Danno morale ha piena autonomia ontologica rispetto al danno biologico Cassazione civile, sez. III, sentenza 14.05.2014 n. 10524 La Terza Sezione della Cassazione interviene sul delicato tema della risarcibilità iure hereditario del danno biologico e del danno morale terminale, e con l'occasione giunge ad asserire un principio generale che si distacca nettamente dagli orientamenti espressi nel 2008 dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con le note Sentenze di San Martino, ed in virtù del quale il danno morale configurerebbe una autonoma ipotesi di danno non patrimoniale, risarcibile al verificarsi di determinati presupposti e dotato di piena autonomia ontologica rispetto al danno biologico. Sommario • • • • • Il fatto La decisione Esito del ricorso Precedenti giurisprudenziali Riferimenti normativi Il fatto I genitori e la sorella di un giovane motociclista, coinvolto in un drammatico incidente stradale e deceduto ventinove giorni dopo il sinistro, adivano le vie legali per ottenere il risarcimento iure hereditario dei danni, patrimoniali e non, subiti in conseguenza della perdita del loro congiunto. Le Corti di merito, pur riconoscendo la fondatezza della domanda ed il diritto dei richiedenti al conseguente ristoro dei danni patiti, nulla risarcivano, in particolare, a titolo di danno biologico terminale, giudicando troppo breve il lasso di tempo intercorso dal momento dell’incidente al giorno del decesso. Su impulso della Suprema Corte, che disponeva sul punto la rimessione della causa ad altra sezione della Corte di appello, il giudice di secondo grado ordinava a questo punto, in favore dei ricorrenti, la liquidazione di un importo pari a circa 20.000 euro a titolo di danno biologico iure hereditatis. Gli eredi della vittima però ricorrevano nuovamente in Cassazione, contestando gli importi risarciti dai giudici territoriali a tale titolo ed il mancato ristoro di una somma a titolo di danno morale iure hereditatis. La decisione I giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso, condannando la parte ricorrente alla refusione delle spese di lite. In particolare, sono stati giudicati infondati i due motivi del ricorso avanzato dai familiari dell’uomo deceduto nel sinistro, vertenti, il primo, su una pretesa non corretta liquidazione del danno biologico iure hereditatis, e il secondo sul mancato riconoscimento in favore degli eredi del danno morale iure hereditatis. Esaminiamo entrambe le argomentazioni, partendo dalla prima. Del tutto corretto appare, a giudizio di chi scrive, il primo ricorso in Cassazione avanzato dai congiunti del giovane deceduto, atteso che, per ragioni francamente incomprensibili, la corte territoriale aveva del tutto omesso di riconoscere ai familiari del motociclista il ristoro a titolo di danno biologico terminale, nonostante la giovane vittima fosse rimasta in vita per ben ventinove giorni dal momento del sinistro. Tutto il dibattito giurisprudenziale e dottrinale, infatti, si è sempre, unicamente, incentrato sulla risarcibilità o meno: a) del cosiddetto danno tanatologico (o danno da morte immediata), e dunque del danno da perdita della vita (intesa come bene in tutto diverso da quello della salute, ed in quanto tale quale valore supremo da tutelare, più della salute medesima, a prescindere dal lasso di tempo eventualmente intercorso tra l’evento illecito e la morte della vittima). A tal proposito, infatti, proprio recentemente la Suprema Corte è tornata alla ribalta con una pronuncia (la n. 1361/2014) con la quale, in assoluta controtendenza rispetto ai propri stessi precedenti, ha riconosciuto la risarcibilità del danno tanatologico, da liquidarsi in via equitativa (atteso che le tabelle milanesi per la liquidazione del danno non patrimoniale sono state pensate e realizzate per risarcire il danno alla salute, bene appunto differente da quello da perdita della vita, e pertanto le stesse non sarebbero utilizzabili per la quantificazione del danno da morte), peraltro inducendo la terza sezione della Cassazione, a distanza di circa un mese dal deposito della pronuncia ora citata, dal depositare una ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite (la n. 5056/2014) per porre la parola fine al dibattito; b) del danno morale terminale, che la giurisprudenza da sempre ritiene non risarcibile in virtù di illogici automatismi, ma soltanto allorquando sia fornita piena dimostrazione del fatto che, tra il momento dell’evento illecito e la morte del danneggiato, questi sia rimasto lucidamente cosciente e, dunque, consapevole dell’approssimarsi della propria fine: tale circostanza, in sintesi, rappresenterebbe indubbiamente la prova della sofferenza patita dalla vittima primaria e giustificherebbe il ristoro concesso agli eredi iure hereditario. Nella fattispecie ora in commento, invece, la Corte di appello interpellata, senza le opportune motivazioni ed in modo illogico, aveva negato proprio persino la risarcibilità del danno biologico terminale, nonostante il giovane poi deceduto fosse rimasto in vita per circa un mese dal momento del terribile incidente stradale che lo aveva visto coinvolto. Corretto, pertanto, il ricorso in Cassazione, e la conseguente rimessione della causa ad altra sezione della corte territoriale, la quale, effettivamente, aveva poi provveduto al pagamento in favore dei ricorrenti, iure hereditatis, di un importo pari circa a ventimila euro proprio a titolo di danno biologico terminale. Il secondo ricorso, successivo alla liquidazione ora citata, ha giudicato invece infondato il motivo avanzato dagli eredi della vittima atto a contestare i criteri di liquidazione della suddetta posta di danno non patrimoniale, ritenendo non condivisibili le argomentazioni avanzate dalla difesa dei ricorrenti (in sintesi, errata e/o contraddittoria liquidazione degli importi in virtù di una scorretta adozione del principio della personalizzazione dei criteri tabellari e di una illogica applicazione del criterio equitativo). Nel respingere le richieste, la Corte di legittimità ha ritenuto corretto il procedimento di liquidazione operato nella fattispecie dalla corte di appello, attenutasi perfettamente al compito, assegnatole dagli ermellini, di valutare la consistenza concreta del danno biologico subito dalla vittima del sinistro nei giorni terminali della sua vita, provvedendo alla personalizzazione dei valori monetari espressi dalle tabelle per l’inabilità assoluta, ed aumentandoli secondo il proprio apprezzamento equitativo, con riferimento alla peculiarità del caso concreto. I giudici territoriali, si legge in sentenza, hanno in conclusione ritenuto «di poter contemperare l’equo riconoscimento della grave intensità del danno biologico terminale con il quadro generale del risarcimento gabellare personalizzato», valutazione questa giudicata congrua e non censurabile. Decisamente più interessante, a giudizio di chi commenta, le motivazioni della sentenza a giustificazione del rigetto della domanda concernente il risarcimento del danno morale iure hereditatis. La Corte di appello, chiamata a confermare o meno il ristoro dei danni non patrimoniali riconosciuti ai congiunti della vittima al termine del primo grado di giudizio, aveva espressamente affermato di ritenere non meritevole di accoglimento l’ulteriore richiesta di liquidazione di un importo a titolo di danno morale sofferto dal de cuius, in quanto mai avanzata dai ricorrenti nelle precedenti fasi del giudizio. Ad avviso di questi ultimi, al contrario, la domanda di risarcimento del danno morale terminale patito dal congiunto era stata formulata sin dal primo grado, «dovendosi tale voce di danno considerare associata, de plano, alla richiesta di danno biologico terminale, quale quota accessoria dello stesso». Ebbene, la Suprema Corte ha giudicato infondato tale assunto. Ma, sorprendentemente, per dare sostegno al proprio diniego, è giunta ad articolare un principio, nitido ed inequivocabile, che segna l’ennesimo “sgretolamento” dei rigidi assiomi enunciati dalle Sezioni Unite nel 2008 con le cosiddette Sentenze di San Martino (nn. 26972-26975): «il danno morale configura una autonoma ipotesi di danno non patrimoniale, risarcibile al verificarsi di determinati presupposti, dotato di piena autonomia ontologica rispetto al danno biologico», e non costituisce dunque un accessorio del danno biologico, per cui, anche nella fattispecie, tale voce di danno non poteva affatto considerarsi automaticamente associata alla richiesta di danno biologico terminale. Autonomia ontologica del danno morale, dunque: eppure, le citate sentenze della Suprema Corte avevano espressamente affermato il contrario, ossia che il danno non patrimoniale rappresenta una categoria unica, non suscettibile di suddivisioni in sottocategorie, prive di autonomia ontologica e variamente etichettate, e tale perentoria asserzione aveva spinto incauti e frettolosi commentatori a ritenere ormai “defunte” figure di danno alla persona in realtà imprescindibili nel panorama risarcitorio quali il danno morale ed il danno esistenziale. La verità è che l’autonomia e la risarcibilità di tutte le voci di danno non patrimoniale, ivi compresi il danno morale ed esistenziale, non sono in effetti mai state messe seriamente in discussione. Sono proprio gli orientamenti più recenti della Suprema Corte a fornire nuova linfa a ciascuna delle tre componenti del danno non patrimoniale risarcibile, confermando, nella sostanza, la bontà e correttezza di un impianto risarcitorio composto da più voci (ivi compresa, appunto, quella del danno morale e del esistenziale) le quali, solo se complessivamente considerate, sono capaci di assicurare alla vittima dell’illecito il ristoro integrale del danno alla persona. Possiamo segnalare, ad esempio, la sentenza n. 20292/2012, con cui la Suprema Corte, riesaminata la vexata quaestio dell’aspetto risarcitorio del danno non patrimoniale, e ripercorrendone le tappe storiche, si è soffermata, in particolare proprio sullo spinoso tema della risarcibilità dei danni morali ed esistenziali in caso di assenza di danno biologico, fornendo risposta affermativa. Si legge infatti in sentenza: «Ma quid iuris qualora (come nella specie) un danno biologico manchi del tutto, e il diritto costituzionalmente protetto (quello che le sentenze del 2003 definirono, con terminologia di più ampio respiro, in termini di “valore” e/o “interesse”) risulti diverso da quello di cui all’art. 32 della Costituzione, sia cioè, altro dal diritto alla salute (che il costituente, non a caso, ebbe cura di non definire inviolabile – al pari della libertà, della corrispondenza e del domicilio – bensì fondamentale)?». Ebbene, asserisce la Suprema Corte, in tutti quei casi si potrà pur sempre continuare a risarcire il danno morale soggettivo ed il danno esistenziale, ove e se debitamente provati; una volta identificata la lesione di una «situazione soggettiva protetta a livello costituzionale», la configurabilità di un danno morale soggettivo e di un danno esistenziale da risarcire non potrà mai essere esclusa, purchè il giudice di merito operi «una rigorosa analisi ed una conseguentemente rigorosa valutazione tanto dell’aspetto interiore del danno (la sofferenza morale) quanto del suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno esistenziale)». Il “dolore interiore” e la “alterazione della vita quotidiana”, in via riassuntiva, sono dunque perfettamente identificabili, secondo la Corte di legittimità, quali danni non patrimoniali diversi tra loro e diversi dal danno biologico, «e perciò solo entrambi autonomamente risarcibili», ovviamente «se, e solo se, rigorosamente provati caso per caso, al di là di sommarie ed impredicabili generalizzazioni». Tante altre successive pronunce, sino alla numero 1361/2014 sopra citata, hanno replicato tale orientamento: in conclusione, allora, occorre verificare cosa sia effettivamente e davvero cambiato in materia di danni non patrimoniali. Certo è che, contrariamente a quanto poteva apparire prima facie all’indomani della lettura delle sentenze delle Sezioni Unite del 2008, e per richiamare il brillante commento a caldo di Paolo Cendon, ‘a nuttata’ pare passata molto più velocemente del previsto. Esito del ricorso Rigetto della domanda. Precedenti giurisprudenziali • • • • Cassazione Civile, Cassazione Civile, Cassazione Civile, Cassazione Civile, sentenza n. 1361/2014; ordinanza n. 5056/2014; sentenza n. 3549/2004; sentenza n. 20292/2012. Riferimenti normativi • • Codice civile, artt. 2043, 2059; Costituzione, artt, 2, 32. (Altalex, 25 giugno 2014. Nota di Paolo Russo tratta da Il Quotidiano Giuridico Wolters Kluwer) Prova gratuitamente per un mese Il Quotidiano Giuridico. Potrai consultare tutti gli approfondimenti e scaricare le sentenze di tuo interesse. / danno morale / danno biologico / Paolo Russo / SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE Sentenza 19 febbraio - 14 maggio 2014, n. 10524 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. RUSSO Libertino Alberto - Presidente Dott. PETTI Giovanni B. - Consigliere Dott. DE STEFANO Franco - Consigliere Dott. D'AMICO Paolo - rel. Consigliere Dott. VINCENTI Enzo - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso 12634/2008 proposto da: D.M.G., D.C., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ANASTASIO II 80, presso lo studio dell'avvocato BARBATO ADRIANO, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato ACONE ANTONIO giusta procura in calce; - ricorrenti contro FONDIARIA SAI SPA (OMISSIS), in persona del suo procuratore Dott. C.I., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA CONCILIAZIONE 44, presso lo studio dell'avvocato PERILLI MARIA ANTONIETTA, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati ROBOTTI LUCIANA, PENCO FELICE giusta procura in calce; - controricorrente e contro L.R.L.; - intimato avverso la sentenza n. 840/2007 della CORTE D'APPELLO di MILANO, depositata il 20/03/2007 R.G.N. 1168/2005; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/02/2014 dal Consigliere Dott. PAOLO D'AMICO; udito l'Avvocato ADRIANO BARBATO; udito l'Avvocato MARIA ANTONIETTA PERILLI; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GAMBARDELLA Vincenzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso. Svolgimento del processo 1. In data (OMISSIS), alle ore 19 circa, si verificò, nel comune di Como, un sinistro stradale tra il motociclo condotto da D.F. e la vettura condotta dal proprietario L.R. L., assicurato con la FondiariaSai. A seguito delle lesioni riportate il giovane F., nato il (OMISSIS), morì il (OMISSIS). 2. Con atto di citazione del 30 aprile 1991 D.C., T. N. in D. e D.M.G., rispettivamente genitori e sorella di D.F., convennero in giudizio la Sai e L. R.L. per sentir dichiarare la responsabilità di quest'ultimo nel sinistro per cui è causa e, conseguentemente, condannare i convenuti in solido al risarcimento dei danni, morali, materiali, patrimoniali e biologico, oltre accessori. 3. Il Tribunale di Como, con sentenza n. 1284/1996, depositata il 6 agosto 1996, ritenne che il sinistro de quo si era verificato per colpa concorrente del L.R. e del D., rispettivamente nella misura di tre quarti ed un quarto e liquidò, alla data della sentenza, per danno morale a favore dei genitori, complessivamente L. 200.000.000 e L. 50.000.000 alla sorella oltre L. 23.000.000 per danni alla moto e spese funerarie non contestate; ancora, in via equitativa, L. 157.000.000 per mancato guadagno provocato dal ritardato pagamento; quindi, detratto l'importo già versato dall'ente assicuratore a titolo di provvisionale di L. 130.000.000 ed operata la riduzione della somma finale di L. 300.000.000 di un quarto, a titolo di concorso di responsabilità, condannò i convenuti in solido al pagamento a favore degli attori della somma di L. 225.000.000, oltre interessi legali, dalla sentenza, e spese di causa. In accoglimento della domanda di rivalsa dell'ente assicuratore, condannò il L.R. a rimborsare alla SAI s.p.a. tutte le somme che sarebbero state erogate per il sinistro. 4. La Corte d'Appello, successivamente adita dai parenti della vittima per la riforma della sentenza di primo grado, con sentenza n. 2337/1999, depositata il 17/9/1999, ribadì il ritenuto concorso di responsabilità del de cuius nella produzione del sinistro e confermò sia la ritenuta insussistenza di prova del danno biologico iure proprio, sofferto dagli appellanti; sia la non configurabilità di un danno biologico trasmissibile iure hereditatis, attesa la breve distanza di tempo tra l'evento lesivo e la morte; sia la infondatezza della pretesa di un danno patrimoniale da lucro cessante. Riconobbe tuttavia, a titolo di danno morale, il maggior importo, computato alla data della decisione di primo grado, di L. 250.000.000 per i genitori e di L. 70.000.000 per la sorella. 5. Avverso tale sentenza proposero ricorso per cassazione D. C., T.N. in D. e D.M.G.. 6. La Suprema Corte cassò la sola statuizione che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno biologico iure hereditatis, censurando la Corte di merito per non aver ritenuto che durante il breve periodo di sopravvivenza dal sinistro, ventinove giorni, vi era stato in ogni caso un danno biologico apprezzabile della vittima e dispose la rimessione ad altra sezione della Corte di Appello di Milano per la valutazione, alla luce dei principi esplicitati, della "consistenza concreta del danno biologico subito dal giovane D. F. nei 29 giorni terminali della sua vita ed il cui risarcimento spetta agli eredi". 7. Con atto di citazione del 7 marzo 2005 D.C. e D. M.G., quest'ultima in proprio e quale tutrice della madre interdicenda, T.N. in D., riassunsero davanti alla Corte d'Appello di Milano il giudizio in sede di rinvio dalla Corte Suprema di Cassazione nei confronti di L.R.L. e Fondiaria - S.A.I. spa. 8. La Corte d'appello di Milano condannò gli appellati L.R. L. e Fondiaria - Sai al pagamento, in favore di D.C. e di D.M.G., quest'ultima in proprio e quale tutrice provvisoria della madre interdicenda T.N. in D., dell'importo di Euro 19.575,00 oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo. 9. Propongono ricorso per cassazione D.C. e D.M. G., in proprio e quale tutrice provvisoria della madre interdicenda, T.N. in D.. Gli stessi presentano memoria. Resiste con controricorso la Fondiaria - Sai. Non svolge attività difensiva L.R.L.. Motivi della decisione 10. Con A) si verte "in merito alla liquidazione del danno biologico iure hereditatis operata dalla Corte d'appello di Milano; con A1) si denuncia infedele esecuzione da parte del giudice di rinvio dei compiti affidatigli dalla Suprema Corte con la precedente pronuncia di annullamento e rinvio". Sostengono i ricorrenti che il giudice del rinvio non ha operato una corretta applicazione del principio di diritto affermato da questa Corte, laddove, da un lato, non ha applicato il criterio equitativo c.d. puro; dall'altro ha violato il principio della necessaria personalizzazione dei criteri tabellari, conformandoli alla peculiarità del caso concreto, attraverso l'esercizio del potere equitativo, giungendo a liquidare un importo irrisorio a fronte del principio affermato dalla Suprema Corte. Con A2), si denuncia: "omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza della Corte d'appello di Milano sotto il profilo di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5". Ritengono i ricorrenti che la motivazione della sentenza impugnata è contraddittoria in quanto, in un primo momento, il giudice ha affermato di voler decidere equitativamente l'importo spettante e di voler applicare il cosiddetto criterio equitativo puro; dopodichè si è discostata da tale criterio affermando di adottare un criterio tabellare personalizzato, ma i cui criteri di personalizzazione non sono stati esplicitati, non essendovi traccia, nella sentenza impugnata, sia delle ragioni attinenti alla specifica controversia oggetto di causa, sia dell'asserita personalizzazione in virtù della quale il giudice a quo è pervenuto alla liquidazione contenuta in sentenza. Proseguono i ricorrenti che il Giudice ha quantificato, per il danno iure hereditatis l'importo di Euro 900,00 al dì, comprensivo di interessi e rivalutazione, senza specificare quale criterio egli abbia adottato per giungere a tale decisione e non ha fornito elementi utili a scindere la diverse voci per effettuare i dovuti controlli e comprendere quale sia la somma effettivamente spettante per gli interessi e la rivalutazione. Con A3), si denuncia: "violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e in particolare degli artt. 2043, 2056 e 1223 c.c., e di ogni altra norma o principio in materia di quantificazione del danno biologico terminale sotto il profilo di cui all'art. 360 c.p.c., n. 3". Secondo parte ricorrente la Corte d'appello non avrebbe potuto limitarsi alla mera applicazione dei valori tabellari e, così facendo, ha violato le norme giuridiche che presiedono ad una corretta applicazione del danno biologico terminale. Applicando tali norme, infatti, il danno subito da D.F. avrebbe dovuto essere quantificato in Euro 92.800,00, oltre accessori. Con A4) si denuncia: "violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ed in particolare degli artt. 2056 e 1226 c.c., sotto il profilo di cui all'art. 30 c.p.c., n. 3, in ordine alla valutazione equitativa del danno". Sostengono i ricorrenti che, anche in quest'ultima ipotesi, è necessario che, nonostante si verta in un campo di discrezionalità, il giudice debba indicare i criteri che egli ha seguito per determinare l'entità del danno e ciò per evitare che la decisione sia arbitraria e sottratta a qualsiasi controllo. Nel caso di specie la Corte territoriale, proseguono i ricorrenti, non ha spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto di dover applicare l'importo di Euro 900,00 al giorno, comprensive di interessi e rivalutazione, senza che poi sia neppure possibile scindere le diverse voci per effettuare i dovuti controlli e comprendere quale sia la somma effettivamente spettante a titolo di danno biologico, non potendosi certo ritenere motivazione sufficiente ed esaustiva il mero riferimento ad una pronuncia della Cassazione. Tutti i motivi, che per la loro stretta connessione devono essere congiuntamente esaminati, sono infondati. La denuncia del mancato rispetto da parte del giudice di rinvio del decisum della sentenza di cassazione concreta infatti denuncia di error in procedendo (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) per aver operato il giudice stesso in ambito eccedente i confini assegnati dalla legge ai suoi poteri di decisione, per la cui verifica la Corte di cassazione ha tutti i poteri del giudice del fatto in relazione alla ricostruzione dei contenuti della sentenza rescindente, la quale va equiparata al giudicato, partecipando della qualità dei comandi giuridici, con la conseguenza che la sua interpretazione deve essere assimilata, per l'intrinseca natura e per gli effetti che produce, all'interpretazione delle norme giuridiche (Cass., 25 marzo 2005, n. 6461). Nel caso in esame la Corte d'appello di Milano, alle pp. 6 e 7 dell'impugnata sentenza, si è attenuta ai criteri enunciati da questa Corte nella decisione del 23 febbraio 2004, n. 3549, la quale aveva stabilito che il giudice di rinvio doveva valutare la consistenza concreta del danno biologico, subito da D. F. nei 29 giorni terminali della sua vita, ed il cui risarcimento spettava agli eredi, provvedendo alla personalizzazione dei valori monetari espressi dalle tabelle per inabilità assoluta, aumentandoli secondo il suo prudente apprezzamento equitativo, con riferimento alla peculiarità del caso concreto. La Corte di rinvio ha ritenuto di poter contemperare l'equo riconoscimento della grave intensità del danno biologico terminale con il quadro generale del risarcimento tabellare personalizzato. Il ricorrente non ha svolto alcuna censura nei confronti dei criteri ermeneutici adottati dalla Corte d'appello in sede di rinvio, ma ha soltanto denunciato che quest'ultima ha liquidato una somma inferiore a quella da lui pretesa per il danno terminale. B) verte "in merito al mancato riconoscimento del danno morale iure hereditatis; B1) denuncia Omesso e/o insufficiente esame degli atti processuali e delle domande svolte nei precedenti gradi di giudizio, riflettendosi detto vizio anche in un vizio di motivazione (in termini di incongruità e/o illogicità della medesima), giacchè la pronuncia gravata risulta affetta da evidente contrasto con le risultanze testuali ricavabili dagli atti processuali, ai sensi di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5". Lamenta parte ricorrente che la Corte d'appello si è limitata ad affermare che "non merita ingresso la ulteriore richiesta di liquidazione di un importo a titolo di danno morale sofferto dal de cuius, poichè (...) richiesta mai avanzata nelle precedenti fasi del giudizio e solo per la prima volta dagli appellanti in sede di rinvio". Ad avviso dei ricorrenti, invece, la domanda di risarcimento del danno morale terminale subito da D.F. è stata da loro formulata sin dal primo grado di giudizio, dovendosi tale voce di danno considerare associata, de plano, alla richiesta di danno biologico terminale, quale quota accessoria dello stesso. L'accoglimento sul punto del ricorso per cassazione avrebbe consentito di escludere la formazione di giudicato con riguardo alla domanda risarcitoria de qua, anche relativamente alla voce del danno morale. Con B2) si lamenta "violazione e/o falsa applicazione dell'art. 32 Cost., artt. 2043, 2056 e 2059 c.c., sotto il profilo di cui all'art. 30 c.p.c., n. 3)". Sostengono i ricorrenti che la Corte d'appello è giunta alle sue conclusioni estraniandosi dalla fattispecie oggetto di causa e quindi in violazione delle norme di diritto che presiedono al riconoscimento del danno biologico cosiddetto terminale. I motivi, che per la loro stretta connessione devono essere congiuntamente esaminati, sono infondati. Secondo questa Corte infatti il danno morale configura una autonoma ipotesi di danno non patrimoniale, risarcibile al verificarsi di determinati presupposti, dotato di piena autonomia ontologica rispetto al danno biologico, per cui la specifica richiesta di quest'ultimo non può essere interpretata come riferibile anche al primo (Cass., 6 luglio 2006, n. 15358). E' del resto pacifico che il giudizio di rinvio costituisce, ai sensi dell'art. 394 c.p.c., un giudizio a carattere chiuso, essendo inibito alle parti prendere conclusioni diverse dalle precedenti o che non siano conseguenti alla cassazione, così come non sono modificabili i termini oggettivi della controversia espressi o impliciti nella sentenza di annullamento; tale preclusione investe non solo le questioni espressamente dedotte o che avrebbero potuto essere dedotte dalle parti, ma anche le questioni di diritto rilevabili d'ufficio, ove esse tendano a porre nel nulla od a limitare gli effetti intangibili della sentenza di cassazione e l'operatività del principio di diritto, che in essa viene enunciato non in via astratta, ma agli effetti della decisione finale della causa (Cass., 12 gennaio 2010, n. 327). Emerge inoltre dall'impugnata sentenza che nelle precedenti fasi del giudizio il danno morale da perdita della vita non è stato richiesto e comunque, come si è visto, il danno morale non costituisce un accessorio del danno biologico. In questo giudizio il risarcimento del danno morale non era previsto nella sentenza di questa Corte n. 3549 del 23 febbraio 2049 che ha rinviato alla Corte d'appello di Milano solo per il risarcimento del danno biologico e non del danno morale "puro". Peraltro, i ricorrenti, in violazione del principio di autosufficienza, non dicono dove e come hanno proposto la domanda dichiarata nuova dalla suddetta Corte milanese. Con C) di deduce "in merito alla liquidazione di interessi e rivalutazione monetaria"; C1) verte sulla "omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 5". Sostengono i ricorrenti che l'impugnata sentenza è altresì censurabile nella parte in cui ha operato una erronea liquidazione degli interessi e rivalutazione sulle somme riconosciute a titolo di danno biologico terminale. Non si comprende in particolare, secondo i D., come siano stati calcolati, ed in quale misura, gli interessi legali e la rivalutazione monetaria; nè è chiaro il momento a decorrere dal quale sono stati computati detti importi e fino a quale momento siano stati computati. Le incertezze diventano ancora più rilevanti laddove, nel dispositivo della sentenza impugnata, la Corte d'appello condanna gli appellati al pagamento, in favore degli appellanti, "dell'importo di Euro 19.575,00 oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo". Per tali ragioni, proseguono i ricorrenti, nella suddetta sentenza è ravvisabile una omessa motivazione in merito alle ragioni per le quali gli interessi e la rivalutazione non siano stati liquidati dalla data dell'evento al saldo, nonchè alla misura degli stessi. Ed è altresì evidente una insanabile contraddizione della pronuncia in esame nella parte in cui, nel dispositivo della medesima "sparisce", senza che alcuna motivazione sia stata resa al riguardo, la condanna alla rivalutazione monetaria. Con C2) si denuncia "violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218, 1219, 1222 e 1223 c.c., sotto il profilo di cui all'art. 360 c.p.c., n. 3". Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: "Vero che il responsabile di un incidente stradale, condannato al risarcimento del danno, deve corrispondere al danneggiato, gli interessi e la rivalutazione dal giorno del fatto fino al girono dell'effettivo pagamento ?". I motivi sono inammissibili. Secondo l'art. 366 bis c.p.c. - introdotto dal Decreto 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, - infatti, i motivi di ricorso debbono essere formulati, a pena di inammissibilità, nel modo ivi descritto e, in particolare, nei casi previsti dall'art. 360, nn. 1, 2, 3 e 4, l'illustrazione di ciascun motivo si deve concludere con la formulazione di un quesito di diritto, mentre nel caso previsto dall'art. 360, comma 1, n. 5, l'illustrazione di ciascun motivo deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione. Il quesito di cui all'art. 366 bis c.p.c., rappresentando la congiunzione fra la risoluzione del caso specifico e l'enunciazione del principio generale, non può esaurirsi nella mera enunciazione di una regola astratta, ma deve presentare uno specifico collegamento con la fattispecie concreta, nel senso che deve raccordare la prima alla seconda ed alla decisione impugnata, di cui deve indicare la discrasia con riferimento alle specifiche premesse di fatto, essendo evidente che una medesima affermazione può essere esatta in relazione a determinati presupposti ed errata rispetto ad altri. Deve pertanto ritenersi inammissibile il ricorso che contenga quesiti di carattere generale ed astratto, privi di qualunque indicazione sul tipo della controversia, sugli argomenti addotti dal giudice a quo e sulle ragioni per le quali non dovrebbero essere condivisi (Cass. civ., Sez. Unite, 14 gennaio 2009, n. 565). Il quesito di diritto che, ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c., la parte ha l'onere di formulare espressamente nel ricorso per cassazione a pena di inammissibilità, deve consistere in una chiara sintesi logicogiuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, poichè la norma di cui all'art. 366 bis c.p.c., è finalizzata a porre il giudice della legittimità in condizione di comprendere - in base alla sola sua lettura - l'errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice e di rispondere al quesito medesimo enunciando una regula iuris. (Cass. Sez. Unite, 5 febbraio 2008, n. 2658). Nella fattispecie la formulazione del motivo (ex art. 360 c.p.c., n. 3), per cui è chiesta la cassazione della sentenza, non soddisfa i requisiti stabiliti dall'art. 366 bis c.p.c., poichè il principio generale enunciato dal ricorrente è corretto, ma il quesito è incompleto, non indicando i punti di riferimento necessari alla corretta liquidazione del danno da parte del giudice di merito. Quanto al preteso vizio motivazionale, manca il momento di sintesi o quesito di fatto, a norma dell'art. 366 bis c.p.c.. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con condanna di parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che si liquidano come in dispositivo in favore di Fondiaria-Sai. In assenza di attività difensiva di L.R.L. non si dispone per le spese del giudizio di cassazione relative a quest'ultimo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 6.400,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge, a favore di Fondiaria- Sai. Nulla dispone per le spese a carico di L.R.L.. Così deciso in Roma, il 19 febbraio 2014. Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2014. ( da www.altalex.it )
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