Capitolo e3 Principi di oncologia clinica E. Bajetta, L. Celio Oncologia clinica: la prospettiva storica Negli Stati Uniti, a partire dal 1942, venivano condotte ricerche scientifiche segrete sui composti della mostarda. L’osservazione di uno spiccato effetto antitumorale della mostarda azotata in un linfoma murino portava al suo impiego in un paziente affetto da linfosarcoma refrattario alla radioterapia, che otteneva una remissione clinica completa. I risultati di studi successivi, pubblicati nel 1946 dopo la rimozione del segreto militare, confermavano l’attività delle mostarde azotate nei linfomi e segnavano l’inizio della chemioterapia antitumorale. Il successivo affermarsi dell’impiego clinico della chemioterapia citotossica portava alla nascita, nel 1972, di una nuova branca della medicina interna, l’oncologia medica. Tuttavia, tra le molte sfide della medicina moderna, nessuna ha avuto un inizio più controverso e un progresso più contrastato del trattamento medico delle neoplasie. Sebbene il processo neoplastico fosse stato riconosciuto da secoli, era rimasta assai limitata la conoscenza dei meccanismi biologici della trasformazione e della progressione tumorali fino all’avvento della medicina molecolare, nella seconda metà del secolo scorso. Prima del 1950, il trattamento delle neoplasie è stato, in gran parte, di pertinenza esclusiva del chirurgo. La radioterapia è divenuta uno strumento prezioso per il controllo della malattia locale e regionale dopo il 1960, con l’invenzione dell’acceleratore lineare, ma, analogamente alla chirurgia, non è in grado di eliminare la malattia metastatica o micrometastatica. Un trattamento efficace per la maggior parte dei pazienti ha, pertanto, la necessità di raggiungere ogni distretto corporeo. Farmaci citotossici, molecole biologiche e terapie immunomediate sono divenuti il centro degli attuali sforzi indirizzati alla cura delle neoplasie. A partire dai primi esperimenti condotti con la mostarda azotata oltre 60 anni fa e fino agli attuali tentativi di sviluppare farmaci diretti contro specifici bersagli molecolari presenti nella neoplasia, gli studiosi di diverse discipline si sono uniti nella ricerca di agenti antitumorali più efficaci. Nel corso degli anni, lo sviluppo di terapie innovative, basato dapprima su osservazioni empiriche, è divenuto sempre più dipendente dalla comprensione della biologia cellulare e molecolare della neoplasia. Nell’ultima decade, acquisizioni fondamentali su origini e comportamento dei tumori nell’uomo hanno rimodellato la comprensione di tali malattie e hanno generato progressi in campo clinico. La caratteristica di tale ricerca, più promettente in termini di sviluppi futuri, è il focalizzarsi sulla neoplasia in quanto entità clinica. Utilizzando idee e tecnologie originariamente derivate dalla ricerca di base e le possibilità aperte dal sequenziamento del genoma umano, i ricercatori hanno spostato l’avanguardia degli studi sul cancro dai modelli di crescita tumorale in vitro alla caratterizzazione del profilo molecolare della neoplasia nel singolo paziente e alla conseguente possibilità di un trattamento medico personalizzato. Biologia della genetica della neoplasia Aspetti di biologia cellulare L’uomo adulto si compone di circa 1015 cellule, molte delle quali si dividono e differenziano per ripopolare organi e tessuti a rapida proliferazione. Le cellule capaci di dividersi e di rifornire i tessuti sono dette “cellule staminali”; si calcola che ogni giorno si verifichino circa 1012 divisioni nei compartimenti corporei di cellule staminali. Nonostante l’enorme produzione di nuove cellule, la proliferazione e il differenziamento sono processi strettamente regolati, in modo che organi e tessuti non eccedano una specifica taglia e il rinnovamento tissutale sia proporzionato e limitato alla 1 sostituzione di cellule danneggiate o invecchiate. Il controllo fine del numero di cellule è ottenuto attraverso una rete di meccanismi molecolari che, da un lato, governano la proliferazione e, dall’altro, l’apoptosi (morte cellulare programmata). L’inibizione da contatto è un importante meccanismo di controllo negli organismi pluricellulari, assicurando che nessuna cellula presenti una proliferazione non ristretta. Quando è raggiunta la confluenza cellulare, la sensibilità ai fattori di crescita diminuisce, forse in conseguenza di una riduzione della densità di recettori specifici presenti sulla superficie cellulare. I fattori di crescita sono un gruppo di macromolecole regolatrici isolate dal siero e da estratti tissutali: sembra esistere una stretta relazione tra la loro produzione e lo sviluppo di molti tipi di neoplasie. Dal punto di vista funzionale, si distinguono fattori di crescita positivi e negativi, a seconda che la proliferazione cellulare sia stimolata o inibita. Il controllo del ciclo cellulare dipende dall’equilibrio raggiunto tra i diversi fattori di crescita che agiscono contemporaneamente sulla cellula. Pertanto, il funzionamento aberrante di segnali autocrini e paracrini mediati da fattori di crescita può causare un’eccessiva proliferazione cellulare e promuovere lo sviluppo neoplastico. Il ciclo cellulare prevede una serie ordinata di eventi che culminano nella divisione della cellula in due cellule figlie uguali. Un aspetto critico è la necessità che le cellule replichino accuratamente il loro DNA e contengano una massa sufficiente per sostenere la divisione. Si distinguono le seguenti fasi del ciclo cellulare: G1, S, G2 e M. Nella fase G1, la cellula si prepara a iniziare la replicazione del DNA, mentre nella fase S (sintesi) ha luogo la replicazione del materiale genetico. La fase G2 rappresenta il periodo intercorrente tra il termine della fase S e l’inizio della fase M (mitosi). L’impegno alla mitosi si verifica al termine di G2 e fornisce alla cellula un’ulteriore opportunità per controllare che la replicazione del DNA sia stata completata in modo corretto. Cellule quiescenti, che sono considerate non in ciclo, si trovano nella fase G0. La transizione da G0 a G1 è controllata da fattori di crescita. Esistono due importanti punti di controllo nella progressione attraverso il ciclo cellulare. Uno è il punto di controllo G1-S, in cui si impedisce alle cellule di iniziare a replicare il loro materiale genetico finché non sia stato riparato tutto il danno a carico del DNA. La proteina RB (pRB), codificata dal gene oncosoppressore RB, gioca un ruolo centrale nel determinare se una cellula procederà o meno attraverso la fase G1. La maggioranza delle neoplasie umane presenta alterazioni di questa via. Un secondo punto di controllo è quello G2-M, che impedisce alle cellule di iniziare la mitosi in presenza di un danno del DNA non riparato. La proteina p53, codificata dal gene oncosoppressore TP53, ricopre un ruolo ben definito a livello di entrambi i punti di controllo. I principali interruttori per il controllo del ciclo cellulare sono una serie di protein-chinasi, le chinasi dipendenti da ciclina (CDK): ciascuna di esse forma un complesso con una particolare ciclina, una proteina che lega e attiva la chinasi. Quest’ultima è un enzima che aggiunge un gruppo fosfato a varie proteine necessarie per l’avanzamento di una cellula attraverso il ciclo. I gruppi fosfato alterano la struttura della proteina, attivandola o inattivandola, in relazione alla sua funzione. Esistono specifici complessi CDK/ciclina all’ingresso delle fasi G1, S, M e G2, oltre ad altri fattori che aiutano a preparare la cellula a entrare nella fase S e in quella M. La pRB si lega, inibendolo, a E2F, un fattore di trascrizione che attiva l’espressione di numerosi geni necessari per la progressione da G1 a S. La fosforilazione di pRB da parte delle CDK inattiva la proteina e causa il rilascio di E2F attivo. La p53 è normalmente complessata a MDM2, una proteina che inibisce la p53 e ne promuove la degradazione. Diversi segnali inattivano la MDM2, permettendo l’aumento della concentrazione della p53 libera: questo può provocare l’arresto del ciclo cellulare per azione della proteina p21, che blocca l’attività di una CDK richiesta per la progressione attraverso la fase G1, oppure indirizzare la cellula all’apoptosi, se il danno al DNA è tale da non poter essere riparato. L’apoptosi è un processo di controllo essenziale per la morte cellulare programmata. Le cellule che vanno incontro ad apoptosi sono rapidamente fagocitate (inghiottite e digerite da cellule del sistema immunitario) senza alcuna dispersione di componenti citoplasmatiche e senza l’avvio di una risposta infiammatoria. Le proteine capaci di rilevare un danno del DNA possono aiutare ad attivare l’apoptosi e possono anche influire sul ciclo cellulare, arrestando la divisione della cellula in modo che il danno possa essere riparato. La riparazione, l’arresto della crescita e l’apoptosi sono tutte risposte legittime in caso di danno del DNA, sebbene la scelta dipenda, di volta in volta, dal tipo cellulare, dalla localizzazione, dall’ambiente e dall’estensione del danno. Se quest’ultimo è oltre le proprie possibilità di riparazione, la cellula 2 generalmente va incontro ad apoptosi. L’incapacità di cellule che si stanno dividendo di iniziare l’apoptosi, dopo essere state esposte a un danno severo del DNA, contribuisce allo sviluppo di una neoplasia. Basi molecolari della cancerogenesi Le mutazioni possono essere considerate errori, ossia cambiamenti della normale sequenza di basi del DNA. Sebbene le mutazioni siano generalmente considerate un evento negativo, il loro effetto varia a seconda del tipo e della posizione. Alcune possono avere un effetto nullo sulla proteina codificata dal gene mutato, mentre altre causano la sintesi di una proteina parzialmente o completamente alterata. Infatti un cambiamento nella sequenza di aminoacidi può incidere sulle modificazioni posttraduzionali alle quali la catena polipeptidica è normalmente sottoposta e quindi sulla sua funzionalità biologica. Le mutazioni sono divise in due categorie generali: anomalie geniche e cromosomiche. Le mutazioni geniche o puntiformi sono piccoli cambiamenti nella sequenza delle basi del DNA, quali addizione, rimozione o sostituzione di singole coppie o di un piccolo numero di coppie di basi. Le anomalie cromosomiche comprendono sia alterazioni strutturali, quali addizione, amplificazione, rimozione o riarrangiamento di parti di cromosomi, sia l’aumento o la diminuzione del numero dei cromosomi. Una descrizione di tipi diversi di mutazioni è presentata nella Tabella e3.1. Le mutazioni possono essere ereditarie se presenti nel DNA dei gameti, ma la grande maggioranza è acquisita dalle cellule somatiche in seguito a un danno chimico del DNA. Le mutazioni ereditarie sono presenti in tutte le cellule di un individuo e possono essere trasmesse ai discendenti, mentre le mutazioni somatiche sono trasmesse solo alla progenie delle cellule inizialmente colpite. Non esiste un rischio ereditario per la maggior parte delle neoplasie umane, che sono, pertanto, definite “sporadiche” e dipendono esclusivamente da mutazioni somatiche. Le cellule tumorali presentano un numero finito di vie molecolari e biochimiche aberranti, mentre la porzione alterata del DNA è relativamente contenuta rispetto alla dimensione del genoma. I principali tipi di danno a carico del DNA sono: (1) formazione di addotti alle basi; (2) perdita di una base; (3) deaminazione delle basi; (4) rottura di un singolo filamento; (5) rottura del doppio filamento; (6) legami crociati tra i due filamenti. Tab. e3.1. Alterazioni genetiche e cromosomiche. Alterazione Mutazione silente Mutazione dissenso (missense mutation) Mutazione non senso (nonsense mutation) Mutazione con spostamento del modulo di lettura (frame-shift mutation) Inserzione Delezione Traslocazione Amplificazione Descrizione Alterazione puntiforme che cambia un codone specifico per un aminoacido in un codone codificante per lo stesso aminoacido Alterazione puntiforme che porta alla formazione di un codone codificante per un aminoacido diverso da quello codificato dal codone originale Alterazione puntiforme che porta alla creazione di uno dei tre codoni di stop che fanno terminare prematuramente la catena polipeptidica Addizione o delezione di coppie (singole o multiple) di nucleotidi, con conseguente spostamento del modulo di lettura Presenza di un tratto addizionale di coppie di basi nel DNA Rimozione di una sequenza del DNA, con le regioni su entrambi i lati della sequenza che sono unite insieme Riarrangiamento strutturale di un cromosoma che comporta la fusione di cromosomi diversi o di parti di un singolo cromosoma che non sono contigue Produzione di copie aggiuntive di una sequenza cromosomica che può portare ad aumentata espressione genica quando sono prodotte multiple copie di un gene 3 Le mutazioni somatiche sono il prodotto di uno di due processi interdipendenti. • • Esiste un tasso di errore intrinseco dei processi di sintesi e riparazione del DNA nei tessuti normali, che causa l’acquisizione di mutazioni trasmesse poi alla progenie cellulare durante la replicazione. Tale fenomeno è responsabile di una frequenza basale di mutazione a livello di un particolare allele dell’ordine di 10-6, cioè solo una cellula su un milione è mutata. Sebbene sia estremamente bassa la probabilità che un gene chiave per la trasformazione neoplastica vada incontro a mutazione, una pressione di selezione positiva opera ab initio, amplificando l’impatto di eventi a bassa frequenza. In altri termini, il processo sequenziale dell’acquisizione di plurime mutazioni a carico di geni cruciali può aver luogo solo se la cellula inizialmente mutata va incontro a espansione clonale. Appena il clone raggiunge le 1.000 cellule, la probabilità che una di esse acquisisca una seconda mutazione in un altro locus genico cruciale aumenta di 1.000 volte. La ripetizione del processo porta alla progressiva acquisizione di un insieme di caratteristiche che conferiscono alle cellule un potenziale sempre maggiore di crescita autonoma nell’organismo ospite. Il tasso basale di mutazione somatica spontanea è aumentato da fattori ambientali che interagiscono, direttamente o indirettamente, con il DNA cellulare. Questi comprendono non solo l’esposizione ad agenti ambientali, quali radiazioni e sostanze chimiche, ma anche gli effetti genotossici di agenti endogeni, quali i radicali liberi responsabili dello stress ossidativo. Cancerogeni esogeni ed endogeni contribuiscono al tasso basale di mutazione somatica e, in alcuni casi, possono aumentare notevolmente i tassi di neoplasia. Neoplasia e mutazioni La neoplasia (letteralmente nuova formazione) è una malattia genetica a base cellulare: essa si verifica attraverso un processo a più fasi, la cancerogenesi, caratterizzato dall’acquisizione sequenziale di mutazioni stocastiche entro geni che conferiscono un vantaggio selettivo di crescita alla cellula mutata rispetto alla controparte normale. Molte mutazioni sono già presenti in forme premaligne e nella neoplasia intraepiteliale (IEN). I dati di incidenza di neoplasie comuni (della mammella, della prostata, del colon o della cute) dimostrano un aumento dei casi con l’età, suggerendo che un minimo di 4 o 5 eventi mutazionali debba verificarsi prima dello sviluppo neoplastico. Dal punto di vista funzionale, le mutazioni producono due distinte conseguenze: inappropriata espressione o attivazione di geni (mutazione con guadagno di funzione) oppure inattivazione funzionale del gene o della relativa proteina (mutazione con perdita di funzione). I geni attivati sono detti oncogeni, mentre quelli inattivati sono noti come oncosoppressori. Si ritiene che il processo di cancerogenesi si realizzi nell’arco di molte decadi. Le mutazioni che si verificano frequentemente derivano da errori durante la replicazione del DNA, ma possono anche verificarsi in seguito all’esposizione a complesse miscele chimiche presenti nell’ambiente oppure attraverso lo stile di vita e la dieta. In quest’ultimo processo, denominato “cancerogenesi chimica”, il mutamento genetico iniziale che deriva dall’interazione tra agente chimico e DNA è definito iniziazione. La cellula iniziata deve poi trasferire l’alterazione acquisita alla progenie, sfuggendo all’azione soppressiva del sistema immunitario e a quella regolatrice del sistema endocrino dell’ospite (teoria della mutazione somatica). Le alterazioni presenti nella cellula iniziata sono, generalmente, la conseguenza di mutazioni a carico di geni che codificano per proteine regolatrici della divisione cellulare. Altri geni vanno poi incontro a mutazione in conseguenza del fatto che geni codificanti per proteine responsabili della riparazione del danno del DNA spesso non funzionano correttamente, essendo anch’essi mutati. L’aumento del numero di alterazioni nella cellula mutata causa ulteriori alterazioni nella stessa e nella progenie. Un’aumentata proliferazione caratterizza la maggior parte delle cellule tumorali, che hanno acquisito funzioni 4 altrimenti represse nelle cellule normali. Le neoplasie spesso posseggono cloni cellulari differenti all’analisi citogenetica, che derivano dall’iniziale cellula trasformata attraverso alterazioni genetiche secondarie o terziarie. Questa eterogeneità contribuisce alle differenze riscontrabili nel comportamento clinico e nella risposta alle terapie di neoplasie originate dallo stesso distretto anatomico. Le neoplasie possono contenere anche cellule tumorali progenitrici, che costituiscono uno spettro di cellule con differenti alterazioni genetiche e stati di differenziamento. Tali popolazioni cellulari possono differire per la sensibilità alla chemioterapia, alla radioterapia e ad altri tipi di trattamento, complicando la gestione clinica del paziente. Per questi motivi, le tappe iniziali dello sviluppo delle neoplasie rivestono un’importanza clinica considerevole e sono una priorità per lo sviluppo razionale di terapie mediche. Tipi di geni alterati nella neoplasia La neoplasia è causata da alterazioni in tre classi operative di geni: oncogeni, geni oncosoppressori e geni di microRNA (miRNA). Gli oncogeni derivano da normali geni cellulari detti proto-oncogeni; i loro prodotti sono proteine che controllano la proliferazione cellulare, l’apoptosi oppure entrambe. Gli oncogeni possono essere attivati da alterazioni strutturali derivanti da riarrangiamenti cromosomici, mutazioni e amplificazione genica. Traslocazioni e mutazioni possono verificarsi come eventi inizianti oppure durante la progressione, mentre l’amplificazione si verifica generalmente durante la progressione neoplastica. Tutti e tre i meccanismi causano un’alterazione della struttura dell’oncogene oppure un aumento o un’alterata regolazione della sua espressione. L’attivazione di oncogeni conferisce un vantaggio di crescita o un’aumentata sopravvivenza alle cellule portatrici delle alterazioni. I prodotti degli oncogeni possono essere classificati in sei categorie generali. • • • • Fattori di trascrizione: sono spesso membri di famiglie multigeniche che condividono domini strutturali comuni. Per poter agire, molti fattori di trascrizione richiedono un’interazione con altre proteine. Per esempio, in alcune neoplasie la proteina di trascrizione Fos dimerizza con il fattore di trascrizione Jun per formare il fattore di trascrizione AP1, in grado di aumentare l’espressione di diversi geni che controllano la divisione cellulare. Traslocazioni cromosomiche spesso attivano geni di fattori di trascrizione in linfomi e talvolta in neoplasie solide come, per esempio, il carcinoma della prostata. Modificatori della cromatina: modificazioni nel grado di compattamento della cromatina giocano un ruolo critico nel controllo dell’espressione, replicazione e riparazione dei geni e della segregazione dei cromosomi. Due tipi di enzimi rimodellano la cromatina: enzimi ATP-dipendenti che spostano le posizioni dei nucleosomi, le subunità ripetitive di istoni attorno alle quali si avvolge il DNA, ed enzimi che modificano le code N-terminali degli istoni. Il modello di modificazione degli istoni costituisce un codice epigenetico che determina l’interazione tra nucleosomi e proteine associate alla cromatina. Queste interazioni, a loro volta, determinano la struttura della cromatina e la sua capacità trascrizionale. Fattori di crescita: l’attivazione costitutiva del gene di un fattore di crescita può contribuire alla trasformazione maligna. Il prototipo è il proto-oncogene c-sis, che codifica per la catena β del Platelet-Derived Growth Factor (PDGF). Il PDGF, che è rilasciato dalle piastrine, può indurre la proliferazione di vari tipi di cellule. L’iperespressione del PDGF induce la trasformazione in vitro di fibroblasti che presentano il recettore del fattore di crescita. Recettori di fattori di crescita: sono alterati in molte neoplasie. Una delezione del dominio di legame del ligando nel Recettore dell’Epidermal Growth Factor (EGFR), una proteina tirosin-chinasi transmembrana, causa l’attivazione costitutiva del recettore in assenza del 5 • • ligando (Box e3.1). Mutazioni con attivazione si verificano anche nel dominio della tirosin-chinasi dei recettori Human Epidermal growth factor Receptor-2 (HER2) e KIT. Tali mutazioni si verificano in neoplasie polmonari, mammarie e stromali del tratto gastroenterico. Trasduttori di segnale: molti oncogeni codificano per membri di vie intracellulari di trasduzione del segnale. Essi ricadono in due gruppi principali: protein-chinasi non recettoriali e proteine che legano la guanosina trifosfato. Le protein-chinasi non recettoriali sono di due tipi: tirosin-chinasi (per es. ABL, LCK e SRC) e serina/treoninachinasi (per es. AKT, RAF1, MOS e PIM1). I geni di proteine coinvolte nella trasduzione del segnale diventano oncogeni se sono colpiti da mutazioni con attivazione di funzione. Regolatori dell’apoptosi: il gene BCL2 codifica per una proteina citoplasmatica che si localizza nei mitocondri e aumenta la sopravvivenza cellulare mediante inibizione dell’apoptosi. Le proteine bcl-xl e bcl2, membri della famiglia BCL2, inibiscono l’apoptosi e sono sovraregolate in molte neoplasie. Due vie principali conducono all’apoptosi: la stress pathway e la death-receptor pathway. La stress pathway è attivata da proteine che contengono domini BH3 (bcl2 homology 3); questo dominio inattiva bcl2 e bcl-xl, attivando le caspasi che inducono l’apoptosi. La death-receptor pathway è innescata dal legame del ligando di Fas, TRAIL, e del Tumor Necrosis Factor (TNF)-α ai loro recettori sulla superficie cellulare, con conseguente attivazione delle caspasi. Box e3.1. Caratteristiche generali dei recettori tirosin-chinasici I recettori tirosin-chinasici (RTK) sono proteine transmembrana che mediano la trasmissione di segnali extracellulari (come i fattori di crescita) nell’ambiente intracellulare, regolando importanti funzioni cellulari. In termini strutturali, i RTK sono generalmente costituiti di un dominio extracellulare di legame per il ligando, un singolo dominio transmembrana, una regione catalitica citoplasmatica contenente la tirosin-chinasi e sequenze regolatrici. I RTK sono attivati dal legame di uno specifico fattore di crescita al dominio extracellulare, il che causa la dimerizzazione del recettore e la successiva autofosforilazione del complesso recettoriale da parte del dominio intracellulare contenente la chinasi che utilizza ATP. Il recettore fosforilato interagisce poi con una varietà di molecole di segnale citoplasmatiche, consentendo la trasduzione del segnale. I RTK che presentano un’alterata regolazione possono contribuire alla trasformazione di una cellula. L’alterata regolazione può verificarsi attraverso diversi meccanismi: (1) amplificazione e/o iperespressione di RTK; (2) mutazioni con guadagno di funzione o delezioni che causano un’attività chinasica costitutivamente attiva; (3) riarrangiamenti genomici che producono proteine di fusione con attività chinasica costitutivamente attiva; (4) stimolazione costante di RTK da parte di elevati livelli di fattori di crescita; (5) trasduzione retrovirale di un proto-oncogene che causa mutamenti strutturali di RTK. Ognuno di questi meccanismi determina un aumento del segnale a valle del recettore. A differenza degli oncogeni, i geni oncosoppressori sono normali componenti del genoma. I loro prodotti sono componenti integrali delle vie regolatrici del ciclo cellulare e la perdita della normale funzione di questi geni può portare a eccessiva proliferazione cellulare e a progressione neoplastica. I geni della suscettibilità al carcinoma mammario, BRCA-1 e BRCA-2, sono oncosoppressori che presentano un’ereditarietà di tipo autosomico dominante a penetranza variabile. Mutazioni a carico di questi due geni sono responsabili di circa tre quarti dei casi ereditari di carcinoma mammario. A livello cellulare, gli effetti di BRCA-1 e BRCA-2 sono recessivi ed entrambe le copie di un allele devono essere perse o mutate ai fini della progressione neoplastica. Individui portatori di una 6 mutazione di questi geni nella linea germinale hanno una suscettibilità ereditaria dominante e il secondo evento mutazionale colpisce la cellula somatica. Tuttavia, mutazioni di BRCA-1 e BRCA-2 sono poco comuni nelle forme sporadiche di carcinoma mammario, che non sembrano derivare da mutazioni somatiche acquisite in entrambi gli alleli. Sotto questo aspetto, BRCA-1 e BRCA-2 si distinguono dai classici geni oncosoppressori TP53 e RB. I livelli nucleari di pRB sono determinanti critici dello stato funzionale della cellula e quando la quantità della proteina diminuisce al di sotto di un valore soglia, la cellula acquisisce un fenotipo oncogeno. Il gene TP53 è mutato in oltre il 70% delle neoplasie umane e la quasi totalità di queste presenta mutazioni a carico di geni a monte o a valle della funzione di p53, che è spesso definita “il guardiano del genoma” in quanto contribuisce alla protezione contro il danno genotossico. Infatti, essa può agire come un fattore di trascrizione omotetramerico, che è attivato in risposta a insulti cellulari, quali radiazioni, ipossia e danno del DNA indotto da farmaci. A seconda delle circostanze, la p53 può provocare l’arresto del ciclo cellulare o indirizzare la cellula verso l’apoptosi. Sebbene i livelli della p53 siano aumentati in alcune neoplasie, la proteina è alterata e mutazioni del gene TP53 si associano, in generale, alla perdita della funzione genica. Inoltre, il gene TP53 può agire in modo dominante negativo, danneggiando la funzione della proteina normale in presenza di una qualunque forma alterata della proteina. Mutazioni del gene TP53 si verificano nella sindrome tumorale familiare di Li-Fraumeni, che si associa a neoplasia mammaria, sarcomi e neoplasie del corticosurrene. La proteina APC, il prodotto del gene oncosoppressore APC, controlla l’attività della β-catenina, che è una proteina coinvolta nell’adesione cellula-cellula e nell’attivazione di diverse vie di trasduzione del segnale. Nella poliposi adenomatosa familiare, una sindrome tumorale familiare caratterizzata dalla formazione di centinaia di polipi nel colon e nel retto, mutazioni che inattivano il gene APC bloccano la degradazione della β-catenina, inibendone la fosforilazione. Di conseguenza, la β-catenina libera trasloca dal citoplasma al nucleo, dove attiva geni coinvolti nella proliferazione cellulare e nell’invasività locale. Una terza classe di geni coinvolti nella trasformazione neoplastica è quella dei geni di miRNA, che codificano per singoli filamenti di RNA lunghi circa 21-23 nucleotidi. Essi sono in grado di regolare l’espressione genica: una molecola di miRNA può appaiarsi a un RNA messaggero, contenente una sequenza nucleotidica complementare, e bloccarne la traduzione oppure causarne la degradazione. La mappatura dei geni di numerosi miRNA ha dimostrato che molti di essi sono presenti in regioni cromosomiche esposte a riarrangiamenti, delezioni e amplificazioni nelle cellule tumorali. Tali geni possono essere sovra o sottoregolati e la loro funzione dipende dai bersagli contro i quali sono diretti in uno specifico tessuto: un gene di miRNA può essere un oncosoppressore se, in un dato tipo cellulare, il bersaglio critico è un oncogene e, viceversa, può essere un oncogene se, in un differente tipo cellulare, il bersaglio è un gene oncosoppressore. Instabilità genomica L’acquisizione progressiva di mutazioni da parte delle cellule rende il genoma più instabile e incline all’alterazione genetica. L’instabilità genomica aumenta fortemente la probabilità di ulteriori mutazioni spontanee, che contribuiscono allo sviluppo neoplastico. Tuttavia, esistono meccanismi specifici che servono a preservare l’integrità del genoma. • • I geni oncosoppressori caretaker (addetti alla manutenzione) sono coinvolti nel riconoscimento e nella riparazione delle alterazioni dell’appaiamento delle basi nucleotidiche o della rottura del filamento di DNA. I due meccanismi generali che possono essere implicati sono la riparazione mediante escissione di basi oppure quella mediante escissione di nucleotidi. I geni oncosoppressori gatekeeper (guardiani) controllano la proliferazione cellulare e arrestano le cellule in ciclo, se esse presentano danni al DNA. Questi geni svolgono la loro funzione in collaborazione con geni caretaker, in modo che vi sia il tempo sufficiente e l’opportunità per riparare il DNA danneggiato prima dell’inizio della mitosi. 7 Se la funzione dei guardiani fallisce, vi è il rischio che porzioni danneggiate del DNA siano trasmesse alle cellule figlie come potenziali mutazioni in grado di promuovere la trasformazione neoplastica. I geni gatekeeper operano nei punti di controllo del ciclo cellulare (G1-S e G2-M) e interagiscono con vie di trasduzione del segnale che consentono una rapida integrazione dei segnali stimolatori o inibitori provenienti dall’interno o dall’esterno della cellula. In questo modo, la cellula valuta la polarità finale dei segnali e insieme all’analisi dell’integrità del DNA dirige l’attività dei geni gatekeeper. Questi influenzano i punti di controllo del ciclo, impedendo alla cellula di replicare il proprio DNA fino a che il danno non è stato riparato (punto di controllo G1-S) oppure di iniziare la mitosi se c’è un danno non riparato del DNA (punto di controllo G2M). Alterazioni specifiche di geni caretaker e gatekeeper possono causare un drammatico aumento dell’instabilità genomica e una rapida progressione verso il fenotipo maligno. Le cellule tumorali presentano due tipi di instabilità genomica. • • L’instabilità cromosomica, che rappresenta la maggior parte dell’instabilità genomica osservata, è caratterizzata dall’accumulo di anomalie cromosomiche strutturali e/o numeriche nelle cellule tumorali. Le analisi del cariotipo indicano che la maggioranza delle neoplasie epiteliali presenta aneuploidia (multiplo non intero dell’assetto cromosomico aploide a causa della mancanza o della presenza di una copia addizionale di uno o più cromosomi). La scoperta suggerisce che diversi geni, quando mutati, portano a questa forma di instabilità. La base molecolare dell’aneuploidia è eterogenea, ma alterazioni di specifici punti di controllo sono in grado di favorire tale forma di instabilità genomica. I geni del punto di controllo del fuso assicurano che la segregazione dei cromosomi sul fuso mitotico proceda senza errori, ma mutazioni di questi geni sono di comune riscontro nelle neoplasie umane. Probabilmente la causa più frequente di instabilità cromosomica è rappresentata da alterazioni nel punto di controllo del danno del DNA. La replicazione del DNA danneggiato causa alterazioni della segregazione dei cromosomi e della ricombinazione mitotica. Grossolane alterazioni strutturali cromosomiche si verificano se la replicazione del DNA procede in presenza di rotture a singolo o a doppio filamento. Alcune forme ereditarie di predisposizione tumorale sono legate alle vie implicate nel controllo delle rotture dei filamenti del DNA. Geni quali ATM (Ataxia Teleangiectasia Mutated; probabilmente il sensore primario delle rotture a doppio filamento), ATR (ATM and Rad-3 related), BRCA-1, BRCA-2 e TP53 sono tutti implicati nel controllo del danno del DNA e nello sviluppo neoplastico. La presenza di anomalie del numero e della funzione dei centromeri rappresenta anch’essa un meccanismo di instabilità cromosomica. Un ulteriore meccanismo di aneuploidia con instabilità cromosomica è la disfunzione dei telomeri, in grado di causare grossolane alterazioni strutturali cromosomiche. L’instabilità nucleotidica, che è relativamente poco comune nelle neoplasie, riflette probabilmente l’impatto dei cancerogeni ambientali o del tasso basale di mutazione somatica. Tuttavia, alterazioni dei due sistemi principali di riparazione del DNA cellulare possono causare significativi livelli di instabilità genomica. La riparazione per escissione di nucleotide (Nucleotide Excision Repair, NER) è responsabile dell’identificazione e riparazione di grosse lesioni del DNA (filamenti lunghi da 2 a 30 nucleotidi) indotte da agenti esogeni. Essa è stata riconosciuta, per la prima volta, in individui affetti da xeroderma pigmentoso. La riparazione del mismatch (appaiamento errato) corregge errori di replicazione del DNA, che sono responsabili della formazione di coppie di basi erroneamente appaiate e di loop anomali causati da inserzioni/delezioni. Queste lesioni determinano acquisizioni o perdite di brevi unità ripetitive di mono- o dinucleotidi (per es. ripetizioni di poliA oppure di poliCA) entro sezioni del genoma denominate microsatelliti. Le sequenze dei microsatelliti sono 8 caratterizzate da ripetizioni identiche di nucleotidi e sono frequentemente osservate nelle regioni codificanti dei geni. Questo tipo di errore di replicazione di nucleotidi è noto come instabilità dei microsatelliti ed è stato identificato nella maggioranza delle neoplasie che si sviluppano in pazienti con cancro del colon ereditario non associato a poliposi (HNPCC), noto anche come sindrome di Lynch. Tale sindrome è causata da mutazioni di geni responsabili della riparazione dei mismatch del DNA. Difetti nella riparazione dei mismatch accelerano il tasso di mutazione nelle forme sia ereditarie sia sporadiche di neoplasia del colon e possono essere riscontrati in oltre il 10% delle neoplasie colo-rettali, gastriche ed endometriali. Almeno il 95% dei casi di HNPCC sono attribuibili a mutazioni di due geni coinvolti nella riparazione dei mismatch (MSH2 e MLH1). Il 15% delle neoplasie colo-rettali sporadiche presenta l’instabilità dei microsatelliti, che è spesso causata dall’inattivazione epigenetica di MLH1. Epigenetica della neoplasia L’epigenetica è definita come cambiamenti ereditabili nell’espressione genica che non sono dovuti ad alterazioni nella sequenza del DNA. Il marcatore epigenetico più noto è la metilazione del DNA, che riveste ruoli critici nel controllo dell’attività genica e dell’architettura del nucleo cellulare. Nell’uomo, la metilazione del DNA si verifica a livello di residui di citosina che precedono residui di guanina: i dinucleotidi CpG non sono distribuiti a caso nel genoma, ma ci sono regioni, le “isole CpG”, che presentano un contenuto superiore al 50% di tali nucleotidi. Le cellule tumorali presentano uno squilibrio della metilazione del DNA: la progressione neoplastica induce una perdita assai diffusa della metilazione mentre esiste un’ipermetilazione aberrante delle isole CpG. Questi segmenti altamente conservati del DNA si trovano nella regione dei promotori di quasi la metà dei geni di mammifero e sono normalmente protetti dalla metilazione. Infatti, la metilazione è uno degli strati di controllo di certi geni tessuto-specifici e di geni nella linea germinale, che sono silenti in quasi tutti i tessuti eccetto che nelle neoplasie. La metilazione del DNA ha luogo nel contesto di modificazioni chimiche degli istoni, che non sono solo delle proteine per l’impaccamento del DNA, ma strutture molecolari che partecipano alla regolazione dell’espressione genica. Gli istoni immagazzinano l’informazione epigenetica attraverso modificazioni post-traduzionali, quali l’acetilazione in lisina, la metilazione in arginina e lisina e la fosforilazione in serina. Tali modificazioni influenzano la trascrizione genica e la riparazione del DNA. Il basso livello di metilazione del DNA nelle neoplasie umane, rispetto al livello di metilazione presente nelle controparti tissutali normali, è stato una delle prime alterazioni epigenetiche riscontrate. La perdita della metilazione si determina principalmente a carico di sequenze ripetitive del DNA, delle regioni codificanti dei geni e degli introni. Il grado di ipometilazione del DNA genomico aumenta con la progressione della lesione da proliferazione benigna a tumore invasivo. L’ipermetilazione delle isole CpG nella regione del promotore può interessare geni coinvolti nel ciclo cellulare, nella riparazione del DNA, nel metabolismo dei cancerogeni, nelle interazioni cellulacellula, nell’apoptosi e nell’angiogenesi, tutti processi implicati nello sviluppo neoplastico. I profili di ipermetilazione delle isole CpG presenti in geni oncosoppressori sono specifici per tipo di neoplasia. Questi pattern di inattivazione epigenetica si verificano non solo nelle neoplasie sporadiche, ma anche in sindromi tumorali familiari, nelle quali l’ipermetilazione può rappresentare la seconda lesione prevista dal modello di sviluppo neoplastico dei “due colpi” proposto da Alfred Knudson. Marcatori di ipermetilazione del DNA sono sotto studio come mezzi diagnostici complementari, fattori prognostici e fattori predittivi di risposta al trattamento. Proprietà essenziali della cellula tumorale Lo sviluppo di una neoplasia è il risultato finale di una serie di mutazioni ereditate e/o acquisite, che causano un notevole cambiamento nel comportamento di una singola cellula e della sua progenie. Le 9 cellule tumorali acquisiscono caratteristiche anomale che ne influenzano l’aspetto, l’espressione di proteine sulla loro superficie, la crescita, la replicazione e la morte. È stato proposto che l’alterazione di un numero limitato di vie regolatrici cellulari sia sufficiente per impartire un fenotipo oncogeno a un’ampia varietà di cellule normali. Le cellule tumorali condividono una serie comune di sei proprietà biologiche acquisite, delle quali hanno bisogno per svilupparsi e sopravvivere (Fig. e3.1). L’acquisizione di ciascuna di esse significa superare un distinto meccanismo regolatorio o una linea di difesa dell’organismo ospite. Una proprietà aggiuntiva è l’instabilità genomica che caratterizza, come già visto, le cellule tumorali. L’aumentata tendenza alla mutazione è essenziale e porta a un’evoluzione del danno genetico e all’acquisizione di un fenotipo oncogeno. Le sei proprietà essenziali delle cellule tumorali sono le seguenti. • • • • Capacità delle cellule di dividersi indipendentemente dalla presenza di segnali esterni di crescita: le cellule normali richiedono segnali di crescita mitogenici per passare da una condizione di quiescenza a uno stato di proliferazione attiva. Tali segnali sono trasmessi nella cellula da recettori transmembrana che legano classi distinte di molecole di segnale: fattori di crescita diffusibili, componenti della matrice extracellulare (ECM) e molecole di adesione/interazione cellula-cellula. Molti oncogeni agiscono mimando, in qualche modo, un normale segnale di crescita. Le cellule tumorali mostrano una dipendenza fortemente ridotta dalla stimolazione esogena della proliferazione. Tre comuni strategie molecolari per l’acquisizione dell’autonomia proliferativa coinvolgono l’alterazione di segnali extracellulari di crescita, di trasduttori transcellulari di tali segnali oppure di circuiti intracellulari che trasformano i segnali in effetti. La maggior parte dei fattori di crescita solubili è prodotta da una cellula per stimolare la proliferazione di un altro tipo cellulare, ma molte cellule tumorali acquisiscono la capacità di sintetizzare fattori di crescita ai quali sono direttamente sensibili, creando un meccanismo di segnale a feedback positivo spesso definito come “stimolazione autocrina”. Esempi sono la produzione del PDGF e del Tumor Growth Factor (TGF)-α da parte di glioblastomi e sarcomi. Capacità delle cellule di ignorare segnali esterni che si oppongono alla crescita: entro un tessuto normale, multipli segnali antiproliferativi operano per mantenere lo stato di quiescenza e l’omeostasi tissutale; tali segnali comprendono sia inibitori solubili della crescita sia inibitori localizzati nell’ECM e sulla superficie di cellule vicine. I segnali inibenti la crescita, analogamente a quelli stimolatori, sono ricevuti mediante recettori transmembrana sulla superficie cellulare, che sono accoppiati a circuiti di segnale intracellulare. Le cellule tumorali incipienti devono evadere da questi segnali antiproliferativi per espandersi. Larga parte del circuito che consente alle cellule normali di rispondere ai segnali antiproliferativi è associata con il ciclo cellulare, specificamente con le componenti che governano il transito della cellula attraverso la fase G1. Le cellule monitorano il loro ambiente esterno durante questo periodo e, sulla base dei segnali ricevuti, decidono se proliferare, rimanere quiescenti oppure entrare in uno stato postmitotico. A livello molecolare, molti e forse tutti i segnali antiproliferativi sono incanalati attraverso la pRB. Capacità delle cellule di evitare l’apoptosi: la capacità di popolazioni di cellule tumorali di espandersi numericamente è determinata non solo dal tasso di proliferazione cellulare, ma anche da quello di morte cellulare. L’apoptosi rappresenta una fonte principale di morte cellulare e la resistenza acquisita a essa è una proprietà essenziale della neoplasia. Capacità delle cellule di dividersi indefinitamente senza senescenza: cellule in coltura hanno un potenziale di replicazione finito: una volta che le popolazioni cellulari sono progredite attraverso un certo numero di raddoppiamenti, esse interrompono la crescita, un processo noto come senescenza. La senescenza di fibroblasti umani in coltura può 10 • • essere elusa disabilitando pRB e p53, il che consente alle cellule di continuare a moltiplicarsi per ulteriori generazioni fino a quando entrano in un secondo stato detto “crisi”. La crisi è caratterizzata da morte cellulare massiva e dall’occasionale emergenza di una variante cellulare (1 su 107) che ha acquisito la capacità di moltiplicarsi illimitatamente; questo tratto è detto immortalizzazione. La maggior parte dei tipi di cellule tumorali che sono propagati in coltura sembra essere immortalizzata. Il dispositivo biologico che consente di contare il numero di generazioni cellulari è rappresentato dalle estremità dei cromosomi, i telomeri, che sono composte da diverse migliaia di ripetizioni di una breve sequenza di 6 coppie di basi. Le generazioni cellulari sono contate attraverso la perdita di 50-100 coppie di basi del DNA telomerico dall’estremità di ogni cromosoma durante ciascun ciclo cellulare. La conservazione dei telomeri è praticamente evidente in tutti i tipi di cellule maligne; l’85-90% di esse riesce a fare ciò attraverso la sovraregolazione dell’espressione dell’enzima telomerasi, il quale aggiunge ripetizioni esanucleotidiche all’estremità del DNA telomerico. Il mantenimento della lunghezza dei telomeri al di sopra di una soglia critica permette la moltiplicazione illimitata della progenie cellulare. Capacità di formare nuovi vasi sanguigni: l’ossigeno e i nutrienti forniti dalla vascolarizzazione sono cruciali per il funzionamento e la sopravvivenza cellulare, obbligando praticamente tutte le cellule di un tessuto a risiedere entro 100 μm da un capillare sanguigno. Le cellule appartenenti a lesioni proliferative aberranti mancano all’inizio di capacità angiogenica, con limitazione della loro capacità di espansione. Per poter aumentare di dimensioni, le neoplasie incipienti devono sviluppare la capacità angiogenica. Capacità di invadere i tessuti e di stabilire metastasi a distanza: durante lo sviluppo della maggior parte dei tipi di neoplasie umane, le lesioni primitive generano cellule capaci di invadere i tessuti adiacenti e quindi di raggiungere sedi corporee distanti, dove possono stabilire nuove colonie (metastasi). La capacità di invasività locale e di metastasi a distanza consente alle cellule tumorali di sfuggire dalla massa neoplastica primitiva e di colonizzare nuovi terreni nell’organismo ospite dove, almeno inizialmente, nutrienti e spazio non sono fattori limitanti. Le metastasi di recente formazione nascono come amalgami di cellule tumorali e di cellule normali di supporto arruolate dal tessuto ospite. Analogamente alla formazione della lesione neoplastica primitiva, anche per le cellule di lesioni metastatiche la capacità di invasione locale e di disseminazione a distanza dipende dall’acquisizione delle altre cinque proprietà essenziali. Fig. e3.1. Proprietà essenziali della neoplasia. 11 Neoplasie ereditarie e sporadiche Le alterazioni nel genoma che sono alla base della trasformazione neoplastica possono essere ereditarie o acquisite. Una predisposizione genetica ereditaria dell’ospite probabilmente gioca un ruolo principale nello sviluppo di circa il 5-10% di tutte le neoplasie solide e di una fetta più piccola di casi di leucemia e linfoma. Tutte le cellule degli individui predisposti presentano una mutazione ereditaria e, successivamente, necessitano di un numero minore di eventi mutazionali per indurre la cancerogenesi. La suscettibilità genetica occasionalmente può manifestarsi come un effetto sistemico attraverso il quale mutazioni spontanee entro tutti i tessuti corporei diventano più frequenti, oppure sostanze cancerogene sono metabolizzate in maniera meno efficiente. Nella Tabella e3.2 sono presentati alcuni esempi di neoplasie che riconoscono una predisposizione genetica ereditaria e che si associano a sindromi tumorali familiari. Tab. e3.2. Esempi scelti di sindromi tumorali familiari. Sindrome Cancro familiare della mammella Poliposi adenomatosa familiare Cancro del colon familiare non poliposico Sindrome di Li-Fraumeni Cancro familiare della prostata Neoplasie endocrine multiple di tipo 1 Neoplasie endocrine multiple di tipo 2 Melanoma familiare Retinoblastoma familiare Neurofibromatosi di tipo 1 Neurofibromatosi di tipo 2 Malattia di von Hippel-Lindau Sindrome di Gorlin Sindrome di Cowden Gene BRCA1, BRCA2 APC, MYH hMSH2, hMLH1, hMSH6 TP53,CHECK2, LFS3 Loci multipli MEN1 RET CDKN2Ap16, CDK4 RB1 NF1 NF2 VHL PTCH PTEN Da: Offit K. et al.: Genetic factors: hereditary cancer predisposition sindrome. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1, p. 172; modificata. Un significativo progresso nella comprensione del concetto di gene oncosoppressore si deve agli studi sulla base genetica del retinoblastoma. Esistono due forme di questa neoplasia: il retinoblastoma familiare e quello sporadico. Le caratteristiche distintive del retinoblastoma familiare sono l’età di insorgenza assai precoce (spesso la diagnosi avviene nel primo anno di vita) e il numero di tumori (generalmente sono interessati più punti di uno stesso occhio oppure entrambi gli occhi). L’analisi dei casi di bambini con retinoblastoma monolaterale o bilaterale ha consentito ad Alfred Knudson di formulare l’ipotesi dei “due colpi”, secondo la quale è necessario che, in una linea di cellule retiniche, si verifichino due distinti eventi mutazionali per avere lo sviluppo del retinoblastoma. Nei casi familiari della neoplasia, un evento è ereditato come una mutazione nella linea germinale, mentre il secondo evento è acquisito precocemente nel corso della vita. Al contrario, il retinoblastoma sporadico si sviluppa solo quando due eventi mutazionali indipendenti avvengono nella stessa linea cellulare somatica. Si tratta di un’eventualità molto più rara della precedente e questo spiega sia l’insorgenza più tardiva delle forme sporadiche sia la loro monolateralità. Adesso si sa che l’ipotesi dei “due colpi” corrisponde, a livello molecolare, alla perdita dei due alleli del gene oncosoppressore RB, con conseguente assenza della pRB nella neoplasia. Il modello di Knudson si applica soprattutto a neoplasie che originano dalla perdita di funzione di geni oncosoppressori, condizione per la quale l’inattivazione di entrambi gli alleli è essenziale prima che i livelli cellulari dello specifico prodotto 12 genico diminuiscano in misura sufficiente per indurre la trasformazione maligna. Gli oncogeni, invece, si comportano in maniera dominante e una mutazione entro un singolo allele può essere sufficiente per lo sviluppo neoplastico. Una condizione di eterozigosi a livello del locus di un oncogene può determinare un fenotipo premaligno (come nel caso dei polipi del colon), suscettibile di trasformazione maligna allorquando il secondo allele sia colpito da mutazione. Metabolismo della cellula tumorale Le cellule tumorali hanno un metabolismo notevolmente diverso da quello dei tessuti dai quali hanno origine. Il metabolismo alterato consente loro di sostenere tassi di proliferazione più elevati e di resistere ad alcuni segnali di morte cellulare, in particolare a quelli mediati da aumentato danno ossidativo. Questo significa che le cellule tumorali sono più avide di nutrienti ed espellono più rifiuti dei tessuti normali, con conseguente incremento di metaboliti intracellulari e formazione di un ambiente esterno più ostile. Per dividersi, una cellula deve sia aumentare le dimensioni sia replicare il DNA, processi che sono estremamente esigenti sotto il profilo metabolico, richiedendo grandi quantità di proteine, lipidi, nucleotidi e di energia sotto forma di ATP. Le alterazioni e gli adattamenti metabolici delle cellule tumorali creano un fenotipo che è essenziale per la loro crescita e sopravvivenza, alterando il flusso lungo vie metaboliche chiave come la glicolisi e la glutaminolisi. Alcuni dei meccanismi utilizzati dalle neoplasie per indurre tali mutamenti comprendono l’alterata espressione, la mutazione e l’inattivazione post-traduzionale di un enzima oppure la selezione di una diversa isoforma enzimatica. La glicolisi è il processo metabolico che converte il glucosio intracellulare in acido piruvico, generando anche ATP e NADH. Il destino dell’acido piruvico dipende da molti fattori, tra i quali la disponibilità di ossigeno è uno dei più importanti. L’acido piruvico è ridotto ad acido lattico in condizioni anaerobiche, mentre, in presenza di ossigeno, il mitocondrio può ossidare completamente l’acido piruvico e il NADH prodotti dalla glicolisi, ottenendo una produzione maggiore di ATP attraverso la fosforilazione ossidativa. Si ritiene, in generale, che le cellule normali in attiva proliferazione abbiano elevati tassi di glicolisi a causa del fabbisogno di prodotti intermedi derivati dal glucosio. Le vie anaboliche che si diramano dalla glicolisi sono responsabili della produzione di aminoacidi, come pure di precursori di lipidi e nucleotidi. Quando il flusso attraverso queste vie anaboliche è aumentato, la glicolisi e quindi la captazione di glucosio devono aumentare per mantenere livelli normali di ATP (attraverso sia la glicolisi sia la fosforilazione ossidativa). La prima alterazione specifica della neoplasia, ossia un metabolismo alterato, fu scoperta da Otto Warburg negli anni Venti del secolo scorso. Nei tessuti normali, la maggior parte dell’acido piruvico, derivante dall’ossidazione del glucosio nella glicolisi, è diretta nei mitocondri. In un ambiente anaerobico, l’acido piruvico è invece reindirizzato nel citosol per la produzione di acido lattico, in conseguenza della diminuita ossidazione di NADH da parte dei mitocondri. Le cellule tumorali conservano la capacità di aumentare la captazione di glucosio in condizioni anaerobiche, ma mostrano un’aumentata captazione dello zucchero in presenza di ossigeno (glicolisi aerobica). A differenza di quanto avviene nei tessuti normali, una sostanziale quantità dell’acido piruvico prodotto viene ridotta ad acido lattico anziché essere indirizzata nel mitocondrio (effetto Warburg). Sebbene l’effetto Warburg non sia universalmente applicabile a tutte le neoplasie, l’aumentata captazione di glucosio è sufficientemente comune da poter essere sfruttata in clinica, a fini diagnostici, utilizzando il 2-(18F)fluoro-2-deossi-D-glucosio nella tomografia a emissione di positroni (FDG-PET). Esistono diversi motivi che spiegano perché un’aumentata captazione del glucosio per la generazione di ATP o per reazioni anaboliche costituisca un vantaggio per la crescita tumorale (Box e3.2). In sintesi, nella neoplasia ha luogo una riprogrammazione dell’intero metabolismo cellulare per aumentare le reazioni anaboliche legate alla crescita e alla proliferazione cellulare. I meccanismi molecolari che sono alla base della riprogrammazione metabolica delle cellule tumorali sono complessi. Alterazioni metaboliche possono essere guidate da mutamenti in vie di segnale che coinvolgono chinasi, quali 13 PI3K (PhosphatidylInositol 3-Kinase) e mTOR (mammalian Target Of Rapamycin), e fattori di trascrizione, compresi HIF (Hypoxia Inducible Factor) e MYC. Box e3.2. Riprogrammazione metabolica: vantaggi per la cellula tumorale • • • • In condizioni di glicolisi aerobica, le cellule possono vivere in presenza di una tensione di ossigeno fluttuante (a causa dell’instabile emodinamica di vasi sanguigni distanti), che sarebbe letale per cellule che si affidano alla fosforilazione ossidativa per generare ATP. Le cellule tumorali generano acidi bicarbonico e lattico, che condizionano l’ambiente, favoriscono l’invasività tumorale e sopprimono le cellule effettrici immuni antitumorali. L’acido lattico prodotto dalle cellule tumorali può essere captato dalle cellule stromali per rigenerare il piruvato, che può essere estruso per rifornire la cellula tumorale oppure può essere usato per la fosforilazione ossidativa. Questo adattamento genera un microsistema nel quale cellule tumorali e cellule stromali si impegnano in vie metaboliche complementari, tamponando e riciclando, pertanto, prodotti del metabolismo anaerobico per sostenere la sopravvivenza e la crescita delle cellule tumorali. Le neoplasie possono metabolizzare il glucosio attraverso la via del pentoso fosfato per generare NADPH, che assicura le difese antiossidanti della cellula contro un microambiente ostile e gli agenti chemioterapici. Infine, l’aspetto più importante è che le cellule tumorali utilizzano prodotti intermedi della glicolisi per reazioni anaboliche responsabili della sintesi di aminoacidi, acidi nucleici e lipidi. Interazioni tra neoplasia e ospite La maggior parte dei carcinomi umani è composta da cellule epiteliali tumorali che coesistono con una varietà di componenti dell’ECM e di tipi cellulari, in particolare fibroblasti, miofibroblasti, adipociti, cellule endoteliali, periciti e cellule del sistema immunitario, che collettivamente formano lo stroma tumorale. La ricerca di base ha dimostrato i contributi essenziali dei componenti lo stroma alla crescita, alla sopravvivenza, all’invasività e alla capacità metastatica delle cellule epiteliali tumorali. Dal punto di vista storico, l’evidenza più ovvia del ruolo di supporto svolto dallo stroma è venuta dagli studi sull’angiogenesi tumorale, nella quale il rilascio di segnali proangiogenici da parte delle cellule tumorali consente di reclutare le cellule endoteliali nella massa neoplastica, dando luogo alla neovascolarizzazione tumorale. Le cellule infiammatorie, compresi i linfociti, un tempo ritenute capaci solo di attenuare lo sviluppo tumorale, giocano chiaramente un ruolo nel promuovere la formazione e la progressione maligna di molti tipi di carcinoma. Fibroblasti e miofibroblasti, le cellule mesenchimali più abbondanti entro la maggior parte dei carcinomi, promuovono la progressione tumorale in modelli sperimentali e sono presenti nell’entità istopatologica denominata risposta desmoplastica. Lo stroma desmoplastico è quasi sempre osservato nei carcinomi umani maligni ed è utilizzato dal patologo come un parametro diagnostico a causa della sua associazione con invasività e prognosi sfavorevole. Oltre al contributo fornito dai tipi cellulari dello stroma, si ritiene che l’ECM, prodotta dalle cellule mesenchimali, regoli la crescita e la motilità delle cellule di carcinoma. Diverse scoperte hanno messo in evidenza il ruolo critico svolto dai segnali paracrini che intercorrono tra la neoplasia e le cellule dell’ospite nel microambiente locale. Tali interazioni sono mediate da un ampio numero di citochine, chemochine e fattori di crescita, che si è scoperto 14 essere promotori della progressione neoplastica. Nei paragrafi successivi sono analizzate in maggiore dettaglio le interazioni tra la neoplasia e l’ospite. Regolazione immune della neoplasia Infiammazione e neoplasia Le principali caratteristiche del fenotipo maligno, quali l’invasività locale attraverso le naturali barriere tissutali e la colonizzazione metastatica a distanza, si associano a un sovvertimento della normale architettura tissutale, che ha tra le sue conseguenze più importanti l’elaborazione di segnali proinfiammatori. Tali segnali, generalmente nella forma di citochine e chemochine, possono iniziare risposte immuni. È ora noto che ciascuno stadio dello sviluppo neoplastico è suscettibile di regolazione da parte di cellule del sistema immunitario innato e adattativo (Box e3.3). Nell’infiammazione acuta, le cellule del sistema immunitario innato formano la prima linea di difesa e regolano l’attivazione delle risposte immuni adattative. Al contrario, nell’infiammazione cronica, i ruoli possono essere invertiti: risposte immuni adattative possono causare un’eccessiva attivazione delle cellule immuni innate. La completa attivazione del sistema adattativo in risposta alla neoplasia è potenzialmente in grado di distruggere le cellule tumorali, ma l’attivazione cronica di vari tipi di cellule del sistema innato, che sono presenti entro o intorno ai tessuti premaligni, può invece promuovere lo sviluppo neoplastico (Tab. e3.3). 15 Box e3.3. Meccanismi con i quali le cellule del sistema immunitario regolano lo sviluppo neoplastico Meccanismi con i quali le cellule del sistema innato contribuiscono alla neoplasia1 Meccanismi diretti: • • induzione di danno del DNA mediante la generazione di radicali liberi; regolazione paracrina di vie intracellulari (attraverso il fattore di trascrizione NF-kB, un mediatore chiave della cancerogenesi indotta dall’infiammazione). Meccanismi indiretti: • • • promozione dell’angiogenesi e del rimodellamento tissutale attraverso la produzione di fattori di crescita, citochine, chemochine e metalloproteinasi della matrice; sovraregolazione dell’enzima ciclo-ossigenasi-2; soppressione delle risposte immuni adattative antitumorali. Meccanismi con i quali le cellule del sistema adattativo modulano la neoplasia Meccanismi diretti: • • • • • 1 inibizione della crescita tumorale mediante l’attività antitumorale di linfociti T citotossici; inibizione della crescita tumorale mediante lisi cellulare mediata da citochine. Meccanismi indiretti: promozione della crescita tumorale da parte di linfociti T regolatori che sopprimono le risposte antitumorali delle cellule T; promozione dello sviluppo tumorale da parte di risposte immuni umorali che aumentano l’infiammazione cronica nel microambiente tumorale. In particolare, macrofagi associati al tumore, mastociti e granulociti. Da: Visser K.E. et al.: Paradoxical roles of the immune system during cancer development. Nature Rev. Cancer 6: 24-37, 2006; modificato. 16 Tab. e3.3. Ruolo di differenti tipi di cellule immuni e infiammatorie nell’immunità antitumorale e nell’infiammazione protumorale. Tipo cellulare Macrofagi, cellule dendritiche, cellule soppressive mieloidi Mastociti Neutrofili Cellule NK Linfociti B Linfociti T CD8+ Linfociti Th2 CD4+ Linfociti Th1 CD4+ Linfociti Th17 CD4+ Linfociti Treg CD4+ Linfociti T NK Effetto antitumorale Presentazione dell’antigene; produzione di citochine (IL-12 e IFN tipo 1) Effetto pro-tumorale Immunosoppressione; produzione di citochine, chemochine, proteasi, fattori di crescita e fattori angiogenici Produzione di citochine Produzione di citochine, proteasi e ROS Citotossicità diretta; regolazione delle risposte CTL Citotossicità diretta contro cellule tumorali; produzione di citochine citotossiche Produzione di anticorpi tumore- Produzione di citochine e specifici (?) anticorpi; attivazione di mastociti; soppressione immunitaria Produzione di citochine (?) Lisi diretta di cellule tumorali; produzione di citochine citotossiche Istruzione di macrofagi; produzione di citochine; attivazione di cellule B Sostegno ai CTL nel rigetto Produzione di citochine tumorale; produzione di citochine (IFN-γ) Attivazione di CTL Produzione di citochine Soppressione dell'infiammazione (citochine e altri meccanismi soppressivi) Citotossicità diretta contro cellule tumorali; produzione di citochine citotossiche Soppressione immunitaria; produzione di citochine CTL: linfociti T citotossici; IFN: interferone; IL: interleuchina; NK: cellule natural killer; ROS: specie reattive dell’ossigeno; Th: linfociti T-helper: Treg: linfociti T regolatori. Da: Grivennikov S.I. et al.: Immunity, inflammation, and cancer. Cell 2010; 140: 883-899, 2010; modificata. L’infiltrato leucocitario presente nelle neoplasie, identificato per la prima volta da Rudolf Virchow nel XIX secolo, ha rappresentato l’indizio iniziale del legame tra infiammazione e neoplasia. Gli attuali dati epidemiologici dimostrano una stretta connessione tra infiammazione cronica e sviluppo della neoplasia (Tab. e3.4). Inoltre le evidenze accumulatesi suggeriscono che un microambiente infiammatorio rappresenti una componente essenziale delle neoplasie (Box e3.4). 17 Tab. e3.4. Aumento del rischio di neoplasia per infiammazione o infezione cronica. Patologia Autoinfiammatoria • Malattia di Crohn • Rettocolite ulcerosa • Pancreatite cronica Tipo di neoplasia Rischio aumentato Neoplasia colon 3 Neoplasia colon 6 Neoplasia pancreas 2-50 • Endometriosi Neoplasia endometrio 1,4 • Emocromatosi Neoplasia fegato 219 • Tiroidite Neoplasia tiroide 3 • Deficit di α1-antitripsina Neoplasia fegato 20 Virale • Epatite B • Epatite C • Epstein-Barr Batterica Neoplasia fegato Neoplasia fegato Linfoma 88 30 4 • Helicobacter pylori Neoplasia stomaco 11 • Malattia infiammatoria pelvica Neoplasia ovaio 3 • Prostatite cronica Parassitaria • Schistosoma haematobium Neoplasia prostata 2-3 Neoplasia vescica 2-14 • Neoplasia colon 2-6 Clonorchis sinensis, Fasciola hepatica, Opisthorchis Chimica/fisica/metabolica Neoplasia vie biliari e fegato 14 • Alcol Multiple neoplasie (compresi fegato, pancreas, testa-collo) 2-7 • Asbesto Mesotelioma • Obesità Multiple neoplasie > 10 1,3-6,5 • Fumo di tabacco e inalazione di altre sostanze nocive Neoplasia polmone (e molte altre) > 10 • Reflusso gastroesofageo, esofago di Barrett Neoplasia esofago 50-100 Schistosoma japonicum • Da: Schetter A.J. et al.: Inflammation and cancer: interweaving microRNA, free radical, cytokine and p53 pathways. Carcinogenesis 31: 37-49, 2010; modificata. 18 Box e3.4. Infiammazione e neoplasia: elementi basilari • • • • • • • L’infiammazione cronica aumenta il rischio di neoplasia. L’infiammazione subclinica, spesso non rilevabile, può essere importante nell’aumentare il rischio di neoplasia (per es. l’infiammazione indotta dall’obesità). Vari tipi di cellule immunitarie e infiammatorie sono frequentemente presenti entro le neoplasie. Le cellule immunitarie influenzano le cellule tumorali attraverso la produzione di citochine, chemochine, fattori di crescita, prostaglandine e specie reattive di ossigeno e azoto. L’infiammazione ha impatto su ogni singola fase dello sviluppo neoplastico, dall’iniziazione e, attraverso la promozione tumorale, fino alla progressione metastatica. Durante lo sviluppo neoplastico coesistono meccanismi immuni e infiammatori antitumorali e protumorali, ma domina l’effetto protumorale se la neoplasia non è eliminata. Alcuni componenti del sistema immunitario e dell’infiammazione possono non essere indispensabili durante uno stadio della tumorigenesi, ma assolutamente critici in un altro. (Da: Grivennikov S.I. et al.: Immunity, inflammation, and cancer. Cell 140: 883-899, 2010; modificato.) Esistono diversi tipi di infiammazione, distinti per causa, meccanismo, esito e intensità, che possono promuovere lo sviluppo e la progressione neoplastica (Fig. e3.2). La risposta infiammatoria attivata da un’infezione è una componente normale delle difese dell’ospite volte all’eliminazione dell’agente patogeno. Tuttavia, microrganismi oncogeni sovvertono l’immunità dell’ospite e stabiliscono infezioni persistenti associate a uno stato infiammatorio di basso grado, ma cronico. Per esempio, il batterio Helicobacter pylori causa una gastrite cronica, mentre l’infezione da virus dell’epatite B (HBV) o C (HCV) si associa a epatite cronica. Un altro tipo di infiammazione cronica, che precede lo sviluppo tumorale, è quella causata dalla predisposizione genetica alla base di un’alterata regolazione immunitaria e dell’autoimmunità. Un esempio è rappresentato dalla malattia di Crohn e dalla rettocolite ulcerosa, due malattie infiammatorie intestinali che aumentano fortemente il rischio di carcinoma colo-rettale. Uno stato infiammatorio cronico può anche essere indotto da agenti ambientali: il particolato del fumo di tabacco e altre sostanze irritanti possono precipitare una broncopneumopatia cronica ostruttiva, che si associa a un aumentato rischio di neoplasia polmonare. Un tipo diverso di infiammazione è quello che segue lo sviluppo tumorale: la maggior parte delle neoplasie solide attiva una risposta infiammatoria intrinseca che determina un microambiente protumorale. Oltre a causare la proliferazione cellulare autonoma, certi oncogeni, quali i membri delle famiglie RAS e MYC, inducono un programma trascrizionale che determina il rimodellamento del microambiente tumorale attraverso il reclutamento di leucociti, l’espressione di chemochine e citochine protumorali e l’induzione dell’angiogenesi. Durante il loro sviluppo, le neoplasie solide vanno incontro a un insufficiente apporto di ossigeno e nutrienti, che determina la necrosi della parte centrale della massa neoplastica e il rilascio di mediatori proinfiammatori. La conseguente risposta infiammatoria promuove l’angiogenesi e fornisce alle cellule tumorali sopravvissute ulteriori fattori di crescita, che sono rilasciati dalle cellule infiammatorie e immuni appena reclutate. Infine, una spiccata risposta infiammatoria associata alla neoplasia può essere iniziata dalla terapia antitumorale. Radioterapia e chemioterapia causano una necrosi massiva di cellule tumorali e dei tessuti circostanti, la quale attiva una reazione infiammatoria analoga a quella associata alla guarigione delle ferite. Il risultato netto dell’infiammazione indotta dalla terapia è controverso: da un lato può avere effetti protumorali, come nel caso della necrosi che accompagna le neoplasie a rapida crescita, ma, dall’altro, 19 può aumentare la presentazione di antigeni tumorali e la successiva induzione di una risposta immune specifica. Fig. e3.2. Tipi di infiammazione nello sviluppo della neoplasia. L’infiammazione cronica associata a infezioni o patologie autoimmuni precede lo sviluppo della neoplasia e può contribuire a esso attraverso l’induzione di mutazioni oncogene, instabilità genomica, promozione tumorale e aumentata angiogenesi. Una prolungata esposizione ad agenti irritanti ambientali oppure l’obesità possono causare infiammazione cronica di basso grado, che precede lo sviluppo della neoplasia e vi contribuisce attraverso i meccanismi già menzionati. L’infiammazione associata al tumore procede di pari passo con lo sviluppo della neoplasia: La risposta infiammatoria può aumentare l’angiogenesi, promuovere la progressione neoplastica e la disseminazione metastatica, causare una soppressione immunitaria locale e aumentare ulteriormente l’instabilità genomica. La terapia antitumorale può anche attivare una risposta infiammatoria attraverso l’induzione di trauma, necrosi e danno tissutale, che stimolano la ricrescita tumorale e la resistenza al trattamento. Comunque, in alcuni casi, l’infiammazione associata alla terapia antitumorale può aumentare la presentazione dell’antigene, portando all’eliminazione immunomediata del tumore. Nella figura i meccanismi protumorali sono in rosso, mentre quelli antitumorali sono in blu. (Da: Grivennikov S.I. et al.: Immunity, inflammation, and cancer. Cell 140: 883-899, 2010; modificata.) In diretta conseguenza dei diversi tipi di infiammazione, il microambiente tumorale comprende cellule del sistema immunitario innato (macrofagi, neutrofili, mastociti, cellule soppressive mieloidi, cellule dendritiche e cellule natural killer) e adattativo (linfociti T e B), oltre che cellule stromali. I diversi tipi cellulari comunicano tra loro mediante contatto diretto o rilascio di citochine e chemochine e agiscono, in maniera autocrina e paracrina, per controllare e modellare la crescita neoplastica. Le citochine, mediatori chiave dell’infiammazione o della risposta immune, sono molecole di segnale con un’ampia varietà di funzioni cellulari, il rilascio delle quali è stimolato quando l’omeostasi tissutale è alterata. Le citochine possono essere classificate in proinfiammatorie – comprendenti interleuchina (IL)-1, IL-6, IL-15, IL-17, IL-23, e TNF-α – o antinfiammatorie – comprendenti IL-4, IL-10, IL-13, TGF-β e interferone (IFN)-α. Sulla base del bilancio netto delle citochine, l’effetto finale può essere pro- o antitumorale. Una volta legate al loro recettore di membrana, le citochine attivano vie di trasduzione del segnale che portano ad apoptosi, proliferazione cellulare, angiogenesi e 20 senescenza cellulare. In generale, si ritiene che l’esposizione costitutiva a livelli elevati di citochine proinfiammatorie abbia un effetto favorevole allo sviluppo tumorale. Le chemochine, un sottogruppo di citochine che reclutano leucociti nelle sedi di infiammazione mediante chemiotassi, sono rilasciate da vari tipi cellulari stimolati da citochine proinfiammatorie. Le neoplasie presentano livelli elevati di espressione di chemochine responsabili del reclutamento di leucociti nella massa tumorale. Le cellule immuni più frequenti nel microambiente tumorale sono i macrofagi associati ai tumori (Tumor-Associated Macrophages, TAM) e i linfociti T. I macrofagi sono la fonte primaria di citochine proinfiammatorie e, in generale, possono essere categorizzati in tipo 1 (M1) o 2 (M2). Gli M1 secernono citochine come l’IL-12 e possono avere un effetto inibitorio sulla crescita neoplastica. Al contrario, gli M2 rilasciano citochine immunosoppressive e promuovono la crescita neoplastica. I TAM hanno generalmente un fenotipo M2 e la loro presenza nella neoplasia è un fattore predittivo indipendente di prognosi sfavorevole. I TAM secernono: (1) proteasi che aumentano invasività e capacità metastatica; (2) citochine che possono inibire la risposta immune adattativa antitumorale; (3) fattori angiogenici che aumentano la neovascolarizzazione. Sulla base delle funzioni effettrici, i linfociti T maturi possono essere classificati in cellule T citotossiche CD8+ (CTL) e cellule T helper (Th) CD4+. Modelli sperimentali hanno dimostrato che l’eliminazione in vivo delle neoplasie è mediata, principalmente, dall’azione specifica dei CTL. Negli ultimi anni, è cresciuta la consapevolezza del ruolo importante svolto dai linfociti Th nell’aumentare o limitare le risposte dei CTL. I linfociti Th manifestano diversi fenotipi: (1) cellule Th1 che secernono citochine quali IFN-γ, TNF-α e IL-2 e supportano i CTL; (2) cellule Th2 che rilasciano citochine quali IL-10, IL-4 e IL-5 e limitano la proliferazione dei CTL; (3) cellule Th17 che secernono IL-17 e sono operative in patologie autoimmuni; (4) linfociti T regolatori (Treg) che secernono IL-10 e TGF-β e attenuano le risposte immuni. Analogamente ai TAM, le funzioni protumorali dei linfociti T sono mediate da citochine, mentre le funzioni antitumorali sono mediate sia da citochine sia da meccanismi citotossici. Sorveglianza immunitaria Il sistema immunitario ha tre ruoli principali nella prevenzione dei tumori: • • • protezione dell’ospite da neoplasie indotte da virus mediante l’eliminazione o la soppressione di infezioni virali; eliminazione di agenti patogeni e rapida risoluzione della risposta infiammatoria per impedire l’instaurarsi di un ambiente infiammatorio favorevole allo sviluppo tumorale; riconoscimento ed eliminazione di cellule tumorali. Il sistema immunitario può reagire alla presenza di cellule tumorali in due modi: mediante una risposta diretta contro antigeni tumore-specifici (Tumor-Specific Antigens, TSA), cioè proteine caratteristiche delle cellule tumorali, oppure contro antigeni tumore-associati (Tumor-Associated Antigens, TAA), cioè proteine espresse in maniera differenziale dalle cellule tumorali a confronto di quelle normali. L’instabilità genomica fa sì che le cellule tumorali producano proteine anomale o iperesprimano proteine normalmente presenti a bassi livelli. Multipli piccoli peptidi possono essere prodotti a partire da una proteina, permettendo a differenti epitopi o TAA di essere presentati alla superficie della cellula tumorale, nel contesto di molecole del complesso maggiore di istocompatibilità. I TSA sono rari, potendo derivare da proteine con mutazioni puntiformi, alterata modificazione post-traduzionale oppure da proteine di fusione generate da traslocazioni cromosomiche (per es. K-ras mutata, p53 mutata, proteina BCR/abl). Molti TAA identificati nelle neoplasie comuni derivano da proteine non mutate ma con alterata espressione che può renderle immunogeniche; esempi sono Mucine 1 (MUC1), HER2, Melanoma Antigen A3 (MAGE A3), CarcinoEmbryonic Antigen (CEA), Prostate-Specific Antigen (PSA), tirosinasi e gp100. L’espressione di TAA, l’induzione di proteine associate a stress cellulare e la produzione di citochine 21 proinfiammatorie da parte delle cellule tumorali rappresentano, globalmente, sia anomalie antigeniche sia un “segnale di pericolo” per il sistema immunitario dell’ospite. Di recente, l’evasione dalla sorveglianza immunitaria è stata proposta quale settima proprietà essenziale della neoplasia. La teoria della sorveglianza immunitaria ipotizza che il sistema immunitario riconosca le cellule tumorali e/o pretumorali come agenti estranei e le elimini prima che diano luogo a lesioni clinicamente rilevabili. Tuttavia, l’insorgenza di neoplasie, nonostante un sistema immunitario funzionante, indica che le cellule tumorali possono evadere dalla sorveglianza immunitaria mediante selezione immunomediata (selezione di varianti cellulari non immunogeniche, un processo noto anche come immunoediting) oppure attraverso il sovvertimento della risposta immune (soppressione attiva della risposta immune). Studi recenti hanno elucidato i legami esistenti tra meccanismi estrinseci (immunomediati) e intrinseci alla cellula tumorale che, rappresentando delle barriere allo sviluppo neoplastico, devono essere sovvertiti per permettere alla neoplasia di crescere (Fig. e3.3). Fig. e3.3. Relazione tra aspetti intrinseci ed estrinseci alla cellula tumorale nella progressione neoplastica. La figura illustra il concetto centrale per cui il processo a più fasi della cancerogenesi deriva da un crosstalk tra i fattori intrinseci alla cellula neoplastica e gli effetti del sistema immunitario dell’ospite (fattori estrinseci). (Da: Zitvogel L. et al.: Cancer despite immunosurveillance: immunoselection and immunosubversion. Nature Rev. Immunol. 6: 715-727, 2006; modificata.) La recente ipotesi dell’immunoediting fornisce una chiave interpretativa più esauriente del ruolo del sistema immunitario nello sviluppo neoplastico. Essa si fonda sul concetto che la limitazione della crescita tumorale da parte del sistema immunitario determini una pressione selettiva in favore di cellule portatrici di mutamenti genetici che favoriscano l’evasione dalla sorveglianza immunitaria. In tale modello, il sistema immunitario ha il duplice effetto di proteggere l’ospite e di modulare l’immunogenicità della neoplasia. Il processo di immunoediting può avere tre diversi esiti per la neoplasia: eliminazione, equilibrio ed evasione. La fase di eliminazione è equivalente all’ipotesi originale della sorveglianza immunitaria: le cellule tumorali che hanno superato le barriere cellulari intrinseche alla crescita neoplastica sono riconosciute ed eliminate. La fase di eliminazione può essere completa, con la distruzione di tutte le cellule tumorali, oppure incompleta. In quest’ultimo caso, la teoria dell’immunoediting ipotizza l’instaurarsi di una temporanea condizione di equilibrio tra il sistema immunitario e la neoplasia incipiente. Durante tale fase, l’eliminazione delle cellule tumorali prosegue, ma il processo determina la selezione di varianti cellulari capaci di resistere, evitare o sopprimere la risposta immune antitumorale. La fase di equilibrio potrebbe durare molti anni. Osservazioni cliniche relative a lunghi periodi intercorrenti tra il trattamento della neoplasia primitiva e la ricaduta oppure a pazienti liberi da malattia clinicamente rilevabile nonostante la presenza di malattia micrometastatica, suggeriscono uno stato di quiescenza tumorale. Durante la fase di evasione, 22 l’equilibrio tra controllo immunitario e progressione tumorale si sposta in favore di quest’ultima. Le neoplasie possono evadere dalla sorveglianza immunitaria mediante differenti strategie che, in generale, comportano una ridotta immunogenicità, una resistenza alla citotossicità immunomediata oppure una soppressione attiva della risposta immune. Le neoplasie possono sopprimere l’immunità sia a livello sistemico sia nel microambiente tumorale. Oltre alla produzione locale di molecole immunosoppressive quali il TGF-β e il ligando solubile di FAS, molte neoplasie umane producono l’enzima immunosoppressivo indolamina-2,3-diossigenasi. Il microambiente tumorale può essere dominato dalla presenza di cellule Treg, che sopprimono le cellule T effettrici antitumorali mediante il rilascio delle citochine immunosoppressive TGF-β e IL-10. Un numero elevato di questo tipo di linfociti può essere riscontrato nel carcinoma polmonare non microcitoma e in quello ovarico. Gli effetti immunosoppressivi della neoplasia possono anche essere sistemici: un aumento delle cellule Treg è stato riscontrato nel sangue periferico di pazienti con neoplasie del distretto testa-collo o con melanoma. Pazienti con neoplasie del colon-retto o del pancreas presentano un numero aumentato di granulociti attivati e di cellule soppressive mieloidi. Entrambi questi tipi cellulari sono in grado di sopprimere le cellule T tumore-specifiche in modelli animali. Interazioni ormonali Le neoplasie che insorgono in tessuti ormono-sensibili, quali la mammella e la prostata, sono tra quelle a maggiore incidenza nei Paesi industrializzati. Fattori dell’ospite quali lo stile di vita, la costituzione corporea e i livelli ormonali endogeni, oltre a giocare un ruolo eziologico, rappresentano dei fattori di rischio per lo sviluppo delle neoplasie ormono-sensibili. Gli ormoni sessuali (estrogeni, androgeni e progestinici) influenzano anche la progressione della malattia, in quanto un trattamento endocrino ablativo, che utilizzi degli inibitori specifici per modificare i livelli ormonali endogeni del paziente, può indurre un notevole beneficio clinico. Nel sesso maschile e nelle donne in premenopausa, le gonadi sono la fonte principale degli steroidi sessuali circolanti. Il testosterone e l’androstenedione sono i principali androgeni ed essi sono convertiti, rispettivamente, in estradiolo ed estrone in una reazione (aromatizzazione) catalizzata dall’enzima aromatasi. Tale enzima è presente, in concentrazioni elevate, nelle cellule della granulosa ovarica e nelle cellule di Leydig del testicolo, dove è responsabile di una piccola quota di aromatizzazione. Nelle gonadi l’attività dell’aromatasi è regolata mediante un controllo a feedback dei livelli circolanti dell’ormone follicolo-stimolante. L’aromatasi è presente, in concentrazioni più basse, anche nei tessuti periferici, quali la mammella, il tessuto adiposo, l’encefalo e il tessuto muscolare, sia degli uomini sia delle donne, dove la sua attività è regolata da altri fattori compresi l’AMP ciclico, i glucocorticoidi e la prostaglandina E2. Nelle donne, dopo la cessazione della produzione ovarica di estrogeni con la menopausa, la conversione degli androgeni surrenalici plasmatici in estrogeni ha luogo nei tessuti periferici. Da questo punto di vista, il ruolo prominente del grasso sottocutaneo è evidenziato dalla relazione che i livelli di aromatizzazione periferica e di estrogeni plasmatici presentano con l’indice di massa corporea. Gli steroidi sessuali plasmatici sono pressoché interamente legati a proteine, ma la frazione libera (ossia non legata), che ammonta a meno del 5% del totale, può attraversare la membrana plasmatica. Gli effetti biologici degli steroidi sessuali sono mediati da recettori affini, che agiscono come fattori di trascrizione nel nucleo delle cellule dei tessuti sensibili a tali ormoni. Sono note due isoforme del recettore per gli estrogeni (Estrogen Receptor, ER), α e β, ciascuna codificata da geni distinti. Sebbene l’ERα corrisponda alla forma tradizionale del recettore determinata sui campioni clinici di neoplasia mammaria, le due isoforme hanno, essenzialmente, affinità 23 differenti per certi ligandi, ma l’estradiolo, il principale estrogeno da un punto di vista biologico, rimane un ligando ad alta affinità per entrambe (Fig. e3.4). Il recettore per gli androgeni (Androgen Receptor, AR) è attivato dal legame del testosterone o del 5αdiidrotestosterone (Fig. e3.5). Sebbene ER e AR siano più sensibili ai ligandi ad alta affinità, quando la concentrazione dell’ormone principale è scarsa, il legame di steroidi alternativi con affinità più bassa può ugualmente innescare la trascrizione, contribuendo, in tal modo, alla progressione della malattia. Il legame del ligando al recettore determina mutamenti conformazionali, la dissociazione da proteine heat shock, la fosforilazione e la dimerizzazione. I dimeri recettoriali reclutano molecole coregolatrici e si legano agli elementi di risposta nella regione del promotore dei geni bersaglio, determinando l’attivazione della trascrizione (Fig. e3.6). L’espressione delle molecole coregolatrici sembra essere un determinante significativo della sensibilità tumorale alla stimolazione da parte degli ormoni steroidei. Attraverso questo meccanismo molecolare, gli steroidi sessuali facilitano mutamenti trascrizionali in vie coinvolte nella promozione della proliferazione cellulare, nell’inibizione dell’apoptosi, nella stimolazione della metastatizzazione e nell’angiogenesi. Fig. e3.4. Meccanismo molecolare degli estrogeni a livello del tessuto bersaglio. Le trasformazioni dei vari steroidi sono necessarie per un’elevata affinità di legame al recettore (ER), ma l’attivazione dei pro-ormoni ha luogo in tessuti differenti dal loro bersaglio. (Da: Jordan V.C.: A century of deciphering the control mechanisms of sex steroid action in breast and prostate cancer: the origins of targeted therapy and chemoprevention. Cancer Res. 69: 1243-1254, 2009; modificata.) 24 Fig. e3.5. Meccanismo molecolare degli androgeni a livello del tessuto bersaglio. Le trasformazioni dei vari steroidi sono necessarie per un’elevata affinità di legame al recettore (AR), ma l’attivazione dei pro-ormoni ha luogo in tessuti differenti dal loro bersaglio. (Da: Jordan V.C.: A century of deciphering the control mechanisms of sex steroid action in breast and prostate cancer: the origins of targeted therapy and chemoprevention. Cancer Res. 69: 1243-1254, 2009; modificata.) Fig. e3.6. Rappresentazione schematica della modalità di azione dell’estradiolo. L’ormone (E) si lega con alta affinità al suo recettore (ER); il complesso E-ER omodimerizza e si localizza preferenzialmente nel nucleo della cellula. Gli omodimeri si legano al DNA a livello della sequenza ERE (elemento di risposta agli estrogeni) presenti nel promotore dei geni regolati dagli estrogeni. L’attivazione della trascrizione da parte di ER richiede l’interazione delle due funzioni di attivazioni della trascrizione AF1 (attività indipendente dall’ormone) e AF2 (attivata dal legame dell’ormone all’ER) del recettore con coattivatori e corepressori della trascrizione per stimolare o inibire l’attività della RNA polimerasi II (RNA POLII). (Da: Wakeling A.E.: Similarities and distinctions in the mode of action of different classes of antioestrogens. Endocr. Related Cancer 7: 17-28, 2000; modificata.) Angiogenesi Il processo dell’angiogenesi tumorale La dipendenza della crescita tumorale dallo sviluppo di nuovi vasi sanguigni (angiogenesi) è ormai un aspetto acquisito della biologia della neoplasia. L’angiogenesi è fondamentale per il rifornimento di ossigeno, nutrienti, fattori di crescita, ormoni e enzimi proteolitici; essa influenza anche la disseminazione a distanza delle cellule tumorali. L’angiogenesi è un processo altamente complesso e dinamico, regolato da una serie di molecole pro e antiangiogeniche. Nelle fasi iniziali la crescita di una neoplasia è alimentata dai vasi sanguigni limitrofi. Quando il fabbisogno tumorale di ossigeno e nutrienti supera la capacità di rifornimento locale, tipicamente prima che il tumore raggiunga un diametro di 1-2 mm, si instaura una condizione di ipossia nel microambiente, che porta all’attivazione dell’angiogenesi. Il processo patologico si basa su molti degli stessi eventi coinvolti nell’angiogenesi 25 fisiologica (riparazione di ferite, infiammazione, crescita endometriale durante il ciclo mestruale). Tuttavia, nel caso della neovascolarizzazione tumorale, la cascata angiogenica è persistente. Inoltre i vasi tumorali si distinguono dalla normale vascolarizzazione in quanto appaiono disorganizzati e tortuosi; i pori nelle pareti vasali sono sovradimensionati, contribuendo a generare uno stato di ipertensione del liquido interstiziale che limita il trasporto dei farmaci dai vasi verso le cellule tumorali. La capacità della neoplasia di indurre la formazione di nuovi vasi sanguigni è detta “switch angiogenico” e può verificarsi in differenti stadi della progressione tumorale, in relazione al tipo di neoplasia e all’ambiente. L’acquisizione del fenotipo angiogenico, considerato una delle proprietà essenziali della cellula tumorale, può derivare da mutazioni genetiche o da cambiamenti nell’ambiente locale che portano all’attivazione delle cellule endoteliali. La neoplasia attiva le cellule endoteliali attraverso la secrezione di fattori di crescita proangiogenici, che si legano a recettori presenti sulle vicine cellule endoteliali del rivestimento interno della parete vasale (Fig. e3.7). La stimolazione di tali cellule comporta l’aumento della vasodilatazione e della permeabilità vascolare, nonché il distacco delle cellule endoteliali dall’ECM e dalla membrana basale mediante la secrezione di proteasi, note come metalloproteinasi della matrice (MMP). Successivamente, le cellule endoteliali migrano e proliferano per dar luogo a nuove ramificazioni del preesistente albero vascolare. I fattori di crescita possono anche agire su cellule a distanza, determinando la migrazione verso la sede della neovascolarizzazione di precursori midollari delle cellule endoteliali e di cellule endoteliali circolanti. Fig. e3.7. Angiogenesi tumorale: attivazione di cellule endoteliali da parte di fattori di crescita. Le cellule tumorali secernono fattori di crescita proangiogenici, che si legano a recettori sulla superficie di cellule endoteliali quiescenti, causando vasodilatazione e aumento della permeabilità vasale. Le cellule endoteliali migrano e proliferano per formare nuove ramificazioni dalla rete vascolare preesistente, staccandosi dalla matrice extracellulare e dalla membrana basale. HIF-1α: Hypoxia Inducible Factor-1α; MAPK: Mitogen-Activated Protein Kinase; PI3K: PhosphoInositide 3-Kinase; VEGF: Vascular Endothelial Growth Factor. (Da: Cook K.M. et al.: Angiogenesis inhibitors: current strategies and future prospects. CA Cancer J. Clin. 60: 222-243, 2010; modificata.) I fattori di crescita proangiogenici possono essere iperespressi in conseguenza di alterazioni genetiche a carico di oncogeni e geni oncosoppressori, oppure in risposta a una ridotta disponibilità di ossigeno. L’espressione da parte della cellula tumorale di molti di tali fattori, compreso il Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF), è regolata dall’ipossia, che si determina entro la massa neoplastica, mediante il fattore di trascrizione HIF (Box e3.5). Mentre l’HIF è degradato in presenza di ossigeno, l’instaurarsi dell’ipossia causa la sua attivazione e la trascrizione di geni bersaglio. Diversi altri fattori di crescita e citochine possono contribuire all’aumento dell’espressione e dell’attività dell’HIF, quali il TNF-α, l’IL-1β, l’Epidermal Growth Factor (EGF) e l’Insulin-like Growth Factor-1 (IGF-1), che 26 sono responsabili di un aumentato segnale cellulare. Analogamente, oncogeni che causano aumentata espressione di fattori di crescita e iperattività di vie di segnale possono incrementare l’espressione e l’attività dell’HIF. Per esempio, l’oncogene RAS può contribuire all’angiogenesi tumorale stimolando l’espressione del VEGF attraverso un’aumentata attività dell’HIF. Anche gli oncogeni v-Src e HER2, come pure l’alterata regolazione delle vie di segnale della PI3K e della Mitogen-Activated ProteinKinase (MAPK), risultano in grado di sovraregolare l’espressione e l’attività trascrizionale dell’HIF. Box e3.5. HIF e angiogenesi tumorale L’HIF (Hypoxia Inducible Factor) è un fattore di trascrizione coinvolto nell’adattamento cellulare all’ipossia. L’attività trascrizionale dell’HIF è regolata dalla presenza dell’ossigeno e diventa attiva in condizioni di ipossia. L’HIF controlla un gran numero di geni coinvolti nell’angiogenesi. Il complesso attivo dell’HIF è composto di una subunità α e di una β oltre a coattivatori. La subunità HIF-β è una proteina nucleare costitutiva con ulteriori ruoli nella trascrizione non associata all’HIFα. Rispetto all’HIF-β, i livelli delle subunità HIF-α e la sua attività trascrizionale sono regolati dalla disponibilità di ossigeno. Nell’uomo esistono tre forme di HIF-α (HIF-1α, HIF-2α e HIF-3α), ciascuna delle quali è codificata da un distinto locus genico. Sia la subunità HIF-α sia quella HIF-β sono prodotte costitutivamente, ma in condizioni di normossia la subunità α è degradata dal proteosoma in modo ossigeno-dipendente. L’idrossilazione di un residuo di asparagina nell’HIF-α altera l’interazione tra la subunità e il coattivatore p300 attraverso un processo indipendente dalla degradazione operata dal proteosoma, causando una ridotta attività trascrizionale dell’HIF. L’ipossia consente a HIF-α di dimerizzare con HIF-β e di formare un complesso di trascrizione attivo sull’elemento di risposta all’ipossia associato con i geni bersaglio dell’HIF. Poiché l’HIF regola geni che rendono possibile la sopravvivenza cellulare in un ambiente ipossico, compresi quelli coinvolti nella glicolisi, angiogenesi ed espressione di fattori di crescita, esso ha un ruolo significativo nella biologia e nella regolazione della crescita tumorale. L’iperespressione tumorale di HIF-1α (e occasionalmente di HIF-2α) è correlata con angiogenesi, aggressività, disseminazione metastatica e resistenza alla radioterapia/chemioterapia. Le basi molecolari dell’angiogenesi tumorale La lunga ricerca condotta sui meccanismi molecolari dell’angiogenesi ha permesso di identificare una serie di vie di segnale mediate da recettori di fattori di crescita, che promuovono l’angiogenesi tumorale (Tab. e3.5). Una delle vie principali coinvolte in tale processo è quella della famiglia di proteine e recettori del VEGF (Fig. e3.8). Sebbene la famiglia del VEGF comprenda almeno sette membri, il principale mediatore dell’angiogenesi tumorale è il VEGF-A (detto generalmente VEGF) e, più specificatamente, le isoforme circolanti VEGF121 e VEGF165. Inizialmente sono stati isolati due recettori per il VEGF: il VEGFR-1 e il VEGFR-2, che presentano un’omologia del 44% e sono proteine transmembrana con il dominio di legame del ligando extracellulare e il dominio della tirosinchinasi intracellulare. Più recentemente, è stato identificato un ulteriore recettore, il VEGFR-3, che è principalmente associato alla linfoangiogenesi e non lega il VEGF-A. Le isoforme circolanti del VEGF-A segnalano attraverso il VEGFR-2, che è espresso a livelli elevati dalle cellule endoteliali ingaggiate nell’angiogenesi e da progenitori endoteliali derivati dal midollo osseo. Il ruolo del VEGFR-1 rimane un mistero nell’ambito dell’angiogenesi mediata dal VEGF. Questo recettore lega il VEGF con un’affinità di legame che è circa 10 volte quella del VEGFR-2, ma le sue proprietà di trasduzione del segnale sono estremamente deboli. L’attivazione dell’asse VEGF/VEGFR innesca multiple reti di segnale che determinano sopravvivenza, proliferazione, migrazione e differenziazione delle cellule endoteliali, nonché permeabilità vascolare e mobilizzazione in circolo di progenitori endoteliali derivati dal midollo osseo. La permeabilità vascolare indotta dal VEGF porta a un deposito di proteine nell’interstizio, che facilita l’angiogenesi. L’iperespressione del VEGF è stata associata con progressione tumorale e prognosi sfavorevole in diverse neoplasie umane, quali il carcinoma del colon, dello stomaco, del pancreas, della mammella, della prostata, del polmone e il melanoma. 27 Tab. e3.5. Caratteristiche generali di alcuni fattori di crescita coinvolti nell’angiogenesi tumorale. Fattore di crescita VEGF PDGF FGF EGF TGF-β Angiopoietina Funzione/Ruolo Formazione fisiologica di vasi sanguigni e angiogenesi tumorale Crescita e divisione cellulare, formazione di vasi sanguigni, reclutamento e proliferazione di periciti e cellule muscolari lisce Proliferazione, migrazione, sviluppo e differenziamento di cellule endoteliali vascolari Crescita, proliferazione, differenziamento e sopravvivenza cellulare, angiogenesi Angiogenesi, regolazione e differenziamento cellulare, sviluppo embrionale, riparazione di ferite e proprietà inibenti la crescita Inizio e progressione dell’angiogenesi; mantenimento, crescita e stabilizzazione dei vasi Membri VEGF-A, -B, -C e -E, PLGF-1 e -2 PDGF-A, -B, -C e -D, che si combinano per formare i 5 omodimeri ed eterodimeri attivi: PDGF-AA, -AB, BB, -CC e -DD 23 membri (da FGF-1 fino a FGF23) Recettori VEGFR-1, -2 e -3 EGF, TGF-α, HBEGF, AR, BTC, epigenina, epiregulina e neureguline 1-4 TGF-β1, -β2 e -β3 EGF (ErbB1), HER2 (ErbB2/neu), HER3 (ErbB3) e HER4 (ErbB4) Ang-1, -2 e -3/4 TIE-1 e -2 PDGF-α e -β FGFR-1, -2, -3 e -4 Tipo I, II o III Ang: angiopoietin; AR: AmphiRegulin; BTC: Betacellulin; EGF: Epidermal Growth Factor; EGFR: EGF Receptor; FGF: Fibroblast Growth Factor; FGFR: FGF Receptor; HB-EGF: Heparin-Binding EGF-like growth factor; HER: Human Epidermal growth factor Receptor; PDGF: Platelet-Derived Growth Factor; PLGF: Placental Growth Factor; TGF-α: Tumor Growth Factor-α; TGF-β: Transforming-Growth Factor-β; VEGF: Vascular Endothelial Growth Factor; VEGFR: VEGF Receptor; Da: Cook K.M. et al.: Angiogenesis inhibitors: current strategies and future prospects. CA Cancer J. Clin. 60: 222-243, 2010; modificata. 28 Fig. e3.8. Ruolo del VEGF e del suo recettore nell’angiogenesi. Il Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF) si lega al suo recettore (VEGFR), un recettore tirosin-chinasico, causando la dimerizzazione del recettore e la successiva autofosforilazione del complesso recettoriale. Il recettore fosforilato interagisce poi con una varietà di molecole di segnale citoplasmatiche, portando alla trasduzione del segnale e, alla fine, all’angiogenesi. mTOR: mammalian Target Of Rapamycin; MEK: Mitogen-activated protein Kinase kinase; ERK: Extracellular signal-Regulated Kinases; PI3K: PhosphoInositide 3-Kinase. (Da: Cook K.M. et al.: Angiogenesis inhibitors: current strategies and future prospects. CA Cancer J. Clin. 60: 222-243, 2010; modificata.) Si ritiene che l’azione del VEGF sia attribuibile a un meccanismo paracrino, in quanto le cellule tumorali producono il VEGF ma non possono rispondere a esso direttamente, essendo prive degli specifici recettori di membrana. Al contrario, le cellule endoteliali ingaggiate nell’angiogenesi esprimono numerosi recettori per il VEGF, ma la loro produzione del fattore di crescita è trascurabile. È ormai chiaro che la produzione di VEGF in quantità sufficienti per sostenere l’angiogenesi tumorale origina da diversi tipi di cellule dell’ospite, quali piastrine e cellule muscolari, ma anche da cellule dello stroma tumorale. Un’altra via di segnale è mediata dal TIE-2, un recettore con attività tirosin-chinasica che è espresso principalmente sull’endotelio vascolare. Esistono due ligandi principali per il recettore TIE-2, l’Angiopoietin-1 (Ang-1) e l’Angiopoietin-2 (Ang-2). L’Ang-1 agisce come un agonista del TIE-2, mentre l’Ang-2 si comporta come un antagonista del recettore. Tuttavia, il ruolo svolto dall'Ang-2 nell’angiogenesi tumorale non è del tutto compreso e sembra essere dipendente dal contesto ambientale: l’Ang-2 promuove l’angiogenesi in presenza del VEGF, mentre, in sua assenza, causa una regressione dei vasi. Le angiopoietine agiscono di concerto con il VEGF per stabilizzare e promuovere la maturazione dei nuovi capillari. Segnali angiogenici dallo stroma tumorale I fibroblasti associati al tumore (Tumor-Associated Fibroblasts, TAF), analogamente alla loro controparte normale, sintetizzano, depositano e rimodellano l’ECM. Le cellule tumorali reclutano fibroblasti e inducono l’attivazione di un fenotipo miofibroblastico. I TAF, la cui origine attualmente non è chiara, producono proteine dell’ECM e fattori di crescita paracrini, che influenzano la crescita delle cellule di carcinoma e contribuiscono anche all’angiogenesi tumorale. I TAF possono mediare l’angiogenesi direttamente attraverso la secrezione del VEGF e del Fibroblast-Growth Factor (FGF) oppure, indirettamente, mediante la secrezione della chemochina CXCL12, capace di reclutare progenitori endoteliali dal midollo osseo. 29 In molte neoplasie solide, l’entità della presenza di TAM correla con un’aumentata densità microvasale e una prognosi sfavorevole. È stato dimostrato che i TAM, somiglianti per fenotipo a macrofagi M2, si accumulano nelle regioni prive di vascolarizzazione di neoplasie avanzate ed esprimono HIF-1α e HIF-2α. Questo comporta la trascrizione di numerosi geni che promuovono la vascolarizzazione, alcuni dei quali includono molteplici fattori e modulatori proangiogenici, quali il VEGF, il TNF-α, l’IL-8, l’FGF, l’IL-1β, la MMP9 e la semaforina 4D. Una differenza tra il ruolo dei TAM e quello svolto dai macrofagi M2 nell’angiogenesi è relativa al fatto che i primi non sono l’unica fonte di fattori angiogenici a livello delle lesioni tumorali, mentre gli M2 rappresentano la fonte principale di VEGF durante la riparazione delle ferite. A differenza degli M2, che sono eliminati una volta che la vascolarizzazione è stata ripristinata, i TAM restano presenti a causa della persistenza di ipossia nella neoplasia. In un’ampia varietà di neoplasie umane, l’accumulo di mastociti è risultato associato a un’aumentata vascolarizzazione a una prognosi sfavorevole. Tali cellule, preferenzialmente localizzate alla periferia della neoplasia, sono una fonte principale di fattori proangiogenici, quali VEGF, FGF2, IL-8, TGF-β, TNF-α, Ang-1 e serin-proteasi. Nel microambiente tumorale è presente anche una popolazione eterogenea di cellule mieloidi, identificata attraverso l’espressione dei marcatori di superficie cellulare CD11b e Gr1, che consiste di granulociti, cellule dendritiche e monociti, come pure di cellule soppressive mieloidi (Myeloid-Derived Suppressor Cells, MDSC). Le MDSC sono composte di due popolazioni principali, granulociti e monociti, e possono essere espanse e reclutate mediante vari fattori derivanti dalla neoplasia, compreso il VEGF. Le cellule CD11b+/Gr1+ mediano la refrattarietà al blocco del segnale del VEGF attraverso la promozione dell’angiogenesi tumorale indipendente dal VEGF. Livelli elevati di neutrofili sono stati osservati in carcinomi gastrici, del colon e bronchioloalveolari; nel caso del mixofibrosarcoma i livelli di neutrofili correlano con un’aumentata densità vasale. I neutrofili sono reclutati nella neoplasia da fattori quali il Granulocyte ColonyStimulating Factor (G-CSF) e chemochine CXC (CXCL8 e CXCL6). I neutrofili associati al tumore potrebbero essere polarizzati come i TAM, esibendo un fenotipo antitumorale (N1) oppure un fenotipo protumorale (N2), a seconda del livello del segnale del TGF-β1 presente nel microambiente tumorale. Invasività e disseminazione metastatica La cascata invasione-metastasi Per metastasi si intende la disseminazione nell’organismo del paziente di cellule tumorali derivate dalla lesione primitiva in sedi anatomiche non contigue, dove danno origine a depositi tumorali secondari. Si tratta di una caratteristica peculiare delle neoplasie, che rappresenta lo stadio evolutivo finale e l’espressione massima di malignità. La diagnosi di malattia metastatica è indice di prognosi sfavorevole: il 90% della mortalità per neoplasia è associata a questa condizione. La formazione di depositi metastatici è un processo continuo che può iniziare precocemente durante lo sviluppo della neoplasia, e la frequenza del fenomeno aumenta con l’età del tumore e il carico di malattia. Le metastasi sono dette sincrone, quando sono diagnosticate contestualmente alla lesione primitiva, o metacrone, quando sono diagnosticate a distanza di tempo dall’asportazione del tumore primitivo. Esistono diverse modalità di disseminazione metastatica: • • per via ematica (tipica del sarcoma): mediante la penetrazione delle cellule tumorali nell’albero vascolare a livello del letto capillare o di piccole venule; per via linfatica (tipica del carcinoma): il coinvolgimento dei linfonodi regionali adiacenti alla neoplasia è considerato un indice precoce di malattia metastatica. Il mancato interessamento linfonodale non esclude però la disseminazione metastatica; 30 • • per contiguità: a causa della presenza della neoplasia sulla superficie di un organo limitrofo (per es. interessamento epatico da parte di una neoplasia della testa pancreatica); per via celomatica: disseminazione neoplastica in cavità sierose (pleura, peritoneo). Le sedi di metastasi più frequenti riscontrate all’esame autoptico interessano i linfonodi, i polmoni, il fegato e lo scheletro (Tab. e3.6). La distribuzione nell’organismo ospite delle metastasi non è casuale e tipi diversi di neoplasia hanno una caratteristica propensione a dare metastasi in certi organi ma non in altri (Tab. e3.7). Attraverso il sangue e la linfa, le cellule tumorali possono distribuirsi in qualsiasi distretto anatomico, ma nella circolazione esse incontrano organi “obbligati” riccamente vascolarizzati (fegato, polmone, osso) che fungono da “punti più probabili di arresto”. Secondo l’ipotesi formulata da James Ewing nel 1920, le sedi predominanti di metastasi riflettono semplicemente un effetto di “primo passaggio” delle cellule tumorali presenti in circolo e il loro intrappolamento nella rete capillare locale (effetto emodinamico). In altri termini, sarebbe il tipo di percorso del sangue refluo dalla sede della neoplasia primitiva a determinare il tropismo d’organo. Tipico esempio è la prevalente colonizzazione metastatica epatica delle neoplasie del tratto gastroenterico, che è determinata dal facile accesso delle cellule tumorali alla circolazione del viscere attraverso il sistema venoso portale. Il tropismo d’organo di certi tipi di neoplasia non sempre è giustificabile sulla base del tipo di circolazione, ma sembra essere regolato da una complessa interazione tra le proprietà intrinseche delle cellule metastatizzanti e le caratteristiche del microambiente dell’organo bersaglio; è questa l'ipotesi del “seme” (cellula tumorale) e del “terreno” (organo di arresto) formulata da Stephen Paget nel 1889. Allo stato dell’arte, le due ipotesi non sono mutuamente esclusive. Molti fattori, tra i quali la formazione di una “nicchia premetastastica” e una specificità d’organo, concorrono alla distribuzione delle metastasi. Dati sperimentali in vivo suggeriscono che la formazione di una nicchia premetastatica sia indispensabile per la crescita delle cellule tumorali nel parenchima dell’organo di arresto. Fattori secreti dalle cellule della neoplasia primitiva stimolano la mobilizzazione di cellule derivate dal midollo osseo, che entrano in circolo e vanno a localizzarsi nelle sedi di future metastasi. Queste cellule, che esprimono VEGFR-1, c-kit, CD133 e CD134, aumentano l’angiogenesi nelle sedi premetastatiche. Un’ulteriore funzione della nicchia è quella di guidare le cellule metastatizzanti verso specifici organi. Le basi molecolari della specificità d’organo nella distribuzione delle metastasi di una neoplasia primitiva sono poco conosciute, ma è probabile che essa dipenda dalla selezione positiva esercitata dal microambiente del tessuto di arresto. Tab. e3.6. Sedi frequenti di metastasi in pazienti portatori di comuni neoplasie. Sede della neoplasia primitiva Polmone Mammella Colon Prostata Pancreas Ovaio Tutte le neoplasie epiteliali Frequenza della metastasi all’autopsia (%) Linfonodi Polmoni Fegato Osso Pleura Encefalo 92-93 80-97 25-77 71-87 50-88 58-91 87 21-501 9-26 1-8 2-13 2 1-4 8 40 60-62 12-54 15-64 25-49 10-37 48 51-55 49-61 36-81 28-71 75-78 42-51 41 30-41 47-60 1-18 79-91 16-18 12-15 32 28 36-47 14 13-18 18 33 22 I range dei valori in tabella derivano da multiple serie autoptiche. 1 In dipendenza dal sottotipo istologico. Da: Loberg R.D. et al.: The lethal phenotype of cancer: the molecular basis of death due to malignancy. CA Cancer J. Clin. 57: 225-241, 2007; modificata. 31 Tab. e3.7. Sedi convenzionali di metastasi a distanza in relazione al tipo di neoplasia. Tipo di neoplasia Carcinomi mammari Carcinomi polmonari Carcinoma colo-rettale Carcinoma prostatico Carcinoma pancreatico Carcinoma ovarico Sarcomi Glioma Sede di metastasi Principalmente osso, polmone, pleura e fegato; meno frequentemente encefalo e surrene. I tumori ER-positivi colonizzano preferenzialmente l’osso; i tumori ER-negativi metastatizzano più aggressivamente ai visceri I due istotipi più comuni hanno differenti eziologie. Il microcitoma dissemina rapidamente in molti organi inclusi fegato, encefalo, surreni, pancreas, polmone controlaterale e osso. Il carcinoma non a piccole cellule spesso metastatizza al polmone controlaterale e all’encefalo, ma anche a surreni, fegato e osso Il circolo portale favorisce la disseminazione al fegato e nella cavità peritoneale, ma metastasi si verificano anche nei polmoni Quasi esclusivamente all’osso; forma lesioni osteoblastiche riempiendo la cavità midollare di matrice ossea mineralizzata, a differenza del carcinoma mammario che causa lesioni osteolitiche Disseminazione aggressiva a fegato, polmoni e visceri circostanti Disseminazione locale nella cavità peritoneale Vari tipi di sarcoma; metastatizzano principalmente ai polmoni Neoplasie encefaliche con scarsa propensione alla disseminazione a distanza, ma invadono aggressivamente il sistema nervoso centrale ER: recettore per gli estrogeni. La proliferazione delle cellule tumorali nella lesione primitiva si accompagna a ulteriori mutamenti genetici favoriti dall’instabilità genomica. Ne consegue una crescente eterogeneità genetica, che si traduce nell’emergenza di cloni cellulari con gradi variabili di potenziale metastatico, ossia di capacità di superare barriere fisiche tissutali, penetrare nel circolo sistemico e colonizzare nuove sedi a distanza. Il processo metastatico è altamente selettivo e prevede la successione di questi singoli eventi, complessi e strettamente interdipendenti, l’esito dei quali dipende sia dalle proprietà intrinseche delle cellule tumorali sia dalla risposta dell’organismo ospite. Osservazioni cliniche e sperimentali indicano che lo sviluppo di metastasi è un processo inefficiente: in modelli animali, meno dello 0,01% delle cellule tumorali penetrate in circolo forma depositi metastatici a distanza. Una rappresentazione largamente accettata di come si produca la disseminazione metastatica è la sequenza denominata “cascata invasione-metastasi” (Fig. e3.9). Essa prevede una serie di fasi sequenziali che possono essere caratterizzate come segue. 32 Fig. e3.9. Rappresentazione schematica della cascata invasione-metastasi. Fase 1. Invasione del tessuto circostante: cellule con la capacità di metastatizzare devono distaccarsi dalla neoplasia primitiva e superare una serie di barriere esterne, create dal microambiente tumorale, che limitano la progressione neoplastica. Le forze esterne includono barriere sia fisiche (componenti dell’ECM e della membrana basale) sia fisiologiche (limitata disponibilità di ossigeno, di nutrienti e mutamenti del pH), nonché barriere immunologiche da parte del sistema immunitario dell’ospite. Le pressioni del microambiente possono non solo selezionare cellule tumorali capaci di adattarsi e sopravvivere in condizioni sfavorevoli, ma anche indurre l’acquisizione del fenotipo maligno. L’ipossia tumorale, che esercita una potente influenza ambientale e si associa a sviluppo di metastasi e ridotta sopravvivenza dei pazienti, seleziona cellule a basso potenziale apoptotico e aumenta l’instabilità genomica, consentendo rapidi adattamenti mutazionali. Si tratta di mutamenti che consentono l’adattamento alla carenza di ossigeno e il suo superamento attraverso l’angiogenesi tumorale o lo spostamento della cellula verso un ambiente ricco di ossigeno. Sebbene l’angiogenesi si associ a un drammatico aumento del potenziale metastatico, il fenotipo invasivo richiede anche mutamenti nell’espressione di geni che controllano le interazioni adesive cellula-cellula e quelle cellulamatrice extracellulare, nonché la degradazione proteolitica dell’ECM. L’attivazione di un programma di “transizione epiteliale-mesenchimale” (Epithelial-Mesenchimal Transition, EMT) è stata proposta come il meccanismo critico per l’acquisizione del fenotipo maligno da parte delle cellule tumorali epiteliali. Si tratta di un processo biologico attraverso il quale una cellula epiteliale, che normalmente interagisce con la membrana basale attraverso la sua superficie basale, è sottoposta a multipli mutamenti biochimici che le consentono di assumere un fenotipo mesenchimale, con aumentata capacità di migrazione, invasività, elevata resistenza all’apoptosi e produzione fortemente aumentata di componenti dell’ECM. Il completamento dell’EMT è segnalato dalla degradazione della membrana basale e dalla formazione di una cellula mesenchimale, che può migrare lontano dall’epitelio di origine. L’adesione intercellulare è mediata principalmente dalle caderine, proteine espresse a livello delle giunzioni intercellulari. Durante l’EMT, si passa dall’espressione della caderina-E, che normalmente promuove l’adesione tra le cellule epiteliali e ne blocca il distacco dalla neoplasia primitiva, a quella della caderina-N, che è normalmente presente su cellule mesenchimali e promuove l’adesione cellula-matrice durante la migrazione invasiva. L’adesione cellulare a glicoproteine specifiche dell’ECM (collagene, vitronectina, 33 fibronectina, laminina) è, in larga parte, mediata dalle integrine, una grande famiglia di proteine transmembrana costituite da eterodimeri αβ (18 tipi di catene α e 8 di catene β) con ampio spettro di specificità. Il superamento della membrana basale avviene attraverso un’alterata espressione di recettori sulla superficie cellulare, che consentono l’adesione a componenti della membrana. Per esempio, le cellule tumorali aumentano l’espressione di integrine che possono legare laminina e collagene di tipo IV. L’impegno di integrine e di altre molecole di adesione si accompagna al reclutamento di enzimi che degradano l’ECM (MMP, catepsine, serin-proteasi), una fase essenziale dell’invasività neoplastica. Le cellule tumorali sono capaci di locomozione attraverso i tessuti nei quali sono localizzate. Questa motilità è regolata da segnali mediati da componenti dell’ECM, che sono riconosciuti dalle integrine, oppure da fattori secreti dall’ospite o dalla neoplasia, che si legano a recettori specifici sulla cellula tumorale. Fase 2. Penetrazione e sopravvivenza nel sistema circolatorio: la neoformata rete capillare tumorale, caratterizzata da pareti vasali più fenestrate e con minori strutture di sostegno, come pure i linfatici dello stroma circostante la neoplasia, sono rapidamente penetrati dalle cellule tumorali per guadagnare l’accesso alla circolazione sistemica. I sistemi vascolare e linfatico presentano numerose connessioni e le cellule tumorali metastatizzanti possono facilmente passare da un sistema all’altro. Una volta raggiunto il compartimento vascolare, le cellule tumorali devono sopravvivere a insulti emodinamici, immunologici e all’apoptosi da perdita dell’adesione cellulare. Le probabilità di sopravvivenza sono accresciute dal loro legame a cellule dell’ospite (leucociti e linfociti) e, in particolare, alle piastrine. Le cellule tumorali legano anche fattori della coagulazione, quali trombina, fibrinogeno, fattore tissutale (TF) e fibrina, creando emboli neoplastici che, oltre a essere più resistenti agli effetti emodinamici distruttivi e alla lisi immune mediata da cellule NK, hanno un potenziale metastatico maggiore delle singole cellule tumorali. Fase 3. Arresto nel letto capillare della sede anatomica secondaria: le cellule tumorali devono arrestarsi in organi distanti o in linfonodi. L’arresto può verificarsi passivamente, ossia per restrizioni dovute alla taglia all’ingresso nel letto capillare, oppure può essere consentito da molecole della superficie cellulare. Cellule endoteliali sono costantemente perse dalla parete dei vasi sanguigni, creando brecce temporanee alle quali le cellule tumorali possono aderire più facilmente, grazie all’esposizione di componenti della membrana basale. Un danno della parete vasale attrae anche piastrine e cellule tumorali associate a piastrine; il tutto è aumentato dall’espressione del fibrinogeno sulla superficie della cellula endoteliale. Coaguli di fibrina nelle sedi di arresto delle cellule tumorali possono danneggiare ulteriormente i vasi, attirando altre piastrine e cellule tumorali circolanti. Interazioni eterotipiche cellula-cellula implicate nell’arresto delle cellule tumorali in sedi secondarie sono mediate dalle selectine P ed E, che sono presenti sulla cellula endoteliale e sono capaci di legare strutture sulle cellule di carcinoma. Fase 4. Fuoriuscita dal vaso e crescita di metastasi nella sede secondaria: le cellule potenzialmente metastatiche fuoriuscite dal vaso devono sfuggire all’eliminazione da parte della sorveglianza immunitaria e proliferare nel parenchima della nuova sede. Si tratta di una fase altamente inefficiente, in quanto solo alcuni dei depositi micrometastatici si svilupperanno in macrometastasi (clinicamente rilevabili). Quest’ultimo processo è detto colonizzazione e gli studi hanno dimostrato che il tessuto ospite può influenzare 34 profondamente la crescita delle micrometastasi attraverso segnali autocrini, paracrini ed endocrini. Tuttavia, è il bilancio netto tra segnali positivi e negativi che determinerà o meno la proliferazione metastatica. Singole cellule o micrometastasi possono sopravvivere a lungo in uno stato di quiescenza proliferativa che è detto “dormienza”. Cellule dormienti a livello di polmoni, fegato e midollo osseo sono di frequente riscontro in pazienti con neoplasia prostatica o mammaria, o con melanoma. Queste micrometastasi rappresentano la cosidetta “malattia minima residua”, che deriva dall’inefficienza delle cellule metastatizzanti nel colonizzare nuove sedi anatomiche, dopo la loro fuoriuscita dalla circolazione sistemica. La dormienza può derivare dall’incompatibilità tra cellule tumorali e organo di arresto, che impedisce la risposta a segnali proliferativi tessuto-specifici, oppure dall’incapacità delle cellule di generare una sufficiente angiogenesi. Uno stato di equilibrio tra la proliferazione e l’apoptosi, che impedisce la neovascolarizzazione e l’espansione cellulare, si determina nelle metastasi preangiogeniche. Pertanto, la crescita sostenuta di queste lesioni è possibile una volta che l’angiogenesi è innescata dall’aumentato rapporto locale tra fattori stimolatori e inibitori. La neovascolarizzazione, a partire dalla preesistente rete vascolare, aumenta il potenziale metastatico delle stesse metastasi, analogamente a quanto avviene per la neoplasia primitiva. I depositi metastatici devono poi sfuggire all’eliminazione da parte di risposte immuni non specifiche oppure specificamente dirette contro di essi (evasione dalla sorveglianza del sistema immunitario). Infine, le cellule tumorali che hanno colonizzato sedi secondarie sono capaci di metastatizzare ulteriormente e di colonizzare altri organi (metastasi di metastasi). Il fenotipo letale Dal punto di vista clinico, il “fenotipo letale” della neoplasia è definibile come ciò che porta a morte il paziente. I dati autoptici documentano la sede corporea dove si è verificata la metastasi, ma raramente delineano in che modo la malattia metastatica ha causato la morte dell’ospite. Sebbene l’effettiva causa di morte dipenda dai pattern specifici di metastatizzazione dei diversi tipi di neoplasie, le sindromi cliniche a causa delle quali i pazienti soccombono possono essere sostanzialmente divise in due categorie: (1) mortalità dovuta a uno specifico interessamento d’organo con successivo scompenso funzionale, come si osserva in molti pazienti con metastasi encefaliche; (2) mortalità dovuta a fattori scarsamente definiti che determinano una varietà di sindromi cliniche tutte caratterizzate dall’iperproduzione di citochine (Tab. e3.8; Fig. e3.10). 35 Tab. e3.8. Esempi scelti di citochine e fattori che giocano un ruolo nella produzione del fenotipo letale della neoplasia metastatica. Citochine e fattori Chemochine CCL2/CCR2 CXCL12/CXCR4 Citochine IL-1 IL-6 Fattore nucleare kB (NF-kB) TNF-α TGF-β Proteasi Metalloproteinasi della matrice Attivatore dell'uroplasminogeno (uPA) Cascata coagulativa Trombina Fattore tissutale (TF) Ruolo nella produzione del fenotipo letale Facilita invasività e metastasi, promuove la crescita delle cellule tumorali mediante regolazione autocrina, contribuisce alla regolazione dell’angiogenesi Regola l’homing delle cellule staminali e gioca un ruolo cruciale nel facilitare le neoplasie che metastatizzano all’osso Contribuisce alla capacità di metastatizzare; implicata come fattore di crescita di cellule tumorali; stimola fattori angiogenici; implicata in trombosi, cachessia e metastasi ossee Promuove la crescita tumorale; implicata come fattore di crescita di cellule tumorali; stimola fattori angiogenici; implicata in trombosi, cachessia e metastasi ossee Mediatore e regolatore chiave dell’infiammazione, partecipa al controllo a feedback di citochine proinfiammatorie, sopprime l’apoptosi, promuove invasività e metastasi, contribuisce alla proliferazione tumorale attraverso l’attivazione dell’espressione di geni di fattori di crescita, contribuisce all’instabilità genomica delle cellule tumorali Induce danno al DNA e ne inibisce la riparazione, promuove la crescita tumorale, induce fattori angiogenici, ruolo chiave nell’inizio della cascata infiammatoria, regola chemochine, contribuisce alla capacità di invasione, contribuisce alla sindrome cachettica, implicato nella trombosi, contribuisce alle metastasi ossee Contribuisce all’angiogenesi, implicato nella trombosi, contribuisce alle metastasi ossee Enzima coinvolto nella degradazione della matrice extracellulare, è sovraregolato nelle maggior parte delle neoplasie, consentendo invasività e metastasi I livelli di uPA nel tumore resecato e nel plasma hanno significato prognostico indipendente per la sopravvivenza in diversi tipi di neoplasie umane La sua genesi è cruciale per la metastasi attraverso il deposito di fibrina e piastrine; la sovraregolazione del suo recettore è riportata in una varietà di neoplasie La malattia avanzata si associa a stato ipercoagulativo attivato dal TF; il TF partecipa significativamente all’angiogenesi tumorale e i suoi livelli di espressione sono stati correlati al potenziale metastatico IL-1: interleuchina 1; IL-6: interleuchina 6; TGF-β: Transforming Growth Factor-β; TNF-α: Tumor Necrosis Factor-α. Da: Loberg R.D. et al.: The lethal phenotype of cancer: the molecular basis of death due to malignancy. CA Cancer J. Clin. 57: 225-241, 2007; modificata. 36 Fig. e3.10. La genesi del “fenotipo letale” della neoplasia. Le proprietà che una neoplasia deve acquisire per crescere e metastatizzare producono molteplici fattori che si traducono in differenti sindromi cliniche letali per il paziente. Tali sindromi possono essere sostanzialmente categorizzate in quelle dovute a iperproduzione di citochine e quelle dovute a insufficienza d’organo. (Da: Loberg R.D. et al.: The lethal phenotype of cancer: the molecular basis of death due to malignancy. CA Cancer J. Clin. 57: 225-241, 2007; modificata.) L’incidenza della cachessia varia a seconda del tipo di neoplasia: la frequenza più elevata (83-87%) si osserva in pazienti con neoplasia del colon, della prostata, del polmone e con linfoma non-Hodgkin a prognosi sfavorevole, mentre la frequenza più bassa (31-40%) si riscontra in pazienti con neoplasia mammaria, sarcomi, leucemie e sottotipi a prognosi favorevole di linfoma non-Hodgkin. Circa il 20% della mortalità per neoplasia è attribuibile alla cachessia e usualmente il decesso sopraggiunge quando la perdita di peso si avvicina al 30%. La cascata infiammatoria messa in atto dall’ospite e dalla neoplasia determina uno squilibrio tra citochine proinfiammatorie (compresi il fattore inducente proteolisi, il TNF-α, l’IL-1, l’IL-6 e l’IFN-γ) e antinfiammatorie (comprese l’IL-4, l’IL-12 e l’IL-15). Queste citochine agiscono su multipli bersagli, inclusi miociti, adipociti, epatociti, midollo osseo, cellule endoteliali e neuroni, determinando una complessa cascata di risposte biologiche che, alla fine, culminano in progressiva perdita di peso, anoressia, anemia, alterazioni metaboliche, astenia, deplezione dei depositi di grasso e severa perdita di proteine muscolo-scheletriche. Inoltre, i pazienti spesso sviluppano intolleranza al glucosio, insulino-resistenza, aumentata gluconeogenesi a partire da acido lattico e aminoacidi, aumentata ossidazione di grassi e ridotta lipogenesi in conseguenza dell’attivazione di cicli futili e inefficienti sotto il profilo energetico. Nei pazienti neoplastici esiste un incremento globale della lipolisi con produzione di glicerolo e acidi grassi, che possono essere utilizzati per la gluconeogenesi, e la contemporanea inibizione della lipogenesi che contribuisce alla deplezione dei depositi di grasso. Si ritiene che l’ipercatabolismo muscolare osservato nella cachessia neoplastica dipenda dall’iperattivazione di vie proteolitiche da parte di citochine. La progressiva perdita di massa muscolare nei pazienti cachettici contribuisce, in maniera significativa, alle disabilità funzionali globali, alla debolezza della muscolatura respiratoria e alla diminuita immunità, il tutto culminando nella morte del paziente. La trombosi è una complicanza comune della neoplasia e si associa a una significativa morbilità e una ridotta sopravvivenza. Sebbene la coagulopatia sia direttamente connessa alla mortalità in circa il 10% dei casi, la sua presenza è stata dimostrata in oltre il 50% dei pazienti al momento del decesso. Le caratteristiche che possono facilitare la capacità delle cellule tumorali di invadere localmente e di metastatizzare, determinano anche un danno alle cellule endoteliali e l’attivazione della cascata 37 coagulativa, la quale ha come risultato la triade di Virchow con ipercoagulazione, stasi e danno endoteliale. Le attività procoagulanti, fibrinolitiche e proaggreganti delle cellule tumorali forniscono il perfetto ambiente locale per la trombosi. Per demolire il microambiente circostante e permettere alla neoplasia di crescere, nonché alle cellule tumorali di spostarsi e ai nuovi vasi sanguigni di raggiungere la massa neoplastica, vengono attivati i programmi cellulari utilizzati nella guarigione delle ferite e sono rilasciate citochine e fattori di crescita che hanno effetti locali e sistemici. Tali fattori comprendono la trombina, il VEGF, il TNF-α, l’IL-1β, l’attivatore dell’uroplasminogeno, le MMP, le catepsine e il TF. Il coinvolgimento dell’osso è la causa principale di dolore diretto da neoplasia. All’autopsia le metastasi scheletriche sono presenti, in media, nel 32% dei pazienti, con una prevalenza molto maggiore nei pazienti con neoplasia del polmone, della mammella, del rene e della prostata. L’attivazione degli osteoblasti e degli osteoclasti da parte delle cellule tumorali determina un circolo vizioso di distruzione dell’osso e di aumentata crescita tumorale, che causa dolore, fratture e compressione del midollo spinale. La dispnea si verifica nel 20-80% dei pazienti neoplastici ed è severa nel 10-60% di essi, specialmente nelle ultime 6 settimane di vita. La causa della dispnea in un dato paziente è generalmente multifattoriale, derivando dal diretto coinvolgimento polmonare, dalla produzione locale e sistemica di citochine, da cause connesse al trattamento e da patologie di accompagnamento, quali lo scompenso cardiaco e la broncopneumopatia cronica ostruttiva. Il carico tumorale presente nel parenchima polmonare, la linfangite neoplastica polmonare, il versamento pleurico neoplastico e l’embolia polmonare sono cause comuni e ben note di dispnea. Il trattamento della neoplasia può contribuire alla dispnea del paziente attraverso polmoniti radio- o chemioindotte e versamenti pleurici connessi a farmaci, attraverso polmoniti secondarie a neutropenia e attraverso la tachipnea dovuta ad anemia. La dispnea da neoplasia è generalmente ritenuta un evento tardivo nel corso della malattia. Epidemiologia e prevenzione delle neoplasie Cancerogenesi La cancerogenesi è lo studio dei fattori che contribuiscono alla patogenesi della neoplasia, ai processi che regolano la differenziazione e la maturazione delle cellule normali e ai fattori genetici ed epigenetici che aumentano o producono la formazione di una neoplasia. Il processo della cancerogenesi è stato classicamente suddiviso in tre fasi distinte: iniziazione, promozione e progressione (Fig. e3.11). La prima fase è quella dell’iniziazione, che ha come risultato la produzione di un danno irreversibile del DNA da parte di un agente fisico, chimico o virale, cioè un cancerogeno. Gli eventi di iniziazione si verificano rapidamente. In alcuni casi il danno del DNA può essere riparato prima che esso sia “fissato” come mutazione e, pertanto, la cellula può ritornare alla propria condizione basale. In generale, qualunque intervento che rallenti la proliferazione cellulare dovrebbe procurare più tempo per la riparazione del DNA e dovrebbe ridurre il danno e la mutazione a carico del genoma. In alternativa, le cellule iniziate risultano danneggiate e, se riconosciute come tali, vanno incontro ad apoptosi e sono eliminate prima che possano evolvere in una neoplasia. 38 Fig. e3.11. Rappresentazione schematica del processo della cancerogenesi. La promozione si verifica nel corso di un periodo di tempo prolungato (molti anni nell’uomo) e ha come risultato l’espansione di un clone di cellule iniziate senza ulteriore o con minimo mutamento genetico. Fattori esogeni o endogeni, che incrementano il ciclo cellulare o la sensibilità endocrina della cellula, giocano un ruolo principale in questa fase dello sviluppo della neoplasia. La comparsa di una lesione clinicamente rilevabile, frequentemente indicata come preneoplasia o, nel caso dei tumori solidi, neoplasia intraepiteliale (IEN) è generalmente considerata come la frattura tra promozione e progressione. La caratterizzazione sistematica della IEN e dei fattori biologici che ne determinano rischio ed evoluzione è stata un’importante area di ricerca negli ultimi anni (Tab. e3.9). Durante la progressione, si verificano ulteriori danni genetici che determinano l’acquisizione graduale da parte delle cellule anomale delle proprietà essenziali del fenotipo completamente trasformato, comprese le proprietà di invasività e disseminazione a distanza. Tab. e3.9. Comuni precursori clinici (neoplasia intraepiteliale) di neoplasia. Organo Orofaringe Cute Esofago Colon Mammella Cervice Precursore Leucoplachia Cheratosi attinica Esofago di Barrett Adenoma Carcinoma lobulare o duttale in situ Neoplasia intraepiteliale Metodo di rilevazione Visivo Visivo Endoscopia Sigmoidoscopia, colonscopia Mammografia, ecografia, risonanza magnetica Colposcopia Da: Zell J.A. et al.: Cancer prevention, screening, and early detection. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1, p. 362; modificata. Concetti generali di epidemiologia In oncologia, l’epidemiologia studia la distribuzione e la frequenza delle neoplasie, nonché l’influenza dei loro determinanti di rischio (fattori di esposizione, l'alterazione dei quali induce un cambiamento nella frequenza o nei caratteri della malattia), di esito e di controllo nella popolazione di individui sani o ammalati. I principali indicatori utilizzati per descrivere la presenza della neoplasia nella popolazione sono: incidenza, prevalenza, mortalità e sopravvivenza (Box e3.6). L’epidemiologia ha permesso di acquisire conoscenze sull’evoluzione, a livello mondiale, nazionale o regionale, 39 dell’incidenza e della mortalità nel tempo, nonché di studiare le associazioni tra presunte cause (o fattori di rischio) e specifiche forme di neoplasia. Inoltre, questa disciplina può essere utilizzata per prendere in esame una gamma più ampia di ipotesi nella ricerca biomedica, quali le ipotesi traslazionali e cliniche generate in campo oncologico. Gli studi epidemiologici possono essere sperimentali e osservazionali. In uno studio sperimentale (studio randomizzato controllato), il ricercatore sperimenta l’effetto dell’esposizione assegnando quest’ultima a un campione casuale dei soggetti in studio. Al contrario, in uno studio osservazionale, il ricercatore può soltanto osservare l’effetto dell’esposizione sui soggetti; egli non esercita alcun ruolo nell’assegnare l’esposizione ai soggetti in studio e ciò rende gli studi osservazionali molto più vulnerabili a problemi metodologici. È, pertanto, del tutto ragionevole considerare gli studi clinici randomizzati come il modo migliore per dimostrare un nesso di causalità. Tuttavia, non tutti i quesiti di ricerca sono adatti a un disegno sperimentale. Inoltre, gli studi randomizzati controllati sono spesso dispendiosi in termini sia di tempo sia di risorse economiche e un tale studio può essere condotto solo dopo che studi osservazionali non abbiano fornito una risposta univoca al quesito oggetto di studio. Tali aspetti spiegano perché gli studi osservazionali costituiscano la gran parte della ricerca epidemiologica condotta finora sulle neoplasie. Box e3.6. Principali indicatori epidemiologici di neoplasia nella popolazione • • • • Incidenza: indica il numero di nuovi casi diagnosticati per una sede di insorgenza di neoplasia, che si verificano in un determinato intervallo di tempo e in una specifica area geografica. Rappresenta il rischio di ammalare e, quindi, esprime il carico di fattori di rischio e gli effetti delle misure di prevenzione. Prevalenza: corrisponde, in un dato momento, alla proporzione di individui di una data area geografica che si sono ammalati di neoplasia in passato, sia esso recente o lontano, e che ne sono sopravvissuti. Rappresenta, quindi, la quota di malati presenti in una società ed è un indicatore dell’impatto esercitato dalle malattie oncologiche sulla domanda assistenziale in una società. Mortalità: indica il numero di decessi per neoplasia in una data popolazione e in un dato periodo di tempo. Esprime il rischio di morire che deve essere interpretato in rapporto alla letalità della malattia. Sopravvivenza: esprime la percentuale di individui sopravvissuti alla malattia oncologica in una data popolazione. Rappresenta un importante indicatore di esito delle pratiche diagnostiche, cliniche e, in generale, di efficacia dei sistemi sanitari. Gli studi osservazionali possono essere distinti in descrittivi e analitici. Gli studi descrittivi sono generalmente grandi studi, condotti a livello di popolazione, che descrivono il verificarsi di neoplasie in relazione a variabili personali, geografiche e temporali. La conoscenza dell’evoluzione dell’incidenza nel tempo è essenziale non solo per la pianificazione di interventi sanitari, ma anche per la formulazione di ipotesi di studio. Ne sono esempi la determinazione dei tassi di carcinoma mammario del colon fra gli asiatici emigrati in Paesi occidentali oppure quella dei tassi di melanoma fra individui di origine anglosassone in Australia. Gli studi analitici sono disegnati per analizzare il ruolo di determinanti di malattia, testando ipotesi di associazione causa-effetto per specifiche forme di neoplasia. Un esempio è rappresentato dallo studio del ruolo dell’esposizione solare nello sviluppo del melanoma in soggetti anglosassoni emigrati in Australia. Nell’epidemiologia clinica, le due componenti fondamentali di qualunque studio sono l’esposizione e l’esito (outcome). L’esposizione può essere un fattore di rischio, un fattore prognostico, un test diagnostico o un trattamento e l’esito è generalmente rappresentato dalla morte o dalla malattia. In uno studio osservazionale, la frequenza di un esito o di un’esposizione (in dipendenza dal disegno dello studio) è misurata, stimata o visualizzata. 40 L’associazione tra esposizione ed esito può essere misurata con procedimenti diversi. Rischi, tassi, prevalenze e odds (il concetto può essere reso con “probabilità a favore”) sono misure comuni della frequenza di un esito e il loro confronto tra gruppi produrrà misure di frequenza relativa, cioè rischio relativo, rapporti di tasso, rapporti di prevalenza e odds ratio. Queste misure descrivono la forza dell’associazione tra esposizione ed esito e forniscono la base per le conclusioni dello studio. I principali disegni sperimentali utilizzati negli studi osservazionali sono quello di coorte e quello dei casi-controlli. In uno studio di coorte, che è anche detto “prospettico” perché procede secondo la sequenza naturale degli eventi, individui con differenti livelli di esposizione sono seguiti nel tempo per determinare l’incidenza dell’esito atteso in ciascun gruppo di esposizione. La misura di frequenza più comune in questo tipo di studio è il rischio relativo, che indica la probabilità di sviluppare l’esito negli esposti rispetto ai non esposti. Se l’esito di interesse è raro, occorre studiare una popolazione molto ampia per osservare un numero di eventi sufficiente per dimostrare una precisa associazione tra l’esposizione e l’esito. In uno studio casi-controlli, che è detto anche “retrospettivo” in quanto indaga sui possibili fattori di rischio quando l’esito atteso si è già verificato, il primo passo è quello di identificare gli individui con l’esito di interesse, cioè i casi. Questa caratteristica lo rende un buon disegno per studiare esiti rari, che richiederebbero un campione enorme in uno studio di coorte. Una volta identificati i casi, l’investigatore seleziona i controlli dalla stessa popolazione di origine dei casi. Esiste una serie di metodi per fare ciò, ma indipendentemente dal metodo, il livello di esposizione è comparato tra casi e controlli. La misura di frequenza relativa è l’odds ratio, che è una stima del rischio relativo. Un ratio pari a 1 implica mancanza di effetto; un valore < 1 suggerisce un effetto protettivo del fattore di esposizione nei casi, mentre un valore > 1 suggerisce un effetto nocivo dell’esposizione misurata (fattore di rischio). La significatività dell’associazione è poi esaminata mediante un test statistico. La potenza degli studi casi-controlli è relativamente debole. Pertanto, a meno che non sia stata riscontrata un’associazione marcata (per es. un odds ratio < 0,5 oppure > 2) e/o multipli studi casi-controlli della stessa entità abbiano prodotto risultati coerenti, è rischioso trarre conclusioni definitive. I risultati di uno studio casi-controlli non forniscono, generalmente, un’evidenza definitiva di un nesso di causalità, ma possono suggerire che è giustificato un disegno di studio più rigoroso. L’interpretazione dei risultati degli studi analitici è complessa: distorsione (bias), confondimento e caso possono essere alla base di associazioni riscontrate in studi analitici. Uno scopo essenziale del disegno e delle fasi di analisi è quello di prevenire, ridurre e valutare la distorsione, il confondimento e il caso in modo da stimare un rapporto causa-effetto obiettivo tra l’esposizione e l’esito. Infine, deve essere verificato il rispetto dei criteri di causalità. Accettati dalla comunità scientifica, questi criteri sono stati proposti dallo statistico inglese Austin B. Hill nel 1965 ed elaborati in un ampio studio riguardante l’effetto del fumo nell’uomo (Box e3.7). 41 Box e3.7. Criteri di causalità di Austin B. Hill (1965) • • • • • • • • • Forza: indica che tanto maggiore è il valore della misura di associazione (rischio relativo o odds ratio), tanto più probabile è il rapporto di causa-effetto. Consistenza: richiede che la stessa associazione sia stata dimostrata in studi condotti utilizzando disegni differenti in differenti popolazioni. Specificità: richiede che il fattore di esposizione sia associato solo all’esito atteso e che sia l’unico trovato associato a tale esito. Temporalità: richiede che l’esposizione in studio preceda la comparsa dell’esito atteso. Gradiente biologico: richiede che l’entità della misura di associazione aumenti (o diminuisca) con l’aumentare (o il diminuire) dell’esposizione. Plausibilità: richiede che la presunta associazione sia verosimilmente inquadrabile nel contesto delle conoscenze sull’argomento e sulla patogenesi. Coerenza: può anche essere definita come “plausibilità biologica” (vedi punto precedente). Sperimentazione: richiede che la forza della misura di associazione diminuisca (o aumenti) con il mutare dello stato di esposizione. Analogia: richiede che siano state osservate associazioni tra esposizioni simili ed esiti simili. Da: Sutcliffe S. et al.: Use of epidemiology in oncology. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1, p. 359. Incidenza e mortalità delle neoplasie Le neoplasie sono la seconda causa di morte in Italia: sono stati registrati 162.000 decessi (circa 93.000 tra gli uomini e 69.000 tra le donne) nel 2002 (ultimi dati forniti dall’Istituto Superiore di Sanità). La stima per il 2010 prevede un totale di circa 255.000 nuove diagnosi di neoplasia (Fig. e3.12). Il costante incremento dei casi registrato in Italia, negli ultimi 30 anni, è da imputare al progressivo invecchiamento della popolazione, che ha fatto seguito al cambiamento delle abitudini di vita e di lavoro determinatosi a partire dagli anni Cinquanta. Recenti stime indicano che, nel 2010, le neoplasie di prostata, colon, polmone e stomaco costituiranno oltre il 70% delle nuove diagnosi oncologiche e causeranno oltre il 55% della mortalità nella popolazione maschile italiana; le neoplasie di mammella, colon, polmone e stomaco costituiranno oltre il 55% dei nuovi casi e causeranno circa il 45% dei decessi per tumore nella popolazione femminile. La prevalenza stimata per tutte le neoplasie nel 2010 è di circa il 4% nella popolazione femminile e del 3% in quella maschile, il doppio di quella di 20 anni prima. 42 Fig. e3.12. Incidenza stimata delle neoplasie nella popolazione italiana per il 2010. (Da: Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute – Istituto Superiore di Sanità; www.tumori.net/it/banchedati.php) A livello mondiale, le neoplasie rappresentano la terza causa di morte: si stima che nel 2007 siano stati diagnosticati oltre 12 milioni di nuovi casi e vi siano stati 7,6 milioni di decessi. A partire dal 2030, le stime prevedono un’incidenza annuale di circa 26 milioni di nuovi casi, con 17 milioni di morti per anno. Inoltre, la distribuzione dei tipi predominanti di neoplasia continua a mutare, specialmente nei Paesi in via di sviluppo. Nel 2007, i dati di incidenza hanno mostrato che il 55% delle diagnosi oncologiche ha interessato individui residenti in Paesi a basso reddito; si prevede che tale proporzione salirà al 61% a partire dal 2050. Gran parte dei casi di neoplasia del polmone, della mammella, del colon e della prostata non è più confinata ai Paesi occidentali industrializzati, ma è tra i tipi tumorali di più comune riscontro nella popolazione mondiale. L’incremento globale delle neoplasie e il loro sproporzionato impatto sui Paesi in via di sviluppo sono stati alimentati sia da mutamenti demografici nelle popolazioni a rischio sia da mutamenti temporali e geografici nella distribuzione dei principali fattori di rischio. I tre fattori più importanti che contribuiscono a questa evoluzione sono: • la crescita e l’invecchiamento delle popolazioni. Si tratta, in larga parte, della diretta conseguenza del progresso ottenuto nella riduzione della mortalità per malattie infettive acute tra bambini e giovani adulti; • il concentrarsi di fattori di rischio modificabili (in particolare fumo di sigaretta, dieta di tipo occidentale e inattività fisica) nei Paesi in via di sviluppo; • il declino più lento delle neoplasie a eziologia infettiva nei Paesi a basso reddito rispetto a quelli più ricchi. A livello mondiale, la crescita demografica e l’invecchiamento sono i principali responsabili dell’incremento dell’incidenza delle neoplasie e dello spostamento del picco di incidenza verso i Paesi in via di sviluppo. Nel 2008, la popolazione mondiale è stata di 6,7 miliardi di individui, ma si prevede un aumento fino a 8,3 miliardi per il 2030 e fino a 8,9 miliardi per il 2050. La crescita demografica sarà maggiore nei Paesi a basso reddito rispetto ai quelli più ricchi e analogo andamento è atteso anche nella fascia dei soggetti anziani. L’invecchiamento della popolazione inciderà prevalentemente sul numero di individui che si ammaleranno di 43 neoplasia, dal momento che, nel 2002, il 45% delle diagnosi effettuate nel mondo ha interessato individui di età superiore a 65 anni. Fattori di rischio per le neoplasie L’uomo è da sempre esposto a cancerogeni ambientali. Tuttavia, sia l’industrializzazione sia, in particolare, lo sviluppo dell’industria chimica, agli inizi del XX secolo, hanno creato le condizioni per livelli elevati di esposizione tra i lavoratori. L’esposizione professionale ha determinato un forte incremento del rischio di neoplasia a partire dalla metà del secolo scorso e, di conseguenza, gli studi epidemiologici hanno documentato rischi particolarmente elevati tra lavoratori esposti a concentrazioni di sostanze chimiche (composti organici, metalli e polveri) molto superiori a quelle oggi consentite. Oltre all’identificazione di cancerogeni per l’uomo attraverso studi condotti tra gli addetti a specifiche lavorazioni, gli studi epidemiologici classici hanno prodotto contributi fondamentali all’identificazione dell’eziologia delle neoplasie più comuni e hanno avuto un impatto sostanziale sulla salute pubblica. L’associazione tra fumo e neoplasia polmonare è forse l’esempio meglio noto di questi successi, ma meritano menzione anche gli studi che hanno documentato la cancerogenicità di molti chemioterapici e immunosoppressori, di ormoni, di alcuni antibiotici e della radioterapia. Nonostante siano noti i rischi associati con vari farmaci e trattamenti, alcuni di essi continuano a essere impiegati, in quanto i benefici sono giudicati superiori ai rischi ed essi rimangono la migliore opzione disponibile. In sintesi, numerosi studi di coorte e di casi-controlli hanno fornito evidenza convincente sul ruolo eziologico di specifici fattori di rischio ambientali legati allo stile di vita, all’esposizione professionale, a infezioni e alla dieta in una gamma di neoplasie (Tab. e3.10). L’opinione che i fattori ambientali siano le principali cause di neoplasia nell’uomo si basa, in larga misura, sulla seguente serie di osservazioni epidemiologiche: • • • • sebbene l’incidenza globale sia ragionevolmente costante tra i diversi Paesi, l’incidenza di specifici tipi di neoplasia può variare di centinaia di volte; esistono ampie differenze di incidenza entro popolazioni di un singolo Paese; popolazioni di emigranti assumono l’incidenza tipica del loro nuovo Paese nello spazio di una o due generazioni; i tassi di neoplasia entro una popolazione possono mutare rapidamente. 44 Tab. e3.10. Esempi scelti di agenti e processi considerati cancerogeni nell’uomo dalla IARC. Agente o processo Esposizione ambientale e dietetica Organo o tessuto sede di neoplasia Aflatossine Arsenico e composti dell’arsenico Fegato Polmone, cute Abitudini culturali Bevande alcoliche Cavità orale, faringe, laringe, esofago, fegato Fumo di tabacco Tratto respiratorio, vescica, pelvi renale, pancreas Cute Radiazione solare Esposizione professionale Asbesto Polmone, pleura, peritoneo, laringe, tratto gastroenterico Benzene Berillio Cadmio Composti del cromo esavalente Formaldeide 2-Naftilamina Nichel e composti del nichel Benzo[α]pirene Cloruro di vinile Leucemia Polmone Polmone Polmone Fegato Vescica Polmone, seni nasali Polmone Fegato, polmone, tratto gastroenterico, encefalo Uso terapeutico Azatioprina Leucemia Clorambucile Leucemia Ciclosporina Linfoma Ciclofosfamide Vescica, leucemia Tamoxifene Agenti infettivi Virus di Epstein-Barr Helicobacter pylori Virus dell'epatite B Virus dell'epatite C Papillomavirus umano tipi 16, 18, altri Endometrio Linfoma Stomaco Fegato Fegato Cervice Radiazioni ionizzanti Radon Polmone IARC: International Agency for Research on Cancer. L’International Agency for Research on Cancer (IARC) ha valutato il potenziale cancerogeno di oltre 935 sostanze chimiche, processi industriali e altre esposizioni, classificando l’evidenza disponibile in cinque categorie (Tab. e3.11). Fino a oggi, la IARC ha classificato 108 agenti, miscele ed esposizioni 45 nel gruppo 1; 63 nel gruppo 2A; 248 nel gruppo 2B; 515 nel gruppo 3; e 1 nel gruppo 4. La politica della IARC raccomanda di trattare le sostanze chimiche nei gruppi 2A e 2B come se presentassero un rischio cancerogeno per l’uomo. Oltre ai cancerogeni esogeni, processi endogeni quali l’infiammazione e il metabolismo del cibo generano esposizioni reattive che danneggiano il DNA e, pertanto, possono contribuire alla cancerogenesi. Tab. e3.11. Categorie di cancerogenicità della IARC. Gruppo 1 Categoria Cancerogeni umani 2A Probabili cancerogeni umani 2B Sospetti cancerogeni umani 3 Sostanze non classificabili per la cancerogenicità per l’uomo 4 Non cancerogeni per l’uomo Definizione Questa categoria è riservata alle sostanze con sufficiente evidenza di cancerogenicità per l’uomo Questo sottogruppo è riservato alle sostanze con limitata evidenza di cancerogenicità per l’uomo e sufficiente evidenza per gli animali. In via eccezionale, anche sostanze per le quali sussiste solo limitata evidenza per l’uomo o solo sufficiente evidenza per gli animali purché supportata da altri dati di rilievo Questo sottogruppo è usato per le sostanze con limitata evidenza per l’uomo in assenza di sufficiente evidenza per gli animali o per quelle con sufficiente evidenza per gli animali e inadeguata evidenza o mancanza di dati per l’uomo. In alcuni casi possono essere inserite in questo gruppo anche le sostanze con solo limitata evidenza per gli animali purché questa sia saldamente supportata da altri dati rilevanti In questo gruppo vengono inserite le sostanze che non rientrano in nessun'altra categoria prevista A tale gruppo vengono assegnate le sostanze con evidenza di non cancerogenicità sia per l’uomo sia per gli animali. In alcuni casi, possono essere inserite in questa categoria le sostanze con inadeguata evidenza o assenza di dati per l’uomo ma con provata mancanza di cancerogenicità per gli animali, saldamente supportata da altri dati di rilievo IARC: International Agency for Research on Cancer. Da: Fontham E.T.H. et al.: American Cancer Society perspectives on environmental factors and cancer. CA Cancer J. Clin. 59: 343-351, 2009. 46 La maggioranza delle neoplasie umane è probabilmente la conseguenza dell’interazione tra alcune o molte influenze cancerogene (spesso non identificate) e fattori dell’ospite (geni, ormoni, stato immunitario). Di grande importanza è stato il riconoscimento che fattori estrinseci interagiscono con fattori dell’ospite per determinare la suscettibilità e il rischio globale. Un ruolo centrale in queste interazioni è stato attribuito alla dieta, a seguito dell’osservazione che molte sue componenti possono influenzare, positivamente o negativamente, lo sviluppo neoplastico attraverso meccanismi cancerogeni o anticancerogeni. Virtualmente tutte le sostanze cancerogene per l’uomo lo sono anche per l’animale di laboratorio, questo assunto ha fatto sì che l’approccio sperimentale primario per valutare la cancerogenicità di sostanze chimiche consista nell’effettuazione di saggi biologici nei quali topi o ratti sono esposti a due o tre livelli dell’agente in studio per 2 anni. Un cancerogeno può essere definito come un agente la cui somministrazione ad animali non pretrattati determina un aumento statisticamente significativo dell’incidenza di tumori maligni rispetto a quella osservata in animali di controllo non trattati, indipendentemente dal fatto che questi ultimi presentino bassa o alta incidenza spontanea dei tumori in questione. L’avvento di questi studi di tossicologia ha permesso, in molti casi, di ottenere l’evidenza di cancerogenicità prima che gli studi epidemiologici arrivassero alla stessa conclusione. Tuttavia, la durata e il costo dei saggi biologici limita il numero di sostanze che possono essere testate. Inoltre, può essere difficile o impossibile generare esposizioni negli animali che rispecchino quelle ambientali. I cancerogeni chimici comprendono sostanze con svariati tipi di strutture chimiche, compresi composti sia organici sia inorganici, ai quali gli individui possono essere esposti, spesso inconsapevolmente, nel corso della loro vita. Relativamente pochi cancerogeni hanno azione diretta, in quanto la reattività innata di tali composti tende anche a renderli instabili. Al contrario, la gran parte dei cancerogeni richiede un’attivazione metabolica in specie reattive, spesso nelle cellule bersaglio. Una volta formati, gli intermedi reattivi reagiscono con il DNA per produrre lesioni genetiche che possono causare mutazioni a carico di geni cellulari critici. Le vie metaboliche possono essere fortemente influenzate da una varietà di fattori estrinseci e intrinseci, ed esse rappresentano importanti determinanti della suscettibilità ai cancerogeni su base sia interindividuale sia d’organo bersaglio. La classificazione da parte della IARC di una sostanza come cancerogena per l’uomo non è di per sé informativa del carico di neoplasie da essa causato. Il passo successivo è, pertanto, quello di valutare l’entità del problema in termini di salute pubblica. Il carico di malattia nella popolazione generale dipende sia dal livello di rischio tra gli individui esposti sia dalla prevalenza dell’esposizione nella popolazione. Il rischio per gli individui esposti, a sua volta, varia a seconda di intensità, potenza e durata dell’esposizione, come pure di altri potenziali fattori, inclusa l’esposizione ad altri cancerogeni. In Gran Bretagna si è stimato che, nel 2004, circa l’8% della mortalità per neoplasia tra gli uomini e l’1,5% di quella tra le donne è da attribuire a cancerogeni presenti nell’ambiente di lavoro. A livello mondiale, il 10% della mortalità stimata per neoplasia polmonare, il 2% di quella per leucemia e quasi il 100% della mortalità per mesotelioma è ascrivibile all’esposizione professionale. Nella popolazione mondiale, tra le esposizioni più importanti associate allo sviluppo di neoplasia polmonare vi sono quelle al gas radon in ambiente domestico, al fumo di tabacco e, nei Paesi in via di sviluppo, ai combustibili solidi utilizzati per la cucina e il riscaldamento. A causa dell’elevata prevalenza di fumatori di lunga data e della forza del fumo come causa di malattia, il fumo di sigaretta rimane responsabile sia dell’elevato rischio individuale nei fumatori sia di circa il 30% della mortalità per neoplasia nella popolazione degli Stati Uniti. È importante ricordare che il fumo di tabacco contiene, in grandi quantità, molte specifiche sostanze riconosciute come cancerogene o probabilmente cancerogene sulla base degli studi epidemiologici. Nonostante il fumo di tabacco sia una causa nota di neoplasia e di altre patologie croniche per l’uomo, esso rimane un’importante fattore di esposizione a livello mondiale. L’infezione persistente causata da vari agenti infettivi è responsabile di circa il 18% dei nuovi casi di neoplasia nel mondo, mentre la percentuale di neoplasie attribuite a infezioni rimane circa tre volte 47 maggiore nei Paesi in via di sviluppo (26%) rispetto a quelli industrializzati (8%). Le neoplasie più comuni che riconoscono una base infettiva cronica sono il carcinoma della cervice causato dal papillomavirus umano (HPV), il carcinoma gastrico causato dal batterio H. pylori e l’epatocarcinoma causato da HBV o HCV. Il carcinoma della cervice è la seconda neoplasia più comune nel mondo nella popolazione femminile, con una stima di 555.000 nuovi casi e di 310.000 decessi nel 2007. Circa l’80% dei casi si verifica nei Paesi in via di sviluppo. Virtualmente, tutti i casi di questa neoplasia sono causati da infezioni cervicali ricorrenti da HPV. I tassi di incidenza e di mortalità sono diminuiti drasticamente negli ultimi 25 anni nei Paesi industrializzati, grazie fondamentalmente allo screening mediante il test di Papanicolaou (Pap-test), che consente la diagnosi e il trattamento della IEN. Nel 2007, si è stimata un’incidenza mondiale di 711.000 nuovi casi di neoplasia epatica primitiva; circa i tre quarti sono casi di epatocarcinoma. La neoplasia epatica è la terza causa di mortalità per tumore nel mondo, con 680.000 decessi stimati nel 2007. Globalmente, circa il 75% dei casi e il 50% della mortalità sono causati da un’infezione cronica di HBV o HCV; la frazione di casi attribuibili all’HBV è maggiore nei Paesi in via di sviluppo (59%) rispetto a quelli industrializzati (23%). Le percentuali corrispondenti per l’HCV sono, rispettivamente, 33 e 20%. I tassi di incidenza e mortalità per carcinoma gastrico sono fortemente diminuiti negli ultimi 50 anni, anche se questa neoplasia rimane la quarta più comune al mondo ed è seconda solo alla neoplasia polmonare come causa di mortalità. Nel 2007, il carcinoma gastrico è stato responsabile di un numero stimato di nuovi casi superiore a 1 milione e di 800.230 decessi, con il 60% dei nuovi casi che si sono verificati nei Paesi in via di sviluppo. L’infezione cronica o ricorrente da H. pylori è la principale causa di gastrite cronica e di ulcera peptica, e aumenta il rischio di sviluppare il linfoma gastrico e il carcinoma dello stomaco distale. Le cause reali del declino mondiale dell’incidenza di neoplasie gastriche, nelle passate decadi, non sono note, ma si ritiene che esse comprendano miglioramenti nella dieta e nella conservazione dei cibi, e un declino dell’infezione da H. pylori dovuto a un generale miglioramento delle condizioni sanitarie e a un aumentato impiego di antibiotici (Box e3.8). L’eliminazione di H. pylori in portatori asintomatici è stata proposta come metodo potenziale di prevenzione della neoplasia gastrica. Box e3.8. Effetto della refrigerazione dei cibi sull’incidenza del carcinoma gastrico Nei Paesi occidentali l’incidenza del carcinoma gastrico, una tempo molto comune, è drasticamente diminuita tra il 1950 e il 1990, apparentemente senza alcun specifico intervento ma in corrispondenza di un’aumentata disponibilità della refrigerazione degli alimenti. Dopo la fine del secolo, nuovi metodi di lavorazione e refrigerazione hanno portato a un’enorme varietà di alimenti disponibili nei Paesi sviluppati. Il carcinoma gastrico rimane una delle neoplasie più comuni nei Paesi in via di sviluppo e sembra essere associato alla dieta, specialmente a un elevato consumo di cibi sotto sale. L’uso della refrigerazione può essere inversamente correlato all’uso della salatura, di altri metodi di conservazione degli alimenti che utilizzino il sale, come salatura e affumicatura, e alla quantità di sale nella dieta. Il declino della mortalità da neoplasie dello stomaco, del fegato e del retto è stato attribuito all’aumentato impiego della refrigerazione e alla diminuzione dell’uso di metodi più antichi di conservazione dei cibi. L’uso a lungo termine della refrigerazione è stato dimostrato dimezzare il rischio di neoplasia gastrica, mentre il rischio è risultato elevato in coloro che da bambini non hanno avuto la possibilità di conservare i cibi con il freddo. La valutazione di studi di coorte e di casi-controlli (1980-1990) ha rilevato un rischio consistentemente aumentato di neoplasia gastrica in condizioni di rifornimento idrico non centralizzato (specialmente acqua di pozzo), elevata assunzione di sale e tardiva disponibilità di impianti frigoriferi. Il punto di vista condiviso è che il declino dell’incidenza della neoplasia gastrica nei Paesi sviluppati sia attribuibile alla migliorata igiene degli alimenti e all’aumentata disponibilità di impianti frigoriferi e, forse, anche alla transizione nei metodi di conservazione degli alimenti dalla salatura alla refrigerazione. Da: Bode A.M. et al.: Cancer prevention research – then and now. Nature Rev. Cancer 9: 508-516, 2009; modificato. 48 Tipi di prevenzione La forma migliore di trattamento della neoplasia è la prevenzione e la malattia da prevenire è la cancerogenesi. All’epoca della diagnosi, anche con le tecnologie avanzate attualmente disponibili, oltre il 90% della vita biologica della neoplasia è trascorsa ed è stata persa la possibilità più efficace di controllare il processo maligno. La prevenzione è distinta in primaria, secondaria e terziaria. La prevenzione primaria mira alla fase di iniziazione della neoplasia e si pone come obiettivo globale la riduzione della comparsa della malattia. La prevenzione primaria è indirizzata a individui normali e asintomatici. Principali strategie di riduzione del rischio comprendono la cessazione dell’abitudine al fumo, la riduzione dell’esposizione solare, l’aumento dell’attività fisica, i cambiamenti nella dieta e la riduzione dell’assunzione di alcol. A seguito della crescente identificazione di alterazioni genetiche ereditarie che predispongono i portatori allo sviluppo della neoplasia, questi individui sono stati identificati come il bersaglio per interventi primari quali la chirurgia profilattica. Anche la mammografia annuale di screening in donne di età superiore a 50 anni e la cessazione dell’abitudine al fumo o la chemioprevenzione in fumatori asintomatici sono esempi di prevenzione primaria mirata. Altri esempi di interventi primari sono il recente impiego di vaccini contro l’infezione da HPV e la vaccinazione contro l’HBV. Oltre alla mammografia, altre modalità di screening ben accette sono la pan-colonscopia e il Pap-test. Di recente, la chemioprevenzione è emersa come una nuova modalità medica per la prevenzione primaria delle neoplasie. Essa prevede l’utilizzo di agenti farmacologici per prevenire, sopprimere o revocare lo sviluppo della neoplasia. Il suo razionale scientifico è basato sul concetto fondamentale di cancerogenesi, un processo a lunga evoluzione e a più fasi (durata fino a 20 o più anni) che porta allo sviluppo di un carcinoma invasivo. Agenti per la chemioprevenzione sono sottoposti a valutazione per la loro capacità di interrompere attività biologiche in fasi differenti del processo della cancerogenesi, con l’obiettivo globale di ridurre l’incidenza delle neoplasie. Agenti promettenti approdano alla sperimentazione clinica solo dopo che dati sufficienti siano stati raccolti in studi epidemiologici, di laboratorio e nell’animale da esperimento. In maniera del tutto simile alla tradizionale ricerca clinica, agenti per la chemioprevenzione sono sottoposti alla valutazione della sicurezza e dell’efficacia nell’ambito di studi di fase I, II e III (Tab. e3.12). In oncologia, gli studi di chemioprevenzione differiscono da quelli terapeutici per diversi aspetti chiave, quali la popolazione dello studio, gli agenti e la misura di efficacia (end point). La popolazione appropriata per questo tipo di studi è costituita da individui apparentemente sani, ma che possono essere a rischio aumentato di sviluppare una neoplasia a causa dell’esposizione a cancerogeni o di una suscettibilità genetica. Questo gruppo può comprendere individui che hanno uno stile di vita ad alto rischio, delle lesioni preneoplastiche oppure sono stati precedentemente trattati e guariti per una neoplasia e presentano un rischio aumentato di sviluppare una ricaduta oppure un secondo primitivo. La classificazione di agenti per la chemioprevenzione è difficile a causa del fatto che i meccanismi di azione non sono sempre conosciuti. In generale, gli agenti potenziali possono essere classificati in due ampie categorie: agenti bloccanti e agenti soppressori. Gli agenti bloccanti sono composti che inibiscono le fasi più precoci della cancerogenesi, mentre gli agenti soppressori bloccano l’evoluzione delle cellule pretumorali in un carcinoma invasivo, negli stadi più avanzati della cancerogenesi. L’incidenza della neoplasia è considerata la misura di efficacia definitiva nell’ambito della chemioprevenzione ed è valutata nel contesto di grandi studi randomizzati di fase III. Gli studi di fase II si concentrano su misure intermedie capaci di predire lo sviluppo della neoplasia, le quali sono rappresentate da biomarcatori clinici, istologici, biochimici e molecolari, in grado di misurare processi biologici normali, sottili mutamenti nella cancerogenesi o risposte farmacologiche. Sebbene nessun biomarcatore sia ancora stato validato, le ricerche in corso continuano a essere una priorità nel campo della chemioprevenzione. Solo pochi agenti per la chemioprevenzione delle neoplasie sono stati approvati per l’impiego clinico; tra questi vi è il tamoxifene, che è stato approvato per la riduzione del rischio di carcinoma mammario in donne ad alto rischio. 49 Tab. e3.12. Confronto delle caratteristiche degli studi di chemioprevenzione. Fase I Scopo Stabilire la dose più sicura con tossicità minima o assente IIa Valutazione preliminare di end point intermedi (surrogati di incidenza della neoplasia) IIb Conferma della modulazione di end point intermedi (surrogati di incidenza della neoplasia) III Determinare l’effetto dell’agente sull’incidenza della neoplasia Disegno • Incremento di dose • Breve durata (fino a 6 mesi) • Arruolamento di 15-30 soggetti ad alto rischio di sviluppare una neoplasia • Incremento di dose per determinare quella più bassa e meno tossica che mantiene l’attività biologica • Breve durata (6-12 mesi) • Arruolamento di 30-100 soggetti ad alto rischio di sviluppare una neoplasia • Randomizzato • Placebo controllato • Doppio cieco (quando possibile) • Lungo follow-up (5-10+ anni) • Arruolamento di centinaia fino a molte migliaia di soggetti ad alto rischio di sviluppare una neoplasia • Randomizzato • Placebo controllato • Doppio cieco Da: Smith J.J. et al.: Chemoprevention: a primary cancer prevention strategy. Semin. Oncol. Nurs. 21: 243-251, 2005. La prevenzione secondaria mira alla fase di promozione della cancerogenesi. Una volta che il mutamento iniziale del genotipo si è verificato, esiste una probabilità che il processo maligno evolverà, alla fine, in una neoplasia. La prevenzione secondaria è definita come la diagnosi e il trattamento precoci della malattia prima della comparsa di segni o sintomi. La prevenzione secondaria attraverso lo screening appropriato di individui asintomatici è in grado di produrre diminuzioni significative nella morbilità e mortalità legate alle neoplasie. Le neoplasie per le quali uno screening è appropriato hanno diverse caratteristiche (Box e3.9). Nella Tabella e3.13 sono presentate le raccomandazioni formulate dall’American Cancer Society per lo screening di neoplasie in individui asintomatici con rischio intermedio. 50 Box e3.9. Caratteristiche delle neoplasie per le quali è appropriato lo screening • • • • • La neoplasia deve presentare un chiaro pericolo per morbilità e mortalità se non diagnosticata. La neoplasia deve avere una fase preclinica che abbia prevalenza e incidenza elevate come pure una storia naturale e una biologia che possano essere predette. In altri termini, la neoplasia deve verificarsi abbastanza di frequente ed essere presente a un tasso significativo per giustificare lo screening di una popolazione asintomatica. Deve essere disponibile un trattamento efficace per la neoplasia in fase iniziale, in modo che una diagnosi precoce porti a un trattamento che diminuirà la mortalità per la malattia. Il test di screening deve essere accessibile e ben accetto sia dal paziente sia dal curante, in modo che possa essere ottenuta l’adesione allo screening. Dovrebbe essere possibile somministrare il test a una popolazione asintomatica in maniera costo-efficace. Tab. e3.13. Raccomandazioni dell’ACS per la diagnosi precoce di neoplasie in individui a rischio intermedio, asintomatici. Sede della neoplasia Mammella Colon-retto Popolazione Test o procedura Frequenza Donne età ≥ 20 anni Autopalpazione Esame clinico del seno Uomini e donne età ≥ 50 anni Mammografia Sangue occulto fecale (SOF) Sigmoidoscopia Almeno ogni 3 anni se età di 20-30 anni Preferibilmente annuale se età ≥ 40 anni Annuale dall’età di 40 anni Annuale dall’età di 50 anni SOF e sigmoidoscopia oppure clisma a doppio contrasto oppure colonscopia TC colongrafia Prostata Uomini età ≥ 50 anni Esame digitale rettale e valutazione del PSA Cervice Donne età ≥18 anni Test di Papanicolaou (Pap-test) Ogni 5 anni dall’età di 50 anni Ogni 5 anni dall’età di 50 anni Ogni 10 anni dall’età di 50 anni Ogni 5 anni dall’età di 50 anni Annuale dall’età di 50 anni se aspettativa di vita di almeno 10 anni Tre anni dopo l’inizio dei rapporti sessuali, ma non oltre età di 21 anni. Ogni 2-3 anni se età ≥ 30 anni e 3 test normali in fila ACS: American Cancer Society. Da: Smith R.A. et al.: Cancer screening in the United States, 2009: a review of current American Cancer Society guidelines and issues in cancer screening. CA Cancer J. Clin. 59: 27-41, 2009; modificata. La prevenzione terziaria rappresenta un tentativo di diagnosticare precocemente le neoplasie. Una diagnosi precoce, nella quale le neoplasie siano diagnosticate a seguito di visite di controllo per segni 51 o sintomi, è classificata come prevenzione terziaria ed è divenuta parte integrante della pratica dell’oncologia clinica. La chemioprevenzione di una seconda neoplasia primitiva in un individuo che ha avuto un precedente tumore rappresenta anch’essa una forma di prevenzione terziaria. Aspetti di metodologia clinica in oncologia Sperimentazione clinica in oncologia Gli studi clinici sono esperimenti per determinare il valore dei trattamenti. In oncologia, l’uso di studi clinici è simile a quello di discipline mediche che studiano prevenzione, farmaci e dispositivi. Negli stadi precoci di sviluppo di nuove terapie, i ricercatori clinici valutano l’evidenza riguardante trattamenti correlati e conducono studi clinici non comparativi con la terapia sperimentale. La transizione dal laboratorio alla clinica è guidata da piccoli studi mirati piuttosto che da studi clinici di grandi dimensioni. Gli studi traslazionali sono esperimenti di dimensione limitata e possono essere il tipo più comune di studi clinici condotti. La metodologia degli studi traslazionali non è stata pienamente formulata in letteratura e spesso si è detto che la tradizionale linea di demarcazione tra il laboratorio e la clinica sia lo studio di fase I. In realtà, l’interfaccia tra ricerca di laboratorio e sviluppo clinico è costituita dagli studi traslazionali. L’esito (outcome) in uno studio traslazionale è un marcatore biologico (target), che può richiedere una validazione quale parte integrante dello studio. Non si tratta di un esito surrogato, poiché esso non è usato per valutare il beneficio clinico, sebbene possa anticipare quesiti successivi a esso relativi. L’azione del trattamento sul target definisce quelli che saranno i successivi passi sperimentali da intraprendere. In particolare, l’assenza di un cambiamento positivo del target è indice di inattività del trattamento. Pertanto, l’esito biologico di uno studio traslazionale può fornire un’evidenza definitiva nel contesto del paradigma accettato della specifica malattia e del relativo trattamento. Buoni segnali biologici potrebbero essere basati su un cambiamento nei livelli di una proteina, nell’espressione di un gene o nell’attività di un enzima. Le caratteristiche fondamentali di uno studio traslazionale sono descritte nella Tabella e3.14. Occorre però sottolineare che esistono limitazioni degne di nota in questi disegni di studio: una è la mancanza di una dimostrata validità clinica dell’esito, mentre un’altra è rappresentata dalle scadenti proprietà statistiche delle stime effettuate su campioni di piccole dimensioni. Tab. e3.14. Caratteristiche fondamentali di uno studio traslazionale. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. Lo studio è fondato su un’evidenza preclinica promettente L’algoritmo di trattamento di una specifica neoplasia può essere cambiato La valutazione del trattamento e del marcatore biologico (target) è pienamente specificata in un protocollo di studio La valutazione dipende da uno o più target biologici che forniscano l’evidenza definitiva di un effetto meccanicistico L’esito è misurabile con un piccolo livello di incertezza. La validazione del target può anche essere un obiettivo dello studio, nel qual caso l’imprecisione nella misurazione dell’esito potrebbe anche rappresentare un fallimento Si cercano grandi effetti sul target sotto studio Il protocollo definisce chiaramente “l’assenza di effetto” sul target Il protocollo specifica le successive valutazioni sperimentali da intraprendere in relazione a un qualunque possibile esito dello studio Lo studio è dimensionato per guidare ulteriori esperimenti ma non necessariamente per produrre una forte evidenza statistica Da: Piantadosi S. et al.: Biostatistics and bioinformatics in clinical trials. In: Abeloff’s clinical oncology. 4th ed. 2008, vol. 1, p. 311; modificata. 52 Gli studi clinici focalizzati sulla valutazione della relazione tra dose e sicurezza di nuovi farmaci o agenti biologici sono spesso denominati studi di fase I. Il loro scopo è quello di studiare la distribuzione, il metabolismo, l’escrezione, la tossicità e, nel caso di farmaci citotossici, determinare la dose associata con effetti collaterali tollerabili e reversibili. Gli studi di fase I sono spesso condotti in pazienti oncologici che sono già stati trattati con le terapie ritenute “standard” per la loro specifica neoplasia. Le caratteristiche del disegno classico di fase I sono le seguenti: (1) predefinizione di una piccola serie di dosi del farmaco da valutare; (2) trattamento di un piccolo numero (per es. 3) di pazienti per ciascuna dose con monitoraggio della tossicità; (3) regole decisionali per interrompere lo studio sulla base degli esiti clinici; (4) regole decisionali per incrementare o ridurre la dose in coorti successive di pazienti. Spesso pochi pazienti addizionali sono studiati alla dose finale, con un numero totale di pazienti trattato che è generalmente inferiore a 25-30. Questo tipo di disegno riduce certi problemi di carattere pratico ed etico connessi alla somministrazione nell’uomo di agenti con proprietà sconosciute; esso tende però a trattare numeri relativamente maggiori di pazienti alle dosi più basse (inefficaci). Queste caratteristiche tendono a selezionare dosi conservative da utilizzare nella successiva valutazione di fase II. Disegni migliorati di fase I sono stati proposti per correggere tali problemi. In alcuni di questi disegni, le dosi non sono predefinite ma vengono determinate sulla scorta dei risultati ottenuti nel corso dello studio e di un modello matematico della curva dose-tossicità. La dimensione finale della popolazione studiata, pertanto, non è fissata in anticipo ma dipende dalle tossicità osservate. Dopo la fase I, gli studi che si focalizzano sulla dimostrazione di sicurezza e di attività di un nuovo trattamento sono, convenzionalmente, detti di fase II. Il quesito principale al quale dare risposta in questo stadio dello sviluppo è se o meno il nuovo trattamento è abbastanza promettente da giustificare una valutazione comparata con la terapia standard nell’ambito di un grande studio di fase III, ossia di uno studio rigoroso con un gruppo interno di controllo. In tale fase intermedia dello sviluppo, il disegno di studio generalmente adottato è quello che prevede una singola coorte di pazienti con un gruppo esterno di controllo. Il confronto con il gruppo di controllo è basato sulla letteratura, sulla precedente esperienza del ricercatore o sull’opinione condivisa di ciò che costituisca un livello utile di attività per una data malattia. Gli studi di fase II fanno uso, di solito, di esiti clinici surrogati in luogo di quelli definitivi quali la sopravvivenza. Esiti surrogati sono scelti poiché, idealmente, possono essere conosciuti subito dopo il trattamento, possono essere misurati facilmente e accuratamente e sono ritenuti informativi rispetto a successivi esiti definitivi. La regressione tumorale, espressa come tasso di risposta, è un classico esito surrogato di attività nella fase II, dove, sulla base del modello citotossico, implica la distruzione delle cellule tumorali. Sfortunatamente, la regressione tumorale è un cattivo surrogato della sopravvivenza. Inoltre, alcune terapie non inducono una significativa regressione tumorale come quella attesa nell’usuale modello citotossico. A tale riguardo, un esempio può essere quello di agenti con meccanismo citostatico. Due tipi di disegno sono comunemente utilizzati per gli studi di fase II: quello con dimensione fissa del campione e quello a stadi. Negli studi con dimensione fissa del campione, il numero dei soggetti da studiare è stabilito in anticipo; il disegno a stadi utilizza invece una valutazione del trattamento dopo che siano stati arruolati gruppi numericamente predefiniti di pazienti, consentendo un’interruzione precoce dell’arruolamento se si osservano tassi di risposta elevati o bassi. Eccellenti disegni di studio possono essere ottenuti con soltanto due stadi di arruolamento della casistica. Lo stadio finale dello sviluppo clinico è lo studio di fase III. In generale, il disegno di questi studi prevede l’assegnazione casuale (randomizzazione) di un gran numero di pazienti, portatori di uno specifico tipo di neoplasia, al trattamento sperimentale o a quello standard (gruppo interno di controllo), se ne esiste uno, oppure a placebo. Gli studi di fase III tentano di fornire una guida che aiuti gli oncologi medici ad assumere decisioni terapeutiche, basate su prove oggettive, nella gestione dei pazienti. Di conseguenza, gli esiti da valutare in questi studi sono quelli che misurano direttamente lo stato di benessere del paziente. Sopravvivenza e controllo dei sintomi rappresentano due di questi esiti, anche se l’ultimo non è utilizzato di routine a causa delle difficoltà di misurazione in maniera affidabile e del fatto che possa essere influenzato da trattamenti concomitanti. Dal momento che i 53 risultati di fase III devono essere applicabili a pazienti osservati nella comune pratica clinica, è importante che i criteri di eleggibilità dei pazienti non siano troppo selettivi, riducendo così la possibilità di generalizzare le conclusioni dello studio. Criteri di stadiazione delle neoplasie L’estensione anatomica della malattia è uno dei tre assi principali della classificazione delle neoplasie, mentre gli altri due sono rappresentati dalla sede topografica e dall’istotipo. La stadiazione fornisce un formato per lo scambio uniforme di informazioni tra i clinici sull’estensione di malattia nonché una base per la scelta degli approcci terapeutici iniziali e per giudicare se vi sia la necessità o meno di un trattamento adiuvante. Per i ricercatori clinici, la stadiazione consente la stratificazione dei pazienti nell’ambito degli studi osservazionali e di quelli terapeutici e facilita lo scambio di informazioni attraverso la raccolta di dati e la letteratura scientifica. La stadiazione fornisce un mezzo per la valutazione di fattori prognostici di tipo non anatomico nell’ambito di specifici stadi anatomici. Infine, la stadiazione può anche essere utilizzata per misurare gli sforzi indirizzati alla diagnosi precoce (per es. per vedere quale impatto potrebbe avere lo screening sulla distribuzione in stadi di una neoplasia al momento della diagnosi). La classificazione internazionale TNM, formulata congiuntamente dall'International Union Against Cancer e dall'American Joint Committee on Cancer, descrive l’estensione anatomica di una neoplasia nel paziente ed è basata sulla premessa che la scelta del trattamento e la probabilità di sopravvivenza siano connesse all’estensione del tumore a livello della sede di origine (T), alla presenza o assenza del tumore nei linfonodi regionali (N), e alla presenza o assenza di metastasi al di là dei linfonodi regionali (M; Tab. e3.15). Le neoplasie devono essere classificate prima del trattamento (stadiazione clinica – cTNM) e dopo l’intervento chirurgico (stadiazione patologica – pTNM). Il T è generalmente diviso in quattro parti principali (da T1 a T4), che esprimono l’aumento di dimensione o di diffusione del tumore primitivo. L’N e l’M comprendono almeno due categorie ciascuno (0 e 1, ossia assenza o presenza di tumore). Diverse sedi anatomiche presentano delle sottocategorie, con fino a quattro suddivisioni di T1 e T4 e sei suddivisioni di pN1 nel carcinoma mammario, e tre suddivisioni dell’M nel carcinoma prostatico. La classificazione mediante il sistema TNM ottiene una descrizione e registrazione ragionevolmente precise dell’estensione apparente della malattia nel paziente. Tuttavia, una neoplasia con quattro gradi per il T, tre gradi per l’N e due gradi per l’M presenterà complessivamente 24 categorie TNM. Ai fini della tabulazione e dell’analisi dei dati, eccetto nelle casistiche molto ampie, è necessario condensare queste categorie in un numero conveniente di gruppi di stadio TNM. Il raggruppamento adottato deve assicurare che ciascun gruppo sia omogeneo rispetto alla sopravvivenza e che i tassi di sopravvivenza di questi gruppi specifici per ciascuna sede tumorale siano caratteristici (per es. pazienti con neoplasie in stadio I generalmente sopravvivono alla malattia; quelli in stadio IV generalmente soccombono alla malattia). L’importanza della stadiazione nella gestione del paziente non può essere troppo enfatizzata. Il ruolo principale della stadiazione è quello di stratificare i pazienti in gruppi che siano simili dal punto di vista prognostico e terapeutico. Senza questa cornice di riferimento, sarebbe difficile avere studi clinici significativi. Un secondo scopo della stadiazione è quello di consentire un confronto attraverso grandi popolazioni entro confini geopolitici o tra Paesi diversi. Dal momento che l’attuale strategia di stadiazione anatomica (TNM) rappresenta uno standard mondiale, questa opportunità di confronto diventa ancora più importante. In terzo luogo, la stadiazione consente di avere una cornice di riferimento per la discussione, specialmente tra i clinici direttamente coinvolti nel trattamento dei pazienti. Una delle critiche rivolte alla sesta edizione (la settima è stata pubblicata nel 2010) del sistema TNM è stata quella che esso potesse essere troppo semplice da un punto di vista biologico. È noto che, generalmente, una neoplasia crescerà a livello locale e si espanderà in modo locoregionale. A seguito di questa crescita locale, può esserci o meno un coinvolgimento ordinato dei linfonodi regionali, sebbene i meccanismi di tale diffusione non siano stati ancora del tutto elucidati. Infine, le neoplasie diffondono ai visceri e possono o meno interessare le strutture linfovascolari circostanti. La biologia della maggior parte delle neoplasie è certamente più complessa di questa semplice cornice di riferimento, sebbene la base del sistema TNM abbia retto alla 54 prova del tempo. Gli elementi fondamentali e la combinazione di questi elementi (gruppi di stadio specifici per neoplasie di particolari sedi anatomiche) servono come uno dei più importanti fattori prognostici nel formulare ipotesi sulla sopravvivenza globale del paziente oncologico. Una definizione di fattore prognostico è quella che esso “serva come una variabile in grado di spiegare un po’ dell’eterogeneità associata con l’andamento e l’esito attesi di una malattia”. Questo fattore ha un ruolo nella previsione della prognosi di uno specifico paziente oncologico, ma deve essere modificato e modulato da altri importanti fattori biologici che, nel frattempo, siano stati sottoposti a valutazione. Una delle difficoltà incontrate nella creazione della sesta edizione del sistema TNM è stata quella di riesaminare e di classificare tutte le variabili prognostiche che erano state pubblicate per una data sede di neoplasia. Insieme a fattori relativi alla neoplasia, è importante considerare fattori specifici dell’ospite. L’età del paziente e lo stato menopausale si sono naturalmente dimostrati importanti, poiché sono specificamente collegati al ruolo di marcatori ormonali. Oltre a fattori dell’ospite quali età e storia riproduttiva, la storia familiare e fattori molecolari (per es. l’instabilità dei microsatelliti) continueranno a essere importanti fattori prognostici. Altri fattori, quali lo stato immunitario e l’obesità, hanno anche un ruolo da giocare nella prognosi di alcune forme di neoplasia. Tab. e3.15. Sistema di classificazione TNM. Categoria Tumore primitivo (T) TX T0 Tis T1, T2, T3, T4 Linfonodi regionali (N) NX N0 N1, N2, N3 Metastasi a distanza (M) MX M1 M2 Grading istologico (G) GX G1 G2 G3 G4 Tumore residuo (R) RX R0 R1 R2 Descrizioni aggiuntive cTNM pTNM rTNM aTNM Definizione Il tumore primitivo non può essere definito Non segni di tumore primitivo Carcinoma in situ Aumento delle dimensioni e/o dell’estensione locale del tumore primitivo I linfonodi regionali non possono essere definiti Non metastasi nei linfonodi regionali Aumento dell’interessamento dei linfonodi regionali La presenza di metastasi a distanza non può essere accertata Non metastasi a distanza Metastasi a distanza Il grading non può essere definito Ben differenziato Moderatamente differenziato Poco differenziato Indifferenziato La presenza di tumore residuo, dopo trattamento, non può essere accertata Non vi sono residui tumorali Residui tumorali microscopici Residui tumorali macroscopici Stadio TNM clinico Stadio TNM patologico Stadio TNM di un tumore recidivato Stadio TNM definito al riscontro autoptico Da: Badellino F.: TNM Classificazione dei tumori maligni. Prontuario per la stadiazione, 6a ed. Minerva Medica, Torino, 2003. 55 Fattori prognostici e predittivi Fattori prognostici e predittivi sono entrambi di grande rilevanza nel processo decisionale relativo alla scelta terapeutica al fine di individualizzare il trattamento, ma hanno ruoli distinti. Fattori prognostici e predittivi possono essere derivati dalle caratteristiche del paziente oppure dal tipo di neoplasia. I fattori prognostici intendono prevedere in maniera obiettiva e autonoma l’esito clinico del paziente indipendentemente dal trattamento, mentre i fattori predittivi hanno lo scopo di predire la risposta di un paziente a uno specifico intervento terapeutico e sono associati alla sensibilità o alla resistenza a quella terapia. I fattori prognostici di necessità richiedono una definizione nell’ambito di coorti di pazienti che non siano sottoposti a trattamento sistemico adiuvante (Tab. e3.16). La sfida più importante per la classificazione TNM è l’interfacciarsi con il gran numero di fattori prognostici non anatomici che sono attualmente in uso o in corso di valutazione (Tab. e3.17). Tab. e3.16. Definizione di categorie di rischio di ricaduta per pazienti operate di carcinoma mammario invasivo. Categoria di rischio Rischio basso Rischio intermedio Rischio alto Gruppo di fattori prognostici Linfonodi ascellari negativi e tutte le seguenti caratteristiche: pT ≤ 2 cm Grado 1 Assenza di estesa invasione vascolare peritumorale ER e/o PgR espressi Nessuna iperespressione o amplificazione del gene HER2/neu Età ≥ 35 anni Linfonodi ascellari negativi e almeno una delle seguenti caratteristiche: pT > 2 cm Grado 2-3 Presenza di estesa invasione vascolare peritumorale ER e PgR assenti Iperespressione o amplificazione del gene HER2/neu Età < 35 anni Linfonodi ascellari positivi (1-3 linfonodi interessati) e tutte le seguenti caratteristiche: ER e/o PgR espressi Nessuna iperespressione o amplificazione del gene HER2/neu Linfonodi ascellari positivi (1-3 linfonodi interessati) e almeno una delle seguenti caratteristiche: ER e PgR assenti Iperespressione o amplificazione del gene HER2/neu Linfonodi ascellari positivi (≥ 4 linfonodi interessati) ER: recettore per gli estrogeni; PgR: recettore per il progesterone; pT: dimensione patologica del tumore primitivo. Da: Goldhirsch A. et al. Progress and promise: highlights of the International expert consensus on the primary therapy of early breast cancer 2007. Ann. Oncol. 18: 11331144, 2007; modificata. 56 Tab. e3.17. Esempi scelti di fattori prognostici essenziali, aggiuntivi e nuovi per il carcinoma colo-rettale. Categoria Essenziali Aggiuntivi Nuovi e promettenti Tipo di fattore prognostico Categorie T, N, M Grado istologico Invasione venosa extramurale Occlusione Qualità della chirurgia Grado Perforazione tumorale Invasione perineurale Pattern invasivo Reazione linfoide peritumorale Tipo midollare Livelli circolanti di CEA Numero di linfonodi resecati Instabilità dei microsatelliti LOH 18q P53 Ploidia Espressione del VEGF Numero di copie di 20q Cariotipo (Altri) CEA: antigene carcinoembrionale; LOH 18q: perdità di eterozigosità del braccio lungo del cromosoma 18; VEGF: Vascular Endothelial Growth Factor. Da: Greene F.L. et al.: The staging of cancer: a retrospective and prospective appraisal. CA Cancer J. Clin. 58: 180-190, 2008; modificata. I fattori predittivi possono essere il bersaglio di una specifica terapia. Per esempio, il recettore tirosinchinasico codificato dall’oncogene HER2/neu è il bersaglio dell’anticorpo monoclonale trastuzumab e l’amplificazione dell’oncogene è predittiva di risposta favorevole alla terapia anti-HER2 nel carcinoma mammario. È importante notare che lo stato di HER2 è anche un indicatore prognostico e, come molti fattori, ha un significato misto prognostico/predittivo. Similmente il Ki67, una proteina nucleare non istonica universalmente espressa da cellule in attiva proliferazione e assente in cellule quiescenti, è un marcatore di proliferazione che mostra un forte effetto prognostico, ma sembra anche capace di predire una risposta favorevole alla chemioterapia sistemica nel carcinoma mammario. In generale, i marcatori prognostici aiutano a stabilire se un paziente richieda o meno un trattamento, mentre un fattore predittivo è utile per decidere quale sia il trattamento migliore. Recentemente si è assistito a un aumento nella formulazione di combinazioni di marcatori per definire prognosi specifiche per tipo di trattamento (Tab. e3.18). Questo aspetto è di interesse speciale per definire il rischio residuo di ricaduta quando un paziente è trattato in un modo specifico e per valutare l’importanza potenziale di ulteriori opzioni terapeutiche. Per esempio, grandi sforzi, specialmente a livello del trascrittoma (l’intero set di molecole di RNA prodotte in una cellula o in una popolazione cellulare), sono stati fatti per discriminare quali pazienti con carcinoma mammario in fase precoce ed ER-positivo possano beneficiare realmente dell’aggiunta della chemioterapia adiuvante e quali di esse, invece, possano evitare il trattamento chemioterapico e i suoi effetti collaterali. 57 Tab. e3.18. Indicazioni relative alla chemioendocrinoterapia adiuvante nel carcinoma mammario ERpositivo e HER2-negativo. Caratteristica patologica Grado istologico Proliferazione2 Fattori a favore di CT + ET Livello di espressione più basso di ER e PgR G3 Elevata Linfonodi ascellari PVI pT Positivi (≥ 4N+) Presenza di estesa PVI > 5 cm ER e PgR1 Fattori non utili per la decisione – G2 Intermedia Positivi (1-3N+) Fattori a favore di sola ET Livello di espressione più alto di ER e PgR G1 Bassa Negativi – 2,1-5 cm Assenza di estesa PVI ≤ 2 cm CT: chemioterapia; ER: recettore per gli estrogeni; ET: endocrinoterapia; PgR: recettore per il progesterone; pT: dimensione patologica del tumore; PVI: invasione vascolare peritumorale. All’immunoistochimica una colorazione per i recettori in ≥ 50% delle cellule tumorali può essere considerata indicativa di neoplasia altamente responsiva all’endocrinoterapia. 1 Misure convenzionali di proliferazione comprendono l’indice di marcatura del Ki67 (per es. basso, ≤ 15%; intermedio, 16-30%; elevato, > 30%) e la descrizione patologica della frequenza di mitosi. 2 Da: Goldhirsch A. et al.: Thresholds for therapies: highlights of the St Gallen International Expert Consensus on the primary therapy of early breast cancer 2009. Ann. Oncol. 20: 1319-1329, 2009; modificata. Criteri di valutazione della risposta al trattamento Nel 1981 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) fu la prima a pubblicare criteri di risposta alle terapie antitumorali. Secondo questi criteri, la risposta completa implica la scomparsa di tutta la malattia misurabile e valutabile, nonché di ogni segno, sintomo e mutamento biochimico indotti dalla malattia per almeno 4 settimane, durante le quali non può comparire alcuna nuova lesione. La risposta parziale implica una riduzione superiore al 50% nella somma dei prodotti dei due diametri perpendicolari di tutte le lesioni misurabili (rispetto alle misure pretrattamento) per almeno 4 settimane, durante le quali non può comparire alcuna nuova lesione e nessuna lesione esistente può ingrandirsi. La malattia stabile presenta una riduzione inferiore al 50% oppure un incremento inferiore al 25% nella somma dei prodotti dei due diametri perpendicolari di tutte le lesioni misurabili e la non comparsa di nuove lesioni per 8 settimane. La progressione o ricaduta è definita come un incremento nel prodotto dei due diametri perpendicolari di qualsiasi lesione misurabile maggiore del 25% rispetto alla dimensione che essa presenta pretrattamento o, nel caso di pazienti che rispondono, rispetto alla dimensione raggiunta al momento della massima regressione oppure la comparsa di nuove lesioni (di solito escludendo le metastasi del sistema nervoso centrale). Un deterioramento dello stato di validità, una perdita superiore al 10% del peso pretrattamento oppure un peggioramento dei sintomi non costituisce una progressione; tuttavia, la loro comparsa dovrebbe indurre ad avviare una rivalutazione dell’estensione di malattia. I criteri di risposta dell’OMS sono stati sostituiti nel 2000 dai criteri RECIST (Response Evaluation Criteria in Solid Tumors). Le caratteristiche salienti di questi nuovi criteri sono la definizione della dimensione minima delle lesioni misurabili, le istruzioni su quante lesioni valutare e l’utilizzo di misure unidimensionali, anziché bidimensionali, per la valutazione globale del carico tumorale (Tab. e3.19). Nel 2009 è stata pubblicata una versione aggiornata dei criteri RECIST. Le principali 58 modifiche introdotte riguardano il numero di lesioni target da valutare, la definizione di linfonodo patologico, la conferma della risposta, la definizione della progressione di malattia, una guida su ciò che rappresenta una progressione inequivocabile della malattia non target e, infine, un algoritmo per l’interpretazione di nuove lesioni, rilevate in corso di terapia mediante la FDG-PET, ai fini della valutazione della progressione. Tab. e3.19. Criteri di risposta RECIST: versioni originale e aggiornata. Caratteristica Misurabilità delle lesioni pretrattamento Risposta obiettiva RECIST1 versione 1.0 1. Lesione target: misurabile, unidimensionale (solo DLM, dimensioni ≥ 20 mm con tecniche convenzionali o ≥ 10 mm con TC spirale) 2. Lesione non target: tutte quelle non misurabili, comprese quelle piccole 1. Lesioni target: variazioni nella somma dei DLM, per un massimo di 5 per organo e fino a 10 in totale (più di un organo) RC: scomparsa di tutte le lesioni target per ≥ 4 settimane RP: regressione ≥ 30% rispetto alla condizione di base per ≥ 4 settimane PRO: aumento ≥ 20% rispetto alla somma più piccola dei DLM osservata durante il trattamento o comparsa di nuove lesioni Stabilità: né RP né PRO 2. Lesioni non target RC: scomparsa di tutte le lesioni non target e normalizzazione dei dei marcatori tumorali PRO: progressione inequivocabile delle lesioni non target esistenti e/o comparsa di nuove lesioni Non PRO: persistenza di una o più lesioni non target e/o marcatori tumorali sopra la norma RECIST2 versione 1.1 1. Definizione di linfonodi patologici: lesione target (diametro minore ≥ 15 mm) 2. Definizione di linfonodi patologici: lesione non target (asse minore ≥ 10 mm e < 15 mm). Linfonodi con diametro minore < 10 mm sono normali 1. Lesioni target: variazioni nella somma dei DLM, per un massimo di 2 per organo e fino a 5 in totale (più di un organo) RC: conferma richiesta solo se la risposta è l’end point primario. Non è richiesta in studi randomizzati con braccio di controllo. Il diametro minore di qualunque linfonodo patologico (target o non target) deve ridursi a < 10 mm RP: vedi RC PRO: oltre ad aumento relativo del 20%, la somma deve anche dimostrare un aumento assoluto di ≥ 5 mm. Forniti criteri per classificare le nuove lesioni rilevate alla FDG-PET durante la terapia 2. Lesioni non target RC: tutti i linfonodi devono essere non patologici (diametro minore pari a < 10 mm) PRO: per una progressione inequivocabile occorre un livello globale di peggioramento delle lesioni non target tale da indurre a ritenere importante modificare la terapia, anche in caso di stabilità o RP della malattia target DLM: diametro longitudinale maggiore; PRO: progressione; RC: risposta completa; RP: risposta parziale. 1 Da: Therasse P. et al.: New guidelines to evaluate the response to treatment in solid tumors (RECIST guidelines). J. Natl. Cancer Inst. 92: 205-216, 2000. 2 Da: Eisenhauer E.A. et al.: New response evaluation criteria in solid tumors: revised RECIST guideline (version 1.1). Eur. J. Cancer 45: 228-247, 2009. 59 Principi di terapia Aspetti generali di chirurgia oncologica La chirurgia è stata, dal punto di vista storico, il solo metodo utilizzato nel trattamento delle neoplasie. Tuttavia, con l’avvento delle radiazioni ionizzanti e lo sviluppo dei farmaci antitumorali, la strategia terapeutica è progredita rapidamente fino a comportare l’accurata integrazione di un’ampia serie di opzioni per il trattamento sia delle neoplasie primitive sia delle recidive. A seguito di ciò, il chirurgo oncologo è divenuto una delle componenti di un gruppo multidisciplinare coinvolto nel trattamento della maggior parte delle neoplasie solide e nel disegno e nella realizzazione di studi clinici. Esistono molte ragioni alla base dell’evoluzione della chirurgia oncologica come specialità a sé stante entro la chirurgia generale, ma le più significative sono le seguenti: (1) la crescente complessità del trattamento multidisciplinare delle neoplasie; (2) le opportunità di ricerca clinica e di base sulla biologia della neoplasia; (3) l’aumentato numero di oncologi medici e di radioterapisti in grado di erodere, in maniera significativa, la figura tradizionale del chirurgo quale coordinatore del trattamento di pazienti oncologici (anche di quelli con malattia in fase precoce); (4) l’aspettativa dei pazienti che il chirurgo sia in possesso delle informazioni più aggiornate e delle opzioni terapeutiche più innovative. La valutazione per il trattamento chirurgico dovrebbe essere basata sulla diagnosi, confermata all’esame istologico, di neoplasia confinata ai tessuti locali o regionali. La diagnosi di neoplasia non può essere dimostrata senza una biopsia, che dovrebbe essere ripetuta se la diagnosi è ambigua. Notevoli progressi sono stati ottenuti nelle tecnologie di imaging (tomografia computerizzata, ecografia e risonanza magnetica) per migliorare l’esecuzione e il risultato delle procedure bioptiche. Attualmente, quattro tecniche sono utilizzate per ottenere un campione tissutale a scopo diagnostico: (1) biopsia mediante agoaspirato; (2) agobiopsia percutanea; (3) biopsia incisionale; (4) biopsia escissionale. La tecnica bioptica scelta dovrebbe essere appropriata per la lesione sospetta e dovrebbe produrre un campione tissutale adeguato per la diagnosi istologica. È importante anche che il chirurgo mantenga una stretta collaborazione con il patologo. Inoltre, se il paziente presenta una diagnosi istologica effettuata presso altra istituzione, è sempre necessario avere una conferma della diagnosi. Può anche essere necessario ottenere blocchi di tessuto per l’allestimento di ulteriori preparati istologici e per effettuare studi più estesi di marcatori citologici e, occasionalmente, effettuare ulteriori biopsie per pervenire a una diagnosi definitiva. La valutazione del rischio chirurgico è basata su diversi fattori. Lo stato fisico del paziente oncologico e le comorbilità, che spesso si accompagnano alla neoplasia, rappresentano delle sfide specifiche per l’équipe chirurgica. L’enfasi dovrebbe essere collocata sulla funzionalità fisiologica piuttosto che sull’età cronologica del paziente. Le scale più utilizzate dagli specialisti in oncologia per la misurazione dello stato di validità del paziente sono la scala dell’Eastern Cooperative Oncology Group (ECOG) e quella di Karnofsky. Queste scale sono utili anche ai chirurghi e agli anestesisti per la determinazione del rischio operatorio. Un confronto tra la scala ECOG e quella di Karnofsky ha dimostrato che entrambe sono validi indicatori prognostici dello stato funzionale, ma la scala ECOG sembra leggermente superiore. Nel caso ve ne sia la necessità, ciascuna scala può essere convertita nell’altra con sufficiente accuratezza (Tab. e3.20). Il paziente oncologico rappresenta un candidato particolarmente difficile per la chirurgia. La mortalità operatoria è generalmente definita come quella che si verifica entro i 30 giorni successivi a una procedura chirurgica maggiore. Tuttavia, le statistiche sulla mortalità operatoria dei pazienti oncologici possono essere ingannevoli. Per esempio, i pazienti sottoposti a una procedura palliativa presentano un tasso di mortalità operatoria molto alto, anche se l’intervento è perfettamente riuscito. In definitiva, il chirurgo oncologo è responsabile di assicurare che l’intervento chirurgico, indipendentemente dalla sua specifica finalità, sia intrapreso senza pericoli, con la consapevolezza dei possibili rischi e complicanze. 60 Tab. e3.20. Scala di misurazione dello stato di validità dell’Eastern Cooperative Oncology Group e corrispondente punteggio della scala di Karnofsky. ECOG (grado) 0 Karnofsky (%) 100 1 80-90 2 60-70 3 40-50 4 ≤ 30 Definizione Paziente in grado di svolgere senza restrizioni la normale attività pretrattamento Paziente limitato nell’attività fisica massima; può essere seguito in ambulatorio e svolgere un lavoro leggero o di tipo sedentario Paziente ambulatoriale e in grado di accudire a se stesso, ma incapace di svolgere ogni attività lavorativa Paziente in grado di accudire a se stesso solo parzialmente e costretto a letto per più del 50% delle ore di veglia Paziente grave costretto a letto e non in grado di accudire a se stesso Da: Niederhuber J.E.: Surgical interventions in cancer. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1, p. 413; modificata. Il trattamento appropriato delle neoplasie primitive varia a seconda del tipo di neoplasia e della regione corporea interessata. Il principio cardine del trattamento chirurgico è la rimozione completa della neoplasia. Questo richiede: (1) di evitare l’impianto di cellule staccatesi dalla neoplasia; (2) di minimizzare la disseminazione iatrogena, linfatica e vascolare delle cellule tumorali; (3) di ottenere un margine completo di tessuto sano intorno alla neoplasia primitiva. Procedure in laparoscopia sono state adottate per il trattamento di diverse neoplasie. I principali vantaggi di tali procedure sono una riduzione del trauma perioperatorio, l’accorciamento dei tempi di degenza e il recupero più rapido da parte del paziente. In molti casi, pazienti nei quali sia stata rilevata la presenza di una singola lesione metastatica possono essere sottoposti a resezione chirurgica con un ragionevole tasso di successo. Molti pazienti con un numero limitato di metastasi a livello di sedi quali il fegato, l’encefalo o il polmone possono essere curati mediante la chirurgia. Tuttavia, il chirurgo deve considerare diversi elementi prima di intraprendere una chirurgia per malattia metastatica. Questi comprendono l’istologia tumorale, l’intervallo libero da malattia, il tempo di raddoppiamento del tumore nonché la localizzazione, la dimensione e l’estensione di malattia. Studi sperimentali suggeriscono che la citoriduzione o debulking chirurgico di una recidiva tumorale presenta importanti vantaggi potenziali. In modelli di laboratorio, la riduzione del tumore aumenta la sensibilità della malattia residua alla chemioterapia e alla radioterapia attraverso l’aumentata proporzione di cellule tumorali in proliferazione, la riduzione del numero di cicli terapeutici necessari per eliminare la malattia, l’aumentata distribuzione cellulare di ossigeno e nutrienti entro il tumore e la riduzione della probabilità di comparsa di cloni cellulari resistenti. Tuttavia, l’evidenza di beneficio clinico nell’uomo sembra essere più limitata. Inoltre, i benefici derivanti dalla citoriduzione risultano notevolmente più evidenti quando la chirurgia si accompagna a un’efficace chemioterapia o radioterapia. Pertanto, il valore della citoriduzione è stato riconosciuto nelle neoplasie solide dell’età pediatrica, nei linfomi e nel carcinoma ovarico. La chirurgia palliativa ha il solo scopo di alleviare i sintomi del paziente. Essa è specificamente indirizzata al miglioramento della qualità di vita e deve essere intrapresa esclusivamente a tale scopo. Esempi di chirurgia palliativa comprendono la risoluzione dell’occlusione intestinale, la rimozione di lesioni neoplastiche per controllare il dolore o l’emorragia e il confezionamento di una digiunostomia per consentire un’alimentazione adeguata. La qualità di vita è un fattore importante nel trattamento del paziente oncologico e il chirurgo oncologo ha la grande responsabilità di fare fronte alle necessità chirurgiche del paziente, sia in termini cosmetici sia in termini terapeutici. La ricostruzione mammaria dopo mastectomia, il trasferimento di tessuto dopo chirurgia del distretto testa-collo e la lisi di 61 contratture o la trasposizione muscolare per restaurare la funzionalità dopo radioterapia sono esempi di tecniche che offrono al paziente un grado maggiore di benessere e una migliore qualità di vita. Oggi è essenziale che lo specialista in chirurgia plastica e ricostruttiva sia coinvolto nel gruppo multidisciplinare ai fini della pianificazione del trattamento, in modo da ottimizzare i risultati ricostruttivi. L’impianto di cateteri venosi centrali a breve o a lungo termine è anch’esso divenuto una procedura chirurgica di comune effettuazione in pazienti oncologici. Questi dispositivi forniscono un accesso venoso per l’infusione di chemioterapici e per prelievi ematici. Infine, nella chirurgia delle emergenze oncologiche occorre tenere conto del fatto che il paziente presenta un eccezionale rischio chirurgico. Questi pazienti sono spesso neutropenici e piastrinopenici, e hanno un elevato rischio di emorragia e sepsi. Le emergenze più comuni comprendono l’emorragia, la perforazione, l’occlusione intestinale, l’infezione o l’insufficienza d’organo. Aspetti generali di radioterapia oncologica L’uso di radiazioni ionizzanti nel trattamento delle neoplasie risale alla fine del XIX secolo, poco dopo la scoperta dei raggi X da parte di Wilhelm Roentgen, nel 1895, e quella del radio a opera dei coniugi Curie, nel 1898. Questi sforzi iniziali hanno stimolato una rivoluzione in termini di innovazioni concettuali e tecnologiche nel corso del secolo scorso, le quali formano la base degli attuali trattamenti. Tra gli sviluppi più importanti vi sono stati: (1) il paradigma del frazionamento di dose; (2) i progressi tecnologici nella produzione ed erogazione di raggi X; (3) i miglioramenti nell’imaging e nella pianificazione computerizzata del trattamento; (4) lo sviluppo di modelli per la previsione del comportamento delle neoplasie e del modo nel quale esse dovrebbero essere affrontate da un punto di vista terapeutico. Nel secolo scorso sono state compiute scoperte rivoluzionarie anche nel campo della radiobiologia e oggi esiste un enorme corpo di conoscenze sulla biologia della neoplasia e sul modo nel quale le radiazioni influenzano i tessuti umani a livello cellulare. La radioterapia è utilizzata per il trattamento di neoplasie localizzate nella maggior parte delle sedi corporee. Il primo impiego della radioterapia è avvenuto in alternativa alla resezione chirurgica o nel trattamento di lesioni non resecabili. A seguito dei progressi nella diagnosi e nelle modalità di trattamento in campo oncologico, tale paradigma è stato gradualmente sostituito durante il secolo scorso. Sebbene la radioterapia continui ad avere il ruolo di unico trattamento negli stadi precoci di alcune neoplasie, essa è ora più comunemente utilizzata quale componente di trattamenti multimodali (Tab. e3.21). Questo sviluppo concettuale è in parte connesso all’evolversi della percezione del modo in cui le neoplasie originano e si diffondono. Per lungo tempo, dalla fine del XIX secolo, la maggior parte dei clinici ha accettato la nozione che le neoplasie avessero origine locale e si diffondessero attraverso uno schema centrifugo. Tale teoria, enunciata più compiutamente da William Halsted nel 1894, ipotizzava che le neoplasie si diffondessero, in modo prevedibile e graduale, a partire dalla lesione primitiva verso i linfonodi regionali e poi, a livello sistemico, verso sedi a distanza. Di conseguenza, ha influenzato i trattamenti oncologici, che si concentravano prevalentemente sul tumore primitivo e sui linfonodi regionali, ma infine è stata messa in discussione dall’ipotesi che le neoplasie fossero di due tipi: permanentemente localizzate oppure capaci di disseminazione metastatica precoce. Tale ipotesi, sostenuta da Bernard Fisher nel 1968, asseriva che la metastasi fosse un evento precoce, che si verifica ancora prima della diagnosi della neoplasia. Questa scuola di pensiero poneva l’accento sulla necessità percepita dell’applicazione precoce di terapie sistemiche e ridimensionava l’importanza del controllo locale. Un terzo modello, la teoria dello spettro, è stato formulato nel 1994. Tale modello ipotizza che gli schemi di diffusione delle neoplasie siano più complessi di quanto ritenuto in precedenza e che esse esistano come un continuo di propensioni alla malattia, enfatizzando il concetto secondo il quale, durante l’accrescimento della neoplasia, le cellule tumorali sviluppano un potenziale metastatico e il processo della progressione neoplastica facilita l’acquisizione della capacità metastatica. Questa teoria afferma che il controllo locoregionale e il controllo sistemico sono entrambi importanti nel disegno di terapie con intento curativo, ed è appoggiata da evidenze cliniche. Per esempio, in studi sul carcinoma mammario ad alto rischio nei quali le pazienti sono state sottoposte a mastectomia seguita o meno da radioterapia su parete toracica 62 e i linfonodi regionali, il trattamento radiante è risultato associato a un numero minore di recidive a distanza e a tassi migliori di sopravvivenza, anche quando la chemioterapia faceva parte del trattamento adiuvante. Tab. e3.21. Elenco di tipi comuni di neoplasie trattate con radioterapia. Neoplasie curabili in stadio precoce con sola radioterapia • Carcinoma prostatico • Carcinoma del distretto testa-collo • Carcinoma polmonare non microcitoma • Carcinoma basocellulare e carcinoma squamoso della cute • Linfoma di Hodgkin • Carcinoma della cervice uterina Neoplasie curabili con regimi che comprendono la radioterapia • Carcinoma mammario • Carcinoma polmonare localmente avanzato (sia non microcitoma sia microcitoma) • Seminoma • Carcinoma endometriale • Carcinoma della cervice uterina localmente avanzato • Diverse neoplasie del sistema nervoso centrale (per es. ependimoma, glioma) • Sarcoma dei tessuti molli • Carcinoma rettale e anale • Linfoma (sia di Hodgkin sia non-Hodgkin) • Carcinoma avanzato del distretto testa-collo • Carcinoma vescicale • Numerose neoplasie pediatriche (per es. tumore di Wilms, medulloblastoma, neuroblastoma, sarcoma di Ewing, rabdomiosarcoma) Da: Connell P.P. et al.: Advances in radiotherapy and implications for the next century: a historical perspective. Cancer Res. 69: 383-392, 2009. Un altro grande progresso concettuale è stato rappresentato dall’impiego della radioterapia come trattamento definitivo (in associazione o meno alla chemioterapia). Questo tipo di radioterapia è utilizzato in luogo di una procedura chirurgica demolitiva, allo scopo di ottenere la preservazione d’organo. Esempi comprendono il trattamento del carcinoma laringeo, del carcinoma della cervice e del carcinoma vescicale localizzato. Se la neoplasia non è eliminata completamente dalla radioterapia oppure se vi è una recidiva, la successiva resezione chirurgica viene descritta come di salvataggio. La radioterapia può anche essere utilizzata prima della chirurgia (radioterapia neoadiuvante) per ridurre la morbilità dell’intervento chirurgico oppure dopo chirurgia definitiva (radioterapia adiuvante) per aumentare le probabilità di controllo locoregionale. Lo scopo dell’associazione delle due modalità terapeutiche è quello di migliorare le possibilità di guarigione e di preservare la funzionalità d’organo. Esempi clinici di queste strategie comprendono il trattamento della neoplasia mammaria e dei sarcomi dei tessuti molli. La chemiosensibilizzazione dei tessuti alla radioterapia è in grado di produrre un effetto sinergico sulla distruzione delle cellule tumorali, aumentando pertanto l’indice terapeutico. I farmaci chemioterapici sono gli agenti attualmente più utilizzati a scopo radiosensibilizzante (Tab. e3.22). Effetti radiosensibilizzanti sono stati dimostrati nel trattamento delle neoplasie del distretto testa-collo, del microcitoma polmonare, del carcinoma polmonare non microcitoma, del carcinoma della cervice, della vescica, dell’ano, del pancreas, dell’esofago, del retto e del glioblastoma multiforme. L’importanza della chemioterapia in concomitanza con la radioterapia definitiva è 63 esemplificata dai miglioramenti nella sopravvivenza dimostrati, in seguito all’aggiunta di cisplatino alla radioterapia radicale, nel trattamento del carcinoma localmente avanzato della cervice o del distretto testa-collo. Tuttavia, il rischio di tossicità severa ai danni dei tessuti normali dovrebbe essere attentamente considerato quando si pianifica un trattamento combinato di radiochemioterapia. A livello mondiale, la radioterapia rimane la modalità più diffusamente impiegata per il trattamento palliativo dei sintomi causati dalla diffusione o dalla crescita tumorale. L’esempio più comune di tale impiego clinico è il trattamento delle metastasi ossee a scopo antalgico. La radioterapia palliativa è spesso utilizzata per arrestare sanguinamenti e per risolvere ostruzioni (per es. delle vie aeree, del lume intestinale) o il dolore. Un ulteriore esempio di miglioramento della qualità di vita ottenuto con la radioterapia è il trattamento precoce della compressione midollare causata dal mieloma multiplo o dal carcinoma prostatico. Tab. e3.22. Esempi di agenti chemioterapici con effetti radiosensibilizzanti. Agente 5-fluorouracile Meccanismo proposto di sensibilizzazione Inibizione della timidilato sintetasi Platino-derivati Formazione di legami crociati e addotti del DNA Mitomicina C Formazione di legami crociati e addotti del DNA Inibizione della ribonucleotide reduttasi Inibizione della polimerizzazione dei microtubuli Alchilazione e metilazione del DNA Gemcitabina Paclitaxel Temozolomide Impiego clinico Neoplasie distretto testa-collo, gastroenteriche, vescicali, anali Neoplasie della testa-collo, ginecologiche, vescicali, polmonari, anali Neoplasie anali, vescicali Neoplasie pancreatiche, della testacollo, polmonari, vescicali Neoplasie polmonari, ginecologiche, della testa-collo Glioblastoma multiforme Da: Sharma R.A. et al.: Basics of radiation therapy. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1, p. 433; modificata. Aspetti generali di terapia sistemica antitumorale La terapia sistemica antitumorale è definita come chemioterapia citotossica, endrocrinoterapia o terapia con bersaglio molecolare (targeted therapy). Dal punto di vista storico, la chemioterapia è stata utilizzata principalmente per il trattamento della malattia metastatica, dopo il fallimento delle terapie locali, ed essa rimane il trattamento di scelta in tali casi. Tuttavia, i progressi della terapia sistemica hanno stimolato un crescente apprezzamento dell’importante ruolo che la chemioterapia può rivestire nel trattamento della malattia apparentemente localizzata e resecabile. Tale riconoscimento ha reso possibile lo sviluppo di altre applicazioni della terapia sistemica volte a ridurre l’incidenza delle ricadute postchirurgia (terapia adiuvante) oppure a consentire procedure chirurgiche conservative e con preservazione della funzionalità d’organo (chemioterapia primaria o radiochemioterapia concomitanti). La recente introduzione di agenti con bersaglio molecolare ha aperto la strada a nuove opzioni terapeutiche. Polichemioterapia Agli inizi la chemioterapia si basava sull’uso di agenti in monoterapia, ma lo sviluppo di nuovi farmaci ha portato rapidamente al concetto di chemioterapia di combinazione o polichemioterapia (Tab. e3.23). Quest’ultima è stata sviluppata sia su basi empiriche sia attraverso l’applicazione di 64 principi e ipotesi derivate dallo studio della cinetica cellulare tumorale (ipotesi di Norton-Simon) e del fenomeno della farmacoresistenza (modello di Goldie-Coldman). La maggior parte delle neoplasie solide segue il modello di Gompertz, con la frazione di accrescimento tumorale che si riduce nel tempo. Nella fase precoce di sviluppo, la neoplasia è caratterizzata da un’elevata frazione di accrescimento, ma l’aumento dimensionale è minimo, in quanto la nascita di nuove cellule è controbilanciata da un’elevata mortalità cellulare. Dopo che le cellule hanno acquisito caratteristiche che ne favoriscono lo sviluppo, ha luogo una nuova fase di espansione, caratterizzata da un elevato accrescimento che si accompagna a una diminuzione della mortalità cellulare. Una volta raggiunte grandi dimensioni, il tasso di crescita della neoplasia diventa basso e la frazione di accrescimento risulta minima. In un paziente con neoplasia avanzata e un carico (o numero di cellule) tumorale elevato, il modello gompertziano prevede una frazione di accrescimento più bassa e una minore frazione di cellule eliminate per una data dose di trattamento rispetto a quanto si verificherebbe in un paziente con un carico di malattia più basso. Tab. e3.23. Classi di chemioterapici citotossici. Classe Alchilanti Complessi di coordinazione del platino Antimetaboliti Alcaloidi della vinca Epipodofillotossine Taxani Camptotecine Antracicline Antibiotici non antraci clinici Agenti esemplificativi Mecloretamina Ciclofosfamide Ifosfamide Melfalan Clorambucile Estramustina Busulfano Carmustina Lomustina Fotemustina Dacarbazina Temozolomide Carboplatino Cisplatino Oxaliplatino Metotrexato 6-mercaptopurina 5-fluorouracile Gemcitabina Capecitabina Pemetrexed Vinblastina Vincristina Vindesina Vinorelbina Etoposide Docetaxel Paclitaxel Irinotecano Topotecano Doxorubicina Epirubicina Idarubicina Actinomicina D Bleomicina Mitomicina C 65 Il modello di Norton-Simon per la risposta dei tumori alla chemioterapia ha utilizzato il concetto di crescita gompertziana per spiegare fenomeni osservati in clinica e per suggerire strategie di trattamento. Questo modello prevede che il tasso di regressione tumorale, in relazione alla dimensione della neoplasia e a un medesimo trattamento, sarà maggiore per le neoplasie di piccole dimensioni e minore per quelle di grandi dimensioni. Il modello di Goldie-Coldman, un modello matematico di resistenza genetica delle cellule tumorali ai chemioterapici, descrive la probabilità che cellule farmacoresistenti siano presenti in un paziente al momento della diagnosi. Un principio fondamentale di questo modello è che mutazioni con acquisizione di chemioresistenza si verifichino in una popolazione di 103-106 cellule, che risulta sostanzialmente inferiore al limite di rilevazione clinica, pari a circa 109 cellule o a una massa di 1 cm3. Secondo Goldie e Coldman, le cellule tumorali possono acquisire la farmacoresistenza prima dell’esposizione ai farmaci in base al tasso di mutazione spontanea, che è intrinseco all’instabilità genetica di una particolare neoplasia. La prevista frequenza di mutazione spontanea di 1 ogni 105-106 divisioni di cellule tumorali è in accordo con studi in vitro su questo fenomeno. Per superare più efficacemente la farmacoresistenza, il modello di GoldieColdman prevede che: (1) il maggior numero possibile di farmaci debba essere somministrato nel più breve intervallo di tempo e il prima possibile durante la crescita di una neoplasia; (2) il maggior numero possibile di farmaci, somministrati simultaneamente, risulterà più efficace dei singoli agenti somministrati, in sequenza, a dosi più elevate. I principi per lo sviluppo di regimi polichemioterapici sono riassunti nella Tabella e3.24. L’applicazione clinica di tali principi ha portato a una serie di concetti con ipotesi valutabili sperimentalmente per il disegno di regimi di combinazione. Questi hanno compreso la chemioterapia alternata senza resistenza crociata, la chemioterapia ibrida, la chemioterapia a intensità di dose (dose totale di chemioterapia aumentata durante un intervallo di riciclo fisso) e la chemioterapia a densità di dose (aumento della dose somministrata per unità di tempo, generalmente mediante riduzione dell’intervallo per il riciclo). La chemioterapia alternata senza resistenza crociata prevede l’uso di plurimi agenti chemioterapici attivi con differenti meccanismi di azione, i quali sono organizzati in due diversi regimi somministrati in maniera alternata. Il modello di Goldie-Coldman suggerirebbe una frequente alternanza dei regimi (per es. ogni secondo ciclo) e questo è stato l’approccio generale adottato negli studi clinici prospettici che hanno esaminato la questione. Una variazione più recentesul tema è stata rappresentata dallo sviluppo di regimi ibridi, nei quali gli elementi di ciascun regime sono somministrati durante ogni ciclo (per es. al giorno 1 e al giorno 8), anziché ogni secondo ciclo. L’ipotesi di Norton-Simon propugna una strategia di crossover mediante la quale ciascun regime attivo è utilizzato per un periodo di tempo più lungo (cioè per diversi cicli) prima di passare al regime alternativo. Da un punto vista teorico, questo approccio ottiene due scopi importanti. In primo luogo, esso mantiene la maggiore intensità di dose di ciascun regime somministrandolo durante ogni ciclo anziché a cicli alternati. In secondo luogo, prende di mira popolazioni eterogenee di cellule, distruggendo prima le cellule a rapida crescita, che sono più sensibili, e poi colpendo le cellule a lenta crescita, più resistenti, nel modo più efficace possibile. Tab. e3.24. Principi di combinazione di agenti chemioterapici. 1. 2. 3. 4. 5. 6. Dovrebbero essere utilizzati solo farmaci risultati efficaci come agenti singoli Ciascun agente utilizzato dovrebbe avere un differente meccanismo di azione Ciascun agente dovrebbe avere un differente spettro di tossicità e (idealmente) di resistenza Ciascun agente dovrebbe essere utilizzato alla dose massima Agenti con simili tossicità limitanti la dose possono essere combinati in modo sicuro solo riducendo le dosi, il che determina diminuzione degli effetti Le combinazioni di farmaci dovrebbero essere somministrate con il più breve intervallo tra i cicli che consenta il recupero dei tessuti normali Da: Freter C.E. et al.: Systemic therapy. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1. p. 451; modificata. 66 Endocrinoterapia Terapie endocrine ablative dirette contro gli estrogeni endogeni sono state prevalentemente, anche se non esclusivamente, applicate al trattamento del carcinoma mammario (Fig. e3.13). Ne esistono tre tipi principali: (1) interventi diretti ad abbassare la concentrazione degli estrogeni in circolo, che comprendono, da un lato, l’ablazione ovarica oppure la soppressione ovarica mediante agonisti dell’ormone ipotalamico GnRH (Gonadotropin-Releasing Hormone) nelle pazienti in premenopausa e, dall’altro, gli inibitori dell’aromatasi (IA) nelle pazienti in postmenopausa; (2) modulatori selettivi del recettore per gli estrogeni (Selective Estrogen Receptor Modulator, SERM), come per esempio il tamoxifene, che si legano in maniera competitiva all’ER, esercitando effetti tessuto-specifici; (3) l’antiestrogeno puro fulvestrant che si lega in maniera competitiva all’ER e ne causa la degradazione. L’endocrinoterapia rappresenta l’opzione terapeutica più importante per le neoplasie mammarie che esprimono l’ER. Il tamoxifene è stato largamente utilizzato, in prima linea, in donne con carcinoma mammario avanzato, dove ha un grande impatto sulla progressione della malattia. Ancora più importante è il dato che, nella malattia in fase precoce che esprime l’ER, la terapia adiuvante con tamoxifene per 5 anni riduce il tasso annuale di mortalità per carcinoma mammario del 31% rispetto a quello di pazienti che non ricevono nessuna terapia adiuvante. Inoltre, la riduzione cumulativa della mortalità risulta pari a più del doppio a 15 anni dalla diagnosi rispetto a quanto osservato dopo i primi 5 anni. L’assenza di efficacia, in caso di malattia che non esprima l’ER, conferma l’importanza degli estrogeni endogeni quali fattori determinanti della progressione delle neoplasie ormonosensibili. L’attività di agonista parziale del tamoxifene o di suoi metaboliti nella specie umana potrebbe essere responsabile della maggiore efficacia degli IA di terza generazione nella malattia avanzata, come anche nella terapia primaria e in quella adiuvante. Gli IA di terza generazione letrozolo, anastrozolo e il composto steroideo exemestano sono capaci di inibire l’attività dell’aromatasi periferica in media del 99, 97 e 98%, rispettivamente. Pertanto, ciascuno di questi agenti sopprime profondamente i livelli plasmatici di estrogeni. Perfino dopo deprivazione estrogenica a lungo termine, tumori responsivi possono sopravvivere e, alla fine, progredire. Nel fenomeno della resistenza al tamoxifene, i meccanismi di segnale dell’ER restano funzionanti nella maggior parte delle neoplasie e sono presumibilmente responsabili delle risposte alla deprivazione estrogenica di seconda linea con un IA. Le conoscenze sulla resistenza acquisita agli IA sono minori, sebbene modelli preclinici suggeriscano che essa possa verificarsi attraverso un’aumentata sensibilità ai bassi livelli residui di estrogeni, il che è compatibile con le risposte secondarie agli IA, osservate quando essi sono aggiunti agli agonisti del GnRH in pazienti in premenopausa con malattia avanzata. Fig. e3.13. Sito di azione delle strategie di endocrinoterapia in relazione alla fonte di estrogeni nella donna in pre- e in postmenopausa. FSH: ormone follicolostimolante; GnRH: ormone rilasciante le gonadotropine; LH: ormone luteinizzante; SERM: modulatore selettivo del recettore per gli estrogeni. 67 Nella prostata, gli androgeni agiscono attraverso l’AR per regolare la sopravvivenza cellulare. Una terapia ablativa mirata agli androgeni nell’uomo può essere ottenuta, a livello sistemico, mediante castrazione chirurgica o farmacologica (agonisti del GnRH) e, a livello locale, mediante trattamento con antiandrogeni quali flutamide e bicalutamide. Inoltre, la sintesi di androgeni da parte del surrene può essere soppressa in pazienti castrati, utilizzando l’abiraterone acetato, un nuovo inibitore dell’enzima 17α-idrossilasi/17,20 liasi che catalizza reazioni chiave nella biosintesi degli androgeni. L’opzione terapeutica standard in prima linea è la castrazione, che provoca un abbassamento dei livelli plasmatici del PSA (antigene prostatico specifico), seguito da una regressione tumorale in quasi tutti i pazienti. Il trattamento mediante orchiectomia o agonisti del GnRH determina l’ablazione della sintesi gonadica di androgeni, con i livelli plasmatici di testosterone che si riducono fin quasi al limite di rilevazione della maggior parte dei saggi convenzionali. La sintesi di androgeni da parte dei surreni persiste dopo la castrazione e rappresenta un bersaglio per il trattamento del carcinoma prostatico. L’efficacia terapeutica della deprivazione di androgeni è una chiara evidenza della loro importanza nel guidare la progressione del carcinoma prostatico. Nel tempo, la malattia diviene inevitabilmente resistente all’endocrinoterapia e sopravvive in un ambiente povero di androgeni. In passato, questo stato di malattia è stato definito “carcinoma prostatico resistente agli androgeni”, ma, di recente, è divenuto chiaro che la neoplasia, nella maggior parte dei pazienti, è ancora dipendente dalla stimolazione degli androgeni. Pertanto, questa condizione è stata rinominata “carcinoma prostatico resistente alla castrazione”. I meccanismi alla base di tale resistenza comprendono mutazioni dell’AR, che ne permettono l’attivazione da parte di antiandrogeni o di steroidi endogeni, come il progesterone o i corticosteroidi, e la sovraregolazione di enzimi coinvolti nella biosintesi degli androgeni entro il tessuto neoplastico, con livelli intratumorali di androgeni più elevati rispetto a quelli circolanti. Sono stati sviluppati nuovi farmaci diretti contro la sintesi degli androgeni, allo scopo di sopprimerne la produzione residua, dopo castrazione, da parte sia del surrene sia del tessuto neoplastico. In studi clinici recenti, l’abiraterone ha dimostrato attività antitumorale in circa il 70% dei pazienti castrati con malattia resistente alla castrazione farmacologica. Tuttavia, il 30% dei pazienti presenta “resistenza de novo” (ossia intrinseca) e quasi tutti, alla fine, vanno incontro a progressione durante il trattamento. Tra i possibili meccanismi di resistenza vi è l’attivazione dell’AR da parte di ligandi alternativi: l’azione dell’abiraterone causa l’accumulo di elevati livelli di desossicorticosterone e di altri steroidi a monte del blocco enzimatico, i quali sono risultati capaci di attivare l’AR in linee cellulari. La soppressione di tali steroidi, mediante la somministrazione al paziente di desametasone, può ripristinare la sensibilità all’abiraterone. In alternativa, la progressione di malattia potrebbe essere la conseguenza di un’attivazione indipendente dal ligando del recettore causata da un cross-talk con recettori tirosin-chinasici attivati o dall’attivazione di vie di segnale intracellulari. Terapia con bersaglio molecolare Agenti antitumorali con bersaglio molecolare sono farmaci diretti contro caratteristiche molecolari specifiche della cellula tumorale, quali aberrazioni di geni, proteine o vie che regolano la crescita, la progressione e la sopravvivenza della neoplasia. Al contrario, i chemioterapici citotossici non sono selettivi, interferendo direttamente con la mitosi, la sintesi del DNA e i sistemi di riparazione del danno genetico, e producendo una considerevole tossicità anche a carico dei tessuti normali. L’identificazione di differenze molecolari tra cellule tumorali e cellule normali ha quindi permesso lo sviluppo di farmaci non solo più efficaci, ma anche più selettivi. Inoltre, l’impiego di agenti con bersaglio molecolare può realisticamente aprire la strada alla medicina personalizzata, un obiettivo chiave della moderna oncologia. Esiste un numero crescente di bersagli molecolari, che possono essere categorizzati, in relazione alle proprietà genetiche o funzionali, nel seguente modo: (1) prodotti di mutazioni geniche con attivazione e di traslocazioni; (2) fattori di crescita e recettori; (3) vie aberranti di trasduzione del segnale e dell’apoptosi; (4) fattori che controllano l’angiogenesi tumorale e il microambiente tumorale; (5) proteine con alterata regolazione; (6) aberrazioni del meccanismo di riparazione del DNA e di meccanismi epigenetici (Tab. e3.25). È comprensibile che qualsiasi categorizzazione dei bersagli molecolari sia destinata a contenere 68 considerevoli sovrapposizioni. Per esempio, il PDGFR-α e il PDGFR-β sono recettori per fattori di crescita per molti tipi di neoplasie, ma sono anche espressi nel tessuto stromale e giocano un ruolo nell’angiogenesi. Inoltre, un’anomala espressione di PDGFR-α e PDGFR-β può derivare da anomalie genetiche, da mutazioni con attivazione del PDGFR-α in alcuni casi di tumore stromale gastroenterico (GastroIntestinal Stromal Tumor, GIST) e da traslocazioni cromosomiche che danno luogo alla proteina di fusione TEL/PDGFR-β nella leucemia mielomonocitica cronica. Tab. e3.25. Esempi scelti di bersagli molecolari e di agenti con bersaglio molecolare. Bersaglio Neoplasia Agente approvato Tipo di agente Traslocazioni cromosomiche • BCR-ABL • PML-RAR • PDGFR-β Ph+LMC, LLA Leucemia promielocitica acuta LMMC, DFSP Imatinib, dasatinib Acido retinoico Imatinib TKI Retinoide TKI Mutazioni somatiche • KIT • PDGFR-α GIST GIST Imatinib, sunitinib Imatinib, sunitinib TKI TKI Ca. polmone non microcitoma Ca. colo-rettale Gefitinib, erlotinib Cetuximab, panitumumab Cetuximab Trastuzumab Lapatinib TKI mAb mAb mAb Fattori di crescita o recettori • EGFR • ErbB-2 Angiogenesi • VEGF Ca. testa-collo Ca. mammella HER2+ mAb TKI • VEGFR Ca. colo-rettale Ca. polmone non microcitoma Ca. a cellule renali • mTOR Ca. a cellule renali Bevacizumab Bevacizumab Sunitinib, sorafenib Temsirolimus, everolimus Sindrome mielodisplastica Azacitidina AP Linfoma cutaneo a cellule T Vorinostat Acido idroxamico Mieloma multiplo Bortezomib IP Silenziamento epigenetico • DNA metiltransferasi • Istone deacetilasi Proteine con alterata regolazione • Proteosoma TKI TKI AR AR AP: analogo della pirimidina; AR: analogo della rapamicina; DFSP: dermatofibrosarcoma protuberans; EGFR: Epidermal Growth Factor Receptor; IP: inibitore del proteosoma; LLA: leucemia linfoblatica acuta; LMMC: leucemia mielomonocitica cronica; mAb: anticorpo monoclonale; PDGFR: PlateletDerived Growth Factor Receptor; Ph+LMC: leucemia mieloide cronica cromosoma Philadelfia positiva; TKI: inibitore di tirosin-chinasi; VEGF: Vascular Endothelial Growth Factor. Da: Murgo A.J. et al.: Principles of molecularly targeted therapy: present and future. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1, p. 486; modificata. 69 I bersagli molecolari più promettenti sono quelli responsabili di sostenere unicamente la crescita e la sopravvivenza della neoplasia. È probabile che agenti in grado di inibire, in maniera potente e selettiva, questi bersagli critici abbiano un grande impatto clinico. L'esempio migliore di bersaglio critico è, probabilmente, BCR-ABL nella leucemia mieloide cronica (LMC), una proteina di fusione formata dalla traslocazione reciproca dei cromosomi 9 e 22. L’evidenza che questa tirosin-chinasi con regolazione alterata giochi un ruolo causale nella patogenesi di essenzialmente tutti i casi di LMC ha portato allo sviluppo dell’imatinib mesilato, un inibitore potente e selettivo della tirosin-chinasi ABL. L’imatinib ha rappresentato non solo la prima terapia con bersaglio molecolare di elevata efficacia contro la LMC, ma, essendo un potente inibitore di altre tirosin-chinasi, è risultato anche altamente efficace nel trattamento di GIST che portano mutazioni con attivazione di c-KIT, nonché di alcuni GIST che portano mutazioni con attivazione di PDGFR. Esistono diverse strategie attraverso le quali bersagli molecolari sensibili possono essere sfruttati dal punto di vista terapeutico. Finora gli approcci clinici risultati più efficaci hanno visto l’impiego di anticorpi monoclonali e di inibitori a piccola molecola di protein-chinasi. L’uso di anticorpi monoclonali è particolarmente adatto contro bersagli legati alla membrana plasmatica e i meccanismi di azione proposti possono essere sostanzialmente divisi in quelli che richiedono cellule effettrici immuni e quelli che non le richiedono. Questi meccanismi non funzionano in maniera indipendente, ma interagiscono estesamente tra loro. Gli anticorpi monoclonali diretti contro specifici antigeni tumorali possono bloccare l’attivazione di segnali necessari per la crescita e/o la vitalità delle cellule tumorali attraverso il blocco delle interazioni tra il ligando e il suo recettore, inducendo una modulazione del recettore o interferendo con il legame del ligando e/o con la dimerizzazione del recettore. Questi ultimi meccanismi sembrano essere particolarmente importanti per anticorpi specifici anti-EGFR, anti-CD20 e anti-VEGF. In alternativa, alcuni anticorpi diretti contro specifici antigeni tumorali possono esercitare i loro effetti attraverso meccanismi quali la citotossicità cellulo-mediata anticorpo-dipendente (ADCC) e la citotossicità mediata dal complemento (CDC). L’innesco sia della ADCC sia della CDC non solo attiva cellule NK, neutrofili, fagociti mononucleati e/o cellule dendritiche, ma induce anche la secrezione di IFN-γ, TNF-α, chemochine e opsonine che reclutano cellule effettrici immuni. Di conseguenza, la proliferazione delle cellule tumorali e l’angiogenesi sono inibite, la presentazione dell’antigene è aumentata e le cellule tumorali sono lisate. In generale, gli effetti collaterali dell’immunoterapia con anticorpi monoclonali diretti contro specifici antigeni tumorali sono abbastanza lievi rispetto alle tradizionali chemioterapia e radioterapia. Per la maggior parte, le tossicità indotte da questi anticorpi sono indipendenti dal meccanismo di azione e sono legate a reazioni allergiche o di ipersensibilità causate da una proteina contenente sequenze xenogeniche. Tossicità rare ma clinicamente più serie dell’immunoterapia con anticorpi monoclonali diretti contro specifici antigeni tumorali sono spesso dipendenti dal meccanismo di azione e derivano dal legame dell’anticorpo all’antigene bersaglio. Nonostante l’appropriata espressione dell’antigene tumorale, i pazienti possono non avere una risposta clinica all’anticorpo e/o possono sviluppare resistenza alla terapia nel corso del trattamento. Gli inibitori a piccola molecola di protein-chinasi sono efficaci contro bersagli sia legati alla membrana sia non legati. Questi agenti sono chimicamente diversi e, in generale, possono essere classificati in analoghi dell’ATP, agenti leganti il dominio catalitico, agenti leganti il dominio non catalitico, prodotti naturali e ligandi che si legano alla conformazione inattiva della chinasi. Molti di tali composti a piccola molecola possono inibire più di una chinasi (per es. il sorafenib) a causa dell’omologia strutturale esistente entro la stessa classe di protein-chinasi. La capacità di un singolo inibitore di avere come bersaglio varie chinasi e vie di segnale è interessante dal punto di vista terapeutico. Tuttavia, tale capacità può anche ostacolare la comprensione dei meccanismi di azione dell’inibitore in specifici tipi di neoplasia, un aspetto che è di vitale importanza per lo sviluppo di questi composti. La maggior parte delle neoplasie umane, comprese quelle più frequenti, è geneticamente complessa e non presenta un singolo bersaglio critico. Inoltre, quello che può essere un bersaglio critico per un tipo di neoplasia può essere espresso ma non essere così rilevante per 70 un altro. La maggior parte delle neoplasie presenta varie anormalità genetiche e molecolari responsabili della loro crescita e sopravvivenza. La presenza di varie anomalie è un meccanismo che può spiegare la resistenza alle terapie con bersaglio molecolare e fornire un razionale per strategie di associazione di due o più agenti. Tuttavia, recenti evidenze suggeriscono che le cellule tumorali possono diventare fisiologicamente dipendenti dall’attività sostenuta di specifici oncogeni per il mantenimento di un fenotipo maligno e per la sopravvivenza. Questo meccanismo, definito “dipendenza da oncogene”, si associa a tassi di attenuazione differenziale dei segnali prosopravvivenza e proapoptosi derivanti dall’oncoproteina, con predominanza dei segnali di apoptosi che causano la morte cellulare. Quest’ultimo processo, definito “shock oncogeno”, potrebbe spiegare le risposte cliniche assai rapide a inibitori di tirosin-chinasi in alcuni pazienti con neoplasie solide, comprese quelle che tipicamente presentano complesse anomalie molecolari. Altri possibili fattori che controllano la sensibilità o la resistenza alle terapie con bersaglio molecolare comprendono un’aumentata espressione del bersaglio dovuta ad amplificazione o trascrizione genica, la comparsa di mutazioni geniche del bersaglio responsabili di resistenza e l’iperespressione di proteine di membrana capaci di trasportare diversi tipi di farmaci. Lo sviluppo ottimale di agenti con bersaglio molecolare può richiedere strategie differenti da quelle tradizionalmente utilizzate per lo sviluppo dei farmaci citotossici (Tab. e3.26). In modelli animali, molti dei nuovi agenti possono mostrare marcati effetti di inibizione della crescita e antimetastatici, in assenza di una sostanziale regressione tumorale, proprietà comunemente considerate citostatiche. Sebbene gli effetti specifici di ciascuna classe siano dipendenti dal/i bersaglio/i inibito/i, nei pazienti è più probabile che molti di questi agenti determinino un’inibizione della crescita piuttosto che una regressione del tumore. Pertanto, i tradizionali criteri di risposta obiettiva possono risultare non ottimali per valutare l’efficacia di farmaci prevalentemente citostatici. Inoltre, un importante aspetto relativo all’arruolamento di pazienti in studi clinici di agenti con bersaglio molecolare è il ricorso a una selezione dei pazienti che ottimizzi la possibilità di un effetto positivo. Questo non è fattibile a meno che i pazienti arruolati non abbiano neoplasie che esprimano o abbiano elevata probabilità di esprimere il bersaglio terapeutico specifico. Fino a tempi recenti, quasi tutti gli studi di fase II hanno valutato i farmaci sulla base dell’organo di origine della neoplasia, con un’ulteriore categorizzazione mediante il tipo istologico (per es. carcinoma mammario, carcinoma polmonare non a piccole cellule). Il presupposto è che un dato tipo istologico entro un organo rappresenti una patologia relativamente uniforme. Tuttavia, esiste una crescente evidenza che le neoplasie siano molto eterogenee, sotto il profilo molecolare, entro un dato tipo istologico di un particolare organo e che variazioni genetiche nella neoplasia possano influenzare significativamente la sensibilità a un farmaco. Buoni esempi di selezione dei pazienti sulla base del fenotipo molecolare sono l’uso dell’espressione dell’ER e del PgR (recettore per il progesterone) o dell’oncogene HER2/neu (e del suo prodotto) per selezionare, rispettivamente, pazienti con carcinoma mammario candidate a endocrinoterapia o a trattamento con l’anticorpo monoclonale trastuzumab. 71 Tab. e3.26. Proprietà e sviluppo di agenti chemioterapici rispetto ad agenti con bersaglio molecolare. Scoperta dell’agente Agenti chemioterapici Approcci empirici; screening di composti che inibiscono la crescita/sopravvivenza tumorale Effetti antitumorali Tossicità per l’ospite Citotossici; riduzione dimensionale del tumore Non selettivi; tossici per molti tessuti normali Finestra terapeutica End point primari in fase I Dosaggio End point di efficacia in fase II Dose in fase II Generalmente stretta Selezione dei pazienti Intervallo alla risposta clinica Tossicità limitante la dose e dose massima tollerata; farmacocinetica Intermittente Regressione tumorale obiettiva Basata sulla dose massima tollerata Istologia Relativamente breve (per es. 4-8 settimane) Agenti con bersaglio molecolare Approcci basati sul bersaglio molecolare; screening di composti che colpiscono il bersaglio tumorale Possono essere citostatici; inibizione della crescita Selettivi; dipende dalla specificità del bersaglio; effetti extrabersaglio Generalmente più ampia Inibizione del bersaglio e dose biologica ottimale; farmacocinetica Intermittente o continuo Risposta tumorale o sopravvivenza libera da progressione Dose biologica ottimale Espressione del bersaglio, se possibile Variabile Da: Murgo A.J. et al.: Principles of molecularly targeted therapy: present and future. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1, p. 490; modificata. La crescente esperienza clinica con l’impiego di agenti con bersaglio molecolare indica che essi hanno qualche attività clinica contro tipi selezionati di neoplasie. Tuttavia, prescindendo da poche eccezioni, come l’imatinib nel trattamento della LMC e dei GIST, gli agenti con bersaglio molecolare hanno efficacia limitata in monoterapia e il beneficio clinico è ristretto a un gruppo relativamente limitato di pazienti. Una strategia per migliorare il potenziale terapeutico di questi farmaci è di utilizzarli in combinazione con altri agenti o modalità terapeutiche (Tab. e3.27). 72 Tab. e3.27. Strategie di associazione tra agenti con bersaglio molecolare e altre modalità terapeutiche antitumorali. Strategie di combinazione Associazione con terapia citotossica: • chemioterapia • Con radioterapia Associazione di due o più agenti con bersaglio molecolare: • Anticorpo diretto contro il ligando o il recettore + TKI diretto contro lo stesso recettore (per es. anticorpo anti-VEGF più TKI di VEGFR) • Agenti che inibiscono due o più molecole di trasduzione del segnale nella stessa via (per es. TKI di EGFR + inibitore di RAF) • Agenti che inibiscono vie parallele (inibitore di EGFR + inibitore di HER2) • Agenti che inibiscono un bersaglio e un feedback compensatorio (per es. inibitore di mTOR R+ inibitore di Akt) • Agenti diretti contro microambiente/ vascolarizzazione tumorali + un agente diretto contro la proliferazione cellulare tumorale • Agenti di rimodellamento epigenetico (per es. inibitori della metilazione del DNA; inibitori della istone deacetilasi) usati in combinazione o in concerto con agenti diretti contro un bersaglio riespresso Associazione con chirurgia: • Somministrazione di un agente con bersaglio molecolare dopo resezione anatomica completa Meccanismo potenziale Modulazione di bersagli coinvolti nella sensibilità/resistenza tumorale o in meccanismi di riparazione Massimizzazione dell’inibizione del bersaglio Massimizzazione dell’inibizione della via Massimizzazione dell’inibizione tumorale attraverso l’influenza su multipli meccanismi cellulari Massimizzazione della risposta tumorale attraverso l’inibizione di meccanismi compensatori di resistenza Massimizzazione del beneficio clinico attraverso l’inibizione di proliferazione, invasività e metastatizzazione della cellula tumorale Aumento della restituzione dell’espressione di geni oncosoppressori, di meccanismi apoptotici o di antigeni tumorali Massimizzazione del beneficio attraverso il controllo della malattia minima residua EGFR: Epidermal Growth Factor Receptor; TKI: inibitore a piccola molecola di tirosinchinasi; VEGFR: Vascular Endothelial Growth Factor Receptor. Da: Murgo A.J. et al.: Principles of molecularly targeted therapy: present and future. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1, p. 495; modificata. 73 Terapia antitumorale personalizzata: un paradigma emergente In oncologia medica si è da tempo riconosciuto che è probabile che solo un sottogruppo di pazienti in una data coorte tragga un beneficio significativo dalle varie terapie sistemiche antitumorali. Tuttavia, la capacità di identificare in anticipo la sottopopolazione di pazienti con maggiore probabilità di rispondere a una particolare terapia non solo aumenterebbe la possibilità di risposta, ma eviterebbe anche di trattare inutilmente quei pazienti che hanno poca probabilità di beneficiare dal trattamento. Uno dei migliori esempi di terapia antitumorale personalizzata deriva dallo sviluppo e dalla validazione clinica del SERM tamoxifene nel carcinoma mammario. Molto probabilmente l’ER è il biomarcatore che ha avuto l’impatto più profondo sulla pratica clinica in oncologia medica. Nel carcinoma mammario in fase precoce, 5 anni di terapia adiuvante con tamoxifene nelle pazienti con malattia che esprime l’ER riducono significativamente il tasso annuale di morte per carcinoma mammario, in gran parte indipendentemente dall’uso della chemioterapia o dall’età. Al contrario, nessun effetto protettivo del tamoxifene è osservato nelle pazienti con malattia che non esprime il recettore. Il concetto di medicina oncologica personalizzata guidata da biomarcatori sta avendo un influsso particolarmente importante sulla valutazione clinica di vari inibitori selettivi di chinasi, una classe relativamente nuova di agenti antitumorali, dei quali si sta cominciando ad apprezzare il potenziale impatto clinico. Alla base del concetto di terapia antitumorale personalizzata vi sono due principi fondamentali: (1) esiste una significativa eterogeneità genomica tra le neoplasie, anche tra quelle derivate dallo stesso tessuto di origine; (2) tali differenze possono giocare un ruolo importante nel determinare la probabilità di una risposta clinica al trattamento con particolari agenti. L’ eterogeneità genomica può coinvolgere differenze nello spettro di mutazioni di sequenze codificanti, come pure di amplificazioni, delezioni o traslocazioni geniche focali. Essa potrebbe anche coinvolgere mutamenti epigenetici nel profilo di espressione di una cellula tumorale, sebbene le fonti della variazione epigenetica tra le neoplasie rimangano scarsamente comprese. I recenti sviluppi delle tecnologie per il profilo molecolare, che consentono di valutare DNA, RNA, proteine e metaboliti, hanno reso possibile interrogare, rapidamente e in modo completo, il genoma della neoplasia e identificare recidive che possono contribuire alla risposta al trattamento. Gli studi hanno rivelato una sostanziale eterogeneità attraverso i genomi delle neoplasie, coinvolgendo un numero stimato di 384 geni del cancro, compresi quelli di molte protein-chinasi, che vanno incontro a mutazione e sembrano implicati in maniera causale nell’oncogenesi. Tali risultati hanno evidenziato la diversa natura delle neoplasie umane e hanno suggerito un ruolo potenzialmente importante della patologia molecolare nella valutazione e nella gestione clinica dei singoli pazienti. Diversi saggi molecolari validati effettuati sul tessuto tumorale o che valutano il genoma del paziente fanno ora parte del processo decisionale standard nel trattamento delle neoplasie mammarie, colo-rettali e polmonari. Impieghi clinici della terapia sistemica antitumorale Terapia adiuvante La terapia adiuvante prevede l’impiego della chemioterapia e/o dell’endocrinoterapia in pazienti ad alto rischio di ricaduta, dopo che la neoplasia primitiva e tutta la malattia evidente sono state asportate chirurgicamente oppure trattate con radioterapia definitiva (Tab. e3.28). Nonostante la resezione apparentemente radicale di una neoplasia primitiva (della mammella, del colon o di altri distretti corporei) assieme ai linfonodi regionali, è possibile identificare prospetticamente pazienti che sono ad alto rischio di una ricaduta della malattia. I criteri di rischio possono essere diversi per ciascuna neoplasia, ma, in termini generali, il grado di estensione locale del tumore primitivo, la presenza di linfonodi positivi e certe caratteristiche morfologiche o biologiche delle cellule tumorali sono importanti fattori di rischio. Sebbene il vantaggio teorico di trattare pazienti con un basso carico tumorale sia molto promettente, alcuni pazienti sottoposti a terapia adiuvante possono essere già stati resi liberi dalla malattia mediante la sola terapia locale. L’impiego della chemioterapia, in presenza di 74 un carico tumorale minimo, evita i problemi legati all’aumento del numero di cellule tumorali, alla diminuzione della frazione di crescita, al ridotto apporto vascolare, all’ipossia, all’eterogeneità delle cellule tumorali e alla probabilità di sviluppo di farmacoresistenza. La frequenza di ciascuno di questi eventi tende ad aumentare con l’incremento dimensionale della neoplasia. Una considerevole evidenza sperimentale suggerisce che le neoplasie siano più sensibili alla chemioterapia durante gli stadi precoci della crescita. Tab. e3.28. Principi di chemioterapia adiuvante. 1. 2. 3. 4. 5. 6. Deve essere disponibile una chemioterapia efficace Tutta la neoplasia evidente dovrebbe essere rimossa con la chirurgia La chemioterapia dovrebbe essere iniziata il più presto possibile dopo la chirurgia La chemioterapia dovrebbe essere somministrata alla dose massima tollerata La chemioterapia dovrebbe continuare per un periodo limitato di tempo La chemioterapia dovrebbe essere intermittente, quando possibile, per minimizzare l’immunosoppressione Da: Freter C.E. et al.: Systemic therapy. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1, p. 455; modificata. La scelta del regime chemioterapico da impiegare in fase adiuvante per una data neoplasia si basa sui tassi di regressioni obiettive osservati in pazienti portatori della malattia in fase avanzata. Infatti, è irrealistico che un regime chemioterapico possa essere efficace in fase adiuvante se lo stesso non induce un sostanziale tasso di risposte in fase avanzata. La selezione dei pazienti candidati a terapia adiuvante si basa sul tasso atteso di ricaduta per lo stadio clinico iniziale della neoplasia sottoposta al solo trattamento locale. La dimostrazione iniziale di efficacia di un dato trattamento adiuvante richiede un confronto diretto, nel contesto di uno studio prospettico randomizzato, con un gruppo di controllo sottoposto al solo trattamento locale oppure alla terapia sistemica standard, se questa è disponibile. La sopravvivenza libera da ricaduta (relapse-free survival) e la sopravvivenza globale (overall survival) sono le principali misure di esito del trattamento negli studi clinici di terapia adiuvante. Occorre sottolineare che non esiste alcun mezzo per stabilire se la terapia adiuvante – e la conseguente tossicità – abbia o meno prodotto un beneficio nel singolo paziente. La strategia della terapia adiuvante è stata tentata in un’ampia varietà di neoplasie pediatriche e dell’adulto, con qualche successo, e i suoi principi sono ben stabiliti. Neoplasie trattate efficacemente con chemioterapia adiuvante sono il tumore di Wilms, l’osteosarcoma, il carcinoma mammario e quello colo-rettale. Il numero di vite salvate dalla terapia adiuvante in caso di neoplasia mammaria o del colon è significativo per l’elevata incidenza, nonostante le modeste differenze osservate tra il gruppo dei trattati e quello dei controlli negli studi randomizzati che hanno validato gli attual i programmi di trattamento. Chemioterapia primaria La chemioterapia primaria (o neoadiuvante) è una seconda strategia che riconosce la presenza di micrometastasi in sedi anatomiche distanti dalla neoplasia primitiva al momento della diagnosi iniziale (Tab. e3.29). Analogamente alla terapia adiuvante, il trattamento è diretto contro la possibilità di malattia disseminata in pazienti con neoplasia apparentemente localizzata, sebbene in questo caso la chemioterapia sia somministrata prima dell’atto chirurgico. Tale approccio presenta diversi vantaggi potenziali rispetto alla chemioterapia adiuvante. In primo luogo, la terapia primaria consente un’esposizione più precoce alla chemioterapia delle potenziali micrometastasi rispetto a quella ottenibile con l’approccio adiuvante. In secondo luogo, una risposta obiettiva della lesione primitiva fornisce 75 un’importante prova in vivo che la chemioterapia utilizzata sia attiva nel caso specifico e suggerisce che anche le micrometastasi a distanza siano sensibili. Al contrario, se la lesione primitiva non regredisce, la probabilità che il regime chemioterapico possa eliminare le micrometastasi sembra fortemente diminuita. Il monitoraggio della risposta fornisce, pertanto, un’opportunità precoce per valutare la necessità di un cambiamento del regime terapeutico con il passaggio a regimi alternativi. In terzo luogo, una significativa regressione della neoplasia primitiva potrebbe consentire di adattare il trattamento locale al singolo paziente. Per esempio, la chirurgia potrebbe essere tecnicamente più facile grazie alla ridotta massa tumorale oppure potrebbe essere considerata una procedura chirurgica più conservativa o valutato l’impiego della radioterapia in luogo della chirurgia. In alcune situazioni la chemioterapia primaria è somministrata simultaneamente alla radioterapia, allo scopo sia di migliorare il controllo locale sia di trattare la malattia micrometastatica a distanza. Nei casi di carcinoma anale e vescicale, tale approccio ha consentito l’effettuazione di procedure conservative in un’elevata percentuale di pazienti. Tab. e3.29. Neoplasie trattate efficacemente con chemioterapia primaria. Sarcoma dei tessuti molli Osteosarcoma Carcinoma anale Carcinoma vescicale Carcinoma laringeo Carcinoma esofageo Carcinoma mammario localmente avanzato Da: Freter C.E. et al.: Systemic therapy. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1, p. 455; modificata. La chemioterapia primaria presenta anche potenziali svantaggi. In primo luogo, l’impiego ab initio della chemioterapia in pazienti con neoplasie potenzialmente curabili con la sola chirurgia in una piccola percentuale di casi. Infatti, se la chemioterapia risulta inefficace, esiste la concreta possibilità che la malattia divenga non più resecabile durante il trattamento. In secondo luogo, l’impiego della chemioterapia primaria potrebbe oscurare il reale stadio patologico della neoplasia, alterando dimensione e margini tumorali e trasformando linfonodi positivi in negativi all’esame istologico. La conseguente imprecisione nella stadiazione di molte neoplasie rende difficile esser certi che un gruppo omogeneo di pazienti sia stato trattato e questo fatto potrebbe confondere l’interpretazione dei risultati degli studi clinici. Infine, una drammatica risposta clinica può determinare il ricorso a una procedura conservativa inappropriata o una scarsa accettazione da parte del paziente della procedura raccomandata. Terapia sistemica della malattia avanzata o metastatica L’impiego più comune della terapia sistemica è nel trattamento della malattia avanzata o metastatica dopo il fallimento delle terapie locali oppure di una neoplasia per la quale non esista un’alternativa terapeutica. Questo è forse il test più severo per la chemioterapia, poiché il volume tumorale è significativo e i pazienti sono spesso fisicamente compromessi dagli effetti della malattia. Tuttavia, questa è anche la condizione clinica nella quale l’attività di nuovi agenti antitumorali e di regimi chemioterapici è inizialmente valutata. Il trattamento di 76 pazienti con malattia avanzata consente sia di determinare l’attività antitumorale su base individuale sia di definire con accuratezza il tasso di risposta, arruolando in uno studio clinico un numero appropriato di pazienti con la stessa diagnosi e caratteristiche pretrattamento simili. Il beneficio della terapia sistemica nei pazienti può essere dedotto dall’entità della risposta a carico della malattia misurabile o valutabile. Ovviamente, la misura più importante di efficacia della terapia sistemica è il conseguimento di una risposta completa, che determina una significativa riduzione o la scomparsa dei sintomi dipendenti dalla malattia e, generalmente, si traduce in un significativo prolungamento della sopravvivenza, anche in pazienti che, alla fine, ricadono. La terapia può essere definita curativa solo quando la risposta completa è conservata dopo il termine del trattamento. L’importanza clinica della risposta completa è, pertanto, misurata attraverso la durata della sopravvivenza libera da malattia (disease-free survival) oppure da ricaduta (relapse-free survival). Anche le risposte parziali possono determinare un beneficio sintomatico per i pazienti, ma raramente si associano a un prolungamento significativo della sopravvivenza. La somministrazione continua del regime chemioterapico è, di solito, richiesta per il mantenimento della risposta parziale. A meno che il regime non sia estremamente ben tollerato, gli effetti cumulativi della terapia potrebbero, alla fine, limitare il beneficio per il paziente. La durata mediana delle risposte complete e parziali è spesso utilizzata come una misura di esito (end point) negli studi clinici di terapie sistemiche. Per i ricercatori clinici, il maggior valore della documentazione di risposte parziali risiede forse nella valutazione di nuovi farmaci. Se questi ultimi hanno indotto risposte parziali in pazienti trattati negli studi di fase I o II, può essere giustificata un’ulteriore valutazione in stadi più precoci di malattia, oppure in combinazione con altri agenti attivi. Alcuni studi clinici valutano il numero di pazienti che presentano una stabilità di malattia durante il trattamento, ossia risposte che non soddisfano i criteri per la risposta obiettiva o per la progressione, ma il valore scientifico di tale misura nella valutazione di un trattamento citotossico può legittimamente essere messo in dubbio. In singoli pazienti nei quali, dopo una fase di rapida progressione, il trattamento determini un periodo prolungato caratterizzato da malattia stabile e miglioramento sintomatico, l’oncologo medico potrebbe giudicare efficace la terapia e, su tale base, proseguirla. L’importanza della stabilità di malattia è cresciuta da quando nuovi agenti non citotossici sono entrati nelle sperimentazioni cliniche per la valutazione di efficacia. In questi casi è possibile che l’evidenza di un effetto biologico assuma una forma differente da quella alla quale si è abituati con l’impiego di citotossici convenzionali. È ormai chiaro che, oltre alle tradizionali misure di esito (risposta obiettiva, durata della sopravvivenza e tassi di cura) impiegate negli studi di terapia sistemica, debbano essere adottati anche altri tipi di misure. In generale, queste si riferiscono al controllo dei sintomi indotti dalla neoplasia e al miglioramento della qualità di vita del paziente. Nonostante tali misure di esito possano risultare più soggettive di quelle tradizionali, è importante che i criteri per la loro valutazione siano concordati e che esse siano impiegate di routine in studi clinici nei quali un miglioramento del tasso di cura sia improbabile. La chemioterapia risulta curativa per diverse neoplasie umane in fase avanzata (Tab. e3.30). Queste comprendono la malattia trofoblastica gestazionale e diverse neoplasie ematologiche, ma si può affermare che un solo tipo di tumore solido avanzato, le neoplasie germinali del testicolo, risulti abitualmente curabile con la sola chemioterapia. Le neoplasie solide più comuni come, per esempio, i carcinomi della mammella, del polmone, della prostata e del tratto gastroenterico, non sono invece curabili con le attuali terapie quando sono in fase metastatica. 77 Tab. e3.30. Neoplasie curabili od occasionalmente curabili con la sola chemioterapia. Neoplasie curabili con sola chemioterapia • Coriocarcinoma gestazionale • Malattia di Hodgkin • Neoplasia germinale del testicolo • Leucemia linfatica acuta • Linfoma non-Hodgkin (alcuni sottotipi) • Leucemia a cellule capellute (probabile) Neoplasie occasionalmente curabili con chemioterapia • Leucemia mieloide acuta • Carcinoma ovarico • Microcitoma polmonare (assieme alla radioterapia) Da: Freter C.E. et al.: Systemic therapy. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1, p. 456; modificata. Criteri generali di impiego della chemioterapia La scelta della chemioterapia come modalità di trattamento per un dato paziente richiede una dettagliata conoscenza del paziente, dei suoi problemi medici, del suo retroterra sociale ed emotivo, oltre che una conoscenza generale della chemioterapia, una specifica conoscenza del programma chemioterapico da utilizzare e la disponibilità di servizi di laboratorio e di supporto (Tab. e3.31). Tab. e3.31. Requisiti per il trattamento chemioterapico. 1. 2. 3. 4. 5. 6. Dimostrazione bioptica di malattia residua o metastatica1 Lesione parametro1 Stato di validità e nutrizionale soddisfacenti Paziente capace di consenso informato Funzionalità midollare, renale ed epatica accettabili (occasionalmente è importante la funzionalità polmonare o cardiaca) Disponibilità di monitoraggio e di funzioni di supporto 1 Eccetto che per la chemioterapia adiuvante. Da: Freter C.E. et al: Systemic therapy. In: Abeloff’s clinical oncology, 4th ed. 2008, vol. 1, p. 457; modificata. Selezione del paziente La selezione del paziente candidato a chemioterapia si basa sulla valutazione di una serie di parametri, quali l’età fisiologica, lo stato di validità, lo stato nutrizionale, l’obesità, la terapia precedente, la funzionalità d’organo e la comorbilità. • La neoplasia è una patologia associata all’invecchiamento: la maggior parte delle diagnosi e della mortalità per tumore si registra in individui con più di 65 anni. Ciononostante, i pazienti anziani sono scarsamente rappresentati negli studi clinici randomizzati, sui risultati dei quali sono principalmente basate le scelte terapeutiche. Numerose spiegazioni sono state avanzate sulla connessione biologica tra neoplasia e invecchiamento, quali una prolungata esposizione ai cancerogeni, un’aumentata 78 instabilità del DNA che determina un più elevato potenziale di mutazione, l’accorciamento dei telomeri, un’alterata regolazione immunitaria e un’aumentata suscettibilità allo stress ossidativo. La biologia della neoplasia può anche essere diversa in relazione all’età di presentazione, e la comprensione dell’associazione tra la biologia di specifiche neoplasie e l’invecchiamento può aiutare a guidare la pratica clinica. Per esempio, nel carcinoma mammario le caratteristiche tumorali variano con l’età: vi è un aumento delle neoplasie che esprimono i recettori ormonali e una diminuzione di quelle con iperespressione dell’oncogene HER2/neu all’aumentare dell’età. L’età avanzata raramente rappresenta un valido criterio per escludere la possibilità di un trattamento chemioterapico nei pazienti anziani. Tuttavia, il processo di invecchiamento si associa a una diminuzione della riserva fisiologica, che può influenzare la tollerabilità della terapia antitumorale a causa dei mutamenti fisiologici che si verificano in vari sistemi d’organo (in aggiunta ai mutamenti dipendenti dalla neoplasia). La diminuzione del flusso ematico renale e il conseguente declino della filtrazione glomerulare con l’età possono influenzare l’eliminazione di agenti citotossici escreti per via renale, quali cisplatino, carboplatino, etoposide e metotrexato. La creatininemia non riflette, in maniera accurata, la funzionalità renale dell’anziano, a causa della diminuzione della massa muscolare con l’invecchiamento. Pertanto, è richiesta una misurazione del tasso di filtrazione glomerulare per ottenere una stima più accurata della funzionalità renale al crescere dell’età. L’età avanzata si associa anche a una diminuita secrezione di enzimi gastrici e a un ridotto flusso ematico splancnico, che possono entrambi incidere sull’assorbimento gastroenterico degli agenti orali. La massa epatica e il contenuto di citocromo p450 sembrano diminuire con l’aumentare dell’età, ma il significato clinico di questi mutamenti rimane controverso. Infine, la diminuzione della riserva midollare con l’invecchiamento può causare, nel paziente anziano, un’aumentata tossicità da parte di terapie mielodepressive. Dal momento che l’invecchiamento è un processo eterogeneo, strumenti quali la valutazione geriatrica multidimensionale (VGM) consentono di identificare pazienti anziani a rischio aumentato di morbilità e mortalità. In tali individui, i possibili rischi e i potenziali benefici di una terapia antitumorale devono essere specificamente valutati. La VGM comprende domini di rilevanza prognostica, in grado di fornire elementi sull’età fisiologica del paziente, a differenza della sola età cronologica (Tab. e3.32). Diverse associazioni internazionali hanno sviluppato linee guida per il trattamento del paziente oncologico anziano, allo scopo di fornire una cornice di riferimento per la pratica clinica (Tab. e3.33). • • Se si utilizza la scala di misura dello stato di validità proposta da Karnofsky o dall’ECOG, essa risulta correlata strettamente con la sopravvivenza in certe presentazioni tumorali. Questo è chiaramente espresso nel caso del carcinoma polmonare non microcitoma, per il quale ciascuna riduzione del 10% nella scala di Karnofsky determina una diminuzione misurabile della sopravvivenza. La conseguenza è che pazienti con uno stato di validità di 3 o 4 secondo la scala ECOG, o inferiore al 30% secondo la scala di Karnofsky non sono, di solito, candidati a chemioterapia (Tab. e3.20). Sebbene il mantenimento del peso corporeo abituale possa essere impossibile nella condizione di malattia avanzata, un introito giornaliero di 1.500-2.000 calorie è necessario per consentire una soddisfacente possibilità di risposta al trattamento antitumorale. Tale obiettivo è meglio perseguito, se possibile, attraverso l’assunzione orale di cibi, utilizzando degli integratori, se necessario. Quando il paziente non è in 79 • • • • grado di ingerire abbastanza calorie, dovrebbe essere considerato il ricorso all’alimentazione per via enterale o parenterale. L’impiego della chemioterapia in pazienti obesi espone al rischio potenziale di sovradosaggio, in caso di impiego del peso reale del paziente, se la dose è calcolata in mg/kg o in base alla superficie corporea. Non esistono linee guida relative a questa condizione: se i pazienti devono essere trattati con intento curativo, la chemioterapia dovrebbe essere somministrata a dosaggio pieno, utilizzando la superficie corporea calcolata in base al peso reale oppure a quello ideale, in quest’ultimo caso aumentando la dose in relazione alla tollerabilità. I pazienti candidati a un trattamento con finalità palliativa possono essere trattati, in modo più sicuro, con dosaggi calcolati in base al loro peso ideale. Praticamente in tutte le neoplasie, la mancata risposta alla chemioterapia di prima linea riduce le probabilità di risposta alla terapia di seconda linea, a causa spesso dello sviluppo di resistenza pleiotropica. Un’alterata funzionalità d’organo (midollare, renale, epatica, cardiaca e polmonare) può precludere del tutto l’utilizzo di alcuni agenti chemioterapici oppure richiedere una modificazione della dose. Per evitare un’eccessiva tossicità, è essenziale conoscere il processo di distribuzione e il metabolismo del farmaco in tali circostanze. La maggioranza degli oncologi medici trova utile determinare la funzionalità midollare basale mediante esame emocromocitometrico, la funzionalità epatica e renale mediante il profilo ematochimico e, occasionalmente, la funzionalità cardiaca mediante ecocardiografia e quella polmonare mediante radiografia del torace e spirometria. La presenza di patologie concomitanti non neoplastiche (comorbilità) potrebbe determinare un cambiamento nella scelta dei farmaci chemioterapici, anche se le comorbilità non eliminano il razionale all’impiego della chemioterapia. Il numero di comorbilità aumenta con l’età: dati della letteratura indicano che pazienti di età compresa tra 55 e 64 anni presentano, in media, 2,9 comorbilità, mentre quelli di età ≥ 75 anni presentano, in media, 4,2 comorbilità. La comorbilità ha importanti implicazioni di carattere prognostico. Quando l’oncologo medico formula un piano di trattamento giustappone il rischio di morte per la neoplasia a quello derivante dalla comorbilità. Viene valutato anche l’effetto del trattamento sulla diminuzione di questo rischio. In tale contesto, le neoplasie indolenti possono essere trattate in maniera più conservativa, quando sia presente una sostanziale comorbilità che abbia una maggiore probabilità di incidere sull’attesa di vita. Al contrario, le neoplasie più aggressive richiedono un trattamento se hanno maggiore probabilità, rispetto alla comorbilità, di influenzare l’attesa di vita. La comorbilità sembra anche influenzare l’utilizzazione della chemioterapia in vari tipi di neoplasie. È possibile che questa tendenza rifletta i risultati di studi che suggeriscono una maggiore tossicità indotta dalla chemioterapia nei pazienti con comorbilità, sebbene i dati siano contraddittori. Specifiche comorbilità possono avere un peso notevole sulla prognosi e sull’esito del trattamento (Box e3.10). Vi è anche un apprezzamento crescente del fatto che la comorbilità possa avere un’influenza sostanziale sulla tollerabilità del trattamento. Dati relativi a pazienti con carcinoma mammario trattate con chemioterapia adiuvante a densità di dose hanno identificato un’associazione tra comorbilità e sviluppo di tossicità severa. Inoltre, certe comorbilità possono avere un impatto sulla tollerabilità di specifiche terapie. Per esempio, osservazioni preliminari hanno suggerito un aumentato rischio di neuropatia severa in pazienti diabetici trattati con paclitaxel. Analogamente, il rischio di cardiotossicità indotta dall’anticorpo monoclonale trastuzumab è più elevato in pazienti ipertese. 80 Tab. e3.32. Componenti della VGM ed esempi scelti che indicano le implicazioni di questi domini per il trattamento e la prognosi delle neoplasie. Dominio della VGM Stato funzionale Comorbilità Stato cognitivo Stato psicologico Supporto sociale Polifarmacia Stato nutrizionale Implicazioni per trattamento e prognosi della neoplasia: esempi scelti Disabilità nelle attività strumentali della vita quotidiana sono associate con una diminuita sopravvivenza nel carcinoma polmonare non microcitoma e nella leucemia acuta Un’estensione crescente della comorbilità è stata associata con aumenti paralleli nella mortalità dovuta sia alla neoplasia sia a ogni altra causa in pazienti con carcinoma mammario La presenza di demenza può diminuire la probabilità di ricevere la terapia sistemica adiuvante per neoplasie mammarie e del colon L’angoscia correla con una funzionalità fisica peggiore in pazienti con neoplasie solide Un aumento della mortalità dovuta sia alla neoplasia sia a ogni altra causa è stato osservato in donne anziane con carcinoma mammario che sono socialmente isolate Studi su pazienti oncologici anziani suggeriscono una media di fino a 9 farmaci per paziente, con sforzi limitati per valutare le interazioni farmacologiche con la chemioterapia La perdita di peso prima dell’inizio della chemioterapia è stata connessa a un cattivo esito in molti tipi di neoplasia, compresi il carcinoma del colon e il carcinoma polmonare non microcitoma VGM: valutazione geriatrica multidimensionale. Da: Pal S.K. et al.: Impact of age, sex, and comorbidity on cancer therapy and disease progression. J. Clin. Oncol. 28: 4086-4093, 2010; modificata. Tab. e3.33. Linee guida del NCCN per il trattamento dell’anziano con neoplasia. 1. 2. 3. 4. 5. Tutti i pazienti di età ≥ 65 anni dovrebbero essere sottoposti a una qualche forma di valutazione geriatrica prima dell’inizio del trattamento Per l’impiego di composti eliminati attraverso i reni o che danno origine a metaboliti attivi e tossici escreti attraverso i reni, la dose dovrebbe essere adattata al tasso di filtrazione glomerulare individuale in soggetti di età ≥ 65 anni. L’incremento di dose può cominciare se nessuna evidenza di tossicità è incontrata Pazienti di età ≥ 65 anni che sono sottoposti a chemioterapia moderatamente tossica (intensità di dose simile a quella del regime CHOP) dovrebbero ricevere la profilassi con fattori di crescita della serie bianca I livelli di emoglobina dovrebbero essere mantenuti pari a 12 g/dL o più con fattore di crescita Pazienti di età ≥ 65 anni che presentano mucosite di grado 3 o 4 dovrebbero essere ospedalizzati per essere sottoposti a una terapia reidratante aggressiva NCCN: National Cancer Center Network; CHOP: ciclofosfamide, doxorubicina, vincristina, prednisone. 81 Box e3.10. Diabete e progressione neoplastica Dati della letteratura indicano che i pazienti affetti da carcinoma del colon, che soffrono anche di diabete, presentano un tasso di mortalità più elevato. Il razionale molecolare di tale fenomeno può essere messo in relazione a elevati livelli circolanti di insulina, che accelera la proliferazione di linee cellulari colo-rettali. Fornendo una validazione clinica di questa teoria, uno studio condotto in pazienti operati di carcinoma colo-rettale ha evidenziato che livelli più elevati di peptide C e bassi livelli di Insulin-like Growth Factor Binding Protein-1 (IGFBP-1) sono associati a un’aumentata mortalità. Inoltre, elevati livelli a digiuno di insulina in pazienti con carcinoma mammario sono risultati associati a un rischio aumentato di recidiva a distanza e di morte nella malattia in fase precoce. Queste evidenze hanno portato allo sviluppo di studi clinici che valutano se la modulazione dell’asse dell’insulina sia in grado di influire sugli esiti delle malattie neoplastiche. Uno studio retrospettivo ha identificato un tasso più elevato di risposta completa patologica alla chemioterapia primaria tra le pazienti diabetiche, che assumono metformina, rispetto alle pazienti non diabetiche. Questi risultati hanno portato all’avvio di uno studio americano intergruppo di fase III, che esamina l’effetto della metformina come terapia adiuvante per il carcinoma mammario. Farmacogenetica e farmacogenomica degli agenti antitumorali È noto da tempo che la variabilità tra i pazienti nella risposta ai farmaci si associa a uno spettro di esiti che spaziano dall’assenza dell’effetto terapeutico atteso a una reazione avversa, la quale causa una significativa morbilità e mortalità per i pazienti. Il termine “farmacogenetica” indica lo studio dei fattori genetici che influenzano la risposta ai farmaci e alle sostanze chimiche ed è stato introdotto per la prima volta nel 1959. I recenti progressi nel sequenziamento su grande scala del DNA e i miglioramenti delle tecnologie bioinformatiche hanno portato alla transizione dalla farmacogenetica alla farmacogenomica. Lo scopo di queste discipline emergenti è quello di personalizzare la terapia sulla base del genotipo individuale. L’informazione genetica è stata utilizzata nell’identificazione del rischio di malattia (per es. valutazione della mutazione del gene BRCA1 per stimare il rischio di carcinoma mammario), nella scelta del trattamento (per es. varianti alleliche del gene CYP2D6 nel trattamento del carcinoma mammario con tamoxifene) e nel guidare il dosaggio dei farmaci (per es. polimorfismo del gene UGT1A1 e tossicità dell’irinotecano). Questo è particolarmente importante nel caso degli agenti chemioterapici, che possono colpire sia le cellule tumorali sia quelle normali e, pertanto, hanno il potenziale di indurre una tossicità letale. Oncologi medici ed ematologi stanno dedicando grandi sforzi all’individualizzazione del trattamento antitumorale nel tentativo di massimizzare l’efficacia e di minimizzare la tossicità per il paziente. L’identificazione di varianti genetiche dell’ospite che contribuiscano all’efficacia e/o al rischio di tossicità di un farmaco può fornire un mezzo con il quale individualizzare la terapia. Una variante genetica potrebbe spiegare mutamenti che riguardano la farmacocinetica nonché le alterazioni dell’attività oppure dell’espressione del bersaglio terapeutico o di proteine coinvolte nel meccanismo di azione del farmaco (Box e3.11). Gli studi di farmacogenetica e farmacogenomica degli agenti antitumorali sono potenzialmente complicati dalle mutazioni somatiche presenti nella neoplasia, ma è improbabile che esse incidano sulla tossicità. 82 Box e3.11. Farmacogenetica delle fluoropirimidine Le fluoropirimidine sono antimetaboliti che inibiscono l’enzima timidilato sintetasi (TS) e la sintesi del DNA. Il 5-fluorouracile (5-FU) e i suoi profarmaci, capecitabina e tegafur, sono tra i chemioterapici di impiego più comune nel trattamento di neoplasie solide (per es. il carcinoma colo-rettale). La diidropirimidina deidrogenasi (DPD) è l’enzima responsabile di oltre l’85% del catabolismo e dell’eliminazione del 5-FU. Un deficit di DPD è stato riscontrato in una piccola minoranza di pazienti che sviluppano tossicità severa, con diarrea, mucosite/stomatite e neutropenia di grado elevato. È stata anche esaminata la rilevanza del test di routine del deficit di DPD in pazienti candidati a trattamento con 5-FU. Sebbene il deficit di DPD fornisca la prova del principio per l’analisi farmacogenetica, la traslazione nella pratica clinica non si è verificata a causa dei seguenti fattori: (1) sebbene gli alleli DPYDË2A e DPYDË13 siano associati a diminuita attività della DPD e ad aumentata tossicità da 5-FU, questi alleli sono rari; (2) il valore predittivo positivo del genotipo DPYDË2A per lo sviluppo di tossicità di grado severo è stato solo del 46%; (3) una ridotta attività della DPD è stata rilevata in alcuni pazienti con livelli normali del gene DPYP wild-type, suggerendo che variazioni genetiche o epigenetiche aggiuntive siano responsabili di questa variazione dell’attività enzimatica. Un tale gruppo di geni include una variante della TS, che è stata associata a espressione differenziale della TS e a ricaduta della neoplasia. Altri polimorfismi che possono esercitare effetti differenziali sull’esito del trattamento sono stati trovati nel gene MTHFR, poiché l’enzima metilenetetraidrofolato reduttasi interagisce con la TS. Principi di selezione dei farmaci La polichemioterapia è ora il trattamento standard per molte neoplasie disseminate o metastatiche ed è curativa per alcune di esse. Sfortunatamente, la maggior parte di queste ultime è rappresentata da rare neoplasie ematologiche o pediatriche, mentre le neoplasie più comuni dell’adulto, una volta che hanno metastatizzato, sono raramente curabili. Con il termine chemioendocrinoterapia si intende l’utilizzo di agenti citotossici e di agenti endocrini, come nel caso dell’inclusione del prednisone nel regime di combinazione MOPP (mecloretamina, vincristina, procarbazina, prednisone). Nel carcinoma mammario, la somministrazione sequenziale dell’agente endocrino tamoxifene, dopo chemioterapia contenente ciclofosfamide e doxorubicina, è un altro esempio di chemioendocrinoterapia. Modificatori della risposta biologica, come l’IFN e l’IL-2, sono utilizzati singolarmente oppure in associazione alla chemioterapia. Per quanto attiene alla via di somministrazione, la maggior parte degli agenti chemioterapici è somministrata per via endovenosa, eliminando eventuali problemi di compliance al trattamento e di assorbimento. Molti degli agenti endocrini e alcuni agenti chemioterapici, come il melfalan, il clorambucile, il busulfano, la 6-mercaptopurina e la 6-tioguanina, sono somministrati per via orale. Di recente, l’etoposide orale e la capecitabina, un profarmaco orale del fluorouracile, si sono aggiunti al catalogo degli agenti citotossici attivi per os. La somministrazione del metotrexato può avvenire per via orale, endovenosa, intramuscolare o intratecale. IFN e IL-2 sono di solito somministrati sottocute. Alcuni agenti chemioterapici possono essere instillati in cavità corporee per il trattamento di versamenti neoplastici, come nel caso della bleomicina per il trattamento di versamenti pleurici. La somministrazione in infusione continua offre un vantaggio potenziale nel caso di farmaci ciclo-specifici, come gli antimetaboliti, per i quali un’esposizione prolungata potrebbe aumentare il numero di cellule tumorali uccise. Occorre considerare anche la disponibilità di un accesso venoso, in quanto, se esso non può essere stabilito, la terapia endovena potrebbe non essere fattibile. Fortunatamente, lo sviluppo di dispositivi di accesso venoso impiantabili sottocute, di cateteri esterni multi-lume e di cateteri inseriti a livello periferico ha permesso l’impiego della chemioterapia in molte condizioni nelle quali prima non era possibile. I 83 programmi di trattamento farmacologico, compreso il dosaggio, dovrebbero essere tratti dalla letteratura scientifica e modificati secondo la funzionalità d’organo del paziente. Le dosi dei farmaci sono modificate di routine a seguito di diminuzioni del numero di cellule ematiche circolanti e di mutamenti nella funzionalità epatica e renale. Il verificarsi di certi tipi di tossicità, come la neurotossicità da alcaloidi della vinca oppure la mucosite da metotrexato, è utilizzata anche come un’indicazione alla riduzione di dose o alla sospensione del farmaco. Follow-up dei pazienti La terapia adiuvante è di solito somministrata per un numero definito di cicli, come, per esempio, sei cicli di chemioterapia dopo una mastectomia radicale modificata o una quadrantectomia per carcinoma mammario in stadio I o II. In altre situazioni, come la malattia metastatica, è prassi comune rivalutare il paziente dopo 2-3 cicli di terapia per determinarne l’efficacia. Se la terapia ha inequivocabilmente prodotto una risposta obiettiva ed è tollerata dal paziente, di solito viene continuata per un numero definito di cicli oppure per ulteriori due cicli dopo una risposta completa (allo scopo di eliminare qualunque residuo tumorale microscopico). Se invece la neoplasia è progredita, la terapia viene interrotta ed è intrapresa una rivalutazione dell’estensione di malattia. La stabilità di malattia in corso di terapia rappresenta la situazione clinica più difficile: se il paziente può tollerare la terapia in termini di effetti collaterali, una decisione condivisa di proseguire il trattamento è ragionevole, con la consapevolezza che, alla fine, si verificherà la progressione. Aspetti generali del trattamento multidisciplinare Attualmente, la maggior parte delle neoplasie solide, anche quelle in fase molto precoce, è trattata mediante più di una modalità terapeutica, allo scopo di aumentare la possibilità di cura o la qualità di vita. L’approccio multidisciplinare richiede l’apporto e il coordinamento di più figure specialistiche. A complicare ulteriormente il quadro, occorre tenere presente che spesso esiste più di un’opzione terapeutica. Questa situazione richiede che i diversi specialisti coinvolti siano d’accordo sul regime di trattamento da adottare. Sebbene i progressi nella terapia multimodale abbiano mutato il ruolo del chirurgo nella diagnosi e nel trattamento delle neoplasie, egli continua a essere il referente principale per la maggior parte dei pazienti oncologici e, frequentemente, si trova a coordinare il trattamento assieme ad altri specialisti, compresi il radioterapista e l’oncologo medico. Alla stregua del chirurgo, il radioterapista fornisce una modalità importante di trattamento oncologico locoregionale. La radioterapia è spesso utilizzata dopo la chirurgia per migliorare i tassi di controllo locale di malattia o anche prima della chirurgia per ridurre la massa tumorale o lo stadio della neoplasia. Inoltre, è una condizione sempre più comune che la radioterapia sia associata alla somministrazione simultanea di agenti chemioterapici a scopo radiosensibilizzante. I compiti dell’oncologo medico comprendono la somministrazione e il monitoraggio della chemioterapia, dell’endocrinoterapia e, in alcuni casi, della terapia biologica. Inoltre, l’oncologo medico è chiamato a gestire gli effetti collaterali causati dalle terapie sistemiche antitumorali e, di conseguenza, fornisce un considerevole apporto in termini di terapia di supporto, soprattutto in quanto nuovi farmaci sono stati sviluppati per migliorare il controllo dell’emesi e della fatigue. È importante, nonché vantaggioso, per il paziente che i diversi specialisti lavorino in maniera coordinata e collaborativa per il conseguimento del risultato terapeutico ottimale. Dati della letteratura dimostrano che l’approccio multidisciplinare nel trattamento delle neoplasie determina un aumento della sopravvivenza. Il chirurgo oncologo non è soltanto coinvolto, assieme al radioterapista e all’oncologo medico, nello sviluppo del piano di trattamento, ma è anche responsabile del riconoscimento della necessità di ricorrere all’apporto di specialisti oncologi in altre branche chirurgiche (chirurgia toracica, urologica, plastica, della testa-collo, ginecologica e ortopedica) o dell’appropriatezza nell’indirizzare il paziente a uno studio clinico. Infatti, la partecipazione a studi clinici si è dimostrata di enorme beneficio per i pazienti. Sebbene gli studi clinici possano mancare di una componente chirurgica, il chirurgo oncologo può aiutare a perseguire tale beneficio, affiancando gli studi e arruolandovi i pazienti eleggibili. 84 Letture consigliate Abeloff M.D., Armitage J.O., Niederhuber J.E. et al. Abeloff’s clinical oncology, 4th ed, Vol.1. Churchill Livingstone, Philadelphia, 2008. Band P.R. The birth of the subspecialty of the medical oncology and examples of its early scientific foundations. J. Clin. Oncol. 28:3653-3658, 2010. Benson J.R., Liau S.S. Cancer genetics: a primer for surgeons. Surg Clin N Am; 88: 681-704, 2008. Bode A.M., Dong Z. Cancer prevention research – then and now. Nature. Rev. Cancer.; 9: 508-516, 2009. Campoli M., Ferris R., Ferrone S., Wang X. Immunotherapy of malignant disease with tumor antigen-specific monoclonal antibodies. Clin. Cancer. Res. 16: 11-20, 2010. Chiang A.C., Massaguè J. Molecular basis of metastasis. N. Engl. J. Med. 359: 2814-2823, 2008. Chung A.S., Lee J., Ferrara N. 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