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Anno XXXV
Giugno 2014
201
Rivista trimestrale di politica sociosanitaria
Le cure intermedie
Dossier - Servizi per le dipendenze
Un incontro da cui ripartire
Contributi originali
Accordo di collaborazione tra Toscana ed Emilia-Romagna
La sessualità in carcere
Presentazione
Lo scenario internazionale
Organizzazione e gestione delle strutture
Il ruolo della medicina generale
Competenze e prospettive per l’infermiere
Modelli innovativi a confronto:
Lombardia ed Emilia-Romagna
Gli interventi nel settore geriatrico
Monografia
201 Rivista trimestrale di politica sociosanitaria fondata da L. Gambassini
FORMAS - Laboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria
2
Anno XXXV – giugno 2014
Direttore Responsabile
Mariella Crocellà
Sommario
Redazione
Antonio Alfano
Gianni Amunni
Carmen Bombardieri
Alessandro Bussotti
Gian Paolo Donzelli
Silvia Falsini
Claudio Galanti
Carlo Hanau
Gavino Maciocco
Patrizia Mondini
Benedetta Novelli
Mariella Orsi
Daniela Papini
Paolo Sarti
Luigi Tonelli
281
Dossier - Servizi per le dipendenze
S. Vecchio
286
Un incontro da cui ripartire
B. Bassini
288
Accordo di collaborazione tra Toscana ed Emilia-Romagna
V. Giovannini, E. Sinisgalli, D. Matarrese
291
La sessualità in carcere
F. Ceraudo
Le cure intermedie
295
Presentazione
C. Galanti, A. Bussotti
299
Lo scenario internazionale
G. Maciocco
Comitato Editoriale
303
Organizzazione e gestione delle strutture
A. Banchero
308
Il ruolo della medicina generale
V. Boscherini
311
Competenze e prospettive per l’infermiere
L. Rasero, P. di Giacomo, L. Rigon, C. Santin
316
Modelli innovativi a confronto: Lombardia ed Emilia-Romagna
A. Ricci, F. Longo
328
Gli interventi nel settore geriatrico
S. Boffelli, R. Rozzini, M. Trabucchi
Gian Franco Gensini,
Preside Facoltà di Medicina e
Chirurgia, Università di Firenze
Mario Del Vecchio,
Professore Associato Università di
Firenze, Docente SDA Bocconi
Antonio Panti,
Presidente Ordine dei Medici
Chirurghi e degli Odontoiatri della
Provincia di Firenze
Luigi Tucci,
Direttore Laboratorio Regionale
per la Formazione Sanitaria –
FORMAS
Redazione, Direzione
Corrispondenza e invio contributi:
Mariella Crocella
[email protected]
http://www.formas.toscana.it
Edizione
Pacini Editore S.p.A.
Via Gherardesca 1, 56121 Pisa
Tel. 050313011 - Fax 0503130300
[email protected]
www.pacinieditore.it
Registrazione al Tribunale di Firenze
n. 2582 del 17/05/1977
Questo numero è stato chiuso
in redazione il 19/06/2014
Testata iscritta presso il Registro
pubblico degli Operatori
della Comunicazione
(Pacini Editore SpA iscrizione
n. 6269 del 29/08/2001)
Servizi per le dipendenze
N. 201
281
Dossier
Verso un cambio di rotta
nelle politiche dei servizi
per le dipendenze in Italia
Stefano Vecchio
Coordinamento Rete italiana riduzione del danno - ITARDD
Abstract
Le politiche sulle droghe in Italia richiedono un cambio di rotta radicale e una rottura epistemologica con i modelli culturali
del passato.
Gli orientamenti della politica italiana, allineatasi negli ultimi anni con le posizioni di quegli Stati europei e mondiali che
si rifanno al paradigma statunitense della war of drug, si sono concentrati prevalentemente su logiche di tipo repressivo
indiscriminate (trattando allo stesso modo spacciatori e persone che consumano droghe). Tali orientamenti hanno fortemente
influenzato le rappresentazioni sociali dei tossicodipendenti e dei consumatori in generale, diffondendo immagini stigmatizzanti di questi spesso con veicolate e amplificate dai mass media.
Questo contesto legislativo, politico e culturale ha assunto spesso toni oscurantistici (i buchi nel cervello, rischio incombente di
incidenti stradali, elenchi di malattie, ecc.) ha condizionato anche il funzionamento e gli obiettivi degli stessi servizi pubblici
e del privato sociale. Analogo effetto condizionante lo ha avuto la detenzione di un numero elevatissimo di detenuti tossicodipendenti e consumatori di cannabis che ha spostato una parte delle attività dei servizi pubblici e del terzo settore verso il
regime penitenziario. Un dato documentato con precisione dall’Associazione Antigone da Forum droghe e altre associazioni
nei diversi “libri bianchi”.
Infine questa situazione è resa ancor più critica dai cosiddetti “tagli” alla spesa pubblica, prevalentemente a carico del
sistema sanitario, socio-sanitario e socio-assistenziale, i quali, tra l’altro, hanno portato alla completa scomparsa del Fondo
sociale nazionale e del Fondo per la lotta alla droga.
Le politiche sulle droghe italiane vivono, attualmente,
un ulteriore momento di transizione e di crisi in seguito
alla dichiarazione di incostituzionalità della legge FiniGiovanardi. In realtà, al di fuori delle diverse posizioni
politiche e culturali, è forte l’esigenza di promuovere
una nuova legge che sia il risultato di una discussione
pubblica a più voci. La stessa legge attuale la cosiddetta Iervolino-Vassalli risulta largamente inadeguata a
rispondere alle sfide che questo millennio ha ereditato
dal precedente.
Lo scenario cambia ma si tratta di capire verso dove e
come. In questo senso è necessaria una spinta propulsiva
verso un cambio radicale di rotta.
I servizi pubblici
Il modello pubblico di servizio per le dipendenze, prefigu-
282
Servizi per le dipendenze
rato dalle leggi italiane e a tutt’oggi prevalente, nonostante sia collocato sul piano istituzionale nell’area sociosanitaria ad alta integrazione (DM n. 229/99), cioè nell’area
dei servizi territoriali, in realtà, si rifà prevalentemente
alla logica ambulatoriale, sul piano organizzativo, e a
quella ospedaliera, sul piano culturale e professionale.
Il paradigma dominante sul piano della rappresentazione
del fenomeno è quello neurobiologico, che equipara la
dipendenza o l’addiction, come preferiscono i più raffinati, a una malattia per lo più cronica recidivante. Secondo
questa prospettiva neurobiologica, quindi, i consumatori
di eroina diagnosticati come dipendenti dovranno seguire i trattamenti con farmaci agonisti (metadone o buprenorfina) per tutta la vita, in quanto non potranno guarire
(il peccato è stato commesso) o, al massimo, avranno una
remissione dei sintomi. In questa sorta di cronicizzazione
istituzionale, si corre il serio rischio di legare a vita il destino di migliaia di persone, di rovesciare le diagnosi in
etichettamenti e di istituzionalizzarle. Un destino analogo
spetta ad alcolisti e ad altri tossicodipendenti assimilabili
agli stessi criteri diagnostici.
In realtà i servizi per le tossicodipendenze, nonostante
abbiano hanno iniziato a operare, negli anni ’80, un po’
“gettati” alla ventura, spinti da un’emergenza sociale e
da un mandato istituzionale di generico controllo, hanno
nel tempo raggiunto un obiettivo importante: l’allontanamento dal mercato dell’illegalità di una alta percentuale
di tossicodipendenti da eroina, accogliendoli nei servizi e
promuovendo anche l’apprendimento di competenze nuove nella gestione e riduzione dei rischi e dei danni per la
salute e per la socialità, che hanno facilitato l’adozione di
nuovi comportamenti meno o per niente a rischio. Questo
lungo processo ha aperto un campo di esperienza per
gli operatori che potremmo definire “clinica del territorio”, che ha generato anche processi di apprendimento
di nuove competenze professionali, spesso implicite, (ad
esempio legate a capacità di comunicare con linguaggi
di strada, di negoziare obiettivi realistici, di adeguare
le terapie alla motivazione, di sospendere i giudizi e le
proprie convinzioni professionali…). Grazie a tali competenze implicite apprese nei Sert, spesso in collaborazione
con comunità terapeutiche rinnovate, da anni si sono diffuse pratiche di gestione negoziata dei farmaci agonisti
con gli utenti, al di fuori delle indicazioni delle società
scientifiche, che hanno permesso a un numero elevato di
persone di accedere ai trattamenti e di continuare a usare
sostanze illegali, ma in modo moderato, mantenendo un
controllo dei comportamenti a rischio e le relazioni lavorative o familiari e amicali. Un vero e proprio processo
N. 201
di apprendimento sociale di autoregolazione che, però,
viene vissuto in modo colpevolizzante, come un fallimento, sia dagli operatori che dagli utenti, in quanto obiettivo
misconosciuto dal paradigma medicalizzante dominante.
Una logica territoriale dei servizi dovrà tendere a valorizzare tale strategia di servizio tesa a riconoscere la capacità della persona di apprendere a regolare la propria
vita anche con l’uso non problematico di sostanze e a
rinforzare il suo senso di autoefficacia.
Questo processo, che alcuni servizi italiani hanno già
reso esplicito e attivo, anche lavorando con la stessa
prospettiva verso altre tipologie di consumatori, rappresenta uno strumento potente di deistituzionalizzazione in
quanto prevede una progressiva emancipazione dai servizi della prevalenza delle persone in carico da anni e
l’autonoma gestione dei farmaci agonisti anche nella prospettiva di lunga durata del trattamento in una logica di
inclusione sociale. Il risultato del processo, sul piano delle
risorse, sarà il recupero di tempo istituzionale e di energie
professionali che andranno riconvertite per affrontare le
domande di intervento da parte di quelle tipologie di consumatori alle quali oggi si dà scarsa attenzione, nell’ambito di un modello organizzativo territoriale rinnovato.
Si tratta di promuovere un vero e proprio piano di deistituzionalizzazione degli utenti dei servizi che sarà possibile solo se sarà supportato da nuovi indirizzi politici e
culturali.
I dati dei consumi e la situazione attuale
dei servizi
La relazione al Parlamento 2013 (dati del 2012) ha rilevato la presenza in Italia di 633 servizi pubblici, SerT,
distribuiti più o meno equamente nelle diverse regioni italiane e di 1028 strutture accreditate del privato sociale
(le cosiddette Comunità terapeutiche) delle quali il 66,5%
sono di tipo residenziale.
Gli utenti in carico ai servizi pubblici risultano 22.223
dei quali 84.938 eroinomani, 58.122 alcolisti, 16.939
cocainomani.
Una prima semplice osservazione evidenzia che i servizi
italiani oggi ancora accolgono prevalentemente la stessa
tipologia di consumatori degli anni ‘80 e ’90, nonostante
già dagli anni ’90 si siano diffusi altri stili e modelli di
consumo. Il numero limitato di alcolisti e di consumatori di
cocaina, inoltre, sta a segnalare che vi è una domanda
sociale di intervento per queste tipologie di consumatori
ma che il modello organizzativo dei servizi è largamente
inadeguato.
Dalla rilevazione realizzata secondo il modello europeo
N. 201
ESPAD, condotta tra la popolazione scolastica italiana di
2,5 milioni di ragazzi e riportata dal CNR, emerge un
panorama dei consumi ben diverso: il modello di consumo più diffuso è quello di sostanze alcoliche: 88,6% del
campione. I cosiddetti Binge drinking (abbuffata: almeno
5 bevute di seguito), considerati come comportamenti a
rischio, risultano diffusi nel 35,1% dei soggetti. Ma il dato
è inferiore alla media europea.
Oltre 500.000 studenti hanno consumato derivati della
cannabis, 60.000 studenti la cocaina, 60.000 sostanze
stimolanti (amfetamina, ecstasi …), 60.000 sostanze allucinogene, 30.000 sostanze oppiacee.
Il commento della responsabile della ricerca è che si “attesta una generale tendenza alla stabilizzazione nel numero dei consumatori per tutte le sostanze …” (S. Molinaro).
I dati che si riferiscono ai soggetti di altre età, riportati
nella relazione al Parlamento, ripropongono alcune caratteristiche analoghe con una tendenza alla diminuzione
dei consumi di sostanze alcoliche e diffusione di stili di
consumo meno moderati, quali binge drinking, ecc., con
un certo rischio stimato dai 65 anni in su.
Le percentuali di diffusione delle sostanze, in ogni caso,
non sono preoccupanti per l’Italia in quanto o inferiori
alla media europea o in linea con questa.
Come si vede, il panorama che emerge, ormai da tempo,
dalle ricerche a livello nazionale e europeo, ci parla di un
fenomeno profondamente mutato rispetto a quello rappresentato dalle leggi e dalla maggioranza dei mass media.
Ci troviamo di fronte a un target completamente diverso
da quello frequentato dai servizi pubblici, che non richiede nuovi allarmi sociali, ma una nuova politica generale
e dei servizi.
Quali cambiamenti nei modelli organizzativi
e culturali dei servizi?
La realtà delineata dei servizi rivolti ai consumatori di
sostanze psicoattive in Italia attraversa una momento di
forte crisi contrassegnata, da una parte, dal rischio di
riprodurre nuovi meccanismi di istituzionalizzazione nei
confronti di una utenza “storica” che tende a invecchiare
rimanendo bloccata in una relazione statica con i servizi
e, dall’altra, dalla lontananza dei servizi dai potenziali
utilizzatori nei confronti dei quali i modelli organizzativi
sono sostanzialmente inadeguati ...
La realtà italiana dei servizi può essere descritta come un
insieme di variazioni regionali sul tema. Infatti, come è
noto, le Regioni hanno deleghe importanti, sia nelle politiche sanitarie e sociosanitarie che in quelle sociali. Le
Servizi per le dipendenze
283
Comunità terapeutiche sono, ad esempio, in gran parte
diffuse nelle regioni del Nord che offrono un ventaglio di
offerte di strutture residenziali, spesso innovative, molto
differenziato e articolato, più adeguato alle esigenze della molteplicità persone, delle storie e dei loro modelli di
consumo. La concentrazione delle strutture accreditate del
privato sociale è infatti maggiore nel Nord: 17% Lombardia, 13% Veneto, 12,5% Emilia-Romagna.
Anche alcuni Comuni hanno realizzato esperienze importanti organizzando modelli organizzativi e risorse specifiche di servizi innovativi che prefigurano, anche se in
modo poco uniforme, un ruolo strategico politico-culturale
delle istituzioni locali nelle politiche sulle droghe come,
ad esempio, il Comune di Venezia, che ha istituito da
tempo un servizio di riduzione del danno che promuove
e coordina diversi interventi a bassa soglia e di prossimità, il Comune di Roma, che aveva previsto una Agenzia
per tossicodipendenze che aveva fatto della capitale uno
dei laboratori più importanti negli interventi di RDD, e il
Comune di Napoli, che ha stabilito nella cooperazione
strategica con la ASL e il terzo settore l’asse portante delle
politiche.
Esperienze purtroppo deboli in quanto soggette agli orientamenti delle amministrazioni locali (vedi il caso eclatante
di Roma) e dei tagli vari che tendono a colpire le politiche
degli enti pubblici.
Innovazioni
Nonostante la normativa non abbia ancora recepito modelli organizzativi dei servizi diversi da quelli ambulatoriali dei SerT, tra gli anni ’90 e il nuovo millennio si sono
diffuse in diverse regioni e città italiane molteplici pratiche
di interventi e azioni orientate, prevalentemente, alla riduzione del danno e dei rischi, che si sono espresse attraverso modelli organizzativi di intervento e filosofie di ascolto
e risposta ai bisogni, sintonizzate con i diversi target di
consumatori di riferimento e che hanno prodotto risultati
efficaci sul piano della sicurezza nei diversi contesti di
consumo delle droghe. Si sono diffuse Unità di strada,
Drop in, équipe di intervento nei contesti del divertimento
serale notturno illegali (rave, free party) e legali (festival,
technival, ecc.), nelle piazze e nei locali cittadini (discoteche, locali, bar, ecc.). Strutture intermedie diurne e residenziali di presa in carico e accompagnamento a bassa
soglia, servizi flessibili e attenti alla tutela della riservatezza per tipologie di consumatori socialmente integrati, ecc.
In genere queste esperienze seguono modelli e strategie
plurali con integrazioni tra pubblico e terzo settore, adottano modelli organizzativi flessibili e diversificati che si
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Servizi per le dipendenze
adattano alle esigenze delle persone e dei contesti di riferimento, tendono a stare in rete tra loro e con gli altri
servizi sociosanitari per le dipendenze, tendono a coinvolgere i consumatori a vari livelli sono spesso inserite in
una rete di reti tra ASL e Comuni e terzo settore.
Sono esperienze che rappresentano, insieme a quelle già
citate, un patrimonio importante e fondamentale che deve
essere riconosciuto e reso stabile da una nuova normativa nazionale e nello stesso tempo essere di riferimento
culturale.
Verso un protagonismo delle persone
che usano sostanze
Centrale in questo processo è il protagonismo delle persone alle quali i servizi si rivolgono ai vari livelli. Riproporre
con forza la centralità della persona vista in questa prospettiva significa riconoscere che le persone che incontriamo, qualunque sia il loro modello o stile di consumo, hanno competenze acquisite e conservate che rappresentano
le risorse di riferimento per qualunque tipo di intervento.
Tale principio è di particolare importanza strategica in
quanto propone e offre un terreno importante per un ripensamento delle culture delle azioni e delle competenze
legate alle diverse professionalità dei servizi.
Di recente, in seguito a un seminario nazionale organizzato nell’ottobre 2013 a Napoli, dalla Rete italiana della
riduzione del danno (ITARDD) è iniziato un lavoro di elaborazione di una Carta dei diritti delle persone che usano
sostanze che si è concluso con la Conferenza di Genova.
Nella premessa alla Carta de Diritti si dice:
“Siamo persone che usano o hanno usato sostanze; persone prima di tutto, dotate di dignità e del diritto a condurre un’esistenza libera nelle comunità cui apparteniamo e nel mondo intero.” …
E nel testo della Carta il punto 2 recita: “… Nessuna norma
e nessun trattamento in contrasto con la Dichiarazione universale dei diritti umani possono essere applicati nei confronti di una persona a causa dell’uso di sostanze.” E all’art 21:
“I saperi e le esperienze delle persone che usano sostanze,
o le hanno usate in passato, costituiscono risorse collettive
che i Policy Makers e i servizi devono riconoscere e valorizzare. Le persone che usano sostanze, come già avviene in
molti paesi europei, vogliono e devono essere interpellate e
coinvolte nella costruzione delle politiche sulle droghe.”
Il manifesto di Genova
Il 28 febbraio si è tenuta a Genova l’importante iniziativa nazionale “Sulle orme di don Gallo” che ha avuto
N. 201
il valore di una vera e propria Conferenza nazionale
auto organizzata che ha prodotto alla sua conclusione
un documento denominato “Il Manifesto di Genova” che
ha dettato alcune indicazioni per un cambio progressivo
ma sostanziale delle politiche sulle droghe in Italia di cui
riporto alcune tra le più significative:
… “oltre i suoi contenuti tecnico-giuridici, la sentenza della Consulta ha un valore simbolico immenso: ora anche
in Italia è possibile riprendere il percorso per una legge
più umana e più giusta che contrasti il traffico illecito di
sostanze stupefacenti, ma sottragga le persone che usano
sostanze alla macchina repressiva e offra loro possibilità
di uso consapevole e, quando necessario, di sostegno
sociale e sanitario …
Tale percorso deve prevedere “la completa revisione delle
previsioni sanzionatorie, penali e amministrative, stabilite
dal Testo unico sulle sostanze stupefacenti”.
“La prima modifica in questa direzione non può che essere la compiuta depenalizzazione del possesso e della
cessione gratuita di piccoli quantitativi di sostanze destinati all’uso personale, anche di gruppo, e della coltivazione domestica di piante di marijuana agli stessi fini e …
“una compiuta regolamentazione legale della produzione e della circolazione dei derivati della cannabis e della
libera coltivazione a uso personale”.
Per un cambio di rotta nelle politiche rivolte
ai consumatori di sostanze psicoattive, verso
un nuovo paradigma regolativo delle politiche
pubbliche
La svolta culturale che si prefigura è quella di passare a
una logica orientata a regolare il fenomeno e quindi a
stabilire le condizioni di certi comportamenti alla luce del
sole, rompendo con ogni tentazione stigmatizzante, riconoscendo la capacità delle persone di controllare i propri
comportamenti in modo consapevole, in alternativa alle
vecchie e fallimentari azioni repressive che cacciavano
nel buio dell’illegalità masse ingenti di persone di tutte le
età in contesti nei quali i rischi per la salute, la socializzazione e la convivenza erano e sono massimi.
Vanno considerati secondo questa prospettiva le indicazioni riportate della carta di Genova e della Carta dei
diritti delle persone che usano sostanze.
Qual è il cambiamento nel sistema dei servizi
secondo tale prospettiva?
In primo luogo, una nuova legge dovrà prevedere un
cambio di modello del servizio: dal modello monoservi-
Servizi per le dipendenze
N. 201
zio ambulatoriale-ospedaliero a uno territoriale, inteso
come una pluralità di modelli organizzativi e tipologie di
strutture, collegate secondo una logica di sistema a rete,
non gerarchica, in grado di dare coerenza al funzionamento della molteplicità dei servizi e di far interagire le
azioni alle diverse velocità. Un dipartimento territoriale
che governa una variabilità di azioni e servizi per affrontare le problematiche che pongono i diversi contesti del
consumo e i diversi modelli e stili di consumo. Un sistema
flessibile aperto al cambiamento per stare al passo con un
fenomeno in continuo mutamento.
Un tale orientamento richiede, in primo luogo, che la logica del pubblico accolga il terzo settore come partner
strategico e stabile, in grado di arricchire della tonalità
del sociale il sistema.
In secondo luogo, richiede che si stabilisca un raccordo
tra Comune e ASL tale da costituire un sistema più ampio
di governo politico sociale della città teso a programmare strategie di sicurezza dei luoghi di attraversamento
dei cittadini di tutte le età, all’interno dei quali i consumi
di sostanze possano essere regolati in modo sicuro sia
con la presenza e la disponibilità discreta ma efficace
della pluralità dei servizi che attraverso accordi negoziati con gestori di locali, di eventi, con i cittadini che
usano sostanze e con i cittadini che abitano e attraversano in genere la città.
Le strategie sono molteplici e vanno concordate nelle sedi
politico-amministrative, tenendo conto delle esperienze citate e delle linee guida disponibili, come, ad esempio, le
notti sicure elaborate in sede europea. Va previsto un nomadismo e un meticciato tra équipe e servizi di città diverse visto che le persone si muovono, attraversano, spesso
violano i confini, lo spazio e il tempo, il giorno e la notte.
Una legge che voglia promuovere questi processi innovativi dovrà in primo luogo riconoscere la prospettiva della
riduzione del danno e le molteplici tipologie di servizi e
azioni di riferimento e inserirle nei LEA.
Inoltre la legge dovrà inaugurare in una logica laica,
in Italia come in altri Paesi europei, sperimentazioni di
servizi, azioni, strategie innovative nell’ambito della regolazione dei consumi di sostanze e adottare quelle già
validate quali le stanze del consumo, il pill testing, la distribuzione controllata dell’eroina.
Si tratta di uscire, al di là della legge, dalla logica del
pensiero unico verso un paradigma “ospitale” in grado di
garantire la convivenza e il dialogo tra prospettive culturali e professionali diverse, tra neurobiologia e riduzione
del danno, tra terapia e apprendimento sociale, mantenendo come limite e alle proprie pretese il punto di vista
285
e i diritti delle persone che usano sostanze ai quali ci
riferiamo istituzionalmente.
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Un incontro da cui ripartire
Beatrice Bassini
Psicologa Ser.T. AUSL Bologna, Vicepresidente Forum droghe
La conferenza di Genova tenutasi il 28 febbraio e l’1
marzo 2014 ha segnato un punto di arrivo e di partenza
per molti operatori del pubblico e del privato sociale ai
quali mancava ormai da più di un decennio un confronto
operativo e politico significativo.
Ripartire da Genova ha significato, soprattutto, ripartire
dai dati.
I dati, raccolti con costanza e metodo in questi lunghi
otto anni di Legge Fini Giovanardi, riguardano vari en ti
e vari ambiti.
CNR Lazio per i consumi, confermati, in linea con l’Osservatorio europeo di Lisbona (EMCDDA) in un trend di
crescita, Associazione Antigone, ma anche Società della
ragione, CNCA e Forum droghe per gli effetti della legge
Fini Giovanardi relativi alla presenza dei detenuti nelle carceri italiane, alle sanzioni amministrative e alle possibilità
di programmi alternativi alla carcerazione per i tossicodipendenti, raccolti puntualmente nei Libri bianchi pubblicati
da Forum droghe e che spesso sono stati l’unico riferimento, in termini di affidabilità, in questi anni di oscurantismo.
I dati parlano chiaro: la situazione carceraria allarmante
e alla quale nessun governo riesce a mettere mano, la
diffusione capillare del mercato delle sostanze che vede
aumentare i consumi e abbassarsi l’età di primo uso, lo
smantellamento complessivo del sistema del welfare a favore di un’impennata di azioni repressive sulla microcriminalità in cui sono spesso coinvolti i consumatori.
Inevitabile è stato il confronto tra consumatori, operatori e
politici che si sono uniti in vari momenti: laboratori, relazioni, conferenze stampa, tutti accumunati dall’esigenza
di condividere e comunicare una situazione allarmante
ignorata, purtroppo spesso volutamente, dalla politica,
alla quale invece si chiedono risposte pensate, precise,
serie.
La lettera indirizzata al Presidente del Consiglio, ai Presidenti delle Regioni, ai Comuni e al Presidente ANCI,
ai capigruppi di Camera e Senato presentata dalla Rete
italiana riduzione del danno (Itardd) a Genova ha rappresentato in pieno questa esigenza, così come le comunicazioni e gli appelli di questi ultimi giorni di molte
associazioni sulla legge “Renzi-Lorenzin”. Per l’appunto,
un’altra legge sulle droghe “urgente” che non interpella
nessuno e bypassa una Conferenza sulle tossicodipendenze mai tanto necessaria come ora. L’ultima degna di
questo nome, lo ricordiamo, è stata proprio a Genova,
nel lontano 2000 e nella legge 309/90, questo appuntamento di verifica e confronto, era scritto a chiare lettere e
previsto con cadenza annuale.
N. 201
“Partire dai dati” comporta riflettere sugli effetti del lavoro
dei nostri servizi in un’ottica pragmatica e razionale, che
cerchi soluzioni concrete, misurabili, verificabili nel tempo
e suscettibili di aggiornamenti, modifiche e aperture verso nuove sperimentazioni. Solo questo modo di operare
può essere considerato “scientifico” in un sistema aperto
che prevede azioni e aggiustamenti in itinere che tengano
conto dei contesti e dei mutamenti generazionali.
I Servizi per le tossicodipendenze (SerT) sono da anni servizi attaccabili su vari piani: la riduzione dei budget per
i reinserimenti lavorativi e i percorsi comunitari, la scarsa
attenzione delle aziende riguardo ai gruppi di lavoro in
termini di efficienza, ricerca e innovazione, ne fanno dei
servizi per alcuni versi “consumati, logori”. Il mancato
ricambio del personale a causa del blocco delle assunzioni ha reso le équipe di lavoro spesso sottodimensionate,
vecchie, resistenti ai cambiamenti e carenti di nuove idee
e proposte. Paradossalmente si è chiesto e si chiede nel
medesimo tempo a questi servizi di allargare il loro raggio d’azione: dipendenza da internet, gioco d’azzardo.
Che qualità dei servizi potremo offrire?
A cascata le difficoltà sono state anche del Privato sociale che in questi anni, malgrado un incessante lavoro
di aggiornamento su progetti e riflessioni profonde che
hanno comportato, per alcuni, un cambio di paradigma,
ha visto tagliati molti servizi di prossimità e interventi di
comunità in un momento storico in cui vengono riversate
su strade e territori istanze e bisogni sempre più complessi
da affrontare.
La riduzione del danno da prassi basata sulle evidenze,
misurabile, economica ed efficace, è diventata “l’intervento del peccato”, bandita dai documenti ufficiali presentati
nelle sedi internazionali, esclusa dai finanziamenti pubblici, continuamente contrastata e ostacolata dal Capo del
Dipartimento antidroga sotto la presidenza del Consiglio
dei Ministri.
Questi lunghi anni di inerzia politica e di leggi sulle droghe “bliz” hanno impoverito i servizi, dimezzato le risorse lasciando spesso “I drogati senza cure”, come citava
il nome di un laboratorio della Conferenza a Genova,
mentre il Dipartimento delle Politiche antidroga, una macchina mastodontica costruita in termini autocratici, pontificava sulle neuroscienze spendendo cifre da capogiro per
Servizi per le dipendenze
287
interventi di propaganda politica, sistemi di allerta che
allerta non sono, libri patinati, incurante della salute pubblica, dei servizi, delle carceri, della diffusione dell’HIV.
Nessun tentativo di riequilibrare le enormi differenze tra
i SerT presenti sul territorio nazionale, nessuna vera campagna preventiva sull’Aids, spesso per paura di parlare
di “profilattico”, nessuna proposta operativa e legislativa
sui tossicodipendenti in carcere. Quando si parla di carcere non ci si riferisce solamente al sovraffollamento, che
è già di per sé una forma di tortura, ma anche ai rapporti
violenti tra chi lì ci lavora e ci vive, a un luogo senza diritti
che è all’attenzione delle istituzioni europee che sanzioneranno l’Italia per non avere rispettato dei diritti umani
fondamentali.
Come ha sottolineato recentemente Armando Zappolini
del CNCA in una conferenza stampa relativa al neonato
Decreto Lorenzin, nel tunnel, nel buio, in questi anni, si
sono trovati tutti: tossicodipendenti, familiari, sistema di
cura. Un medioevo senza precedenti in termini scientifici
e culturali. Nessuna tutela per il lavoro degli operatori
né per la salute dei tossicodipendenti, la rinascita dello
stigma del drogato: che va punito perché non è così che
si fa, perché “alimenta le mafie” come citava una campagna del DPA.
Sono stati gli anni delle morti di Androvandi, Bianzino, Cucchi, Uva e altri, delle parole, indimenticabili, di
disprezzo e accusa da parte di Carlo Giovanardi che
hanno ferito profondamente le famiglie e il nostro senso
civico. Gli anni delle condanne della corte di Strasburgo
al nostro Paese per violazione dei diritti umani, per il trattamento inumano e degradante dei detenuti nelle nostre
carceri, anni che hanno visto aumentare significativamente le morti di overdose nelle maggiori città italiane.
In questa notte dei diritti molti di noi hanno insistentemente
tenuto fiammelle accese, cercato strade che non appiattissero tutto nel “trattamento moralistico” delle persone che
usano sostanze, riprendendosi un ruolo attivo e politico
nell’interpretare con coscienza il proprio lavoro, ma solo
a Genova, nel febbraio scorso, nel redarre “Il manifesto
di Genova” e la “Carta dei diritti dei consumatori” noi
operatori, ma non solo, abbiamo finalmente risentito l’eco
dell’esortazione che amava gridare Don Gallo e lo abbiamo onorato. “Su la testa!”, colleghi.
288
Politiche interregionali
N. 201
Accordo di collaborazione
tra Toscana
ed Emilia-Romagna
Valtere Giovannini1, Ersilia Sinisgalli2,
Daniela Matarrese3
Direttore generale diritti di cittadinanza e coesione sociale, Regione Toscana
Scuola di specializzazione in Igiene e Medicina preventiva, Università di Firenze
3
Dirigente responsabile settore Programmazione e Organizzazione delle cure, Regione Toscana
1
2
Abstract
Toscana ed Emilia-Romagna continuano sulla strada della collaborazione: dopo una prima esperienza sul tema della mobilità sanitaria, scaturita in una delibera del 2011, è stato da poco approvato un altro accordo con un raggio d’azione
molto più ampio. Il primo accordo infatti riguarda essenzialmente la garanzia del diritto alle cure sanitarie per i residenti che
si recano nella regione confinante e il monitoraggio delle prestazioni ricevute; il recente accordo, sancito da una delibera
congiunta, prevede invece lo sviluppo di linee progettuali comuni, coinvolgenti non solo gli assessorati ma anche le aziende,
su vari temi dell’organizzazione sanitaria. Lo scopo è sperimentare e condividere esperienze che sviluppino e migliorino i
sistemi sanitari delle due regioni, che già oggi condividono risultati di salute molto buoni e si caratterizzano per una costante
spinta all’innovazione.
La Toscana e l’Emilia-Romagna sono due regioni simili
sotto vari aspetti: numerosità della popolazione, caratteristiche orogeografiche, condizioni socio-economiche.
Queste somiglianze si riscontrano anche sul piano della
sanità: entrambe le regioni hanno servizi sanitari all’avanguardia nel panorama nazionale e sono da tempo ai
primi posti per la qualità ed efficienza dei servizi sanitari
regionali1. A livello nazionale si sono sempre distinte per
la loro propensione all’innovazione e alla sperimentazione in campo medico, sia in ambito clinico che organizzativo. Negli ultimi anni inoltre entrambe le regioni hanno
posto grande attenzione allo sviluppo dei servizi territoriali, alla riorganizzazione della rete ospedaliera e alla
costituzione di nuove forme organizzative e assistenziali
per le altre reti di servizio.
Condividendo un lungo tratto di confine, esiste da anni
un flusso di pazienti, soprattutto dalla Toscana verso l’E1
Ministero della salute. Certificazione finale degli adempimenti Lea
2012. Il Sole 24 ore-Sanità 16/01/2014.
milia-Romagna, che, per ragioni di vicinanza, si rivolge
alle strutture sanitarie della regione confinante e vi riceve
prestazioni. La persistenza negli anni di questo fenomeno
ha spinto gli assessorati alla sanità delle due regioni a
valutare l’opportunità di stringere accordi sulla mobilità
sanitaria e sulle compensazioni relative alle prestazioni
ricevute dai residenti, in accordo a quanto previsto dal
D.Lgs. 229/99 e dall’ultimo Patto per la salute2. Questi
accordi hanno preso corpo in due delibere congiunte del
2011 approvate nello stesso giorno dalle due regioni3.
L’obiettivo principale di questi documenti è che i cittadini
di entrambe le regioni vedano garantito il diritto alle necessarie forme di assistenza con modalità che rispettino
gli standard di qualità dell’assistenza, che siano logisticamente vicine alla residenza e siano facilmente fruibili
Patto per la salute 2010-2012 tra Stato e Regioni e Province Autonome del 3-12-2009.
3
DGR Toscana n. 1158 e DGR Emilia-Romagna n. 2105 del
19/12/2011, Accordo triennale per la gestione della mobilità sanitaria tra la Regione Toscana e la Regione Emilia-Romagna.
2
N. 201
dai cittadini stessi. Per realizzare questo intento, Toscana
ed Emilia-Romagna collaborano condividendo i programmi di monitoraggio e controllo dell’attività effettuata, le
modalità di valutazione dell’appropriatezza delle tipologie e delle prestazioni erogate, e la definizione di livelli
essenziali di assistenza comuni (concordando sull’esclusione di particolari prestazioni e condividendo i criteri di
accesso).
Altra esperienza di confronto è stata condotta anche riguardo agli aspetti dell’equità di accesso alle cure, ad
esempio valutando le reciproche modalità di compartecipazione alla spesa aggiuntiva regionale introdotta dalla
legge finanziaria del 2007.
Viste queste esperienze positive degli ultimi anni, e data
l’intenzione di incrementare le occasioni di scambio e
approfondimento comune su tematiche di interesse organizzativo della sanità, gli assessorati regionali competenti
in materia hanno iniziato a lavorare per dare ulteriore
struttura e peso a questa esperienza, per ampliarla e prolungarla nel tempo: nel mese di marzo di quest’anno si
è concluso un accordo, formalizzato da entrambe le Regioni con una delibera congiunta, che prevede una collaborazione biennale sullo sviluppo di tutta una serie di
tematiche che risultano strategiche nella programmazione
sia dell’Emilia-Romagna che della Toscana. In queste delibere 4 si delinea un quadro strategico unitario che consente di sviluppare azioni comuni rivolte a realizzare una
funzione cooperativa tra i due sistemi sanitari regionali,
definendo non solo i campi d’azione ma anche le forme
e le modalità operative.
Le finalità principali individuate dall’accordo sono:
• sviluppo dei rispettivi servizi sanitari regionali, attraverso la condivisione delle tematiche di riordino degli
assetti istituzionali, degli indirizzi relativi alla riorganizzazione dei servizi e all’introduzione di modelli
sanitari innovativi;
• predisposizione di percorsi formativi per i professionisti coinvolti nei processi di riorganizzazione e di governo clinico;
• condivisione di progetti di ricerca sull’organizzazione
sanitaria, il governo clinico e l’Health Technology Assessment;
• confronto tra i rispettivi processi di autorizzazione,
accreditamento istituzionale e accordi contrattuali col
4
DGR Toscana n. 176 e DGR Emilia-Romagna n. 282 del 10-03-2014,
Protocollo di intesa e di cooperazione fra la Regione Toscana e la
Regione Emilia-Romagna per il confronto e la condivisione di linee di
sviluppo comuni dei sistemi sanitari regionali.
Politiche interregionali
289
fine di migliorare i livelli qualitativi del sistema dei servizi pubblici e privati;
• valutazione congiunta delle ricadute sui cittadini delle
politiche sanitarie nazionali e regionali;
• condivisione degli strumenti di valutazione degli esiti
delle cure, dell’efficacia e dell’appropriatezza delle
prestazioni erogate e dell’efficienza dei servizi.
I temi principali sui i quali le due regioni si confronteranno, attraverso le modalità di lavoro stabilite, saranno:
• rete ospedaliera;
• rete territoriale;
• rete delle cure palliative e della terapia del dolore;
• rete dell’emergenza-urgenza;
• innovazione nei percorsi formativi;
• meccanismi di integrazione ospedale-territorio;
• meccanismi di tariffazione e di valutazione dei servizi;
• monitoraggio e controllo delle attività;
• revisione dei cataloghi e nomenclatori;
• iniziative per la valorizzazione dei servizi sanitari regionali in ambito internazionale.
La collaborazione avverrà non solo a livello regionale ma
coinvolgendo direttamente le aziende sanitarie. Le modalità di lavoro ideate prevedono una cabina di regia
costituita dai direttori generali competenti: questi, tramite
provvedimenti delle direzioni generali, adottano dei piani operativi che, per ognuna delle linee progettuali da
sviluppare, individuano dei soggetti responsabili e definiscono la composizione dei gruppi tecnici di supporto e i
compiti a ciascuno assegnati.
I responsabili delle linee progettuali e i componenti dei
gruppi tecnici possono essere individuati oltre che nei settori regionali competenti, anche tra il personale delle ASL,
delle agenzie regionali o negli organismi di governo clinico e tecnico regionale (ad esempio Consiglio sanitario
regionale, Istituto tumori regionale).
I lavori di preparazione di questa delibera congiunta
sono stati anche occasione per i settori regionali toscano
ed emiliano che si occupano di cure territoriali di lavorare
insieme all’organizzazione di un convegno che si è tenuto poco dopo l’approvazione delle delibere, nella sede
della Regione Emilia-Romagna. Il tema del convegno era
l’innovazione nell’assistenza territoriale nelle due regioni
e l’esperienza di cure primarie derivante, tema sul quale
sia Toscana che Emilia stanno molto investendo. Il convegno è stato anche un’occasione per la presentazione
della delibera da parte dei due assessori alla sanità, che
hanno sottolineato l’impegno alla collaborazione recipro-
290
Politiche interregionali
ca con la consapevolezza che questo può garantire dei
risultati migliori in termini di performance dei rispettivi sistemi sanitari regionali.
Un’iniziativa simile, sempre scaturita in un convegno, si
era già tenuta nel 2013, questa volta a Firenze: l’argomento verteva sempre sulle cure territoriali e sulle modalità iniziali con cui le due regioni avevano cominciato la
riorganizzazione e i primi risultati che si erano ottenuti.
L’intento di questa collaborazione che Toscana ed Emilia stanno portando avanti non è certo quello di creare
N. 201
due sistemi sanitari regionali uguali, o peggio entrare in
competizione l’uno con l’altro, ma al contrario “trarre ispirazione” dalle esperienze dell’altro, ripetendo soluzioni
che hanno dato risultati positivi e al contempo evitando
sprechi di risorse su cosa invece si è dimostrato inefficiente o inefficace. Tutto ciò nell’ottica di miglioramento
continuo e innovazione, per quanto possibile basati su
evidenze ed esperienze precedenti, che sono i cardini
della programmazione e organizzazione di ogni sistema
sanitario pubblico.
Sanità penitenziaria
N. 201
291
La sessualità in carcere
Francesco Ceraudo
Professore a contratto Università di Pisa, già Presidente Associazione nazionale medici penitenziari
Abstract
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per prima ribadisce che una soddisfacente vita sessuale è un diritto di ogni
essere umano, al pari del mantenimento di un buon stato di salute generale.
Si moltiplicano, infatti, le evidenze della stretta correlazione tra sessualità sana e promozione/mantenimento della salute del
singolo.
Il Consiglio dei Ministri europei (con la Raccomandazione R(98)7 regola n° 68 consente ai detenuti di incontrare il proprio
partner senza sorveglianza visiva.
L’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha raccomandato la necessità di mettere a disposizione dei detenuti un
luogo per gli incontri (Raccomandazione 1340-1997).
L’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
stabilisce il “Diritto di stabilire relazioni diverse con altre
persone, comprese le relazioni sessuali. Il comportamento
sessuale è considerato un aspetto intimo della vita privata.”
“Va profuso il massimo impegno nell’adozione, anche in
via sperimentale, di tutte le possibili misure, organizzative
e operative, adatte a valorizzare, nei limiti della normativa vigente, gli spazi e i momenti di affettività fra i detenuti
e i loro congiunti e familiari.
Occorre farsi carico di un nuovo modello trattamentale fondato sul mantenimento delle relazioni affettive,
la cui mancata coltivazione rappresenta la principale
causa del disagio individuale e un grave motivo di rischio suicidario.
Bisogna fare perno sulla valorizzazione dei momenti di
affettività per rafforzare i percorsi trattamentali.”
Circolare DAP 24/04/2010-protocollo 0177644-2010
Alessandro Margara, quando era Direttore generale del
Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria operò
una modifica dell’Ordinamento penitenziario in questa
prospettiva, ma la Corte dei Conti bocciò il provvedimento ritenendo necessaria una iniziativa legislativa.
La proposta si perse per strada nei meandri della burocrazia.
Venne perpetrato un ulteriore tentativo dall’On. Franco
Corleone, in qualità di Sottosegretario alla Giustizia, ma
la caduta del Governo Prodi mandò in frantumi ogni velleità (era stata prefigurata una sperimentazione alla Casa
circondariale di Pisa per gli uomini e alla Casa circondariale di Venezia Giudecca per le donne).
Sono giacenti in Parlamento molte proposte di legge, ma
alle parole non seguono i fatti. L’ultima proposta in orine
di tempo è del Sottosegretario alla Giustizia Sen. Alberti
Casellati.
“Il potenziamento dei contatti con l’esterno,soprattutto con gli
affetti familiari costituisce una risorsa importante per contrastare il fenomeno dei suicidi in carcere”.(dall’audizione(nel
2011) del Capo del DAP Franco IONTA al Senato).
Negli ultimi giorni il Tribunale di Sorveglianza di Firenze con l’adesione della Procura fiorentina, ha sollevato
un’eccezione di incostutuzionalità nel secondo comma
dell’art. 18 dell’Ordinamento penitenziario, che impone
la sorveglianza a vista degli incontri tra detenuti e familiari da parte della Polizia penitenziaria.
292
Sanità penitenziaria
N. 201
Secondo i giudici fiorentini si tratta di una disciplina che
impedisce al detenuto l’intimità dei rapporti affettivi con
il coniuge o il convivente, imponendo l’astinenza sessuale, favorendo il ricorso a pratiche masturbatorie o omosessuali, ricercata o coatta e così violando alcuni diritti
garantiti dagli articoli 2, 3, 27, 29, 31 e 32 della Costituzione.
La norma lede il principio di uguaglianza e il prezioso
assunto secondo cui la pena non deve consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.
E ancora secondo il Tribunale di Sorveglianza di Firenze
nega il diritto alla famiglia e alla salute.
In altre parole, impedisce il mantenimento di relazioni affettive con il coniuge o il convivente che sono fondamentali nella vita.
Il sovraffollamento non deve però costituire un alibi raffinato per non fare nulla, per non affrontare le problematiche che il carcere impone.
Il carcere italiano è malato primariamente perché non realizza il dettato costituzionale della rieducazione della pena.
La mancanza di sesso in carcere è mutilazione fisica, violenza. A modo suo il carcere provvede, ma quando si
parla di sessualità, tutto tace.
Essa appartiene alla necessaria afflizione: di più, essa è
il cuore dell’afflizione.
La privazione sessuale non è una privazione: non è cioè
l’assenza, la mancanza di qualcosa.
In quel vuoto cresce una distorsione, una deformazione
che lo riempie fino a farlo esplodere in malattia, pazzia,
dolore senza controllo, mania e abiezione.
Finalmente si schiude una prospettiva
Qualcuno comincia a dire qualcosa contro il silenzio della legge.
Lo ha sostenuto autorevolmente il cardinale di Napoli
Sepe e lo ha ribadito il cardinale di Milano Tettamanzi.
Autorevole la posizione favorevole assunta dal cardinale
Carlo Maria Martini, anche per i riflessi nella teologia
morale cattolica e in particolare dell’etica sessuale.
Nel libro “Sulla giustizia” si deliminano le tre condizioni
per la rieducazione:
• aiutare a riconoscere la società;
• insegnare ad appagare i bisogni fondamentali;
• educare alla responsabilità.
Poi, a proposito dei bisogni fondamentali precisa:
“Il problema dell’affettività, difficilissimo, non può restare
ignorato, irrisolto o addirittura esasperato o snaturato!”
“È un problema reale e di grande valore”.
Già direttive europee del 1985 invitavano gli Stati appartenenti alla comunità, ad adottare misure necessarie a
tutelare la vita intima dei detenuti.
Da allora esperimenti simili si sono succeduti in Russia e
in altre nazioni quali l’Olanda, la Danimarca, la Spagna,
la Svizzera, la Svezia, la Finlandia, la Norvegia, la Germania, il Belgio e in tempi più recenti l’Austria, la Francia
e il Portogallo.
Persino in Albania, dove manca veramente tutto, è prevista la sessualità in carcere.
In modo particolare la cattolicissima Spagna prevede,
oltre all’istituzionalizzazione dell’affettività per tutti i detenuti, la funzione di un carcere che dispone appartamenti
separati (case-famiglia) all’interno dei quali il detenuto
trascorre un po’ di tempo con i propri familiari nella massima discrezione e intimità.
Ricordo molto bene la visita effettuata pochi anni fa al
carcere di Granada in Spagna: di fronte alla sorpresa
di trovarmi di fronte a 57 camere dell’amore, il Direttore
mi spiegava: “È una sorte di premialità per i detenuti che
si comportano bene. Il detenuto può ricevere la propria
moglie 1-2 volte al mese”.
Il detenuto può ricevere la propria fidanzata o compagna.
Se il detenuto non ha alcuna corrispondenza con l’esterno, la Direzione mette a disposizione le prostitute.
Se il detenuto è omosessuale, può ricevere la visita del
proprio compagno.
Alcuni anni fa ho visitato il carcere femminile di Caracas
in Venezuela.
In un contesto di miseria e di abbandono, facevano sfoggio cinque piccoli ambienti forniti di camera e di servizi
dove le detenute ricevono ogni 15/30 giorni il marito o
il fidanzato.
I diritti elementari dell’affettività e della sessualità devono
rientrare a pieno titolo come elementi fondamentali del
trattamento penitenziario.
Del resto la sessualità fa parte integrante dell’affettività,
è uno stimolo umano, un desiderio legittimo che viene
negato proprio nel momento in cui si ha più bisogno di
essere rassicurati.
“L’insostenibile drammaticità della situazione carceraria italiana – precisa il magistrato Francesco Maisto – è
espressa dai dati assoluti di sovraffollamento, progressivamente crescenti, dal numero dei suicidi, dei tentativi
di suicidio, degli atti di autolesionismo, evidentemente
indicativo di una condizione di forte sofferenza umana
in carcere”.
N. 201
Le impressioni più favorevoli,però,le ho riportate visitando le strutture penitenziarie dell’Olanda, della Danimarca
e soprattutto della Svezia, dove il modello ormai risulta
consolidato con espressioni di funzionalità e di forte operatività.
Qui si tratta di miniappartamenti forniti di camera matrimoniale con servizi e cucina.
Soltanto nel nostro Paese registriamo le punte più estreme
del puritanesimo.
Alle celle dell’amore si frappongono perplessità di ordine
psicologico e di ordine ambientale e morale.
Le motivazioni ambientali sono da riferirsi alla mancanza
in carcere di strutture logistiche in un contesto di preoccupante sovraffollamento tali da evitare alla coppia di
sottrarsi agli ineliminabili controlli e agli agenti di Polizia
penitenziaria di essere adibiti anche a custodia e controllo degli amori tra le sbarre.
Le motivazioni morali sarebbero da riferirsi alle problematiche legate alla numerosa fetta di popolazione detenuta
rappresentata dai celibi e dagli extracomunitari, cui dovremmo, ritenendo la sessualità un diritto ineliminabile di
tutti, preoccuparci di trovare delle volontarie dell’amore.
Il detenuto non sparisce dal mondo senza lasciare traccia
di sé: ha diritto a colloqui con i familiari, quindi implicitamente si riconosce l’imprescindibile esigenza di avvicinamento del recluso al mondo esterno, in particolare a
quello dei suoi affetti.
Ma come si fa a pensare che un uomo o una donna possano salvaguardare i legami affettivi se gli unici momenti
di contatto sono i colloqui, durante i quali sei guardato
a vista?
L’omosessualità in carcere è così diffusa perché è compensatoria, ma non si può pensare che non abbia conseguenze sul piano psicologico: per una persona eterosessuale
forzarsi a un comportamento omosessuale costituisce una
violenza, una frustrazione e una caduta di autostima, in
fondo un’umiliazione, che induce spesso pesanti sensi di
colpa.
La repressione della vita sessuale e affettiva è forse il principale motivo per cui si può affermare che il carcere non
è rieducativo e non tende al reinserimento del condannato nella vita sociale, così come chiede la Costituzione,
ma che anzi è diseducativo, induce pesanti regressioni,
accentua i tratti violenti della personalità e coltiva nei detenuti forti risentimenti nei confronti della società.
Nelle celle dove è vietata la distribuzione di preservativi,
le malattie sessualmente trasmissibili tra cui l’infezione da
HIV si diffondono a macchia d’olio.
Tutelare il quadro delle affettività di un detenuto consente
Sanità penitenziaria
293
di restituire senza dubbio alla società un soggetto migliore.
Interrompere il flusso dei rapporti umani a un singolo individuo significa separarlo dalla sua stessa storia personale, significa amputarlo di quelle dimensioni sociali che lo
hanno generato, nutrito e sostenuto.
Il carcere demolisce, anno dopo anno, quella che si potrebbe definire “l’identità sociale del detenuto”.
Il detenuto viene rinchiuso in cella 22 ore al giorno: vengono rinchiusi il suo corpo, la sua stessa volontà e i suoi
stessi desideri.
Tutto viene deciso e gestito dagli altri.
La sessualità, invece, è l’unico aspetto della vita di relazione dei detenuti che non risulta normativizzato da regolamenti o da disposizioni ministeriali.
Nell’ambiente carcerario la sessualità inibita erotizza tutta la vita del recluso e ne accentua il richiamo biologico
con un ritmo intensamente dinamico.
Il detenuto, non appena oltrepassa il portone del carcere,
deve abituarsi volente o meno a tanti cambiamenti piccoli
o grandi: mangiare seduto su una branda, muoversi poco
come se si trovasse su una navetta spaziale, assuefarsi a
cibi non usati prima – il tutto in presenza di altri – e dormire, a un orario insolito, con la luce accesa.
Il problema della sessualità in carcere merita attenzione
e rispetto perché vi confluiscono e l’animano gli istinti,
le sensazioni, le emozioni, i sentimenti radicati in ogni
uomo.
La sessualità è insopprimibile bisogno di vita, un po’ come
respirare, nutrirsi, dormire, espletare i bisogni fisiologici.
Mutilando l’umanità, comprimendo la natura oltre un certo limite, non rimane che la patologia della rinuncia o la
patologia della degenerazione.
In modo ineluttabile i detenuti risultano consegnati a una
dimensione esistenziale monocromatica, dimezzata per
l’assenza dell’altro sesso che solo dà senso al proprio.
Ne derivano gravi tensioni, inquietudini, frustrazioni, deviazioni, perversioni, tendenze ed esposizione alla violenza; si accentuano le turbe psicosomatiche.
Se il carcere deve essere idealmente un luogo di rieducazione o più realisticamente un luogo dove possa essere
almeno conservata la dignità umana, i comportamenti
sessuofobici di chi sta fuori dalle sbarre e fa leggi e regolamenti, non sembrano lungimiranti, né utili al reinserimento sociale di questi soggetti.
Non solo per loro stessi e per il loro diritto di continuare
a vivere, ma per l’intera società.
Questa diversa visione del carcere è l’espressione di un
modo civile di intendere la pena, in una vera ottica riedu-
294
Sanità penitenziaria
cativa che può avvenire solo dando fiducia a chi ha sbagliato, stimolandolo a ricostruire onestamente la sua vita
e non infliggendo continui castighi aggiuntivi al detenuto
e ai suoi cari.
Mantenere e coltivare la propria affettività in carcere non
è una gentile concessione, ma un sacrosanto diritto di
ogni essere umano, anche se privato della libertà: in carcere si va perché si è puniti e non per essere puniti.
La pena rilevante è la privazione della libertà e qualunque patimento ulteriore, qualunque misura di afflizione
non ha senso, scopo e giustificazione e contribuisce a
offendere la ragione e l’umanità.
È certamente triste e mortificante condannare a inseguire
la giustizia sulla strada della sofferenza piuttosto che su
quella dell’umanità, della civiltà, della speranza.
Bisogna essere in grado di rimuovere il timore che qualunque misura di sofferenza sottratta alla pena sia sottratta
alla giustizia.
N. 201
Esistono altresì fondamentali interessi di difesa sociale:
il carcere deve essere in grado di restituire alla società
uomini e donne non dico migliorati perché ciò è utopia,
ma almeno non peggiorati e degradati nella loro dignità.
Molte sono ormai le denunce corredate scientificamente dei guasti psicologici che l’astinenza comporta sulla
personalità del recluso, tutte concordi nel riconoscere che
l’attività sessuale nell’uomo rappresenta un ciclo organico
che non è possibile interrompere senza determinare nel
soggetto, in ogni caso, dei traumi sia fisici sia psichici.
Bisogna tentare di risolvere definitivamente il problema
della sessualità in carcere.
Anche questo è un segnale importante nella prospettiva di
un carcere più civile e più umano, così che non si possa
più dire che “carcere è malattia”.
Del resto sono ormai passati tanti anni dai tempi bui delle
celle sempre sprangate, del pane-acqua e bugliolo e della pena esclusivamente afflittiva.
Le cure intermedie
N. 201
Monografia
Le cure intermedie
a cura di Claudio Galanti1 e Alessandro Bussotti2
Presentazione
In un ormai “antico” documento, anno 1978, Conferenza internazionale di Alma Ata, veniva formalmente approvato il concetto che indicava nei servizi di base il fondamento di ogni sistema sanitario,
la sede idonea a garantire l’assistenza integrata a singoli, famiglie e comunità e il ruolo di supporto
dell’ospedale, diretto ad assicurare quelle funzioni che, per essere troppo sofisticate o troppo costose,
non potevano essere svolte dai servizi di base.
Già in quegli anni, da più parti, l’accento veniva posto sui temi della promozione sanitaria, dei comportamenti sani e sulla prevenzione delle malattie, indicando l’assistenza sanitaria di base quale punto
centrale del sistema.
Daniel Callahan, noto bioetico, anno 1998, affermava che la realizzazione di una medicina sostenibile
va cercata in due direzioni: prevenzione, promozione della salute e preminenza della sanità pubblica
da un lato, maggiore responsabilità personale nei confronti della salute dall’altro.
Siamo nell’anno 2014 e non è chiaro quando, in molte parti del nostro Paese, si sia preso coscienza
delle difficoltà di sostenere un servizio sanitario nazionale ancora caratterizzato, anche come tendenza
culturale, dal ruolo dominante dell’ospedale e dell’ampio vuoto presente sul territorio in tema di strutture alternative allo stesso, ma è certo che sono recenti gli interventi diretti a risolvere concretamente il
problema.
L’esigenza di cambiamento, più che diretta a rispondere in modo appropriato ai nuovi bisogni di assistenza delle persone, sembra sollecitata, tuttavia, dalla presa d’atto che il nostro sistema sanitario non
è più in grado di sostenere costi in continua crescita a fronte della ridotta disponibilità di risorse.
Dovendo limitare le risorse, viene preso atto, finalmente, che a fronte di fenomeni quali l’invecchiamento
della popolazione e il conseguente incremento delle cronicità, occorre fare delle scelte e assumere delle
decisioni: contrastare una medicina malata, come affermava Spinsanti, di “obesità scientifica”, impedendo all’ospedale “di conquistare” come altri hanno sottolineato, “la nascita, la malattia e la morte” considerato che ancora oggi oltre il 50% dei decessi avviene in ospedale.
Non è più possibile centrare sulle tecnologie ospedaliere, risorse e risposta a tutte le malattie e infermità, ma vanno ricercate soluzioni non solo a minore impatto tecnologico ma anche più idonee a rispondere ai fabbisogni di quella quota di popolazione, che ha tenuto occupati posti letto negli ospedali in
carenza di una più semplice e certamente più appropriata assistenza sanitaria e sociosanitaria.
L’incremento continuo dei costi dell’assistenza e la contrastante necessità di procedere alla riduzione dei finanziamenti ha portato, cioè a riconoscere le distorsioni presenti nell’ospedale, considerato il forte assorbimento
di risorse (in molte Regioni oltre il 50% della quota capitaria) e la necessità di destinazione di parte delle stesse
al potenziamento delle strutture territoriali.
Quando occorre intervenire su una organizzazione sanitaria, non limitandosi a una sua semplice razionalizzazione, ma modificando in modo significativo il sistema di erogazione delle prestazioni, si dovrebbe
1
Collaborazione di ricerca Agenas; 2 Medico di medicina generale
295
296
Le cure intermedie
N. 201
procedere per gradi, realizzando prima le nuove strutture alternative provvedendo poi, o al massimo
contestualmente, al ridimensionamento e razionalizzazione di quelle destinate a modificare la propria
funzione. Occorrerebbe cioè costruire il territorio e procedere successivamente alla riduzione della rete
ospedaliera e al recupero appropriato della sua funzione di secondo e terzo livello.
Una scelta, quella sopra prospettata, che ha caratterizzato solo poche aree del Paese ma che, in generale, ha evidenziato forti ritardi portando, di conseguenza, a un sempre maggiore impegno di risorse
sulla componente ospedaliera, in carenza delle altre alternative.
Sulla base delle evidenze epidemiologiche e delle conferme fornite dalle esperienze più avanzate,
oltre che come adeguamento agli standard europei, Stato e Regioni hanno finalmente concordato
alcuni obiettivi da rendere obbligatori. Citiamo il trasferimento di una serie di prestazioni dal ricovero
ordinario a quello più appropriato di ricovero diurno o di prestazione in regime ambulatoriale, la
conseguente progressiva riduzione del tasso di ospedalizzazione attualmente del 160 per mille con
un 40 per mille di ricoveri diurni, la riduzione dei posti letto a 3,7 per mille abitanti di cui solo il 3 per
mille destinato ai ricoveri acuti ordinari e diurni, il riconoscimento degli ospedali come centri di alta
specializzazione, organizzati a rete in relazione alle patologie più significative e più suscettibili di cura
per la tempestività dell’intervento e la disponibilità di tecnologie appropriate.
Una bozza di decreto ancora all’esame della Conferenza Stato Regioni definisce, tra l’altro, gli standard dell’assistenza ospedaliera e una organizzazione secondo livelli gerarchici di complessità delle
strutture indicando un livello minimo di bacino di utenza in grado di giustificare la presenza dell’ospedale tra 80.000 e 150.000 abitanti.
Con la legge, 189 del novembre 2012, si interviene anche sul riordino dell’assistenza territoriale promuovendo l’integrazione con il sociale, l’assistenza domiciliare, disponendo la costituzione di Unità
complesse di cure primarie. Si dispone anche la costituzione di reti di Poliambulatori territoriali con
idonea strumentazione aperti tutto l’arco della giornata anche nei giorni festivi in coordinamento e
collegamento con le strutture ospedaliere.
La Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le Regioni, nella seduta del 3 dicembre 2009,
ha sancito un’intesa che prevede all’art. 9, sotto il titolo di Razionalizzazione dell’assistenza ai pazienti anziani e agli altri soggetti non autosufficienti, l’adozione da parte delle Regioni di uno specifico
atto di programmazione integrata avente a oggetto la dotazione di posti letto di residenzialità e semiresidenzialità e l’organizzazione dell’assistenza domiciliare, “anche al fine di agevolare i processi di
deospedalizzazione”.
I tempi previsti sono stati, come al solito, ampiamente superati ma, indubbiamente, anche in materia
di strutture intermedie qualcosa si sta muovendo. La Regione Toscana, ad esempio, che rappresenta
un’area avanzata in tema di organizzazione sanitaria, ha inaugurato la sua prima struttura nel maggio
2013 e ha programmato, complessivamente, 499 letti di cure intermedie, definendo correttamente la
loro destinazione a pazienti soprattutto anziani che abbiano già superato la fase acuta della malattia
e siano quindi stabilizzati clinicamente, ma ancora non in condizioni di poter essere assistiti al proprio
domicilio.
Lo schema di decreto sulla definizione degli standard ospedalieri all’esame della Conferenza StatoRegioni considera le strutture intermedie idonee a ospitare anche pazienti in dimissione da reparti per
acuti degli ospedali ma allo scopo di continuare il processo di recupero funzionale, consolidarne le
condizioni fisiche, accompagnarlo nella prima fase del post ricovero ove si tratti di paziente con fragilità individuale o sociale.
L’ospedale di comunità è, invece, una struttura gestita da personale infermieristico con assistenza medica
assicurata dai medici di medicina generale (MMG) e pediatri di libera scelta (PLS) e con il compito di
prendere in carico pazienti che necessitano di interventi sanitari potenzialmente erogabili a domicilio,ma
in mancanza di idoneità strutturale o familiare dello stesso o di sorveglianza infermieristica continuativa.
Il sistema sanitario nazionale è articolato, sotto il profilo organizzativo, in tre aree fondamentali: il dipartimento di prevenzione, il distretto e l’ospedale come presidio della USL o come azienda autonoma.
N. 201
Le cure intermedie
Tutte le funzioni non affidate al dipartimento di prevenzione o all’ospedale appartengono al distretto
che assume la responsabilità delle relative strutture e delle prestazioni erogate, dall’assistenza primaria e relative unità complesse di cure primarie, alla riabilitazione residenziale e semiresidenziale, alle
diverse strutture dirette a erogate le cure intermedie.
L’ospedale si caratterizza sempre di più come risposta alle patologie acute e sub acute complesse, non
trattabili a domicilio o ambulatoriamente, il distretto dovrà farsi carico del resto, compresa la vasta
area delle cronicità.
L’obiettivo dovrebbe essere quello di mantenere, finché possibile, la persona al proprio domicilio con
l’alternativa, sempre provvisoria, di una struttura territoriale, comunque affidata a personale sanitario
non ospedaliero (MMG, specialisti ambulatoriali, infermieri e altre figure sanitarie in servizio presso il
distretto). Aspirazione, anch’essa, “antica”, quella di contrastare l’espansione dei ricoveri e delle varie
forme di assistenza custodiale per potenziare il ruolo della famiglia.
La ricaduta in termini di programmazione dei servizi è quella di un potenziamento dei distretti sulla
base di un modello organizzativo che preveda la costituzione dell’unità complessa di cure primarie,
come previsto dalla L. 189/2012, prestazioni assicurate per 365 giorni /anno nelle intere 24 ore in
grado di coprire la domanda dei propri residenti. Stesso principio dovrebbe seguire la localizzazione
delle attività ambulatoriali e delle strutture intermedie salvo per quelle discipline che richiedono bacini
di utenza interdistrettuali o interzonali. La presenza di strutture definibili, secondo una terminologia
attualmente in voga, “a km. 0” rappresenta la condizione preliminare per mantenere in vita i rapporti
familiari ed evitare il ricostituirsi di nuovi “cronicari”.
La contemporaneità dei compiti imposti alle Regioni e alcuni programmi che, per ora a livello di progetto, vengono avanti nel tentativo di dare risposta a tutti i problemi, suscitano però forti preoccupazioni.
Si è già detto che la riprogrammazione del nostro servizio sanitario deve trovare la sua motivazione principale nella necessità di fornire un’assistenza più appropriata ai nuovi bisogni di salute, con la conseguente
riconsiderazione dei modelli di erogazione delle prestazioni che non possono più essere limitati al ricovero
ospedaliero ma debbono trovare altre risposte più idonee, soprattutto a livello territoriale, così da superare
vuoti e separatezze a favore della continuità assistenziale.
Ogni struttura deve svolgere il suo ruolo con il risultato di:
• una progressiva riduzione dei ricoveri ospedalieri impropri e il conseguente raggiungimento degli
obiettivi di riduzione dei posti letto e dei tassi di ospedalizzazione programmati;
• un affidamento all’assistenza di base, agli ospedali di comunità e alle altre strutture residenziali e
semiresidenziali territoriali e delle risposte alle problematiche sanitarie e sociosanitarie non di pertinenza ospedaliera. La riconduzione a modelli di risposta più semplici, ancorché più appropriati,
permetterà anche una riduzione dei costi.
Un ostacolo fondamentale che si frappone a una corretta programmazione, oltre alla carenza di
risorse, è costituito dalla necessità di procedere al ridimensionamento della rete ospedaliera e alla
sua riqualificazione sotto il profilo della qualità delle prestazioni e della sicurezza del paziente. Ciò
comporta la chiusura di una serie di piccoli ospedali che hanno resistito ai numerosi provvedimenti
legislativi che ne disponevano da tempo la chiusura.
La ricerca di una soluzione che allenti le pressioni politiche e sociali locali e la resistenza del personale
interessato sembra assumere, nella programmazione di molte Regioni, carattere di priorità rispetto agli
interessi dei pazienti, fino a compromettere in particolare il progetto di attuazione delle cosiddette
“strutture intermedie”.
Elenchiamo alcune tendenze che lasciano adito a forti preoccupazioni:
1.I piccoli ospedali vengono chiusi “ma non troppo”; occorre “mascherare” la chiusura adottando
soluzioni che vedono la loro trasformazione in strutture territoriali dove, tuttavia, si conserva, magari,
un reparto di lungodegenza o si prevedono prestazioni di ricovero medico diurno e day surgery.
Un’attività ospedaliera per acuti, ancorché diurna, o per subacuti, in strutture che si classificano come
territoriali mette in discussione la nuova classificazione richiedendo la presenza, ai fini dell’accredi-
297
298
Le cure intermedie
N. 201
tamento, di una serie di requisiti ospedalieri con costi non giustificati dall’utilizzo che ne verrà fatto.
Per i ricoveri diurni ci attendiamo, inoltre, un chiarimento sui posti letto, comunque necessari, da
classificare come ospedalieri anche ai fini del rispetto degli standard, sulle caratteristiche dell’équipe medica che dovrebbe farsi carico degli interventi, sulla necessità di identificare, comunque, le
discipline specialistiche interessate; una riflessione è richiesta anche sui possibili rischi conseguenti a
prestazioni, in particolare di chirurgia, erogate in strutture prive della presenza della corrispondente
attività specialistica ordinaria e non solo ambulatoriale.
2. Non è facile ridurre i posti letto ospedalieri e relativo personale ma si può istituire dei posti letto ambulatoriali dove svolgere chirurgia complessa (leggi day surgery), anche in anestesia totale, senza
dover compilare la SDO, potendo, così, ridurre artificiosamente il tasso di ospedalizzazione.
3. La localizzazione delle Case della salute, degli ospedali di comunità, di altre forme di struttura intermedia, non dovrà necessariamente tenere conto della rete distrettuale: allo scopo saranno utilizzate
le strutture ospedaliere riconvertite, anche quando tale localizzazione è chiaramente incompatibile
con il territorio e i residenti di riferimento.
4. Le Case di cura psichiatriche e neuropsichiatriche debbono perdere la loro classificazione di struttura ospedaliera per acquisire quella di strutture residenziali “di mantenimento”. Basta cambiare
l’etichetta, il contenuto può restare invariato. Nuovi contenitori di cronicità?
Il ruolo delle strutture intermedie vede tentativi di ampliamento anche delle prestazioni erogate, ad
esempio quando si configura il trasferimento dall’ospedale al presidio territoriale di pazienti “guariti”,
ma non clinicamente stabilizzati. Non potendo ancora rinviare il paziente a domicilio, si pensa di
delegare la stabilizzazione alle strutture territoriali; in questo caso i letti ospedalieri si liberano prima
in attesa di nuovi pazienti e nuovi DRG, senza considerare che le attuali tariffe prevedono una durata
della degenza collegata alla stabilizzazione del paziente e che la dimissione senza stabilizzazione,
a parte le responsabilità, è considerata dimissione precoce e fa parte dei controlli diretti a impedire
un uso improprio degli stessi DRG. Occorre ricordare che anche la dimissione protetta presuppone un
paziente stabilizzato e che, nella fase di stabilizzazione, la responsabilità resta del reparto ospedaliero di dimissione.
La Legge 132 del 1968 nella riclassificazione degli ospedali aveva disposto la chiusura delle cosiddette Infermerie. Dobbiamo sperare di non doverle rimpiangere.
Claudio Galanti
Le cure intermedie
N. 201
299
Lo scenario internazionale
Gavino Maciocco
Dipartimento di Medicina sperimentale e clinica, Università di Firenze
Abstract
Negli ultimi decenni si è assistito a un profondo cambiamento del ruolo degli ospedali provocato da una serie di ben noti
fattori: la transizione epidemiologica – dalle malattie infettive alle malattie croniche –, le innovazioni tecnologiche che hanno
ridotto e in certi casi annullato il ricorso alle tradizionali forme di ricovero in regime di degenza, la spinta verso l’efficienza
e la razionalizzazione dei processi produttivi in sanità (in cui un ruolo rilevante è stato giocato dai meccanismi di remunerazione delle attività ospedaliere, vedi DRGs).
Tutto ciò ha portato al profondo cambiamento di ruolo degli ospedali all’interno dei sistemi sanitari: meno ospedali, meno
posti letto, durate di degenza più brevi, a fronte di più tecnologia e di maggiore intensità delle cure.
Il processo di cambiamento non ha riguardato in egual
misura tutti i sistemi sanitari
La Tabella I mostra infatti come i sistemi sanitari modello
Beveridge (i “servizi sanitari nazionali”, come quello canadese, italiano, svedese e britannico) e il sistema USA
– per motivi e meccanismi diversi – abbiano ridotto in maniera significativa sia il numero di posti letto che la durata
della degenza ospedaliera, mentre i sistemi sanitari modello Bismarck (ovvero i sistemi basati sulle assicurazioni
sociali, o casse mutue, come quelli austriaco, francese,
tedesco e giapponese) si siano mossi con molta lentezza
verso la riduzione del peso degli ospedali. Il motivo di
ciò è spiegato dal tipo di governo – e governance – che
presidia le scelte di politica sanitaria nei sistemi sanitari
modello Bismarck, in particolare in Germania e Austria.
Qui le scelte strategiche avvengono a un tavolo “consociativo” dove siedono i “politici” locali, i rappresentanti
delle casse mutue, degli ospedali e dei medici e tagliare
i posti letto è operazione difficile e molto più impopolare
di quanto può avvenire altrove.
I dati della Tabella I spiegano anche perché, soprattutto nei
sistemi sanitari tipo Beveridge e nel sistema sanitario USA,
si sia cercato di trovare soluzioni alternative al ricovero
ospedaliero attraverso il rafforzamento delle cure primarie
e l’invenzione delle “cure intermedie”, termine quest’ultimo
coniato nel Regno Unito agli inizi degli anni 2000.
Regno Unito
Intermediate Care: moving forward
Il termine “cure intermedie” (“Intermediate care”) è stato introdotto nel Regno Unito a proposito del miglioramento dell’assistenza agli anziani: “Intermediate care – a range of integrated services to promote faster recovery from illness, prevent
unnecessary acute hospital admission, support timely discharge and maximise independent living – is a vital component of
the programme to improve the health and well being of older
people and raise the quality of services they receive”1.
Il documento del Ministero della sanità britannico “Intermediate Care: Moving Forward”, del luglio 2002, enfatizza l’importanza di questa strategia che “sviluppata e
implementata adeguatamente, sarà in grado di migliorare l’appropriatezza e la qualità dell’assistenza delle persone e avrà un significativo impatto sul sistema sanitario
e sociale nel suo complesso, rendendo più efficace l’uso
delle risorse e istituendo un nuovo modo di lavorare”. Le
cure intermedie – sottolinea il documento – non sono un
“optional”, ma rappresentano l’elemento centrale del programma di innovazione del NHS.
I principi fondamentali delle cure intermedie sono:
• l’enfasi su un’assistenza appropriata che ha al centro
la persona;
• la necessità di un robusto processo di valutazione;
• l’importanza cruciale della partnership tra diversi attori;
300
Le cure intermedie
N. 201
Tabella I.
N. posti letto per 1000 abitanti
Durata media della degenza (giorni)
Ieri*
Oggi**
Ieri*
Oggi**
6,8
2,8
10,0
7,7
9,6 (1980)
3,4 (2011)
7,5 (2001)
7,7 (2011)
15,2
2,7
7,1
6,0
UK
4,0
3,0
9,0
7,3
USA
6,0
3,1
6,4
4,8
Austria
9,9
7,7
12,0
7,9
Francia
8,5
6,4
6,2
5,7
Germania
10,1
8,3
13,0
9,5
Giappone
15,6
13,4
34,4
18,2
Canada
Italia
Svezia
Fonte: OECD 2013. * Primo dato disponibile dal 1980. ** Ultimo dato disponibile (generalmente 2011-2010).
• la garanzia di un tempestivo accesso ai servizi specialistici.
Le “cure intermedie” sono – secondo i documenti del ministero della sanità britannico – un “concetto” e non un
“servizio”; sono una modalità di intervento, attraverso il
concorso di molteplici servizi: “It is not just about health
care, nor social care, nor housing – it is about all of these
things and more and how professions and organisations
can work together to make the core principle of delivering
person-centered care a reality”. Il “concetto” è che una
persona anziana che si trova in difficoltà a causa di un
evento acuto deve trovare risposte adeguate che:
• se a domicilio, gli evitino un inutile o inappropriato
ricovero ospedaliero;
• se ricoverato in ospedale, facilitino la sua dimissione
predisponendo un adeguato percorso assistenziale.
Un “concetto” da riempire di contenuti (linee-guida, percorsi assistenziali), di regole e – non ultimo – di risorse. L’area
delle cure intermedie è stata temporalmente circoscritta in
un periodo di 6 settimane, nel corso del quale tutte le prestazioni di carattere sanitario e sociale sono a completo
carico del NHS (“Any services which form part of a package of intermediate care as defined in the regulations must
be provided free of charge for six weeks” 2). Il Ministero
della Sanità ha predisposto 3 contratti-tipo per consentire
ai provider privati di inserirsi in questo tipo di intervento:
a) Domiciliary intermediate care;
b) Intermediate day rehabilitation services;
c) Residential intermediate care 3. Il Governo ha inoltre
stanziato risorse aggiuntive per 900 milioni di sterline
all’anno (oltre 1,1 miliardi di Euro) per finanziare tale
progetto, che comporta tra l’altro la creazione di nuovi 5000 posti letto residenziali nel 20044.
Nella Figura 1 è riportato l’ambito delle cure intermedie
nel Primary Care Trust di Swindon; tra l’ospedale e il domicilio del paziente (in un flusso bidirezionale) sono collocati una serie di servizi e strutture sanitarie e sociali:
community stroke unit, orthopedic early discharge scheme, servizi domiciliari di riabilitazione, residenze infermieristiche (le nostre RSA), ospedali di comunità, residenze sociali; e anche una struttura specificamente costruita
e dedicata a ricoveri temporanei per le cure intermedie,
lo Swindon Intermediate Care Centre 5.
La strategia dell’intermediate care ha avuto l’effetto di focalizzare l’attenzione sulle modalità di dimissione dei pazienti dagli ospedali: è del gennaio 2003 la pubblicazione di
un volume da parte del Ministero della sanità interamente dedicato alle procedure di dimissione ospedaliera (Discharge from hospital: pathway, process and practice) 6.
È un documento contenente raccomandazioni “vincolanti”
per gli ospedali e per i servizi territoriali, che enfatizza l’assistenza “person-centred”. “L’assistenza “person-centred” si
pone l’obiettivo di garantire che le persone anziane ricevano un trattamento individualizzato, attraverso un pacchetto
appropriato e tempestivo di servizi che rispondono ai loro
specifici bisogni, al di là delle competenze e dei confini
delle singole organizzazioni. Tutto ciò comporta l’adozione di percorsi assistenziali che avranno un impatto sull’organizzazione e il coordinamento dell’assistenza in preparazione della dimissione.”
N. 201
Con la pubblicazione del documento, i cui principi chiave
sono elencati nel Box 1, nessun ospedale potrà più dimettere un paziente senza un’adeguata pianificazione del
suo trasferimento (Fig. 2).
A distanza di circa 10 anni è possibile tracciare un bilancio dell’esperienza britannica dell’Intermediate Care (I.C.),
sulla base delle conclusioni dell’Audit nazionale svolto nel
2012 7 – riferito al periodo 1 aprile 2011-31 marzo 2012
–, che possono essere sintetizzate nei seguenti punti:
1. Complessivamente gli interventi di I.C. riescono a soddisfare soltanto la metà della potenziale domanda e
presentano una grande variabilità territoriale all’interno del NHS.
2.Gli investimenti in I.C. sono stati mediamente di 1,9
milioni di sterline (2,3 milioni di Euro) per 100 mila
abitanti, di cui il 58% per attività di ricovero (in strutture residenziali o in ospedali di comunità) e il 42% in
attività di assistenza domiciliare.
3. Il numero medio di ricoveri in strutture di I.C. è stato
di 259 per 100 mila abitanti e di pazienti assistiti a
domicilio è stato di 725 per 100 mila abitanti.
4. La durata media dei ricoveri è stata di 27-30 giorni e
delle attività domiciliari di 24-29 giorni.
5. Il costo giornaliero della degenza è stato di 136 sterline (166 Euro) nelle strutture residenziali e di 252
sterline (309 Euro) negli ospedali di comunità.
Le cure intermedie
301
6.Nel 58% dei casi trattati c’è stata un’integrazione –
anche economica – tra servizi sanitari del NHS e servizi sociali delle autorità comunali.
USA
Skilled Nursing Facility
Se nei servizi sanitari tipo Beveridge la scelta di ridurre la
rete ospedaliera e il numero dei posti letto è stata il frutto
di strategie politiche nazionali e regionali di razionalizzazione del sistema, negli USA ciò avvenuto in concomitanza dell’esteso processo di privatizzazione degli ospedali
pubblici e non-profit avvenuto negli anni 80 e primi anni
90 sotto i governi Reagan e Bush. Va ricordato anche che
negli USA nel 1984 viene introdotto il sistema dei DRGs,
che fornisce una forte spinta alla riduzione della durata
delle degenze. Per facilitare le dimissioni dei pazienti più
anziani, Medicare – l’assicurazione pubblica che garantisce l’assistenza alle persone ultrasessantacinquenni – consente i ricoveri presso Skilled Nursing Facility. Si tratta
di strutture con qualificata assistenza infermieristica, per
il ricovero nelle quali Medicare rimborsa i costi – fino a
100 giorni di degenza – a condizione che il paziente
abbia precedentemente avuto un ricovero ospedaliero di
almeno 3 giorni e vi acceda non oltre 30 giorni dalla
dimissione. I primi venti giorni di ricovero sono completamente gratuiti, co-pagamento di $133,50 al giorno dal
21 al 100° giorno. Dopo il
100o giorno il paziente paga
il prezzo pieno del ricovero 8.
Figura 1. Cure intermedie presso il Primary Care Trust di Swindon.
Anche se nessuno in USA la
chiama così, si tratta una forma di Intermediate Care.
Svezia
La discontinuità delle cure
La Svezia è il sistema sanitario
che ha maggiormente ridimensionato la propria rete ospedaliera, riducendo drasticamente il numero dei posti letto
per 1000 abitanti: dai 15,2
del 1980 ai 2,7 nel 2011.
Ma, come nota una pubblicazione dell’OECD 9 la Svezia è
anche un sistema che ha seri
problemi nel garantire la continuità delle cure dei pazienti
dimessi dall’ospedale: solo il
20% dei medici di famiglia ri-
302
Le cure intermedie
N. 201
Box 1. Principi chiave per le dimissioni ospedaliere programmate.
Figura 2. Accompagnare gli anziani attraverso il labirinto.
ceve informazioni necessarie per gestire adeguatamente
un paziente dimesso. Inoltre con una legge del 2001 la
responsabilità di fornire l’assistenza socio-sanitaria post
dimissione ospedaliera è affidata ai Comuni, mentre la responsabilità dell’assistenza sanitaria è in capo alle Contee, e il coordinamento tra questi due livelli istituzionali
rappresenta oggi uno dei principali problemi del sistema
sanitario svedese.
Bibliografia
Department of Health, Intermediate Care, Moving Forward June 2002.
1
Department of Health, Local authority circular LAC (2003) 14.
2
Il coinvolgimento e la partecipazione attiva dei pazienti
e dei loro familiari – come partner alla pari – è centrale nell’erogazione dei servizi e nella programmazione
della dimissione.
La dimissione è un processo e non è un evento isolato.
Questo deve essere pianificato alla prima occasione possibile – sia a livello di cure primarie o di cure ospedaliere
– creando le condizioni perché i pazienti e i loro familiari
siano in grado di contribuire alle decisioni da prendere.
Il processo della dimissione programmata deve essere
coordinato da una persona specificamente nominata
che avrà la responsabilità di seguirne tutte le fasi, tra
cui quella della valutazione dei bisogni. Questo comporta degli stretti collegamenti con il coordinatore del
caso nel territorio e il trasferimento delle relative responsabilità al momento della dimissione.
Il personale deve operare all’interno di un quadro di riferimento di integrazione multidisciplinare e di collaborazione tra diversi servizi per affrontare tutti gli aspetti
del processo di dimissione.
L’erogazione dei servizi sanitari e sociali deve essere
organizzata in modo che i pazienti possano apprezzare la continuità delle cure, possano essere consapevoli
dei loro diritti, possano ricevere tutte le informazioni
e i consigli che consentano loro di prendere decisioni
informate sul loro futuro.
Department of Health, Discharge from hospital: pathway,
6
process and practice, 2003. www.doh.gov.uk/changeagentteam/discharge_getri.pdf
NHS, National Audit of Intermediate Care Report, 2012.
7
www.nhsbenchmarking.nhs.uk/icsurvey.aspx
Maciocco G, et al. Le sfide della sanità americana. Il Pensie-
8
ro Scientifico Editore 2010, p. 44.
www.doh.gov.uk/intermediatecare/
3
www.nelh.nhs.uk/management/mantop/0117intermed.htm
4
www.swicc.nhs.uk/the_swindon_primary_care_trust.htm
5
http://www.oecd.org/health/sweden-has-excellent-health-
9
care-but-must-improve-care-co-ordination.htm
304
Le cure intermedie
N. 201
Organizzazione
e gestione delle strutture
Anna Banchero
Docente Università di Genova, Facoltà Giurisprudenza; Esperta Agenzia sanitaria, Regione Liguria
Abstract
In Italia e in Europa le cure intermedie sono in aumento. Anche per i processi di invecchiamento, le malattie croniche
rappresentano oggi una delle più importanti sfide che la medicina e i servizi sanitari devono affrontare e a cui dovranno far fronte nel prossimo futuro, come emerge dalle proiezioni di lungo periodo della World Health Organization
(WHO).
Anche in Italia la gestione della cronicità costituisce un tema di assoluta rilevanza. Secondo le elaborazioni del Major
and Chronic Diseases Report del 2007, redatto dalla Direzione generale salute e consumatori della Commissione Europea, gli italiani risultano più longevi rispetto alla media europea. Particolarmente accentuato entro i prossimi trenta
anni è l’aumento degli ultra 65enni (anche ultra75enni e ultra80enni), oggi intorno al 20,7% del totale della popolazione, con punte che arrivano e superano il 28% in regioni come la Liguria. L’Emilia-Romagna, le Marche, l’Umbria e
la Toscana, andranno ad aumentare fino al 2043, anno in cui oltrepasseranno il 32%. Dopo tale anno, la quota degli
ultra 65enni andrà, secondo le previsioni ISTAT, a consolidarsi intorno a un valore del 33%. Le percentuali in Europa
sono senz’altro inferiori e oggi non arrivano al 20%, ma comunque, anche negli altri Stati, le malattie croniche, di
lunga durata, sono in ascesa.
Anche se i sistemi sanitari dovrebbero aver rimosso la
centralità dell’ospedale, purtroppo, di fatto non è così e
la compressione dei posti ospedalieri cui assistiamo in
Italia dal 1980 al 2000 è superiore al 50%, a questo
si aggiunge la riduzione dei giorni di degenza di quasi
il 45% e la riduzione della degenza media del 40%, in
maniera tale che il presidio ospedaliero, come è corretto
che sia, è quasi esclusivamente dedicato all’acuzie e alla
diagnostica d’urgenza. I nuovi tagli alla sanità della spending review a fine 2013, hanno portato i posti ospedalieri al 3,7 per mille, dove il 3% sono posti per acuti e lo
0,7 posti dedicati alla riabilitazione e alla lungodegenza.
Quanto illustrato in precedenza, con il forte invecchiamento della popolazione e una diversa distribuzione dei
nuclei familiari, dove la famiglia mononucleare insiste per
oltre il 30, richiede che si ponga forte attenzione ai problemi della “lungo assistenza”. L’urgenza delle dimissioni
ospedaliere, la scarsa capacità del “territorio” di sostenere una domiciliazione del paziente hanno portato a
individuare soluzioni “intermedie” all’ospedale per acuti
con definizioni che indicano la peculiarità di questo tipo
di cure, definite con termini anglosassoni, intermediate
care o transitional care, ovvero:
“Gamma di servizi integrati finalizzati a promuovere un
più rapido recupero della malattia, prevenire ricoveri
ospedalieri non necessari, supportare le dimissioni dall’ospedale nei tempi giusti, ottimizzare l’autosufficienza e
l’indipendenza nella quotidianità di vita”. Questa è la definizione adottata dalla British Geriatric Society nel 2002.
In Italia la definizione “cure intermedie” risale ai primi anni Novanta ed è stata oggetto anche di critiche
concettuali in quanto racchiude in sé elementi molto
assai eterogenei tra di loro. Di fatto, le cure intermedie
rappresentano quelle cure di cui le persone fruiscono
Le cure intermedie
N. 201
una volta dimesse dall’ospedale e prima del rientro al
domicilio.
I pazienti che hanno bisogno di cure intermedie sono coloro che possono essere dimessi dal ricovero ospedaliero,
ma che richiedono comunque una tutela medica e infermieristica nelle 24 ore, oppure anche pazienti con condizioni cliniche meno complesse, ma che hanno ancora
bisogno di cure infermieristiche prestate quotidianamente.
Questi pazienti non richiedono un monitoraggio invasivo,
ma il frequente controllo dei parametri vitali con un tipo
di assistenza infermieristica che non deve essere svolta in
ambiente ospedaliero, ma potrebbe realizzarsi anche a
domicilio in presenza di “caregiver familiari” ben informati
e soprattutto disponibili per tempi protratti, fatto difficilmente realizzabile nella maggioranza delle attuali famiglie 1.
Sotto un altro profilo, va anche detto che i monitoraggi cardiologici, chirurgici, vascolari o delle malattie respiratorie
croniche in forma riacutizzata, così come quelli neurologici o neurochirurgici, anche per evitare complicanze, non
sempre possono essere svolti a domicilio, sia per le attrezzature richieste che per le professionalità necessarie, ecco
quindi che l’area delle cure intermedie risponde a queste
esigenze, anche e soprattutto sotto il profilo dei costi.
Alcuni studi epidemiologici in materia (Franklin et al. 2),
hanno dimostrato come le cure intermedie possano ridurre le riacutizzazioni e migliorare complessivamente
le condizioni di salute del portatore di malattia cronica,
concorrendo nello stesso tempo a un risparmio dei costi
sanitari, in quanto l’Unità di cure intermedie è meno costosa del reparto ospedaliero.
Le cure intermedie: setting funzionale per l’approccio
alla cronicità
I pazienti elettivi per le cure intermedie sono quelli definibili a bassa intensità di cura, ma come si diceva in precedenza, necessitano ancora di monitoraggio e cure in
riferimento alla complessità clinica ancora esistente. Il paziente che fruisce delle cure intermedie è ancora in situazione di malattia, ma non tanto grave, da dover protrarre
il ricovero ospedaliero e non sufficientemente stabilizzato
per rientrare e vivere al proprio domicilio 3.
Questa concezione delle cure intermedie trova una sua
realtà in presenza di una rete di servizi territoriali (dalle
cure domiciliari ai centri diurni) che promuova sempre
più l’avvicinamento delle persone con frequenti necessità
di assistenza sanitaria al proprio ambiente di vita, nelle
migliori condizioni di autonomia e ricevendo le opportune cure in sedi extra-ospedaliere. Un’organizzazione
già collaudata di questo tipo (anche se basata su forme
assicurative), si trova nelle nursing home degli USA e del
Giappone. Obiettivo di queste formule organizzative è la
riduzione della low care ospedaliera da una parte, e dall’
altra il contenimento degli accessi al Pronto Soccorso.
Se le cure intermedie sono inserite, secondo il significato
del termine intermedio, in una rete di servizi sociosanitari,
il loro ruolo può essere anche quello di fornire prestazioni
a persone non dimesse dall’ospedale, ma di provenienza
territoriale, soprattutto se “arruolati” in un modello assistenziale come quello del chronic care model (CCM), per
evitare, dove è possibile, l’ospedalizzazione applicando
diversi setting di cura, in maniera innovativa, rivolgendosi
al complesso delle risorse territoriali non solo di tipo curativo, ma anche comunitario. Le sei regole del CCM, sono
così riassumibili:
Risorse della comunità atte a migliorare l’assistenza ai
pazienti cronici con solidi collegamenti con le risorse della comunità: gruppi di volontariato, gruppi di auto aiuto,
centri per anziani, ecc.
Organizzazioni sanitarie: dovrebbero provvedere a una
diversa gestione delle malattie croniche assunte come
“priorità” dagli erogatori e dai finanziatori dell’assistenza sanitaria. Se questo non avviene difficilmente potranno essere introdotte innovazioni nei processi assistenziali e ancora più difficilmente potrà aumentare la qualità
dell’assistenza.
Supporto all’auto-cura. Il paziente deve diventare protagonista attivo dei processi assistenziali, la gestione della
sua malattie deve essere oggetto di insegnamento alla
maggior parte dei pazienti con elementi che riguardano
la dieta, l’esercizio fisico, il monitoraggio (della pressione, del glucosio, del peso corporeo, ecc.), l’uso dei farmaci, in modo che il primo controllo avvenga direttamente da parte del paziente stesso. Il supporto all’auto-cura
significa aiutare pazienti e famiglie ad acquisire abilità
e fiducia nella gestione della malattia, valutando anche
gli errori.
Organizzazione del team di cura. Il team assistenziale
(medici di famiglia, infermieri, educatori, ecc.) deve essere modificato, si deve introdurre una nuova suddivisione
del lavoro: assistenza ai pazienti acuti e gestione pro Da sottolineare che le condizioni abitative attuali di molte persone
ultrasettantacinquenni e ultraottantenni sono spesso contraddistinte
dalla solitudine, ovvero non possono contare su caregiver familiari e
ciò complica ulteriormente i problemi di fragilità.
3
Trabucchi M. I vecchi la città e la medicina. Il Mulino 2005.
Quaderni di Geriatria 2001.
1
2
305
306
Le cure intermedie
grammata ai pazienti cronici. I medici trattano gli acuti e
intervengono nei casi cronici difficili e complicati, provvedendo anche alla formazione del personale del team.
Il personale non medico deve supportare l’auto-cura dei
pazienti e svolgere specifiche funzioni (test di laboratorio,
esami specifici, ecc.), assicurando la programmazione e
lo svolgimento del follow-up dei pazienti. Le visite programmate sono uno degli aspetti più significativi del nuovo disegno organizzativo del team.
Supporto alle decisioni. Devono essere adottate linee-guida basate sull’evidenza, per fornire al team gli standard
di un’assistenza ottimale ai pazienti cronici. Le linee-guida sono rinforzate da attività di aggiornamento continuo
per tutti i componenti del team.
Sistemi informativi. I sistemi informativi computerizzati devono svolgere tre importanti funzioni:
• sistema di allerta che aiuta i team delle cure primarie
ad attenersi alle linee-guida;
• feedback per i medici, mostrando i loro livelli di performance nei confronti degli indicatori delle malattie
croniche;
• registri di patologia per pianificare la cura individuale
dei pazienti e per organizzare l’assistenza populationbased. I registri di patologia, sono una delle caratteristiche centrali del chronic care model e consistono in
liste di tutti i pazienti con una determinata condizione
cronica in carico a un team di assistenza.
Il grafico che segue indica i flussi rilevabili nella realtà
attuale, invariata rispetto le proposte sopra avanzate, accettare le indicazioni del CCM significa invece investire
N. 201
molto di più sulla prevenzione, sull’ambiente circostante,
sull’auto-coscienza e la responsabilità di cura.
Anche se gli elementi evidenziati, collocati possono oggi
apparire “irrealistici”, non è così. Si tratta di ridefinire gli
obiettivi del sistema sanitario, a risorse economiche invariate, riorganizzare le stesse e responsabilizzare pazienti
e cittadini anche nel loro ruolo, non solo di consumatori,
ma di stakeolder. Certo è qualcosa di più della buona
volontà, ma se vogliamo evitare i continui tagli al sistema
sanitario e puntare alla sua sostenibilità, di fronte a una
popolazione che invecchia e soprattutto si ammala di più
di patologie croniche, bisogna prendere atto della necessità di un cambiamento.
Le risposte delle regioni italiane
Prendendo in esame la situazione italiana che emerge
nelle diverse regioni: alcune di esse, quali Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Umbria, con una maggior variegatezza nella regione Lazio e
una forte disomogeneità nelle regioni del Sud – che sono
poi la maggioranza delle regioni in “piano di rientro”
ovvero quelle sottoposte a controllo dei Ministeri della
Salute e dell’Economia e Finanze per non aver rispettato
i limiti della spesa sanitaria – emerge una rilevante differenza nelle risposte alla cronicità.
Va detto che le Regioni, soprattutto nell’ultimo decennio,
hanno dovuto affrontare in primis la riorganizzazione della rete ospedaliera e pertanto, piccoli ospedali o reparti
ospedalieri “scarsamente efficienti” sono stati trasformati
in unità per la lunga assistenza, con denominazioni diffe-
N. 201
renti, anche se l’organizzazione di fondo è similare, ma
tutte le strutture scelte hanno la stessa mission: provvedere
alle cure di pazienti dimessi dall’ospedale con instabilità
clinica che richiede prestazioni sanitarie e monitoraggio
delle evoluzioni della patologia per evitare riacutizzazioni.
Dove si riscontra una pesante differenza è sotto il profilo della denominazione; raggruppando i nomi più diffusi
dei presidi, troviamo:
• ospedali di comunità;
• residenze sanitarie (non RSA);
• cure intermedie;
• case della salute con funzioni assistenziali complesse;
• presidi territoriali di assistenza;
• strutture residenziali con elevata assistenza sanitaria.
In tutte le denominazioni indicate, dobbiamo però sottolineare che si tratta nella maggioranza dei casi di strutture
o moduli di esse, con una dotazione di 20/30 posti che
hanno in comune l’assistenza sanitaria a pazienti con cronicità in fase non acuta ma con persistente instabilità clinica. Non viene richiesta compartecipazione alla persona
o alla famiglia e il ricovero non può superare i 20-30
giorni, in casi eccezionali si può arrivare anche a 45-max
60 giorni.
Da un punto di vista della localizzazione, in linea di
massima, le cure intermedie sono collocate tra i presidi
territoriali, ma in alcuni casi (ad esempio di dismissione
o di riconversione di posti ospedalieri) sono collocate anche all’interno o nelle immediate vicinanze dell’ospedale.
Riflettendo sulla localizzazione è ovvio che l’inserimento
delle cure intermedie nella rete territoriale consente di individuarle come un “nodo” della rete stessa, mentre se di
dipendenza ospedaliera, a prescindere dai contenuti di
attività, la funzione si riduce a essere una “dipendenza”
dell’ospedale che accoglie malati scomodi, più che far
parte di un complessivo programma di cura, come richiesto dall’approccio CCM.
Dalla localizzazione territoriale dipende in larga parte
anche l’assetto organizzativo perché, nelle strutture collocate nella rete territoriale, il responsabile sanitario è nella
maggioranza dei casi un medico di medicina generale,
mentre per quelle cure intermedie che sono una dépandance ospedaliera, il responsabile medico proviene nella
totalità da incarichi ospedalieri.
La collocazione ha ripercussione anche sulle modalità di
accesso: o si accede alle cure intermedie con una segnalazione da parte del medico di famiglia o con un trasferimento diretto dal reparto ospedaliero per acuti fatto
non positivo perché nella maggioranza dei casi lascia
fuori dagli accordi il MMG e quindi non si completa il
Le cure intermedie
307
ciclo del rientro a domicilio. Comunque, in tutti i casi la
persona accede con una diagnosi e con una prognosi
già definite, che vengono poi ri-concordate con il medico
della struttura.
In base alla collocazione di questi presidi la funzione che
assumono nel programma di assistenza può variare: se costituiscono “un nodo della rete” si configurano come un setting transitorio che consente il rientro a domicilio, mentre se
ci troviamo di fronte a una struttura che ha ancora valenza
ospedaliera è solo una fase meno intensa del ricovero, cui
devono seguire successive e non sempre lineari negoziazioni con il distretto, per reinserire il paziente a domicilio o
in altra struttura assistenziale di minore intensità.
Il personale che opera nelle cure intermedie, in linea di
massima, è composto da:
• una o più figure mediche, di cui un responsabile del
governo clinico che coordina gli interventi assistenziali e che provvede anche al raccordo con altre strutture
sanitarie;
• personale infermieristico: una unità ogni 10/12 ricoverati, calibrando il numero in modo da consentire anche una presenza anche notturna;
• operatori sociosanitari (OSS) in numero tale da consentire un aiuto e supporto quotidiano alla persona e
un supporto alle attività alberghiere;
• ausiliari (o servizi esternalizzati) per pulizie governo
dell’ambiente.
Il costo di una giornata di degenza si aggira da 120
a 160/170 euro/die, in relazione al fatto che farmaci
e materiale sanitario siano forniti o meno dall’ASL e si
tratti quindi di strutture pubbliche o di privato accreditato. Un discorso specifico va fatto per il MMG, in
quanto anche se la struttura è coordinata da un medico
che appartiene alla medicina generale, il paziente resta comunque in carico al proprio medico di medicina
generale.
Conclusioni
Analizzando i posti ospedalieri esistenti nei diversi Stati
europei, si può constatare che quasi tutte le nazioni si avvalgono di posti che definiscono “lungo degenze” o posti
ospedalieri a bassa complessità, utilizzati per il transito
delle persone particolarmente fragili e in età avanzata
dalla fase di acuzie alla dimissione e alla ricollocazione
nell’ambiente di vita o per la “lungo assistenza”, in presidi a valenza sociosanitaria o sociale.
Di questo, l’Italia intesa come governo nazionale, deve
prendere atto per non alimentare fantasiose soluzioni
308
Le cure intermedie
come oggi si riscontrano nelle diverse regioni. Non è più
possibile lasciare indefinita, proprio per la epidemiologia
di cui si parlava in precedenza, la cura post-acuzie delle fragilità/cronicità, è necessario che le risposte offerte
sotto il profilo della cura siano corrette anche sotto quello
dell’etica clinica, che richiede appunto una maggior attenzione a chi è fragile e instabile, proprio per evitare
danni maggiori, che in sintesi, alimenteranno pure la spesa in senso negativo e creeranno difficoltà funzionali ai
servizi di Pronto Soccorso.
N. 201
Ci si augura che anche le società scientifiche, di geriatria
e medicina assumano posizioni e promuovano riflessioni
che possano influenzare positivamente, scelte nazionali
e regionali per definire con chiarezza, anche facendo
tesoro delle buone esperienze condotte in materia da
alcune regioni, “mission” e funzioni assistenziali” delle
intermediate care, a giovamento innanzitutto dei pazienti
e quindi dell’intero sistema sanitario e sociosanitario, in
modo da offrire setting assistenziali appropriati ai bisogni
dei cittadini più deboli.
Le cure intermedie
N. 201
309
Il ruolo della
medicina generale
Vittorio Boscherini
Medico di medicina generale
Abstract
Il problema della crisi economica in Italia, se non risolto, lentamente si avvia a diminuire il suo impatto sulla popolazione,
anche se rimangono problemi importanti da affrontare come la disoccupazione generale, in particolare quella giovanile,
l’enorme deficit pubblico e la sopravvivenza di un Servizio sanitario nazionale universale ed equo. È indubbio che le risorse
da impegnare per il rilancio della struttura economica italiana non debbano essere sistematicamente trovate nella sanità che
è stata duramente provata dai tagli effettuati negli ultimi anni, ma è anche indubbio che gran parte delle risorse pubbliche
siano impiegate in Italia nel welfare e che quindi difficilmente le regioni non potranno non affrontare il problema di un’ulteriore razionalizzazione delle spese anche in sanità. Tali razionalizzazioni, però, non dovranno più essere fatte con quei
tagli lineari volti a colpire particolarmente le regioni che tutelano a tutto campo la salute dei cittadini, offrono servizi spesso
efficienti ed efficaci e hanno un pareggio di bilancio, ma dovranno colpire inefficienze e sprechi.
Il problema della spesa deve essere affrontato alla
radice, attraverso una profonda riorganizzazione
dell’intero servizio sanitario nazionale che si basi sullo
spostamento della gestione di numerose patologie, in
particolare quelle croniche dall’ospedale e in generale
dalla specialistica verso il territorio, verso la medicina
generale. Perché questo possa essere attuato senza far
pagare prezzi, in termini di salute, ai cittadini, occorre
riorganizzare tutta l’attività primaria e la medicina generale. Questo in Toscana è già cominciato: sono state
create le AFT, stanno nascendo le Case della salute che
dovranno trasformarsi in UCCP e la medicina d’iniziativa con la creazione di team assistenziali pluriprofessionali coordinati dai medici di medicina generale arriverà alla fine del 2014 a coinvolgere il 60% dei medici
e della popolazione Toscana, ma tutto questo non è
sufficiente per affrontare il problema della sostenibilità
del SST. Occorrerà un’ulteriore razionalizzazione della
rete ospedaliera con un taglio reale dei 2000 posti
letto previsti dal piano sanitario regionale e un taglio
del tasso di ricovero fino ad arrivare al 115 per mille.
Per raggiungere tali obiettivi, è necessaria la creazione
di servizi territoriali in grado di assistere al meglio quei
cittadini che un tempo erano curati a livello ospedaliero. Fra i molteplici servizi che dovranno essere implementati a livello territoriale, uno è assai importante per
affrontare il problema dell’appropriatezza dei ricoveri
in ospedale – che deve gestire essenzialmente l’acuzie
– e per affrontare il problema del taglio dei giorni di
degenza: le cure intermedie. La Regione Toscana nella
delibera d’istituzione e di finanziamento così definisce
tale istituzione “Esistono pertanto molte declinazioni
del concetto di Assistenza Intermedia (Intermediate
Care), la definizione che si ritiene attualmente meglio si
adatti al nostro contesto di riferimento è quella fornita
dall’Oxford and Anglia Intermediate Care Project che
fa riferimento all’insieme dei servizi che non richiedono
le risorse di un ospedale per acuti ma hanno finalità più
complesse di quelle offerte dalle cure primarie”. Per
cure intermedie s’intendono quindi una serie di servizi
sia domiciliari sia residenziali che hanno una complessità assistenziale superiore a quella erogata nelle ADI,
310
Le cure intermedie
ma che non arriva alle competenze e alla complessità
assistenziale di un ospedale per acuti. La Regione Toscana, nella succitata delibera, così definisce tali servizi: “Si tratta quindi di una vasta gamma di servizi forniti in un arco temporale a breve termine, a domicilio o
in un ambiente residenziale, il cui obiettivo è quello di
facilitare la dimissione precoce dall’ospedale, evitare
i ricoveri non necessari e prevenire il ricorso all’istituzionalizzazione. La finalità primaria dell’Assistenza
Intermedia è infatti quella di svolgere una funzione di
transizione, creando un ponte tra differenti livelli di erogazione dell’assistenza”. Mentre per i servizi domiciliari, in gran parte della Toscana, qualcosa è già stato
fatto, per le cure intermedie in ambiente residenziale
poco è stato fatto e c’è un rischio reale che si vadano a
identificare le cure intermedie con i Moduli di degenza
a bassa intensità di cure, a suo tempo identificati in un
documento licenziato dal Consiglio Regionale dei Sanitari, che è invece ben distinto dalle strutture residenziali
di cure intermedie. Dovendo i Dg delle nostre aziende
sanitarie cogliere un duplice obiettivo, quello di diminuire i posti letto per acuti e creare posti letto di cure intermedie, si cerca di identificare, nei moduli di degenza a
bassa intensità di cure, una low care ospedaliera nelle
cure intermedie. Ma la low care è un’organizzazione
gestita dai medici ospedalieri con una pianta organica
ospedaliera con costi fissi ospedalieri dove la medicina
generale non ha e non deve avere alcuna funzione e la
trasformazione di un reparto per acuti in una low care
spesso equivale solo a un cambio di una targa sulla
porta d’ingresso di un reparto. Cosa diversa sono posti
letto di cure intermedie che possono, in minima parte,
servire a stabilizzare pazienti dimessi dai reparti per
acuti e rimetterli in grado di essere gestiti a livello domiciliare, ma soprattutto devono servire per i pazienti
cronici che si riacutizzano, che non necessitano di cure
ospedaliere complesse, nell’ottica di evitare ospedalizzazioni non necessarie. Tali strutture dovranno essere
collocate il più vicino possibile agli ambiti territoriali
dei medici di MG, le strutture più idonee, per la loro
diffusione, dovrebbero essere le RSA, e dovranno possedere dei requisiti minimi:
• organizzazione delle attività di tipo orizzontale con
responsabilità professionale al medico di medicina generale;
• assistenza infermieristica sulle ventiquattro ore;
• approvvigionamento del farmaco notturno e diurno.
Armadio farmaceutico per le urgenze;
• ossigeno terapia garantita ventiquattro ore;
N. 201
• possibilità di effettuare nella struttura alcuni parametri
di laboratorio (glicemia, elettroliti, troponina, inr);
• possibilità di fare un tracciato ECG con l’eventuale lettura in loco o attraverso la telemedicina;
• corsie preferenziali per il laboratorio sia per l’urgenza
sia per la routine;
• corsia preferenziale per rx torace che deve essere garantito entro ventiquattro ore (compreso la garanzia
del trasporto con ambulanza);
• corsie preferenziali per diagnostica radiologica di I
livello (addome in bianco ...);
• possibilità di poter fare eco internistiche nell’arco delle
ventiquattro ore sia sfruttando professionalità presenti
nei medici di medicina generale sia attraverso consulenze specialistiche.
Altre possibili sedi di residenzialità per cure intermedie
potranno essere:
• ospedali dismessi;
• spazi ospedalieri non per acuti;
• strutture create ad hoc;
• strutture messe a disposizione dal volontariato;
• posti letto messi a disposizione da case di cura private;
• le UCCP.
L’assistenza sanitaria dovrà essere garantita dalla medicina generale nelle sue due componenti a ciclo di fiducia e
a rapporto orario. Il paziente rimane in carico al medico
di medicina generale a ciclo di fiducia il quale concorda
con il primario ospedaliero l’eventuale dimissione e l’inserimento di un paziente ancora non in grado di essere gestito
al proprio domicilio oppure concorda con il coordinatore
della AFT nel cui ambito territoriale è inserita la struttura
di cure intermedie l’eventuale ricovero del paziente. Il cittadino sarà curato in collaborazione con gli ex medici di
continuità assistenziale eventualmente integrati dai medici
tirocinati, in attesa d’inserimento, per il periodo strettamente necessario al suo reinserimento al proprio domicilio. Il
medico a rapporto orario gestisce la quotidianità e le eventuali urgenze di questi pazienti dalle ore 8 alle ore 24.
Dalle ore 24 alle ore 8 le urgenze saranno gestite dal 118.
La responsabilità della presa in carico potrebbe essere affidata alla AFT nella persona del coordinatore della stessa che garantirebbe l’attivazione dei servizi necessari.
La specialistica dovrà essere garantita attraverso il meccanismo consulenziale. La dove si realizzino strutture di cure
intermedie a numero elevato di posti letto l’organizzazione strutturale dovrà essere affidata a medici di comunità.
I compiti del coordinatore dell’AFT nelle cure intermedie
dovranno essere:
N. 201
• garantire l’integrazione fra l’ospedale e il territorio;
• garantire la correttezza dei rapporti professionali fra i
medici a rapporto orario e quelli a ciclo di fiducia;
• garantire i rapporti con la medicina di comunità nel
caso di grosse strutture di cure intermedie che necessitano di una direzione organizzativa;
• gestire le priorità d’accesso dei pazienti sia provenienti dall’ospedale sia dal territorio in caso di necessità;
• garantire, attivando i medici a rapporto orario e/o i tirocinati, comunque la presa in carico del cittadino che
necessità di cure intermedie anche nel caso dell’impossibilità a farlo da parte del titolare della scelta.
Il personale infermieristico è il cardine dell’assistenza
delle cure intermedie, è autonomo professionalmente e
responsabile per le funzioni che gli sono state assegnate,
Le cure intermedie
311
si raccorda con il medico a ciclo di fiducia e con quello
a rapporto orario.
I costi, che dovrebbero essere ricompresi fra quanto è
corrisposto giornalmente a una casa di cura convenzionata e quanto è corrisposto a una RSA per un modulo,
sono il limite principale poiché tali costi coincidono ed è
chiaro che almeno l’assistenza infermieristica attualmente
erogata nei moduli delle RSA deve essere potenziata e
che le prestazioni dei medici a ciclo di fiducia dovranno
essere remunerate.
Si auspica altresì il superamento dell’attuale forma di remunerazione ad accesso per i medici a ciclo di fiducia,
introducendo un’indennità di presa in carico legata anche al raggiungimento di obiettivi assistenziali e al tasso
di ricovero.
312
Le cure intermedie
N. 201
Competenze e prospettive
per l’infermiere
Laura Rasero1, Patrizia di Giacomo2, Luisanna Rigon3,
Cristina Santin4
Professore Scienze infermieristiche, Università di Firenze
Tutor universitario e Professore a contratto di Infermieristica, Università di Bologna, sede di Rimini
3 Presidente e Direttore scientifico di Formazione in Agorà, Scuola di Formazione alla salute, Padova
4 Infermiera clinica, U.O. Pronto Soccorso, Azienda Ulss 7 Pieve di Soligo (TV)
1 2 Abstract
In Italia come in altri Paesi, da tempo si lavora alla ricerca di soluzioni organizzative sanitarie e sociosanitarie efficaci nel
fornire risposte scientificamente valide ed economicamente sostenibili.
La transizione demografica verso l’aging, con una popolazione progressivamente sempre più rappresentata da individui in
età avanzata (le stime attuali citano una quota del 33% di soggetti ultrasessantacinquenni sul totale di popolazione attesi
nel 2030) con un’incidenza importante di malattie cronico degenerative e con un conseguente incremento della disabilità,
si scontra con i vecchi modelli di assistenza e cura, che hanno da sempre privilegiato una dimensione ospedalocentrica.
L’incremento della complessità assistenziale obbliga a un
ripensamento profondo e a una conseguente riprogettazione sia dei luoghi di cura, che dei modelli organizzativo/assistenziali in atto, favorendo una vera integrazione
ospedale-territorio e ridefinendo modelli di assistenza che
prevedano da subito il coinvolgimento della persona e
della famiglia in un’ottica di proattività, ovvero di capacità di assumere un ruolo chiave nei processi sanitari che
direttamente interessano la persona.
Su tale falsariga si muove, ad esempio, il modello già
implementato sul territorio toscano per i pazienti con patologie croniche: l’Expanded Chronic Care Model è orientato a un approccio “proattivo” tra i professionisti della
salute e le persone fragili con comorbosità e/o patologie
croniche, i quali diventano i primi protagonisti del proprio
percorso assistenziale.
Il paradigma della relazione mira a sviluppare l’empowerment dell’assistito il quale, acquisendo una profonda conoscenza e consapevolezza di sé e dei propri bisogni di
salute, assume la responsabilità della gestione del proprio
percorso all’interno dell’organizzazione sociosanitaria 1
ed è incoraggiato e motivato a sviluppare un’autogestione completa – self-management – delle proprie criticità,
avvalendosi della consulenza educativa del professionista
della salute spesso rappresentato dall’infermiere 2 3.
La discussione in merito alla complessità assistenziale delle persone fragili con comorbosità e alla progettazione
e realizzazione di modelli organizzativi che valorizzino
strategie di prevenzione, promozione, mantenimento
della salute e continuità delle cure nel rispetto di vincoli
economici sempre più stringenti è, a livello nazionale e
internazionale, ampia ed eterogenea.
È in questo nuovo scenario che si rende necessaria un’attenta riflessione in merito all’implementazione e diffusione sul territorio nazionale di strutture intermedie, capaci
di accogliere quella estesa fetta di popolazione che, per
la presenza di problematiche assistenziali sociosanitarie
non trattabili a domicilio ma il cui livello di bisogno non
configuri il ricorso all’ospedale (luogo che deve agire in
acuzie), possa prevedere la presenza e l’utilizzo di strutture (quali, ad esempio, Nurse-led clinics, Low care) gestite
e organizzate completamente da infermieri 4-10.
Il contesto internazionale
Sono molte le ricerche internazionali che riportano gli
N. 201
aspetti positivi relativi alla gestione infermieristica delle
strutture intermedie: tali articoli mettono in rilievo alcune
prerogative che in tali strutture trovano particolare valorizzazione, quali la capacità degli infermieri di un approccio olistico alle cure, preventivo ed educativo piuttosto che
esclusivamente curativo 11-13, la garanzia della continuità
delle cure ospedale-territorio, il contenimento dei costi assistenziali 14-16, il maggior coinvolgimento della persona
e della famiglia, la maggior garanzia di continuità dei
percorsi dall’acuzie verso la riabilitazione, e la riduzione
dei ricoveri ripetuti 17-20.
Uno studio condotto da Griffiths evidenzia come gli assistiti nelle “nursing led in patients units”statunitensi, rispetto
alle persone ricoverate nelle unità di cura per acuti manifestino uno stato di benessere migliore, facciano diminuire le giornate di degenza (maggior numero di persone
dimesse dopo i 3 mesi) e le riammissioni in ospedale 21,
nonché – come precedentemente già ricordato – un contenimento complessivo dei costi di sistema. Ndosi, nella sua
revisione sull’ efficacia delle cure fornite dal “nurse led”
alle persone con artrite reumatoide (RA), mette in luce
l’associazione fra le “nurse led care” e miglior qualità di
vita, aumento delle conoscenze della persona assistita e
minor “fatigue” e riduzione del “disease activity” 22.
Sempre Ndosi evidenzia che, in uno specifico trial, le nurse led care gestiscono in maniera efficace le persone con
artrite reumatoide con riduzione della disease activity e
una maggiore soddisfazione espressa per le cure ricevute
da parte degli assistiti 23.
Kuethe evidenzia che nella gestione delle persone con
asma non vi sono differenze statisticamente significative
fra un’assistenza nurse led car e physician-led care rispetto a indicatori di risultato quali numero di esacerbazioni
di asma, gravità clinica e qualità di vita. La revisione conclude che l’assistenza nurse led può essere appropriata
nella gestione delle persone con asma ben controllata 24.
Infine, la revisione sistematica condotta da Horrocks nel
2002 25, comprendente 11 rct e 23 studi osservazionali
con l’obiettivo di valutare se le cure fornite dagli infermieri fossero sicure rispetto a quelle fornite dai medici,
riporta ampi risultati positivi. Altre esperienze pubblicate
testimoniano che il contributo e la qualità delle cure fornite dalla gestione infermieristica fornisce risultati equivalenti, in tali strutture, a quelli forniti da organizzazioni
physician centered 26 27.
Modelli assistenziali
Una logica dell’organizzazione intelligente, innovativa,
in cambiamento, legata alla teoria dell’autoapprendi-
Le cure intermedie
313
mento e della complessità delle organizzazioni, richiede
necessariamente di ridisegnare ruoli e funzioni dei professionisti che lavorano nell’ambito del sistema salute,
nonché una profonda revisione dei modelli organizzativi.
L’Innovative Care Delivery Model in linea con la politica della salute proposta dall’Institute of Medicine 28, e la
Health Workforce Solutions (HWS) e The Robert Wood
Johnson Foundation (RWJ 29 nel 2007 hanno creato una
e finanziato un progetto di ricerca innovativo per identificare e declinare nuovi modelli assistenziali che potessero
essere implementati in risposta a questa politica socioeconomica di innovazione e promozione della salute.
Attraverso un’ampia revisione della letteratura, la HWS
ha individuato 24 Innovative Care Delivery Models e ha
identificato 8 elementi comuni a molti di questi 24 modelli
innovativi, che descrivono il cambiamento della filosofia
della cura della persona, la nuova prospettiva del sistema
salute e delineano gli sforzi necessari per le organizzazioni che forniscono servizi di cura e salute e che desiderino implementarli.
Gli 8 elementi distintivi sono:
1. Ruoli di rilievo per gli infermieri.
2. Evoluzione verso una cura interdisciplinare: approccio
in team.
3. Un ponte nella continuità assistenziale.
4. Una spinta oltre i confini: la casa come setting di cura.
5. Target di utenti che accedono ai servizi di salute: persone molto anziane.
6. Focus incentrato sull’assistito.
7. Alto livello di tecnologia.
8.Attenzione ai risultati: miglioramento della soddisfazione, della qualità e dei costi.
I 24 modelli assistenziali innovativi sono stati organizzati
in tre grandi categorie assistenziali:
1. Modelli per le cure acute - Acute Care Models.
2. Modelli di continuità delle cure - Bridge the Continuum.
3.Modelli delle cure integrate - Comprehensive Care
Models.
A fronte di un sistema di salute caratterizzato da un’ampia variabilità, è necessario svincolarsi da un’organizzazione infermieristica assistenziale rigida e settoriale, strutturata prevalentemente per compiti, per sviluppare modelli organizzativi attenti alla mappatura dei bisogni di
salute della persona fragile, al contesto socioeconomico
e politico e ai risultati. In tal senso, le strutture intermedie
possono rappresentare una utile opzione per lo sviluppo
314
Le cure intermedie
N. 201
e l’implementazione di modelli organizzativi capaci di
reinterpretare l’organizzazione della presa in carico del
cittadino per la produzione di livelli confacenti di salute.
Primary Nursing 30, Advanced Primary Nursing 31, Case/
Care Management 32, Integrated Case Management.
Le strutture intermedie a gestione infermieristica possono,
anche in Italia, fare immaginare una direzione esclusivamente infermieristica con la presenza di infermieri con
competenze specialistiche/avanzate. In tale prospettiva
in America, negli anni, le diverse Associazioni infermieristiche, in linea con lo sviluppo di una formazione Accademica universitaria avanzata e mirata, hanno pubblicato
significativi documenti nei quali declinano il core competence dell’infermiere dirigente (Chief Nursing Officer) 33,
ovvero di colui che, in tali strutture, deve assumere ruolo e
capacità di leader e guida dell’organizzazione.
Inoltre, la letteratura internazionale nel definire la leadership infermieristica all’interno del sistema salute complessivo, in uno scenario di forte evoluzione socioculturale,
ha descritto per il ruolo di dirigente infermieristico i livelli
di responsabilità strategica e politica, che si declinano
nell’individuazione di due figure di seguito individuate 34:
1.“The Entity Chief Nursing Officer (CNO)”, ovvero colui che ha la responsabilità di individuazione, monitoraggio e gestione delle politiche della salute
2.“The System Chief Nurse Executive (CNE)”, ovvero colui che guida e dirige le strategie, promuove il miglioramento dei risultati per l’assistito, l’organizzazione e
la pratica clinica avanzata.
Più in generale, nel panorama internazionale e, conseguentemente, nella realtà sanitaria italiana, ruoli e livelli di competenza dell’infermiere all’interno del contesto
organizzativo di appartenenza possono essere riassunti
come nella tabella (Tab. I) di seguito proposta.
Il contesto italiano
In Italia, in molti Piani sanitari regionali (Toscana, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna) sono dedicate intere parti
alla gestione dell’integrazione delle cure primarie con
quelle intermedie e con l’assistenza ospedaliera a mediobassa intensità e la rivalutazione del ruolo dei vari professionisti della salute. Alcune soluzioni sono state da tempo
realizzate e attuate in diversi contesti territoriali. Sono di
esempio le esperienze di Trieste, con il progetto nursing riabilitante e innovativo che ha previsto l’inserimento degli
infermieri di comunità; Bologna, con i reparti post-acuti
a conduzione infermieristica e l’attuazione del progetto
Cruscotto post acuzie; fino al caso di Milano, con la low
care aperta nell’Ospedale di Niguarda Ca’ Grande alla
fine del 2001, ove vengono accolti pazienti che hanno
superato la fase acuta della malattia, ma non ancora passibili di dimissione in quanto necessitano di osservazione
e continuità assistenziale, terapeutica e riabilitativa. Gli
utenti provengono dalle strutture complesse di degenza
aziendali. Gli obiettivi di tale struttura sono quelli più volte ricordati: assicurare la continuità assistenziale anche
attraverso l’implementazione di protocolli condivisi che
garantiscano l’integrazione tra ospedale e territorio, ottenere il massimo recupero possibile dell’autonomia della
persona, ridurre la degenza media ottimizzando l’utilizzo
di posti letto per acuti, diminuire il costo dell’assistenza.
Anche in Toscana, nella ASL di Prato, è presente una
struttura denominata “Presidio di continuità assistenziale
- cure intermedie” (C.I.) gestito da infermieri sul modello
delle nursing led clinics. Garantisce un’assistenza caratterizzata da una medio-bassa intensità della componente
diagnostico-terapeutica e un’alta intensità di cure infermieristiche nelle 24 ore. La gestione del percorso che
conduce il paziente in tale struttura inizia a livello ospedaliero, ove l’infermiere team leader identifica il candidato per l’accesso alle C.I., ne discute con il medico tutor
Tabella I. Declinazione del ruolo dell’infermiere a tutti i livelli nel contesto internazionale e in quello italiano e livello
di competenza.
Contesto internazionale
Contesto italiano
Livello di competenza
Chief Nursing Officer
Direttore di struttura
Livello di dirigenza
Chief Nursing Executive
Direttore di dipartimento
Coordinator-Manager Nurse
Infermiere coordinatore
Case Manager/Nurse Leader/
Nurse Specialist
Infermiere Case Manager
/Leader/specializzato
Clinical Nurse
Infermiere clinico
Livello clinico
Le cure intermedie
N. 201
e insieme avviano il processo “Segnalazione candidato”
ognuno per le proprie responsabilità.
All’accoglienza in C.I. l’infermiere che avvia il processo assistenziale diventa il referente per la persona. La presa in carico
coinvolge sia il soggetto che la famiglia e, a tale scopo, il
piano assistenziale è condiviso in briefing con il medico di
continuità assistenziale e il MMG, il quale effettua il primo
accesso in struttura entro le prime 24/48 ore. La pianificazione della dimissione dalla struttura di cure intermedie avviene
entro il 5° giorno dalla data di dimissione prevista, attraverso
una segnalazione alla Centrale assistenza territoriale (CAT).
Il team multiprofessionale operante nella struttura (infermiere referente delle C.I., inf. Coord. C.I., MMG, medico
di comunità, ed eventualmente il medico specialista che
ha seguito il caso fisiatra/geriatra, fisioterapisti), pianifica la dimissione attraverso un debriefing al quale partecipano anche i familiari e/o la stessa persona assistita.
All’atto del ritorno al proprio domicilio l’infermiere referente redige una relazione infermieristica di dimissione
che sarà fornita al paziente e al MMG e, se necessario,
agli infermieri dell’assistenza domiciliare o della sanità
d’iniziativa per garantire il raggiungimento degli obiettivi
assistenziali a lungo termine.
Conclusioni
Anche nel nostro Paese, l’istanza di garantire percorsi di
cura in grado di offrire risposte appropriate verso la cronicità emergente, nel rispetto dei vincoli economici imposti al
sistema sanitario, ha fatto emergere nuovi modelli gestionali che guardano al territorio come setting ove sviluppare
risposte efficaci. Tali modelli prevedono la valorizzazione
delle competenze sempre più avanzate che l’infermiere ha
saputo maturare, anche grazie a nuovi percorsi formativi.
In tale contesto, lo sviluppo di strutture di cure intermedie
patient-centered anziché disease-centered ha determinato
una spinta alla crescita manageriale nei percorsi di assistenza, con acquisizione di autonomia e capacità di decision leading che fino a pochi anni or sono non consideravano la professionalità infermieristica in tali ruoli.
L’auspicio è che le nuove soluzioni organizzative valorizzino la figura infermieristica come protagonista nel raggiungimento di outcome di salute, attraverso un riconoscimento delle competenze professionali e non come risorsa
a minor costo. D’altro canto, la sfida degli infermieri di
oggi e di domani sarà nel cogliere tale opportunità per
mettere a disposizione del sistema le proprie competenze in sinergia e non in antagonismo con le altre figure
professionali impegnate nei percorsi di diagnosi, cura,
riabilitazione e prevenzione di tutti i cittadini.
315
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Le cure intermedie
N. 201
317
Modelli innovativi a confronto:
Lombardia
ed Emilia-Romagna1
Alberto Ricci1, Francesco Longo2
Ricercatore Cergas Bocconi e dottorando in Management, Università Cattolica del Sacro Cuore
Professore associato presso il Dipartimento di Analisi istituzionale e Management pubblico,
Università Bocconi; Ricercatore senior Cergas Bocconi
1
2
Abstract
L’articolo descrive e analizza in ottica comparata due modelli innovativi di organizzazione delle cure territoriali, particolarmente focalizzati sulla presa in carico del paziente cronico: da una parte, i Chronic Related Group (CReG) introdotti dalla
Regione Lombardia, e, dall’altra, i Nuclei cure primarie (NCP) e le Case della salute della Regione Emilia-Romagna. Il confronto evidenzia assetti di governance e finanziamento molto differenti: la Lombardia ha disegnato un sistema sperimentale
di quasi-mercato, mentre l’Emilia-Romagna è rimasta fedele a un approccio che privilegia erogazione e coordinamento da
parte del pubblico. Le leve di cambiamento manageriale dei due modelli, invece, sono sostanzialmente le stesse: integrazione tra i professionisti, introduzione di sistemi di governo clinico, allargamento dell’offerta dei servizi.
Cronicità e invecchiamento demografico rappresentano i
bisogni di salute emergenti.
I Paesi sviluppati sono caratterizzati dal progressivo invecchiamento della popolazione, che determina modifiche nelle morbilità e richiede un adeguamento delle risposte assistenziali, sia sul piano clinico che su quello
organizzativo-gestionale. La tendenza epidemiologica
più marcata nei paesi occidentali ed europei è, molto
probabilmente, l’aumento della prevalenza delle malattie
croniche (Boerma, 2006; Calnan et al., 2006).
Il nostro Paese presenta entrambe le dinamiche in maniera
molto marcata. Secondo l’ISTAT, l’indice di vecchiaia (rapporto tra popolazione oltre i 65 anni e sotto i 14 anni) è
aumentato dal 124,1 al 147,2 tra 1999 e il 2012, con la
prospettiva di raggiungere valori attorno al 255 nel 2050.
In base ai dati dell’indagine multiscopo 2013, il 37,9%
dei residenti in Italia soffre di almeno una malattia cronica;
la prevalenza, naturalmente, aumenta di pari passo con
l’età. Nella fascia tra i 25 e i 34, anni il 15,7% degli
italiani soffre di almeno una malattia cronica; tale percentuale raggiunge l’86,4% tra gli ultra-settantacinquenni, con
una marcata differenza di genere (82,8% per gli uomini e
88,6% per le donne) (Tabella IX.1). Scorrendo i dati di pre-
valenza delle singole patologie, le due malattie croniche
più diffuse sono l’ipertensione, che interessa il 16,7% della popolazione, e l’artrite (16,4%); a seguire, le malattie
allergiche (9,8%1), l’osteoporosi (7%2), l’asma e la BPCO
(5,9%), il diabete (5,4%), le malattie cardiache (3,7%).
Anche diversi studi a livello regionale3 confermano che la
prevalenza delle malattie croniche supera un terzo della
popolazione complessiva. Questa quota è inevitabilmente
è destinata a crescere, con inevitabili impatti sulla qualità
della vita della popolazione.
Il contributo sintetizza e aggiorna la ricerca pubblicata nel Rapporto
OASI 2012 – capitolo 9, realizzata dagli autori e dai ricercatori
CERGAS Bocconi Clara Carbone, Eleonora Corsalini. Gli autori autorizzano la pubblicazione del contributo, che è frutto di un lavoro
congiunto relativamente a tutti i paragrafi. Eventuale corrispondenza
relativa ad entrambi gli autori può essere inviata c/o Cergas – Università Bocconi, Via Roentgen 1, 20136 Milano.
La
stesura del capitolo OASI 2012, relativamente ai paragrafi qui ripresi e aggiornati, è stata possibile grazie al contributo e alla disponibilità di: C. Lucchina, F. Laurelli, C. Zocchetti, M. Agnello (Regione
Lombardia); A. Brambilla e A. Donatini (Regione Emilia Romagna).
1
2
Dato 2011.
3
Dato 2011.
318
Le cure intermedie
Questo quadro epidemiologico determinerà inevitabilmente un aumento dei costi legati alla cura delle malattie
croniche, la cui stima è importante per disegnare e implementare forme organizzative costo-efficaci e massimizzare l’allocazione delle risorse (Woo e Cockram, 2000).
Uno studio di Fondazione Farmafactoring (Borgonovi et
al., 2011), che utilizza i principali dati di spesa sanitaria territoriale (farmaci e prestazioni di specialistica
ambulatoriale prescritti dal medico di medicina generale
[MMG]) forniti dalla Società italiana di medicina generale (SIMG), evidenzia come a fronte di una spesa media
pro-capite annuale di circa 278 euro, i pazienti cronici si
collochino a livelli molto più elevati (un paziente iperteso
registra consumi sanitari per un ammontare medio di 626
euro, un diabetico di 846 euro, uno scompensato di ben
980 euro). Una ricerca condotta da Regione Lombardia
nel 2009 rafforza questi dati: la spesa pro-capite dei cronici è circa quattro volte quella dei non-cronici (Agnello
et al., 2011). È quindi evidente come il controllo della
spesa indotta dalla cronicità sia un fattore essenziale per
mantenere l’equilibrio economico-finanziario del servizio
sanitario regionale.
Rispondere a questa emergenza economico-sociale non
richiede solo attenzione e risorse da parte dei policymaker. La corretta gestione del paziente cronico implica
anche un’inversione di tendenza culturale. La storia della
medicina del XX secolo è, infatti, caratterizzata da una
progressiva e determinante specializzazione della pratica medica, mentre il paziente cronico, frequentemente
affetto da comorbilità, necessita di un approccio integrato e multidisciplinare nella diagnosi e cura. A partire da
tali condizioni, è naturale che la tematica della risposta
alla cronicità si sia sviluppata in relazione a quella di
continuità e integrazione della cura4 (Freeman, 1985) trasversalmente ai differenti ambiti di assistenza. La struttura
ospedaliera rimane la sede più adatta per la diagnosi e
la cura degli episodi acuti della malattia; le altre prestazioni sanitarie e socio-sanitarie (esami di routine, somministrazione farmaci, cura della persona, ecc.) sono più
appropriatamente erogate sul territorio, ivi compreso il
domicilio del paziente. Ciò è dovuto (Compagni, Tediosi
e Tozzi, 2010): i) al medio- basso livello di specializzazione e di intensità assistenziale richiesto per gran parte
delle terapie routinarie; ii) al fattore tecnologico, che rende possibile l’erogazione di una vasta gamma di presta-
4
Ci si riferisca, ad esempio, al “Progetto Nocchiero” dell’ARS Liguria
oppure alla rielaborazione dei dati da Banca Dati Assistito in Regione
Lombardia, di cui si dirà in seguito.
N. 201
zioni anche al di fuori delle strutture ospedaliere; iii) alle
caratteristiche del bisogno di salute dei malati, fra i quali
emergono sempre più spesso situazioni di fragilità che
richiedono le cure domiciliari.
In sintesi, è evidente che la risposta efficace alla cronicità è possibile grazie a una riorganizzazione delle cure
territoriali, e in particolare delle cure primarie, che tenga
in considerazione la necessità di raccordo con l’universo
ospedaliero. Tutto ciò implica, da un lato, il moltiplicarsi delle modalità e degli attori coinvolti nell’assistenza;
dall’altro, l’esigenza di coordinamento fra questi soggetti
a partire da idonei strumenti organizzativi e tecnologici.
Su impulso degli ultimi Piani sanitari nazionali, in particolare il PSN 2006-20085, anche nelle diverse regioni italiane, si è iniziato a ragionare su policy specifiche
dirette a rafforzare l’efficacia della presa in carico del
paziente cronico. Il seguito del contributo si focalizza su
due modelli regionali diretti a rafforzare l’integrazione
del processo di cura, con particolare riferimento all’area
della cronicità, avviati in due Regioni molto rilevanti nel
contesto demografico ed economico del Paese: Lombardia ed Emilia-Romagna. Queste ultime, contraddistinte da
differenti orientamenti politico-istituzionali dichiarati, sono
considerate all’avanguardia nel campo delle politiche sanitarie socio-sanitarie (Calò et al., 2013).
Obiettivi e metodologia del contributo
Il lavoro intende rispondere alle seguenti domande di ricerca:
• nelle due regioni oggetto di analisi, come si stanno
configurando o si sono configurati i nuovi modelli di
servizi sanitari territoriali, con un particolare riferimento alla presa in carico della cronicità?
• è possibile identificare i caratteri che accomunano e
che differenziano i due modelli?
In particolare, il contributo approfondisce, da una parte,
il sistema sperimentale dei CReG (Chronic Related Group)
della Lombardia (par. 3), e dall’altra, la realtà dei Nuclei
5
Per “integrazione” (qui intesa come sinonimo di continuità delle cure
e non come livello di interscambio informativo tra professionisti) il riferimento è alle tre accezioni ricordate da Haggerty et al., (2003). Tale
ricerca definisce la continuità come: 1) Informational continuity, cioè
utilizzo di informazioni relative alla storia clinica di un paziente per
selezionare le opzioni più appropriate circa il suo percorso di cura;
2) Management continuity, vale a dire attenzione e presa in carico
dei bisogni di salute spesso in costante cambiamento di un paziente;
3) Relational Continuity, definita come la relazione personale iterativa
tra un paziente e uno o più professionisti.
Le cure intermedie
N. 201
di cure primarie e delle Case della salute dell’Emilia-Romagna (par. 4). La ricerca intende:
• indagare sinteticamente le caratteristiche dei due modelli assistenziali, in termini di: i) riferimenti normativi
e assetto generale del modello; ii) attori coinvolti, ruoli
e relative relazioni; iii) stato dell’arte del modello;
• interpretare e confrontare le logiche sottostanti ai due
sistemi, cercando di delinearne gli elementi caratterizzanti e gli eventuali punti di forza e di debolezza.
Dal punto di vista metodologico, il lavoro di ricerca ha
previsto un’analisi della documentazione grigia sul tema
dell’organizzazione delle cure territoriali per la cronicità
(delibere regionali/regolamenti regionali e documentazione aziendale di recepimento degli indirizzi regionali)
e l’effettuazione di quattro interviste semi-strutturate e a tre
interviste di gruppo con referenti istituzionali regionali. Per
ulteriori dettagli metodologici (ad esempio, griglia delle interviste semi-strutturate ai referenti regionali, che vengono
qui omessi per ragioni di spazio, si rinvia all’apposita sezione (paragrafo 9.2) del Capitolo 9 del Rapporto OASI
2012.
Lombardia
Presupposti normativi e assetto generale del modello
regionale
Attraverso le regole 2011 per la gestione del SSR6, la Regione Lombardia ha introdotto uno strumento “funzionale” di raccordo tra i soggetti coinvolti nella presa in carico
del paziente cronico, trasversalmente ai livelli assistenziali: il sistema basato sui CReG (Chronic Related Group). Si
tratta di un modello basato sulla definizione di raggruppamenti isorisorse di patologie croniche, in analogia con
il noto sistema DRG (Diagnosis Related Group) utilizzato
per i ricoveri ospedalieri. Dal punto di vista organizzativo,
la novità è rappresentata dall’introduzione di un soggetto
“garante della presa in carico”, definito anche “gestore
del CReG”. Secondo la normativa regionale tale soggetto
può essere una cooperativa di MMG, una ONLUS, una
Fondazione, un’AO, un privato accreditato. I MMG godono comunque di un “diritto di prelazione” come gestori
unici e, di fatto, a oggi l’affidamento dei pazienti è stato
riservato a questa categoria di professionisti.
6
Il PSN 2006-2008 afferma che le priorità d’intervento nei diversi SSR
“discendono dai problemi di salute del Paese, con particolare riferimento al consolidarsi di elementi di cronicità, all’aumentata capacità
del sistema sanitario di garantire il prolungamento della vita anche in
fase di post-acuzie”.
319
Il soggetto gestore, a fronte della corresponsione di una
quota predefinita di risorse, deve garantire in continuità
tutti i servizi extraospedalieri (ambulatoriale, farmaceutica, ospedalizzazione domiciliare, ecc.) necessari per
una buona gestione clinico-organizzativa delle patologie
croniche riconducibili ai CReG 7.
A ciascun raggruppamento isorisorse per patologia che
costituisce un CReG è associata una tariffa8 (Agnello et
al., 2011). La Regione, a partire dalle serie storiche dei
consumi per le patologie incluse nei CReG, ha determinato le tariffe di remunerazione del soggetto gestore, così
responsabilizzato sui livelli di consumo sanitario dei propri assistiti. Oltre ai criteri remunerativi, sono stati previsti
altri due strumenti di governo clinico, che la disciplina regionale definisce “Pilastri tecnologici” assieme alle tariffe:
un sistema informativo regionale in grado di individuare i
soggetti cronici e monitorarne le fasi evolutive9;
processi/percorsi10 diagnostico terapeutici (PDT) volti a
identificare gli appropriati fabbisogni di cura per ciascuna patologia. Essi devono costituire la base per la compilazione dei piani terapeutici individuali.
Coerentemente con i “Pilastri tecnologici”, la Regione ha
stilato un programma di progressiva implementazione del
nuovo sistema: la c.d. “Piattaforma organizzativa”. Dal
2011 ai primi mesi del 2014, la sperimentazione ha interessato 5 ASL: Milano (ex ASL “Milano Città”), Milano
2, Como, Lecco, Bergamo. I gruppi di patologie croniche per cui è stata determinata una tariffa CReG sono
molteplici: il diabete, le insufficienze renali, le ipercolesterolemie, le asme/BPCO, i più diffusi disturbi cardiaci
7
DGR IX/937 del 01/12/2010, poi integrata dalla DGR IX/1479/11.
Tali provvedimenti, dove non diversamente indicato, costituiscono la fonte ufficiale delle informazioni contenute nel paragrafo dedicato ai CReG.
8
Si segnala, inoltre, che in aggiunta ai CReG, la Regione Lombardia
ha introdotto i posti letto tecnici per le cure sub-acute al fine di utilizzare in maniera appropriata ed efficiente i posti letto ospedalieri e le
risorse territoriali per l’area delle post-acuzie. Per un maggior approfondimento si rimanda ai provvedimenti regionali approvati nel corso
del 2010 e del 2011 (DGR IX/937 del 01/12/2010, allegato 14;
DGR IX/1479 del 30/03/2011).
9
La disciplina regionale chiarisce che la tariffa CReG comprende la
compilazione dei Piani Terapeutici Individuali di cura, il debito informativo e il rilascio dell’esenzione, la spesa ambulatoriale, la fornitura
di farmaci, l’ossigeno e la protesica minore a domicilio, il follow-up e
l’eventuale trasporto dializzati, di tutti i consumi territoriali dell’assistito, anche quelli non direttamente correlati alla patologia per la quale
è reclutato (ad esempio, l’assunzione di farmaci per un’influenza).
10
In Regione Lombardia e in ogni ASL lombarda, tale sistema è costituito dalla Banca dati assistito (BDA), che raccoglie i consumi sanitari di
ogni cittadino in ogni ambito di cura.
320
Le cure intermedie
(dall’ipertensione allo scompenso, ad altre cardiopatie).
Alle tariffe delle malattie croniche “principali” sono stati
abbinati degli incrementi in caso di comorbilità, che coprono un ventaglio patologico complessivamente pari a
157 casi (DDG Sanità 4383/11).
Attori coinvolti: ruoli e relazioni.
Meccanismi operativi (fase sperimentale)
Come già anticipato, il modello CReG prevede l’introduzione di un soggetto gestore (DGR IX/1479/11) che ha
innanzitutto il compito di coordinare tutti i soggetti coinvolti nell’assistenza al paziente cronico, assicurando la
continuità delle cure trasversalmente ai tre livelli essenziali di assistenza (prevenzione, assistenza territoriale
e assistenza ospedaliera). In particolare, il soggetto gestore deve prendere in carico il paziente nel corso della
malattia, occupandosi del reclutamento dei pazienti su
base territoriale11, del follow-up e del monitoraggio delle condizioni del malato secondo quanto prescritto dal
PDTA. Deve quindi mantenere i contatti tra il paziente e
le strutture di erogazione. Il gestore, infine, assicura una
serie di servizi amministrativi (ad esempio, le pratiche per
il rilascio dell’esenzione per patologia) con l’obiettivo di
semplificare la gestione quotidiana della malattia. Per
svolgere tutti questi compiti, il soggetto coordinatore (gestore) deve disporre di un vero e proprio “Centro servizi”
che deve rispettare precisi requisiti organizzativi e funzionali, tra i quali riportiamo i principali:
• apertura dalle 8 alle 20 per 365 giorni l’anno, con
la presenza di personale tecnico-sanitario che riceva
aggiornamenti professionali annuali certificati;
• organizzazione basata su un case manager12 per
ogni paziente cronico, con la supervisione di un medico coordinatore;
• attivazione di un EPR (electronic patient record) costantemente aggiornato con riferimento alle prestazioni sanitarie incluse nel PDT/profilo di cura. L’EPR dovrà essere integrato con il SISS di Regione Lombardia;
• garanzia di specifici servizi: installazione a domicilio
11
La terminologia utilizzata dalla Regione su questo punto non è sempre
univoca. Mentre la DGR IX/937/10 accenna a “processi di cura”
come indicazioni diagnostico terapeutiche di massima propedeutiche
al piano assistenziale vero e proprio, la DGR IX/1479/11 si riferisce
direttamente ai percorsi diagnostico terapeutici, che rappresentano
azioni monitoraggio e cura per il governo clinico della patologia.
12
Nello specifico, ciascun MMG riceve dal livello regionale e, quindi,
dalla ASL la lista dei pazienti cronici e a partire da questo elenco
ciascun medico, se aderente alla cooperativa del soggetto gestore,
provvede all’arruolamento del singolo paziente.
N. 201
delle strumentazioni (ove necessario); triage clinico e
tecnico; servizio di compliance farmacologica; programmi di formazione; sistema informativo con gestione degli allarmi;
• conclusione di protocolli di intesa con altri soggetti
coinvolti nell’assistenza al malato cronico (a partire
dai medici specialisti, dai medici di continuità assistenziale e dalle strutture dell’Emergenza-urgenza);
• esistenza di un sistema di valutazione della qualità del
sevizio, basato sia su indicatori di processo/risultato che
su strumenti di customer satisfaction (servizio reclami).
Tali requisiti vincolano i soggetti che si propongono come
gestori del CReG a munirsi di una struttura organizzativa piuttosto complessa e di una dotazione tecnologica
rilevante. Per esercitare il diritto di prelazione a loro riconosciuto, i MMG devono presumibilmente rivolgersi a
società di servizi, che possono concretamente occuparsi
di tutta una serie di attività gestionali (call center e prenotazione delle prestazioni; utilizzo sistemi informatici;
installazione, utilizzo e manutenzione di apparecchiature
per la telemedicina – home care, formazione, triage clinico e tecnico, sistemi d’allarme; consegna a domicilio
di farmaci e ausili; trasporto; espletamento delle pratiche
burocratiche e amministrative, ecc.). Le società di servizi,
anche se non previste esplicitamente dalla disciplina regionale, si apprestano quindi a rivestire un ruolo rilevante
(in partnership con i soggetti gestori del CReG). La loro
forza contrattuale e il loro spazio strategico sarà inversamente proporzionale alle capacità manageriali dei soggetti gestori.
Il soggetto gestore del CReG è conclude un contratto con
l’ASL di riferimento, instaurando un rapporto di committenza. I contenuti dei contratti tra ASL e gestore riguardano: i)
aspetti amministrativi come le modalità di pagamento e di
trasmissione delle informazioni; ii) forme di coinvolgimento
e d’integrazione tra i MMG e gli specialisti dell’area ospedaliera; iii) forme di presa in carico del paziente (ad esempio, elenco degli assistiti, valutazione iniziale dei bisogni
attesi per paziente, ecc.). Il contratto stipulato con la ASL
deve, inoltre, contenere meccanismi di premialità o penalizzazione in base ai livelli qualitativi del servizio misurati
attraverso indicatori di processo e di risultato.
Da un punto di vista finanziario, il gestore ottiene dalla ASL una remunerazione annuale (sebbene liquidata a
scadenze infra-annuali) pari al valore complessivo delle
tariffe CReG dei propri assistiti, diminuito dei loro consumi di servizi extraospedalieri presso erogatori/farmacie
(Fig. 1). È, quindi, il soggetto gestore che con questa remunerazione deve provvedere all’eventuale pagamento
N. 201
Le cure intermedie
321
Figura 1. Relazione finanziaria ASL -Gestore del CReG
(fase sperimentale) (Fonte: Adattato da Agnello et al.,
2011).
Figura 2. Ruolo e interazioni tra i soggetti chiave del sistema CreG (Fonti: DDGR IX/937/10 e
IX/1479/11; Agnello et al., 2011).
dei servizi erogati dalla società di servizi a cui il gestore
del CReG si appoggia. Dato questo innovativo meccanismo finanziario, esistono diverse leve con cui il gestore
del CReG può cercare il margine economico. Le principali sono: la riduzione dei consumi impropri dei pazienti e
quindi la diminuzione della variabilità di consumi tra pazienti; l’ottenimento di premialità conseguenti ai buoni/
ottimi livelli quali-quantitativi del servizio come nel caso
dell’installazione di servizi di telemedicina; l’aumento
dell’efficienza nell’impiego dei propri fattori produttivi per
lo svolgimento dei servizi svolti in house, ecc.
Oltre al MMG gestore del CReG e alla società di servizi,
molti altri attori interagiscono all’interno del sistema dei
CReG, alcuni mantenendo le loro tradizionali funzioni, altri
modificandole in maniera piuttosto radicale (Fig. 2).
La Regione mantiene il proprio ruolo di regolatore del
sistema. Saranno le autorità regionali a decidere se mettere a regime, rivedere alcuni aspetti organizzativi o finanziari o addirittura abbandonare la sperimentazione
dei CReG. Inoltre, la Regione continua a negoziare con
gli erogatori di assistenza specialistica i valori economici delle prestazioni sanitarie da erogare (ambulatoriali
e ospedaliere), anche per i pazienti cronici coinvolti nel
sistema dei CReG.
Le ASL, attraverso un rafforzamento dei distretti, devono
sviluppare e affinare le proprie capacità di controllo, focalizzandosi sulla presa in carico del paziente oltre che sui
volumi di prestazioni erogate. In tal senso, il monitoraggio dovrebbe focalizzarsi su aspetti di outcome di salute
e di qualità del servizio offerto dal gestore. Per quanto
riguarda la funzione di acquisto delle prestazioni, le ASL
mantengono le loro tradizionali funzioni di committenza e
governo dei servizi erogati dai soggetti accreditati.
I MMG devono innanzitutto scegliere se proporsi come
soggetti gestori dei CReG, oppure restare ancorati al ruolo
tradizionale. La disciplina regionale chiarisce comunque
che i MMG mantengono le precedenti responsabilità in
relazione ai propri assistiti e le relative quote capitarie. I
medici conservano quindi il ruolo di prescrittori anche per
i pazienti che sono presi in carico da un gestore “terzo”.
Inoltre, si ritiene che diverse cooperative di MMG abbiano o possano sviluppare internamente le capacità manageriali per gestire direttamente almeno i servizi a minore
complessità tecnologica (ad esempio, call center e servizio
prenotazioni). In tal caso, il gestore – MMG dovrebbe mantenere una sostanziale indipendenza e forza contrattuale
nei confronti delle società di servizi, che rivestirebbero il
ruolo di semplice “fornitore di tecnologia”. Tra i servizi a
maggiore valore aggiunto, per cui le cooperative di medici devono di norma rivolgersi all’esterno, la telemedicina
(teleconsulto, homecare e formazione) riveste naturalmente
un’importanza crescente. Essa rappresenta, infatti, la principale novità organizzativa del modello e un’opportunità
per gestire pazienti assistiti a domicilio, caratterizzati da
necessità assistenziali a intensità medio-bassa.
Gli erogatori pubblici e privati accreditati mantengono
le loro funzioni tradizionali, dovendosi però coordinare maggiormente con il soggetto gestore. Quest’ultimo,
infatti, è in grado di orientare le scelte dei pazienti. In
questo quadro non è esclusa la possibilità che il gestore
322
Le cure intermedie
N. 201
Tabella I. MMG e pazienti coinvolti nella sperimentazione dei CReG a novembre 2013 (Fonte: Zocchetti, 2013).
MMG totali
MMG coinvolti1
Pazienti
eleggibili2
Pazienti coinvolti3
1.093
51 (4,7%)
12.232
6.730 (55%)
Milano 2
379
41 (10,9%)
10.433
5.857 (56,1%)
Bergamo
679
206 (30,3%)
43.093
21.845 (50,7%)
Como
370
103 (27,8%)
23.697
17.805 (75,1%)
Lecco
213
75 (35,2%)
18.114
11.921 (65,8%)
Totale
2.734
476 (17,4%)
107.569
64.158 (59,6%)
ASL
Milano
Numero totale di professionisti aderenti al CReG. Tra parentesi, la percentuale di MMG aderenti sul totale dei medici operanti nella ASL.
Numero di pazienti dei MMG coinvolti che rientrano nei requisiti dei CReG.
3
Pazienti effettivamente presi in carico. La percentuale indica l’incidenza sui pazienti eleggibili.
1
2
del CReG si accordi con gli erogatori pubblici e privati
accreditati per riservare ai propri pazienti quote di prestazioni e corsie preferenziali, ricercando così un equilibrio tra libertà di scelta ed efficienza nell’erogazione
della cura. La direzione regionale non esclude (e in alcuni
casi, considera con favore) la possibilità che un erogatore
si proponga come gestore di CReG, facendo leva sulla
dotazione organizzativa e tecnologica (ad esempio, call
center e strumentazioni per la telemedicina già disponibili) oppure sul know-how clinico specialistico (ad esempio,
centri per patologia interni alle strutture ospedaliere).
La Figura 2 rappresenta graficamente le relazioni tra i
vari attori coinvolti nel modello. Le diverse relazioni sono
spiegate dall’esistenza di un rapporto contrattuale: i) tra
le ASL e il soggetto gestore a seguito dell’aggiudicazione
della gara; ii) tra il soggetto gestore e l’eventuale Società
di servizi nel caso di un contratto di fornitura; iii) tra le
ASL e gli erogatori pubblici o privati accreditati per l’acquisto delle prestazioni ospedaliere da parte dell’azienda
sanitaria locale e (iv) tra il soggetto gestore e i pazienti,
poiché quest’ultimo deve autorizzare il soggetto gestore
nell’attività di presa in carico13.
Stato dell’arte e prospettive del modello
Chiarita la configurazione complessiva del sistema CReG,
è interessante capire come questo innovativo modello sia
entrato nella fase di implementazione. Le cinque aziende
coinvolte nella sperimentazione, nella seconda metà del
13
La normativa regionale non specifica la figura professionale deputata
al case management del paziente.
2011, hanno emanato di primi bandi per l’«affidamento
del servizio sperimentale di gestione del CReG», riservati,
«in prima pubblicazione» a MMG in forma singola o associata. La normativa regionale non obbliga, infatti, l’ASL
a definire delle linee guida aziendali, ma ciascun distretto
si può organizzare in base alle iniziative imprenditoriali
locali (delle cooperative dei MMG o delle società di servizi). È verosimile che i diversi territori compiano scelte
differenti, in funzione delle loro caratterizzazioni storiche,
delle competenze e forze politico-istituzionali dei diversi
attori in campo. Oppure, i diversi modelli locali potrebbero evolvere nel tempo, radicalizzarsi oppure ibridarsi.
Per quanto riguarda il livello aziendale, a Como, Bergamo, Lecco e Milano 2 le cooperative hanno iniziato la fase di presa in carico dei pazienti e si attendono
tuttora comunicazioni ufficiali sui primi outcome clinici e
gestionali. Nella ASL di Milano, invece, la Direzione ha
stimolato l’ingresso di altri gestori, emanando in rapida
successione (agosto 2012 e gennaio 2013) due bandi per l’affidamento di nuove coorti di pazienti (allegato
alla Del. 1317 del 06/08/2012 recante il bando ASL a
scadenza 19/10/2012 e bando ASL Milano a scadenza 20/02/13). A Novembre 2013, avevano aderito ai
CReG il 17,3% dei MMG lombardi operanti nelle ASL della sperimentazione (Zocchetti, 2013), con marcate differenze territoriali (Tab. I).
La Regione, con la DGR IX/4334/12, ha incoraggiato
gli accordi tra MMG ed erogatori accreditati (sia pubblici
che privati) per fornire assistenza specialistica ambulatoriale presso gli studi medici del gestore del CReG. La
stessa delibera ha esplicitato, per la prima volta, la possibilità di un’integrazione del sistema CReG coni servizi
Le cure intermedie
N. 201
ADI e le reti cliniche. La configurazione dell’assetto di
governance si completerà una volta implementate tutte le
fasi che l’applicazione del modello CReG comporta. Tuttavia, da un punto di vista operativo, al momento di stesura del contributo, sembrano molte le variabili tecniche
ancora da determinarsi e che potrebbero influenzare le
caratterizzazioni dello schema.
Emilia-Romagna
Presupposti normativi e assetto generale del modello
regionale
Il sistema emiliano-romagnolo di servizi territoriali, diretto
ai pazienti cronici e non cronici, è basato su due pilastri:
da una parte, il Nucleo di cure primarie (NCP), “cellula
organizzativa” che, almeno potenzialmente, comprende
e integra i principali professionisti dell’assistenza territoriale sanitaria e socio-sanitaria; dall’altra, una sede fisica
del Nucleo, la Casa della salute (CdS), punto d’accesso
al sistema socio-sanitario per il cittadino che necessita di
prestazioni a bassa intensità di cura e complessità. Il sistema di cure primarie emiliano-romagnolo è strettamente
integrato con l’ASL e si innesta direttamente nella struttura
organizzativa territoriale di quest’ultima. Il paragrafo riprende le fonti normative che inquadrano NCP e CdS nel
complesso delle cure primarie e dei servizi territoriali, focalizzandosi sui presupposti organizzativi, sugli obiettivi
e sui tratti più caratterizzanti di NCP e CdS.
I servizi territoriali dell’Emilia-Romagna trovano le basi
della loro attuale configurazione nella L.R. n. 29 del
23/12/200414, e nella successiva DGR n.86/200615.
Quest’ultima delibera conferma il Distretto come la struttura aziendale decentrata di coordinamento e programmazione dei servizi territoriali, mentre i Dipartimenti di cure
primarie sono incaricati della produzione sanitaria. Sul
territorio, la stessa DGR 86/2006 identifica nel Nucleo
di cure primarie l’unità operativa di base del relativo Dipartimento.
Funzioni e ruolo dei NCP sono dettagliati dalla successiva
DGR 2011/2007 e dai relativi allegati (“Direttive alle
Aziende sanitarie per l’adozione dell’Atto aziendale”). I
Nuclei servono aree territoriali omogenee, dalle caratteri-
14
Il paziente, dopo aver sottoscritto il piano individuale di cura durante
la fase di arruolamento, potrebbe teoricamente revocarlo. A quel punto potrebbe aderire alla modalità “tradizionale” di assistenza mantenendo lo stesso MMG, oppure cambiare medico che, naturalmente,
potrebbe essere legato ad una altro gestore.
15
“Norme generali sull’organizzazione ed il funzionamento del Servizio sanitario regionale”.
323
stiche geomorfologiche simili, con una popolazione indicativamente compresa tra i 15.000 e i 30.000 abitanti.
Hanno l’obiettivo di rafforzare la continuità assistenziale
e l’integrazione delle attività territoriali, di garantire il
governo clinico in relazione agli obiettivi di salute e, in
definitiva, di migliorare la qualità delle cure attraverso
linee guida, audit clinico e formazione specifica. Come
illustrato più dettagliatamente nel prossimo paragrafo, i
Nuclei sono pensati per coinvolgere e integrare l’operato
di una vasta platea di figure professionali: MMG, pediatri di libera scelta (PLS), infermieri, ostetriche, specialisti
territoriali, operatori sociali e socio assistenziali. Il coordinamento del Nucleo è affidato a un MMG o a un PLS.
È evidente che questi ambiziosi obiettivi possono essere più facilmente raggiunti dotando i Nuclei di una sede
di riferimento strutturale. La DGR 2011/2007, a tal proposito, richiama l’Accordo integrativo regionale con i
MMG del 29 settembre 2006, poi confluito nella DGR
1398/2006. L’accordo prevede un’evoluzione dai Nuclei funzionali ai Nuclei strutturali, caratterizzati da maggiore identità e visibilità. L’obiettivo è dotare i NCP di una
sede di riferimento, tenuto conto delle caratteristiche del
territorio, al fine di garantire percorsi condivisi per la continuità dell’assistenza. Nella stessa sede dovrebbero essere assicurati l’accesso per l’assistenza sociale, l’assistenza ostetrica e i servizi di base dei Dipartimenti di Sanità
pubblica e di Salute mentale e Dipendenze patologiche.
Il successivo passaggio normativo fondamentale16 è la
DGR 291/2010 (“Casa della salute: indicazioni regionali per la realizzazione e l’organizzazione funzionale”).
Attraverso tale provvedimento, la Regione fornisce alle
Aziende concrete indicazioni sulle caratteristiche strutturali e sulle modalità di funzionamento delle sedi fisiche del
Nucleo, per diffondere un modello omogeneo e riconoscibile. In particolare, gli allegati della DGR 291/2010
stabiliscono che:
• la Casa della salute si configura come nodo strutturale
di una rete integrata di servizi, con relazioni cliniche e
organizzative definite, che mettono in relazione i Nuclei di cure primarie (assistenza primaria) con gli altri
nodi della rete (assistenza specialistica, ospedaliera,
sanità pubblica, salute mentale);
• all’atto pratico, le funzioni svolte dalla CdS possono
essere così riassunte: (i) accoglienza e orientamento
ai servizi sanitari, sociosanitari e assistenziali; (ii) assistenza sanitaria per problemi ambulatoriali urgenti;
16
“Direttiva alle aziende sanitarie per l’adozione dell’atto aziendale, di
cui all’art. 3, comma 4 della L.R. n. 29/2004”.
324
Le cure intermedie
(iii) possibilità di completare i principali percorsi diagnostici che non necessitano di ricorso all’ospedale;
(iv) gestione delle patologie croniche, attraverso l’integrazione dell’assistenza primaria coi servizi specialistici presenti; (v) interventi di prevenzione e promozione della salute;
• la CdS ha un assetto organizzativo a geometria (e
complessità) variabile, anche in relazione alle caratteristiche orogeografiche del territorio e alla densità della popolazione. Pertanto è opportuno individuare diverse tipologie (grande, media, piccola). In
particolare: i) nella versione più semplice, la CdS è
l’“infrastruttura fisica” del NCP, che coordina l’operato
di MMG, PLS, ostetriche e assistenti sociali; ii) la CdS
“media” integra il Poliambulatorio e il complesso delle
attività consultoriali; iii) nella tipologia definita “grande”, la Casa comprende tutti i diversi servizi territoriali: cure primarie, salute mentale, sanità pubblica fino
ai servizi diurni e residenziali;
• l’infermiere ha un ruolo fondamentale nel curare il raccordo organizzativo e la continuità delle cure trasversalmente ai setting assistenziali, secondo i principi del
case management;
• la CdS è una struttura che vuole essere dotata di una
forte riconoscibilità per i cittadini: essa deve essere
percepita come un’alternativa accessibile e affidabile
all’ospedale.
Al termine di questa prima analisi, è già evidente che
Nuclei di cure primarie e Casa della salute si differenziano dal precedente modello perché non nascono come
strumenti esclusivamente diretti a prendere in carico il paziente cronico: la logica dello strumento e dei suoi obiettivi prioritari è quella per livello di assistenza. Tuttavia,
il policy maker regionale è consapevole del fatto che il
potenziamento dei servizi territoriali sia fondamentale per
seguire il paziente nelle fasi ancora lievi della malattia
e limitarne gli impatti in termini di qualità della vita. Di
conseguenza, la presa in carico del paziente cronico è
esplicitamente inserita tra le funzioni sia dei NCP (DGR
2011/2007) sia della Casa della Salute (DGR 86/2010).
Il nesso CdS-cronicità emerge anche dai primi processi di
valutazione del modello: le Case già attive sono state valutate secondo tre parametri, tra cui la gestione integrata
della patologia cronica17.
N. 201
Attori coinvolti: ruoli e relazioni
Meccanismi operativi
Il Nucleo di cure primarie, coinvolgendo una molteplicità
di figure professionali, svolge sia una funzione di erogazione diretta di prestazioni, sia di filtro (gatekeeping)
nei confronti delle altre strutture erogatrici di prestazioni
ospedaliere e ambulatoriali. Inoltre, una terza funzione
riguarda la sfera della prevenzione e dell’educazione
sanitaria. Di certo, il NCP si trova al centro di una serie
di relazioni con altri attori istituzionali, principalmente di
natura pubblica.
Nel modello emiliano, il posizionamento di MMG e PLS
rispetto all’Azienda è contraddistinto da completa integrazione e forte responsabilizzazione. Al vertice di ogni
NCP troviamo infatti un coordinatore, scelto da e tra i
medici (MMG o PLS) che compongono il Nucleo stesso.
Il coordinatore, da una parte, si interfaccia con il Dipartimento di cure primarie per determinare le modalità di erogazione dei servizi, in coerenza con gli obiettivi aziendali; dall’altra, svolge un ruolo interno tra le professionalità
appartenenti al Nucleo. È inoltre responsabile del governo clinico e dei relativi strumenti (Percorsi diagnosticoterapeutici assistenziali).
In merito alla tipologia di rapporto con il personale convenzionato, in Emilia-Romagna l’integrazione dei medici
nei Nuclei è negoziata, e remunerata, secondo modalità “tradizionali”, vale a dire tramite Accordi integrativi conclusi a livello regionale (AIR approvato con DGR
1117/2011) e locale con le rappresentanze dei professionisti18. Questi ultimi, in aggiunta alla quota capitaria, ricevono trattamenti accessori legati all’adesione
alle forme associative e agli stessi NCP, alla dotazione
strutturale dell’ambulatorio, all’accessibilità dello stesso,
alla partecipazione a programmi per il governo clinico.
È poi sempre possibile che le Aziende remunerino i professionisti in base all’implementazione di procedure e al
raggiungimento di obiettivi aggiuntivi. Ciò non esclude,
naturalmente, forme di responsabilizzazione/invcentivo
dei medici nei confronti dell’appropriatezza prescrittiva.
La Figura 3 riassume il modello di finanziamento del sistema basato sui NCP-CdS.
La Regione svolge un ruolo di regolazione del sistema e
policy making. La maggiore integrazione del personale
convenzionato tende, naturalmente, a rendere più imme-
18
17
Si segnala, per completezza, il PSSR 2008-2010 che dedica ampio
spazio a linee strategiche molto coerenti con la filosofia dei Nuclei di
cure primarie, come l’integrazione socio-sanitaria.
Il riferimento è al documento “La programmazione delle Case della
salute in Emilia Romagna – Report 2011, disponibile on line http://
www.saluter.it/documentazione/rapporti/case_della_salute_ottobre2011.pdf/
N. 201
diata la trasmissione sul territorio delle politiche sanitarie
regionali (si pensi, ad esempio, all’implementazione dei
PDTA). Le dinamiche e i benefici dell’integrazione possono essere irrobustiti dalla condivisione degli stessi sistemi
informativi (Progetto SOLE, infra).
Il posizionamento dell’ASL si ricava facilmente a contrario, muovendo dal ruolo dei MMG/PLS. La completa
integrazione del personale convenzionato nei Nuclei, e
quindi nei Dipartimenti, rafforza la funzione sia di committenza che di produzione diretta. Da una parte, la ASL
facilita il ruolo di programmazione e monitoraggio della
produzione sanitaria tramite il Distretto; dall’altra, a livello operativo, innesca meccanismi di più stretto coordinamento tra il personale dipendente dai propri Dipartimenti
e il personale convenzionato.
I Comuni partecipano alla programmazione delle attività
erogate dai NCP-CdS attraverso i Comitati di Distretto.
Coerentemente, partecipano all’erogazione delle prestazioni a carattere sociale e socio-sanitario mettendo a
disposizione della CdS i propri operatori. L’integrazione
tra enti locali e ASL rappresenta sicuramente un punto di
forza del sistema, che riesce a offrire al cittadino un ventaglio di servizi più ampio, che vada oltre le problematiche
strettamente sociali della patologia.
Il Distretto coordina e integra le attività sanitarie e sociosanitarie svolte dall’azienda, dagli enti locali e dalle organizzazioni del Terzo settore, garantendo l’accesso dei
cittadini ai servizi nella relativa porzione di territorio della
ASL. Dal punto di vista operativo, i distretti: i) partecipano
al processo di allocazione delle risorse, contribuendo alla
definizione dei budget dei dipartimenti, anche ospedalieri; ii) monitorano l’adeguatezza della produzione sotto
il profilo quali – quantitativo e dell’appropriatezza, contribuendo a valutare l’operato dei dipartimenti stessi; iii)
favoriscono l’integrazione stabile tra i dipartimenti e gli
altri punti di erogazione di servizi sociali e sanitari; iv)
contribuiscono alla gestione del Fondo Regionale per la
non autosufficienza19.
I Dipartimenti 20 sono l’articolazione dell’ASL incaricata
di assicurare al paziente tutta una serie di “linee di servizio”: l’assistenza di medicina generale e pediatrica di libera scelta, l’assistenza infermieristica, ostetrica e riabili-
19
Da segnalare anche il programma di co-finanziamento statale per la
sperimentazione della Casa della salute, previsto dalla L. 296 del 27
dicembre 2006 (Finanziaria 2007). Per il triennio 2007-2008-2009
sono stati stanziati 10 milioni di euro annuali.
20
Istituito con LR 27/2004 (art.51).
Le cure intermedie
325
Figura 3. Meccanismi di finanziamento del sistema
basato su NCP-CdS (Fonte: nostra elaborazione da
DGR 2001/2007 e DGR 291/2010).
tativa, l’assistenza specialistica territoriale, farmaceutica,
consultoriale, i servizi sociali e socio-sanitari rivolti alle
fasce deboli (anziani, disabili, adolescenti, famiglie multiproblematiche, tossicodipendenti, immigrati). Come già
accennato, il NCP costituisce l’unità operativa di base del
Dipartimento di cure primarie; da rilevare come il responsabile delle Case della salute sia di norma un dirigente
medico del Dipartimento cure primarie.
Gli erogatori pubblici e privati accreditati restano sostanzialmente ai margini del sistema: il processo di accesso
alle strutture specialistiche resta invariato. Nel modello emiliano, il mondo dei servizi territoriali non coinvolge istituzionalmente gli operatori dell’assistenza ospedaliera.
La Figura 4 riassume le relazioni tra i principali attori del
sistema.
Stato dell’arte del modello
NCP e CdS rappresentano due successivi passaggi per
la piena realizzazione del modello emiliano-romagnolo,
il cui obiettivo è offrire ai cittadini una sede territoriale di
riferimento per i propri bisogni di salute e di assistenza,
alla quale rivolgersi in ogni momento della giornata, facilmente identificabile e con caratteristiche omogenee in
tutto il territorio regionale. Coerentemente con queste finalità, l’analisi dello stato di implementazione del modello
si concentra sulla diffusione e sull’operatività delle Case
della salute.
A novembre 2013, risultano ben 124 CdS “pianificate”,
326
Le cure intermedie
Figura 4. Ruolo e interazioni tra i soggetti chiave
del sistema NCP-CdS (Fonte: Elaborazione da DGR
2001/2007 e DGR 291/2010).
con 55 sedi già pienamente operative 21. Si nota una notevole concentrazione nell’area vasta “Emilia Nord”, con
le ASL di Parma e Reggio Emilia, che registrano il maggior numero di esperienze in corso (rispettivamente 13
e 8). Dal punto di vista dimensionale, abbiamo 26 CdS
classificate come “piccole”, 17 “medie” e 12 “grandi”.
Dall’introduzione delle CdS, sono stati investiti 117,15
milioni di euro, di cui 39,32 provenienti da fondi statali
(ex art. 20 L. 67/88 e finanziamenti specifici per la CdS
ex L. 296/06), 19,05 da finanziamenti regionali, 33,45
da fondi AUSL, i restanti 25,35 da Comuni e privati.
Sotto il profilo dell’organizzazione interna, l’ultima rilevazione sistematica disponibile (Ottobre 201122) riporta
che nel 90% dei casi la struttura è sotto la responsabilità
di un dirigente medico del Dipartimento di cure primarie.
Come è logico immaginare, la Casa sta diventando sede
fisica per le forme di integrazione tra MMG già esistenti:
nel 91% dei casi, essa ospita una medicina di gruppo.
Inoltre, 17 strutture (40%) sono sede di guardia medica
In Emilia Romagna, l’articolazione aziendale prevede:
• alcuni Dipartimenti territoriali, tra cui, di norma, il Dipartimento di
cure primarie, di Sanità pubblica (prevenzione), di Salute mentale,
delle Attività socio-sanitarie;
• i Dipartimenti ospedalieri all’interno dei Presidi a gestione diretta;
• diversi Dipartimenti con funzione tecnica o amministrativa.
Qui e nel resto del capitolo, il termine individua i Dipartimenti territoriali.
21
22
http://www.saluter.it/documentazione/rapporti/case_della_salute_2013
N. 201
notturna e festiva con presenza di attività ambulatoriale.
Il servizio ADI è attivato in tutte le sedi.
Con riferimento agli strumenti specificamente attivati per
la presa in carico della cronicità, si rileva che:
• in 33 sedi sono stati attivati programmi di gestione
integrata delle malattie croniche (79% del totale). Coerentemente con i percorsi proposti più di frequente
in Emilia-Romagna, i programmi interessano principalmente il diabete e le patologie psichiatriche minori; in
misura più ridotta, BPCO, scompenso e insufficienza
renale cronica; in 18 CdS, la gestione integrata prevede anche sistemi di monitoraggio attivo del paziente
(ad esempio, recall telefonico, counseling infermieristico ambulatoriale, ecc);
• 34 esperienze (81% del totale) si sono dotate di un
ambulatorio infermieristico per le attività programmate;
• 7 CdS offrono servizi di telediagnosi e teleconsulto;
• 24 sedi (57% del totale) propongono programmi integrati con il Dipartimento di prevenzione (ad esempio,
interventi mirati di educazione sanitaria su particolari
segmenti di popolazione a rischio);
• 29 sedi offrono agli operatori formazione specifica
per patologia.
Confronto tra i modelli regionali e considerazioni conclusive
La recente attenzione delle Regioni a modelli sistematici
e diffusi di disease management, da correlarsi allo sviluppo di forme associative strutturali dei MMG, rappresenta
un elemento di novità nelle priorità di agenda dei policy maker sanitari. Il fatto che questo avvenga contemporaneamente in Lombardia ed Emilia-Romagna, tra le
regioni storicamente anticipatrici di molti movimenti del
SSN23, delinea un cambio di fase. Da un lato, si è messa
in agenda la necessità di supportare direttamente lo sviluppo delle cure primarie evitando di limitarsi al semplice contenimento delle attività e dei consumi ospedalieri.
Dall’altro, si propone una nuova segmentazione dell’utenza, non più principalmente per patologia o per ambiti di
cura (prevenzione, ospedale, territorio), ma per profilo
assistenziale: cronicità, acuzie, non autosufficienza, ecc.
Si registra quindi una tensione comune per sviluppare
modelli di disease management delle patologie croniche.
Dovendo rispondere agli stessi bisogni epidemiologici,
che nascono in contesti socio- economici comparabili,
non è sorprendente che le leve operative di cambiamento
23
http://www.saluter.it/documentazione/rapporti/case_della_salute_ottobre2011.pdf/
N. 201
manageriale siano simili. Ciò che le differenzia è lo storico delle politiche intraprese negli ultimi tredici anni di
“federalismo sanitario”, e che, inevitabilmente, influenza
le modalità di attivazione degli strumenti di change management. Quali sono questi strumenti e quali differenze
si notano nelle due realtà regionali?
Un primo elemento, che interessa il piano organizzativo,
è l’integrazione dei professionisti, in primis i MMG, sia
in Lombardia che in Emilia-Romagna. L’obiettivo finale è
quello di stimolare il coordinamento e l’apprendimento
reciproco tra tutte le molteplici figure che prendono in
carica il paziente cronico o fragile. In Lombardia, però,
i legami intra-professionali e interprofessionali sono storicamente più deboli. La regione, quindi, ha promosso
una soluzione “d’urto” per accelerare rapidamente l’integrazione funzionale, in cui le cooperative di MMG, più
che personale convenzionato, sono concettualmente considerate privati accreditati, selezionati attraverso gare a
evidenza pubblica. Un simile cambiamento di paradigma
è forse l’unica strategia in grado di ottenere i cambiamenti desiderati in tempi brevi; il rischio che la Regione
deve fronteggiare è quello di uno scontro frontale con i
professionisti, che vedono nel nuovo modello troppe difficoltà e incognite. Le competenze di public management e
l’integrazione multi professionale, troppo complesse per
essere recuperate in tempi brevi, sono sostituite dall’ingresso di nuovi attori, legati ai gestori del CReG attraverso meccanismi di mercato. Per i servizi amministrativi
e alcune attività di monitoraggio del paziente, le cooperative di MMG possono avvalersi delle società di servizi; l’energia imprenditoriale di questi soggetti dovrebbe
agire come volano per l’innovazione. L’area specialistica ambulatoriale, che passando sotto la gestione delle
Aziende ospedaliere ha perso molti collegamenti con le
cure primarie, trova un’opportunità di riconnessione attraverso gli accordi tra le strutture accreditate e i gestori
del CReG. All’opposto, l’Emilia-Romagna ha storicamente
investito molto nello sviluppo delle forme associative dei
MMG; ha insistito nel proporre forme di lavoro congiunto con le altre professionalità mediche, infermieristiche e
dell’assistenza alla persona, funzionalmente dipendenti
dalle AUSL o dai Comuni. Di conseguenza, il modello
tende a rimanere nel perimetro pubblico, cercando di attivare meccanismi organizzativi centripeti, anche “fisici”,
di tipo strutturale, potenzialmente capaci di riavvicinare
alla cultura e ai processi organizzativi della AUSL anche
i professionisti convenzionati. L’innovazione è di tipo incrementale, perché interessa percorsi ormai intrapresi da
tempo. In questo caso, il rischio è quello di un cambia-
Le cure intermedie
327
mento troppo graduale, in cui le logiche negoziali e i
molteplici attori coinvolti nelle decisioni portano a forme
di “gattopardismo”: si adottano nuove definizioni e contenitori organizzativi, in cui sopravvivono quasi immutati
vecchi ruoli e attività.
Un secondo elemento ricorrente riguarda i meccanismi
operativi, che fanno perno in entrambi i casi sulla diffusione e dei PDTA sulla creazione di efficaci sistemi di
premialità a essi collegati. In Lombardia, non è ancora
chiaramente definito a chi spetti la definizione dei PDTA,
che finora sono stati spesso elaborati congiuntamente da
MMG e società di servizi e poi approvati dalle ASL. Sul
piano dei meccanismi di remunerazione, la Regione ha
definito metriche molto chiare, che, attraverso i meccanismi tariffari, spostano una quota di rischio sul professionista (anche se esso è in buona parte “cedibile” dietro
corrispettivo, alle società di servizio). Sul piano della sostenibilità, il CReG, che quantifica in termini monetari lo
standard di risorse necessarie per l’assistenza, è un ottimo
sistema di controllo della spesa. Finora, comunque, che i
primi risultati reddituali mostrano una buona marginalità
a favore dei gestori del CReG e dei loro partner (Zocchetti, 2013). L’Emilia-Romagna mantiene modelli di governo
clinico e di remunerazione ben più tradizionali. Esiste un
set di PDTA diffusi in tutta la regione, ma ogni AUSL ha
poi interpretato autonomamente su quali concentrare le
azioni di governo. Negli ultimi anni, sono stati introdotti
più sistematici strumenti di monitoraggio, incentivazione
e controllo degli effettivi tassi di reclutamento dei pazienti
nei PDTA e della loro compliance: si consideri, ad esempio, l’ampia raccolta dati che confluisce nei “Profili di
Nucleo di cure primarie”. Allo stesso modo, sul piano
dei meccanismi di remunerazione, è chiaro lo sforzo per
introdurre trattamenti accessori più strettamente ancorati
alle performance dei MMG in termini di reclutamento e
aderenza alla terapia. Restano però margini di miglioramento; probabilmente, si tratta di un sistema con troppi
livelli negoziali per implementare in maniera efficiente e
trasparente gli indirizzi aziendali.
Un terzo elemento riguarda l’ampliamento dell’offerta dei
servizi territoriali per la cronicità, con un particolare focus
sull’accessibilità. Per esemplificare, sia in Lombardia che in
Emilia-Romagna aumentano le ore di apertura degli ambulatori dei MMG, e allo stesso tempo, si sperimentano forme
anche sofisticate di telemedicina e tele monitoraggio. Si
tratta di una partita che, in Lombardia, è stata esplicitamente affidata al gestore del CReG e, a cascata, alla società di
servizi per quanto riguarda l’aspetto di innovazione tecnologica. In Emilia-Romagna si è preferito ancora una volta
328
Le cure intermedie
rimanere nel perimetro pubblico. Le AUSL, in diversi casi,
hanno volto a loro favore la sovra dotazione strutturale (nel
2012, 3,7 posti letto per 1.000 abitanti contro uno standard nazionale di 3), utilizzando per le CdS spazi e servizi in precedenza a disposizione delle strutture ospedaliere
dismesse; hanno spesso coinvolto attivamente le comunità
locali e i comuni nella fase di progettazione, investimento,
organizzazione dei servizi e comunicazione.
È sterile discutere su quale modello sia migliore o più innovativo; piuttosto, è rilevante capire se le soluzioni proposte, e le narrative che le sorreggono, sono coerenti con
i sistemi in essere e i loro fabbisogni di cambiamento. La
Lombardia ha storicamente delle cure primarie più deboli rispetto alla solidità del suo sistema ospedaliero, così
come nelle sue ASL sono difficilmente rintracciabili alti potenziali manageriali per lo sviluppo delle cure primarie.
Pertanto, è stata adottata una innovazione radicale che
fa perno, in buona parte, sulle energie imprenditoriali di
soggetti esterni alle ASL, come le cooperative di MMG più
proattive o le società di servizio. Questo risulta coerente
con una regione che ha fatto una delle sue scelte qualificanti nella valorizzazione del privato, regolamentato e
incentivato attraverso una committenza prevalentemente
accentrata a livello regionale. D’altra parte, l’Emilia-Romagna non poteva che puntare sull’enorme investimento
degli ultimi anni nello strutturare l’associazionismo dei
MMG, proponendone un ulteriore salto in avanti con le
Case della salute. Ha aggiunto alle capacità manageriali
disponibili nelle AUSL una maggiore attenzione ai PDTA
e al loro monitoraggio. In sintesi, siamo davanti a due
soluzioni, operativamente non così dissimili, ma con grandi differenze nelle sottolineature, nelle soluzioni di governance e nella narrativa proposta; tutte sono coerenti con
il resto del sistema sanitario regionale e con l’impronta di
policy che le caratterizza.
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Le cure intermedie
N. 201
329
Gli interventi
nel settore geriatrico
Stefano Boffelli1 2, Renzo Rozzini1 2, Marco Trabucchi2 3
Istituto Poliambulanza
Gruppo di Ricerca geriatrica di Brescia
3 Dipartimento di medicina dei sistemi, Università di Roma Tor Vergata
1 2 Abstract
Nei Paesi occidentali la degenza media dei ricoveri ospedalieri si è ridotta in modo significativo negli ultimi 30 anni: negli
USA è scesa dai 7,6 giorni del 1981, ai 5,6 degli anni 2000 (Avalere, 2006). Una serie di fattori ha contribuito a tale
risultato: una più rapida organizzazione per la diagnostica, la pubblicazione e la diffusione delle linee guida terapeutiche
che hanno migliorato la qualità dell’assistenza e quindi il raggiungimento di end point rilevanti per la salute, nonché la riorganizzazione territoriale per la dimissione protetta al domicilio. Di fatto, nonostante tali miglioramenti, il numero delle persone
che vengono ricoverate ogni anno tende a crescere in modo progressivo, soprattutto per l’aumento del numero degli anziani
affetti da malattie croniche, caratterizzate da instabilità clinica e frequenti riacutizzazioni (Clarfield, 2001).
La maggior parte delle persone che vengono ospedalizzate è rappresentato infatti da anziani affetti da multimorbidità e disabilità, che sono il frutto del progresso della medicina e delle sue ambiguità: sopravvissuti ai fenomeni acuti, ma privi di un’assistenza adeguata per gli anni di vita guadagnati (Trabucchi, 2011). Di conseguenza, molte persone sperimentano il fenomeno
delle revolving doors cioè il continuo passaggio tra ospedale e domicilio, secondario sia alla tendenza dell’ospedale per acuti
a dimettere precocemente il malato, sia all’instabilità clinica e alla ridotta assistenza sul territorio (Mor, 2010). Diventa pertanto
fondamentale, di fronte a una crescente domanda di ricoveri e di ri-ospedalizzazioni, garantire una continuità di cura ai malati
fragili attraverso aree di post-acuzie, definite anche con il termine di cure intermedie (Rozzini, 2011; Kane, 2011).
In Italia il settore delle cure intermedie ha registrato in
questi anni una progressiva crescita in termini di posti letto e di risorse impegnate (Ministero della Salute, 2011).
Il termine di cure intermedie (già usato in ambito internazionale come post acute care, oppure intermediate care)
definisce con relativa chiarezza quel complesso di cure
che vengono erogate una volta superata la fase di acuzie della malattia e che sono caratterizzate da precisi
obiettivi da perseguire (Clarfield, 2001). Si inseriscono
in un preciso momento della storia di malattia, successiva
alla fase acuta (o di criticità) e precedente la fase di stabilizzazione verso i due possibili esiti di guarigione o di
cronicità (Brizioli, 1999; Trabucchi, 2010).
Che ruolo svolgono le cure intermedie? L’obiettivo è dare
una risposta ai multiformi bisogni della persona anziana.
In primo luogo, garantire la continuità alle cure iniziate
in ospedale. Inoltre, effettuare una rivalutazione delle pa-
tologie croniche e della loro terapia: tra queste, il decadimento cognitivo e la depressione, fenomeni crescenti
di comorbilità psichica, ma spesso trascurati nell’area di
acuzie (Trabucchi, 2011). Un altro aspetto è la gestione
degli eventi intercorrenti (riacutizzazione della malattia,
infezioni, stato confusionale), che possono avvenire durante la degenza nell’area della post acuzie, soprattutto
alle persone anziane più fragili (Park, 2013).
Lo stato funzionale rappresenta un altro passaggio: il recupero delle abilità precedenti l’evento acuto è un importante obiettivo nella previsione del ritorno a casa. Procedure semplici di mobilizzazione, assistenza nelle attività
di base della vita quotidiana, deambulazione assistita,
anche con la disponibilità di ausili per il cammino, sono
utili quanto efficaci. La riabilitazione deve essere intesa in
senso estensivo, deve cioè riguardare gli aspetti funzionali motori e quelli psicologici direttamente collegati alla
330
Le cure intermedie
possibilità di vita autonoma nella propria casa. Ovviamente l’intensità dell’intervento riabilitativo deve essere
individualizzata sulle condizioni della singola persona;
è però una componente essenziale dell’intervento post
acuto, perché spesso i pazienti hanno subìto un aggravamento funzionale nel corso del ricovero ospedaliero,
anche se non sono affetti da una vera e propria sindrome
da immobilizzazione (Bellelli, 2011).
Infine, la post-acuzie esercita l’importante funzione di
“ponte” tra l’ospedale e il domicilio: è suo compito favorire l’organizzazione e la coordinazione delle cure domiciliari (assistenziali e infermieristiche), perché malato
e familiari non si trovino disorientati alla dimissione, ma
“protetti” da una rete di continuità. Nel continuum delle
cure intermedie, l’obiettivo è garantire il dialogo e il collegamento fra ospedale e territorio, affinché la persona anziana possa beneficiare nei tempi corretti delle cure adeguate, e ritornare alla propria casa (Trabucchi, 2010).
All’interno delle cure intermedie, tuttavia, non vi è ancora
chiarezza terminologica: sotto questa dizione si possono
trovare soluzioni organizzative tra loro molto diverse, anche in base all’interpretazione assunta nei diversi modelli
regionali (Quaderni del Ministero della Salute, 2011). Vengono definite come aree di cure intermedie sia reparti di
tipo riabilitativo (neuro-motorio, cardio-respiratorio, geriatrico), che reparti di lungodegenza, oppure ancora reparti
di post-acuzie a prevalente aspetto assistenziale; è evidente che la vocazione clinica e/o riabilitativa, così come gli
obiettivi e le procedure di tali servizi, sono differenti, in
relazione alla tipologia di pazienti che vi afferisce.
L’evoluzione delle cure intermedie: le Unità di cure sub
acute
Una novità introdotta in Regione Lombardia nel 2011 riguarda la creazione delle Unità di cure sub acute (UCSA):
la delibera le ha identificate come aree a minore intensività diagnostica rispetto all’acuzie, nelle quali proseguire il
trattamento e le cure globali dopo un ricovero in area medica o chirurgica (Regione Lombardia, 2011). Le indicazioni regionali favoriscono il ricovero in UCSA di malati
che hanno superato la fase acuta, ma che necessitano ancora di cure mediche e infermieristiche difficilmente gestibili al domicilio. Infatti, i malati che afferiscono alla UCSA
sono clinicamente complessi e affetti da comorbilità, con
stato funzionale sia premorboso sia attuale compromesso,
anche in relazione a un recente evento internistico/chirurgico acuto o alla riacutizzazione di una malattia cronica.
I reparti ricoverano persone che, pur avendo effettuato
una diagnosi e iniziato terapia in area per acuti, pre-
N. 201
sentano il rischio di una ricaduta per la loro instabilità
clinica, o necessitano di prosecuzione delle cure e/o di
follow-up (esami ematici e strumentali di controllo, procedure di secondo livello).
La UCSA è quindi un reparto ove effettuare un trattamento
finalizzato a specifici obiettivi sanitari, erogato in continuità con un ricovero in acuto, per trattare problemi clinici
in fase attiva, per pazienti anziani e affetti da patologie
croniche. Per questi malati, la UCSA garantisce la rivalutazione clinica, il monitoraggio, una adeguata presenza
infermieristico-assistenziale, la prosecuzione delle cure
(Quaderni del Ministero della Salute, 2010). Comprensibilmente, la complessità dei malati richiede una valutazione multidimensionale geriatrica, con la predisposizione
di un piano di assistenza individuale strutturato (Ferrucci,
2001).
La terapia medica del recente evento acuto (o cronico
riacutizzato) rappresenta il primo gradino della cura, parimenti alla rivalutazione delle patologie somatiche concomitanti e della loro terapia farmacologica. Fondamentale anche l’aspetto cognitivo, in particolare la cura dello
stato confusionale acuto tramite interventi farmacologici
e non farmacologici. Nello specifico, viene data importanza al ruolo del personale infermieristico-assistenziale
nel monitorare i pazienti, e nel rilevare precocemente le
modificazioni fisiologiche o psichiche del delirium, al fine
di intervenire precocemente. Infine, viene dato rilievo alla
riattivazione funzionale, legata all’attività del personale
assistenziale, o fisioterapico.
Infine, tra gli obiettivi dei reparti di cure sub acute vi è
l’organizzazione di un modello a rete con i servizi postospedalieri, per garantire – quando opportuno – il ritorno
a casa per il malato e i familiari in situazione protetta. A
tale proposito, nel dicembre 2013 la Regione Lombardia
ha rimodellato il sistema globale della post-acuzie, differenziando l’area riabilitativa da quella della subacuzie,
creando un terzo comparto di cure intermedie, collocato
nell’area socio-sanitaria (posti di sollievo di RSA, strutture
riabilitative afferenti all’assessorato della famiglia (Regione Lombardia, 2013). L’obiettivo è riorganizzare in modo
uniforme l’area di post-acuzie, identificando percorsi da
seguire dopo l’ospedalizzazione, realmente adatti alla
persona anziana fragile, e scelti in base allo stato di salute e alla prognosi attesa.
In particolare, quali outcome deve perseguire un reparto
di cure intermedie? Se l’aspetto puramente custodialistico/assistenziale va escluso a priori, la guarigione e/o la
stabilizzazione clinica devono rappresentare l’obiettivo
primario, quanto il ripristino della funzione premorbosa
N. 201
e il ritorno a casa, considerando anche il benessere psichico e cognitivo: depressione, delirium, decadimento cognitivo (Boffelli, 2013). Ulteriori studi saranno necessari
per dimostrare se le cure intermedie saranno in grado di
modificare anche gli outcome maggiori, come riospedalizzazioni e mortalità (Park, 2013; Boffelli, 2014).
Quali pazienti per le cure intermedie
Chi è l’ammalato candidato alle cure intermedie? In
questo periodo di contrazione delle risorse e di ricerca
dell’appropriatezza del percorso clinico, vanno identificati i cittadini che abbisognano di servizi post ospedalieri, anche se alcune tipologie di malati sono già individuate nei protocolli nazionali e regionali (Quaderni Ministero
Salute, 2010). Ad esempio, protocolli regionali considerano adeguati per le cure intermedie i malati che non
hanno supporti a casa (servizi formali come l’assistenza
domiciliare o informali come la famiglia) e non possono
tornare subito al domicilio. Sono persone che erano in
grado di esercitare un certo grado di autonomia funzionale e organizzativa, ma che l’hanno persa in conseguenza dell’evento acuto: hanno necessità, come si diceva in
passato, di un periodo di “convalescenza” prima del ritorno al domicilio. In questa situazione, le cure intermedie
hanno la doppia valenza, clinico-funzionale (guarigione
dall’evento, recupero funzionale premorboso) e sociale
(organizzazione di un percorso di dimissione protetta),
che l’ospedale per acuti non può permettersi di effettuare,
perché non di sua competenza (Boffelli, 2012).
Vi sono altre categorie di persone malate, che stanno
emergendo in questi anni, sia come definizione nosografica, sia come area di interesse specifico per le cure intermedie. Un primo gruppo è rappresentato da persone
con chronic critical illness: sono malati più gravi, che provengono da aree di cura intensiva e che sono a rischio di
essere nuovamente sottoposti a procedure invasive data
la loro instabilità clinica, dovuta al recente evento acuto
(Lamas, 2014). Si tratta di persone sopravvissute a una
malattia catastrofica o a una procedura chirurgica, ma
che hanno avuto bisogno di un prolungato tempo di assistenza (per esempio, ventilazione meccanica per più di
21 giorni).
Questi pazienti tendono ad avere infezioni ricorrenti, disfunzione d’organo, deficit funzionali e delirium. Tra coloro che sopravvivono, i tassi di riammissione sono alti,
meno del 12% vive al domicilio ed è funzionalmente indipendente a 1 anno dall’evento acuto. Su questi malati
le cure intermedie devono investire i loro sforzi clinici e
terapeutici, nonché programmare progetti e interventi a
Le cure intermedie
331
lungo termine: perché, per la gravità dell’evento acuto, la
convalescenza e il recupero clinico e funzionale saranno
difficili (Khan, 2013).
Un’altra categoria di recente definizione è quella degli
hospital dependent patients, diversi dai precedenti perché sono malati con patologia cronica a elevata instabilità al domicilio, quindi con frequenti riacutizzazioni e
conseguenti re-ricoveri. Non sono malati terminali, ma
persone la cui malattia è grave o molto grave, e non risponde alle abituali cure domiciliari (Reuben, 2014). Si
stabilizzano e vivono bene in ospedale, perché ricevono
cure a maggiore intensità; possono beneficiare del passaggio in cure intermedie perché hanno bisogno di un
maggior tempo di stabilizzazione rispetto alla degenza
in acuzie. Inoltre, questi malati sono i candidati tipici per
un re-ricovero nel setting di cure intermedie direttamente
da casa, quando si verifica uno scompenso della malattia
cronica, in alternativa a una gestione in reparto per acuti.
Gli hospital-dependent patients sono i malati che più volte
all’anno vengono ricoverati in ospedale, e che teoricamente si avvantaggiano di una degenza in area di cure
intermedie; diventa però necessario creare un percorso
specifico (Kane, 2011).
Infine, vi sono le persone affette da post hospital syndrome, cioè coloro che hanno subìto pesantemente gli effetti
negativi dell’evento acuto e dell’ospedalizzazione, indipendentemente dallo stato di salute premorboso. Candidati tipici alle cure intermedie, sono malati che hanno
sperimentato una grave perdita clinico-funzionale-psicologica e una serie di eventi negativi durante il ricovero:
allettamento, lesioni da decubito, perdita funzionale, sviluppo di delirium, comparsa di depressione dell’umore
reattiva al decadimento globale.
La responsabilità è spesso dell’ospedale, perché poco
attento ai bisogni del malato fragile: riferendosi al modello del delirium (Inouye, 2006), è necessario spesso un
grande evento per determinare questa sindrome in un paziente robusto (ad esempio, un intervento chirurgico maggiore), mentre è sufficiente un evento minore per creare lo
stesso danno in un malato più fragile (come un’infezione
urinaria in paziente portatore di catetere vescicale a permanenza e affetto da demenza) (Mazzola, 2013). Questi
malati, anziani con moderata comorbilità e lieve decadimento funzionale premorboso, subìscono una maggiore
compromissione soprattutto nelle aree chirurgiche, dove
la gestione internistica è stata poco accurata, mentre l’attenzione geriatrica non è diffusa (Bellelli, 2012). Le cure
intermedie, per questi cittadini, possono svolgere un fondamentale ruolo di “recupero” del paziente, per favorire
332
Le cure intermedie
il ritorno alle funzioni fisiologiche, cliniche e funzionali di
base, superando gli eventi negativi indotti dall’ospedalizzazione (Krumholz, 2013).
I nuovi fruitori delle cure intermedie
Vi sono altre categorie di possibili fruitori delle cure intermedie. Sono in aumento i pazienti oncologici, soprattutto
quelli che necessitano di un trattamento radioterapico, ma
non sono in grado di eseguirlo in regime ambulatoriale
perché svantaggiati funzionalmente o clinicamente. Questi malati, troppo costosi per un ricovero prolungato in
medicina (7-15 giorni di trattamento medio), vanno inseriti nel percorso delle cure intermedie, tra ospedale e
domicilio (Kaplan, 2005).
Se questi sono i potenziali utilizzatori dei servizi di postacuzie, è necessario organizzare un’attenzione diversa
per i diversi gruppi? Certamente, all’interno dello stesso
contenitore, i malati vanno curati con qualità e intensità
specifiche. Se i malati hanno bisogni diversi, il programma dovrà prevedere interventi differenziati di assistenza
clinica, psicologica, organizzativa, o di supporto: ad
esempio, alcuni avranno hanno maggior bisogno di riabilitazione fisioterapica, altri più di intensività e monitoraggio clinico (Boffelli, 2014). L’obiettivo dovrebbe essere di
ridurre l’instabilità clinica e favorire il ritorno al domicilio
nella condizione funzionale premorbosa (Mor, 2010).
La valutazione multidimensionale geriatrica in ottica
prognostica
La necessità di indirizzare il paziente ospedalizzato al
giusto percorso nell’area delle cure intermedie richiede la
conoscenza della complessità del malato, e la stima della
sua prognosi. Attualmente, le metodologie di approccio
alla complessità clinica del paziente anziano sono in evoluzione: la conoscenza sempre più approfondita dell’unicità clinica, cognitiva e funzionale dell’anziano rispetto
all’adulto sta portando a definire percorsi individualizzati
e specifici di diagnosi, cura e trattamento. Il processo recognizing complexity, avoiding oversemplification è iniziato da circa 10 anni e non ancora arrivato a una sistematizzazione: indica la necessità di dipanare l’intreccio
di malattia, funzione e psiche, giungendo a una definizione di obiettivi realmente raggiungibili (Rosenberg, 2013;
Bellelli, 2011).
Per approssimarci a questo risultato, si devono considerare alcuni fattori importanti: in primo luogo, accettare
che la condizione di malattia cronica del paziente anziano non è statica ma dinamica, in continua e costante
evoluzione, che richiede una valutazione, e un periodico
N. 201
follow-up, delle condizioni mediche, psicosociali e funzionali attraverso strumenti multidimensionali (Yawar, 2010).
D’altra parte, diventa importante conciliare la visione di
questa evoluzione e instabilità con un approccio terapeutico.
Per poterlo fare, bisogna considerare alcuni aspetti: spettanza di vita, comorbilità, fattori psicosociali. In primis, la
prospettiva di sopravvivenza è un importante indicatore
di prognosi. È noto che la popolazione anziana, suddivisa per sesso, età e gravità dello stato di salute, presenta differenti curve di sopravvivenza (dai 18 anni per un
maschio di 70 anni in buona salute, ai 2 anni circa per
una donna 95enne fragile) (Walter, 2001). Il dato è stato ripreso anche da successive linee guida per le scelte
diagnostico-terapeutiche nelle persone anziane malate di
tumore, a indicare come la scelta diagnostico-terapeutica
possa essere razionalmente guidata dall’aspettativa di
vita (National Cancer Guidelines, 2012).
Un secondo fattore da considerare nella scelta prognostica e nel percorso di cura è rappresentato dalla comorbilità. I sistemi sanitari si stanno evolvendo per affrontare
le sfide emergenti di assistenza a lungo termine, tra problemi finanziari e il conseguente rischio di ineguaglianza
delle cure; inoltre sono impreparati a gestire la comorbilità dei pazienti, che sta divenendo la norma piuttosto che
l’eccezione. Gli approcci focalizzati su una sola malattia
dominano la formazione medica, la ricerca clinica e le
cure ospedaliere, ma sempre più necessitano di un processo di specializzazione per garantire la continuità, il
coordinamento fra ospedale, cure intermedie e territorio.
Questo approccio è ancor più necessario nelle aree socio-economicamente svantaggiate, dove la comorbilità è
comune, e spesso coinvolge sia la salute fisica che quella
mentale (Barnett, 2012). La fragilità di questi pazienti si
evidenzia in numerosi studi: maggiore la comorbilità minore la sopravvivenza, sia per patologie somatiche come
la polmonite (Rozzini, 2008), che psichiche come il disturbo depressivo (Rozzini, 2012).
Diventa quindi necessario utilizzare la valutazione multidimensionale per comprendere l’evoluzione del malato nel
tempo, soffermandosi in particolare sullo stato funzionale,
“imbuto” finale delle patologie somatiche e psichiche: il
maggiore grado di perdita funzionale durante un evento
acuto si associa a un aumento della mortalità (Sleiman,
2009). La perdita funzionale, in questo caso interpretata
come l’incapacità a sostenere l’evento acuto per l’esaurimento della riserva biologica e cognitiva, è un forte predittore di sopravvivenza, e va assolutamente considerato
come fattore prognostico. Inoltre, la salute, e quindi la
N. 201
prognosi, dipendono anche da fattori psico-sociali.
È evidente che la scelta della prosecuzione delle cure
dall’ospedale direttamente al territorio, oppure tramite un
passaggio verso le cure intermedie, dipenderà dalla considerazione da alcuni fattori “tampone”, come la scolarità
e la cultura (anche solo sanitaria), nonché dalla presenza
di una rete familiare o amicale che possa intervenire sui
processi di cura e di supervisione del malato. Maggiore
la fragilità sociale, maggiore sarà la necessità di un passaggio del malato in un setting di cure intermedie, per
favorirne la stabilizzazione e organizzare una dimissione
protetta attivando i mezzi di supervisione e cura del territorio (medico di medicina generale, servizio assistenziale
alla persona, servizio infermieristico, telemedicina).
I risultati del lavoro delle UCSA
L’Unità di cure sub acute della Fondazione Poliambulanza di Brescia ha iniziato la propria attività nel mese di
novembre 2011, iniziando con 10 posti letto, aumentati
successivamente ai 20 attuali. Nei due anni di attività
(novembre 2011-dicembre 2013), dei 626 pazienti consecutivamente ricoverati, il 70% proviene da reparti di
medicina e geriatria (il 40% dalla geriatria), mentre quelli
di pertinenza chirurgica sono il 16%. I malati ricoverati
sono molto anziani (età media 78,3+11,4), con bassa
scolarità (7,1+3,9 anni), prevalentemente di sesso femminile (65%): il 37,6% viveva solo prima dell’evento acuto, altri con un familiare di primo livello (coniuge o figli:
46,8%), o una badante (13,8%).
Le cause principali del ricovero sono le malattie respiratorie (24,8%) e cardiovascolari (14,2%), gastrointestinali
ed epatiche (15,6%); in misura minore viene richiesto il
trasferimento esclusivamente per condizioni legate alle
complicanze dell’ospedalizzazione (sindrome ipocinetica
come da post hospital syndrome: 9,6%). I pazienti sono
caratterizzati, al momento del ricovero, da decadimento cognitivo di grado lieve, dipendenza funzionale (premorbosa lieve: Barthel Index 75,3 ± 25,2, ma moderata
all’ingresso in reparto: Barthel 40,4 ± 24,1), e da fragilità clinica, come si evince dalla scala di comorbilità (CIRS
comorbilità: 3,0 ± 1,6) e dai dati biologici (albuminemia
2,9 ± 0,4 g/dl, colesterolemia 164,0 ± 42,2 mg/dl).
Condizioni frequenti, fra quelle rilevate durante la degenza, sono il delirium e i sintomi depressivi; per quanto riguarda il primo, una percentuale significativa dei malati
presenta delirium all’ingresso in reparto (20,6%), mentre
il 12% lo sviluppa durante il ricovero. Nei confronti dei
pazienti con delirium, l’attività del reparto si è concentrata sulla creazione di un protocollo di valutazione, diagno-
Le cure intermedie
333
si e trattamento, che si è successivamente esteso ad altri
reparti medici e chirurgici dell’ospedale.
Il protocollo, mutuando le linee guida e le pubblicazioni
internazionali, si occupa della gestione non farmacologica del delirium da parte dell’équipe medico-infermieristica-assitenziale, oltre a utilizzare i protocolli già pubblicati sul trattamento farmacologico del delirium ipercinetico
(Inouye, 2006; Boffelli, 2012). L’attenzione alle funzioni
fisiologiche di base, al dolore, alla cura degli eventi acuti
e delle riacutizzazioni, la revisione della terapia farmacologica e infine un programma di mobilizzazione e di
riattivazione motoria, rappresentano i capisaldi di un trattamento multidisciplinare e multidimensionale dello stato
confusionale acuto che ha dato i suoi risultati positivi: alla
dimissione, il delirium si risolve nella maggioranza dei
pazienti (solo il 2% viene dimesso, o trasferito ad altro
reparto, con delirium) (Boffelli, 2014).
La stessa sintomatologia depressiva, elevata in media
all’ingresso, tende a ridursi alla dimissione, a indicare il
raggiungimento di una condizione di benessere; il dato significativo, che viene sottolineato, è il miglioramento globale del malato nel percorso che dall’ospedale porta al
ritorno al domicilio, passando attraverso le Unità di cure
subacute: si verifica in media una evoluzione clinica favorevole, con la possibilità del ritorno a casa per la maggior
parte dei pazienti (Compagnoni, 2011). Questo risultato
è possibile grazie al contemporaneo miglioramento cognitivo, psicologico funzionale e clinico, e all’attivazione
di sistemi di supporto al domicilio che predispongono alla
stabilità della persona anziana nella propria casa ((Dalla
Vecchia, 2011; Genduso, 2011).
In generale, l’efficacia a breve termine delle cure subacute viene dimostrata, anche se mancano a tuttoggi dati di
outcome a lungo termine; un primo risultato è intanto raggiunto: gestire, con costi minori rispetto all’acuzie, malati
complessi e fragili, garantendone la stabilizzazione e il
ritorno al domicilio (Boffelli, 2014).
Conclusioni
I pazienti anziani che afferiscono alle cure intermedie
sono fragili, affetti da patologie croniche, e subiscono
un deterioramento funzionale in conseguenza dell’evento acuto che ha determinato l’ospedalizzazione (Rozzini, 2012). Il loro bisogno è multiforme: stabilizzazione
clinica dell’evento acuto, monitoraggio biologico e strumentale, prevenzione delle complicanze, riattivazione
funzionale e recupero dello stato premorboso (Ferrucci,
2001). La maggior parte dei pazienti, che all’ingresso
in reparto presentano stato confusionale acuto o disturbo
334
Le cure intermedie
N. 201
depressivo, torna al proprio domicilio dopo un significativo miglioramento dei sintomi, segno di una attenzione
specifica alle dinamiche cognitive e psicologiche dell’anziano (Cassinadri, 2012; Boffelli, 2012).
Il futuro delle cure intermedie è assistere malati con instabilità clinica e rilevanti bisogni assistenziali, in considerazione
del fatto che i pazienti giungono alla fase di post-acuzie in
tempi sempre più rapidi e con problematiche cliniche sempre più complesse e spesso non stabilizzate (Mor, 2010;
Joynt, 2012). I dati dimostrano che, pur in un’area a minore intensità, è possibile proseguire le cure del paziente
anziano ospedalizzato, garantendo la possibilità di un
recupero clinico globale, e il raggiungimento di outcome
“forti” (guarigione clinica, recupero funzionale e cognitivo,
ritorno al domicilio). Andrà dimostrato in futuro se l’attività
delle cure intermedie sarà in grado di ridurre anche le riospedalizzazioni, determinando anche un “risparmio” in
termini sia economici che di sofferenza per i malati.
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