leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri

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tascabili narrativa
Giacomo Mameli
Il forno
e la sirena
CUEC EDITRICE
Tascabili Narrativa /1
il forno e la sirena
isbn: 978-88-8467-843-0
© CUEC Editrice 2013
prima edizione: novembre 2013
seconda edizione: gennaio 2014
CUEC Editrice
by Sardegna Novamedia Soc. Coop.
Via Basilicata 57/59
09127 Cagliari
Tel. 070288669 - Fax 070271573
www.cuec.eu
[email protected]
Realizzazione grafica: A. De Cicco | Hangar Factory, Cagliari
Stampa: Grafiche Ghiani srl - Industria grafica (Monastir, Cagliari)
Prefazione
Il libro “La ghianda è una ciliegia” nasce
in un pomeriggio d’estate a Perdasdefogu,
nell’agosto del 2002.
Nasce in una piazza dove la voce dei vecchi ha sempre la voce della storia, quella dei
bambini l’eco della cronaca. I vecchi raccontano, i verbi sempre al tempo passato, i bambini giocano, i verbi al tempo presente o al
futuro. Io, che bambino non sono, stavo giocando con un gruppo di ragazzini proprio
in quella piazza, piazza di chiesa la chiamiamo. Vado a raccogliere il pallone finito a
bordo piazza ed entro nella Storia, in quella
tragica del Novecento, la Storia dell’Olocausto, del filo spinato, delle stragi, degli innocenti mandati al patibolo nazista. La Storia
dell’Europa guidata da un folle, dell’Italia
che diceva solo sì, non sapeva pronunciare il
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no. Mentre raccolgo il pallone, sento la frase,
in sardo, “seu biu po dus chilus”, “sono vivo
per due chili”. L’aveva pronunciata zio Vittorio Palmas, noto Cazzài, che raccontava la
sua seconda guerra mondiale ai propri coetanei che rievocavano a loro volta la guerra vissuta lontano dal paese o i loro giorni
di fame e miseria nelle case dov’erano nati.
Quella sera, come sempre, gli anziani erano
tornati all’imbrunire alle loro case. Io vado
a trovare zio Vittorio nella sua casa di S’Antonalài. Era in cucina con la moglie, zia Giuseppina Carta. Stavano iniziando a cenare:
pomodori e fagiolini dell’orto. Mi dicono di
restare. Resto. E domando il senso di quella
frase dei “due chili” sentita qualche ora prima. E lui: “Figlio mio. Per spiegartela bene
dovresti restare tanti giorni ad ascoltarmi”.
L’ho ascoltato per tanti giorni. Conoscendo un uomo eccezionale, tanto umile quanto valoroso, balente vero. Mi ha raccontato
quanto ho scritto nell’ultimo capitolo de “La
ghianda”. E mi ha fatto scattare l’iniziativa
di sentire gli altri reduci e gli altri prigionie6
ri. “Così sentirai tanti racconti di prigionieri
di guerra, contus de presoneris”. E così – in
due anni – raccolgo le testimonianze di Vittorio Palmas de Cachedda, Peppino Carta
Coa Allutta, Pietro Lai Strìa, Mario Casu de
Battista, Mario Demontis de Cancius, Bonino Lai che mi rievoca la prematura morte a
Cagliari della sorella Italina, Pierino Monni
bidello e bracconiere, Vittorio Tegas bracconiere e bidello. E zio Vittorio. Tutti prigionieri di guerra. Decorati. Testimoni della
storia. Mi mancavano però storie di donne.
Ne intervisto alcune e nascono con loro i capitoli Le donne del rosmarino, La confinata di Corleto, Stella Bianca. Con quelle donne, negli anni Trenta del secolo scorso, nasce
l’emancipazione femminile a Perdasdefogu.
Donne coraggio. Donne belle e coraggiose
anche loro. Ragazze sfruttate, talvolta. Ma
piene di orgoglio.
Ho preso appunti nei miei quaderni.
Quando finivo di scrivere un racconto andavo a rileggerlo ai testimoni che mi correggevano come professori scrupolosi, fedeli alla
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storia, poco interessati alla forma. La frase
più frequente era questa: “Io non ti ho detto
così ma così. Se scrivi che parlo io devi scrivere come parlo io non come parli tu che sei
studiato”.
Ho ubbidito. E ho scritto come loro hanno voluto. Parola per parola. Sotto dettatura,
loro erano i miei maestri, io il loro alunno.
Prima di andare dall’editore ho riletto i capitoli, riga per riga, ai protagonisti. Così, con
il visto si stampi degli ex prigionieri, nasce
il libro che – ha scritto il preside di Scienze
della Comunicazione della Sapienza Mario
Morcellini – ha dato voce ai senza voce, ai
semplici, non solo ai potenti che hanno sempre avuto megafoni a disposizione.
Il volumetto che avete adesso fra le mani
nasce da una idea dell’editore della Cuec Mario Argiolas. A metà settembre gli dico che il
16 dicembre di quest’anno zio Vittorio, il mio
mentore, il mio ispiratore, avrebbe compiuto
cento anni. E gli annuncio che, d’accordo col
Comune di Perdasdefogu, avremmo organizzato una serata per “celebrare” zio Vittorio.
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Argiolas non ha una sola esitazione e d’acchitto propone: “Allora stampiano un libretto con
il solo capitolo Il forno di Cazzài”. Detto fatto. Solo che gli propongo un aggiornamento:
io rileggo il capitolo “Il forno” a zio Vittorio e
aggiungo tutte quelle cose che lui, man mano
che leggo, mi vorrà aggiungere, aggiornare.
Sarà un racconto riveduto dopo undici anni di
altri amarcord.
Eccolo qui il regalo a zio Vittorio, a tutta
la sua famiglia, al mio paese che si conferma uno scrigno di esemplari storie umane
con protagonisti autentici monumenti della Storia. C’è il racconto di zio Vittorio fatto
nell’estate del 2002 e il racconto aggiornato
e rivisto al 15 novembre di quest’anno. E c’è
il racconto di un altro storico, zio Antonio
Brundu, che la sua guerra l’ha combattuta
soprattutto in Sardegna assistendo alla distruzione, all’apocalisse di Cagliari, all’apocalisse di Monserrato perché “in cielo non
c’erano uccelli ma solo aerei che bombardavano e uccidevano”. E ricorda i bombardamenti anche nelle campage di Perdasdefogu
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con gli spezzoni di aerei americani che avevano ammazzato mucche e buoi vedendo
fornaci di calce con lingue alte di fuoco.
Alcuni non possono aggiornare i loro
racconti. Non ci sono più zio Vittorio Cachedda, Peppinu de Coa Allutta, Pierino
Monni e Vittorio Tegas, non c’è più Mario
Demontis che faceva il capraro e il mitragliere. Non ci sono zia Luigina Murgia né
Stella Bianca. Sono tutti loro – con Antonio
Lai Scòttula, con Mario Casu, con Vittorio
Lai Patata – che hanno contribuito a scrivere questa epopea.
Resta un tormento interiore: non aver raccolto le testimonianze dei reduci della prima guerra mondiale. È stato un mio grave
errore. Non ho reso onore a tanti foghesini
che avevano vissuto l’inferno del Carso, delle Dolomiti, del Piave. Tanti foghesini, come
tanti altri sardi, avevano trascorso più di un
anno sugli altipiani al di là del Po col capitano di Armungia Emilio Lussu cavaliere dei
Rossomori. Resta una lezione per i giovani:
non cancellare la memoria storica, non can10
cellare alcune delle vicende sociali della comunità dove si vive. E Perdasdefogu – paese
e mondo insieme – è un libro aperto sulla
grande e sulla piccola Storia. Dobbiamo imparare a leggerlo.
Crannigosa, 15 novembre 2013
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Il forno e la sirena
Vittorio Palmas Cazzài, primo a destra,
con i commilitoni, a Vicenza nel 1935
Il forno
Vittorio Palmas Cazzài racconta
Foglio di matricola 37053, mi chiamano
alle armi il 2 aprile 1935, sono in forza al
57.mo Reggimento di stanza a Vicenza. Mi
visitano e mi giudicano “rivedibile per debolezza di costituzione”. E dire che pesavo
62 chili e che fino ad allora lavoravo come
un mulo nei terreni di casa, trebbiavo il grano e vendemmiavo la vigna, zappavo l’orto
e facevo muretti a secco, anche se il posto
preferito era “Su cungiau”, cioè il recinto, il
chiuso, dove dormivano al sicuro i buoi e le
capre e lì brucavano dall’alba al tramonto. I
buoi sono sempre lì, uno manto nero, l’altro
color miele. Sempre lì, adesso che sono passati gli anni Duemila, nel recinto chiuso da
quei muretti a secco che hanno preso il colore del tempo. Quando vado al recinto i miei
buoi se ne accorgono. E quando sbuco dal15
la curva di Celestrino muggiscono. Mi salutano con i loro muggiti che risuonano tra i
muri delle case di pietra. E io dico: sto arrivando, sto arrivando, vi do la biada, è pronta
nei secchi.
Arrivo a Vicenza con la carta d’identità
di Palmas Vittorio figlio di Antonio e di Lai
Maria. La carta diceva:
Viso: sporgente
Naso: greco
Mento: ovale
Dentatura: sana
Statura: 1,66
Sa leggere: no
Sa scrivere: no
Titolo di studio: analfabeta
E a me, bollato “rivedibile per debolezza
di costituzione”, mi rispediscono a Foghesu e torno alla vita di sempre, scuola niente, orto per le patate, bosco per la legna, alla
fontana per l’acqua, dietro qualche bara da
portare al camposanto, al pascolo con le ca16
pre che mio padre Antonio amava moltissimo. “Perché la capra – mi diceva – è l’animale più bello della nostra campagna, mica
è sporco come la pecora, quando salta sulle rocce è un incanto, e quando due caprette si incornano per gioco io godo con loro.
A babbo gli piaceva una capra bianca con
un pizzetto bruno, la chiama Stella Fiorita”.
Piacevano anche a me le capre e poi erano
loro che ogni mattina mi davano la colazione con il loro buon latte. E col latte ci facevo
anche la panna. E se il paese era fatto di vivi
e non di morti era anche merito delle capre
che – come potevano – lo sfamavano.
Mi tornano a chiamare alle armi dopo un
anno dalla prima visita, ed era il 15 aprile del
1936, l’anno della rivolta araba in Palestina. E questa volta mi spediscono a Treviso,
55.mo Reggimento. Il mio fisico era identico
a un anno prima. Ma questa volta ero necessario alla patria. Prima ero debole, adesso era diventato forte, capace di fare la guerra. A Treviso ci ero arrivato come un anno
prima a Vicenza, lo stesso viaggio a piedi da
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