Segni dal mare – Luigi PACE

LUIGI PACE
Segni dal mare
signos de luigi©pace
Scrivere per vivere
E con le parole disegnare spazi infiniti, paesaggi o cercare di rappresentare in
modo semplice il colore naturale della vita.
Narrare il “cammino” degli uomini, le gioie, le pene e il lento scorrere
dell’esistenza e il destino delle anime.
Rincorrere l’infantile aspirazione all’armonia.
Così come l’artista della tavolozza attraverso il sapiente uso dei colori o il
fotografo, mediante la comprensione della luce e la dovizia manuale, ricreano
copie emozionanti della nuda realtà, chi scrive, utilizzando il linguaggio: iati,
sdrucciole, tronche e rime, “restituisce” la compiutezza del creato.
Affresca le pareti della fantasia raccontando i fatti umani che sempre più
spesso nella quotidianità superano ogni superba fantasia.
Scrivere per vivere.
Vincere l’inespressivo candore del foglio. Animarlo con indelebili segni di
vita.
Narrare le storie buone degli umani viventi di quelli semplici e comuni
oppure scatenare le più recondite fantasie, lasciandole arrampicare fin su nel
cielo per poi farle esplodere come coloratissimi fuochi d’artificio.
Scavare dentro l’anima e ripercorrere i sentieri più bui della memoria.
Descrivere volti e voci dei mille incontri, apparentemente privi di significato.
Donne e uomini spesso affaccendati nelle quotidiane cose, inconsapevoli
della loro grandezza: molto spesso anime libere non ancora piegate al volere
della moderna globalità del nostro tempo.
Nelle notti e nei giorni del nostro tempo: in questo tempo.
Ricordi clandestini e fiabe e poi ancora gioie e dolori dei tanti destini incerti.
Inarrestabili memorie, frammenti non definitivamente ancorati all’oblio
raccolti e fatti rivivere sulla carta, coscienti di essere di passaggio in questo
straordinario viaggio che è la vita, e per questo la quasi spasmodica esigenza
di lasciare segni di sé e tracce del nostro tempo.
Perché scrivere rappresenta anche la possibilità di camminare in spazi
temporali privi di margine, catturati dalle vertigini della libertà e viaggiare
immobili cercando tra le righe l’impossibile frontiera del nulla.
Attratti dal semplice passaggio di una esistenza.
Fiumi di parole di cristallo che sgorgano pure dalle fonti del cuore.
Carpire la luce intermittente dei concetti in fase embrionale, dare attualità alla
promessa di un pensiero che sta per compiersi e, prima che si dissolva,
renderlo immortale sulla riga di un foglio.
Tendere la mano al fluire dei pensieri per poi, affamati dal tempo e
improvvisamente ispirati, tentare di capire… l’agonia del mondo.
Parole mai dette, ma scritte per raccontare di quegli occhi grigi, dei sorrisi e
dei dolori, e di quelle mani tese in attesa di essere narrate. Ancora in questo
tempo.
Scrivere per ritrovare se stessi e riconoscersi dopo avere inutilmente vagato
pieni di nostalgia nel già vissuto e fiabesco mondo nel quale si è stati re e
regine tra i ricordi cari di fratelli e madri cadute nel tempo. Ricomporre
attraverso la fantasia gli atti finali consumati nel grande teatro della vita
mediante semplici segni grafici. Vincere la fissità della pagina bianca e, seppur
con molti timori, percorrerla scivolando dolcemente verso le pendici insidiose
del verbo. Rompere il silenzio e stabilire con gli altri una vicinanza.
Timidamente avanzare verso altro e altre menti. Annusarsi per poi
comprendersi e stabilire la necessaria complicità funzionale a com-prendere e
rappresentare insieme parti della comédie humaine. Raccontare e dare luce alle
ombre che, di ricordo in ricordo, riassumono al reale e prendono possesso
della vita.
Luigi Pace
Luigi è nato a Catania ha 56 anni. Scrive e fotografa per diletto.
Per mestiere viaggia, fa il ferroviere, ha studiato filosofia a Verona e vive a
Mantova.
E’ sempre innamorato di sua moglie Claudia, che ha conosciuto da ragazzino,
e dei suoi figli, Emanuele e Giulia.
A loro è dedicato questo testo.
La famiglia di un siciliano convinto è molto allargata quindi la dedica si
estende a Melina, Cristina, Annamaria, Antonella (la famiglia di Saro) e al
resto: fratelli, sorelle, cugini, amici e…tutti compresi.
25 Dicembre 2014
Breve premessa
Iniziare un libro di poesie con un racconto è inusuale, ma il motivo è
importante.
Ho conosciuto Saro (Rosario) quando adolescente accompagnai mia cugina
Melina (Carmela) a Roma. Erano gli anni 70 non era conveniente lasciare
andare da sola dalla Sicilia una giovane fanciulla a trovare il fidanzato che
adempiva al servizio militare: mia zia d’accordo con mia madre decise che le
avrei fatto compagnia. La calma e la pazienza di Saro nell’ascoltare gli altri mi
colpirono in modo favorevole. La simpatia e l’affetto nacquero
immediatamente. A 17 anni essere ascoltati e compresi lasciano segni mai più
cancellabili. La filosofia contadina assorbita da suo padre lo rendevano già
assennato nei suoi giovani anni. La capacità di raccontare e trasformare anche
accadimenti insignificanti in eventi straordinari lo hanno reso unico. Le
poesie, le letture e l’impegno sociale sono stati il suo pane. Saro ha insegnato
lettere, semplicità e passione per decenni nella scuola media del suo paese.
Saro ci ha lasciati da poco, per una improvvisa malattia, pochi mesi dopo la
pensione.
Tutto questo è molto triste.
Gli ultimi mesi, quando combatteva contro il male, per telefono mi disse che
stava mettendo a posto i suoi appunti e sviluppava racconti; vicende
realmente accadute a San Giovanni di Galermo.
Episodi riguardanti personaggi particolari e divertenti. Aneddoti che negli
anni avevano rallegrato le sue giornate a scuola e stimolato la fantasia dei suoi
alunni.
- Bisognerebbe leggere 8 ore al giorno e scrivere per 2, ma sto facendo
l’esatto contrario Mi disse in più di una circostanza.
Desiderava pubblicarli e io gli ho promesso che l’avrei fatto a qualsiasi costo.
Iniziò a mandarmi il primo racconto, gli altri non arrivarono in tempo.
Questo testo rappresenta non solo il personale bisogno di lasciare tracce di
poesie, ma l’indissolubile promessa fatta a Saro.
Saro Aiello racconta:
Don Ciccio, quannu chiovi?
Era un fannullone. Non aveva mai lavorato, ma si vantava di aver fatto mille
mestieri e di avere conseguito diversi titoli di studio. Si chiamava Francesco,
ma tutti lo chiamavano don Ciccio. Il suo cognome non lo conosceva
nessuno, o forse non interessava, perché era per tutti “don Ciccio, quannu
chiovi?”. Oggi sembrerebbe uno strano cognome, ma intorno al 1930 non
era così per i Sangiovannesi che ne conoscevano bene l’origine.
Don Ciccio raccontava frottole, di quelle grosse e piene di fantasia. La più
grossa era quella che si riteneva un grande meteorologo.
I buoni Sangiovannesi vivevano di agricoltura: coltivavano la vite e l’ulivo nei
fertili terreni lavici; le sciare offrivano fichi e fichidindia. Non c’era un
quadratino di suolo che non desse frutto o legna per ardere il forno. Il più
grande problema per i contadini era sempre lo stesso: la pioggia. Se non
pioveva in agosto l’uva sarebbe avvizzita sulle viti e le olive non sarebbero
ingrossate. Se, al contrario, pioveva in settembre l’uva si annacquava, i
grappoli ammuffivano e dalle olive si spremeva tanta acqua e poco olio.
Don Ciccio conosceva le esigenze dei contadini e cercava di aiutarli con
previsioni vantaggiose:
-Vedrete che dopo la metà di agosto pioverà. Guardate la Luna: ha il cerchio
alla testa, pioverà, state tranquilli.
Prima o dopo il cielo mandava giù un po’ di pioggia e don Ciccio se ne
vantava:
-A san Giovanni avete un vero “Barbanera”, ma non ve ne rendete conto!
I contadini non gli davano importanza, né lo prendevano in giro, anche
perché era il marito della maestra, dell’unica maestra del paese.
Sua moglie, la maestra Concettina era una donna speciale, insegnava a leggere,
scrivere e far di conto a ragazzi di diverse età, dai sei- sette anni, fino agli
undici, tutti raccolti in una stessa classe. Non permetteva che i suoi alunni
abbandonassero la scuola e li andava a cercare fino a casa e li invogliava a
venire l’indomani perché il Comune mandava pane e marmellata e lei non lo
avrebbe dato solo ai poveri, ma lo avrebbe diviso a tutti. Consentiva, però, ai
ragazzi di assentarsi durante la vendemmia o la raccolta delle olive, anzi li
incoraggiava ad aiutare i genitori e a contribuire al benessere della famiglia.
Amava i ragazzi, li avrebbe seguiti tutto il giorno, ma quelli, finita la scuola si
perdevano nei campi a cercare nidi di uccelli per catturare qualche merlo da
allevare o si raccoglievano in gruppi nei quartieri per provare il carriolo sulle
strade lastricate. Proteggeva i ragazzi perché il destino non le aveva permesso
di proteggere le sue due bambine, morte di tubercolosi nei primi anni di vita.
Quando stava male, chiedeva al marito di sostituirla a scuola, in modo che i
ragazzi non restassero da soli. Era quello il momento in cui don Ciccio
manifestava la sua grande cultura e imponeva la sua autorità sui poveri
ragazzi. Scriveva alla lavagna il numero uno, seguito da sei, nove , dodici zeri
e poi ordinava con tono imperioso:
-Peppino, leggi!
-Don Ciccio, non riesco.
-Sei un pecorone!
Più i ragazzi non riuscivano a leggere i milioni e i trilioni di don Ciccio, più lui
era contento della propria superiorità e pieno di sé diceva:
-Non siete buoni nemmeno per zappare. Parlerò con i vostri padri e dirò alla
maestra di non darvi pane e marmellata. Dovete mangiare solo fave!
I ragazzi, però, al momento opportuno si vendicavano.
Don Ciccio ogni pomeriggio, dopo il riposino andava in un suo piccolo
vigneto. Per raggiungerlo era costretto ad attraversare il paese. I ragazzi a
quell’ora giocavano tranquilli con le nocciole nel mese di dicembre, oppure
con i legni, o con le ciappedde e, i più fortunati, con i tappi delle gassose.
Il più vispo del gruppo vedeva arrivare il supplente della loro maestra che li
aveva offesi ripetuta temente:
-Ehi, guardate, c’è don Ciccio!
Peppino era il più grosso e il più alto della comitiva. Sapeva tirare il legno fino
a cento metri ed era un vero asso con le ciappedde: spesso, quando tirava la sua
pietra spaccava quella che veniva chiamata mastro. Per farla breve Peppino era
un leader e poi si faceva voler bene da tutti per la sua grande generosità:
aveva sempre le tasche rigonfie di frutta fresca o di fave infornate da offrire.
Peppino alla vista di don Ciccio diceva ai compagni:
-Venite andiamo da Trilione. Lo chiamava così pensando ai numeri con
moltissimi zeri che don Ciccio faceva leggere a scuola.
I ragazzi si avvicinavano a don Ciccio con Peppino in testa. Era lui a parlare:
-Don Ciccio, vossia n’abbinidici !
-Santi e ricchi, carusi! Voi siete bravi ragazzi, figli di gente onesta, di lavoratori.
Voi assomigliate ai vostri genitori. Don Ciccio vi vuole bene.
A questo punto i ragazzi facevano un passo indietro. Peppino restava serio,
ma gli altri cominciavano a ridere. Poi quando tutti avevano guadagnato una
posizione di sicurezza, Peppino gridava:
-Don Ciccio, quannu chiovi?
Don Ciccio diventava rosso in viso e con la schiuma alla bocca gridava verso
i ragazzi che ormai erano lontani e ridevano con le lacrime agli occhi:
-Farabutti, maleducati, facchini, siete peggio dei vostri genitori. Ci vediamo a
scuola, vi farò uscire sangue dalle mani a colpi di bacchetta.
Le bacchettate le dava davvero; per fortuna la maestra Concettina lo mandava
rare volte a supplirla, preferiva dire alla bidella che quel giorno non veniva,
anziché affidare i propri ragazzi al marito.
Per colmare la sua incapacità ad eseguire qualsiasi lavoro, don Ciccio
raccontava frottole da fare rabbrividire anche Pinocchio: - Possiedo una
carabina speciale per la caccia grossa, infatti se sparo dentro una brocca, la
pallottola entra dall’orlo e si ferma nella pancia della brocca senza romperla;
ho a casa la spada del capitano Smith, che se la sai tenere come il capitano ha
lasciato scritto, dà alla lama un movimento imprevedibile che presto porta
l’avversario ad arrendersi; il mio calesse apparteneva ai Borbone, che lo
hanno lasciato in regalo ai miei nonni quando hanno dormito a casa nostra.
Da San Giovanni di Galermo passavano allora molti forestieri che andavano
e venivano da Catania. La maggior parte viaggiava a piedi e al ritorno si
fermava a mangiare un po’ di pane con uova sode nella putia du vinu e qui
trovava seduto don Ciccio che era pronto ad intrattenere gli avventori con le
sue storie fantastiche.
Un pomeriggio d’estate un negoziante di Nicolosi si fermò a bere un
bicchiere di vino. Lasciò la bicicletta carica di sacchi appoggiata al muro, si
asciugò il sudore con un grande fazzoletto rosso ed entrò. Don Ciccio lo
salutò calorosamente, tanto da indurlo a sedersi accanto a lui. Poi le frottole
non si fecero attendere:
-Io vivo a San Giovanni di Galermo, ma passo molto tempo in questa putia
per lavoro.
- Quale lavoro svolge?
-Aspetto i commercianti che tornano da Catania e faccio fare affari.
-Cosa vende o cosa compra?
-Io non ho niente da vendere, né nulla da comprare. Io offro i miei servizi
perché ho molte capacità ed è giusto che le metta a disposizione degli altri.
Raccontò al negoziante che sapeva prevedere il tempo, che possedeva un
fucile e una spada speciali, che era parente delle più nobili e autorevoli
famiglie siciliane grazie ai favori che la sua famiglia aveva fatto ai Borbone.
Tutte queste amicizie e le proprie competenze sarebbero state a disposizione
dei forestieri che in cambio lo avessero presentato nei circoli del loro paese,
in modo che fosse conosciuto da tutti e la sua fama di filantropo restasse
nella memoria.
Il negoziante rimase sbalordito di fronte alle affermazioni di don Ciccio e
andò a raccontare ai cacciatori del circolo di Nicolosi del grande uomo che
aveva conosciuto a San Giovanni di Galermo. Faceva parte del circolo il
buon Carmelo, un Sangiovannese che aveva sposato una donna di Nicolosi.
Mentre il negoziante parlava delle virtù di don Ciccio, Carmelo rideva e si
contorceva e quando non riuscì più a trattenersi disse:
-Don Ciccio, quannu chiovi?
Tutti restarono in silenzio, ma era un silenzio che chiedeva spiegazioni
urgenti. Carmelo non si fece aspettare e descrisse la vera figura di Don Ciccio.
Il negoziante ingannato in un primo momento disse:
-La prima volta che passo da San Giovanni ci scattiu du jangati a ssu scimunitu
che lo faccio rinsavire.
Poi, però, pensò di ripagarlo con la stessa moneta. Andò di proposito a
Galermo e lo invitò ad andare al circolo dei cacciatori di Nicolosi per farlo
conoscere ai soci. Don Ciccio accettò l’invito.
Una domenica mattina si presentò con il suo calesse a Nicolosi. Il negoziante
lo aspettava nella piazza del paese; lo accompagnò al circolo, dove lo
attendevano una trentina di soci che si alzarono appena entrò e lo salutarono
con un applauso. Don Ciccio era felice, le sue frottole gli avevano dato un
pubblico di ammiratori. Poi nella sala si fece silenzio e, dopo una breve
presentazione, il negoziante lasciò la parola al vecchio imbroglione che iniziò
il suo discorso parlando del capitano Smith e della spada particolare che
aveva ereditato. A questo punto si accorse che nella sala c’era Carmelo, il
Sangiovannese che rideva con la mano sulla bocca. Don Ciccio cominciò a
balbettare, le parole facevano fatica a uscire, sudava, il viso era rosso di
vergogna; era stato scoperto.
Il negoziante cominciava ad assaporare la meritata vendetta. Ad un suo cenno
tutti si alzarono e in coro rivolti a don Ciccio gridarono:
-Don Ciccio, quannu chiovi?
Ritornò a casa distrutto, ma la punizione gli era servita: non andò più nella
putia a raccontare frottole, né fece previsioni del tempo, dicendo a chi glielo
chiedeva:
-Anche il tempo è cambiato, le previsioni non si possono più fare con
sicurezza perché nessuno sa quannu chiovi !
L’anima di luna
che accompagna l’ultima onda
è riflesso prezioso diamantino
è mano nella mano
di un’ombra
che si espande
come vento o respiro
sulla vastità salina.
E’ lancia di cielo
o miraggio notturno,
è coltre trasparente
della totalità marina
e del suo mistero.
L’anima di luce
compagna dell’ultimo crepuscolo
è il sentiero salmastro dell’onda
che muore
stanca
sull’ultima riva
è miraggio nel deserto mare
oppure oasi d’acqua
di questo incerto cuore.
Il ruggito del mare
Percuote e batte,
combatte
l’onda e la sua liquida maestà.
Scivola lenta,
s’infrange e si nasconde
dietro la pietra di luna.
Ora grida,
ora ruggisce
e trema la selva.
Ora si tace
l’oceano
re o regina
signore nel suo regno d’argento.
Nel suo calice puro
sul suo catino azzurro.
Apre le sue candide mani
sul corallo prezioso
sul glauco delle alghe marine
fino a raggiungere
come amante inquieto
le sue terre distanti
e le sue antiche patrie guerriere.
Ho rubato
Stanotte
dalle tue anfore di cristallo,
dal tuo arco d’acqua
due stelle e il corallo verde
delle tue profondità di roccia.
E dal volto trasparente del tuo cielo
ho sottratto un arco millenario
e come un ladro svelto
l’ ho nascosto
poi
tra le linee sottili delle tue nuvole bianche.
Non è l’ardore del sole
che dipinge le trasparenze sonore
dei tuoi dirupi azzurri,
ma i petali rossi e viola che,
con le conchiglie gialle,
ammantano d’ombra
la tua anima minerale.
O mare dei flussi e dei Ciclopi
dai tuoi mille gorgogli di sale
ho rapito le tue sirene e
la voce morena delle tue nudità sensuali.
Nascondi o mare mio
il mio forziere d’oro
ricolmo delle gemme azzurre
della tua cintura salmastra.
Voglio bere tutto il vento
questo grecale vento che
transuma terra
e terra porta
dalle valli al monte
e smuove, tormenta e
fa rinascere questa terra
e l’isola
e la bandiera di fumo
del suo monte gravido di fuoco.
Voglio accarezzare le onde
sensuali e trasparenti
e la cintura di schiuma preziosa
che avvolge
come corona diamantina
le linee inesatte delle coste saracene.
Abbracciare gli aliti nascosti
tra le insenature e le rocce
e scavare
tra la tua sabbia di vetro
le svelate verità del tempo.
Terra di Sicilia
puerpera e madre
di semi d’acqua cristallina
di sale, ambra
sangue e mare
di ferro rovente
e di limoni
lasciati amare.
Quanta voce
per chiamare il tuo nome e
quanta luce di stelle
per trafiggere,
come dardo cherubino,
l’unità di tempo,
la quantità di spazio
e toccare le tue forme
e i tuoi denti accesi
dalla luce primaria,
l’arco della tua colonna
moresca e acerba,
il tuo rintocco di porpora.
Se potessero
le mie parole,
i miei versi semplici
oppure il mio cuore
albergare,
alla tua ombra,
dall’alba al vespero,
nel continuo dei giorni e
ogni giorno
che ti ammanta e tocca
dormirei pago
sul tuo ventre materno e
nel tuo fiato avvolto.
Da questo cielo cadono
come lance d’intensa luce,
verticali gocce d’acqua
dietro un sipario
che si apre
sulla tremante distesa.
Coltre,
oppure giaciglio della vastità salina.
Una o quantità assente di misura
dalle sonorità alterne
come di un ritmo primario
e cristallino
che si assopisce
lentamente vinto
dall’impeto rabbioso del vento
e dall’amara sua voce d’amore.
Grida ora il greco vento
e governa l’onda
che stancamente ammaina
la sua vela di schiuma.
Quante gocce d’acqua
da questo cielo
muovono
i tasti bianchi
del pianoforte mare.
Una, oppure quantità di note
accompagnano
la parata nuziale delle stelle
nell’infinito palcoscenico
di questo cielo.
La torre di fumo
che avvolge
come un abbraccio di passione
la città celeste
è un faro oppure un campanile
abitato da albatri e gabbiani.
Cumuli di tempo,
forse,
oppure cenere minerale.
Sono strati di storia
e momenti di distruzione.
La linea di fumo
che gode del cielo
e ama sulle insenature del vento
è un elmo o una bandiera.
E’ un vessillo
oppure soltanto una corona
che cinge
la sovranità della memoria.
Gea
la tua voce stasera
è un sibilo di vento
uno spruzzo di cristalli d’acqua
una eco perpetua
che vibra sonora alla vastità del tempo
è una carezza
oppure un fruscio di anime
un soffio
come mani
che comprendono il mio viso
e dita che carne disegnano confine
la tua voce stasera
sono fronde mosse
e nuvole che rincorrono aliti
e vestono di seta le nudità lunari
sono silenzi di foglie
e l’autunno.
Mostrerò
le mie quattro carte colorate
nel giorno dell’allegria
in un campo di foglie autunnali.
Sarà festa
e il vino rosso guiderà sorrisi e
mani
e sudori stringeranno abbracci
Cuori batteranno sincroni,
come tempo nel tempo,
e le memorie torneranno
a scaldarci il cuore.
Vecchi mulini e pietre bianche di farina
e campi con le sottane dipinte di fili d’erba e fiori.
Cancelli alti che separano misteri
e occhi innocenti
occhi
che guardano gli assolati ulivi
appariranno
come magia.
Guiderò le tue mani
con le mie mani
lentamente
tra i solchi della storia madre
custode di una fontana di pietra
e di mille rigoli d’acqua pura.
Quella è la mia terra
lambita da tre limpide acque
illuminata da tre raggi di sole
baciata dai riflessi delle tre lune
come trinità celeste.
Perfezioni geometriche
linee cosmiche
sabbia come tempo di clessidra
aritmetica divina.
Le coste della mia terra
sono storia antica
pietre calpestate da giganti
marinai e guerrieri.
Bandiere al vento
vessilli di sangue
rosso
come il fumo della montagna
come seme di terra
azzurro
come il profilo dell’orizzonte.
Quella è la mia terra,
ferita
dalla schiuma dell’onda
eterna
tormentata
dal soffio dei tre venti.
Quella è la mia terra
si trova a mezzogiorno,
tra le terre
custodisce le mie anime
tra i campanili silenziosi,
nel canto di una chitarra
oppure
nella melodia d’autunno
tra la malinconia e la speranza.
E’ quella la mia terra e
le mie anime ha rapito.
Una le appartiene
l’altra è ragione
elementare.
Io respiro l’alito di quella terra,
dei suoi boschi,
dei fiumi che percorrono le aride valli,
degli scoscesi declivi sul mare
e delle sue assonnate forme
sensuali.
Ombre di cartone
I miei sciagurati amici,
amanti delle tenebre,
di notte ballano e
ridono i loro sgangherati denti
e come sfioriti fiori
si scaldano
dentro portoni bui
e si nascondono
dalle gelide sferze del vento
e l’inverno
brivido.
I miei sciagurati amici
dalle anime folli
non amano e
balbettano,
a volte,
frusci di sillabe tronche.
Hanno un solo braccio
e sudice giacche immonde,
monche
e di polvere odoranti.
Vino bevono dai cartoni unti
e brillano i loro occhi di nuvole
come faville spente.
Vagano i loro sogni
insonni
e sono di favole
e di fumo
e di stizze abbandonate.
Sciagurati i miei amici
carichi di dolore e
incubi silenziosi
tacciono il silenzio
e mute
le parole spendono
nelle luride notti
falsi
sorrisi acidi
e di pioggia intrisa
di pianto.
Fiorito vento
di primavere colorate
di petali e profumi
ali e aliti e sorrisi
simili a brezze
leggere
sonore voci
di pensieri
e mani che fiori fremono
come soffio
che anima foglie
Tra una rosa e
una rosa
in un fiato di tempo
un verso,
una semplice parola
come la sua acuminata corazza.
Verso o canto o
prematuro vezzo
che si posa
come apatura ilia o
farfalla bianca
sulla estensione di bellezza.
Sposa,
amante amata.
Rosa o colore
o lambite labbra
di madreperla e di conchiglia.
Respiro e petalo o
giaciglio di profumo
e armonia di foglie come scroscio di ruscello o
meraviglia di poeta.
Solitarie
solitudini silenti
di case bianche
di tini smunti
di azzurri riflessi
vinti dal mare
solo
case solitarie
e linee di sale
nel torpore
soleggiato
di arie marine
e riflessi
di acqua silenziosa
Notte a Catania
Notte di luna,
notte
che brilla d’ombra
tiepida
notte cinta
da estensioni e città.
Respiro oscuro di occhi e di sirene
di notte
sono lance di latta che feriscono come
mano di ladro intrisa di sangue
Ansima
la notte d’ansia
con le sue note liete
e le liti
di ondulanti branchi ubriachi
Urla
o notte urla
le tue pene
ai cimiteri tristi
al treno cigolante
ai pensieri bui
ai migranti neri
Notte
di figli di fame
di cani che latrano
ai fratelli distanti
alle puttane illuminate
da fuochi di cristallo
Cullami o notte di stelle
sul tuo ventre marino
accarezza con la tua mano
o notte d’argento
la mia notte cupa
di cenere e di morte.
La mia notte di sangue e di perdono
Solo
nel mio cuore solitario
una carezza
un profumo
oppure un ricordo
rivive.
Parole vere
rinascono
come sussurri
animati
di passione.
Forse solo giorni
i nostri anni
o attimi
di attesa.
Mani amiche
stringono mani
e cuori
e nuvole che rincorrono
vento.
Mare
e quanto mare
e poi distanze
che separano
soltanto
il mio cuore solitario.
Veste azzurra
Al crepuscolo il mare
increspa la sua veste azzurra
mentre la tremula spuma
trabocca
dalla cristallina coppa minerale.
Percorre distanze
in una barca di vento
spinta da sole
ali d’acqua.
Quanto mare
disteso
fino alla linea eterea
aspetta la notte.
Eterno amante
dai riflessi di gemma
circonda con il mantello lunare
la candida
quantità liquida
errante
e ancestrale.
Il mare, la mia patria
Questo mare
incerto
distante
è il profilo della mia patria.
Le mie vele di seta bianca
seguono la scia dell’ultima onda
e del vento le ali.
Questo mio cuore
da tempo a tempo
da ricordo a ricordo
è il compagno dell’umida sabbia,
della spuma
della risacca
e della candida luna.
Da goccia a goccia
gli anni percuotono la pietra.
Sono acqua dice la goccia
scrivo tempo e traccia,
sono anch’io roccia.
Sono terra minerale dice la pietra
sono vulcano
come coppa di vetro
di riflessa trasparenza.
Arcano il mio elmo di fumo
arranca l’azzurro
con il vento e
nel vento
come pennone di nuvola chiara.
Emanuele
Il seme della mia terra
è un tuono
oppure una carezza
giorni e tempo
una luce
è sorriso
della mia anima
è carne moresca
luminosa
come raggio di luna
e profumo di limoni
il fruscio del vento
nelle primavere accese dal sole
è la sua voce già d’ uomo
tempo e giorni
come un alito
come sonorità
di ricordi
di corse e ginocchia
e di passi
mano nella mano
di giorni e tempo
come di fratelli
e d’amore
e d’orgoglio di padre
Giulia
la poesia più bella
è scritta nel mio cuore
ha il profumo del mare
e le emozioni di un'aurora
l'irruenza dell'onda
e la dolcezza sonora di una stella.
La somma dei giorni
sono sorrisi e
lallazioni liete
piccole mani che stringono
e amano grandi mani.
La somma dei giorni sono
nastri colorati
e fiori come farfalle
farfugli di ali
e battiti di cuore.
Sono ancora mani che crescono
e odorano di primavera
e dolci melodie
di seta e di speranza.