STABILE ORGANIZZAZIONE E PREZZI DI TRASFERIMENTO Sebastiano Maurizio Messina Professore Ordinario di Diritto tributario Università di Verona Premessa I temi della stabile organizzazione e del transfer pricing che mi sono stati assegnati risultano di straordinaria attualità ed importanza nell’ambito della fiscalità nazionale e internazionale, come dimostrano non solo i recenti casi di colossi multinazionali praticamente senza residenza ma anche il crescente numero di sentenze emesse dai Giudici di legittimità e di merito su questioni ad essi inerenti e i recenti interventi dell’OCSE e del G20 volti (fra l’altro) ad individuare “soluzioni” anche normative per contrastare tutti quei comportamenti “elusivi” o “fraudolenti” finalizzati a separare artificiosamente gli utili dalle attività che li generano. A riguardo nel “Rapporto BEPS” del 20131 l’OCSE - sulla base dei risultati di un’analisi compiuta negli ultimi anni sulle tecniche di pianificazione fiscale aggressiva sviluppate da alcuni gruppi multinazionali - ha constatato ad es. che in molti dei suoi Paesi membri le imprese tendono a sostituire gli accordi di “distribuzione” stipulati con le filiali locali con dei meri contratti di agenzia o di commissione, in modo da spostare di fatto gli utili al di fuori del Paese nel quale hanno luogo le vendite a parità di funzioni svolte dal venditore, e ha ravvisato una causa di detto fenomeno proprio nell’attuale interpretazione delle norme convenzionali relative alla nozione di stabile organizzazione personale2. OCSE, Addressing Base Erosion and Profit Shifting (BEPS), pubblicato il 12 febbraio 2013, consultabile sul sito dell’OCSE (http://www.oecd.org/ctp/beps-reports.htm). Per i primi commenti in dottrina cfr. J. Owens, The Taxation of Multinational Enterprises: an Elusive Balance, in Bulletin for International Taxation, 2013, 8, p. 441; Y. Brauner, BEPS: An Interim Evaluation, in World Tax Journal, 2014, 2, p.10; A. De Graaf, P. De Haan, M. De Wilde, Fundamental Change in Countries’ Corporate Tax Framework Needed to Properly Address BEPS, in Intertax, 2014, 5, pag. 306. 2 Segnatamente secondo l’OCSE a causa dell’attuale interpretazione delle norme convenzionali relative alla nozione di stabile organizzazione personale, le vendite di beni appartenenti ad un’impresa estera possono essere effettuate in un altro Paese utilizzando il personale di una filiale locale della predetta impresa estera, senza però che gli utili generati da tali vendite risultino imponibili in tale Paese allo stesso modo di come lo sarebbero stati quelli generati da vendite 1 1 Segnatamente per quanto qui rileva nell’ambito del “Piano di azione”3 presentato nel luglio del 2013 per dare attuazione al suddetto “Rapporto BEPS”, cui ha fatto seguito la pubblicazione ad agosto e settembre del 2014 del “Report to G20 Development Working Group on the impact of BEPS in Low Income Countries” e del “2014 Deliverables”, l’OCSE ha inserito sia un’ “azione”, la n. 7 “Prevent the artificial avoidance of PE status”, dedicata all’introduzione di misure volte ad evitare in modo artificiale la qualifica di stabile organizzazione, ossia a contrastare il fenomeno delle stabili organizzazioni occulte4 sia delle azioni, le nn. 8, 9 e 10 “Assure that transfer pricing outcomes are in line whit value creation”, nelle quali si individuano delle misure finalizzate a contrastare la movimentazione dei beni intangibili all’interno delle imprese del gruppo, tramite il trasferimento del rischio o l’allocazione eccessiva di capitale a società appartenenti al gruppo o tramite transazioni nelle quali delle imprese indipendenti non si impegnerebbero o si impegnerebbero raramente. Stabile organizzazione e prezzi di trasferimento costituiscono, dunque, ad oggi due istituti di notevole rilevanza sotto il profilo internazionale, in quanto mirano a salvaguardare le pretese tributarie dei singoli Stati a fronte di strategie di pianificazione fiscale aggressiva adottate da gruppi multinazionali. Tali istituti - sebbene simili sotto il profilo funzionale - sono concettualmente distinti; di tal che nel prosieguo della relazione si evidenzieranno le peculiarità di ciascuno. Esemplificando si può affermare che l’analisi volta a verificare la presenza di una stabile organizzazione consiste anzitutto in un’indagine di tipo qualitativo, finalizzata a definire se esista un criterio di collegamento che faccia diventare fiscalmente rilevante in un Paese l’attività (d’impresa) ivi svolta da un’impresa estera; se tale indagine ha esito positivo (nel senso che viene individuato un criterio di collegamento) l’analisi mira a determinare il quantum ossia la quota di reddito imputabile a tale entità. comparabili effettuate da un distributore autorizzato. 3 OCSE, Action Plan on Base Erosion and Profit Shifting, pubblicato il 19 luglio 2013. 4 Inoltre un gruppo di lavoro del Comitato affari fiscali dell’OCSE (Focus Group on Artificial Avoidance of PE Status) sta aggiornando la definizione di stabile organizzazione contenuta nel Modello di convenzione fiscale, in modo da impedire tali abusi. 2 Per quanto concerne il transfer pricing l’analisi di congruità della politica dei prezzi di trasferimento è invece meramente quantitativa, in quanto mira a verificare se i corrispettivi relativi a transazioni infragruppo risultano in linea con le normali condizioni di mercato esistenti tra operatori indipendenti in condizioni similari. Ciò premesso e in attesa delle modifiche al Modello di convenzione, si tenta di fare il punto sull’applicazione e sull’interpretazione dei due istituti e delle relative discipline nella giurisprudenza interna. 1. La nozione di stabile organizzazione Cominciando dalla stabile organizzazione (d’ora in poi S.O.), appare opportuno ricordare brevemente che nell’ambito delle imposte dirette la stabile organizzazione può essere: - materiale, quando opera attraverso una sede fissa di affari, ovvero uffici, attrezzature e altri mezzi impiegati per l’attività di impresa in modo permanente; essa implica cioè la presenza fisica in uno Stato contraente dei mezzi organizzati dell’imprenditore residente nell’altro Stato contraente5. - personale, allorché si sia in presenza di specifici soggetti che svolgono l’attività economica per conto dell’imprenditore non residente in grado di vincolare il soggetto straniero6. Stabile organizzazione materiale e personale possono coesistere, nel senso che la presenza di una (di per sé sufficiente a far scattare l’imposizione nel Paese ospitante) non esclude l’altra. Ciò premesso ai fini delle imposte dirette il quadro normativo di riferimento è costituito dall’art. 5 del Modello di Convenzione OCSE e, ove più favorevole, Art. 5, par. 1-4, Modello OCSE. Secondo la Cassazione la stabile organizzazione materiale è “contraddistinta dall’esistenza di una struttura fissa, dotata di beni materiali e di personale, mediante la quale l’impresa estera svolge la propria attività economica nel territorio dello Stato” (Cassazione, sentenza n. 1118 del 17 gennaio 2013). 6 Art. 5, par. 5-6, Modello OCSE. Secondo la Suprema Corte essa è “caratterizzata dalla presenza di un’attività negoziale a favore dell’impresa estera, non sporadica od occasionale, posta in essere con carattere di abitualità da intermediari qualificati, aventi il potere di vincolare l’impresa estera, i quali concludano in nome e per conto di tale impresa, contratti diversi da quelli di acquisto di beni” (Cass., sentenza n. 1183/2011, cit.). 5 3 dall’art. 162 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (d’ora in avanti T.u.i.r.)7, introdotto in occasione della riforma tributaria del 2003, il quale detta la nozione/definizione “interna” di stabile organizzazione, modulata sul base di quella contenuta nel citato art. 58. Detta disposizione definisce stabile organizzazione qualsiasi «sede fissa d’affari per mezzo della quale l’impresa esercita in tutto o in parte la sua attività». Quattro sono gli elementi che connotano il concetto di s.o.: a) l’esistenza di una installazione di affari (ad es. un ufficio); b) la stabilità (geografica e temporale) di tale installazione; c) la riconducibilità all’ordinario esercizio dell’impresa; d) la sua idoneità a generare reddito. Quanto al primo elemento si precisa che esso è ravvisabile in presenza nono solo di una stabile organizzazione materiale ma anche di quella personale. La stabilità dell’installazione deve essere intesa sia sotto il profilo temporale (i.e. nel senso che l’attività d’impresa deve essere esercitata per un apprezzabile lasso di tempo di almeno 12 mesi) sia sotto quello geografico (i.e. nel senso che deve sussistere un collegamento fra la stabile organizzazione d’impresa e il territorio dello Stato contraente in cui l’imprenditore non ha la propria residenza) 9. Per quanto concerne la riconducibilità della s.o. all’ordinario esercizio dell’impresa si ritiene comunemente che l’installazione debba essere destinata ad «un’attività rientrante nel quadro normale degli affari realizzati dall’imprenditore estero e, purché tale attività sia in relazione di servizio rispetto agli obiettivi globali dell’impresa» 10. Ai sensi dell’art. 169 T.u.i.r. la disciplina interna prevale su quella del Modello e/o sugli accordi internazionali contro la doppia imposizione, se più favorevole per il contribuente 8 La definizione elaborata dall’OCSE ha infatti condotto ad una sostanziale armonizzazione del concetto di stabile organizzazione. Quanto all’IVA – come meglio si vedrà - fino all’adozione del Regolamento n. 282/2011 non esisteva una definizione positivizzata di stabile organizzazione, sebbene già nella VI Direttiva si facesse riferimento al “centro di attività stabile” . 9 La giurisprudenza internazionale ha avuto modo di chiarire che per essere “stabile” l’installazione non deve essere necessariamente radicata al suolo; muovendo da tale assunto, ad esempio, la Suprema Corte dei Paesi Bassi ha qualificato come stabile organizzazione uno yacht sul quale si svolgevano continuativamente attività produttive di reddito riconducibili all’imprenditore non residente, cosi Hoge Raad, 13 ottobre 1954, n. 11908 (BNB 1954/336). 10 In questi termini, cfr. LOVISOLO, La stabile organizzazione, in UCKMAR V. (coordinato da), Diritto tributario internazionale, Padova, 2005, p. 443. 7 4 È, infine, necessario che l’installazione risulti idonea a contribuire alla produzione del reddito; con la conseguenza che non possono dar luogo a una s.o. tutte quelle attività di carattere meramente ausiliario e preparatorio e, in quanto tali, insuscettibili di produrre reddito. In sostanza, pertanto, attraverso l’assetto organizzativo istituito sul territorio straniero il soggetto non residente deve svolgere la propria attività, o perlomeno porre in essere un segmento rilevante e significativo di tale attività 11. In tal senso si è sostenuto che l’organizzazione deve essere strumentale ad una attività svolta abitualmente nel territorio straniero da un soggetto non residente12. Perché possa individuarsi una s.o. occorre quindi verificare la sussistenza, da una parte, di una certa autonomia dell’organizzazione, riscontrabile nella sua capacità di regolare l’attività di impresa sul territorio13; dall’altra, di una situazione comunque di dipendenza. Altrimenti detto le decisioni devono essere riconducibili al soggetto non residente (i.e. riferibili essenzialmente ai vertici manageriali e direttivi del soggetto collettivo) ed essere attuate nel territorio attraverso la catena operativa e la distribuzione delle funzioni proprie della “organizzazione di attività” istituita nel territorio straniero. Il paragrafo 2 dell’art. 5 cit. contiene poi un elenco non tassativo di elementi idonei a far presumere una stabile organizzazione materiale: sede di direzione, succursale, ufficio, laboratorio, miniere e giacimenti, cave e zone di estrazioni di gas e petrolio. La presenza di questi elementi tuttavia da sola non è sufficiente a far affermare automaticamente che si sia in presenza di una stabile organizzazione. Invero, secondo il commentario al Modello OCSE tale elenco contiene delle presunzioni Nel Commentario OCSE, art. 5 par. 24, è chiarito che l’attività realizzata sul territorio straniero per il tramite della stabile organizzazione deve rappresentare “una parte essenziale e significativa” dell’attività di impresa considerata unitariamente; evidentemente tale precisazione vale ad escludere che possano ricondursi alla “organizzazione di attività” gli atti preparatori o ausiliari, in quanto privi dell’elemento di significatività e rilevanza rispetto all’attività di impresa svolta sul territorio straniero. 12 Cfr. Cass. 27.11.1987 n. 8815 e n. 8820; Cass. 7.3.2002 n. 3367 e n. 3368; Cass. 25.5.2002 n. 7682; Cass. 25.7.2002 n. 10925 13 Nella prassi dell’Amministrazione finanziaria è reiteratamente evidenziato il requisito della “autonomia funzionale” della stabile organizzazione rispetto alla casa-madre, al fine di sottolineare l’attribuzione di funzioni specifiche e autonome alla organizzazione dell’attività realizzata nel territorio straniero. In tal senso v. Circ. Min. 17.3.1979 n. 12/12/345; Ris. Min. 1.2.1983 n. 9/2389. 11 5 semplici e non relative; sicché non c’è alcuna inversione dell’onere della prova a carico dell’impresa estera14. Quanto alla stabile organizzazione personale, il Modello OCSE distingue l’ipotesi dell’«agente dipendente» – inteso quale soggetto che opera in nome e per conto dell’impresa non residente con il potere di concludere contratti (diversi da quelli di acquisto) in maniera continuativa ed abituale (art. 5, par. 5) – da quella dell’«agente indipendente» ossia di un soggetto che opera in nome proprio nell’ambito della propria ordinaria attività ma per conto dell’impresa non residente con il potere di concludere contratti vincolanti per quest’ultima (art. 5, par. 6). Con la conseguenza che solo in presenza di un “agente dipendente” si può ravvisare secondo il Modello l’esistenza di una stabile organizzazione personale. La nozione desumibile dal modello di convenzione OCSE in quanto relativa all’imposizione diretta non è pertinente15 e non è applicabile in materia di Iva. In tale ambito fino all’adozione del Regolamento n. 282/2011 non esisteva una definizione positivizzata di stabile organizzazione, sebbene già nella VI direttiva si facesse riferimento al “centro di attività stabile”. A tale carenza ha supplito la giurisprudenza della CGE la quale – al fine di risolvere le problematiche sorte soprattutto sulla territorialità delle prestazioni di servizi nonché sulla spettanza del diritto al rimborso e sulla imponibilità delle operazioni fra casa madre e stabile – ha elaborato nel corso degli anni una compiuta nozione di s.o. nell’Iva, affermando che “affinché un centro d’attività possa essere utilmente preso in considerazione, in deroga al criterio preferenziale della sede, come luogo delle prestazioni di servizi di un soggetto passivo, è necessario che esso presenti un grado sufficiente di permanenza e una struttura idonea, sul piano del corredo umano e tecnico, a rendere possibili in modo autonomo le prestazioni di servizi considerate”16. La nozione di s.o. elaborata dalla CGE è ora positivizzata nell’art. 11 del Regolamento Sul punto anche lo stato italiano si è adeguato. Corte di Giustizia, sentenza FCE Bank, causa C- 210/04. In particolare secondo la Corte “l’utilizzazione dei Modelli indicati nel catalogo contenuto nell’art. 5 della Convenzione-tipo dell’Ocse nella materia dell’Iva non può avvenire sic et simpliciter” in quanto le due “categorie” perseguono finalità differenti. 16 Corte di Giustizia, sentenza Berkholz, causa C-168/84. 14 15 6 n. 282/2011, il quale ai paragrafi 1 e 2 – rispettivamente ai fini di individuare il luogo in cui si intendono effettuate le prestazioni rese e effettuate (artt. 44 e 45 della Direttiva)17 - definisce la s.o. come “qualsiasi organizzazione, diversa dalla sede dell’attività economica di cui all’art. 10 del presente regolamento, caratterizzata da un grado sufficiente di permanenza e una struttura idonea in termini di mezzi umani e tecnici atti a consentirle: - “di ricevere e di utilizzare i servizi che le sono forniti per le esigenze proprie di detta organizzazione” - o “di fornire i servizi di cui assicura la prestazione”. È così confermato che la presenza di una struttura idonea (a ricevere e utilizzare i servizi o a fornirli) e la permanenza nel tempo di detta struttura (sotto il profilo temporale) sono i due elementi costitutivi della s.o. Iva. Da quanto sin qui esposto è evidente che – ferma restando la diversità delle nozioni - tanto in materia di imposte dirette quanto in ambito IVA l’individuazione di una stabile organizzazione è anzitutto una questione di fatto18 legata all’atteggiarsi dei modelli di business dei gruppi; di talché la verifica della sua esistenza necessita di un’indagine caso per caso. Invero sia l’art. 5 del Commentario sia l’art. 162 del Tuir descrivono le circostanze di fatto in presenza delle quali essa si individua o, se si preferisce, indicano gli elementi costitutivi della fattispecie. In altri termini dette disposizioni determinano i fatti che debbono essere provati perché si verifichino gli effetti giuridici ivi previsti. In ambito IVA, poi, il giudizio sulla “idoneità” della struttura è un giudizio sul fatto, essendo rimesso all’interprete /giudice il compito di operare una valutazione caso per caso in ragione dell’attività concretamente svolta dalla società non residente nel territorio dello Stato. Non esistendo un livello minimo predefinito di consistenza della struttura al di sotto del quale possa ritersi automaticamente non configurabile una s.o., potrebbe ritenersi “idonea” a configurare una s.o. anche una struttura La definizione del par 2 è funzionale anche all’individuazione dei debitori di imposta (192bis) In tal senso cfr. AMATUCCI, F., Principi e nozioni di diritto tributario, 2a ed., Torino, 2011, p. 129, nt. 24, secondo l’A. «non esiste uno schema standard di stabile organizzazione. Per individuarla, infatti, é necessario valutare la realtà imprenditoriale del soggetto non residente che si avvale di risorse materiali e personali in Italia». 17 18 7 caratterizzata da un apporto assai esiguo del mezzo umano o tecnico ma in ogni caso sufficiente in relazione al tipo di attività svolta dal non residente a consentire alla s.o. di prestare i relativi servizi (fornire i servizi di cui assicura la prestazione). Basti pensare alle attività volte alla prestazione di servizi ad elevato contenuto/apporto personale (creazioni di siti web di software rese da imprese). 1.1 La c.d. “stabile occulta” con particolare riferimento alla stabile organizzazione personale Trattandosi di una questione di fatto, in numerosi casi la sussistenza di una s.o. è dubbia. Ciò accade frequentemente nelle ipotesi di cd. stabile organizzazione occulta, termine di creazione puramente giurisprudenziale con il quale ci si riferisce a situazioni in cui l’Amministrazione ritiene sussistente una stabile organizzazione (materiale o personale) in presenza di installazioni occultate o dissimulate dal contribuente. Così ad es. si sono ravvisate stabili organizzazioni occulte in fattispecie caratterizzate dalla presenza di un soggetto estero, il quale: - opera in Italia senza aver nessuna presenza formale e limitandosi ad inviare nel nostro Paese personale dipendente; - possiede un ufficio di rappresentanza particolarmente strutturato; - ha in Italia una società controllata ed esercita linee di business annidate in quest’ultima e «dirette» dal soggetto non residente, le quali sono appunto ritenute s.o. del non residente19. Una delle situazioni più controverse è quella dell’individuazione di una stabile personale, la quale - come detto - esiste a condizione che l’attività sia svolta attraverso il ricorso ad agenti o intermediari dipendenti dalla casa madre. Si ricorda che ai sensi dell’art. 5 del Commentario al Modello nonché dei commi 6 e 7 dell’art. 162 del T.u.i.r., perché ci sia una stabile personale occorre che un soggetto concluda Tale ultima ipotesi, la quale è peraltro quella più diffusa, si basa sulla contestazione dell’esistenza, all’interno di una società italiana autonoma, che non è certo una stabile organizzazione, di strutture e persone “occulte” nel senso di “non dichiarate come stabile organizzazione”. 19 8 abitualmente contratti (diversi da quelli di acquisto) in Italia in nome dell’impresa estera; mentre non c’è stabile organizzazione se l’impresa estera esercita attività mediante un commissionario o altro intermediario indipendente. Il thema probandum è, dunque, costituito dalla dipendenza o indipendenza dell’intermediario che agisce nell’altro Stato contraente. Tale indagine - da condurre caso per caso - deve essere effettuata alla luce del consolidato principio giurisprudenziale secondo cui l’accertamento dei requisiti della stabile organizzazione va effettuato con riguardo non tanto ai profili formali bensì soprattutto in relazione ai dati sostanziali espressi dall’assetto organizzativo presente nel territorio20. Ora, volendo scomporre la fattispecie, per affermare la sussistenza di una stabile organizzazione personale dovrà verificarsi e provarsi che: – vi sia un soggetto, residente o non residente, che conclude contratti nel territorio dello Stato in nome dell’impresa; – tale attività sia esercitata abitualmente da tale soggetto; – i contratti conclusi siano diversi dal mero acquisto di beni; – tale soggetto non sia un mediatore, un commissionario generale od un altro intermediario che goda di uno status indipendente che agisce nel contesto della sua ordinaria attività. È quindi necessario anzitutto che l’Agenzia, su cui incombe l’onere di provare i fatti costitutivi, dia la prova della circostanza che l’agente concluda contratti “in nome dell’impresa” estera. In proposito occorre da subito precisare che per i nostri Giudici di legittimità questa espressione va intesa nel senso che si deve «acclarare se l’agente operante in Italia abbia concluso contratti che vincolano l’impresa estera, indipendentemente dal fatto che quei contratti siano In tal senso v. ex multis Cass. 25.7.2002 n. 10925; Id. 6.4.2004, n. 6799; Id. 7.10.2011, n. 20597; Id. n. 1118/2013. In specie secondo la Corte “Ai fini del riscontro, da parte del giudice di merito, dell’esistenza di un’organizzazione stabile in territorio nazionale, sia essa di tipo "materiale" o "personale", è necessario - in altri termini - che le situazioni di fatto portate, in concreto, a conoscenza dell’Ufficio, e valutate - come elementi a carattere presuntivo ed indiziario - nella loro globalità, denotino il fine dei soggetti operanti in territorio italiano di esercitare - in modo non sporadico o occasionale - un’attività economica, che può consistere anche nella sola conclusione di contratti in nome e nell’interesse di una società non residente” (così Cass. n. 1118/2013 che sul punto rinvia a Cass. n. 7682/02, n. 10925/02, n. 20597/11). 20 9 stati effettivamente conclusi “a nome dell’impresa» 21 e che questo elemento «ben possa desumersi - in fatto - anche alla stregua di elementi a carattere indiziario e presuntivo, purché siffatti elementi rivelatori dell’esistenza di una stabile organizzazione vengano, in concreto, “considerati globalmente e nella loro reciproca connessione” (Cass. 10925/02, in motivazione)»22. In ordine agli elementi indiziari un aspetto connesso e allo stesso tempo controverso è quello della rilevanza da attribuire alla partecipazione alle trattative. Il paragrafo 33 del Commentario, come modificato nel corso 2004, sul punto ora precisa che la partecipazione alla fase delle trattative da parte di agenti non muniti di poteri di rappresentanza non è elemento sufficiente a costituire una stabile organizzazione personale. Il Governo italiano, tuttavia, intervenendo in sede di revisione del Commentario, ha affermato che nell’interpretazione del Modello OCSE l’Italia non può disattendere quella data dai propri giudici nazionali, i quali - muovendo dalla precedente formulazione del Commentario ed in specie dal rilievo che “Tale potere (quello di concludere contratti in nome dell’impresa n.d.r.), secondo il Commentario (sub art. 5, par. 5, punto 33), non deve essere inteso nel senso di una rappresentanza diretta, ma comprende anche tutte quelle attività che abbiano contribuito alla conclusione di contratti, anche se gli stessi siano stati conclusi in nome dell’impresa. …”23 – hanno ritenuto la partecipazione alle trattative, sotto le direttive della società estera, elemento idoneo ad integrare la fattispecie della V. Cass. civ. sez. V, sent., 9 aprile 2012, n. 3769, Boston Scientific International B.V. Cfr. Cass. n. 1118/2013, Smi San Marino Investimenti Sa. Muovendo da tale assunto la Corte ritiene nel caso la sentenza di appello affetta da vizio motivazionale, in quanto il Giudice del gravame - pur avendo “avuto cura di indicare analiticamente siffatti elementi … omissis … individuandoli, quanto meno, nei seguenti: a) svolgimento di un’attività contrattuale di rilievo economico significativo in Italia, ad opera della [società estera]; b) spendita del domicilio fiscale in Italia, da parte di detta società; c) perdurante residenza e domicilio in [Italia] del legale rappresentante e del procuratore ad acta della [società estera]; d) titolarità, in capo alla contribuente, di conti bancari e di dossier titoli in aziende di credito italiane; e) transito su detti conti di poste economicamente rilevantissime, connesse all’attività della società estera ….” - ha omesso “una attenta valutazione unitaria e globale” “operando un acritico richiamo, sul punto, alla decisione di prime cure”. 23 Cfr. Cass. sez. V, sent. 25 luglio 2002 n. 10925. In essa la Corte - al fine di corroborare la rilevanza dell’elemento sostanziale - rinvia ad “Autorevole dottrina internazionale” la quale “non ha mancato di sottolineare che l’espediente di separare la materiale attività di conclusione di contratti da quella di formale stipulazione degli stessi ("split-up of business responsibilities on the hand and legal authority on the other") può essere considerata come elusione fiscale (tax circumvention) dovendosi ritenere prevalente, per l’applicazione del paragrafo 5, la sostanza sulla forma. 21 22 10 stabile organizzazione personale24. In esito a tale intervento del Governo non c’è univocità nella giurisprudenza di legittimità e di merito sulla rilevanza della partecipazione alle trattative ai fini dell’individuazione di una s.o. Invero, secondo un orientamento della Suprema Corte penale la partecipazione alle trattative è e rimane un elemento indiziario sufficiente a configurare l’esistenza di una S.O. personale, giacché “nessuna rilevanza può infatti essere riconosciuta alla recente modifica dell’art. 5 del commentario Ocse, in virtù della quale la sola partecipazione a trattative contrattuali nell’interesse della società straniera non è sufficiente per individuare nella struttura sussidiaria una stabile organizzazione, in quanto, a parte il valore non normativo del commentario, tale modifica ha costituito oggetto di riserva espressa da parte del Governo italiano, secondo la quale nell’interpretazione del modello di convenzione l’Italia non può disattendere quella data dai propri giudici nazionali” (Cass. civ. sez. 5 n. 17206 del 28.7.2006 (rv. 592321) conf. n. 7689 del 2002 Rv. 554720 e più di recente sez. 5 n. 3889 del 15.2.2008)” 25. Posizione simile è stata assunta anche da taluna giurisprudenza della Sezione V, secondo la quale “non hanno alcun rilievo le modifiche al paragrafo 33 del Commentario, introdotte nel 2004, … omissis…. Infatti, anche a prescindere dall’osservazione inserita dal Governo italiano (par. 45.10 del Commentario), secondo cui, nell’interpretazione del Modello di Convenzione, l’Italia non può disattendere quella data dai propri giudici nazionali, pare opportuno rilevare che, comunque, anche nell’ottica della modificazione, resta ferma la nozione di “stabile organizzazione personale” in senso formale prevista dal modello Ocse, nell’interpretazione della giurisprudenza di questa Suprema Corte” 26. In tal senso Cass., n. 10925/2002, secondo la quale “In altre parole, l’accertamento del potere di concludere contratti deve essere riferito alla reale situazione economica, e non alla legge civile, e lo stesso può riguardare anche singole fasi, come le trattative, e non necessariamente comprendere anche il potere di negoziare i termini del contratto”. 25 V. Cass. pen., sez. III, sent. 28 luglio 2010, n. 29724. 26 V. Cass. sez. V, n. 8488/2010, cit. Nel caso la questione riguardava i poteri di rappresentanza e il ruolo nelle trattative di un agente non indipendente (libero professionista), il quale – pur non essendo dotato di poteri di rappresentanza - doveva uniformarsi agli ordini e alle direttive di detta società estera. Secondo la difesa detto professionista non poteva costituire una stabile organizzazione, poiché la mera partecipazione alla fase delle trattative, senza formali poteri di rappresentanza, non era idonea a costituire, appunto, una stabile organizzazione. I giudici di legittimità, accogliendo l’approccio sostanzialistico adottato anche dal commentario del modello OCSE, hanno affermato che al fine della configurabilità di un “agente dipendente” - laddove l’agente compia atti essenziali nella conclusione di contratti di fatto vincolanti per l’impresa - i 24 11 Diversa sembra essere la posizione assunta da taluna giurisprudenza di merito, la quale – dopo precisato che il Commentario Ocse è una “fonte interpretativa che non può non essere riconosciuta come di primaria rilevanza anche nel nostro Paese, che peraltro siede in tale organizzazione” - afferma che “Posto che questa Commissione condivide i principi enucleati in sede Ocse, si che non si ritiene sufficiente la partecipazione ad una trattativa perché si possa parlare della presenza di una stabile organizzazione personale (occorre che la partecipazione abbia una ruolo decisivo per la conclusione dell’affare e tale circostanza va provata dall’amministrazione finanziaria), nel caso di specie, sulla base dell’analisi dei rapporti contrattuali, anche tale partecipazione pare essere del tutto eventuale e non determinante. [...] In definitiva nelle attività indicate nel contratto non è in alcun modo ravvisabile il potere di concludere contratti, elemento cruciale per l’individuazione di una stabile organizzazione e la sola, eventuale, partecipazione agli incontri è, al contrario, un fattore che evidenzia al più il carattere ausiliario del servizio reso” 27. In realtà a ben vedere la Commissione non si discosta in concreto dal precedente orientamento di legittimità. Essa invero – pur affermando di condividere i principi enucleati in sede OCSE - dà un’interpretazione del Commentario sostanzialmente conforme alla suddetta giurisprudenza di legittimità, ravvisando l’elemento della partecipazione alle trattative di cui al par. 33 in un’attività di mera partecipazione agli incontri priva di rilievo al fine della conclusione dei contratti. In sostanza occorre guardare alle situazioni concrete, giacché vi possono essere molteplici modi di partecipare alle trattative che un’impresa estera sta conducendo con un cliente residente; con la conseguenza che, allorché la partecipazione sia scarsamente significativa e comunque non sia determinante per la conclusione dell’affare, è ragionevole escludere anche alla luce dei canoni interpretativi seguiti dalla giurisprudenza italiana la configurabilità di una S.O. personale 28. Per il configurarsi di una s.o. personale occorre che l’Agenzia dimostri la non indipendenza dell’agente e/o del commissionario29. poteri di rappresentanza devono essere alternativi all’ipotesi di effettiva partecipazione dell’agente alle trattative. Pertanto, per la Corte anche la partecipazione alle trattative, sotto le direttive della società estera, è elemento idoneo ad integrare la fattispecie della stabile organizzazione personale. 27 V. Commiss. Trib. Reg. Lombardia, sez. XXVIII, sent., 31 marzo 2011, n. 37. 28 Sul tema v. anche Cass. civ., sez. V, sent. 7 ottobre 2011, n. 20597, CEPU. 29 Sul tema v. Tundo, Stabile organizzazione personale e determinazione del reddito secondo le recenti direttive OCSE, in Rassegna Tributaria, 2011, 2, pag. 305. 12 Tale elemento id est l’esistenza di un vincolo tra agente e preponente va inteso e deve essere verificato sotto il profilo sia giuridico sia economico. In particolare l’indipendenza giuridica deve essere valutata in ragione dei poteri che l’agente può esercitare ed in relazione alle obbligazioni che egli può assumere nei confronti dell’impresa. Sotto il profilo economico occorre individuare il soggetto sul quale grava il rischio di impresa, in quanto si ritiene non esista indipendenza economica laddove tale rischio ricada sull’impresa preponente. Ulteriore elemento che occorre valutare al fine di definire l’agente quale dipendente o meno è quello previsto dall’art. 162, comma 7, del Tuir, ai sensi del quale non costituisce stabile organizzazione dell’impresa non residente il solo fatto che essa eserciti nel territorio dello stato la propria attività per mezzo di un intermediario (mediatore, commissionario generale, etc.). Si ritiene infatti che l’indipendenza dell’agente sia presunta nel caso in cui quest’ultimo - oltre ad essere giuridicamente indipendente ovvero non agisca in nome del soggetto (come accade nelle ipotesi di rappresentanza indiretta, quali ad es. mediatore ovvero commissionario) – agisca nell’ambito delle proprie attività ordinarie 30. 1.2 La soggettività passiva della stabile organizzazione e la determinazione del reddito ad essa imputabile Detto ciò sugli elementi costitutivi della nozione di stabile organizzazione occorre soffermarsi sulla soggettività passiva della S.O. ai fini delle imposte sui redditi e Il rapporto di agenzia – che è di natura autonoma – non è incompatibile con la soggezione dell’attività lavorativa dell’agente a direttive ed istruzioni, con l’obbligo dell’agente di visitare e di istruire gli altri collaboratori, con il fatto che il preponente si avvalga di una pluralità di agenti organizzati gerarchicamente fra loro, con l’obbligo del preponente di rimborsare talune spese sostenute dall’agente e con l’obbligo dell’agente di riferire quotidianamente al preponente. Sul punto si segnala la sentenza della Suprema Corte n. 3769/2012,nela quale i Massimi Giudici hanno escluso che in tal caso ricorra una s.o. in ragione fra l’altro del fatto che era quest’ultima a rispondere dei propri costi e dunque ad assumere in proprio il rischio d’impresa. V. anche Cass. n. 3773/2012. 30 13 sulla sua alterità rispetto alla casa madre, nonché sul fatto che la s. o. costituisce una “particolare modalità di produzione” del reddito d’impresa. Il tentativo di definire i contorni ricostruttivi ed applicativi della figura della S.O., certamente rilevante nel sistema delle imposte, appare risalente 31. La dottrina che si è occupata nel tempo dell’argomento, talvolta ha valorizzato il profilo dell’«organizzazione » 32 o quello della «idoneità produttiva » distinta rispetto a quella della casa madre 33; talaltra, ha osservato che il tentativo di sovrapporre fattispecie «civilistiche» al concetto di stabile organizzazione dava esiti incompleti od imperfetti 34. Il tema della soggettività tributaria in materia d’imposte dirette della stabile organizzazione italiana di un soggetto non residente è tornato per così dire attuale in conseguenza di una sentenza della Corte di Cassazione35, nella quale il Supremo Per una sintesi delle diverse posizioni assunte dalla dottrina interna per quanto attiene alla soggettività passiva della stabile organizzazione, cfr. Viviano, La stabile organizzazione del non residente in Italia, Napoli, 2007, pag. 187 ss. 32 Si richiama la nota posizione di Micheli, «Soggettività tributaria e categorie civilistiche », in Opere Minori di Diritto Tributario, Milano, 1982, pag. 330 (già in Riv. dir. fin. sc. fin., 1977, I), il quale affermava, «Ora queste "stabili organizzazioni" sono mere "organizzazioni" che non assurgono ad autonomia patrimoniale e tantomeno a personalità giuridica. Esse sono un fenomeno di organizzazione nell’ambito dell’impresa eppure acquistano rilievo come punto di riferimento soggettivo per l’applicazione dell’imposta, cioè entrano a far parte del presupposto dell’imposizione ». Il dibattito è da ricondurre a quello più ampio, sulla «capacità giuridica » sul quale si veda Giovannini, Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Padova, 1996, pag. 160 ss., ove ampi riferimenti. 33 Cfr. D’Amati, Diritto Tributario, lineamenti legislativi, 1981, pag. 174; Nuzzo, «Questioni in tema di tassazione di enti non economici », in Rass. trib., 1985, I, pag. 128. 34 Con riferimento agli esiti contraddittori cui giungeva la dottrina che affermava la separata personalità giuridica della stabile organizzazione, relativamente ai concetti di «sede secondaria », «ramo d’azienda » e «azienda », cfr. Paradisi, voce «Stabile Organizzazione (dir. trib.) », in Enc. Giur. Treccani, pag. 2. Si rinvia, inoltre alle osservazioni di Gallo, «La stabile organizzazione », in Il diritto tributario nel rapporti internazionali, Roma, 1986, pagg. 154 e 158, Mayr, «La rettifica dei costi e dei ricavi ex artt. 53 e 56 del D.P.R. n. 597. Presupposti soggettivi », in Boll. trib., 1975, pag. 1249. 35 Cass. civ., Sez. Trib, 22 luglio 2011, n. 16106, sent. n. 16106 del 22 luglio 2011, in Riv. Dir. Trib., 2011, 183 e s. con nota di Bulgarelli F., La resistibile immedesimazione tra stabili organizzazioni e soggetti passivi dell’imposta sul reddito, ivi, p. 197; ulteriori commenti di M. PENNESI, M., Stabile organizzazione occulta: tassazione del reddito per «massa separata» (nota a Cass. civ., Sez. Trib, 22 luglio 2011, n. 16106), in Corriere Tributario, vol. 34, n. 38/2011, p. 3116, il quale osserva che «in materia fiscale non esiste la possibilità di un’applicazione analogica di altre norme e quand’anche si potesse prendere come riferimento civilistico quanto accade con i patrimoni destinati e separati ex art. 2447-bis c.c. o il concetto di attività separate, notorio in ambito IVA, non è tuttavia ravvisabile alcuna disposizione fiscale che consenta la tassazione in massa separata o soltanto la tassazione separata di redditi non appartenenti al soggetto dichiarante. L’unico esempio di tassazione separata riferibile alle società è relativo all’applicazione della norma in tema di redditi da CFC ex art. 31 14 Collegio ha ritenuto che, ai fini delle imposte dirette, la stabile organizzazione sia un autonomo centro d’imputazione di rapporti tributari riferibili a soggetto non residente e dotato di legittimazione sostanziale in merito ai rapporti tributari inerenti detto soggetto con la conseguenza che i redditi di una S.O. (in questo caso, “occulta”) possono essere accertati direttamente in capo alla società partecipata italiana, la quale de facto agisce come agente dipendente. Nel caso di specie, l’Amministrazione finanziaria riprendeva a tassazione le somme versate da una società italiana a titolo di royalties (per la concessione di licenze per l’utilizzazione di brevetti) ad alcune società tedesche ed austriache, tutte controllate da una holding tedesca (che controllava interamente la società italiana). I verificatori ritenevano che detta società italiana costituisse la stabile organizzazione del gruppo multinazionale e, conseguentemente, applicava l’art. 12, par. 4 e l’art. 12, par. 5 delle Convenzioni siglate dall’Italia rispettivamente con Austria e Germania, i quali derogano al principio dell’imponibilità delle royalties nello Stato di residenza del concedente nell’ipotesi in cui «il beneficiario effettivo dei canoni, residente in uno Stato contraente, eserciti nell’altro Stato contraente dal quale provengono i canoni [...] un’attività industriale o commerciale per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata»: in presenza di una S.O. la norma convenzionale prevede che le royalties risultino «imponibili in detto altro Stato contraente secondo la propria legislazione». L’aspetto innovativo della decisione consiste nel fatto che, nell’accogliere la ricostruzione prospettata dall’Ufficio, la Suprema Corte ammette che le contestazioni delle violazioni tributarie possano essere rivolte anche alla stabile organizzazione del soggetto estero. Il percorso argomentativo della Corte muove dalla disciplina della stabile organizzazione ai fini IVA, sulla base di questa disciplina in ragione della quale la s.o. è abilitata, quale autonomo centro d’imputazione di rapporti tributari riferibili a soggetto non residente, “all’effettuazione degli adempimenti correlativamente prescritti dalla legge e, anche all’eventuale richiesta di rimborso dell’eccedenza dell’Iva detraibile (cfr. Cass. nn. 3889/2008, 6799/2004)” afferma l’avvenuto riconoscimento in capo “alla stabile organizzazione, (di) soggettività fiscale di diritto 167 del T.U.I.R., una previsione di legge specifica che ha indicato in dettaglio i presupposti e le modalità di tassazione e come tale non suscettibile di applicazione a casi diversi dalle ipotesi di CFC 15 interno in relazione ai rapporti inerenti al soggetto non residente”. Posta questa premessa sulla scorta di una successiva premessa minore secondo la quale vi sarebbe una “sostanziale unitarietà, quanto agli aspetti strutturali, della nozione di stabile organizzazione” fra l’Iva e le imposte dirette conclude che “il criterio, sempre elaborato in relazione a controversie in materia di Iva, è estendibile al campo delle imposte dirette”. La conseguenza di tale ricostruzione è che l’atto impositivo deve essere emesso nei confronti della stabile organizzazione, e non della società non residente per quanto concerne i redditi costituiti in “massa separata” riferibili al soggetto non residente per il quale la residente opera come stabile organizzazione occulta, con la peculiarità che, in questa ipotesi, la determinazione dell’imposta dovuta dovrà seguire i principi propri dell’imposta sul reddito dei soggetti non residenti. In specie la Corte afferma “alla luce degli esposti rilievi, può dunque concludersi che – diversamente da quanto opinato dal giudice a quo – l’accertamento condotto dall’Agenzia sul reddito d’impresa, prodotto nel territorio dello Stato da società non residente tramite stabile organizzazione, deve essere svolta nei confronti di quest’ultima e non nei diretti confronti della società residente”. In estrema sintesi può dirsi che la questione sottoposta alla Suprema Corte era stabilire se fosse o no legittimo intestare un avviso di accertamento alla S.O. (o, più esattamente, ad una società controllata che era stata ritenuta inglobare una stabile organizzazione “occulta”) anziché alla società estera soggetto passivo del tributo. E la Corte la risolve nel senso della legittimità dell’accertamento intestato alla S.O. 36 Probabilmente preoccupata di dare risposta alla manifestata “…esigenza – valida tanto nel campo della imposizione Iva quanto in quella delle imposte dirette - a che i redditi prodotti dai soggetti non residenti ed imponibili nello Stato siano, in questo, agevolmente identificabili e controllabili”. 36 16 con ciò contraddicendo quanto sino ad oggi la stessa giurisprudenza37, cioè che l’atto andasse emesso nei confronti della società non residente38. Nel caso tuttavia non mi pare andassero fatti discorsi di soggettività passiva della s.o. rispetto al tributo 39, giacché per quanto vi possano essere obblighi strumentali attribuiti ex lege alla s.o., come si dirà di seguito, non sembra comunque sostenibile che la s.o. in ragione di detti obblighi divenga soggetto passivo del tributo, tenuto a presentare una propria dichiarazione dei redditi e per tale ragione assoggettato al controllo ed eventuale rettifica da parte dell’Ufficio. In altri termini, anticipando le conclusioni sul punto, la rettifica va svolta nei confronti del soggetto tenuto a presentare la dichiarazione in quanto appunto soggetto passivo. Invero ai fini delle imposte dirette argomenti di ordine sia letterale sia sistematico inducono senza alcun dubbio a ritenere che la stabile sia una figura che assume rilievo al limitato fine di collegare al territorio dello Stato il reddito d’impresa (con quanto ne consegue in termini di individuazione della per (così dire) “giurisdizione impositiva”). Sul piano letterale sia il disposto dell’art. 23, co. I, lett. e) del TUIR 40, sia quello dell’art. 73, co. 1 lett. d) del TUIR (secondo cui i soggetti passivi dell’imposta sono “le società e gli enti di ogni tipo non residenti”) depongono nel senso che l’unico soggetto passivo d’imposta resta il non residente e la stabile ne è un’articolazione interna priva di soggettività tributaria autonoma. Sotto il profilo sistematico è chiara la valenza del secondo comma dell’art. 73 Tuir, laddove Cfr. Cass, 7 marzo 2002, n. 3368, in tema di Iva, e Cass. 25 maggio 2992, n. 7682 per Irpeg, quest’ultima reperibile in Dir. prat. trib., 2003, II, 288, ove parimenti era individuata una stabile organizzazione all’interno della società controllata residente, in tale ipotesi, però, pacificamente la rettifica è stata svolta ai fini delle imposte dirette nei confronti della non residente, e ai fini dell’Iva, sia nei confronti della non residente, sia per essa nei confronti della società italiana ritenuta sua stabile organizzazione. 38 Questa impostazione peraltro potrebbe comportare - oltre che qualche problema “tecnico” nel caso per es. di stabile materiale costituita soltanto da beni/mezzi e non da componente personale più un aggravio che una semplificazione, giacché gli uffici devono adesso intestare e notificare accertamenti alla s.o. occulta residente ed alla società non residente. 39 in tal senso v. anche E. Della Valle, La soggettività tributaria della stabile organizzazione, in Libro dell’anno 2012, Enc. Giur. Treccani, p. 580. 40 Ove si fa espresso riferimento – ai fini della localizzazione del reddito – ai redditi prodotti dal non residente per effetto di attività esercitate nello stato mediante stabili organizzazioni 37 17 il legislatore – nello stabilire in via residuale e di chiusura che fra gli enti diversi dalle società soggetti all’IRES si comprendono “le organizzazioni non appartenenti ad altri soggetti passivi, nei confronti delle quali il presupposto dell’imposta si verifica in modo unitario e autonomo” - ha evidentemente dettato/individuato un requisito essenziale per la (una linea di demarcazione in tema di) soggettività costituito dalla non appartenenza ad altro soggetto. Tale aspetto/profilo è stato, peraltro, valorizzato anche dagli studi di teoria generale dei soggetti, secondo cui un’entità organizzata è soggetto di diritto – nel senso di centro autonomo di imputazione di effetti o rapporti giuridici – quando è padrona di sé e cioè non appartiene a terzi. Con particolare riferimento alle stabili organizzazioni in Italia è stato, poi, autorevolmente affermato che “…il problema della loro soggettività non si pone affatto, né concretamente né teoricamente, considerato che esse non hanno una vera e propria autonomia patrimoniale e, soprattutto appartengono al terzo-socio non residente da cui promanano …” 41, il quale è il vero soggetto passivo d’imposta. La s.o. può dunque definirsi come complesso attraverso cui l’impresa realizza tutta o parte della propria attività e che consente in ragione del collegamento formale di tassare i redditi prodotti nello Stato ove è localizzata. Il tratto essenziale della s.o. non è l’indipendenza dalla casa madre ma la possibilità di separare l’attività svolta dall’una da quella svolta dall’altra. Ad essa viene attribuita dal (e nel) sistema delle imposte dirette una rilevanza fiscale oggettiva, in quanto struttura dotata di autonomia economica, organizzativa e funzionale e che integra il presupposto per l’imposizione in Italia di un’attività economica svolta da un soggetto estero 42. Ma tale rilevanza è circoscritta agli obblighi strumentali alla determinazione del reddito di impresa, che è e rimane del non residente. In tal senso v. Gallo, Contributo all’elaborazione del concetto di “stabile organizzazione” secondo il diritto interno, in Riv. dir. Fin. e sc. fin. 1987, p. 388. 42 Cfr. Gallo, op. loc. cit., pag. 149; v. inoltre, Fantozzi, Diritto Tributario, Torino, 1991, pag. 234; Id., «La determinazione del reddito imponibile nei rapporti tra la società italiana e collegate all’estero », in Riv. not., 1979, pag. 790; Gallo, «La stabile organizzazione », in Rass. trib., quad. 2/86, pag. 194; Ceriana, «Stabile organizzazione e imposizione sul reddito », in Dir. prat. trib., 1995, I, pag. 657; Gallo, «Contributo all’elaborazione del concetto di stabile organizzazione secondo il diritto interno », in Riv. dir. fin., 1985, I, pag. 385. 41 18 In sintesi esse sono assunte ai fini fiscali come centri di legittimazione di conseguenze giuridiche minori, ma non assurgono a soggetti passivi d’imposta. Quanto alla questione oggetto della decisione sopra richiamata ne discende che la soggettività passiva ai fini dell’imposta resta distinta da altra soggettività cui sono connesse altre e diverse situazioni giuridiche. E per il fatto che il reddito è e resta del non residente, da assoggettare ad imposizione in Italia, sono in capo a quest’ultimo gli obblighi di dichiarazione con quel che ne consegue sul piano della rettifica 43. Invero, sotto altro profilo si ricorda che - mentre nel sistema previgente la riforma del 1973 la s.o. si configurava quale criterio di collegamento la cui semplice esistenza catalizzava l’imponibilità nei suoi confronti di tutti i redditi prodotti in Italia dal soggetto non residente, anche senza il tramite della s. o. esistente nello Stato (cfr. art. 145 T.U. n. 645/1958)44 - adesso ai sensi della vigente disciplina la stabile organizzazione si qualifica come “particolare modalità di produzione” del reddito d’impresa. In via di principio infatti assume rilievo impositivo nei suoi confronti solo il reddito ad essa direttamente connesso45. Dal combinato disposto degli artt. 1 e 31 del d.p.r. n. 600 del 1973, risulta che l’atto impositivo va emanato nei confronti di chi è tenuto a presentare la dichiarazione. Invero secondo l’art. 31 “gli uffici delle imposte controllano le dichiarazioni presentate dai contribuenti e dai sostituti di imposta” attribuendo al secondo comma la competenza all’accertamento all’ufficio nella cui circoscrizione è il domicilio fiscale del “soggetto obbligato alla dichiarazione”, e quest’ultimo è individuato dall’art. 1, del medesimo decreto - rubricato Dichiarazione dei soggetti passivi - che stabilisce che “ogni soggetto passivo deve dichiarare annualmente i redditi posseduti anche se non ne consegue alcun debito d’imposta” 44 Tale disposizione individuava “presupposto e soggetti passivi” dell’imposta sulle società nel “ possesso di un patrimonio o di un reddito da parte di soggetti tassabili in base al bilancio nonché di società ed associazioni estere operanti in Italia mediante una stabile organizzazione ancorché non tassabili in base al bilancio”. Sulla scorta di tale previsione normativa “società ed ente non residente” e sua s.o. costituivano una sorta di “endiadi”, nel senso che la presenza di una s.o. attraeva a tassazione i redditi comunque prodotti nel territorio dello Stato anche senza il suo tramite; si riconosceva quindi alla s.o. una forza di attrazione “piena” dei redditi percepiti dall’imprenditore estero anche se rinvenienti da altre fonti situate nello Stato. 45 LOVISOLO, La “funzione” della S.O. e i criteri generali di determinazione del suo reddito, con particolare riferimento ai rapporti con “la casa madre”, in Dir. prat. trib., 2014, cit.; nello stesso senso TUNDO, Ancora controverso il concetto di stabile organizzazione tra obiettiva incertezza, personalità giuridica e cooperazione internazionale, in GT, 10/2001, p. 901. In giurisprudenza v. Commissione tributaria regionale delle Marche, Sez. II, Sent. 24 giugno 2011 (10 giugno 2011), n. 44. 43 19 A riguardo appare opportuno ricordare brevemente che la s.o. produce l’effetto di sottrarre l’imposizione nello Stato estero di residenza e di radicarla nello Stato della s.o. in una situazione di astratta parità con le imprese locali. In tal senso depongono sia l’art. 7 del Modello OCSE 46 sia l’art. 23 del TUIR. Risulta cioè dalle citate disposizioni che la determinazione del reddito del non residente nello Stato dove ha sede la s.o. e le relative modalità d’imposizione derivano dalla funzione effettivamente svolta dalla s.o. L’art. 23, comma 1 lett. e) cit. t.u. 1986 n. 917 (e l’art. 151 che vi fa rinvio) sono espliciti nel considerare imponibile in Italia il reddito d’impresa del non residente (solo se) “derivante da attività esercitata nel territorio dello Stato mediante stabili organizzazioni”. Invero, se si considera (il quadro normativo costituito dal) la disposizione dell’art. 23, comma 2, lett. i, T.u.i.r., che prevede l’imponibilità in Italia delle royalties “indipendentemente” dal fatto che l’imprenditore non residente operi in Italia attraverso una s.o.; l’art. 151, comma 2, T.u.i.r., che prevede l’imposizione delle plusvalenze e minusvalenze realizzate dalle società non residenti “ancorchè non conseguenti attraverso la stabile organizzazione” , nonché la previsione secondo la quale il reddito d’impresa del non residente è assoggettato ad imposta nello Stato estero “ma soltanto nella misura in cui detti utili sono attribuibili alla s.o.” (art. 7, comma 1 Mod. OCSE art. 23 lett. c) cit), (da tale quadro normativo) risulta evidente come alla s.o. vada imputato solo il reddito da questa effettivamente prodotto. Tale conclusione è confortata anche dall’art. 10 comma quarto del Modello Ocse, il quale nell’individuare la modalità di tassazione dei dividendi esclude che essi si considerino di fonte estera (con conseguente inapplicabilità della norma convenzionale) alla duplice condizione che: Secondo il comma 1 dell’art. 7 del Modello OCSE “Gli utili di un’impresa di uno Stato contraente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che l’impresa non svolga un’attività industriale o commerciale nell’altro Stato contrante per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata. Se l’impresa svolge in tal modo la sua attività, gli utili dell’impresa sono imponibili nell’altro Stato, ma soltanto nella misura in cui detti utili sono attribuibili alla stabile organizzazione”. 46 20 a) il beneficiario effettivo nello Stato contraente ove ha sede la società che li distribuisce eserciti un’attività industriale o commerciale per mezzo di una s.o. ivi situata b) la partecipazione generatrice dei dividendi si ricolleghi effettivamente a tale s.o.” 47. Tale aspetto assume assoluta rilevanza in sede di determinazione del reddito della s.o. occulta, giacché dovrebbe individuarsi il reddito effettivamente ascrivibile all’attività della s.o. Da questo discende in maniera, per così dire, speculare che il reddito (anche d’impresa) del non residente che operi in Italia in totale mancanza di una s.o., oppure anche in presenza di una sua s.o. ma prodotto direttamente dalla “casa madre” (senza l’intervento della sua s.o.), è assoggettabile ad imposta in Italia ma, per così dire, “ad altro titolo”, ossia non quale reddito d’impresa ma a seconda dei casi quale reddito di capitale, reddito fondiario o reddito diverso48. Per concludere su questo punto occorre ricordare che gli Stati appartenenti all’OCSE ricorrono a due interpretazioni differenti del citato art. 7, comma 1, del Modello, al fine di attribuire i profitti alle stabili organizzazioni: a) Approccio dell’entità funzionalmente separata (c.d. “functionally separate entity” approach). Questa impostazione, che è preferita anche dalla stessa OCSE, si limita a stabilire i limiti quantitativi dei profitti che possono essere tassati dallo Stato Contraente che ospita la S.O. Pertanto, i profitti imputati e tassati alla S.O. sono Analogamente i commi 4 e 5 dell’art. 11, al fine dell’imposizione degli interessi introducono come elemento discriminante il fatto che “il credito degli interessi si ricolleghi effettivamente ad essa” (la s.o., n.d.r.) ed ai fini della provenienza degli interessi mettono ancora in evidenza l’esclusiva riferibilità alla stabile allorché stabiliscono che “gli interessi stessi si considerano provenienti dallo Stato in cui è situata la stabile organizzazione” “ quando il debitore degli interessi, sia esso residente o no di uno Stato contraente, ha in uno Stato contraente una stabile organizzazione per le cui necessità viene contratto il debito sul quale sono pagati gli interessi e tali interessi sono a carico della stabile organizzazione”. 48 Più di recente, la Suprema Corte ha rilevato che «la qualificazione di reddito quale reddito d’impresa dipende dal requisito soggettivo dell’esercizio di impresa commerciale da parte del percipiente, a prescindere da qualsiasi altro diverso requisito (essendo la ricorrenza della stabile organizzazione semplice condizione di localizzazione del reddito medesimo e di sua imponibilità in Italia) ed, inoltre, che, per poter scindere (e diversificare nel trattamento fiscale) le componenti del reddito d’impresa di un soggetto straniero e privo di autonoma organizzazione nel territorio dello Stato, è necessaria una specifica disposizione di legge». Così, Cass. civ., Sez. Trib., 21 aprile 2011, n. 9197, in banca dati Fisconline, con nota di COMUZZI, P. – CAMELI, N., Il reddito d’impresa prevale sul reddito di capitale anche in assenza di una stabile organizzazione in Italia? Un primo commento alla sentenza n. 9197 del 21 aprile 2011 della Corte di Cassazione che ha avuto effetti importanti sul principio del trattamento isolato del reddito, in Novità Fiscali, vol. 2, n. 11/2011, p. 8 ss 47 21 quelli che ci si potrebbero aspettare se si trattasse di una distinta e separata impresa che opera in maniera del tutto indipendente rispetto all’impresa di cui fa parte. b) Approccio dell’attività d’impresa rilevante (c.d.”relevant business activity” approach). Siffatto approccio, invece, considera profitti dell’impresa solo i profitti dell’attività commerciale in cui una stabile organizzazione ha una determinata partecipazione attiva. In altre parole, in base al primo approccio è necessario identificare le funzioni che la stabile organizzazione svolge nell’ambito dell’impresa e, conseguentemente, attribuire ad essa i beni, il rischio ed il capitale dell’impresa relativi a tali funzioni. Adottando il secondo approccio, invece, i profitti della stabile organizzazione sono limitati a quelli effettivamente guadagnati dall’impresa: quindi, se l’impresa nel suo complesso è in una situazione di perdita, allora la stabile organizzazione risulta proporzionalmente in perdita. Secondo l’OCSE il “relevant business activity” approach è preferibile, in quanto – andando ad isolare la S.O. dal resto dell’attività dell’impresa - rimuove qualsiasi applicazione del principio di attrazione. 2. La disciplina del cd. transfer pricing secondo l’ordinamento italiano. La disciplina dei prezzi di trasferimento - contenuta nell’articolo 110, comma 7, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917- prevede che gli utili o le perdite provenienti dalle transazioni effettuate con le persone giuridiche del medesimo gruppo fiscalmente residente all’estero siano apprezzate sulla base del “valore normale” dei beni o servizi che ne costituiscono oggetto, in base alla definizione di cui all’articolo 9 dello stesso TUIR 49. Il testo dell’ articolo 110, co. 7, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 71 è il seguente: “I componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva aumento del reddito; la stessa disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali "procedure amichevoli" previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi. La presente disposizione si applica anche per i beni ceduti e i servizi prestati da società non residenti nel territorio dello Stato per 49 22 In sintesi questa diposizione, in deroga la principio di rilevanza, ai fini fiscali, dei corrispettivi stabiliti fra le parti, introduce una presunzione secondo la quale si applica il valore normale alle transazioni poste in essere tra un’impresa residente ed una società non residente, qualora le stesse appartengano al medesimo soggetto economico50. La finalità della disposizione è evidentemente quella di evitare la delocalizzazione del reddito, ovvero il trasferimento di materia imponibile dall’Italia verso l’estero attraverso l’artificiosa fissazione, nelle operazioni “intragruppo”, di corrispettivi diversi da quelli di mercato. Le problematiche interpretative scaturenti da tale disposizione sono molteplici e attengono al profilo soggettivo (per es. l’individuazione sia dell’ampiezza della nozione di controllo sia della stessa nozione di società non residente) al piano oggettivo (per es. l’estensione anche alle transazioni poste in essere tra imprese residenti; l’individuazione del metodo del confronto (interno o esterno) per definire il valore normale, l’onere della prova) per dirne alcuni. Non potendo affrontare in maniera organica l’intero tema e le connesse problematiche mi limiterò ad affrontare alcuni aspetti cogliendo le sollecitazioni rinvenienti da recenti pronunce giurisprudenziali. 2.1 Gli orientamenti giurisprudenziali sull’onere della prova nel transfer pricing Un tema particolarmente rilevante è quello della individuazione del soggetto sul quale grava l’onere di provare il valore pattuito dalle parti diverga da quello normale. Sotto questo profilo, a differenza di altre disposizioni con finalità anti-elusive, la norma in esame sembra introdurre una presunzione assoluta, e non relativa. conto delle quali l’impresa esplica attività di vendita e collocamento di materie prime o merci o di fabbricazione o lavorazione di prodotti. 50 La ratio della deroga si spiega in ragione del fatto che, nel caso di scambi transnazionali tra soggetti autonomi ma sottoposti al medesimo potere decisionale, i corrispettivi relativi ai predetti scambi risultano scarsamente attendibili e possono essere manipolati in danno del fisco italiano. Di qui la sostituzione per volontà di legge dei corrispettivi pattuiti tra le parti con quelli determinati in base al valore normale, sempre che da tale sostituzione possa derivare un concreto vantaggio per il fisco italiano, che la norma di legge individua in un aumento del reddito. Cfr. Menti, in Diritto e pratica tributaria, 2014, 1, p. 35. 23 Detta affermazione va tuttavia correttamente intesa, nel senso che se, da una parte, è vero che al ricorrere delle condizioni previste dalla disposizione i beni o servizi vanno valutati obbligatoriamente al valore normale, dall’altra altrettanto vero è che spetta all’Amministrazione finanziaria, nell’ipotesi di accertamento, dimostrare che il valore pattuito dalle parti diverga da quello normale. Solo dopo che l’A.f. ha assolto detto onere, dimostrando che prima facie l’impresa italiana non ha rispettato il criterio del valore normale, spetta al contribuente provare la correttezza dei procedimenti adottati. In tale sede, è evidente che (in genere) le contestazioni vertono non sull’adozione del criterio del valore normale ma sulla correttezza del procedimento a tal fine adottato. Tale tesi trova conforto nella risalente giurisprudenza della Cassazione51. Alla luce di talune recenti sentenze della Corte pare tuttavia opportuno fare il punto sulla situazione. Invero, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 22023/06 afferma che l’onere della prova della ricorrenza dei presupposti dell’elusione grava sull’Amministrazione Finanziaria e che il contribuente non è tenuto a dimostrare la correttezza dei prezzi di trasferimento applicati, se non dopo che “l’Amministrazione fiscale abbia essa stessa provato prima facie il non rispetto del principio del valore normale”. In particolare, nella sentenza - concernente un rapporto commerciale tra la società controllata italiana e la capogruppo americana nel quale l’Agenzia ipotizza “un costo maggiore di quello normale da stabilire secondo le previsioni dell’art. 76 del T.U.I.R. (D.P.R. n. 917/1986) in quanto la F. S.p.a., ossia la società controllata, si sarebbe accollata delle spese di manutenzione delle vetture nuove, consentendo una riduzione dell’imponibile in Italia e conseguente realizzazione di maggiori profitti nel paese di residenza della società estera” – la Suprema Corte rigetta il ricorso dell’Amministrazione in quanto l’ufficio non aveva provato né che la fiscalità in Italia era superiore né aveva determinato il valore normale verificando se vi fosse una differenza fra i corrispettivi pagati (in misura superiore) ed il valore normale. 51 V. Cassazione, sentenza 13 ottobre 2006, n. 22023; Id. sentenza 16 maggio 2007, n 11226. 24 I Giudici di legittimità giungono a tale conclusione sulla base articolato percorso argomentativo, fondato non soltanto sullo “scopo della disciplina dettata dall’art. 76, comma 5, del TUIR (che regola il cosiddetto transfer pricing)” (ravvisato nella esigenza di “evitare che all’interno del gruppo vengano posti in essere trasferimenti di utili tramite applicazione di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti onde sottrarli alla tassazione in Italia a favore di tassazione estere inferiori”) e sulla natura di “clausola antielusiva” della disposizione (“che trova, non solo, radici nei principi comunitari in tema di abuso del diritto […] ma anche immanenza in diversi settori del diritto tributario nazionale…”52) ma anche e soprattutto nel principio di libera concorrenza, come delineato nel rapporto OCSE del 1995, laddove è espressamente sottolineato che “laddove la disciplina di ciascuna giurisdizione nazionale preveda che sia l’Amministrazione finanziaria ad essere gravata dall’onere di provare le proprie pretese, il contribuente non è tenuto a dimostrare la correttezza dei prezzi di trasferimento applicati, se non dopo che l’Amministrazione fiscale abbia essa stessa provato prima facie il non rispetto del principio del valore normale”. Con la sentenza del 16 maggio 2007, n 11226 la Corte di Cassazione ulteriormente precisa che l’Amministrazione deve preliminarmente accertare che l’impresa abbia tratto profitto dalle transazioni poste in essere con una società consociata, spostando la redditività in uno Stato che prevede una tassazione più favorevole. Solo dopo avere constatato ciò, la stessa Amministrazione deve verificare la congruità del valore dei corrispettivi delle operazioni 53. Nella giurisprudenza di merito v. Commiss. Trib. Prov. Emilia-Romagna Modena Sez. I, Sent., 13-01-2014, n. 21. Secondo la Commissione l’articolo 110, comma 7, così come le altre norme specificamente dirette a impedire il dirottamento di flussi reddituali verso Paesi a fiscalità agevolata (articolo 110, commi 10, 11 e 12, D.P.R. n. 917 del 1986, articoli 167 e 168), hanno la finalità di evitare che, mediante fenomeni come l’alterazione del prezzo di trasferimento, l’Erario italiano abbia a subire comunque un concreto pregiudizio. In altri termini, "l’applicazione delle norme sul transfer pricing non combatte l’occultamento del corrispettivo, costituente una forma di evasione, ma le manovre che incidono sul corrispettivo palese, consentendo il trasferimento surrettizio di utili da uno Stato all’altro, sì da influire in concreto sul regime dell’imposizione fiscale". 53 In detta sentenza inoltre la Suprema Corte, richiamando il precedente orientamento (sentenza 13 ottobre 2006, n. 22023), ribadisce l’applicabilità alle vendite internazionali dell’art. 11 della Convenzione di Vienna dell’11 aprile 1980 - resa esecutiva con Legge 11 dicembre 1985, n. 765 - a norma del quale “un contratto di vendita non necessita di essere concluso o provato per iscritto e non è sottoposto ad alcun altro requisito di forma. Esso può venir provato con ogni mezzo, anche per testimoni”. 52 25 Tale orientamento – come anticipato - appare ormai superato da un diversa e più recente posizione della Suprema Corte, la quale ha da ultimo ritenuto che “La disciplina italiana del transfer pricing, come negli altri Paesi, prescinde dalla dimostrazione di una più elevata fiscalità nazionale. Se si vuole, la disciplina in parola rappresenta una difesa più avanzata di quella direttamente repressiva della elusione. Elusione che, per tale ragione, non occorre dimostrare. E questo, appunto, perché la disciplina di che trattasi è rivolta a reprimere il fenomeno economico in sé. Difatti, tra gli elementi costitutivi della fattispecie repressiva del transfer pricing di cui dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma 5, non si rinviene quello della maggiore fiscalità nazionale. Non occorre, si ripete, provare la elusione. E’ pertanto necessario, da parte dell’Amministrazione, soltanto dimostrare l’esistenza di transazioni tra imprese collegate”54. Per quanto concerne poi l’onere di provare la non congruità rispetto al valore normale del prezzo praticato dalle parti, i Giudici di legittimità – dopo avere subordinato l’onere della prova da parte del contribuente alla circostanza che “l’Ufficio abbia dato conto di taluni elementi di irrealtà del valore dedotto”55 - con la decisione n. 10739/2013 affermano tout court che l’Amministrazione deve “ soltanto dimostrare l’esistenza di transazioni tra imprese collegate. Spetta invece al contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova di cui all’art. 2697 c.c., dimostrare che le transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali à sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3” 56. Per tale motivo la Corte – verificato che “… nel caso concreto, l’Amministrazione aveva evidenziato come la novità del marchio, oltreché l’assenza di spesa pubblicitaria a sostegno dello stesso, ecc., deponessero nel senso della eccessività del costo - dedotto a titolo di pagamento della privativa” – afferma che “La CTR, quindi, non ha correttamente applicato le disposizioni, laddove, dal assolvimento di un inesistente onere della prova posto mancato a carico dell’Amministrazione, ha fatto derivare la deducibilità del costo”. Cfr. Cass., sentenza n. 10739/2013. In particolare nelle sentenze n. 9917 del 2008 e n. 19489 del 2010 la Cassazione ritiene che “poiché trattasi di provare una deduzione, spetta al contribuente ex art. 2697 c.c., dimostrare, quando l’Ufficio abbia dato conto di taluni elementi di irrealtà del valore dedotto, l’ammontare delle spese per beni o servizi da dedursi”. 56 Cfr. Cass., sentenza n. 10739/2013. 54 55 26 2.2 Il “valore normale” nella giurisprudenza italiana nella determinazione dei prezzi di trasferimento tra le transazioni intra-gruppo. Altra questione complessa e delicata è costituita proprio dall’individuazione del valore normale. La disciplina relativa alla determinazione del valore delle transazioni infragruppo è dettata dagli artt. 110, comma 7, e 9, commi 3 e 4, del TUIR e dall’articolo 9 della Convenzione OCSE. Quanto alla nozione di valore normale, essa va identificata sulla base del combinato disposto degli artt. 110, co. 2, del Tuir – al quale rinvia il comma 7 in esame – e dell’art. 9 del TUIR, a sua volta richiamato dal primo (art. 110, co. 2). In particolare ai sensi del comma 3 del citato art. 9 “Per valore normale si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni e i servizi sono stati acquisiti o prestati e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi …”. In particolare ai sensi del comma 3 dell’art. 9 del Tuir per valore normale, salvo quanto stabilito nel comma 4 per i beni ivi considerati, si intende: “il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi. Per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso. Per i beni e i servizi soggetti a disciplina dei prezzi si fa riferimento ai provvedimenti in vigore”. Detta disposizione recepisce il “principio di libera concorrenza” consigliato dall’OCSE (c.d. arm’s lenght principle), codificato all’art. 9 del Modello di convenzione OCSE, secondo cui trattasi del “prezzo che sarebbe stato concordato tra imprese indipendenti per operazioni identiche o similari a condizioni similari o identiche nel libero mercato”. 27 Dal combinato disposto delle norme di cui all’articolo 110 TUIR, comma 7, e all’articolo 9 del TUIR deriva, pertanto, che nella determinazione del valore normale si prescinde dal valore di mercato del bene o del servizio e si ha riguardo essenzialmente ai prezzi o corrispettivi praticati in media per i beni o servizi della stessa specie o similari; Esistono diversi criteri cui ricorrere per il calcolo del prezzo di libera concorrenza. Il legislatore nazionale privilegia quella del confronto dei prezzi, nel senso che l’individuazione del valore normale deve avvenire mediante un confronto e un raffronto tra operazioni connotate dal requisito della comparabilità 57; e solo allorché essa sia impraticabile, perché ad es. si tratta di un prodotto peculiare oppure di beni immateriali, operano gli altri criteri. In particolare dal dato letterale della disposizione di cui all’articolo 9, commi 3 e 4, si rinvengono due tipologie di metodi di confronto del prezzo per l’individuazione del “valore normale”: - la prima, definita “interna”, prevede che debba farsi riferimento, quale metodo di raffronto, ai listini ed alle tariffe del soggetto fornitore; la seconda (cd. “confronto esterno”), invece, prende, quale parametro di comparazione del valore normale del prezzo di una transazione tra imprese indipendenti, i listini e le mercuriali delle camere di commercio e le tariffe professionali58. In altri termini il confronto è interno quando la transazione che viene utilizzata per valutare quella oggetto di verifica è posta in essere tra una delle due imprese che ha posto in essere l’operazione oggetto di verifica ed un’altra impresa indipendente rispetto alle altre. Il confronto è esterno quando la transazione identificata nel libero mercato è posta in essere tra due imprese diverse rispetto a quelle oggetto di verifica che sono tra loro indipendenti. La preferenza nell’applicazione del metodo del “confronto di prezzo” per il confronto interno su quello esterno trova conforto anche nell’orientamento della Corte di Cassazione, la quale ha precisato che il criterio prioritario non possa essere Giovanni Rolle, “Il “valore normale” nella disciplina dei prezzi di trasferimento:mercato del cedente e requisito della comparabilità”, in “Il Fisco” n. 36 del 2014, p. 3566 58 Maria Grazia Ortoleva, “Il Transfer Pricing”, in Sebastiano Maurizio Messina, Maria Grazia Ortoleva e Giovanni Barbato, “Lineamenti di Fiscalità Internazionale”, (QuiEdit 2009), p. 124 57 28 che quello enunciato dalla seconda parte del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3, …. “. Secondo la Corte la norma imporrebbe all’Amministrazione di prendere in considerazione, nell’accertamento del reddito di impresa, in via principale, i “listini” e le “tariffe” del venditore dei beni o del prestatore di servizi a società dello stesso gruppo, tenuto conto anche degli sconti che il medesimo è usualmente disposto a praticare nel mercato di appartenenza. Solo in caso di inesistenza, di inapplicabilità, o di inattendibilità del listino o della tariffa, la medesima disposizione – prosegue la Corte - dispone di prendere in esame, in via subordinata, i “mercuriali” ed i “listini delle camere di commercio”, o le “tariffe professionali”59. Tale posizione non è condivisa da taluna dottrina, la quale ritiene che il metodo del confronto esterno soddisfi senz’altro più della comparazione interna il requisito dell’oggettività delle condizioni contrattuali e dell’inesistenza del dominio di una parte sull’altra60. 59 60 Cfr. Cassazione, sentenza n. 22010/2013. Cfr. Maisto, Il transfer princing nel diritto tributario italiano e comparato, Padova, 1985,p. 108. 29
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