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18. La terapia cognitivo-comportamentale
entra nel terzo millennio
di Paolo Moderato∗, Giovambattista Presti∗∗ e Giovanni Miselli∗∗∗
Negli ultimi dieci anni sono state sviluppate, all’interno della terapia del
comportamento, una serie di applicazioni cliniche che possono essere viste
sia come punto di rottura rispetto alle precedenti terapie cognitivo-comportamentali, sia come ritorno alle prime fasi della terapia del comportamento.
La rottura sta principalmente nell’abbandono di una metapsicologia caratterizzata prevalentemente in senso clinico e lontana dalla sperimentazione,
il ritorno consiste nel focalizzare l’attenzione sullo studio dei processi di
base necessari allo sviluppo di tecniche terapeutiche. Come emergerà nella
discussione, le differenze tra quelle che sono state definite terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione e le terapie cognitivo-comportamentali di seconda generazione sono in realtà molteplici (topografia, forma
vs. funzione, contenuto vs. processo ecc.). In questo articolo cercheremo di
mostrare la crescita storica e teorica delle terapie del comportamento e di
evidenziare alcuni degli sviluppi più promettenti.
*
Professore Ordinario di Psicologia Generale presso l’Università IULM di MIlano, è
stato Presidente del Corso di Laurea in Psicologia dell’Università degli Studi di Palermo e
Prorettore dello stesso Ateneo. Past President dell’EABCT (European Association for Behavior and Cognitive Therapies), è ora Presidente di IESCUM, un centro studi e ricerche a carattere non profit che tra i suoi interessi annovera le nuove forme di analisi del comportamento e terapie cognitivo comportamentali di terza generazione.
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Medico specialista in Psicologia Medica, psicoterapeuta analista del comportamento,
membro del Board of Advisors del Cambridge Center for Behavioral Studies (Boston, USA), socio ACBS e ABAI. Professore a Contratto di Psicologia e sistemi complessi presso
l’Università IULM di Milano.
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Psicologo e dottorando di ricerca in Interazioni Umane presso l’Università IULM di
Milano, componente del consiglio direttivo di IESCUM, the ABA International Italian
Chapter, socio fondatore dell’ACBS (Association for Contextual Behavioral Science), è impegnato attivamente nello studio, nella ricerca e nell’utilizzo clinico dell’ACT dal 2005.
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1. La nascita e la prima fase ideologica
La terapia del comportamento nasce contemporaneamente in tre luoghi:
in Inghilterra (Maudsley Hospital) ad opera di H. J. Eysenck, in Sud Africa,
ad opera di J. Wolpe, che poi si trasferirà in America a Temple University,
e negli Stati Uniti, dove viene usato per la prima volta nel 1954 il termine
Behavior Therapy in una corrispondenza tra O. Lindsley e B. F. Skinner.
Il suo sviluppo è una reazione alla progressiva mancanza di efficacia
delle terapie psicodinamiche che avevano dominato la prima metà del XX
secolo, ma che faticavano a rispondere ai nuovi bisogni psicologici e psicoterapeutici del secondo dopoguerra. Un celebre articolo di H. J. Eysenck,
pubblicato nel 1952 sul Journal of Consulting and Clinical Psychology e
tradotto in italiano sul volume curato da Sanavio (1977) “Le nevrosi
apprese” mette in evidenza, attraverso uno studio metaanalitico, la mancanza di efficacia terapeutica delle terapie psicodinamiche che non superano le
percentuali di guarigione spontanea.
La prima fase della nascente terapia del comportamento può essere analizzata in termini di assoluta e frontale contrapposizione con le istanze psicodinamiche: nessuna importanza data alla relazione terapeutica, massimo
rilievo della tecnica; negazione delle istanze intrapsichiche in favore di
comportamenti osservabili e così via (Moderato, 1998). In realtà questa
fase è molto ideologica e propagandistica, una sorta di manifesto elettorale,
ancora molto legata al comportamentismo degli anni 40 e 50 e alla sua epistemologia.
La terapia del comportamento si sviluppa e diffonde anche in Italia, seppur con qualche lentezza e con qualche difficoltà, comprensibili se si tiene
conto del fatto che la psicologia intesa come studio del comportamento rimane sconosciuta in Italia fino al 1942, anno in cui Virginio Lazzeroni
introdusse il termine “psicologia del comportamento” riferendosi, per la
prima volta in Italia, al comportamento come oggetto centrale della psicologia. A onor del vero, la psicologia del comportamento in Italia comincia a
svilupparsi alcuni anni dopo, alla fine degli anni sessanta grazie a due radici differenti. Le due anime e radici del comportamentismo in Italia possono
essere definite come Pavloviana-riflessologica (Milano e Roma) e l’altra
come Skinneriana-operante (Milano e Padova). Questi filoni seguono strade indipendenti fino alla fine degli anni 70, quando si fondono dando vita a
due associazioni, prima la SITCC e poi l’AIAMC.
Anche in Italia il movimento della terapia del comportamento ebbe inizio con due fondamentali intenti dichiarati. La Behavior Therapy doveva
essere un campo progettato per (1) produrre un’analisi scientifica dei problemi del comportamento e del loro trattamento, fondata sperimentalmente
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sui processi psicologici di base, e (2) sviluppare per questi problemi
interventi selettivi e validati empiricamente. La nota definizione originaria
di Franks e Wilson (1974) mostra chiaramente questo duplice intento,
quando si dice che la terapia del comportamento era basata su “teorie dell’apprendimento operazionalmente definite e in conformità a paradigmi
sperimentali ben consolidati” (p. 7). Tuttavia nei 40 anni di sviluppo della
terapia del comportamento, solo l’ultimo di questi due intenti è stato pienamente perseguito (Hayes, Luoma, Bond, Masuda e Lillis, 2006).
Molti metodi e tecniche per produrre o favorire il cambiamento nelle terapie cognitive e comportamentali contemporanee sono legate a teorie cliniche
che presentano un focus piuttosto ristretto e risultano in ogni caso deboli, e si
sono allontanante, quando non completamente sganciate, dai principi di base
derivati dalla “teoria dell’apprendimento definita operazionalmente” o da altre
scienze di base. Paradossalmente è stato seguito lo stesso modus operandi
della psicanalisi e di altre psicoterapie che vengono criticate: basare l’intervento su un modello di “fisologia” dell’interazione uomo-ambiente derivato
dal dato clinico e non dalla ricerca di base. La mancanza di una adeguata base
di ricerca ha conseguentemente prodotto come risultato rallentamenti e
incertezze nella crescita scientifica delle terapie comportamentali e cognitive,
e una mancanza di coerenza complessiva della impresa scientifica.
2. Quando finisce un amore: storia di una separazione tra clinica
e ricerca di base
Secondo Hayes (Hayes, Luoma, Bond, Masuda e Lillis, 2006; Hayes,
Folette e Linehan, 2004) la terapia del comportamento può essere suddivisa
in tre generazioni: la terapia del comportamento tradizionale, la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) e la più recente “terza onda” (o terza
generazione) di approcci relativamente contestualistici (Hayes, 2004).
Nella prima generazione di terapia del comportamento è stato possibile
mantenere entrambi gli intenti fondativi dichiarati da Franks e Wilson
(1974) poiché i primi terapisti comportamentali attingevano ai principi di
base derivati dai laboratori comportamentali negli anni 40 e 50. Wolpe e le
sue ricerche sull’inibizione reciproca con i gatti ne sono un valido esempio.
Fin dall’inizio, tuttavia, comincia a svilupparsi la consapevolezza che i
principi del comportamento avevano la necessità di estendersi oltre i principi del condizionamento rispondente e operante per comprendere quelli focalizzati sui processi cognitivi umani (Bandura, 1968). Anche in ambito
clinico questo è stato subito evidente e ha spinto allo sviluppo della seconda generazione di terapie cognitive e cognitivo-comportamentali.
271
Neanche la scienza psicologica sviluppata dal comportamentismo skinneriano, l’Analisi del comportamento, era ancora in grado di fornire una
spiegazione della cognizione empiricamente adeguata, nonostante da sempre Skinner (1953, 1968) dichiarasse l’importanza dello studio scientifico
degli eventi privati (Moderato, Presti e Chase, 2002), differenziandosi nettamente in questo dal comportamentismo metodologico.
L’unica alternativa erano i modelli cognitivi di base; ma nessuno di questi era così facilmente collegabile agli interventi clinici come lo erano i
principi della teoria dell’apprendimento. Emblematica l’assoluta inutilità
per la psicologia clinica (ma la valutazione si potrebbe estendere anche alla
psicologia sperimentale) del lavoro di ricerca di colui che diede la più forte
spallata al “vecchio” comportamentismo proponendo il “nuovo” cognitivismo. Ci riferiamo, ovviamente, al linguista Noam Chomsky.
Data l’impossibilità di trovare radici in forti teorie cognitive di base, sin
dalla nascita della CBT sono stati creati specifici modelli cognitivi in campo
clinico per guidare lo sviluppo dei trattamenti. Il vantaggio di questa scelta è
stato quello di raggiungere immediata specificità sugli obiettivi clinicamente
rilevanti e di sviluppare applicazioni, senza dover attendere che la ricerca di
base trovasse una spiegazione che potesse essere applicata in modo utile.
Questo è accaduto in altri settori della scienza: agricoltori e allevatori incrociavano esemplari vegetali e animali per ottenere qualità migliori anche prima che Darwin formulasse la teoria della selezione naturale, e che Mendel
prima, e Watson e Crick poi ne spiegassero alcuni dei meccanismi.
Il lato negativo consiste nell’abbandono della tradizione di ricerca della
terapia comportamentale, che era, ed è, la tradizione di tutta l’impresa
scientifica, qualunque sia la disciplina, e l’implicita adozione di un nuovo e
differente modello di sviluppo scientifico, nel quale i principi di base avrebbero avuto una rilevanza minore.
Gli esempi potrebbero essere molti: ci limitiamo ad alcuni per facilitare
la comprensione. I pattern specifici di cognizioni disfunzionale, che caratterizzerebbero alcune psicopatologie (ad esempio ipergeneralizzazione; pensiero dicotomico Bianco-Nero; ragionamento emotivo; cognizioni irrazionali e così via) utilizzano termini che sono o solo debolmente legati alla
psicologia cognitiva di base (ad esempio gli schemi), o addirittura non lo
sono affatto. In entrambi i casi il contenuto di questi processi cognitivi riveste poco interesse per i ricercatori dei processi cognitivi di base. Per dirla
tutta, questi concetti sono “cognitivi” nel senso che si riferiscono all’attività
del pensare come viene inteso nel senso comune – hanno a che fare con i
“pensieri”. Invece la ricerca sui processi cognitivi (per una rassegna si veda
Olivetti, 1997), è alquanto distante dalla psicologia del senso comune.
Se andiamo a vedere i trattamenti la situazione è pure peggiore, in quan272
to la relazione con i processi di base è ancora più debole: cognitive disputation, empirical test, collaborative empiricism, e così via non sono argomenti che suscitino l’entusiasmo dei ricercatori nei laboratori di scienze cognitive, sono procedure pratiche di senso comune ricoperte di vernice clinica.
Dopo 30 anni di terapia cognitivo comportamentale di seconda generazione si può cominciare a valutarne l’impatto a lungo termine. Tale valutazione va fatta su due piani, uno interno l’altro esterno al modello. Se lo si
valuta su quest’ultimo piano, e quindi in confronto ad altri modelli psicoterapeutici, non c’è dubbio che le terapie cognitivo comportamentali si collocano in posizione apicale nei ratings di efficacia per la maggior parte dei
trattamenti (per una rassegna si veda l’articolo di Chambless e Ollendick,
pubblicato in italiano su Psicoterapia e Scienze Umane 35, 3).
Non è un caso che da molti anni a questa parte sia stato riconosciuto il
ruolo delle terapie cognitivo-comportamentali a supporto della medicina
con il loro inserimento nelle linee guida di molte malattie croniche. E di
recente (2006) la Fondazione Cochrane ha anche creato una divisione per la
medicina comportamentale che fosse di supporto e valutazione agli studi
clinici randomizzati e alle attività delle diverse società scientifiche mediche. Va sottolineato, e poi risulterà chiaro il motivo, che le terapie più efficaci sono quelle cognitivo-comportamentali, non quelle cognitive, anche se
poi tutte le terapie cognitive (si veda Beck, 1979; 1996) di fatto mettono in
azione anche, talvolta soprattutto, procedure comportamentali.
Se passiamo a una valutazione interna i risultati sono misti. Le tecniche
di CBT hanno prodotto risultati convincenti e persino stupefacenti in molte
aree, ma non è chiaro quanto di questi risultati siano dovuti all’aggiunta
cognitiva e quanto alla terapia comportamentale tradizionale. Potremmo
chiederci, in altri termini, quale sia il principio attivo e quali siano gli eccipienti, senza dimenticarsi che in tutto questo gioca un ruolo non secondario
un principio di base che si chiama effetto placebo. La domanda non riguarda solo la semplice “comprensione” del “perché” una certa terapia o tecnica
funzioni, ma punta al cuore stesso della ricerca clinica per migliorarne l’efficacia, l’efficienza (migliori risultati nel minor tempo possibile), le indicazioni e l’applicabilità (per quali tipi di pazienti, in quali condizioni e
con che rapporto rischio/beneficio).
Il legame tra la ricerca di base, la scienza cognitiva, e le sue applicazioni, la terapia cognitiva continua ancora oggi ad essere debole. Gli scienziati
cognitivi non si occupano di terapia, anzi la guardano, sbagliando, con distacco, quando non con supponenza: infatti nessuna delle tecniche sviluppate nella CBT, arriva direttamente dai laboratori di ricerca e scienza cognitiva di base. Neanche gli studi di component analysis sono riusciti a trovare
prove a sostegno dell’importanza delle strategie di modificazione cognitiva
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diretta, considerate il fulcro comune della CBT (Gortner, Gollan, Dobson, e
Jacobson, 1998; Jacobson et al., 1996; Zettle e Hayes, 1987). Rappresentanti di spicco della terapia cognitiva sono stati costretti a concludere che in
alcune aree importanti “nella terapia cognitiva nessun beneficio aggiuntivo
viene fornito dagli interventi cognitivi” (Dobson e Khatri, 2000, p. 913).
Secondo Hayes et al. (2006) questa visione di insieme fa emergere un’anomalia. Da una lato, in ambito clinico, la maggior parte dei terapeuti concorda sull’inadeguatezza della terapia del comportamento tradizionale e
sulla necessità di sviluppare metodi migliori per lavorare su pensieri e sentimenti. In questo senso la CBT è stata giustamente considerata un passo avanti nella “liberazione” dalle limitazioni della tradizione comportamentale
verso un lavoro diretto con le cognizioni. I risultati sostengono questa idea,
dal momento che, come abbiamo visto poco sopra, i protocolli CBT sono
decisamente buoni in confronto ai risultati prodotto all’“esterno” del campo
della terapia del comportamento in generale.
Dall’altro lato, la concezione centrale della terapia cognitiva tradizionale e della CBT – che il lavoro per modificare direttamente le cognizioni sia
necessario ed efficace per il miglioramento clinico – dopo più di 30 anni di
sviluppo e ricerche, non è ancora sostenuta da evidenze. Inoltre non è vero
neanche che la CBT di seconda generazione stia avvicinando l’analisi di
base e quella applicata per formare una disciplina più coerente dal punto di
vista scientifico e più utile.
3. Un nuovo stato di coscienza: gli studi sul comportamento verbale e la terapia comportamentale
Nell’immaginario collettivo il comportamentista, e in particolar modo
quello radicale, è colui che non si occupa dello studio della cognizione o,
peggio, ne nega l’esistenza e il valore. Nella realtà dei fatti coloro che appartengono alla corrente psicologica nota come analisi del comportamento
non hanno mai smesso di studiare i processi cognitivi in modo sistematico.
Più di una generazione di studiosi del comportamento si sono impegnati, su
fronti molteplici, nello sviluppo di teorie e paradigmi di ricerca. Recentemente l’accumulo di conoscenze in questo ambito ha permesso di mettere a
punto una tecnologia applicativa fruibile dalla più ampia comunità della
psicologia clinica. In questo momento storico è proprio il ritorno ai processi
di base del laboratorio che può fare la differenza negli ambulatori degli psicologi clinici.
Quando Skinner scrisse, ormai 50 anni fa, l’ampiamente criticato, ma
paradossalmente altrettanto poco letto Verbal Behavior, forse non immagi274
nava che il valore euristico del volume, in assenza assoluta di dati sperimentali, si sarebbe rivelato solo col tempo, e in un arco di tempo abbastanza ampio. Nel suo testo, Skinner (1957) si era concentrato sugli eventi
che controllavano il comportamento del parlante, mettendo in secondo piano l’analisi dell’ascoltatore che, anni dopo, riprese in un articolo del 1969
dedicato al problem solving (Skinner, 1969). Questi due pilastri, benché
non esaustivi, diedero tuttavia importanti spunti negli anni successivi per
avviare i filoni di ricerca che hanno poi contribuito, attraverso gli studi sul
Rule-Governed Behavior e sulla formazione e le proprietà delle Classi di Equivalenza, alla ridefinizione dell’approccio clinico comportamentista,
nelle radici teoriche e sul piano applicativo.
È particolarmente interessante sottolineare come questi approfondimenti
sperimentali non hanno mai tradito il modello interpretativo del comportamento basato sull’operante skinneriano, ma ne hanno semmai esteso empiricamente i confini all’analisi del pensiero, della nascita del simbolo e della parola col suo effetto sul comportamento umano, del problem-solving e della
introspezione (in termini di processi autoclitici). In altre parole negli ultimi 30
anni la ricerca sulla sfera cognitiva dell’uomo ha dominato l’Analisi
Sperimentale del Comportamento, anche se questo aspetto non solo è passato
sotto silenzio fra gli studiosi cognitivisti, come ci si sarebbe potuto aspettare,
ma è soprattutto stato ignorato dai clinici cognitivo comportamentali. L’analisi
delle regole verbali, elaborate dall’individuo che parla a se stesso, e della insensibilità alle contingenze dirette del comportamento che contribuiscono a
controllare, insieme all’analisi del trasferimento di funzioni attraverso i contesti, aprono anche la strada a una migliore comprensione dell’etiopatogenesi
di molte psicopatologie. Diventa, oggi più di ieri, importante sottolineare la
stretta relazione che intercorre fra laboratorio e ambulatorio (Moderato, Presti
e Gentile, 1989) e come quest’ultimo possa realmente progredire solo se
accoglie e metabolizza, in un modello organico d’intervento, le evidenze empiriche del primo (Presti, 2007). In questo soddisfacendo anche i 4 punti fondamentali che Kazdin (1999) ritiene fondanti l’Evidence Based Intervention.
• L’esistenza di una teoria che colleghi il processo ipotizzato a un
problema clinico.
• Una ricerca di base che supporti empiricamente la validità di questa
connessione.
• Un’evidenza empirica di risultati clinici.
• L’esistenza della connessione fra processo e risultati clinici.
Come vedremo in seguito, fra le nuove terapie di terza generazione,
l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT, Hayes, Strosahl e Wilson,
1999) in particolare, è quella che soddisfa tutti questi punti.
Per ritornare all’analisi comportamentale degli eventi cognitivi, occorre
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ricordare che Skinner (1953) non ha mai negato, come molti ritengono (cfr.
ad es. Miller, 1988), l’esistenza del pensiero o di eventi “sotto la pelle”; tali
eventi esistono e vanno studiati in quanto atti comportamentali, al pari di
quelli pubblicamente osservabili. La loro inaccessibilità all’osservazione
pubblica non è un limite posto al loro studio, anche perché la soglia di
osservabilità è funzione di molti fattori (Moderato, 1991; Palmer, 1991).
Tuttavia Skinner e gli “analisti del comportamento” ritengono che ridurre le
“cause” del comportamento pubblicamente osservabile ad eventi covert
porterebbe a un’analisi causa-effetto di tipo comportamento-comportamento, inefficace dal punto di vista della previsione e del controllo (Hayes e
Brownstein, 1986).
Il comportamentismo delle origini era un movimento contro la “coscienza” come soggetto principale della psicologia e dell’introspezione come
metodo di indagine. Watson (1924, e.g., p. 14) dichiarava il comportamento
come oggetto di studio della psicologia e lo definiva attraverso la sua
forma: il comportamento era movimento muscolare e secrezione ghiandolare. Da questa prospettiva, che Hayes (2005) definisce comportamentismo
metafisico, tutte le attività dell’organismo potevano essere ridotte a eventi
di questo tipo; e anche se attività mentali o altre attività che non implicavano movimento pure esistevano, queste non potevano costituire l’oggetto di
studio di una psicologia scientifica poiché l’accordo pubblico su come si
verificavano era impossibile (Hayes definisce questo comportamentismo
metodologico). Per questi motivi per Watson, la legittimità scientifica era
un fatto di osservabilità pubblica. Per giudicare nella giusta luce la posizione di Watson, ed evitare il classico hindsight bias, bisogna mettersi nei panni scientifici di uno psicologo di inizio secolo XX e ricordare che Watson
aveva fatto la scelta di completare il traghettamento della psicologia dalla
filosofia alla scienza inserendola nell’alveo delle scienze naturali (Moderato, Ziino, 1994, 1995). Anche la visione meccanicista, che lo ricordiamo è
l’essenza della scienza alle sue origini, è perfettamente comprensibile se si
guarda allo sviluppo che il meccanicismo aveva prodotto nelle altre discipline, dalla fisica alla medicina.
Skinner si è allontanato in modo significativo da queste visioni facendo
una distinzione tra la dicotomia soggettivo/oggettivo (che pensava fosse di
fondamentale importanza scientifica) e la dicotomia pubblico/privato (che
riteneva non fondamentale). Nel suo lavoro sull’operazionalismo del 1945,
pubblicato in italiano in Curi 1973, definì le osservazioni scientifiche come
quelle che sono sotto il controllo di alcune contingenze specifiche. Tali
contingenze guidano (o dovrebbero guidare) lo sperimentatore nella descrizione verbale delle stesse. Secondo Skinner, l’asserzione scientifica è un
particolare tipo di operante verbale e rientra nella classe che chiama tact ed
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è controllato dal contatto con le contingenze operanti dello scienziato
(descrivo quello che “vedo” accadere, quello che è percepito dai miei
sensi).
Su questo punto il lettore ci permetta una piccola digressione per cercare di
spiegare meglio il punto di vista di Skinner. In Verbal Behavior Skinner offre
una classificazione degli operanti verbali che si struttura in diversi livelli a
seconda delle sorgenti di controllo del comportamento. Quando il comportamento verbale è controllato dalla “presenza” (e sottolineiamo presenza) degli
stimoli discriminativi, l’operante così definito è un tact. Emettiamo un tact
ogni volta che descriviamo un oggetto dell’ambiente, un’azione compiuta da
un individuo sotto i nostri occhi, un suono che arriva alle nostre orecchie.
Emettiamo un tact anche quando descriviamo stati interni, quando diciamo
“ho mal di pancia” in presenza di un forte dolore addominale, “sono innamorato” in presenza di forti emozioni causate da un rapporto affettivo, “penso”
quando etichettiamo il nostro comportamento verbale interno. L’accessibilità
pubblica non è un criterio per definire il tact. Possiamo appunto “descrivere”
le nostre attività di pensiero e le nostre emozioni. Diverso il caso in cui il
comportamento verbale origina da altro comportamento verbale come
concatenazione o come “inferenza”, “traslazione”, “analogia” o “differenza”.
In questi casi il materiale verbale che funge da evento antecedente “genera” il
comportamento verbale successivo o viene “manipolato” da esso. Nel primo
caso Skinner parla di operante intraverbale, nel secondo di autoclitica. Le
fonti di controllo di un comportamento verbale, nel caso di tact, intraverbale e
autoclitica sono quindi diverse.
Per tornare a cosa sia un’asserzione scientifica per Skinner, egli ritiene
che sia ammissibile solo nella forma di tact, cioè di comportamento verbale
che sia sotto il controllo discriminativo di contingenze ambientali, pubbliche o private che siano non è rilevante (descrivo ciò che vedo o provo).
Qualsiasi asserzione che sia controllata da altre contingenze operanti, come
ad esempio intraverbali o autoclitiche che derivano da catene di pensiero
(descrivo quello che penso sia la causa di ciò che è avvenuto), manca del
prerequisito di scientificità che caratterizza il tact dello scienziato come
sopra definito. La garanzia di scientificità quindi non è data dal “pubblicamente osservabile”, come per Watson e, in un altro senso, per gli operazionalisti del positivismo logico. Le osservazioni possono essere private e
oggettive (legittimate scientificamente) o pubbliche e soggettive (scientificamente illegittime), a seconda delle contingenze che le controllano. Per
esemplificare brevemente (rimandando il lettore per approfondimenti a
Hayes e Brownstein, 1986; Moore, 1980, 1981) è facile trovare casi in cui
interi gruppi di osservatori, sono influenzati in modo simile da stati motivazionali o da altre condizioni soggettive. Poiché l’accordo pubblico non
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fornisce nessuna assicurazione della coerenza fra contingenze sperimentali
e verbalizzazione delle stesse (tact scientifico) e poiché le osservazioni private possono viceversa soddisfare i prerequisiti di tact scientifico, gli eventi
privati non sono né più né meno scientifici degli eventi pubblici. La
discriminante fra scientifico e non scientifico non è quindi pubblico verso
privato, ma contingenze verso altre contingenze, ad esempio quali operanti
(intraverbali, tact ecc.) controllino la descrizione verbale. Questo è il senso
per cui è legittimo parlare di “comportamentismo radicale” in quanto
filosofia della scienza, che va “alla radice”, (mentre non ha senso parlare di
analisi radicale del comportamento, in quanto quest’ultima è la scienza che
deriva da questa epistemologia): anche i suoi concetti centrali e le osservazioni sono definite in termini di contingenze, persino ed in particolare
quelle relative al comportamento dello scienziato.
Su queste basi epistemologiche Skinner rifiutò il comportamentismo
metodologico perché non credeva che l’accordo pubblico fornisse un’assicurazione su un controllo adeguato delle contingenze. Ma risolvendo questo problema attraverso l’analisi delle contingenze, Skinner aprì il comportamentismo a quello che Watson, all’interno di una programma più politico
che basato sull’evidenza sperimentale, aveva tentato di eliminare: osservazioni introspettive di eventi privati. Per esempio, Skinner disse che il
comportamentismo radicale “non insiste [si basa] sulla verità basata sull’accordo e può per questo prendere in considerazione gli eventi che avvengono nel mondo privato, dentro la pelle. Non chiama questi eventi inosservabili” (Skinner, 1974, p. 16). In un certo e fondamentale senso, il comportamentismo radicale non è completamente parte della tradizione del “comportamentismo” poiché tutte le attività psicologiche con le quali si entra in
contatto in un modo scientificamente valido sono passibili di analisi.
Così gli psicologi che sentono di appartenere al comportamentismo
contestualistico, come gli autori, utilizzano il termine “comportamento” per
significare qualcosa di più simile a “attività psicologica” che a “comportamento distinto e diverso dai sentimenti e dai pensieri”.
Gli skinneriani si sono spostati lentamente sull’analisi del pensiero e dei
sentimenti per una altra ragione: Skinner pensava che la comprensione
degli eventi privati non fosse necessaria per una comprensione scientifica
dell’attività overt. Hayes (Hayes, 2005; Hayes e Brownstein, 1986) sostiene
che Skinner prese questa posizione perché essenzialmente nella sua analisi
del linguaggio il comportamento dell’ascoltatore non è verbale. Questa
affermazione non è completamente condivisa da tutti, e in realtà Skinner
tratta del comportamento dell’ascoltatore in più pagine in Verbal Behavior
(Sundberg, 2008). È tuttavia indiscutibile che per varie ragioni, quali
preferenza per la tradizione sperimentale animale rispetto a quella umana,
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mancanza di adeguati modelli empirici che sovrapponessero le due,
lentezza nel dibattito scientifico post Verbal Behavior, la ricerca sul comportamento verbale overt e covert in ambito comportamentista decollò solo
nella seconda metà degli anni 80. Qualunque ne sia la causa, la posizione di
Skinner piuttosto che le altre, o una varia combinazione di esse, rimane il
fatto che l’analisi dell’attività di pensiero nella forma di una relazione
operante è la via per comprendere l’attività umana overt nella maggior
parte delle situazioni e il ponte che collega l’analisi sperimentale del
comportamento umano alla clinica, la fisiologia alla patologia, alla terapia
(Presti, 2007).
4. La Clinical Behavior Analysis
Molte delle procedure più consolidate nel lavoro sperimentale applicato
alla clinica sono emerse dall’interno dell’analisi del comportamento (AC).
Tra queste, in particolare, vanno ricordate le diverse tipologie di gestione
delle contingenze (ad esempio, contratti comportamentali, procedure di
time-out o token economy). Nonostante il loro successo sia stato notevole e
sostanziale, le prime applicazioni nell’uomo sono state mirate al cambiamento di comportamenti overt discreti (spesso molto limitati) e di solito
hanno coinvolto bambini o popolazioni istituzionalizzate. Il razionale che
giustificava questo focus applicativo ristretto era quello che queste popolazioni fornivano una opportunità maggiore di ottenere il controllo e la manipolazione diretta delle contingenze ambientali (ad esempio, Ayllon e Azrin,
1969; Risley e Wolf, 1967). Ispirati dai modelli sperimentali del laboratorio
animale, negli anni 60 si riteneva quasi improbabile la genesi di una clinica
derivata dall’Analisi del Comportamento, per l’impossibilità pratica per un
terapista di stare in contatto attimo per attimo col cliente in modo da poter
rinforzare il repertorio comportamentale in senso adattativo.
Risulta pertanto facilmente comprensibile perché, fino a tempi abbastanza recenti, la tradizione dell’analisi comportamentale applicata (Applied
Behavior Analysis) abbia ignorato in larga misura la psicoterapia verbale.
Gli analisti del comportamento hanno mantenuto a lungo uno scetticismo
riguardo il valore del “parlare che cura”: in parte questa è stata una reazione
contro il debole supporto empirico delle prime psicoterapie, in parte era
dovuta al fatto che la relazione terapeuta-cliente e la complessità del linguaggio non erano facilmente descrivibili e descritte in termini di comportamento, e anche quando lo erano, sembravano esserci poche ragioni per
focalizzare le energie su questo piuttosto che su altri interventi. Skinner
considera il comportamento verbale essenzialmente in termini di un
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semplice operante discriminato come un caso particolare di comportamento
di un animale in una procedura operante (Hayes e Bissett, 2000; Skinner,
1957, nota 11, p. 108).
In questa visione, se le contingenze dirette sono il problema principale,
persino per lo stesso comportamento verbale, ci sono poche ragioni per
guardare alle sessioni di psicoterapia (dove le contingenze dirette sono
distinte e ristrette temporalmente rispetto al contesto naturale del soggetto)
e i comportamenti (e le stesse contingenze) sono spesso descritti e specificati più che messi in atto per cercare approcci efficienti ed efficaci al cambiamento del comportamento umano. Per queste ragioni, anche l’interesse
che pur esisteva per la psicoterapia (es. Ferster, 1972) di fatto non produsse
nuovi approcci psicoterapeutici.
Il panorama è ora profondamente cambiato, con la presenza di diverse e
consistenti psicoterapie provenienti dall’analisi del comportamento, nella
quale è emerso un nuovo sotto-campo, la Clinical Behavior Analysis, che
Dougher e Hayes (2000) definiscono come quella parte dell’analisi del
comportamento:
1. che applica gli assunti, i principi e i metodi della moderna analisi del
comportamento contestuale e funzionale alla gamma di problematiche,
setting e argomenti con cui gli psicologi clinici si confrontano lavorando
con pazienti in setting ambulatoriali,
2. includendo l’identificazione di variabili e processi che giocano un ruolo
nello sviluppo, mantenimento e trattamento dei disturbi clinici,
3. mantenendo un’attenzione specifica al ruolo e all’utilizzo di eventi
verbali nei disturbi e nel loro trattamento,
4. e come risultato enfatizza le interpretazioni moderne dei processi e dei
principi coinvolti nel linguaggio e nella cognizione.
Così definita, la crescita della Clinical Behavior Analysis è la storia della
crescita di un’area intellettuale dell’analisi del comportamento, e un set di
applicazioni pratiche di quell’area all’interno dell’analisi del comportamento.
5. La teoria dei contesti relazionali
Nell’evoluzione dell’analisi sperimentale del comportamento verbale
umano la teoria dei frame relazionali (Relational Frame Theory – RFT) è
emersa negli anni 90 benché la sua origine sia rintracciabile già negli 80
(Hayes, 1989, Chase and Parrott, 1991), come momento di unificazione e
coerenza esplicativa di diversi aspetti emersi nella ricerca sull’uomo: classi
di equivalenza, comportamento governato da regole e relazioni funzionali
degli stimoli verbali. La RFT si presenta come una teoria di grande impatto
280
euristico, un’analisi pragmatica, e quindi utile, del comportamento umano
in tutta la sua complessità. L’RFT si basa su una visione contestualistica e
funzionale che permette lo studio di comportamenti umani estremamente
complessi, ricercandone le cause funzionali nel contesto in cui questi
avvengono, e avendo come obiettivo la possibilità di influenzarli agendo su
variabili manipolabili del contesto.
Queste caratteristiche possono rendere l’RFT interessante non solo per i
teorici del comportamento, ma anche per psicologi cognitivisti, psicoterapeuti, educatori e chiunque sia impegnato nello studio della condizione
umana (Fox, 2006). La teoria dopo più di 15 anni di sviluppo è stata presentata nella sua forma attuale da Hayes, Barnes-Holmes e Roche nel 2001
in un testo che ha creato numerose reazioni, anche critiche, all’interno della
stessa analisi del comportamento (si veda Palmer, 2004).
Un’analisi del suo impatto, per lo sviluppo della behavior analysis e
della psicologia in generale, è ancora prematura ma è possibile evidenziarne alcune conseguenze a breve termine. Le ricerche basate sull’RFT sono
in continua crescita all’interno delle maggiori riviste dell’analisi del comportamento (JEAB e JABA in testa) e numerosi programmi di studio in
analisi del comportamento presentano moduli specifici sulla teoria.
L’RFT sta ampliando il campo di studio sperimentale oltre quello tradizionale della AC, arrivando a comprendere la psicoterapia e numerose forme complesse di comportamento umano verbale, come gli stereotipi sociali
e la loro modificazione, passando per lo studio sperimentale delle analogie
e delle metafore (es. Carpentier, Smeets, Barnes-Holmes e Stewart, 2004;
Barnes-Holmes, Barnes-Holmes, McHugh, 2004.). Nuove strade di intervento e applicazione si stanno sviluppando anche nei settori tradizionali
(psicologia dello sviluppo, educazione, educazione speciale).
La Relational Frame Theory non è però stata ancora “accolta” a pieno titolo nei “sacri testi” di analisi applicata del comportamento come il Cooper,
Henron Edwards (neanche nella sua recente edizione, 2006) in quanto non
è stata ancora accettata da tutta la comunità delle scienze del comportamento e dell’Applied Behavior Analysis.
Vi sono alcune ragioni per questa riluttanza ad inserire l’RFT nel corpus
della AC:
- il livello di spiegazione degli eventi funzionale e contestuale evolve, e
per certi versi, estremizza quello fornito da Skinner;
- il livello di inferenza richiesto dalla spiegazione è più alto rispetto a
quello tradizionale della AC;
- l’integrazione con teorizzazioni e risultati empirici provenienti da altri
filoni di studio della AC (es. comportamento verbale e OBM) non è
ancora completo.
281
Sull’osservazione relativa al “livello di inferenza più alto” occorre soffermarsi un momento, perché alcuni equivoci sul livello di analisi dell’operante sono comuni sia all’interno, sia, soprattutto, all’esterno del campo
dell’analisi del comportamento. Catania e Sidman, ma anche lo stesso Skinner, hanno sempre ribadito come la relazione funzionale non debba essere
concepita come limitata nel tempo e nello spazio. Catania (1995) parla, ad
esempio, del comportamento governato da regole (Rule Governed Behavior
– RGB) come di una classe di comportamenti di ordine superiore, le cui
contingenze di rinforzo non dipendono solo da quelle in atto nel momento
in cui il comportamento di un individuo è sotto il controllo di una regola
enunciata da altri o da se stesso, ma dall’intersecarsi di queste contingenze
con altre (storia individuale, storia di apprendimenti con riferimento al
seguire le regole, storia di “seguire la regola” con riferimento a chi la eroga,
ecc.). La RFT estende questa analisi, ereditando anche elementi del pensiero Kantoriano, e chiarisce come le variabili che governano il comportamento umano acquisiscano o perdano le loro funzioni stimolo attraverso
frame di relazione che sono costruiti e mantenuti col linguaggio.
Non conosciamo al momento il valore euristico di questa analisi, perché
solo la ricerca futura potrà confermarne la validità, è tuttavia un merito
indiscusso della RFT l’avere dato una spinta a tutto il campo dell’analisi
del comportamento per la sua espansione verso domini rilevanti per la
condizione umana, legando con nuova enfasi il piano sperimentale e di
laboratorio con quello applicativo dell’intervento efficace ed efficiente.
L’Acceptance and Commitment Therapy (Hayes, Strosahl e Wilson,
1999) è l’estensione applicativa in ambito clinico del tentativo che data oltre
20 anni di creare una forma moderna di analisi del comportamento che potesse accettare la sfida dell’analisi della cognizione umana facendo scaturire i
principi necessari per spiegarla da un punto di vista contestualistico-funzionale, dall’interno del rigore metodologico e nel rispetto dei principi di base
dell’analisi Skinneriana del comportamento. Con un paragone un po’ ardito,
potremmo trovare un’analoga con la fisica subatomica moderna, che amplia e
approfondisce, senza rinnegarli, i principi della fisica classica.
Alla base di questo lavoro di ampliamento dei paradigmi esplicativi dell’analisi del comportamento e del raccordo dei modelli sperimentali con
l’intervento clinico, c’è la convinzione che la terapia del comportamento
debba necessariamente rapportarsi più efficacemente con la cognizione, e
allo stesso tempo che una teoria contestualistica della cognizione abbia
maggiori probabilità di raggiungere obiettivi pratici rimanendo contemporaneamente legata all’impegno nella scienza di base che caratterizza la tradizione della terapia comportamentale. Questa spinta epistemologica e metodologica ha contribuito alla nascita delle terapie di terza generazione.
282
6. Le terapie comportamentali di terza generazione
L’attenzione della comunità clinica e scientifica internazionale è attualmente rivolta ad alcuni degli approcci terapeutici cognitivo comportamentali
che sono stati definiti di terza generazione. Essi mantengono un forte legame
con la psicologia come scienza di base, in termini di attenzione alla verifica
sperimentale, ai progressi e al cambiamento del singolo paziente. Gli
obiettivi terapeutici si estendono oltre la soluzione dei problemi specifici che
caratterizzavano la tradizione comportamentale, fino a comprendere i disturbi
della personalità e problematiche di tipo esistenziale. I trattamenti mirano alla
costruzione di repertori ampi, flessibili, efficaci e rilevanti per la vita del
cliente, più che all’eliminazione di problemi accuratamente definiti.
Tra gli interventi CBT di terza onda possiamo ricordare l’Acceptance and
Commitment Therapy (ACT, Hayes, 1999), la Dialectical Behavior Therapy
(DBT; Linehan, 1993), la Functional Analytic Psychoterapy (FAP,
Kohlenberg e Tsai, 1991), la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT;
Segal, Williams, e Teasdale, 2001), gli approcci meta-cognitivi (Wells,
2000). In questi ultimi anni, la mindfulness è divenuta oggetto di crescente
attenzione da parte della psicologia clinica e, in misura minore, della psicologia di base. Da un lato è possibile osservare un crescente impiego della mindfulness in diverse forme di CBT, dall’altro stanno emergendo le prime concettualizzazioni in termini di processi di base. Tra le più importanti forme di
CBT che utilizzano la mindfulness se ne trovano alcune che sono state definite “integrazioniste” e altre che invece sono state definite “incorporazioniste” (Giommi, 2006). Le prime si caratterizzano per l’uso considerevole
della pratica meditativa, che viene considerata la componente fondamentale e
principale della terapia stessa. Tra queste troviamo la Mindfulness Based
Stress Reduction (MBSR; Kabat-Zinn, 1990) e le più recenti Mindfulness
Based Cognitive Therapy (MBCT; Segal, Teasdale e Williams, 2002) e
Mindfulness Based Relapse Prevention (MBRP; Marlatt, 2007).
Le seconde si caratterizzano invece perché in esse la mindfulness non si
identifica tout court con la pratica meditativa formale. Tra queste l’Acceptance and Committment Therapy, la Dialectical Behavior Therapy, e gli
approcci metacognitivi. Caratteristica originale e comune di questi approcci
è che, piuttosto che focalizzarsi sul cambiamento diretto degli eventi psicologici, mirano a modificare la funzione di questi stessi eventi psicologici
e la relazione dell’individuo con essi attraverso strategie quali mindfulness,
accettazione o defusione cognitiva (Teasdale, 2003) che agiscono sui
processi psicologici che emergono durante la sessione terapeutica con l’obiettivo di modificarli a lungo termine.
Queste terapie danno anche nuova vitalità ad importanti caratteristiche
283
della tradizione della terapia comportamentale, come l’analisi funzionale, la
costruzione di repertori di comportamento e di abilità e lo shaping diretto –
durante la seduta terapeutica – anche del comportamento verbale (Hayes,
2004). Altro aspetto originale in termini di cambiamento generazionale, è il
fatto che la spinta verso una terza generazione di interventi provenga da
entrambe le ali della CBT, la più comportamentale e la più cognitiva.
La terapia dialettica del comportamento (DBT, la terapia comportamentale sulle emozioni) è una delle terapie strutturate con dimostrata evidenza
di efficacia. Sviluppata per la terapia del disturbo borderline di personalità
da Linehan (1993), all’interno di una cornice comportamentale, fa ampio
uso di tecniche cognitive. È inoltre uno degli approcci che integrano la
mindfulness all’interno del programma terapeutico. Per quanto riguarda
quest’aspetto, la DBT ha il merito di fornire una definizione operazionale
di mindfulness espressa in termini comportamentali. Centrale è la relazione
tra il processo emotivo e il contesto ambientale, sia nella concettualizzazione del disturbo che nella terapia. Ultimamente l’applicazione si sta estendendo a diversi disturbi con specifica evidenza rispetto ai comportamenti
suicidari, la loro prevenzione e l’abuso di sostanze.
7. FAP: la terapia comportamentale interpersonale
La Functional Analytic Psychotherapy (Kohlenberg e Tsai, 1991) [FAP]
è basata sull’analisi comportamentale della relazione terapeutica ed è stata
creata per essere utilizzata insieme agli approcci comportamentali tradizionali o quando l’abilità del cliente di relazionarsi agli altri è al centro delle
difficoltà cliniche. Assunzione di base della FAP è che molta della psicopatologia e della sofferenza umana siano di natura interpersonale, e che la
relazione terapeutica sia essenziale nel portare a miglioramenti clinici. La
tradizione cognitivo-comportamentale ha progressivamente dato sempre
maggior peso all’importanza della relazione terapeuta-cliente, e la FAP ne
fornisce un’analisi fondata sui principi del comportamento specificando i
comportamenti del terapeuta necessari a favorire il cambiamento nel
cliente. La FAP presuppone che comportamenti nuovi e più funzionali possano essere modellati durante il processo di psicoterapia, dalle risposte contingenti del terapeuta ai problemi del cliente che si manifestano in sessione,
così come ai miglioramenti in questi comportamenti.
La FAP si distingue per l’attenzione costante verso i comportamenti che
si manifestano in seduta piuttosto che sui comportamenti che si verificano
tra una seduta e l’altra. Da un punto di vista psicopatologico, secondo la
FAP, i problemi che il cliente presenta nelle relazioni interpersonali si pre284
senteranno nella relazione terapeutica e questi saranno il focus di interesse
da parte del terapeuta.
Nel setting clinico il terapeuta presta attenzione alla comparsa dei Comportamenti Clinicamente Rilevanti (CRB), classi di risposte con la medesima funzione che si dividono in:
1. CRB1: i comportamenti problematici del paziente che si verificano, sul
momento, durante il colloquio;
2. CRB2: i miglioramenti nelle modalità comportamentali del paziente in
seduta;
3. CRB3: le descrizioni del cliente su quali variabili influenzano i suoi
comportamenti.
Il terapeuta, quando lo ritiene appropriato, supporta le descrizioni da
parte del paziente delle variabili che controllano i CRB1 e i CRB2. Il compito del terapeuta è quello di rispondere in modo contingente ai comportamenti del paziente rinforzando approssimazioni successive a modalità relazionali più efficaci, e cercando di generalizzare i miglioramenti dal contesto
della terapia al contesto di vita. Il terapeuta osserva la comparsa dei CRB1,
evoca i CRB1, rinforza i CRB 2 e osserva gli effetti rinforzanti dei suoi
interventi rispetto ai CRB nel contesto della relazione terapeutica (Balasini
e Miselli, 2007).
In questa fase è particolarmente importante che all’entusiasmo dal punto
di vista clinico e alla ricerca sugli outcome si accompagni una analisi
teorica e sistematica in termini di processi di base coinvolti nella mindfulness (Zucchi, 2007). Da questo punto di vista possiamo trovare due principali linee di ricerca, una cognitivista che si lega allo studio dei processi
attentivi e alla processazione dell’informazione, e una comportamentale che
si basa su una teoria contestualista del linguaggio e della cognizione, la Relational Frame Theory.
8. ACT: Acceptance and Commitment Therapy
Anche un’analisi superficiale mostra come tutte le terapie menzionate
siano contestuali e radicalmente funzionali nella misura in cui si disinteressano al cambiamento di comportamenti definiti in termini topografici (di
forma) fino a quando le maggiori funzioni di questi comportamenti non
siano analizzate e comprese, in relazione a un contesto (Hayes e Bissett,
2000). Anche se non tutte le terapie elencate sopra sono state consapevolmente e volutamente costruite in termini di filosofia contestuale e pragmatica è pur vero che le caratteristiche contestuali di questi approcci spesso si
rifanno esplicitamente alla natura referenziale del linguaggio, il che dimos285
tra sensibilità agli sviluppi teorici e filosofici dell’analisi comportamentale
degli eventi verbali umani.
ACT: la terapia comportamentale esperienziale. L’Acceptance and
Commitment Therapy (ACT) è, fra le terapie del comportamento di terza
generazione, quella maggiormente legata, nei confini sopra citati, alla tradizione dell’analisi del comportamento e alla ricerca di base sul comportamento verbale e, più in generale, agli sviluppi della Behavior Analysis.
L’ACT è un intervento psicologico basato su evidenze sperimentali che usa
strategie di accettazione e mindfulness insieme a strategie di impegno nell’azione e modificazione del comportamento, per incrementare la flessibilità psicologica.
Con il termine flessibilità psicologica si intende il pieno contatto con il
momento presente come essere umano consapevole e la capacità, basandosi
su quanto la situazione permette, di cambiare o persistere in comportamenti
che perseguano i valori che ciascuno ha scelto come importanti. Obiettivo
dell’ACT è di aiutare il cliente a scegliere di agire in modo efficace, con
comportamenti concreti allineati con i propri valori, in presenza di eventi
privati difficoltosi o interferenti. L’ACT abbraccia una filosofia della scienza contestualistica, una teoria di base del linguaggio e della cognizione, e
una teoria applicativa della psicopatologia e del cambiamento psicologico.
L’ACT è sia un modello teorico che una tecnologia per il cambiamento
terapeutico, sviluppata all’interno di un più vasto programma di ricerca sul
linguaggio e la cognizione umana, che adotta l’epistemologia contestualistico-funzionale dell’analisi del comportamento (Moderato, Presti e Chase,
2002). La presentazione dei suoi sviluppi teorici ed applicativi si estenderà
anche alle recenti evoluzioni nella comunità clinico-scientifica italiana.
Partendo dalla teoria dei frame relazionali (Relational Frame Theory –
RFT; Hayes, Barnes-Holmes, e Roche, 2001), l’ACT mette in luce i modi
in cui il linguaggio intrappola i pazienti dentro inutili tentativi di combattere contro la sofferenza interiore. Sulla base dei dati provenienti da un ampio programma di ricerca di base sui processi linguistici e cognitivi, l’ACT
sostiene che tentare di cambiare direttamente pensieri e sentimenti che
creano difficoltà sia una modalità controproducente di coping. Attraverso
metafore, paradossi ed esercizi esperienziali, i pazienti imparano a instaurare un sano contatto con quei pensieri, sentimenti, memorie e sensazioni fisiche che sono state fino a quel momento temute ed evitate. I pazienti imparano a ricontestualizzare e accettare questi eventi interni, sviluppando
una maggiore consapevolezza riguardo i valori personali, e impegnandosi
nei cambiamenti comportamentali necessari.
La concezione centrale dell’ACT è che la sofferenza psicologica sia
solitamente causata dall’interfaccia tra il linguaggio, la cognizione e il con286
trollo dell’esperienza diretta sul comportamento. L’inflessibilità psicologica emerge dall’evitamento delle esperienze, dalla fusione cognitiva, dall’attaccamento al sé concettualizzato, dalla perdita di contatto con il momento
presente e dal risultante fallimento nell’intraprendere i necessari passi comportamentali in accordo con i propri valori centrali.
Sono passati ormai più di 20 anni tra i primi trial randomizzati sul Comprehensive Distancing (la prima forma di ACT, Zettle e Hayes, 1986), e le
ricerche moderne (Hayes, 2007). In questo intervallo, la teoria di base del
linguaggio e della cognizione umana fondamentale per l’ACT, la Relational
Frame Theory è stata sviluppata fino a diventare un programma di ricerca
sperimentale comprensivo di base utilizzato per guidare lo sviluppo dell’ACT stessa. All’interno di questo quadro coerente di riferimento, si utilizzano tecniche esperienziali per la modificazione del comportamento
(Hayes, Stroshal, Wilson, 1999). La mindfulness è parte integrante dell’ACT che ne da una definizione dettagliata e fondata nella ricerca di base,
senza legarla ad aspetti mistici e senza identificarla tout court con la pratica
meditativa. Anche l’aspetto più direttamente legato al cambiamento comportamentale (“committment”) si è evoluto negli ultimi decenni e prevede
tecniche specifiche per motivare al cambiamento centrate sugli obiettivi e
sui valori del cliente (Miselli e Zucchi, 2007).
L’ACT insegna a pazienti e terapeuti come modificare il modo in cui
difficili esperienze private funzionano producendo sofferenza, piuttosto che
tentare di eliminarne del tutto la comparsa. La ricerca mostra come questi
metodi siano di beneficio per un ampio spettro di pazienti aiutandoli a
fronteggiare un’ampia varietà di problemi clinici tra cui depressione, ansia,
stress, abuso di sostanze e persino sintomi psicotici. I benefici sono importanti per i terapeuti così come lo sono per i pazienti. L’ACT ha mostrato
sperimentalmente di alleviare velocemente il burnout degli operatori. L’evidenza disponibile suggerisce che l’ACT funziona attraverso differenti
processi rispetto a trattamenti efficaci usati come controllo, tra cui la
Cognitive Behavioral Therapy (CBT) tradizionale.
9. Ricerca di base, psicopatologia e clinica: dall’inflessibilità psicologica all’adattamento
Dal punto di vista dell’ACT (e della RFT), una fonte primaria di psicopatologia è il modo in cui linguaggio e cognizione interagiscono con le contingenze dirette per produrre un’incapacità nel persistere o nel cambiare un
dato comportamento, impedendo in tal modo l’azione del soggetto e il raggiungimento di obiettivi in linea con i suoi valori. Questo tipo di inflessibilità
287
psicologica viene vista come risultato di un debole o inefficace controllo contestuale sugli stessi processi linguistici. Ne risulta un modello di psicopatologia legato punto a punto all’analisi fornita dalla RFT e dalla ricerca di base degli ultimi 30 anni sul verbal behavior. Il tutto è integrato in una teoria clinica
accessibile, di medio livello, limitata a principi di base più astratti.
Le abilità di linguaggio mettono l’uomo in una posizione speciale: con
una semplice parola si evoca l’oggetto che si è nominato. Ad esempio, dicendo: “ombrello” che cosa viene in mente? L’esempio in questo caso è innocuo: ma che cosa succederebbe se il significato dell’oggetto fosse spaventoso? Ogni cosa legata a quel nome evocherebbe paura. Sarebbe come
se un cane, non avesse solo paura di essere colpito nel momento presente,
ma cominciasse ad aver paura in anticipo, non in risposta a un gesto accennato o a un indizio ambientale (che sarebbe una reazione rispondente pavloviana) ma “pensando” di prendere un calcio. È esattamente la situazione
in cui si trovano gli esseri umani dotati di linguaggio. Queste risposte vengono evocate nel momento presente dal semplice stimolo verbale (parola,
gesto, immagine, pensiero o cognizione che sia). Quando l’individuo risponde a questi stimoli interni, diviene meno “sensibile” alle contingenze
ambientali. È forse esperienza comune la domenica sera, sotto la doccia cominciare a pensare al lunedì mattina, all’ora della sveglia, alle riunioni
pianificate ecc. e cosa succede? Anche se sotto la doccia non c’è nessuna
“riunione”, il semplice pensarci evoca alcune risposte tipiche di quella
situazione, irritazione, senso di urgenza, ansia, respiriamo più velocemente
ecc. e nello stesso momento, come rovescio della medaglia, perdiamo contatto con la piacevole sensazione dell’acqua calda sulla pelle.
Per fare esperienza ed esemplificare in poche parole quello che è emerso
da più di 30 anni di ricerche di laboratorio proviamo a pensare alla situazione più imbarazzante in cui ci siamo mai trovati, quella classica da “datemi
un botola”. È molto probabile che, subito dopo aver letto la frase, si provi
un senso di vergogna o sentimenti simili. Tutto ciò succede solo leggendo
alcune semplici parole. Se poi continuassimo a evocare verbalmente i
particolari di quella situazione è molto facile provare ansia, voglia di scappare e così via. Ma qui non è presente quella situazione che è successa probabilmente molti anni fa, sono presenti solo macchie di inchiostro su carta
bianca, eppure ci comportiamo come se la situazione fosse presente. Rispondiamo a macchie di inchiostro “come se” fossimo in quella situazione.
Ed in un certo senso lo siamo: essa è psicologicamente presente all’interno
della nostra pelle e della nostra testa. Questo non accade agli animali (o almeno non è ancora stato possibile dimostrarlo nonostante siano state effettuate più di 10 sperimentazioni; Hayes et al., 2006), mentre è un
processo pervasivo per gli esseri umani.
288
Come sarebbero le cose se questo tipo di relazioni non esistesse? Il cane
evita il dolore cercando tenersi lontano da chi lo abbia colpito in passato e
accenni ora a colpirlo. Ma come può fare una persona a evitare il dolore se
in qualunque momento e in qualunque luogo esso può essere riportato alla
mente?
Gli esseri umani (verbalmente competenti) non solo non possono evitare
il dolore evitando le situazioni dolorose (il metodo adottato dal cane), ma
sono anche esposti al dolore in situazioni piacevoli: una persona che abbia
avuto un lutto recente e che si trovi di fronte ad un bellissimo tramonto a
che cosa penserà? Un processo centrale che può condurre alla patologia è la
fusione cognitiva, termine che si riferisce alla dominanza di funzioni che
regolano il comportamento attraverso reti relazionali, basate in particolare
sull’incapacità di distinguere il processo e i prodotti della risposta relazionale. In contesti che nutrono tale fusione, il comportamento umano è guidato più da reti verbali rigide che dal contatto con contingenze ambientali.
Come risultato, le persone possono agire in modo incoerente con ciò che è
rilevante per i loro valori e obiettivi. I contesti funzionali che tendono ad
avere tali effetti deleteri sono largamente sostenuti dalla comunità verbale
(ad esempio lo stimolo verbale minaccioso “la vita è senza speranza”).
Un contesto in cui prevale la ricerca delle cause, basa l’azione o la
mancanza d’azione eccessivamente sul costrutto “causa” del proprio comportamento, specialmente quando questi processi si focalizzano su cause non
manipolabili come gli eventi privati. Quando si trovano nella disperazione,
gli esseri umani, cercano di compiere un’azione molto logica: cercano di
evitare il dolore. Sfortunatamente, è impossibile evitare la propria esperienza
interna, essa è sempre con noi. La ricerca, in particolare quella sulla
soppressione del pensiero (per una metanalisi si veda Abramowitz, Tolin e
Street, 2001) mostra come anche le strategie più efficaci, lo siano solo nel
breve termine. In aggiunta a questo alcuni metodi di evitamento del dolore
sono essi stessi patologici. Per esempio, l’uso di droghe o alcool che creano
dissociazione psichica riduce temporaneamente il dolore causando però nel
tempo danni importanti. Il processo di evitamento dell’esperienza interna
sgradevole viene mantenuto (attraverso il rinforzo negativo) dall’efficacia a
breve temine della dorga. La negazione e l’intorpidimento ottenuto ridurranno dunque il dolore nell’immediato, ma porteranno ad una sofferenza più
grande in futuro. In tale contesto quindi il controllo dell’esperienza incentrato
sulla manipolazione degli stati cognitivi o emozionali diviene scopo primario
e metro per il successo nella vita (“per vivere bene bisogna sentirsi bene”) e
prevale la fusione cognitiva. Essa appoggia l’evitamento esperienziale nel
tentativo di alterare la forma, frequenza, o sensibilità situazionale agli eventi
privati anche quando questo causa un danno comportamentale.
289
L’evitamento esperienziale è basato su un processo linguistico naturale
che è amplificato dalla cultura in un focus generale sul “sentirsi bene”,
“essere felici” ed evitare il dolore. Sfortunatamente, i tentativi di evitare gli
scomodi eventi privati tendono ad aumentare la loro importanza funzionale,
sia perché essi diventano più salienti, sia perché questi sforzi di controllo
sono legati verbalmente a conseguenze concettualizzate negativamente, e
così tendono a restringere la gamma di comportamenti possibili.
La richiesta sociale della ricerca della causa e dell’utilità pratica del
comportamento umano simbolico conducono la persona a cercare di capire e
spiegare gli eventi psicologici anche quando ciò non è necessario. Il contatto
con il momento presente si allenta nel momento in cui le persone iniziano a
vivere “nelle loro teste”: in tal modo il passato e il futuro concettualizzati, e il
sé concettualizzato, guadagnano maggior forza sulla regolazione del
comportamento contribuendo ulteriormente all’inflessibilità. Per esempio,
diviene più importante sapere chi è responsabile del dolore personale, che non
vivere più efficacemente con la storia che si ha; può essere più importante
difendere il proprio punto di vista verbale (es. fare la vittima, non essere mai
arrabbiato ecc.) che impegnarsi in modalità più funzionali di comportamento
che non concordano con queste verbalizzazioni. Inoltre, finché emozioni e
pensieri sono utilizzati come giustificazioni per altre azioni, la ricerca della
causa porta la persona ad incrementare ulteriormente l’evitamento esperienziale. Ancora una volta il risultato è l’inflessibilità psicologica.
La costante possibilità di provare dolore psicologico è un peso che tutti
ci portiamo dietro e con cui dobbiamo fare i conti. Questo non significa che
ci si debba rassegnare ad arrancare attraverso una vita di sofferenze. Dolore
e sofferenza sono due cose diverse, e l’ACT sostiene che ci sia un modo
per cambiare la propria relazione con il dolore e per vivere una buona vita
(Hayes e Smith, 2005, pp. 11-12).
Tutto ciò significa che i valori cedono il posto a obiettivi più immediati
come essere a posto, apparire belli, sentirsi bene, difendere un sé concettualizzato, e così via. In questo modo le persone perdono il contatto con ciò
che realmente vogliono nella vita. Emergono pattern di azioni che gradualmente dominano il repertorio della persona e che sono svincolate dalla
qualità di vita desiderata nel lungo termine. I repertori di comportamento si
riducono e diventano meno sensibili a tutto ciò che permetterebbe di
intraprendere azioni in direzione dei valori.
10. Conclusioni
Le psicoterapie di terza generazione si presentano con caratteristiche
290
particolari che indicano il loro progresso e attestano il cammino verso la
maturità del campo. Il legame fra laboratorio e ambulatorio viene rinsaldato
dalla bidirezionalità che assume il quadro di riferimento e l’azione del
clinico e dello sperimentalista. Da un lato il primo non deve ricorrere a costrutti particolari, senza alcun fondamento empirico, alla ricerca degli elementi per comprendere le cause della psicopatologia e individuare i fondamenti dell’azione terapeutica e le tecniche d’intervento. Il secondo trova un
naturale proseguimento applicativo della ricerca di base. L’auspicio degli
Autori è che i due settori, quello della ricerca di base e della clinica, possano oggi trovare un nuovo modo per riavvicinarsi e che i clinici tornino a interessarsi della ricerca di base, così come i medici possono essere interessati alla biologia molecolare, perché può fornire risposte fondamentali per lo
sviluppo e l’applicazione basata sulle evidenze della psicoterapia.
11. Addendum: l’ACT in Italia
L’interesse per le applicazioni cliniche dell’ACT e delle terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione è in forte crescita. Questo interesse ha solide basi
in Italia nelle scienze del comportamento ed in particolare nello studio del comportamento verbale. Già nella seconda metà degli anni ottanta il First Summer Institute on Verbal Relations, che portò alla pubblicazione del volume Dialogues on
verbal behavior (Chase e Parrott, 1991) comprendeva un contributo italiano (Moderato, 1991) e costituiva l’inizio di una continuativo rapporto di ricerca e collaborazione internazionale. In frutto più importante appare nel nuovo millennio nella
forma del volume Pensieri, parole e comportamento: un’analisi funzionale delle
relazioni linguistiche (Moderato, Presti, Chase, 2002) che rappresenta la naturale
continuazione di questo percorso, fornendo un’esaustiva analisi dei processi di base implicati nel linguaggio e nella cognizione umana.
La comprensione di questi processi di base ha portato, ed è necessaria ancor più
oggi, allo sviluppo e alle applicazioni degli attuali modelli e tecnologie terapeutiche denominate di terza generazione, riunendo il laboratorio con l’ambulatorio
(Moderato, Presti e Gentile, 1989). Questa feconda fusione, che ha costituito la storia della medicina moderna dove viene data per fondante e quindi scontata e imprescindibile, viene disattesa e snobbata in psicologia, vuoi per scelta ideologica
(scienze naturali vs. scienze umane o dello spirito) vuoi per mancanza di conoscenza scientifica. Cosa ancor più grave, ciò accade in quelle branche o sottoinsiemi
clinici che al metodo sperimentale e al movimento degli interventi basati sulle evidenze si richiamano.
Questi capisaldi hanno reso possibile la costituzione di una comunità di clinici
e ricercatori Italiani (estensione in lingua Italiana della Association For Contextual
Behavioral Science – ACBS) (www.contextualpsychology.org).
Numerose attività sono state realizzate in Italia con la supervisione scientifica
291
di IESCUM (www.iescum.org) che costitutisce l’Italian Chapter dell’Association
for Behavior Analysis International. Nell’estate del 2007 come parte integrante
della loro formazione clinica 130 psicoterapeuti in formazione iscritti a diverse
scuole di psicoterapia cognitivo-comportamentale hanno ricevuto una formazione
sull’Acceptance and Commitment Therapy comprensiva di una settimana di
Workshop Esperienziale tenuto direttamente da Steve Hayes. Per facilitare la
comunicazione e la condivisione su questi argomenti è stata aperta una mailing-list
in lingua italiana (http://it.groups.yahoo.com/group/ACT-Italia/) per professionisti
sul modello della lista “madre” di lingua inglese, che ha così fortemente contribuito allo sviluppo dell’ACT e delle scienze contestuali del comportamento.
Per contribuire allo sviluppo della ricerca clinica sono in corso le validazioni su
campione Italiano di alcuni strumenti psicometrici tra i quali l’Avoidance and
Action Questionnaire II (AAQII; Hayes, Strosahl, Wilson, Bissett, Pistorello,
Toarmino, Polusny, Dykstra, Batten, Bergan, Stewart, Zvolensky, Eifert, Bond,
Forsyth, Karekla, e McCurry, 2004) e il Valued Living Questionnaire (Wilson,
Sandoz, Kitchens e Roberts, in press).
Per coordinare attività di ricerca, cliniche, formative e creare un’interfaccia per
il pubblico è stato aperto il sito www.act-italia.com. Il sito, gestito e curato da due
membri fondatori dell’Association For Contextual Behavioral Science, rappresenta
il punto di collegamento tra la comunità in lingua italiana e la più estesa comunità
internazionale.
Bibliografia
Abramowitz, J.S, Tolin, D.F, e Street G.P (2001) Paradoxical effects of thought
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