LUIGI PACE Segni dal mare signos de luigi©pace Scrivere per vivere E con le parole disegnare spazi infiniti, paesaggi o cercare di rappresentare in modo semplice il colore naturale della vita. Narrare il “cammino” degli uomini, le gioie, le pene e il lento scorrere dell’esistenza e il destino delle anime. Rincorrere l’infantile aspirazione all’armonia. Così come l’artista della tavolozza attraverso il sapiente uso dei colori o il fotografo, mediante la comprensione della luce e la dovizia manuale, ricreano copie emozionanti della nuda realtà, chi scrive, utilizzando il linguaggio: iati, sdrucciole, tronche e rime, “restituisce” la compiutezza del creato. Affresca le pareti della fantasia raccontando i fatti umani che sempre più spesso nella quotidianità superano ogni superba fantasia. Scrivere per vivere. Vincere l’inespressivo candore del foglio. Animarlo con indelebili segni di vita. Narrare le storie buone degli umani viventi di quelli semplici e comuni oppure scatenare le più recondite fantasie, lasciandole arrampicare fin su nel cielo per poi farle esplodere come coloratissimi fuochi d’artificio. Scavare dentro l’anima e ripercorrere i sentieri più bui della memoria. Descrivere volti e voci dei mille incontri, apparentemente privi di significato. Donne e uomini spesso affaccendati nelle quotidiane cose, inconsapevoli della loro grandezza: molto spesso anime libere non ancora piegate al volere della moderna globalità del nostro tempo. Nelle notti e nei giorni del nostro tempo: in questo tempo. Ricordi clandestini e fiabe e poi ancora gioie e dolori dei tanti destini incerti. Inarrestabili memorie, frammenti non definitivamente ancorati all’oblio raccolti e fatti rivivere sulla carta, coscienti di essere di passaggio in questo straordinario viaggio che è la vita, e per questo la quasi spasmodica esigenza di lasciare segni di sé e tracce del nostro tempo. Perché scrivere rappresenta anche la possibilità di camminare in spazi temporali privi di margine, catturati dalle vertigini della libertà e viaggiare immobili cercando tra le righe l’impossibile frontiera del nulla. Attratti dal semplice passaggio di una esistenza. Fiumi di parole di cristallo che sgorgano pure dalle fonti del cuore. Carpire la luce intermittente dei concetti in fase embrionale, dare attualità alla promessa di un pensiero che sta per compiersi e, prima che si dissolva, renderlo immortale sulla riga di un foglio. Tendere la mano al fluire dei pensieri per poi, affamati dal tempo e improvvisamente ispirati, tentare di capire… l’agonia del mondo. Parole mai dette, ma scritte per raccontare di quegli occhi grigi, dei sorrisi e dei dolori, e di quelle mani tese in attesa di essere narrate. Ancora in questo tempo. Scrivere per ritrovare se stessi e riconoscersi dopo avere inutilmente vagato pieni di nostalgia nel già vissuto e fiabesco mondo nel quale si è stati re e regine tra i ricordi cari di fratelli e madri cadute nel tempo. Ricomporre attraverso la fantasia gli atti finali consumati nel grande teatro della vita mediante semplici segni grafici. Vincere la fissità della pagina bianca e, seppur con molti timori, percorrerla scivolando dolcemente verso le pendici insidiose del verbo. Rompere il silenzio e stabilire con gli altri una vicinanza. Timidamente avanzare verso altro e altre menti. Annusarsi per poi comprendersi e stabilire la necessaria complicità funzionale a com-prendere e rappresentare insieme parti della comédie humaine. Raccontare e dare luce alle ombre che, di ricordo in ricordo, riassumono al reale e prendono possesso della vita. Luigi Pace Luigi è nato a Catania ha 56 anni. Scrive e fotografa per diletto. Per mestiere viaggia, fa il ferroviere, ha studiato filosofia a Verona e vive a Mantova. E’ sempre innamorato di sua moglie Claudia, che ha conosciuto da ragazzino, e dei suoi figli, Emanuele e Giulia. A loro è dedicato questo testo. La famiglia di un siciliano convinto è molto allargata quindi la dedica si estende a Melina, Cristina, Annamaria, Antonella (la famiglia di Saro) e al resto: fratelli, sorelle, cugini, amici e…tutti compresi. 25 Dicembre 2014 Breve premessa Iniziare un libro di poesie con un racconto è inusuale, ma il motivo è importante. Ho conosciuto Saro (Rosario) quando adolescente accompagnai mia cugina Melina (Carmela) a Roma. Erano gli anni 70 non era conveniente lasciare andare da sola dalla Sicilia una giovane fanciulla a trovare il fidanzato che adempiva al servizio militare: mia zia d’accordo con mia madre decise che le avrei fatto compagnia. La calma e la pazienza di Saro nell’ascoltare gli altri mi colpirono in modo favorevole. La simpatia e l’affetto nacquero immediatamente. A 17 anni essere ascoltati e compresi lasciano segni mai più cancellabili. La filosofia contadina assorbita da suo padre lo rendevano già assennato nei suoi giovani anni. La capacità di raccontare e trasformare anche accadimenti insignificanti in eventi straordinari lo hanno reso unico. Le poesie, le letture e l’impegno sociale sono stati il suo pane. Saro ha insegnato lettere, semplicità e passione per decenni nella scuola media del suo paese. Saro ci ha lasciati da poco, per una improvvisa malattia, pochi mesi dopo la pensione. Tutto questo è molto triste. Gli ultimi mesi, quando combatteva contro il male, per telefono mi disse che stava mettendo a posto i suoi appunti e sviluppava racconti; vicende realmente accadute a San Giovanni di Galermo. Episodi riguardanti personaggi particolari e divertenti. Aneddoti che negli anni avevano rallegrato le sue giornate a scuola e stimolato la fantasia dei suoi alunni. - Bisognerebbe leggere 8 ore al giorno e scrivere per 2, ma sto facendo l’esatto contrario Mi disse in più di una circostanza. Desiderava pubblicarli e io gli ho promesso che l’avrei fatto a qualsiasi costo. Iniziò a mandarmi il primo racconto, gli altri non arrivarono in tempo. Questo testo rappresenta non solo il personale bisogno di lasciare tracce di poesie, ma l’indissolubile promessa fatta a Saro. Saro Aiello racconta: Don Ciccio, quannu chiovi? Era un fannullone. Non aveva mai lavorato, ma si vantava di aver fatto mille mestieri e di avere conseguito diversi titoli di studio. Si chiamava Francesco, ma tutti lo chiamavano don Ciccio. Il suo cognome non lo conosceva nessuno, o forse non interessava, perché era per tutti “don Ciccio, quannu chiovi?”. Oggi sembrerebbe uno strano cognome, ma intorno al 1930 non era così per i Sangiovannesi che ne conoscevano bene l’origine. Don Ciccio raccontava frottole, di quelle grosse e piene di fantasia. La più grossa era quella che si riteneva un grande meteorologo. I buoni Sangiovannesi vivevano di agricoltura: coltivavano la vite e l’ulivo nei fertili terreni lavici; le sciare offrivano fichi e fichidindia. Non c’era un quadratino di suolo che non desse frutto o legna per ardere il forno. Il più grande problema per i contadini era sempre lo stesso: la pioggia. Se non pioveva in agosto l’uva sarebbe avvizzita sulle viti e le olive non sarebbero ingrossate. Se, al contrario, pioveva in settembre l’uva si annacquava, i grappoli ammuffivano e dalle olive si spremeva tanta acqua e poco olio. Don Ciccio conosceva le esigenze dei contadini e cercava di aiutarli con previsioni vantaggiose: -Vedrete che dopo la metà di agosto pioverà. Guardate la Luna: ha il cerchio alla testa, pioverà, state tranquilli. Prima o dopo il cielo mandava giù un po’ di pioggia e don Ciccio se ne vantava: -A san Giovanni avete un vero “Barbanera”, ma non ve ne rendete conto! I contadini non gli davano importanza, né lo prendevano in giro, anche perché era il marito della maestra, dell’unica maestra del paese. Sua moglie, la maestra Concettina era una donna speciale, insegnava a leggere, scrivere e far di conto a ragazzi di diverse età, dai sei- sette anni, fino agli undici, tutti raccolti in una stessa classe. Non permetteva che i suoi alunni abbandonassero la scuola e li andava a cercare fino a casa e li invogliava a venire l’indomani perché il Comune mandava pane e marmellata e lei non lo avrebbe dato solo ai poveri, ma lo avrebbe diviso a tutti. Consentiva, però, ai ragazzi di assentarsi durante la vendemmia o la raccolta delle olive, anzi li incoraggiava ad aiutare i genitori e a contribuire al benessere della famiglia. Amava i ragazzi, li avrebbe seguiti tutto il giorno, ma quelli, finita la scuola si perdevano nei campi a cercare nidi di uccelli per catturare qualche merlo da allevare o si raccoglievano in gruppi nei quartieri per provare il carriolo sulle strade lastricate. Proteggeva i ragazzi perché il destino non le aveva permesso di proteggere le sue due bambine, morte di tubercolosi nei primi anni di vita. Quando stava male, chiedeva al marito di sostituirla a scuola, in modo che i ragazzi non restassero da soli. Era quello il momento in cui don Ciccio manifestava la sua grande cultura e imponeva la sua autorità sui poveri ragazzi. Scriveva alla lavagna il numero uno, seguito da sei, nove , dodici zeri e poi ordinava con tono imperioso: -Peppino, leggi! -Don Ciccio, non riesco. -Sei un pecorone! Più i ragazzi non riuscivano a leggere i milioni e i trilioni di don Ciccio, più lui era contento della propria superiorità e pieno di sé diceva: -Non siete buoni nemmeno per zappare. Parlerò con i vostri padri e dirò alla maestra di non darvi pane e marmellata. Dovete mangiare solo fave! I ragazzi, però, al momento opportuno si vendicavano. Don Ciccio ogni pomeriggio, dopo il riposino andava in un suo piccolo vigneto. Per raggiungerlo era costretto ad attraversare il paese. I ragazzi a quell’ora giocavano tranquilli con le nocciole nel mese di dicembre, oppure con i legni, o con le ciappedde e, i più fortunati, con i tappi delle gassose. Il più vispo del gruppo vedeva arrivare il supplente della loro maestra che li aveva offesi ripetuta temente: -Ehi, guardate, c’è don Ciccio! Peppino era il più grosso e il più alto della comitiva. Sapeva tirare il legno fino a cento metri ed era un vero asso con le ciappedde: spesso, quando tirava la sua pietra spaccava quella che veniva chiamata mastro. Per farla breve Peppino era un leader e poi si faceva voler bene da tutti per la sua grande generosità: aveva sempre le tasche rigonfie di frutta fresca o di fave infornate da offrire. Peppino alla vista di don Ciccio diceva ai compagni: -Venite andiamo da Trilione. Lo chiamava così pensando ai numeri con moltissimi zeri che don Ciccio faceva leggere a scuola. I ragazzi si avvicinavano a don Ciccio con Peppino in testa. Era lui a parlare: -Don Ciccio, vossia n’abbinidici ! -Santi e ricchi, carusi! Voi siete bravi ragazzi, figli di gente onesta, di lavoratori. Voi assomigliate ai vostri genitori. Don Ciccio vi vuole bene. A questo punto i ragazzi facevano un passo indietro. Peppino restava serio, ma gli altri cominciavano a ridere. Poi quando tutti avevano guadagnato una posizione di sicurezza, Peppino gridava: -Don Ciccio, quannu chiovi? Don Ciccio diventava rosso in viso e con la schiuma alla bocca gridava verso i ragazzi che ormai erano lontani e ridevano con le lacrime agli occhi: -Farabutti, maleducati, facchini, siete peggio dei vostri genitori. Ci vediamo a scuola, vi farò uscire sangue dalle mani a colpi di bacchetta. Le bacchettate le dava davvero; per fortuna la maestra Concettina lo mandava rare volte a supplirla, preferiva dire alla bidella che quel giorno non veniva, anziché affidare i propri ragazzi al marito. Per colmare la sua incapacità ad eseguire qualsiasi lavoro, don Ciccio raccontava frottole da fare rabbrividire anche Pinocchio: - Possiedo una carabina speciale per la caccia grossa, infatti se sparo dentro una brocca, la pallottola entra dall’orlo e si ferma nella pancia della brocca senza romperla; ho a casa la spada del capitano Smith, che se la sai tenere come il capitano ha lasciato scritto, dà alla lama un movimento imprevedibile che presto porta l’avversario ad arrendersi; il mio calesse apparteneva ai Borbone, che lo hanno lasciato in regalo ai miei nonni quando hanno dormito a casa nostra. Da San Giovanni di Galermo passavano allora molti forestieri che andavano e venivano da Catania. La maggior parte viaggiava a piedi e al ritorno si fermava a mangiare un po’ di pane con uova sode nella putia du vinu e qui trovava seduto don Ciccio che era pronto ad intrattenere gli avventori con le sue storie fantastiche. Un pomeriggio d’estate un negoziante di Nicolosi si fermò a bere un bicchiere di vino. Lasciò la bicicletta carica di sacchi appoggiata al muro, si asciugò il sudore con un grande fazzoletto rosso ed entrò. Don Ciccio lo salutò calorosamente, tanto da indurlo a sedersi accanto a lui. Poi le frottole non si fecero attendere: -Io vivo a San Giovanni di Galermo, ma passo molto tempo in questa putia per lavoro. - Quale lavoro svolge? -Aspetto i commercianti che tornano da Catania e faccio fare affari. -Cosa vende o cosa compra? -Io non ho niente da vendere, né nulla da comprare. Io offro i miei servizi perché ho molte capacità ed è giusto che le metta a disposizione degli altri. Raccontò al negoziante che sapeva prevedere il tempo, che possedeva un fucile e una spada speciali, che era parente delle più nobili e autorevoli famiglie siciliane grazie ai favori che la sua famiglia aveva fatto ai Borbone. Tutte queste amicizie e le proprie competenze sarebbero state a disposizione dei forestieri che in cambio lo avessero presentato nei circoli del loro paese, in modo che fosse conosciuto da tutti e la sua fama di filantropo restasse nella memoria. Il negoziante rimase sbalordito di fronte alle affermazioni di don Ciccio e andò a raccontare ai cacciatori del circolo di Nicolosi del grande uomo che aveva conosciuto a San Giovanni di Galermo. Faceva parte del circolo il buon Carmelo, un Sangiovannese che aveva sposato una donna di Nicolosi. Mentre il negoziante parlava delle virtù di don Ciccio, Carmelo rideva e si contorceva e quando non riuscì più a trattenersi disse: -Don Ciccio, quannu chiovi? Tutti restarono in silenzio, ma era un silenzio che chiedeva spiegazioni urgenti. Carmelo non si fece aspettare e descrisse la vera figura di Don Ciccio. Il negoziante ingannato in un primo momento disse: -La prima volta che passo da San Giovanni ci scattiu du jangati a ssu scimunitu che lo faccio rinsavire. Poi, però, pensò di ripagarlo con la stessa moneta. Andò di proposito a Galermo e lo invitò ad andare al circolo dei cacciatori di Nicolosi per farlo conoscere ai soci. Don Ciccio accettò l’invito. Una domenica mattina si presentò con il suo calesse a Nicolosi. Il negoziante lo aspettava nella piazza del paese; lo accompagnò al circolo, dove lo attendevano una trentina di soci che si alzarono appena entrò e lo salutarono con un applauso. Don Ciccio era felice, le sue frottole gli avevano dato un pubblico di ammiratori. Poi nella sala si fece silenzio e, dopo una breve presentazione, il negoziante lasciò la parola al vecchio imbroglione che iniziò il suo discorso parlando del capitano Smith e della spada particolare che aveva ereditato. A questo punto si accorse che nella sala c’era Carmelo, il Sangiovannese che rideva con la mano sulla bocca. Don Ciccio cominciò a balbettare, le parole facevano fatica a uscire, sudava, il viso era rosso di vergogna; era stato scoperto. Il negoziante cominciava ad assaporare la meritata vendetta. Ad un suo cenno tutti si alzarono e in coro rivolti a don Ciccio gridarono: -Don Ciccio, quannu chiovi? Ritornò a casa distrutto, ma la punizione gli era servita: non andò più nella putia a raccontare frottole, né fece previsioni del tempo, dicendo a chi glielo chiedeva: -Anche il tempo è cambiato, le previsioni non si possono più fare con sicurezza perché nessuno sa quannu chiovi ! L’anima di luna che accompagna l’ultima onda è riflesso prezioso diamantino è mano nella mano di un’ombra che si espande come vento o respiro sulla vastità salina. E’ lancia di cielo o miraggio notturno, è coltre trasparente della totalità marina e del suo mistero. L’anima di luce compagna dell’ultimo crepuscolo è il sentiero salmastro dell’onda che muore stanca sull’ultima riva è miraggio nel deserto mare oppure oasi d’acqua di questo incerto cuore. Il ruggito del mare Percuote e batte, combatte l’onda e la sua liquida maestà. Scivola lenta, s’infrange e si nasconde dietro la pietra di luna. Ora grida, ora ruggisce e trema la selva. Ora si tace l’oceano re o regina signore nel suo regno d’argento. Nel suo calice puro sul suo catino azzurro. Apre le sue candide mani sul corallo prezioso sul glauco delle alghe marine fino a raggiungere come amante inquieto le sue terre distanti e le sue antiche patrie guerriere. Ho rubato Stanotte dalle tue anfore di cristallo, dal tuo arco d’acqua due stelle e il corallo verde delle tue profondità di roccia. E dal volto trasparente del tuo cielo ho sottratto un arco millenario e come un ladro svelto l’ ho nascosto poi tra le linee sottili delle tue nuvole bianche. Non è l’ardore del sole che dipinge le trasparenze sonore dei tuoi dirupi azzurri, ma i petali rossi e viola che, con le conchiglie gialle, ammantano d’ombra la tua anima minerale. O mare dei flussi e dei Ciclopi dai tuoi mille gorgogli di sale ho rapito le tue sirene e la voce morena delle tue nudità sensuali. Nascondi o mare mio il mio forziere d’oro ricolmo delle gemme azzurre della tua cintura salmastra. Voglio bere tutto il vento questo grecale vento che transuma terra e terra porta dalle valli al monte e smuove, tormenta e fa rinascere questa terra e l’isola e la bandiera di fumo del suo monte gravido di fuoco. Voglio accarezzare le onde sensuali e trasparenti e la cintura di schiuma preziosa che avvolge come corona diamantina le linee inesatte delle coste saracene. Abbracciare gli aliti nascosti tra le insenature e le rocce e scavare tra la tua sabbia di vetro le svelate verità del tempo. Terra di Sicilia puerpera e madre di semi d’acqua cristallina di sale, ambra sangue e mare di ferro rovente e di limoni lasciati amare. Quanta voce per chiamare il tuo nome e quanta luce di stelle per trafiggere, come dardo cherubino, l’unità di tempo, la quantità di spazio e toccare le tue forme e i tuoi denti accesi dalla luce primaria, l’arco della tua colonna moresca e acerba, il tuo rintocco di porpora. Se potessero le mie parole, i miei versi semplici oppure il mio cuore albergare, alla tua ombra, dall’alba al vespero, nel continuo dei giorni e ogni giorno che ti ammanta e tocca dormirei pago sul tuo ventre materno e nel tuo fiato avvolto. Da questo cielo cadono come lance d’intensa luce, verticali gocce d’acqua dietro un sipario che si apre sulla tremante distesa. Coltre, oppure giaciglio della vastità salina. Una o quantità assente di misura dalle sonorità alterne come di un ritmo primario e cristallino che si assopisce lentamente vinto dall’impeto rabbioso del vento e dall’amara sua voce d’amore. Grida ora il greco vento e governa l’onda che stancamente ammaina la sua vela di schiuma. Quante gocce d’acqua da questo cielo muovono i tasti bianchi del pianoforte mare. Una, oppure quantità di note accompagnano la parata nuziale delle stelle nell’infinito palcoscenico di questo cielo. La torre di fumo che avvolge come un abbraccio di passione la città celeste è un faro oppure un campanile abitato da albatri e gabbiani. Cumuli di tempo, forse, oppure cenere minerale. Sono strati di storia e momenti di distruzione. La linea di fumo che gode del cielo e ama sulle insenature del vento è un elmo o una bandiera. E’ un vessillo oppure soltanto una corona che cinge la sovranità della memoria. Gea la tua voce stasera è un sibilo di vento uno spruzzo di cristalli d’acqua una eco perpetua che vibra sonora alla vastità del tempo è una carezza oppure un fruscio di anime un soffio come mani che comprendono il mio viso e dita che carne disegnano confine la tua voce stasera sono fronde mosse e nuvole che rincorrono aliti e vestono di seta le nudità lunari sono silenzi di foglie e l’autunno. Mostrerò le mie quattro carte colorate nel giorno dell’allegria in un campo di foglie autunnali. Sarà festa e il vino rosso guiderà sorrisi e mani e sudori stringeranno abbracci Cuori batteranno sincroni, come tempo nel tempo, e le memorie torneranno a scaldarci il cuore. Vecchi mulini e pietre bianche di farina e campi con le sottane dipinte di fili d’erba e fiori. Cancelli alti che separano misteri e occhi innocenti occhi che guardano gli assolati ulivi appariranno come magia. Guiderò le tue mani con le mie mani lentamente tra i solchi della storia madre custode di una fontana di pietra e di mille rigoli d’acqua pura. Quella è la mia terra lambita da tre limpide acque illuminata da tre raggi di sole baciata dai riflessi delle tre lune come trinità celeste. Perfezioni geometriche linee cosmiche sabbia come tempo di clessidra aritmetica divina. Le coste della mia terra sono storia antica pietre calpestate da giganti marinai e guerrieri. Bandiere al vento vessilli di sangue rosso come il fumo della montagna come seme di terra azzurro come il profilo dell’orizzonte. Quella è la mia terra, ferita dalla schiuma dell’onda eterna tormentata dal soffio dei tre venti. Quella è la mia terra si trova a mezzogiorno, tra le terre custodisce le mie anime tra i campanili silenziosi, nel canto di una chitarra oppure nella melodia d’autunno tra la malinconia e la speranza. E’ quella la mia terra e le mie anime ha rapito. Una le appartiene l’altra è ragione elementare. Io respiro l’alito di quella terra, dei suoi boschi, dei fiumi che percorrono le aride valli, degli scoscesi declivi sul mare e delle sue assonnate forme sensuali. Ombre di cartone I miei sciagurati amici, amanti delle tenebre, di notte ballano e ridono i loro sgangherati denti e come sfioriti fiori si scaldano dentro portoni bui e si nascondono dalle gelide sferze del vento e l’inverno brivido. I miei sciagurati amici dalle anime folli non amano e balbettano, a volte, frusci di sillabe tronche. Hanno un solo braccio e sudice giacche immonde, monche e di polvere odoranti. Vino bevono dai cartoni unti e brillano i loro occhi di nuvole come faville spente. Vagano i loro sogni insonni e sono di favole e di fumo e di stizze abbandonate. Sciagurati i miei amici carichi di dolore e incubi silenziosi tacciono il silenzio e mute le parole spendono nelle luride notti falsi sorrisi acidi e di pioggia intrisa di pianto. Fiorito vento di primavere colorate di petali e profumi ali e aliti e sorrisi simili a brezze leggere sonore voci di pensieri e mani che fiori fremono come soffio che anima foglie Tra una rosa e una rosa in un fiato di tempo un verso, una semplice parola come la sua acuminata corazza. Verso o canto o prematuro vezzo che si posa come apatura ilia o farfalla bianca sulla estensione di bellezza. Sposa, amante amata. Rosa o colore o lambite labbra di madreperla e di conchiglia. Respiro e petalo o giaciglio di profumo e armonia di foglie come scroscio di ruscello o meraviglia di poeta. Solitarie solitudini silenti di case bianche di tini smunti di azzurri riflessi vinti dal mare solo case solitarie e linee di sale nel torpore soleggiato di arie marine e riflessi di acqua silenziosa Notte a Catania Notte di luna, notte che brilla d’ombra tiepida notte cinta da estensioni e città. Respiro oscuro di occhi e di sirene di notte sono lance di latta che feriscono come mano di ladro intrisa di sangue Ansima la notte d’ansia con le sue note liete e le liti di ondulanti branchi ubriachi Urla o notte urla le tue pene ai cimiteri tristi al treno cigolante ai pensieri bui ai migranti neri Notte di figli di fame di cani che latrano ai fratelli distanti alle puttane illuminate da fuochi di cristallo Cullami o notte di stelle sul tuo ventre marino accarezza con la tua mano o notte d’argento la mia notte cupa di cenere e di morte. La mia notte di sangue e di perdono Solo nel mio cuore solitario una carezza un profumo oppure un ricordo rivive. Parole vere rinascono come sussurri animati di passione. Forse solo giorni i nostri anni o attimi di attesa. Mani amiche stringono mani e cuori e nuvole che rincorrono vento. Mare e quanto mare e poi distanze che separano soltanto il mio cuore solitario. Veste azzurra Al crepuscolo il mare increspa la sua veste azzurra mentre la tremula spuma trabocca dalla cristallina coppa minerale. Percorre distanze in una barca di vento spinta da sole ali d’acqua. Quanto mare disteso fino alla linea eterea aspetta la notte. Eterno amante dai riflessi di gemma circonda con il mantello lunare la candida quantità liquida errante e ancestrale. Il mare, la mia patria Questo mare incerto distante è il profilo della mia patria. Le mie vele di seta bianca seguono la scia dell’ultima onda e del vento le ali. Questo mio cuore da tempo a tempo da ricordo a ricordo è il compagno dell’umida sabbia, della spuma della risacca e della candida luna. Da goccia a goccia gli anni percuotono la pietra. Sono acqua dice la goccia scrivo tempo e traccia, sono anch’io roccia. Sono terra minerale dice la pietra sono vulcano come coppa di vetro di riflessa trasparenza. Arcano il mio elmo di fumo arranca l’azzurro con il vento e nel vento come pennone di nuvola chiara. Emanuele Il seme della mia terra è un tuono oppure una carezza giorni e tempo una luce è sorriso della mia anima è carne moresca luminosa come raggio di luna e profumo di limoni il fruscio del vento nelle primavere accese dal sole è la sua voce già d’ uomo tempo e giorni come un alito come sonorità di ricordi di corse e ginocchia e di passi mano nella mano di giorni e tempo come di fratelli e d’amore e d’orgoglio di padre Giulia la poesia più bella è scritta nel mio cuore ha il profumo del mare e le emozioni di un'aurora l'irruenza dell'onda e la dolcezza sonora di una stella. La somma dei giorni sono sorrisi e lallazioni liete piccole mani che stringono e amano grandi mani. La somma dei giorni sono nastri colorati e fiori come farfalle farfugli di ali e battiti di cuore. Sono ancora mani che crescono e odorano di primavera e dolci melodie di seta e di speranza.
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