale24.
In esito a tale intervento del Governo non c’è univocità nella giurisprudenza di
legittimità e di merito sulla rilevanza della partecipazione alle trattative ai fini
dell’individuazione di una s.o.
Invero, secondo un orientamento della Suprema Corte penale la partecipazione alle
trattative è e rimane un elemento indiziario sufficiente a configurare l’esistenza di
una S.O. personale, giacché “nessuna rilevanza può infatti essere riconosciuta alla recente
modifica dell’art. 5 del commentario Ocse, in virtù della quale la sola partecipazione a trattative
contrattuali nell’interesse della società straniera non è sufficiente per individuare nella struttura
sussidiaria una stabile organizzazione, in quanto, a parte il valore non normativo del commentario,
tale modifica ha costituito oggetto di riserva espressa da parte del Governo italiano, secondo la quale
nell’interpretazione del modello di convenzione l’Italia non può disattendere quella data dai propri
giudici nazionali” (Cass. civ. sez. 5 n. 17206 del 28.7.2006 (rv. 592321) conf. n. 7689 del
2002 Rv. 554720 e più di recente sez. 5 n. 3889 del 15.2.2008)” 25.
Posizione simile è stata assunta anche da taluna giurisprudenza della Sezione V,
secondo la quale “non hanno alcun rilievo le modifiche al paragrafo 33 del Commentario,
introdotte nel 2004, … omissis…. Infatti, anche a prescindere dall’osservazione inserita dal
Governo italiano (par. 45.10 del Commentario), secondo cui, nell’interpretazione del Modello di
Convenzione, l’Italia non può disattendere quella data dai propri giudici nazionali, pare opportuno
rilevare che, comunque, anche nell’ottica della modificazione, resta ferma la nozione di “stabile
organizzazione personale” in senso formale prevista dal modello Ocse, nell’interpretazione della
giurisprudenza di questa Suprema Corte” 26.
In tal senso Cass., n. 10925/2002, secondo la quale “In altre parole, l’accertamento del potere di
concludere contratti deve essere riferito alla reale situazione economica, e non alla legge civile, e lo stesso può riguardare
anche singole fasi, come le trattative, e non necessariamente comprendere anche il potere di negoziare i termini del
contratto”.
25 V. Cass. pen., sez. III, sent. 28 luglio 2010, n. 29724.
26 V. Cass. sez. V, n. 8488/2010, cit. Nel caso la questione riguardava i poteri di rappresentanza
e il ruolo nelle trattative di un agente non indipendente (libero professionista), il quale – pur non
essendo dotato di poteri di rappresentanza - doveva uniformarsi agli ordini e alle direttive di detta
società estera. Secondo la difesa detto professionista non poteva costituire una stabile
organizzazione, poiché la mera partecipazione alla fase delle trattative, senza formali poteri di
rappresentanza, non era idonea a costituire, appunto, una stabile organizzazione. I giudici di
legittimità, accogliendo l’approccio sostanzialistico adottato anche dal commentario del modello
OCSE, hanno affermato che al fine della configurabilità di un “agente dipendente” - laddove
l’agente compia atti essenziali nella conclusione di contratti di fatto vincolanti per l’impresa - i
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11
Diversa sembra essere la posizione assunta da taluna giurisprudenza di merito, la
quale – dopo precisato che il Commentario Ocse è una “fonte interpretativa che non può
non essere riconosciuta come di primaria rilevanza anche nel nostro Paese, che peraltro siede in tale
organizzazione” - afferma che “Posto che questa Commissione condivide i principi enucleati in
sede Ocse, si che non si ritiene sufficiente la partecipazione ad una trattativa perché si possa parlare
della presenza di una stabile organizzazione personale (occorre che la partecipazione abbia una
ruolo decisivo per la conclusione dell’affare e tale circostanza va provata dall’amministrazione
finanziaria), nel caso di specie, sulla base dell’analisi dei rapporti contrattuali, anche tale
partecipazione pare essere del tutto eventuale e non determinante. [...] In definitiva nelle attività
indicate nel contratto non è in alcun modo ravvisabile il potere di concludere contratti, elemento
cruciale per l’individuazione di una stabile organizzazione e la sola, eventuale, partecipazione agli
incontri è, al contrario, un fattore che evidenzia al più il carattere ausiliario del servizio reso” 27.
In realtà a ben vedere la Commissione non si discosta in concreto dal precedente
orientamento di legittimità. Essa invero – pur affermando di condividere i principi
enucleati in sede OCSE - dà un’interpretazione del Commentario sostanzialmente
conforme alla suddetta giurisprudenza di legittimità, ravvisando l’elemento della
partecipazione alle trattative di cui al par. 33 in un’attività di mera partecipazione agli
incontri priva di rilievo al fine della conclusione dei contratti.
In sostanza occorre guardare alle situazioni concrete, giacché vi possono essere
molteplici modi di partecipare alle trattative che un’impresa estera sta conducendo
con un cliente residente; con la conseguenza che, allorché la partecipazione sia
scarsamente significativa e comunque non sia determinante per la conclusione
dell’affare, è ragionevole escludere anche alla luce dei canoni interpretativi seguiti
dalla giurisprudenza italiana la configurabilità di una S.O. personale 28.
Per il configurarsi di una s.o. personale occorre che l’Agenzia dimostri la non
indipendenza dell’agente e/o del commissionario29.
poteri di rappresentanza devono essere alternativi all’ipotesi di effettiva partecipazione dell’agente
alle trattative. Pertanto, per la Corte anche la partecipazione alle trattative, sotto le direttive della
società estera, è elemento idoneo ad integrare la fattispecie della stabile organizzazione personale.
27 V. Commiss. Trib. Reg. Lombardia, sez. XXVIII, sent., 31 marzo 2011, n. 37.
28 Sul tema v. anche Cass. civ., sez. V, sent. 7 ottobre 2011, n. 20597, CEPU.
29 Sul tema v. Tundo, Stabile organizzazione personale e determinazione del reddito secondo le recenti direttive
OCSE, in Rassegna Tributaria, 2011, 2, pag. 305.
12
Tale elemento id est l’esistenza di un vincolo tra agente e preponente va inteso e
deve essere verificato sotto il profilo sia giuridico sia economico.
In particolare l’indipendenza giuridica deve essere valutata in ragione dei poteri che
l’agente può esercitare ed in relazione alle obbligazioni che egli può assumere nei
confronti dell’impresa.
Sotto il profilo economico occorre individuare il soggetto sul quale grava il rischio di
impresa, in quanto si ritiene non esista indipendenza economica laddove tale rischio
ricada sull’impresa preponente.
Ulteriore elemento che occorre valutare al fine di definire l’agente quale dipendente
o meno è quello previsto dall’art. 162, comma 7, del Tuir, ai sensi del quale non
costituisce stabile organizzazione dell’impresa non residente il solo fatto che essa
eserciti nel territorio dello stato la propria attività per mezzo di un intermediario
(mediatore, commissionario generale, etc.).
Si ritiene infatti che l’indipendenza dell’agente sia presunta nel caso in cui
quest’ultimo - oltre ad essere giuridicamente indipendente ovvero non agisca in
nome del soggetto (come accade nelle ipotesi di rappresentanza indiretta, quali ad es.
mediatore ovvero commissionario) – agisca nell’ambito delle proprie attività
ordinarie 30.
1.2 La soggettività passiva della stabile organizzazione e la determinazione
del reddito ad essa imputabile
Detto ciò sugli elementi costitutivi della nozione di stabile organizzazione occorre
soffermarsi sulla soggettività passiva della S.O. ai fini delle imposte sui redditi e
Il rapporto di agenzia – che è di natura autonoma – non è incompatibile con la soggezione
dell’attività lavorativa dell’agente a direttive ed istruzioni, con l’obbligo dell’agente di visitare e di
istruire gli altri collaboratori, con il fatto che il preponente si avvalga di una pluralità di agenti
organizzati gerarchicamente fra loro, con l’obbligo del preponente di rimborsare talune spese
sostenute dall’agente e con l’obbligo dell’agente di riferire quotidianamente al preponente. Sul
punto si segnala la sentenza della Suprema Corte n. 3769/2012,nela quale i Massimi Giudici hanno
escluso che in tal caso ricorra una s.o. in ragione fra l’altro del fatto che era quest’ultima a
rispondere dei propri costi e dunque ad assumere in proprio il rischio d’impresa. V. anche Cass. n.
3773/2012.
30
13
sulla sua alterità rispetto alla casa madre, nonché sul fatto che la s. o. costituisce una
“particolare modalità di produzione” del reddito d’impresa.
Il tentativo di definire i contorni ricostruttivi ed applicativi della figura della S.O.,
certamente rilevante nel sistema delle imposte, appare risalente 31. La dottrina che si
è occupata nel tempo dell’argomento, talvolta ha valorizzato il profilo
dell’«organizzazione » 32 o quello della «idoneità produttiva » distinta rispetto a quella
della casa madre 33; talaltra, ha osservato che il tentativo di sovrapporre fattispecie
«civilistiche» al concetto di stabile organizzazione dava esiti incompleti od imperfetti
34.
Il tema della soggettività tributaria in materia d’imposte dirette della stabile
organizzazione italiana di un soggetto non residente è tornato per così dire attuale in
conseguenza di una sentenza della Corte di Cassazione35, nella quale il Supremo
Per una sintesi delle diverse posizioni assunte dalla dottrina interna per quanto attiene alla
soggettività passiva della stabile organizzazione, cfr. Viviano, La stabile organizzazione del non residente
in Italia, Napoli, 2007, pag. 187 ss.
32 Si richiama la nota posizione di Micheli, «Soggettività tributaria e categorie civilistiche », in Opere
Minori di Diritto Tributario, Milano, 1982, pag. 330 (già in Riv. dir. fin. sc. fin., 1977, I), il quale
affermava, «Ora queste "stabili organizzazioni" sono mere "organizzazioni" che non assurgono ad
autonomia patrimoniale e tantomeno a personalità giuridica. Esse sono un fenomeno di
organizzazione nell’ambito dell’impresa eppure acquistano rilievo come punto di riferimento
soggettivo per l’applicazione dell’imposta, cioè entrano a far parte del presupposto dell’imposizione
». Il dibattito è da ricondurre a quello più ampio, sulla «capacità giuridica » sul quale si veda
Giovannini, Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Padova, 1996, pag. 160 ss., ove ampi
riferimenti.
33 Cfr. D’Amati, Diritto Tributario, lineamenti legislativi, 1981, pag. 174; Nuzzo, «Questioni in tema
di tassazione di enti non economici », in Rass. trib., 1985, I, pag. 128.
34 Con riferimento agli esiti contraddittori cui giungeva la dottrina che affermava la separata
personalità giuridica della stabile organizzazione, relativamente ai concetti di «sede secondaria »,
«ramo d’azienda » e «azienda », cfr. Paradisi, voce «Stabile Organizzazione (dir. trib.) », in Enc. Giur.
Treccani, pag. 2. Si rinvia, inoltre alle osservazioni di Gallo, «La stabile organizzazione », in Il diritto
tributario nel rapporti internazionali, Roma, 1986, pagg. 154 e 158, Mayr, «La rettifica dei costi e dei
ricavi ex artt. 53 e 56 del D.P.R. n. 597. Presupposti soggettivi », in Boll. trib., 1975, pag. 1249.
35 Cass. civ., Sez. Trib, 22 luglio 2011, n. 16106, sent. n. 16106 del 22 luglio 2011, in Riv. Dir. Trib.,
2011, 183 e s. con nota di Bulgarelli F., La resistibile immedesimazione tra stabili organizzazioni e
soggetti passivi dell’imposta sul reddito, ivi, p. 197; ulteriori commenti di M. PENNESI, M., Stabile
organizzazione occulta: tassazione del reddito per «massa separata» (nota a Cass. civ., Sez. Trib, 22 luglio 2011, n.
16106), in Corriere Tributario, vol. 34, n. 38/2011, p. 3116, il quale osserva che «in materia fiscale non
esiste la possibilità di un’applicazione analogica di altre norme e quand’anche si potesse prendere come riferimento
civilistico quanto accade con i patrimoni destinati e separati ex art. 2447-bis c.c. o il concetto di attività separate,
notorio in ambito IVA, non è tuttavia ravvisabile alcuna disposizione fiscale che consenta la tassazione in massa
separata o soltanto la tassazione separata di redditi non appartenenti al soggetto dichiarante. L’unico esempio di
tassazione separata riferibile alle società è relativo all’applicazione della norma in tema di redditi da CFC ex art.
31
14
Collegio ha ritenuto che, ai fini delle imposte dirette, la stabile organizzazione sia un
autonomo centro d’imputazione di rapporti tributari riferibili a soggetto non
residente e dotato di legittimazione sostanziale in merito ai rapporti tributari inerenti
detto soggetto con la conseguenza che i redditi di una S.O. (in questo caso,
“occulta”) possono essere accertati direttamente in capo alla società partecipata
italiana, la quale de facto agisce come agente dipendente.
Nel caso di specie, l’Amministrazione finanziaria riprendeva a tassazione le somme
versate da una società italiana a titolo di royalties (per la concessione di licenze per
l’utilizzazione di brevetti) ad alcune società tedesche ed austriache, tutte controllate
da una holding tedesca (che controllava interamente la società italiana). I verificatori
ritenevano che detta società italiana costituisse la stabile organizzazione del gruppo
multinazionale e, conseguentemente, applicava l’art. 12, par. 4 e l’art. 12, par. 5 delle
Convenzioni siglate dall’Italia rispettivamente con Austria e Germania, i quali
derogano al principio dell’imponibilità delle royalties nello Stato di residenza del
concedente nell’ipotesi in cui «il beneficiario effettivo dei canoni, residente in uno Stato
contraente, eserciti nell’altro Stato contraente dal quale provengono i canoni [...] un’attività
industriale o commerciale per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata»: in presenza di
una S.O. la norma convenzionale prevede che le royalties risultino «imponibili in detto
altro Stato contraente secondo la propria legislazione». L’aspetto innovativo della decisione
consiste nel fatto che, nell’accogliere la ricostruzione prospettata dall’Ufficio, la
Suprema Corte ammette che le contestazioni delle violazioni tributarie possano
essere rivolte anche alla stabile organizzazione del soggetto estero.
Il percorso argomentativo della Corte muove dalla disciplina della stabile
organizzazione ai fini IVA, sulla base di questa disciplina in ragione della quale la
s.o. è abilitata, quale autonomo centro d’imputazione di rapporti tributari riferibili a
soggetto non residente, “all’effettuazione degli adempimenti correlativamente
prescritti dalla legge e, anche all’eventuale richiesta di rimborso dell’eccedenza
dell’Iva detraibile (cfr. Cass. nn. 3889/2008, 6799/2004)” afferma l’avvenuto
riconoscimento in capo “alla stabile organizzazione, (di) soggettività fiscale di diritto
167 del T.U.I.R., una previsione di legge specifica che ha indicato in dettaglio i presupposti e le modalità di
tassazione e come tale non suscettibile di applicazione a casi diversi dalle ipotesi di CFC
15
interno in relazione ai rapporti inerenti al soggetto non residente”. Posta questa
premessa sulla scorta di una successiva premessa minore secondo la quale vi sarebbe
una “sostanziale unitarietà, quanto agli aspetti strutturali, della nozione di stabile
organizzazione” fra l’Iva e le imposte dirette conclude che “il criterio, sempre
elaborato in relazione a controversie in materia di Iva, è estendibile al campo delle
imposte dirette”.
La conseguenza di tale ricostruzione è che l’atto impositivo deve essere emesso nei
confronti della stabile organizzazione, e non della società non residente per quanto
concerne i redditi costituiti in “massa separata” riferibili al soggetto non residente
per il quale la residente opera come stabile organizzazione occulta, con la peculiarità
che, in questa ipotesi, la determinazione dell’imposta dovuta dovrà seguire i principi
propri dell’imposta sul reddito dei soggetti non residenti.
In specie la Corte afferma “alla luce degli esposti rilievi, può dunque concludersi che
– diversamente da quanto opinato dal giudice a quo – l’accertamento condotto
dall’Agenzia sul reddito d’impresa, prodotto nel territorio dello Stato da società non
residente tramite stabile organizzazione, deve essere svolta nei confronti di
quest’ultima e non nei diretti confronti della società residente”.
In estrema sintesi può dirsi che la questione sottoposta alla Suprema Corte era
stabilire se fosse o no legittimo intestare un avviso di accertamento alla S.O. (o, più
esattamente, ad una società controllata che era stata ritenuta inglobare una stabile
organizzazione “occulta”) anziché alla società estera soggetto passivo del tributo. E
la Corte la risolve nel senso della legittimità dell’accertamento intestato alla S.O.
36
Probabilmente preoccupata di dare risposta alla manifestata “…esigenza – valida tanto nel campo
della imposizione Iva quanto in quella delle imposte dirette - a che i redditi prodotti dai soggetti
non residenti ed imponibili nello Stato siano, in questo, agevolmente identificabili e controllabili”.
36
16
con ciò contraddicendo quanto sino ad oggi la stessa giurisprudenza37, cioè che
l’atto andasse emesso nei confronti della società non residente38.
Nel caso tuttavia non mi pare andassero fatti discorsi di soggettività passiva della s.o.
rispetto al tributo
39,
giacché per quanto vi possano essere obblighi strumentali
attribuiti ex lege alla s.o., come si dirà di seguito, non sembra comunque sostenibile
che la s.o. in ragione di detti obblighi divenga soggetto passivo del tributo, tenuto a
presentare una propria dichiarazione dei redditi e per tale ragione assoggettato al
controllo ed eventuale rettifica da parte dell’Ufficio.
In altri termini, anticipando le conclusioni sul punto, la rettifica va svolta nei
confronti del soggetto tenuto a presentare la dichiarazione in quanto appunto
soggetto passivo.
Invero ai fini delle imposte dirette argomenti di ordine sia letterale sia sistematico
inducono senza alcun dubbio a ritenere che la stabile sia una figura che assume
rilievo al limitato fine di collegare al territorio dello Stato il reddito d’impresa (con
quanto ne consegue in termini di individuazione della per (così dire) “giurisdizione
impositiva”).
Sul piano letterale sia il disposto dell’art. 23, co. I, lett. e) del TUIR
40,
sia quello
dell’art. 73, co. 1 lett. d) del TUIR (secondo cui i soggetti passivi dell’imposta sono
“le società e gli enti di ogni tipo non residenti”) depongono nel senso che l’unico
soggetto passivo d’imposta resta il non residente e la stabile ne è
un’articolazione interna priva di soggettività tributaria autonoma. Sotto il
profilo sistematico è chiara la valenza del secondo comma dell’art. 73 Tuir, laddove
Cfr. Cass, 7 marzo 2002, n. 3368, in tema di Iva, e Cass. 25 maggio 2992, n. 7682 per Irpeg,
quest’ultima reperibile in Dir. prat. trib., 2003, II, 288, ove parimenti era individuata una stabile
organizzazione all’interno della società controllata residente, in tale ipotesi, però, pacificamente la
rettifica è stata svolta ai fini delle imposte dirette nei confronti della non residente, e ai fini dell’Iva,
sia nei confronti della non residente, sia per essa nei confronti della società italiana ritenuta sua
stabile organizzazione.
38 Questa impostazione peraltro potrebbe comportare - oltre che qualche problema “tecnico” nel
caso per es. di stabile materiale costituita soltanto da beni/mezzi e non da componente personale più un aggravio che una semplificazione, giacché gli uffici devono adesso intestare e notificare
accertamenti alla s.o. occulta residente ed alla società non residente.
39 in tal senso v. anche E. Della Valle, La soggettività tributaria della stabile organizzazione, in Libro
dell’anno 2012, Enc. Giur. Treccani, p. 580.
40 Ove si fa espresso riferimento – ai fini della localizzazione del reddito – ai redditi prodotti dal
non residente per effetto di attività esercitate nello stato mediante stabili organizzazioni
37
17
il legislatore – nello stabilire in via residuale e di chiusura che fra gli enti diversi dalle
società soggetti all’IRES si comprendono “le organizzazioni non appartenenti ad
altri soggetti passivi, nei confronti delle quali il presupposto dell’imposta si verifica
in modo unitario e autonomo” - ha evidentemente dettato/individuato un requisito
essenziale per la (una linea di demarcazione in tema di) soggettività costituito dalla
non appartenenza ad altro soggetto. Tale aspetto/profilo è stato, peraltro,
valorizzato anche dagli studi di teoria generale dei soggetti, secondo cui un’entità
organizzata è soggetto di diritto – nel senso di centro autonomo di imputazione di
effetti o rapporti giuridici – quando è padrona di sé e cioè non appartiene a terzi.
Con particolare riferimento alle stabili organizzazioni in Italia è stato, poi,
autorevolmente affermato che “…il problema della loro soggettività non si pone
affatto, né concretamente né teoricamente, considerato che esse non hanno una
vera e propria autonomia patrimoniale e, soprattutto appartengono al terzo-socio
non residente da cui promanano …” 41, il quale è il vero soggetto passivo d’imposta.
La s.o. può dunque definirsi come complesso attraverso cui l’impresa realizza tutta o
parte della propria attività e che consente in ragione del collegamento formale di
tassare i redditi prodotti nello Stato ove è localizzata.
Il tratto essenziale della s.o. non è l’indipendenza dalla casa madre ma la possibilità
di separare l’attività svolta dall’una da quella svolta dall’altra.
Ad essa viene attribuita dal (e nel) sistema delle imposte dirette una rilevanza fiscale
oggettiva, in quanto struttura dotata di autonomia economica, organizzativa e
funzionale e che integra il presupposto per l’imposizione in Italia di un’attività
economica svolta da un soggetto estero 42.
Ma tale rilevanza è circoscritta agli obblighi strumentali alla determinazione del
reddito di impresa, che è e rimane del non residente.
In tal senso v. Gallo, Contributo all’elaborazione del concetto di “stabile organizzazione”
secondo il diritto interno, in Riv. dir. Fin. e sc. fin. 1987, p. 388.
42 Cfr. Gallo, op. loc. cit., pag. 149; v. inoltre, Fantozzi, Diritto Tributario, Torino, 1991, pag. 234;
Id., «La determinazione del reddito imponibile nei rapporti tra la società italiana e collegate
all’estero », in Riv. not., 1979, pag. 790; Gallo, «La stabile organizzazione », in Rass. trib., quad.
2/86, pag. 194; Ceriana, «Stabile organizzazione e imposizione sul reddito », in Dir. prat. trib., 1995,
I, pag. 657; Gallo, «Contributo all’elaborazione del concetto di stabile organizzazione secondo il
diritto interno », in Riv. dir. fin., 1985, I, pag. 385.
41
18
In sintesi esse sono assunte ai fini fiscali come centri di legittimazione di
conseguenze giuridiche minori, ma non assurgono a soggetti passivi d’imposta.
Quanto alla questione oggetto della decisione sopra richiamata ne discende che la
soggettività passiva ai fini dell’imposta resta distinta da altra soggettività cui sono
connesse altre e diverse situazioni giuridiche.
E per il fatto che il reddito è e resta del non residente, da assoggettare ad
imposizione in Italia, sono in capo a quest’ultimo gli obblighi di dichiarazione con
quel che ne consegue sul piano della rettifica 43.
Invero, sotto altro profilo si ricorda che - mentre nel sistema previgente la riforma
del 1973 la s.o. si configurava quale criterio di collegamento la cui semplice esistenza
catalizzava l’imponibilità nei suoi confronti di tutti i redditi prodotti in Italia dal
soggetto non residente, anche senza il tramite della s. o. esistente nello Stato (cfr. art.
145 T.U. n. 645/1958)44 - adesso ai sensi della vigente disciplina la stabile
organizzazione si qualifica come “particolare modalità di produzione” del reddito
d’impresa.
In via di principio infatti assume rilievo impositivo nei suoi confronti solo il reddito
ad essa direttamente connesso45.
Dal combinato disposto degli artt. 1 e 31 del d.p.r. n. 600 del 1973, risulta che l’atto impositivo va
emanato nei confronti di chi è tenuto a presentare la dichiarazione. Invero secondo l’art. 31 “gli
uffici delle imposte controllano le dichiarazioni presentate dai contribuenti e dai sostituti di
imposta” attribuendo al secondo comma la competenza all’accertamento all’ufficio nella cui
circoscrizione è il domicilio fiscale del “soggetto obbligato alla dichiarazione”, e quest’ultimo è
individuato dall’art. 1, del medesimo decreto - rubricato Dichiarazione dei soggetti passivi - che
stabilisce che “ogni soggetto passivo deve dichiarare annualmente i redditi posseduti anche se non
ne consegue alcun debito d’imposta”
44 Tale disposizione individuava “presupposto e soggetti passivi” dell’imposta sulle società nel “ possesso
di un patrimonio o di un reddito da parte di soggetti tassabili in base al bilancio nonché di società ed associazioni
estere operanti in Italia mediante una stabile organizzazione ancorché non tassabili in base al bilancio”.
Sulla scorta di tale previsione normativa “società ed ente non residente” e sua s.o. costituivano una sorta
di “endiadi”, nel senso che la presenza di una s.o. attraeva a tassazione i redditi comunque prodotti
nel territorio dello Stato anche senza il suo tramite; si riconosceva quindi alla s.o. una forza di
attrazione “piena” dei redditi percepiti dall’imprenditore estero anche se rinvenienti da altre fonti
situate nello Stato.
45 LOVISOLO, La “funzione” della S.O. e i criteri generali di determinazione del suo reddito, con particolare
riferimento ai rapporti con “la casa madre”, in Dir. prat. trib., 2014, cit.; nello stesso senso TUNDO,
Ancora controverso il concetto di stabile organizzazione tra obiettiva incertezza, personalità giuridica e cooperazione
internazionale, in GT, 10/2001, p. 901. In giurisprudenza v. Commissione tributaria regionale delle
Marche, Sez. II, Sent. 24 giugno 2011 (10 giugno 2011), n. 44.
43
19
A riguardo appare opportuno ricordare brevemente che la s.o. produce l’effetto di
sottrarre l’imposizione nello Stato estero di residenza e di radicarla nello Stato della
s.o. in una situazione di astratta parità con le imprese locali.
In tal senso depongono sia l’art. 7 del Modello OCSE
46
sia l’art. 23 del TUIR.
Risulta cioè dalle citate disposizioni che la determinazione del reddito del non
residente nello Stato dove ha sede la s.o. e le relative modalità d’imposizione
derivano dalla funzione effettivamente svolta dalla s.o.
L’art. 23, comma 1 lett. e) cit. t.u. 1986 n. 917 (e l’art. 151 che vi fa rinvio) sono
espliciti nel considerare imponibile in Italia il reddito d’impresa del non residente
(solo se) “derivante da attività esercitata nel territorio dello Stato mediante stabili
organizzazioni”.
Invero, se si considera (il quadro normativo costituito dal) la disposizione dell’art.
23, comma 2, lett. i, T.u.i.r., che prevede l’imponibilità in Italia delle royalties
“indipendentemente” dal fatto che l’imprenditore non residente operi in Italia
attraverso una s.o.; l’art. 151, comma 2, T.u.i.r., che prevede l’imposizione delle
plusvalenze e minusvalenze realizzate dalle società non residenti “ancorchè non
conseguenti attraverso la stabile organizzazione” , nonché la previsione secondo la quale il
reddito d’impresa del non residente è assoggettato ad imposta nello Stato estero “ma
soltanto nella misura in cui detti utili sono attribuibili alla s.o.” (art. 7, comma 1 Mod. OCSE
art. 23 lett. c) cit), (da tale quadro normativo) risulta evidente come alla s.o. vada
imputato solo il reddito da questa effettivamente prodotto.
Tale conclusione è confortata anche dall’art. 10 comma quarto del Modello Ocse, il
quale nell’individuare la modalità di tassazione dei dividendi esclude che essi si
considerino di fonte estera (con conseguente inapplicabilità della norma
convenzionale) alla duplice condizione che:
Secondo il comma 1 dell’art. 7 del Modello OCSE “Gli utili di un’impresa di uno Stato contraente sono
imponibili soltanto in detto Stato, a meno che l’impresa non svolga un’attività industriale o commerciale nell’altro
Stato contrante per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata. Se l’impresa svolge in tal modo la sua attività,
gli utili dell’impresa sono imponibili nell’altro Stato, ma soltanto nella misura in cui detti utili sono attribuibili alla
stabile organizzazione”.
46
20
a) il beneficiario effettivo nello Stato contraente ove ha sede la società che li
distribuisce eserciti un’attività industriale o commerciale per mezzo di una s.o. ivi
situata
b) la partecipazione generatrice dei dividendi si ricolleghi effettivamente a tale s.o.” 47.
Tale aspetto assume assoluta rilevanza in sede di determinazione del reddito della
s.o. occulta, giacché dovrebbe individuarsi il reddito effettivamente ascrivibile
all’attività della s.o.
Da questo discende in maniera, per così dire, speculare che il reddito (anche
d’impresa) del non residente che operi in Italia in totale mancanza di una s.o.,
oppure anche in presenza di una sua s.o. ma prodotto direttamente dalla “casa
madre” (senza l’intervento della sua s.o.), è assoggettabile ad imposta in Italia ma,
per così dire, “ad altro titolo”, ossia non quale reddito d’impresa ma a seconda dei casi
quale reddito di capitale, reddito fondiario o reddito diverso48.
Per concludere su questo punto occorre ricordare che gli Stati appartenenti
all’OCSE ricorrono a due interpretazioni differenti del citato art. 7, comma 1, del
Modello, al fine di attribuire i profitti alle stabili organizzazioni:
a) Approccio dell’entità funzionalmente separata (c.d. “functionally separate entity”
approach). Questa impostazione, che è preferita anche dalla stessa OCSE, si limita a
stabilire i limiti quantitativi dei profitti che possono essere tassati dallo Stato
Contraente che ospita la S.O. Pertanto, i profitti imputati e tassati alla S.O. sono
Analogamente i commi 4 e 5 dell’art. 11, al fine dell’imposizione degli interessi introducono come
elemento discriminante il fatto che “il credito degli interessi si ricolleghi effettivamente ad essa” (la s.o., n.d.r.)
ed ai fini della provenienza degli interessi mettono ancora in evidenza l’esclusiva riferibilità alla
stabile allorché stabiliscono che “gli interessi stessi si considerano provenienti dallo Stato in cui è situata la
stabile organizzazione” “ quando il debitore degli interessi, sia esso residente o no di uno Stato contraente, ha in uno
Stato contraente una stabile organizzazione per le cui necessità viene contratto il debito sul quale sono pagati gli
interessi e tali interessi sono a carico della stabile organizzazione”.
48 Più di recente, la Suprema Corte ha rilevato che «la qualificazione di reddito quale reddito d’impresa
dipende dal requisito soggettivo dell’esercizio di impresa commerciale da parte del percipiente, a prescindere da
qualsiasi altro diverso requisito (essendo la ricorrenza della stabile organizzazione semplice condizione di
localizzazione del reddito medesimo e di sua imponibilità in Italia) ed, inoltre, che, per poter scindere (e diversificare
nel trattamento fiscale) le componenti del reddito d’impresa di un soggetto straniero e privo di autonoma
organizzazione nel territorio dello Stato, è necessaria una specifica disposizione di legge». Così, Cass. civ., Sez.
Trib., 21 aprile 2011, n. 9197, in banca dati Fisconline, con nota di COMUZZI, P. – CAMELI, N., Il
reddito d’impresa prevale sul reddito di capitale anche in assenza di una stabile organizzazione in Italia? Un primo
commento alla sentenza n. 9197 del 21 aprile 2011 della Corte di Cassazione che ha avuto effetti importanti sul
principio del trattamento isolato del reddito, in Novità Fiscali, vol. 2, n. 11/2011, p. 8 ss
47
21
quelli che ci si potrebbero aspettare se si trattasse di una distinta e separata impresa
che opera in maniera del tutto indipendente rispetto all’impresa di cui fa parte.
b) Approccio dell’attività d’impresa rilevante (c.d.”relevant business activity” approach).
Siffatto approccio, invece, considera profitti dell’impresa solo i profitti dell’attività
commerciale in cui una stabile organizzazione ha una determinata partecipazione
attiva.
In altre parole, in base al primo approccio è necessario identificare le funzioni che la
stabile organizzazione svolge nell’ambito dell’impresa e, conseguentemente,
attribuire ad essa i beni, il rischio ed il capitale dell’impresa relativi a tali funzioni.
Adottando il secondo approccio, invece, i profitti della stabile organizzazione sono
limitati a quelli effettivamente guadagnati dall’impresa: quindi, se l’impresa nel suo
complesso è in una situazione
di
perdita, allora
la
stabile organizzazione
risulta proporzionalmente in perdita.
Secondo l’OCSE il “relevant business activity” approach è preferibile, in quanto –
andando ad isolare la S.O. dal resto dell’attività dell’impresa - rimuove qualsiasi
applicazione del principio di attrazione.
2. La disciplina del cd. transfer pricing secondo l’ordinamento italiano.
La disciplina dei prezzi di trasferimento - contenuta nell’articolo 110, comma 7, del
D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917- prevede che gli utili o le perdite provenienti dalle
transazioni effettuate con le persone giuridiche del medesimo gruppo fiscalmente
residente all’estero siano apprezzate sulla base del “valore normale” dei beni o
servizi che ne costituiscono oggetto, in base alla definizione di cui all’articolo 9 dello
stesso TUIR 49.
Il testo dell’ articolo 110, co. 7, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 71 è il seguente: “I componenti del
reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente
controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono valutati in
base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma
2, se ne deriva aumento del reddito; la stessa disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito,
ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali
"procedure amichevoli" previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi. La presente
disposizione si applica anche per i beni ceduti e i servizi prestati da società non residenti nel territorio dello Stato per
49
22
In sintesi questa diposizione, in deroga la principio di rilevanza, ai fini fiscali, dei
corrispettivi stabiliti fra le parti, introduce una presunzione secondo la quale si
applica il valore normale alle transazioni poste in essere tra un’impresa residente ed
una società non residente, qualora le stesse appartengano al medesimo soggetto
economico50. La finalità della disposizione è evidentemente quella di evitare la
delocalizzazione del reddito, ovvero il trasferimento di materia imponibile dall’Italia
verso l’estero attraverso l’artificiosa fissazione, nelle operazioni “intragruppo”, di
corrispettivi diversi da quelli di mercato.
Le problematiche interpretative scaturenti da tale disposizione sono molteplici e
attengono al profilo soggettivo (per es. l’individuazione sia dell’ampiezza della
nozione di controllo sia della stessa nozione di società non residente) al piano
oggettivo (per es. l’estensione anche alle transazioni poste in essere tra imprese
residenti; l’individuazione del metodo del confronto (interno o esterno) per definire
il valore normale, l’onere della prova) per dirne alcuni.
Non potendo affrontare in maniera organica l’intero tema e le connesse
problematiche mi limiterò ad affrontare alcuni aspetti cogliendo le sollecitazioni
rinvenienti da recenti pronunce giurisprudenziali.
2.1 Gli orientamenti giurisprudenziali sull’onere della prova nel transfer
pricing
Un tema particolarmente rilevante è quello della individuazione del soggetto sul
quale grava l’onere di provare il valore pattuito dalle parti diverga da quello normale.
Sotto questo profilo, a differenza di altre disposizioni con finalità anti-elusive, la
norma in esame sembra introdurre una presunzione assoluta, e non relativa.
conto delle quali l’impresa esplica attività di vendita e collocamento di materie prime o merci o di fabbricazione o
lavorazione di prodotti.
50 La ratio della deroga si spiega in ragione del fatto che, nel caso di scambi transnazionali tra
soggetti autonomi ma sottoposti al medesimo potere decisionale, i corrispettivi relativi ai predetti
scambi risultano scarsamente attendibili e possono essere manipolati in danno del fisco italiano. Di
qui la sostituzione per volontà di legge dei corrispettivi pattuiti tra le parti con quelli determinati in
base al valore normale, sempre che da tale sostituzione possa derivare un concreto vantaggio per il
fisco italiano, che la norma di legge individua in un aumento del reddito. Cfr. Menti, in Diritto e
pratica tributaria, 2014, 1, p. 35.
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Detta affermazione va tuttavia correttamente intesa, nel senso che se, da una parte, è
vero che al ricorrere delle condizioni previste dalla disposizione i beni o servizi
vanno valutati obbligatoriamente al valore normale, dall’altra altrettanto vero è che
spetta all’Amministrazione finanziaria, nell’ipotesi di accertamento, dimostrare che il
valore pattuito dalle parti diverga da quello normale.
Solo dopo che l’A.f. ha assolto detto onere, dimostrando che prima facie l’impresa
italiana non ha rispettato il criterio del valore normale, spetta al contribuente
provare la correttezza dei procedimenti adottati. In tale sede, è evidente che (in
genere) le contestazioni vertono non sull’adozione del criterio del valore normale
ma sulla correttezza del procedimento a tal fine adottato.
Tale tesi trova conforto nella risalente giurisprudenza della Cassazione51.
Alla luce di talune recenti sentenze della Corte pare tuttavia opportuno fare il punto
sulla situazione.
Invero, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 22023/06 afferma che l’onere della
prova della ricorrenza dei presupposti dell’elusione grava sull’Amministrazione
Finanziaria e che il contribuente non è tenuto a dimostrare la correttezza dei prezzi
di trasferimento applicati, se non dopo che “l’Amministrazione fiscale abbia essa
stessa provato prima facie il non rispetto del principio del valore normale”.
In particolare, nella sentenza - concernente un rapporto commerciale tra la società
controllata italiana e la capogruppo americana nel quale l’Agenzia ipotizza “un costo
maggiore di quello normale da stabilire secondo le previsioni dell’art. 76 del T.U.I.R. (D.P.R. n.
917/1986) in quanto la F. S.p.a., ossia la società controllata, si sarebbe accollata delle spese di
manutenzione delle vetture nuove, consentendo una riduzione dell’imponibile in Italia e conseguente
realizzazione di maggiori profitti nel paese di residenza della società estera” – la Suprema Corte
rigetta il ricorso dell’Amministrazione in quanto l’ufficio non aveva provato né che
la fiscalità in Italia era superiore né aveva determinato il valore normale verificando
se vi fosse una differenza fra i corrispettivi pagati (in misura superiore) ed il valore
normale.
51
V. Cassazione, sentenza 13 ottobre 2006, n. 22023; Id. sentenza 16 maggio 2007, n 11226.
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I Giudici di legittimità giungono a tale conclusione sulla base articolato percorso
argomentativo, fondato non soltanto sullo “scopo della disciplina dettata dall’art. 76,
comma 5, del TUIR (che regola il cosiddetto transfer pricing)” (ravvisato nella esigenza di
“evitare che all’interno del gruppo vengano posti in essere trasferimenti di utili tramite applicazione
di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti onde sottrarli alla tassazione in Italia a favore
di tassazione estere inferiori”) e sulla natura di “clausola antielusiva” della disposizione (“che
trova, non solo, radici nei principi comunitari in tema di abuso del diritto […] ma anche
immanenza in diversi settori del diritto tributario nazionale…”52) ma anche e soprattutto nel
principio di libera concorrenza, come delineato nel rapporto OCSE del 1995,
laddove è espressamente sottolineato che “laddove la disciplina di ciascuna
giurisdizione nazionale preveda che sia l’Amministrazione finanziaria ad essere
gravata dall’onere di provare le proprie pretese, il contribuente non è tenuto a
dimostrare la correttezza dei prezzi di trasferimento applicati, se non dopo che
l’Amministrazione fiscale abbia essa stessa provato prima facie il non rispetto del
principio del valore normale”.
Con la sentenza del 16 maggio 2007, n 11226 la Corte di Cassazione ulteriormente
precisa che l’Amministrazione deve preliminarmente accertare che l’impresa abbia
tratto profitto dalle transazioni poste in essere con una società consociata,
spostando la redditività in uno Stato che prevede una tassazione più favorevole.
Solo dopo avere constatato ciò, la stessa Amministrazione deve verificare la
congruità del valore dei corrispettivi delle operazioni 53.
Nella giurisprudenza di merito v. Commiss. Trib. Prov. Emilia-Romagna Modena Sez. I, Sent.,
13-01-2014, n. 21. Secondo la Commissione l’articolo 110, comma 7, così come le altre norme
specificamente dirette a impedire il dirottamento di flussi reddituali verso Paesi a fiscalità agevolata
(articolo 110, commi 10, 11 e 12, D.P.R. n. 917 del 1986, articoli 167 e 168), hanno la finalità di
evitare che, mediante fenomeni come l’alterazione del prezzo di trasferimento, l’Erario italiano
abbia a subire comunque un concreto pregiudizio. In altri termini, "l’applicazione delle norme sul
transfer pricing non combatte l’occultamento del corrispettivo, costituente una forma di evasione,
ma le manovre che incidono sul corrispettivo palese, consentendo il trasferimento surrettizio di utili
da uno Stato all’altro, sì da influire in concreto sul regime dell’imposizione fiscale".
53 In detta sentenza inoltre la Suprema Corte, richiamando il precedente orientamento (sentenza 13
ottobre 2006, n. 22023), ribadisce l’applicabilità alle vendite internazionali dell’art. 11 della
Convenzione di Vienna dell’11 aprile 1980 - resa esecutiva con Legge 11 dicembre 1985, n. 765 - a
norma del quale “un contratto di vendita non necessita di essere concluso o provato per iscritto e
non è sottoposto ad alcun altro requisito di forma. Esso può venir provato con ogni mezzo, anche
per testimoni”.
52
25
Tale orientamento – come anticipato - appare ormai superato da un diversa e più
recente posizione della Suprema Corte, la quale ha da ultimo ritenuto che “La
disciplina italiana del transfer pricing, come negli altri Paesi, prescinde dalla dimostrazione di una
più elevata fiscalità nazionale. Se si vuole, la disciplina in parola rappresenta una difesa più
avanzata di quella direttamente repressiva della elusione. Elusione che, per tale ragione, non
occorre dimostrare. E questo, appunto, perché la disciplina di che trattasi è rivolta a reprimere
il fenomeno economico in sé. Difatti, tra gli elementi costitutivi della fattispecie repressiva del
transfer pricing di cui dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma 5, non si rinviene quello della
maggiore fiscalità nazionale. Non occorre, si ripete, provare la elusione. E’ pertanto necessario,
da
parte dell’Amministrazione,
soltanto dimostrare l’esistenza di transazioni tra imprese
collegate”54.
Per quanto concerne poi l’onere di provare la non congruità rispetto al valore
normale del prezzo praticato dalle parti, i Giudici di legittimità – dopo avere
subordinato l’onere della prova da parte del contribuente alla circostanza che
“l’Ufficio abbia dato conto di taluni elementi di
irrealtà del valore dedotto”55 - con la decisione n. 10739/2013 affermano tout court che
l’Amministrazione deve “ soltanto dimostrare l’esistenza di transazioni tra imprese collegate.
Spetta invece al contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova di cui all’art.
2697 c.c., dimostrare che le transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi
normali à sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3” 56.
Per tale motivo la Corte – verificato che “… nel caso concreto, l’Amministrazione
aveva evidenziato come la novità del marchio, oltreché l’assenza di spesa
pubblicitaria a sostegno dello stesso, ecc., deponessero nel senso della eccessività del
costo - dedotto a titolo di pagamento della privativa” – afferma che “La CTR,
quindi, non ha correttamente applicato le disposizioni, laddove, dal
assolvimento di un inesistente onere della
prova
posto
mancato
a
carico
dell’Amministrazione, ha fatto derivare la deducibilità del costo”.
Cfr. Cass., sentenza n. 10739/2013.
In particolare nelle sentenze n. 9917 del 2008 e n. 19489 del 2010 la Cassazione ritiene che “poiché
trattasi di provare una deduzione, spetta al contribuente ex art. 2697 c.c., dimostrare, quando l’Ufficio abbia dato
conto di taluni elementi di irrealtà del valore dedotto, l’ammontare delle spese per beni o servizi da dedursi”.
56 Cfr. Cass., sentenza n. 10739/2013.
54
55
26
2.2 Il “valore normale” nella giurisprudenza italiana nella determinazione dei
prezzi di trasferimento tra le transazioni intra-gruppo.
Altra questione complessa e delicata è costituita proprio dall’individuazione del
valore normale.
La disciplina relativa alla determinazione del valore delle transazioni infragruppo è
dettata dagli artt. 110, comma 7, e 9, commi 3 e 4, del TUIR e dall’articolo 9 della
Convenzione OCSE.
Quanto alla nozione di valore normale, essa va identificata sulla base del combinato
disposto degli artt. 110, co. 2, del Tuir – al quale rinvia il comma 7 in esame – e
dell’art. 9 del TUIR, a sua volta richiamato dal primo (art. 110, co. 2).
In particolare ai sensi del comma 3 del citato art. 9 “Per valore normale si intende il
prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie
o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di
commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni e i servizi sono stati
acquisiti o prestati e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi …”.
In particolare ai sensi del comma 3 dell’art. 9 del Tuir per valore normale, salvo
quanto stabilito nel comma 4 per i beni ivi considerati, si intende: “il prezzo o
corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di
libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni
o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi. Per la
determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del
soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di
commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso. Per i beni e i servizi soggetti
a disciplina dei prezzi si fa riferimento ai provvedimenti in vigore”.
Detta disposizione recepisce il “principio di libera concorrenza” consigliato
dall’OCSE (c.d. arm’s lenght principle), codificato all’art. 9 del Modello di
convenzione OCSE, secondo cui trattasi del “prezzo che sarebbe stato concordato
tra imprese indipendenti per operazioni identiche o similari a condizioni similari o
identiche nel libero mercato”.
27
Dal combinato disposto delle norme di cui all’articolo 110 TUIR, comma 7, e
all’articolo 9 del TUIR deriva, pertanto, che nella determinazione del valore normale
si prescinde dal valore di mercato del bene o del servizio e si ha riguardo
essenzialmente ai prezzi o corrispettivi praticati in media per i beni o servizi della
stessa specie o similari;
Esistono diversi criteri cui ricorrere per il calcolo del prezzo di libera concorrenza.
Il legislatore nazionale privilegia quella del confronto dei prezzi, nel senso che
l’individuazione del valore normale deve avvenire mediante un confronto e un
raffronto tra operazioni connotate dal requisito della comparabilità 57; e solo allorché
essa sia impraticabile, perché ad es. si tratta di un prodotto peculiare oppure di beni
immateriali, operano gli altri criteri.
In particolare dal dato letterale della disposizione di cui all’articolo 9, commi 3 e 4, si
rinvengono due tipologie di metodi di confronto del prezzo per l’individuazione del
“valore normale”:
- la prima, definita “interna”, prevede che debba farsi riferimento, quale metodo di
raffronto, ai listini ed alle tariffe del soggetto fornitore; la seconda (cd. “confronto
esterno”), invece, prende, quale parametro di comparazione del valore normale del
prezzo di una transazione tra imprese indipendenti, i listini e le mercuriali delle
camere di commercio e le tariffe professionali58.
In altri termini il confronto è interno quando la transazione che viene utilizzata per
valutare quella oggetto di verifica è posta in essere tra una delle due imprese che ha
posto in essere l’operazione oggetto di verifica ed un’altra impresa indipendente
rispetto alle altre. Il confronto è esterno quando la transazione identificata nel libero
mercato è posta in essere tra due imprese diverse rispetto a quelle oggetto di verifica
che sono tra loro indipendenti.
La preferenza nell’applicazione del metodo del
“confronto
di prezzo” per il
confronto interno su quello esterno trova conforto anche nell’orientamento della
Corte di Cassazione, la quale ha precisato che il criterio prioritario non possa essere
Giovanni Rolle, “Il “valore normale” nella disciplina dei prezzi di trasferimento:mercato del cedente e requisito
della comparabilità”, in “Il Fisco” n. 36 del 2014, p. 3566
58 Maria Grazia Ortoleva, “Il Transfer Pricing”, in Sebastiano Maurizio Messina, Maria Grazia
Ortoleva e Giovanni Barbato, “Lineamenti di Fiscalità Internazionale”, (QuiEdit 2009), p. 124
57
28
che quello enunciato dalla seconda parte del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma
3, …. “. Secondo la Corte la norma imporrebbe all’Amministrazione di prendere in
considerazione, nell’accertamento del reddito di impresa, in via principale, i
“listini” e le “tariffe” del venditore dei beni o del prestatore di servizi a società
dello stesso gruppo, tenuto conto anche degli sconti che il medesimo è usualmente
disposto a praticare nel mercato di appartenenza. Solo in caso di inesistenza, di
inapplicabilità, o di inattendibilità del listino o della tariffa, la
medesima
disposizione – prosegue la Corte - dispone di prendere in esame, in via subordinata,
i “mercuriali” ed i “listini delle camere di commercio”, o le “tariffe professionali”59.
Tale posizione non è condivisa da taluna dottrina, la quale ritiene che il metodo del
confronto esterno soddisfi senz’altro più della comparazione interna il requisito
dell’oggettività delle condizioni contrattuali e dell’inesistenza del dominio di una
parte sull’altra60.
59
60
Cfr. Cassazione, sentenza n. 22010/2013.
Cfr. Maisto, Il transfer princing nel diritto tributario italiano e comparato, Padova, 1985,p. 108.
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