Facoltà di Scienze della Formazione Laurea triennale in Formazione e Risorse Umane Corso di Politica Economica e Gestione delle Risorse Umane Prof. Aldo Gandiglio TESINA Dualismo Nord-Sud. La questione meridionale A cura di : Lina Caprio A.A. 2013/2014 Dualismo Nord-Sud. La questione meridionale “Che esista una questione meridionale, nel significato economico e politico della parola, nessuno più mette in dubbio. C'è fra il nord e il sud della penisola una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gl'intimi legami che corrono tra il benessere e l'anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale.” (Giustino Fortunato) Indice Introduzione 1.Evoluzione storica: “Il divario Nord-Sud dalle origini a oggi” 1.1Le origini del divario meridionale 1.2L’andamento del divario nel corso della storia unitaria 2.Prospettiva economica di Graziani 3.Il divario tra Mezzogiorno e resto d’Italia oggi 3.1Gli andamenti economici generali e settoriali 3.2Mercato del lavoro,povertà e migrazioni 3.3Il capitale umano nel Mezzogiorno 4.Politiche economiche per affrontare i problemi del Sud Introduzione Con la definizione di “questione meridionale” si è soliti indicare una serie di problematiche che affliggono il Mezzogiorno d’Italia segnandone la grande distanza economica, sociale e culturale dalla parte centro-settentrionale del Paese. La Questione meridionale ha segnato il processo di sviluppo del nostro paese e ha sempre suscitato un acceso dibattito politico e culturale, che è stato tanto stimolante quanto più non veniva intesa riduttivamente come puro e semplice dislivello economico produttivo fra Nord e Sud, bensì come compresenza e permanenza all’interno dello Stato italiano di una realtà economica sociale e culturale diversa e contrapposta, allo stesso tempo, dipendente e collegata con quella del Nord. I fenomeni che la costituiscono sono riconducibili sostanzialmente allo squilibrio Nord-Sud, alla ristrettezza su base industriale per quanto riguarda il Mezzogiorno, alla arretratezza delle infrastrutture dei servizi, alla sostanziale incapacità, per un lungo periodo, di uno sviluppo autopropulsivo, all’arcaicità di forme di proprietà e di sistemi di produzione agricola e,ancora, all’emigrazione. Su un terreno invece più sovrastrutturale vanno menzionati invece:l’analfabetismo, le culture subalterne, i pregiudizi,ecc.. Sarebbe profondamente erroneo e limitante riferire la questione meridionale al solo primo periodo post-unitario e alla sua manifestazione più clamorosa in quegli anni, il brigantaggio, e questo perché le più antiche cause storiche della “retrogradazione del Sud” risalgono addirittura al Basso Medioevo mentre le sue deleterie conseguenze pesano come un macigno sull’Italia contemporanea e continueranno a pesare sull’Italia futura. Risulterà dunque necessario un discorso storico di ampio respiro. 1.Evoluzione storica:“Il divario Nord-Sud dalle origini a oggi” 1.1 Le origini del divario meridionale Anche se emergono delle differenze di vedute sull’origine del divario, la posizione generalmente accolta è proprio quella secondo cui la “questione meridionale” intesa come cronica disparità nello sviluppo delle due parti del Paese, sia sia accentuata dopo l’unificazione e nel corso dell’evoluzione industriale dell’Italia. Queste disparità erano del tutto evidenti, sia sul piano della situazione economica e dei relativi dati quantitativi di un territorio nazionale complessivamente in ritardo, che ancora non si era avviato al processo di industrializzazione, sia, soprattutto, sul piano delle condizioni sociali e di quello che oggi viene chiamato “ il capitale sociale” delle aree meridionali, che permanevano in uno stato precapitalistico e lontane da un grado di civiltà moderno. Dopo il 1861, infatti,lo squilibrio tra Nord e Sud è stato dovuto ad un processo caratterizzato da un sempre più profondo dualismo economico, operante all’interno di un meccanismo di sviluppo nazionale, che funzionava con componenti di tipo capitalistico sempre più estese: quella che era solo una diversità dei tempi e del ritmo di espansione divenne, allora, una contraddizione interna al processo di crescita politica economica e del nuovo Stato. Secondo l’opinione ricorrente, il Sud si presentava, al momento dell’unificazione, in condizioni di inferiorità, seppur non eccessiva, rispetto alle altre aree del Paese. Esaminando diversi indicatori sociali relativi al periodo fra l’ Unità e la fine dell’Ottocento emerge che la statura, la mortalità infantile, e la speranza di vita, indicano un leggero vantaggio a favore del Nord. Per quanto riguarda la distribuzione della forza-lavoro per settore di attività la percentuale della popolazione in agricoltura e nell’industria è effettivamente correlata col livello del prodotto procapite. Le analisi di Richard S. Eckaus e di Pasquale Saraceno hanno mostrato uno squilibrio in tutti i settori di attività: in agricoltura, la preminenza del Sud per i settori dei cereali e della frutta era più che compensata dal predominio del Nord nel campo delle culture industriali( baco da seta) e dell’allevamento; nelle attività industriali, il dislivello era più accentuato e il Nord primeggiava sia nel settore tessile, sia in quello della siderurgia e della meccanica; nel terziario soprattutto nell’ambito dei trasporti, il Sud conservava una posizione di netto svantaggio. L’unico elemento a favore delle regioni meridionali era quello relativo ai censimenti sull’occupazione: secondo questi dati, la percentuale di popolazione attiva addetta , forse a causa della scarsa partecipazione femminile all’attività agricola era maggiore al Sud rispetto al Nord. La società meridionale infatti non rappresentava un insieme di arretratezza e staticità, si trovava bensì in una frase di transizione, pur conservando una struttura dell’economia ancora segnata dai caratteri precapitalistici. Si può affermare che il Sud era un “regno appartato e fuor di mano, il regno della discontinuità”. 1.2 L’andamento del divario nel corso della storia unitaria Ai fondamentali punti di riferimento di natura storiografica, economica e culturale, spesso in dialettica tra di loro, va ricondotta,dunque, l’interpretazione della nascita della “ questione meridionale” e, soprattutto, va riferita l’analisi sull’evoluzione della disparità di sviluppo tra il Nord e il Sud,sull’andamento dei processi di divergenza e di convergenza durante i centocinquanta anni di vita unitaria dell’Italia. Già alla fine del XIX secolo l’entità e la natura di queste differenze erano tali da far parlare di due “Italie”, le quali avevano preso da tempo a guardarsi con forte antipatia e a giudicarsi con crescente disistima e sospetto. La storia unitaria è stata, in gran parte, connotata da un fenomeno di divergenza tra le due macroaree, che solo durante la golden age hanno conosciuto una significativa convergenza, conseguendo il risultato di una sostanziale riduzione del divario meridionale. Le vicende del periodo successivo, tra le crisi petrolifere, la ristrutturazione del sistema industriale, la prevalenza di una forma di liberismo senza regole, l’avvento dell’euro e la nuova crisi finanziaria internazionale, hanno restituito al territorio meridionale il suo divario, allontanando sempre più dall’obiettivo dell’annullamento del dualismo economico. Oggi, infatti l’Italia è ancora divisa in due grandi aree, caratterizzata da diverse strutture e problematiche socio economiche. L’evoluzione del divario tra il Nord e il Sud può essere osservata meglio, in una logica di lungo periodo, attraverso l’analisi delle diverse fasi della storia economica dell’Italia unita. Ciò che sembra caratterizzare il caso italiano non è tanto l’ampiezza degli squilibri quanto la loro persistenza nel tempo. Racchiudendo il significato del divario nel corso dei centocinquant’anni di storia, si può far riferimento a due componenti del reddito pro-capite,che hanno condizionato tale dinamica divergente dell’economia meridionale rispetto a quella centro-settentrionale. In particolare, Daniele e Melanima hanno evidenziato il ruolo negativo svolto da un andamento della produttività del lavoro e da una tendenza del tasso di occupazione generalmente più limitati al Sud. Infatti, nel corso della prima metà del XX secolo, il livello inferiore della produttività è stato l’elemento che ha maggiormente pesato sull’aumento del divario, mentre nella seconda metà del secolo, è stato il tasso di occupazione a determinare la maggior parte del distacco del Mezzogiorno. in conclusione, la ricostruzione dell’evoluzione del PIL pro-capite, a livello macroregionale, ha permesso di evidenziare plasticamente le tendenze di sviluppo delle due parti dell’Italia, all’interno di uno scenario di lunga durata, dispiegatosi nel corso di tutta la storia unitaria, e ha restituito un quadro generale aggiornato dell’andamento complessivo del divario tra il Nord e il Sud. 2. Prospettiva economica di Graziani All’interno dell’acceso dibattito sul dualismo Nord-Sud risulta necessario occuparsi della prospettiva di uno dei più grandi economisti del dopoguerra, il cui approccio teorico ha consentito una ricostruzione originale delle vicende dell’economia italiana e della questione meridionale. La rilevanza e la centralità dei problemi del Mezzogiorno sono state sempre presenti in Augusto Graziani sin dagli anni Sessanta, quando i suoi contributi, erano ospitati dalla rivista Nord-Sud. In quel periodo l’enfasi di Graziani era posta sulla necessità che le politiche congiunturali di stabilizzazione ciclica fossero compatibili con le politiche strutturali di sviluppo. Secondo l’economista il Mezzogiorno era, dunque, segnato da un dualismo non solo territoriale, ma anche produttivo e da una distorsione dei consumi a favore dei beni più voluttari e relativamente meno costosi. In un solo colpo Graziani, nelle sue ricerche al Centro di Specializzazione e Ricerche di Portici, faceva giustizia delle tesi che attribuivano la persistente arretratezza del meridione alla mancanza di differenze salariali tra le due macroregioni del paese. Graziani in una vastità di omologazione interpretativa dell’economia italiana introduceva i temi delle divergenze cumulative tra regioni. Nell’approccio di Graziani gli squilibri regionali erano originati dal lato della domanda effettiva, concentrando la propria attenzione sugli effetti territoriali discorsivi dal lato dell’offerta, ovvero dalle decisioni di localizzazione delle imprese. Erano perciò il mercato e la natura delle priorità di politica economica ad approfondire le distanze tra le regioni italiane: una politica monetaria recessiva provvederà ad interrompere la crescita tumultuosa del Paese non consentendo che i benefici si estendessero oltre il “triangolo industriale”. E poi, dopo la stagione dell’autunno caldo il mercato avvierà un processo di ristrutturazione senza precedenti, fatto di decentramento produttivo, di lenta erosione delle conquiste sindacali, che l’assenza di politica industriale non sarà in grado di contrastare. Graziani era del tutto scettico che la risoluzione dell’arretratezza potesse avvenire secondo una progressiva e armonica estensione del mercato e in assenza di politiche economiche adeguate. Un simile approccio era significativo di due principi: il primo era che la fragilità produttiva del Mezzogiorno, deve costituire il parametro di valutazione della bontà di un’iniziativa privata o di un intervento pubblico, il secondo principio era costituito dall’avversione alle sicurezze delle teorie dominanti, al ruolo scomodo dell’intellettuale, forse alla doverosità di seguire l’angusto e poco sicuro sentiero dell’eterodossia. Se,oggi, una sparuta schiera di economisti italiani cerca con fatica di sfuggire al “bocconismo” imperante sappiamo di chi è il merito. 3. Il divario tra Mezzogiorno e resto d’Italia oggi 3.1 Gli andamenti economici generali e settoriali Il divario tra il Mezzogiorno e il resto d’Italia si approfondisce sempre di più. Infatti, dopo che una residua timida tendenza alla riduzione della forbice tra le due parti del Paese si è arrestata nei primi anni novanta, dal 1995 assistiamo ad un marcato approfondimento del dualismo,resosi ancora più netto con il sopraggiungere e poi l’aggravarsi della crisi economica- finanziaria. In base alle valutazioni formulate dalla Svimez nel recente rapporto annuale, nel 2012 il PIL del Mezzogiorno ha subito una flessione( per il quinto anno consecutivo) del 3,2%, oltre un punto percentuale in più rispetto alla contrazione registrata nel CentroNord( -2,1%). In termini di divario tra i redditi pro capite, il gap del Mezzogiorno ha ripreso a crescere, il Paese è così ritornato ai valori degli anni cinquanta, quando un abitante del Sud aveva mediamente un reddito che raggiungeva malapena il 57% di un connazionale che vivesse nel resto della penisola. In valori assoluti, a livello nazionale il PIL è stato di 25.713 euro, risultante dalla media tra i 30.073 euro del Centro-Nord e i 17.263 del Mezzogiorno. A causare la contrazione dell’attività produttiva ha avuto un impatto devastante sul valore degli investimenti,ridottisi mediamente di quasi il 26% tra il 2007 e il 2012. I consumi finali interni nel 2012 sono crollati al Sud del -4,3%, oltre mezzo punto in più rispetto al centro Nord. Il valore aggiunto del settore agricolo meridionale nel 2012 ha segnato +3,5% più del doppio del Centro-Nord, nel complesso il Sud mantiene la sua specifiicità agricola, con un’incidenza del settore primario circa doppio rispetto al Centro-Nord sia sul valore aggiunto totale sia sul fronte delle unità di lavoro. Nel settore industriale il gap tra Sud e Centro-Nord si è particolarmente allargato: come rivelato dalla Banca d’Italia, tra il 2007 e il 2011 la riduzione del valore aggiunto nel settore è stata rispettivamente del 16% e del 10%. Nel 2012 il valore aggiunto è sceso del 3,5%, una flessione risultante dal -3,3% del Centro-Nord e del 4,7% del Sud. Non è superfluo sottolineare che il settore manifatturiero è il motore della crescita e che le economie che presentano dei vincoli nei saggi di crescita nel settore manifatturiero registrano tassi di crescita più bassi. La realtà è che l’economia meridionale è legata oggi alle produzioni di beni tradizionali, con valore aggiunto modesto, ed è scarsamente propensa all’innovazione, registrando perciò modesta redditività, scarsa produttività, bassa capacità competitiva e di conseguenza minori esportazioni. Un’economia che guarda ben poco alla domanda estera, e che continua ad essere orientata alla domanda interna, anzi locale,quella che ha risentito maggiormente della crisi, sia dal lato dei consumi che degli investimenti. Nel settore dell’edilizia, il valore aggiunto nel 2012 è sceso del 6,9% nel Mezzogiorno e del 6,1% nel Centro-Nord. Quanto al settore dei servizi nell’attuale ciclo economico ha tenuto maggiormente rispetto agli altri settori. Nel 2012, a livello nazionale il valore aggiunto del settore è calato dell’1,2% (-0,9 al Centro-Nord, 2,2% al Sud). A contrarsi maggiormente nel Mezzogiorno i settori più direttamente collegati all’attività economica,come il commercio, trasporti, comunicazione e ristorazione. Più modesto il calo legato ai servizi finanziari, assicurativi e in quelli destinati a imprese e famiglie. Per quanto concerne lo scenario del credito, in generale, il deterioramento del quadro macroeconomico ha spinto le imprese a limitare i prestiti per gli investimenti, con conseguente peggioramento delle qualità del credito, più marcato per le regioni meridionali. Al Centro-Nord infatti criteri più selettivi di valutazione del merito creditizio permettono alle banche maggiori possibilità di erogazione di finanziamenti. Per le imprese è oggi urgente individuare forme integrative,se non alternative,al credito bancario. 3.2 Mercato del lavoro,povertà e migrazioni Detto questo, risulta inevitabile la differente ripercussione sul mercato del lavoro. Un quadro può riassumere quello che è avvenuto nel nostro Paese in questi anni: tra il 2004 e il 2013 gli occupati con meno di 35 anni si sono ridotti oltre il 16% a fronte di un leggero incremento nelle fasce di età più avanzate. In questi stessi anni, inoltre, non sono state apportate modifiche sostanziali allo squilibrato sistema di tutele e di strumenti di promozione sociali. Gli andamenti del mercato del lavoro hanno avuto effetti economici e sociali particolarmente negativi, in quanto hanno aumentato la già elevata dipendenza dei giovani dalle famiglie, procrastinando ulteriormente le scelte di vita, ridotto la già bassa crescita demografica e mobilità sociale, moltiplicato i fenomeni di marginalizzazione e di povertà. Le vittime principali della crisi sono stati coloro che dovevano ancora entrare sul mercato del lavoro e i lavoratori con contratto precario e a termine: categorie quasi esclusivamente giovani, per le quali non esiste un sistema universale di tutela dei redditi e che perciò risultano maggiormente esposte al rischio di povertà. Tale polarizzazione del mercato del lavoro e delle tutele assume, nel nostro Paese, una marcata connotazione territoriale, per effetto della concentrazione nelle regioni meridionali di inoccupazione, irregolarità e precarietà. Il confronto con i dati degli altri paesi e regioni europee conferma la peculiare situazione dei giovani italiani, in particolare dei residenti nelle regioni meridionali. Con riferimento della classe d’età da 15 a 24 anni, emerge al 2010 un divario tra Italia e UE a 27 nel tasso di occupazione di oltre 13 punti percentuali. Il divario sale a oltre 20 punti se si considera il Mezzogiorno. Scendendo a livello di regioni, Campania, Basilicata, Sicilia e Calabria si collocano tra le ultime 10 nel ranking dei tassi di occupazione giovanile con valori inferiori al 14%. Oggi sappiamo, che i dati più recenti rivelano un sensibile peggioramento, in termini assoluti e relativi, delle condizioni della popolazione italiana. Gli indicatori segnalano un cattivo impiego delle risorse umane del Paese, soprattutto nel campo del lavoro femminile e dei giovani. Tra i 27 Paesi dell’UE,l’Italia si è sempre caratterizzata per un basso livello di occupazione e per un’elevata presenza di persone in cerca di lavoro, sia pure spesso in modo poco attivo. Entrambe queste criticità sono acuite dalla crisi. Ed è con la crisi che si accentuano le disuguaglianze territoriali. La differenza tra il tasso di occupazione del Mezzogiorno e del Nord è andata aumentando da 18 punti percentuali nel 2004, a quasi 22 punti nel 2011, con un’ accentuazione negli anni di crisi,sicchè nel 2011 su 100 persone da 20 a 64 anni residenti nel Mezzogiorno neppure 48 lavoravano. Poiché lo svantaggio delle regioni centrali rispetto a quelle meridionali si è mantenuto stabile intorno ai 4 punti percentuali, negli ultimi anni si è aperta una vera e propria frattura tra le opportunità occupazionali nel Centro-Nord e quelle nel Mezzogiorno, soprattutto per le donne. In Italia, poi, la qualità del lavoro ( in termini di stabilità, regolarità, retribuzione e coerenza con le competenze acquisite nel sistema formativo) presenta serie di criticità, che in parte dipendono dall’andamento congiunturale del mercato del lavoro, con un peggioramento nelle fasi di crisi, ma in parte assumono caratteri strutturali. Tutti questi aspetti mostrano permanenti disuguaglianze di genere, generazionali e soprattutto, territoriali e per cittadinanza. Nel Mezzogiorno, le opportunità di lavoro non soltanto sono poche, ma sono anche di qualità scadente rispetto al Centro-Nord. Nelle regioni meridionali, si rileva una maggiore diffusione della “precarietà permanente”, minori possibilità di stabilizzazione dei rapporti di lavoro, maggiore presenza di basse remunerazioni, una percentuale di occupazione non regolare pari a due volte e mezzo quella del Nord e una più elevata incidenza di incidenti mortali sul lavoro. Nel 2011 oltre un quarto dei lavoratori a termine del Mezzogiorno ha un rapporto a tempo determinato da almeno cinque anni, con un divario rispetto al Nord di oltre 11 punti percentuali. Ciò si spiega con una composizione dell’occupazione meridionale ove molto maggiore è la presenza sia della stagionalità nell’agricoltura e nel turismo, sia del pubblico impiego. La percentuale di transizioni nel corso di un anno da un rapporto instabile a uno dipendente a tempo indeterminato è inferiore nel Mezzogiorno a quella del Nord di 9 punti. Quanto ai lavoratori poveri, nel Mezzogiorno la percentuale di lavoratori dipendenti con un salario inferiore di due terzi rispetto al valore mediano è addirittura più che doppia rispetto a quella del nord, senza significative variazioni negli ultimi anni. Per quanto concerne il livello di soddisfazione sul lavoro, la quota di coloro che esprimono punteggi elevati passa dal 51,5% nel Nord al 39,9% nel Mezzogiorno. Le regioni meridionali mostrano risultati peggiori. Campania, Calabria e Sicilia sono le regioni dove più spesso i lavoratori si sentono insoddisfatti per la propria condizione occupazionale. E’ necessario notare, che non solo l’occupazione si riduce in questi anni, ma anche l’investimento in capitale umano non cresce. Di conseguenza la quota di Neet, cioè di giovani che non lavorano e non studiano, è aumentata in misura maggiore degli altri paesi europei. In Italia, la condizione di Neet è, meno legata alla condizione di disoccupato e più al fenomeno di scoraggiamento: sono meno quelli che cercano attivamente lavoro e molti di più quelli che rientrano nelle forze di lavoro potenziali. In questo quadro non stupisce la ripresa in grande stile dell’emigrazione che contribuisce a impoverire il Sud e ad ostacolarne lo sviluppo. Oltre un milione e 350 mila persone emigrate dal 2000 al 2010. Le cause della performance negativa del mercato del lavoro meridionale e del divario con il Nord vanno ricercate tanto dal lato della domanda quanto da quello dell’offerta di occupazione, e su entrambi questi fronti è necessario agire per risolvere il problema. 3.3 Il capitale umano nel Mezzogiorno Come appena detto, tra le debolezze più frequentemente imputate al Mezzogiorno c’è quella relativa alla quantità e alla qualità del capitale umano.Gli economisti utilizzano questo termine per indicare le competenze, capacità e abilità di cui dispongono coloro che, in varie posizioni contribuiscono alla produzione e alla creazione di ricchezza. Il capitale umano, è l’esito di un processo di apprendimento e formazione che si svolge prevalentemente, ma non esclusivamente, nelle scuole di vario grado.Le carenze quantitative e i difetti qualitativi del capitale umano vengono inclusi tra i fattori in grado di dare conto della debole performance delle regioni meridionali in termini di crescita economica, soprattutto se misurata come andamento del reddito pro-capite. L’ultima rilevazione dell’indagine PISA, volta a valutare le competenze scolastiche dei quindicenni dei paesi OCSE in tre ambiti ovvero matematica,lettura e scienze, consente una comparazione qualitativa tra i sistemi scolastici di molti paesi industrializzati.L’Italia in base ai risultati ottenuti, consegue una performance peggiore della media OCSE.Confrontando il 2012 con le prime edizioni,l’Italia evidenzia segnali di miglioramento. Ampi sono però i divari territoriali, con le regioni del Nord-Ovest e del Nord-Est avanti,mentre il Mezzogiorno, è sotto la media nazionale .Le competenze dei 15-enni di italiani si situano leggermente,ma significativamente,al di sotto della media OCSE(circa il 2%,485 punti a fronte dei 494 della media OCSE). Fra i paesi OCSE,ottengono un punteggio inferiore all’Italia solo la Svezia,Ungheria,Israele,Grecia,Cile e Messico;sono equiparabili all’Italia,Norvegia,Portogallo,Spagna,Repubblica Slovacca e Stati Uniti.Solo leggermente migliori sono i risultati in lettura e scienze, con valori dell’Italia rispettivamente di 490 e 494 ( a fronte di valori medi OCSE rispettivamente pari a 496 e 499). A livello di singole regioni è possibile notare che nel Mezzogiorno si concentrano gli studenti “poveri di conoscenze”, definiti come quelli che non superano il primo livello di competenze, mentre invece sopra la media nazionale si collocano NordOvest e Nord-Est.In merito alle possibili cause di questo divario un recente studio rileva che il grado di disagio economico della famiglia di provenienza ha un forte impatto sugli esiti scolastici dello studente, la famiglia inoltre ha un influenza determinante sulla scelta della tipologia di scuola. E’ sempre più un’ Italia a due velocità: al Sud non basta nemmeno più la laurea per trovare lavoro. I dati ALMALAUREA confermano un divario sempre maggiore, con il tasso di occupazione tra chi ha terminato l’Università al Settentrione supera ampiamente il 50% mentre nelle regioni meridionali si ferma al 35%. La situazione del Mezzogiorno è probabilmente connessa al fenomeno della “fuga dei cervelli” che porta molti giovani laureatisi nelle regioni meridionali a trasferirsi in cerca di un’occupazione che sia in grado di soddisfare le aspettative retributive e di valorizzare le professionalità acquisite. Per quanto riguarda invece, la dispersione scolastica, in Italia 114 mila adolescenti lasciano gli studi. E’ un fenomeno diffuso nel Paese, ma in alcune aree del Mezzogiorno si registrano percentuali elevatissime. In Sicilia e in Sardegna, la media regionale di abbandoni scolastici supera rispettivamente il 25% e il 28%, mentre in Veneto e Lombardia,per fare un paragone, è del 14% e del 15%. In diversi casi, il richiamo della “strada”, spesso vissuta dai ragazzi in difficoltà come la sola alternativa possibile e praticabile, rappresenta un rischio reale, che si accompagna ad attività devianti e criminali. In merito alla formazione professionale, è nota la persistente incapacità del nostro paese di fornire agli occupati un soddisfacente livello di training on the job. Il Mezzogiorno si caratterizza per risultati particolarmente negativi, le percentuali di occupati che hanno svolto attività formative e di istruzione è stata soltanto del 4,8% al sud: Sicilia e Campania presentano i livelli più bassi. Intrecciando questi dati con il drammatico e calante tasso di occupazione nella fascia d’età tra i 24 e i 35 anni abbiamo la fotografia di una generazione che rischia di soccombere. E’ un quadro che delinea il nesso sempre più critico tra formazione e sistema economico. Il paradosso è che le nuove generazioni, specie al Sud rappresenterebbero un’opportunità reale, disponibile per un disegno di sviluppo che collochi l’area sul terreno della competizione mondiale, e tuttavia, l’assenza di un progetto nazionale di questa ambizione, o l’esistenza di progetti locali troppo segnati da inefficienze e clientelismo, ha diffuso consapevolezze amare e senso di scoraggiamento. Politica e istituzioni pubbliche, dovrebbero assumere la consapevolezza che le giovani generazioni rappresentano la "frontiera" tra rilancio e decadenza dell’intero Paese e della sua economia. La consapevolezza di un’effettiva disuguaglianza delle opportunità e della possibilità di realizzare un progetto di sviluppo individuale puntando sulla conoscenza che garantisca la mobilità sociale, ha generato nelle nuove generazioni un certo scoraggiamento a investire nell’istruzione avanzata. E’ evidente che questo determina arretramenti non solo sul piano del capitale umano formato nell’area, ma soprattutto l’interruzione di quel “capitale sociale”, così importante nelle trasformazioni del Mezzogiorno di questi anni, ed essenziale allo sviluppo. Se volessimo sintetizzare il nocciolo della questione che riguarda i giovani, dovremmo denunciare l’estrema lentezza del processo di valorizzazione individuale. Questa lentezza deriva da alcuni fattori: limiti di un sistema scolastico incapace di connettersi con il mondo del lavoro più dinamico e qualificato, un mondo del lavoro polarizzato, caratterizzato da una diffusa precarizzazione dei giovani e una forte tutela dei lavoratori adulti, lo iato tra la qualifica offerta dai giovani con elevati livelli formativi e le richieste di un sistema produttivo debole che costringe ad un forma moderna di sfruttamento che viene chiamata “sottoinquadramento”, la manipolazione dell’accesso al lavoro determinata dall’ intermediazione impropria dei ceti dominanti. Ed è proprio questa lentezza che spinge alla fuoriuscita migratoria, o peggio alla marginalità, chi non ha le spalle coperte da una rete di protezione familiare o clientelare. Il capitale umano, è senz’altro determinante per il tasso di crescita dei territori. L’idea più diffusa è quella introdotta dell’economista Barro, secondo cui l’incremento dei livelli di istruzione ha un impatto positivo sul tasso di crescita del PIL pro-capite. Le stime hanno evidenziato che l’aumento dell’1% dell’istruzione è associato, con un incremento del tasso di crescita compreso fra l’1 e il 3%. Di conseguenza, la disuguaglianza nei livelli di istruzione ha, un effetto negativo sulla crescita. Perciò per facilitare la crescita di un’economia è necessario agire non solo sui livelli di istruzione, ma anche sulla distribuzione degli stessi. Il capitale umano ha effetti sulla crescita quando si “traduce” in una maggiore produttività del lavoro affinchè ciò avvenga sono necessarie determinate condizioni organizzative nelle imprese: più esplicitamente le imprese dovrebbero adottare strategie che consentono ai lavoratori di utilizzare le skills acquisite oltre che di rendere più conveniente la loro acquisizione. A questo punto, viene spontaneo chiedersi: “Ma quanto vale l’investimento in capitale umano?” Il CSC ha stimato che l’aumento in 10 anni del grado di istruzione italiano al livello dei paesi più avanzati innalza il PIL fino al 15,0% in termini reali, cioè 234 miliardi, con un guadagno di 3900 euro per abitante.Dunque, un ottimo investimento. La più importante politica industriale. Attenzione,nell’economia della conoscenza, fallire in questo investimento significa andare indietro, non rimanere fermi. La scuola perciò, seguendo Luigi Einaudi dovrebbe insegnare idee e non nozioni, eccitamenti alla curiosità e alla formazione morale, non appiccicature mnemoniche. E,come scrive John Dewey, a scuola e in tutte le esperienze cognitive si impara ad imparare: nell’imparare a fare una cosa si sviluppano metodi utili anche in altre situazioni,l’essere umano acquisisce l’abitudine a imparare. La crisi è stata un brusco risveglio, ma ancora non sappiamo come uscirne. Ripartire dal capitale umano è la risposta. Perciò: PEOPLE FIRST! 4. Politiche economiche per affrontare i problemi del Sud Ma allora cosa si può fare per affrontare i problemi del Sud? In primo luogo sarebbe necessario ammettere, come ha fatto per altro Carlo Trigilia, che l’illusione secondo cui il federalismo avrebbe risolto la questione meridionale è definitivamente tramontata alla prova dei fatti: “Contrariamente a quanto sostenuto negli ultimi anni, il federalismo (inteso come mera attribuzione di maggiori poteri nelle spese e nelle entrate dei governi decentrati) non è dunque la ricetta per lo sviluppo del Sud”. In secondo luogo andrebbe sgombrato il campo da alcuni luoghi comuni sul Mezzogiorno che sembrano prendere fiato ogni volta che siamo di fronte ad una svolta nelle politiche per il Sud. E in particolare quelli secondo cui il Mezzogiorno godrebbe di un eccesso di spesa pubblica o che sarebbe avvantaggiato da un’evasione fiscale diffusa, mentre andrebbero del pari confutate, le teorie estremiste di coloro che disegnano un Mezzogiorno che vive alle spalle del resto del Paese, inoltre va definitivamente sventato il pericolo che si continuino ad utilizzare a proposito del Sud stereotipi che sembrano appartenere ad un passato lontano. Bisogna tener conto che nel Mezzogiorno esistono spazi di vitalità economica, competenze ed energie morali e culturali capaci di guardare un nuovo processo di sviluppo, che per realizzarsi necessitano di un intervento massiccio da parte dello Stato per specifiche iniziative e per le sostituzioni delle indispensabili infrastrutture. Tutto ciò ci riporta alle concrete politiche da attuare per il Mezzogiorno anche con gli oltre 100 miliardi di euro della programmazione 2014/2020. E’ necessaria la costituzione di un’Agenzia per la coesione territoriale in quanto dovrebbe costituire una sorta di task force in grado di sbloccare i finanziamenti relativi ai fondi europei e supportare, con un’ampia azione di coordinamento, le politiche di sviluppo che si intenderà proseguire. La Svimez propone da tempo politiche di sviluppo industriale che puntino sui settori dell’energia, della logistica e della rigenerazione urbana. E’ giusto puntare su alcune risorse del Mezzogiorno non ancora pienamente utilizzate ovvero beni culturali e ambientali mediamente superiori a quelli disponibili nel Centro-Nord. Occorre inoltre migliorare la spesa pubblica nel Mezzogiorno e accrescere il volume delle risorse da utilizzare nell’ambito di una rinnovata politica industriale che si proponga di far compiere alle imprese meridionali un salto tecnologico e dimensionale. Insomma, il vero nodo del problema rimane la necessità di recuperare quella “logica industriale” che ispirato le politiche di intervento straordinario per il Mezzogiorno negli anni cinquanta del Novecento. Occorre ripensare la “questione meridionale” per rimetterla fattivamente al centro dell’agenda politica come parte di un progetto organico, sistematico e generale per lo sviluppo e la crescita dell’intero sistema paese. Oggi, tra rigurgiti di regionalismo e tentativi di occultare il dramma meridionale, tocca ribadire che, per dirla con uno scrittore d’epoca: “… fino a quando esisterà una questione meridionale, l’unità nazionale non sarà raggiunta completamente…" Bibliografia Banca d’Italia, “L’industria meridionale e la crisi”, Numero 194,Luglio 2013 Casula C.F, “Storia e Storie, Cagliari 2011 Daniele Vittorio,Paolo Malanima “Il divario Nord-Sud in Italia 18612011”,Rubbettino 2011 Dati ALMALAUREA 2013 Enciclopedia Treccani,2014 Ghignoni Emanuela, “Capitale umano nel Mezzogiorno”, Franco Angeli,2005 ISTAT, Banca dati di Indicatori territoriali per le politiche di sviluppo ISTAT, rapporti 2012-2013 L’intervista in Unità, “Sconfiggere le clientele per rilanciare il Mezzogiorno” (Ministro Trigilia)10 ottobre 2013 Marani Ugo, Il dualismo Nord-Sud fa passi indietro nella storia,Economia e Politica (rivista on-line di critica della politica economica) 9 Novembre 2013 OCSE PISA 2012, Sintesi dei risultati per l’Italia R.Realfonzo, “Per salvare il Mezzogiorno”, L’unità, 6 Novembre 2013 SVIMEZ, Rapporto sull’economia del Mezzogiorno 2013 SVIMEZ,Valorizzare nel Sud il capitale umano dei giovani: frontiera tra crescita e declino del Paese, 2013
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